L'ebbrezza degli dei

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L’EBBREZZA DEGLI DEI Laurent Martin Traduzione di Ondina Granato

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Laurent Martin ci offre un poliziesco che non lascia alcuna speranza di redenzione. Costruito come una tragedia greca con coro, corifeo e un eroe perseguitato dalla sfortuna, il libro termina nel completo disincanto. Se avete intenti suicidi, lasciatelo perdere. Altrimenti, questo affascinante poliziesco non vi abbandonerà mai più. J.-P. Gat, Le Matin

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L’EBBREZZA DEGLI DEI

Laurent Martin

Traduzione di Ondina Granato

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Laurent Martin, L’ebbrezza degli dei Titolo originale: L’ivresse des dieux Copyright © Editions Gallimard, Paris, 2002 Copyright © Del Vecchio Editore, 2008 Grafica e impaginazione: Dario Lucarini Redazione: Paola Del Zoppo, Corrado Felici, Raoul Romano www.delvecchioeditore.it ISBN 978-88-6110-001-5

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IL CORO Si solleva con un gesto lento. I genitali al vento. Le mani ancora tremanti. Contempla il corpo senza

vita davanti a lui. Come un’offesa ai suoi occhi. Il suo sbuffare animale comincia a placarsi. Si meraviglia. Come corre la morte. Come una voce che da ordini. Dopo arrivano i dubbi. Ci si interroga. Ci si smonta. La vita è una malattia venerea. La si prende per caso. Con chiunque. Si resta al suo fianco. La si trasmette. La si subisce. E un giorno ne muori. Ecco! Di vita, si muore. Potrebbe giurarlo. Tutti potrebbero creparci, di vita. Per lui è diverso. Lui non è malato. Lo sa bene.

Parla a voce alta. Urla, più che altro. Contro se stesso, contro di lei, contro la città e il mondo intero. Una reazione che non si aspettava. Si riprende. Le parole tornano. Meno confuse. La sua voce bassa. Si agita ancora. Soprattutto le braccia. Sputa. Ringhia. Fa smorfie. Un momento di smarrimento. Se viene preso, dirà così. Ma non verrà mai preso perché non avrà mai il perdono degli uomini.

Grandi gocce di sudore gli imperlano la fronte, gocciolano sul collo, gli gelano la schiena. Che fare? Si asciuga il membro con un fazzoletto di pizzo. Doveva passarci da là! Si aggiusta i pantaloni. È disgustato da se stesso. Per un istante è invaso dalla nausea. Spasmi dolorosi gli torcono il basso ventre. Un attimo senza controllo. Poi torna padrone delle sue viscere. Inizia a girare a scatti su se stesso. Come in gabbia. Gettando ogni tanto delle occhiate prive di espressione sulla giacente. Ma non deve pensarci più. Un brutto incontro. La sfiora con lo sguardo. Saluta la morte con semplicità.

I suoi pensieri partono al galoppo causandogli una forte emicrania. Tutto diventa buio. Non sbagliarsi. Non dimenticare niente. Incomincia cancellando le impronte che può aver lasciato. Ma poi dove si trova? Usa uno strofinaccio preso in cucina. Da lei? Si ferma. Perfetto! La polizia non lo conosce. Una bella casa. Non troveranno mai il suo nome. Arredata con cura. Il locale notturno. Quale? La memoria che cede. C’era gente. Una nebbia dolciastra, fumosa. È colpa sua. Lui non ci va mai. Guarda. Nessuno potrà riconoscerlo. Si è mossa. Allora basta preoccuparsi. La guarda ancora. Può andarsene. I suoi grandi occhi sono aperti. Gli sbatte in faccia un sorriso da arcangelo vendicatore.

Il suo corpo riprende a tremare. Uno a uno, i suoi gesti diventano disordinati. Si mette a cercare. Qualsiasi cosa. Afferra una scopa. La spezza in due. Prende solo il manico. Le si avvicina. E, con un gesto secco, la colpisce. Prima il corpo. Poi il viso. I colpi piovono. Sempre più velocemente. Sempre più forte. Lei non deve guardarlo. Colpisce la testa. Sfonda il naso. Il sangue si sparge, si spande. La testa si agita sotto i colpi. Sembra ancora viva. Lui colpisce come un automa. Senza fine. Fino allo sfinimento, fino alla prostrazione. Poi si ferma. Lancia un lungo, lungo grido di fatica, di collera. Lascia l’arma. Non c’è più niente da fare né da vedere. Lei non lo guarda più. Indietreggia. Gli occhi levati al cielo. Sbatte contro un mobile.

