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LE REGOLE DEL GIOCO DEI DISTRETTI INDUSTRIALI * 1. Premessa Come mostrano le cifre dei censimenti industriali, dal 1951 al 1991 i distretti industriali hanno conseguito successi straordinari. Nei quarant’anni considerata l’occupazione manifatturiera in essi presente è passata dal 10% al 32% del totale di tutta l’occupazione manifatturiera italiana [Brusco e Paba, 1997]. Questo successo è stato attribuito alla particolare capacità dei distretti di risolvere armoniosamente tre antinomie: quella tra sapere locale e sapere codificato, quella tra concorrenza e cooperazione tra le imprese, quella tra conflitto e partecipazione all’interno dell’impresa [Brusco, 1994; Brusco e Fiorani, 1995]. Questo saggio studia il modo in cui le ultime due antinomie si compongono sino a produrre un sistema efficiente. L’idea di fondo è che tale composizione avvenga attraverso particolari regole che consentono alle forze in campo di manifestarsi compiutamente secondo modi e schemi di comportamento che non producono effetti distruttivi ma anzi danno al sistema una maggiore capacità competitiva. 2. La competitività: i rapporti tra le imprese, concorrenza e collaborazione Oltre alla capacità di innovazione, di cui si è detto altrove [Brusco, 1995], il secondo fattore di competitività al quale occorre fare riferimento, nell’idealtipo del distretto, è il rapporto che si instaura tra le imprese, che sollecita ad un tempo la concorrenza e la cooperazione tra le imprese. I caratteri e le regole della concorrenza Che ci sia concorrenza, nei rapporti tra le imprese di un distretto, non è difficile da argomentare. La vicinanza fisica dei venditori consente ai compratori di scegliere il prodotto che essi preferiscono, in termini di qualità, prezzo, precisione dei termini di consegna, livello di personalizzazione, servizi post vendita. Ciascuno di questi elementi può offrire l'occasione per acquisire un vantaggio competitivo, ed in ciascuno di questi ambiti le imprese competono in modo assai vivace. Ogni impresa individua i propri punti di forza, ed ogni impresa trae vantaggio anche dell’esperienza delle altre per rafforzare la propria posizione sul mercato. La diffusione delle informazioni rende ben visibili le strategie di tutti, e consente di misurarne l’efficacia ed eventualmente di trarne vantaggio replicandola. Almeno sotto questo profilo il mercato del distretto è più trasparente di molti altri mercati. Le strategie sono visibili e copiabili. Più che in altri mercati, inoltre, il distretto resta fortemente concorrenziale anche in presenza di innovazioni. Le informazioni sulle innovazioni di prodotto circolano assai liberamente, ed è assai difficile tenerle riservate. Le fiere, le sfilate di mode, persino le vetrine dei negozi al dettaglio sono occasioni di vedere che cosa fa il vicino. Quando alcuni produttori di Carpi utilizzino per la prima volta la felpa, o alcuni produttori di Prato la pelliccia ecologica, o alcuni produttori di macchine inscatolatrici di Bologna usino i relais, o alcuni produttori di Montebelluna realizzino in plastica g li scarponi da sci, o alcuni produttori di macchine utensili un modo più raffinato per fare i piani di lavoro, o alcuni produttori di macchine edili un nuovo motore per le impastatrici di calcestruzzo, non è chi non le veda, queste * Le regole e le citazioni sono rientrate. Ma le regole sono in corsivo, le citazioni tra virgolette. Le citazioni derivano, ove non si indichi diversamente, dalla ricerca pubblicata in Bartolozzi e Garibaldo [1995].

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LE REGOLE DEL GIOCO DEI DISTRETTI INDUSTRIALI*

1. Premessa

Come mostrano le cifre dei censimenti industriali, dal 1951 al 1991 i distretti industriali hanno conseguito successi straordinari. Nei quarant’anni considerata l’occupazione manifatturiera in essi presente è passata dal 10% al 32% del totale di tutta l’occupazione manifatturiera italiana [Brusco e Paba, 1997]. Questo successo è stato attribuito alla particolare capacità dei distretti di risolvere armoniosamente tre antinomie: quella tra sapere locale e sapere codificato, quella tra concorrenza e cooperazione tra le imprese, quella tra conflitto e partecipazione all’interno dell’impresa [Brusco, 1994; Brusco e Fiorani, 1995]. Questo saggio studia il modo in cui le ultime due antinomie si compongono sino a produrre un sistema efficiente. L’idea di fondo è che tale composizione avvenga attraverso particolari regole che consentono alle forze in campo di manifestarsi compiutamente secondo modi e schemi di comportamento che non producono effetti distruttivi ma anzi danno al sistema una maggiore capacità competitiva.

2. La competitività: i rapporti tra le imprese, concorrenza e collaborazione

Oltre alla capacità di innovazione, di cui si è detto altrove [Brusco, 1995], il secondo fattore di competitività al quale occorre fare riferimento, nell’idealtipo del distretto, è il rapporto che si instaura tra le imprese, che sollecita ad un tempo la concorrenza e la cooperazione tra le imprese.

I caratteri e le regole della concorrenza

Che ci sia concorrenza, nei rapporti tra le imprese di un distretto, non è difficile da argomentare. La vicinanza fisica dei venditori consente ai compratori di scegliere il prodotto che essi preferiscono, in termini di qualità, prezzo, precisione dei termini di consegna, livello di personalizzazione, servizi post vendita. Ciascuno di questi elementi può offrire l'occasione per acquisire un vantaggio competitivo, ed in ciascuno di questi ambiti le imprese competono in modo assai vivace. Ogni impresa individua i propri punti di forza, ed ogni impresa trae vantaggio anche dell’esperienza delle altre per rafforzare la propria posizione sul mercato. La diffusione delle informazioni rende ben visibili le strategie di tutti, e consente di misurarne l’efficacia ed eventualmente di trarne vantaggio replicandola. Almeno sotto questo profilo il mercato del distretto è più trasparente di molti altri mercati. Le strategie sono visibili e copiabili. Più che in altri mercati, inoltre, il distretto resta fortemente concorrenziale anche in presenza di innovazioni. Le informazioni sulle innovazioni di prodotto circolano assai liberamente, ed è assai difficile tenerle riservate. Le fiere, le sfilate di mode, persino le vetrine dei negozi al dettaglio sono occasioni di vedere che cosa fa il vicino. Quando alcuni produttori di Carpi utilizzino per la prima volta la felpa, o alcuni produttori di Prato la pelliccia ecologica, o alcuni produttori di macchine inscatolatrici di Bologna usino i relais, o alcuni produttori di Montebelluna realizzino in plastica gli scarponi da sci, o alcuni produttori di macchine utensili un modo più raffinato per fare i piani di lavoro, o alcuni produttori di macchine edili un nuovo motore per le impastatrici di calcestruzzo, non è chi non le veda, queste * Le regole e le citazioni sono rientrate. Ma le regole sono in corsivo, le citazioni tra virgolette. Le citazioni derivano, ove non si indichi diversamente, dalla ricerca pubblicata in Bartolozzi e Garibaldo [1995].