Abbandona tutto. Chiude la porta in silenzio. Per non disturbare. Che ora è? Le due e mezza. La notte cupa.

Si allontana. Gira a destra. Deve raggiungere la sua auto. Barcolla. Vacilla. Non cade. Ha urtato qualcosa nell’oscurità.

Una voce che arriva dal marciapiede e che urla. – Ah! Accidenti a te! Guarda, la paura nelle viscere, le braccia pesanti. Ha calpestato un tizio. Un vagabondo che sta là.

Sdraiato per terra. Di traverso. Dice, tremando. – Scusi! Il barbone riprende a urlare. – Non è possibile! Lo vede giusto il tempo di un raggio di luna. Un pezzente barbuto che stringe un sudicio sacco di tela. Ripete, allontanandosi. – Scusi! Scusi!

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IL CORIFEO Prima vediamo la morte, questo scarto del futuro. Una sporca storia che comincia dalla fine. Dal

grande salto. Dal nulla. Dal ritorno alla polvere. In seguito ci sarà un uomo. Un uomo buttato alla cieca nella vita che si è costruito. Spazzato via,

sballottato, malmenato, resiste, ma tutto probabilmente si gioca in anticipo. Un uomo che crede che gli dei abbiano sete del sangue delle vittime.

Allora comprenderemo il mondo, il mondo per quello che è. Tanfo infernale. Amalgama confuso, conservato sottovuoto, di vite tristi e meschine.

Io mischio. Mischio. Mischio. La grande miscela primitiva delle passioni. Ora bisogna frugare nella spazzatura della vita. Che mestiere di merda! E questa gente, queste persone, che si incontrano continuamente. Che si aggrovigliano senza vedersi! Non va bene! Seguite le istruzioni! Una dopo l’altra! Una dietro l’altra! Nell’ordine, se no è il caos!

L’EROE Clac! Con un colpo ben assestato, distruggo la mia sveglia. Rabbia! Tempesta! Ha suonato nel

momento peggiore. Tento invano di riafferrare il mio sogno. Fulmine! Desolazione! Apro un occhio. Rifletto un istante. Mi alzo. Urlo in silenzio. Contro niente. Contro tutto. Contro questa società, questa sporcizia che mi gonfia la mente. Vado direttamente in cucina. Il cane Médor, un bastardino, si lancia al mio seguito, con la coda inquieta e la bocca spalancata. Apro il frigo. Prendo una birra. La bevo tutta di un fiato. Mi si placa la sete. Le mie piccole convulsioni del mattino si calmano. Accarezzo il cane Médor. Gli do da mangiare. Cerco il caffè. Sono certo di averlo visto da qualche parte. Ma dove? Ma quando? Faccio il punto. Scuoto la testa. I neuroni si mettono in movimento. Osservo. Mi innervosisco. Dentro di me c’è la stessa confusione dell’appartamento.

Interviene il cane Médor. – Uof! Ha sentito un rumore sospetto. Non reagisco. Sistemo i miei ricordi. Una specie di luce appare nella

sorda oscurità della mia scatola cranica. Il caffè è finito ieri. Mi sono dimenticato di riprenderlo. Una gestione superficiale del mio quotidiano.

Mi insulto a voce alta. – Max, sei un coglione! Per ovviare a questo inconveniente, prendo una seconda birra dal frigo. Ne bevo avidamente il

contenuto. Rutto, rutto seriamente. Attraverso tutto l’appartamento per fare una doccia. È gelida. Lo scaldabagno è in sciopero. È uno di quei giorni in cui tutto va male.

IL CORIFEO Cosa dire, senza essere cattivi, della vita di Max Ripolini? Niente! L’appartamento che occupa è

spazioso. Anche troppo spazioso. Quattro ampie stanze. Il vuoto l’abita stabilmente. Max e il cane Médor non fanno che passarci e dormire. Un acquisto fatto con l’ex moglie, andata via una sera di novembre dopo aver trovato Max in stato semi-comatoso dopo la grande festa per l'arrivo del Beaujolais novello. Max beve. Si ubriaca, si distrugge, annega tutte le sere in un mare di etanolo alcolico. Un omaggio eterno, perpetuo, a Dioniso. Per contratto, lui non potrebbe essere diverso. Tuttavia c’era dell’amore. Avevano anche pensato di avere un bambino. Non è successo. Alla fine si sono accontentati del cane Médor. E dopo hanno divorziato. Fin qui, tutto regolare.

L’EROE Termino la doccia. Brividi! Sono gelato. Indosso un vestito stropicciato. Metto il guinzaglio al cane

Médor. Esco per far pisciare la bestia. Il cane Médor conosce bene il percorso. Tre minuti sul marciapiede

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per sentire i nuovi odori, quattro minuti sull’erba per cagare, trenta minuti al bar per riposarsi. Il cane Médor non ama il bar. Dall’alto delle sue zampe non vede che scarpe e mozziconi di sigarette puzzolenti. Anche il fumo gli dà fastidio. Ma sa fare degli sforzi per il suo buon padrone. Lui sa che non posso fare a meno del mio bar, del mio piccolo rum, della lettura del “Parisien”. Bevo. Leggo. Solo raramente ascolto la prosa carica di vino bianco degli altri clienti.

Torniamo a casa. Il cane Médor va a farsi una piccola siesta. Molto felice. Ho ancora due ore da perdere prima di prendere servizio. Giro su me stesso senza scopo, meditando sulla vacuità della mia esistenza, osservando i muri decorati da un nulla fastidioso, ascoltando il Faust di Gounod. La versione capitolina di Plasson.

J’ai langui triste et solitaire,

sans pouvoir briser le lien, qui m’attache encore à la terre!

Je ne vois rien! je ne sais rien! Amo il triste destino del Dottor Faust, malato di vita, malato di morte. Lentamente, mi immedesimo.

Dopo La notte di Valpurga spengo la musica. Esco. Mi dirigo verso il droghiere all’angolo. Un serio bisogno di caffè, di birra, di cibo per il cane. – Buongiorno, Chang! Chang è il droghiere. – Buongiorno, monsieur Ripolini. Non ho mai capito se Chang sia cinese, vietnamita o cosa. Non è un chiacchierone, Chang. Sorride,

felice della sua sorte. Deve avere tra i cinquanta e i duecento anni. Porta sempre degli enormi occhiali che gli divorano il viso e un camice blu. L’ho visto sempre e solo in questo negozio. Un garage riadattato che non deve essere proprio a norma di legge. Qualche volta c’è Liu, una parente, che ha l’aria sempre triste. È più caro che da altre parti ma anche molto più esotico, con tutte queste anatre laccate che penzolano copiosamente, questi sacchi di riso disposti in pile compatte, queste casse di prodotti d’importazione. Per quanto riguarda l’igiene, è meglio non pensarci.

Mi servo. Pago. Chang, quasi piegato, mi saluta. – Arrivederci, monsieur Ripolini! Ancora una cucchiaiata di questa gentilezza orientale, siamo al limite dell’indigestione. Torno a casa. IL CORO Si lava, per la terza volta, le mani, le mani sporche. Si sente sempre ripugnante. Si fa schifo. Il suo

corpo s’è lamentato tutta la notte, il suo corpo s’è ribellato. Ma non è riuscito a vomitare, a liberarsi del male che lo abita. Respira affannosamente. Han! Han! Ha sempre questo odore che persiste. Indefinibile, umido. E questa icona impressa negli occhi con l’acido. Le braccia ripiegate, le gambe spalancate, la testa, il corpo, di traverso. E questo viso che osserva, che giudica, che condanna. Cosa fare per dimenticare? Il vuoto?

Non resiste. Esce. Un’ossessione funesta di immagini tetre, di cattivi pensieri. Lancia un grido, un piccolo grido. Sa che non bisogna mai tornarci. Ma vuole vedere. Una forza superiore lo guida, lo trascina. Prende l’auto.

La città è triste. Le vie sono deserte. Un’occhiata, alcune occhiate, passando. Poliziotti entrano ed escono dal palazzo. L’hanno scoperta in fretta. Scoperta in fretta. Torna a casa. Questa sera andrà a messa. Per lavarsi lo spirito. Per pulirsi l’anima. Ma niente per le mani, le mani sporche.