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innovazioni, e non possa ricostruire i percorsi attraverso i quali sono state individuate le professionalità necessarie per spostarsi verso un prodotto più efficiente o semplicemente più gradito al mercato. È la stessa natura incrementale delle innovazioni che favorisce l’imitazione, e con questa la concorrenza. Sotto un certo punto di vista − e sarebbe facile fare dell’anedottica che mostrasse quanto le condizioni siano simili − anche il distretto, come si diceva un tempo degli imprenditori giapponesi, ha una professionalità singolare nello smontare le macchine o i prodotti fatti da altri e nel riprodurli con lievi migliorie realizzate qui e là, sufficientemente rilevanti da rendere il prodotto migliore, ma comunque tali da impedire una incriminazione per rottura di brevetto. Questo vale sia nei confronti di innovazioni realizzate fuori dal distretto, da grandi imprese italiane o estere, sia nei confronti di innovazioni incrementali realizzate all’interno del distretto. In ogni caso, la ridotta dimensione delle imprese è di per sé difesa dall’accusa di plagio, perché sarebbe imponente il numero di procedimenti giudiziari necessari per contrastare la capacità delle numerose piccole imprese del distretto di giocare con variazioni di ogni genere con una nuova idea di base. Gli esempi di macchine agricole copiate da modelli esteri, e migliorate nella qualità, nelle prestazioni e nel prezzo, sono innumerevoli, così come rapidissima è la diffusione delle innovazioni mano a mano introdotte dalle imprese interne al distretto. Per quanto creativo possa essere, l’uso frequente di innovazioni importanti realizzate da altri ha indotto alcuni a sostenere che il distretto si colloca strutturalmente in una condizione di dipendenza e di parassitismo, destinata alla sconfitta. O, in un’altra ottica, si può argomentare che la facile riproduzione delle innovazioni prodotte all’interno del distretto e l’assenza di protezione istituzionale sui risultati raggiunti potrebbero scoraggiare l’investimento in ricerca. Restano, sia l’uno che l’altro, forse, problemi aperti. Ma può anche essere che la capacità di copiare innovando sia basata su una professionalità assai elevata, e che il migliorare i prodotti altrui debba essere guardato con lo stesso atteggiamento con il quale si è assistito alle repliche delle macchine fotocopiatrici Xerox fatte da Minolta o Canon. In ogni caso, questa discussione non ha nulla a che fare con la verifica che nei distretti il livello di concorrenza è molto alto, anche di fronte alle innovazioni di prodotto o di processo. E vale forse la pena di citare anche il fatto che − come ha mostrato Russo con una considerevole evidenza empirica − la consapevolezza che delle idee degli altri è facile appropriarsi, se le si migliora e ci si lavora sopra, è così diffusa, nei distretti, che spesso le imprese di Modena o Bologna non brevettano le loro innovazioni perché pensano che i disegni depositati all’ufficio brevetti siano una fonte di informazione troppo facilmente disponibile per i loro concorrenti. Allo stesso modo, non costituisce ostacolo alla concorrenza l’innovazione di mercato. Una esperienza riuscita, con un certo prodotto, su un particolare mercato, (forse si può citare, per quanto certo sia davvero un mercato piccolo, il mercato dei rubinetti da bagno ricoperti di oro fino, che qualche anno fa hanno avuto un momento di grande successo su alcuni mercati arabi) sollecita immediatamente l’ingresso di concorrenti. Questa concorrenza sfrenata anche davanti alle innovazioni di prodotto e di mercato è resa ancora più semplice dal fatto che l’entrata su un nuovo mercato, o la produzione di un nuovo prodotto, è quasi sempre molto facile, in termine di capitale necessario e di risorse da investire. Un sistema di produzione tutto basato sulla subfornitura, e la disponibilità nel distretto di macchine anche assai complicate e costose che possono essere usate soltanto per una frazione del loro tempo di saturazione, consente a chiunque sappia farlo, disponendo soltanto di capitali circolanti, di entrare su qualunque mercato. Il basso livello di integrazione verticale e, paradossalmente, la piccola dimensione esaltano le capacità competitive degli avversari strategici. Il vantaggio comparato di colui che costruisce un nuovo prodotto o si muove su un nuovo mercato è sempre soltanto provvisorio, di breve durata, ed è costruito soltanto sul know how, e sulla rete di relazioni. Questa è quasi sempre l’unica rete di protezione dell’innovatore, e l’efficienza delle imprese del distretto è sempre efficienza dinamica.