L’EROE Metto a posto. Riordino. Sotto gli occhi increduli del cane Médor che si è appena svegliato. Sghignazza come un idiota. Lo sgrido con voce decisa. – Cos’hai? Forse non avevi notato il caos che c’era in questo posto!

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Il cane Médor ridacchia tra sé e sé, si riaddormenta, dorme. Mezzogiorno meno dieci. Usciamo. Ci aspetta l’auto. Una DS 21 a iniezione elettronica. Blu metallizzato, interni in cuoio,

immatricolata nel ’73. In grande stile neopompidolien. Vale duecentododicimila franchi. Qualche pezzo nuovo. A parte questo, è perfetta.

IL CORIFEO Max Ripolini dorme, mangia, scopa, lavora e qualche volta sogna a Marne-la-Vallée. Una cittadina

moderna senza carattere, senza volontà, dove rimbomba con forza la noia, il silenzio, dei suoi abitanti. Marne-la-Vallée! Una specie di città di campagna. Una meraviglia di cemento, di ferro, di vetro, di

terra, sorta qui e là, secondo un’occupazione dubbia del territorio. La pianificazione in tutto il suo splendore. Degli urbanisti urbani, dei pensatori pensosi hanno cagato dello sterco di cemento. Le mosche sono venute a degustare: false villette, vere case popolari, spazi verdegrigio, case di non-cultura. Un “nonluogo” riempito di vuoto e di alberi rachitici. Uno spazio abbandonato, arido, sterile. Vent’anni fa Marne-la-Vallée era nuova. Una sorta d’utopia. Sono venuti degli architetti da Parigi, più o meno celebri, più o meno talentuosi. Hanno partorito due, tre, quattro orrori e poi sono tornati a infestare i salotti frivoli della capitale. E l’utopia è morta.

Quando ci si arriva, quando ci si sistema, è troppo tardi per rendersene conto. Peccato! Ma non è grave perché non si può mai approfittare di questo nulla. Di giorno si lavora troppo lontano, di sera non si esce. Con tutti questi giovani che incendiano i cassonetti, distruggono le pensiline, ricattano i vicini, sniffano colla, si uccidono nei parcheggi e che, spesso, truffano, trafficano, traviano, si trascinano, braccano, maltrattano, si ha sempre un po’ paura. Ma non c’è ragione. Con i suoi lampioni rotti che proiettano luci biancastre, Marne-la-Vallée è meno brutta di notte che di giorno.

Max Ripolini, logorato da trentasei anni di esistenza desolante, fa il poliziotto municipale a Marne-la-Vallée. Da sette anni. È arrivato da un’altra periferia apposta per entrare in servizio. Avevano bisogno di agenti esperti. Lui aveva già lavorato. Ben presto è diventato il vice del capo Joncart. Al pomeriggio ha la responsabilità dell’ufficio.

Vai dunque a guadagnarti il pane in questo schifo di città! L’EROE Entro. – Ciao! – Ciao Ripo! È Grégoire a rispondermi. Grégoire è solo. Chiedo. – Joncart non c’è? – No, è in comune. Deve sistemare delle questioni di sicurezza per il carnevale. – È vero, è il carnevale cittadino. Si potrà far festa! Grégoire, gli occhi scuri, tempesta. – Più che altro verremo requisiti. Sono stufo. – Hai ragione! E poi carnevale a giugno, non è normale! Grégoire annuisce. Silenzio. È un momento vuoto. La squadra del mattino è in mensa. Quella della sera non è ancora arrivata.

Metto il cane Médor sul suo cuscino. Prendo posto dietro il telefono. Grégoire consulta l’orologio. Aspetto.

IL CORIFEO Poliziotto municipale, non è un brutto mestiere. Puoi fare una certa impressione sulla gente, grazie alla

tua bella uniforme blu, blu brillante, senza avere tutti i problemi di un vero sbirro. Rimpiangi comunque

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che i teppistelli non abbiano paura, che i cittadini non abbiano fiducia, che i ragazzini ridacchino quando ti incrociano per strada. La crudeltà del mondo.