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Tutte le condizioni della concorrenza sono quindi fatte salve: una straordinaria trasparenza del mercato, una grande diffusione delle informazioni, l’ingresso facile di imprese nuove o di imprese già esistenti. Questa vivacissima concorrenza e questa grande rapidità di trasmissione delle informazioni, in uno con l'alto numero di imprese assai intraprendenti, per un verso elimina rendite e sovraprofitti, ma per un altro è un fattore cruciale nell'assicurare alle imprese del distretto una posizione di vantaggio competitivo rispetto alle imprese che ne stanno fuori. L'alto numero di imprese, e la loro ansia di distinguersi e di crescere, induce una forte disponibilità a sperimentare innovazioni grandi e piccole, a misurarsi con nuovi prodotti o con nuovi mercati. Molti di questi tentativi cadono nel vuoto o falliscono, ma sempre lasciano dietro di sé insegnamenti preziosi. Talvolta si ha la certezza che una certa linea di azione è del tutto sbagliata, talvolta si hanno indicazioni per iniziative successive, che possono avere successo se si modifica qualcosa rispetto alla strategia che per prima è stata tentata. In altri casi le nuove esperienze sono positive ed hanno successo, ed allora vengono assai rapidamente fatte proprie da altri e riprodotte. Il vantaggio di cui gli innovatori godono è soltanto temporaneo, perché l'agilità, la mobilità, la rapidità di reazione del distretto è altissima. In sostanza, il distretto è costantemente impegnato in un gigantesco processo di trial and error. Non si lavora su iniziative che richiedano molte risorse, perché gli agenti coinvolti sono piccoli, sia in termini di fatturato che di capitale. Ma, come si è detto, se ne vale la pena sulle indicazioni date da un tentativo fallito si lavora ancora, con progressivi aggiustamenti di tiro. E poi ci si muove in molte direzioni, e l'impegno che ci si mette è altissimo, perché la jack pot che si tenta di colpire è spesso dotata di premi molto alti, da non dividere con nessuno, almeno per qualche tempo. Di continuo, lo stormo di imprese vede ciò che accade ai mille singoli componenti che seguono vecchie strade o ne tentano di nuove, ed è capace di tradurre in azione rapida le indicazioni ricevute, positive o negative che esse siano. C’è, in questa capacità di vedere molte cose e di replicare con gusto ed iniziativa creatrice le azioni di successo, uno dei candidati principali alla spiegazione del perché, anche senza una strategia ed un cervello che coordini, il distretto possa riuscire a leggere e ad interpretare ciò che accade nella tecnologia e nei mercati, sino a competere efficacemente con altri attori più agguerriti. Questa pratica di imitazione e di replica, e la capacità di far sempre tesoro delle esperienze altrui, pone ovviamente problemi non piccoli, sul piano dell'etica commerciale. Ma i codici di comportamento del distretto regolano con precisione le condizioni alle quali il sapere privato può diventare sapere comune, definendo con precisione ciò che è lecito, e ciò che invece va considerato concorrenza sleale. La regola fissata dalla comunità, (si ricordi che il riferimento è sempre all’idealtipo del distretto, anche se le prove empiriche che potrebbero essere citate, naturalmente, non possono che provenire dall’esame di distretti veri) è in sostanza la seguente:

Le imprese finali siano concorrenti delle imprese finali, sfruttando tutte le occasioni legittime di trarre indicazioni dal successo altrui: le fiere, le sfilate, le mostre, le vetrine o qualunque delle informazioni di cui si è detto. Così, allo stesso modo, siano concorrenti tra loro le imprese subfornitrici. Le imprese subfornitrici, se vogliono, possono giocare le loro carte tentando la sorte sui mercati finali. È concorrenza sleale e quindi riprovevole, invece, corrompere un subfornitore o un dipendente per avere notizie su quanto l’impresa concorrente sta facendo.

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Per una tipologia delle regole delle cooperazione