Il comune, nella sua grande, grande generosità, ha affidato alle guardie municipali di Marne-la-Vallée un minuscolo locale nel mezzo delle case popolari, una zona apparentemente squallida, ma vivibile, quando si vuole vivere. Ci stanno giusto due scrivanie, tre armadi, il bagno, un piccolo frigorifero per la grande calura estiva.

Max ha conosciuto di peggio, ma non si ricorda più dove. L’EROE Squilla il telefono. Rispondo. È una vecchia pazza. Madame Lipienski. Ha visto un fantasma. Quello del marito. Suo marito è morto

da quindici anni. Era ciò che aveva di meglio da fare. Appendo. Osservo il cane Médor che si agita mentre dorme. Mi passo la mano tra i capelli, capelli

grassi, per scacciare lo spirito cattivo attaccato al mio cervello. Ricomincio ad aspettare. Mezzogiorno e quarantacinque secondo l’orologio dell’ufficio. Georges,

Willy, Marianne, tutta la squadra del mattino torna dalla pausa pranzo. Willy, un sorriso ironico sulle labbra, pretende la mia quota per il caffè, cinquanta centesimi. Pagherò

più tardi. Con suo dispiacere, lo mando da madame Lipienski. Con Marianne. Marianne si ribella. – Ah, no! Io non ho fatto niente. Non hai il diritto di mandarmi da quella matta. Willy ricomincia. – Ha ragione. Non siamo qui per scacciare i fantasmi nascosti nei cervelli malati dei vecchi. – Non capisci assolutamente nulla di politica. Madame Lipienski è un membro molto influente del

club della terza età. Immagina che il signor sindaco, il tuo datore di lavoro, scopra di dover calmare ottocento vecchiette ubriache di collera contro la polizia municipale, io non voglio certo rispondere della tua povera pelle di martinicano.

Willy non risponde. Prende la giacca ed esce in compagnia di Marianne. Grègoire lascia il suo posto per andare a ristorarsi nell’unico bar del quartiere. Il Cadran.

La squadra della sera arriva in ordine sparso. Prima Antoine, poi Robert e infine Serge, accompagnato da una cassa di vino.

Quasi canta. – Ciao a tutti! Ciao a tutti! Guardate cosa vi ho portato. Del Juliènas. E di quello buono. Imbottigliato

nel ’93. Serge fa appena in tempo a nascondere le bottiglie, quando sbuca il capo Joncart. Ha l’aspetto delle giornate pessime. Sbuffa, si affligge. I suoi capelli grigi, grigiastri, sono in

disordine. Ci attacca subito, senza avvertirci. – Non va bene, ragazzi. Mi sono sotterrato di fronte al sindaco. Tutti ne parlano. Sembra che non

pattugliamo abbastanza, che non facciamo abbastanza prevenzione, insomma, che non facciamo un accidenti.

Ribatto. – È perché non siamo abbastanza, abbiamo soltanto due macchine, e l’ufficio non è adeguato alla

situazione! – È esattamente quello che gli ho detto, ma quello se ne fotte. Vuole una riorganizzazione del servizio,

delle missioni. Non ho potuto aggiungere altro. Allora, programmiamo una piccola riunione per domani alle tre. Vi chiedo di riflettere un po’ sull'argomento, soprattutto tu, Ripolini.

– Sì, capo! – Non chiamarmi così! – Cazzo! – Va bene, va bene! Stai calmo! Ci farai venire un aneurisma. Cominciamo subito. Serge, Antoine, voi

andate subito in servizio di pattuglia. Missione prioritaria: passare davanti a tutte le case dei consiglieri comunali. I loro vicini, da bravi collaboratori, potranno fare dei rapporti favorevoli. Tornate alle quattro e poi si va con Robert a fare dei giri davanti alle scuole del centro. Per far vedere ai genitori che i pedofili sono sotto stretta sorveglianza. Forza!