Nonostante la concorrenza attivissima di cui si è appena detto, la cooperazione esiste, assume forme variegatissime, ed ha un ruolo assai rilevante. L'idea che tra le imprese del distretto possa esservi collusione è figlia soltanto degli schemi facili di cui talvolta soffrono gli economisti, spesso inclini a pensare che, appunto, la collusione sia l'unica alternativa alla concorrenza. Qual è la struttura sociale e culturale che consente di tenere insieme concorrenza e cooperazione? Qual è la base istituzionale sulla quale questa cooperazione è resa possibile e costruita? Non appare ragionevole fidarsi delle spiegazioni che assegnano un ruolo rilevante alla buona volontà, alla attitudine alla cooperazione, in definitiva ai tratti caratteriali degli attori e delle popolazioni interessate. È certamente ingenuo pensare che questa cooperazione sia basata sul fatto che gli emiliani o i veneti hanno una particolare inclinazione ad essere corretti e di buon cuore. Piuttosto, ciò che regge queste diffuse pratiche di collaborazione è un corpus complesso di regole, che può essere preso in esame, e che si può addirittura tentare di rilevare e di formulare con la precisione che si addice alle norme del diritto. In particolare, le norme che regolano la cooperazione tra imprese possono essere distinte in tre gruppi: le regole che attengono alle cautele, le regole di interazione, e quelle che attengono alle sanzioni. La distinzione è precisa. Le prime sono norme che vengono applicate unilateralmente dai singoli agenti, come condizione necessaria per aprire un rapporto di cooperazione. Le norme di interazione stabiliscono i comportamenti che gli agenti terranno una volta che la relazione sia stabilita. Le sanzioni identificano chi deve accertare la violazione della norma, il tipo di punizione da praticare, e chi ha il compito di erogare la pena.

Le cautele

Come ha già notato Lorenz (1989) nel caso dei metalmeccanici di Lione, anche nei distretti italiani è assai diffusa la pratica di suddividere le commesse tra vari subfornitori, e di cercare ordini da vari clienti, a difesa dell’eventualità che un tradimento o una defezione possa compromettere la stabilità dell’impresa, lasciando un committente senza subfornitori noti e familiari sui quali spostare rapidamente il lavoro prima assegnato ad un subfornitore che si è dimostrato indegno di fiducia, o lasciando un subfornitore senza clienti affidabili. “Mai mettere tutte le uova in solo paniere” è regola che si sente citare spesso, in una forma o in un’altra. Si noti che si tratta di una cautela costosa. Costruire rapporti di conoscenza e di fiducia con più committenti, o con più fornitori, richiede più tempo ed impegno che trattare solitamente soltanto con uno o due committenti. E, appunto, il maggior costo connesso con questo modus operandi rappresenta una assicurazione contro eventuali defezioni o tradimenti. A testimonianza di un costume di cautela si può anche citare che solo molto di rado, nei distretti, i subfornitori acquistano i macchinari specifici di cui parla Williamson [1975]. I modelli usati per lo stampaggio delle lamiere (o per le fusioni nell’industria metalmeccanica) sono quasi sempre di proprietà dell’impresa committente e vengono di volta dati in uso al fornitore prescelto. Quando così non accade, significa che i modelli sono di poco valore, ed allora il loro costo è calcolato tutto sul primo lotto della subfornitura, salvo poi ad essere dati in uso gratuitamente nei lotti successivi. Ambedue i comportamenti sono resi possibili da una regola generale senza la quale nessuna forma di collaborazione sarebbe possibile:

È cosa buona concedere fiducia a chi la merita, ma i comportamenti prudenti sono ammessi e legittimi. Essi non testimoniano scarsa stima e fiducia nella controparte,

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ma discendono soltanto da stimabile avvedutezza. e sono quindi appropriati ad ogni buon imprenditore.

Si può apprezzare il significato vero della regola soltanto per contrasto, se si pone mente a quanto frequentemente questa norma non esiste, ed un comportamento prudente non viene sanzionato come legittimo ed auspicabile. Per esempio: questa prassi, che è percepita come normale e corretta in Emilia o in Toscana, in Veneto viene interpretata come segno di poca disponibilità, ed è normale che un imprenditore chieda ai suoi subfornitori di lavorare soltanto per lui. Allo stesso modo nel Mezzogiorno solo chi si fida incondizionatamente dell'altro, legandosi a lui mani e piedi, ha diritto di chiedere in cambio un trattamento di riguardo, ed assistenza ed aiuto in caso di bisogno. Per quanto singolare possa apparire, sotto questo profilo la terra dei dogi e quella dei Borboni sono molto simili. In ambedue le aree la relazione è costruita tutta su dicotomie molto forti: "o si è amici, o no". Se si è amici, si deve dare e si può pretendere quasi qualsiasi cosa, ed ogni defezione assume la coloritura di un tradimento degno di Eschilo. Se non lo si è, qualsiasi scorrettezza è possibile e praticabile, e tutti i comportamenti reciproci saranno dominati dal sospetto e dalla paura dell'imbroglio.