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IL CORO Cécilia. Grida. – Stronzo! Non hai un cazzo d’altro da fare? Grida lanciandogli una scarpa che lui evita per un pelo. Jeannot. Farfuglia. – Non hai il diritto di farmi questo. Non sono un cane. – Cosa dici? Se non sei contento, prendi la tua roba e i tuoi sporchi affari, e vattene da qui! – È anche casa mia! – Cazzate, dici sempre cazzate. E dov’eri stanotte? Farfuglia ancora di più. Le sue scuse non hanno senso. – Ecco… non molto… ho avuto… un incidente. – Un incidente da bar! Non è vero? – Ma no, te lo giuro! Uno mi ha tamponato. – In piena notte? Si difende come può. – Beh, sì… Gli lancia uno sguardo gelido. Una frecciata in pieno corpo. Non gli crede. – Ecco, dici un sacco di balle. Lei si precipita in camera e si chiude dentro. La si sente sbuffare, inveire, attraverso la porta. Lui non

ci fa caso e i vicini sono abituati. È una coppia famosa, quella del 236. Sono fuori dalla comunità. Sopravvivono con il sussidio di disoccupazione e con gli aiuti sociali. Da loro è come in uno zoo. Si striscia, si ringhia, si graffia. Da loro è brutto, sordido. La tappezzeria cade a pezzi. La moquette è distrutta. I mobili si piegano alle ingiurie del tempo.

Lui si siede un attimo. La sedia cigola in segno di protesta. Non sa più cosa fare. È stufo marcio, ma lei lo è più di lui. Da tre anni le cose vanno così. Quei due esistono solo per distruggersi e ritrovarsi. Ma è comunque amore, quello vero. Quello che fa male ma che comunque aiuta a vivere.

Dice a chi vuole ascoltarlo. – Me ne vado! Ma sa che non lo farà. Per andare dove? Aggiunge. – Tutto ciò deve finire! Andrà a lamentarsi con qualcuno. Si alza. Fruga in cucina. Ha sicuramente nascosto dei soldi da qualche parte. Sposta delle scatole di

alluminio, di cartone. Niente. La insulta in silenzio. Si innervosisce fino a tirarsi i capelli. Sporchi, arruffati, che non si lava praticamente mai e che ora si strappa a ciocche. Allora prende la sua borsa e se ne va. Il cuore stretto dalla tristezza, dall’odio, un buon bicchiere di acquavite lo rianimerà di sicuro.

L’EROE Passo due ore in ufficio. La squadra va. La squadra viene. L’attesa forzata è una questione di metodo.

Bisogna essere metodici per non rovinarsi l’anima. Lavoro un po’ alla riorganizzazione del servizio. Mi rendo conto per la prima volta che la mia squadra è politicamente molto corretta. La donna, il nero, i bravi ragazzi. Come in tv. Secondo me ci mancano gli squilibrati, i frustrati, gli idioti, gli imbecilli, i codardi. La gente normale, insomma.

Spunta un capellone. È François. Ha in mano una macchina fotografica. Lo accoglie Marianne. François fa il fotografo. È un amico. Condivido con lui una specie di chiatta. La Bakounine. Una vecchia roba galleggiante, ormeggiata in un porto sulla Marne, che ci serve da laboratorio. A lui per le foto, a me, quando ho tempo, per dipingere.

– Buongiorno. Non starò tanto. Sono venuto solo per qualche scatto del quartiere. I palazzi, le trombe delle scale, gli abitanti!

Marianne lo squadra. È piuttosto alto, gli occhi scuri, un viso allegro. Marianne è sempre un po’ scossa quando lo vede.

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Mi chiama. Io sto sonnecchiando sulla sedia. Sbiascico penosamente. – Cosa? – C’è François. Vuole fare delle foto. – Ho sentito. Mi alzo. Vado. Domando. – Delle foto? Che genere di foto? Mi risponde quasi marcando ogni sillaba. – Sto fotografando la decomposizione della società simbolizzata dallo stato decadente dei palazzi e

della gente. È questo che voglio fissare per sempre. – Sempre lo stesso genere. Bello, lurido, postmoderno, neodecadente. Non sei stufo di fotografare i

malati, gli infermi, i sofferenti della vita, come un voyeur malato? – No, si tratta di testimoniare. Niente di più. Niente di meno. Ho un progetto per un’esposizione:

L'urbanismo come presa di possesso da parte del capitalismo dell’ambiente naturale e umano! – Farà incazzare il sindaco? – È probabile! – Allora dacci dentro! – Ciao! Se ne va. L’adoro! Un incontro tra la ragione e l’irrazionalità. Un neoanarchico fuori dal comune.