Le regole di interazione

La collaborazione che più profondamente di ogni altra impronta di sé la vita quotidiana del distretto è la collaborazione tra le imprese finali e le imprese subfornitrici. Questa collaborazione si basa, prima di tutto, sulla disponibilità ad investire risorse importanti “per imparare a lavorare insieme”. L’investimento è compiuto sia dall’impresa committente che dall’impresa fornitrice. Si tratta di capire e armonizzare due stili di lavoro, due modi di organizzare il processo produttivo. Spesso vi sono passaggi di conoscenze tecnologiche, nell’una e nell’altra direzione. Occorre mettere a punto un linguaggio comune, e costruire un insieme di precedenti che rendano più agevole il colloquio e la trasmissione delle specifiche. In una serie di ordini che si susseguono l’uno all’altro si concorda un modo di calcolare i costi e di fissare il prezzo. Visite ripetute consentono la crescita di una conoscenza precisa delle rispettive capacità tecnologiche. La relazione continua facilita l’emergere di un contratto tipo, che possa essere concordato per telefono prima dello scambio di accordi scritti, o addirittura senza accordi scritti. Quasi sempre, tra le imprese con meno di cinquanta addetti dei distretti tessili e metalmeccanici, gli unici accordi scritti su cui si costruiscono i rapporti di fornitura sono rappresentati da buoni d’ordine, che non vengono neppure controfirmati dal fornitore. Questi contratti, per informali che siano, specificano perfino le procedure per far fronte ad eventuali errori di comunicazione. Un caso tipico che richiede una procedura standard per dividere il danno, tra questi, è quello in cui, senza mala intenzione da parte di nessuno, il fornitore esegue lavorazioni diverse da quelle desiderate dal committente: si va dal fare su un abito asole più grandi del previsto al produrre un pezzo di metallo con una tolleranza troppo alta o troppo bassa. La regola di base che governa questi casi di collaborazione è molto semplice:

Tra due agenti legati da rapporti continuativi, non si farà mai pieno uso del potere di mercato di cui si dispone in virtù della congiuntura, della dimensione reciproca o di altri fenomeni. Ciascuno terrà conto delle esigenze di sopravvivenza e di successo dell'altro, che sono legate ai margini di profitto, alla possibilità di tenere alto il proprio livello tecnologico, alle capacità di tenere presso di sé la forza lavoro maggiormente qualificata.

È per questa ragione che, tra imprese che lavorano insieme abitualmente, i prezzi per le operazioni di subfornitura oscillano assai meno che sul mercato libero, quello praticato da imprese che non hanno un rapporto consolidato. In periodi di crisi a guadagnarci è il subfornitore, e viceversa in periodi di espansione della domanda. Ma l'uno e l'altro hanno il vantaggio di un reddito più costante, di

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una migliore programmabilità dei redditi e degli investimenti, ed alla fine di una minore incertezza nelle previsioni. Anche se su un arco di tempo sufficientemente lungo ciascuno dei partner finisce col pareggiare contabilmente vantaggi e svantaggi, tutti e due godono di una maggiore stabilità dei redditi e di una minore incertezza. Del tutto simile è il risultato di una regola assai diffusa che vuole che l’impresa committente garantisca al fornitore abituale un certo volume di fatturato anche in periodo di crisi, ed il fornitore garantisca al suo buon cliente il rispetto dei termini di consegna anche in periodi di forte domanda. Nelle relazioni tra imprese finali e imprese subfornitrici, a complemento della regola generale sopra enunciata, possono esistere procedure particolari per la fissazione del prezzo. In Veneto, per esempio, si riconosce al committente il diritto di fissare il prezzo della lavorazione decentrata, ma al subfornitore si riconosce la possibilità di richiedere una revisione dei prezzi quando una lavorazione sia risultata più difficile del previsto. In altri casi committente e fornitore possono decidere che il prezzo sia deciso ex post, dopo che l’esecuzione delle lavorazioni previste è stata eseguita, nella ragionevole certezza che i tempi dichiarati dal subfornitore siano quelli veri. In ambedue i casi i due contraenti godono di un forte risparmio nei costi di preventivo e di contrattazione. L’interazione tra committente e fornitore, tuttavia, può assumere forme più complesse e ricche di quelle descritte sinora. Il caso più noto è quello citato da Brusco e Sabel già nel 1981: quello in cui “il committente va dal subfornitore non con un disegno ma con un problema”, e chiede al subfornitore aiuto per risolverlo. Qui non si tratta soltanto di lavorare assieme in un processo produttivo di cui si conoscono l’itinerario ed i risultati. Qui le due imprese devono imparare a svolgere insieme una attività creativa, il cui obiettivo è di giungere ad un nuovo prodotto o ad un nuovo metodo di produzione. In questo modo la capacità di invenzione di chi percepisce un nuovo bisogno del mercato stringe alleanza con chi conosce nel dettaglio i metodi di produzione possibili. Spesso accade che l’impresa che ha un’idea sottoponga il suo problema a diversi fornitori, in cerca della soluzione tecnica ottimale. Il vantaggio che questa collaborazione porta all’impresa finale è ovvio. Il subfornitore, a sua volta, innanzitutto seleziona con cura le imprese con le quali impegnarsi, ed inoltre sa che l’attività “di consulenza” che egli svolge troverà compenso adeguato quando si dimostrerà utile con qualcuno dei suoi clienti. Questa attività di supporto e di aiuto alla progettazione, in sostanza, trova riscontro preciso nei conti aziendali, sia per il reddito che produce, sia per il valore di promozione che essa inevitabilmente assume. Qualcosa di simile all’attività di cui si è appena detto, per la quale sono state individuate procedure bene definite, viene descritta da Russo [1996a], con riferimento al settore ceramico. Russo cita molti casi in cui un artigiano metalmeccanico, che pensa di avere una idea utile per risolvere questa o quella strozzatura nel percorso di lavorazione del materiale, chiede aiuto ad una fabbrica di piastrelle, e per periodi anche lunghi va in quella fabbrica a lavorare ed a sperimentare il proprio prototipo, provocando intralci seccature ed in definitiva aumenti di costo, sino a quando riesce a mettere a punto il prodotto. Qui il vantaggio dell’artigiano che cerca di produrre una nuova macchina sta nell’avere a disposizione il luogo e la macchina per sperimentare progressivamente i suoi prototipi. Il vantaggio dell’imprenditore ceramico sta nel fatto che, quando la macchina sarà funzionante, egli sarà il primo a poterne usufruire. Tra le forme di cooperazione tecnologica va citata anche una sorta di cooperazione indiretta, che si realizza tra imprese simili attraverso il rapporto personale tra tecnici.

“Questa macchina non riuscivamo a farla funzionare come si deve. Il nostro tecnico ha telefonato al suo amico dell’impresa B per sapere come avevano fatto loro”

In questo modo, l’impresa A e l’impresa B, pur concorrenti sul mercato del prodotto finito, possono collaborare tra loro per mettere a punto un macchinario di recente introduzione. Non si tratta,

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ovviamente di una macchinario di importanza cruciale per la qualità del prodotto. Si tratta soltanto di rendersi più facile la gestione. Come si è tentato di mostrare, ciascuna delle forme di collaborazione descritte (tra imprese finali, tra imprese subfornitrici, o tra le une e le altre) migliora ad un tempo l’efficienza del sistema ed i conti delle imprese. Ma tutto questo è possibile soltanto perché vi è una regola fondante che sostiene e promuove questa collaborazione.

È scorretto e riprovevole che il cliente, il consulente, il subfornitore, o il dipendente usino le informazioni, il sapere o la rete di relazioni di cui sono stati resi partecipi per avvantaggiarsene ai danni dell'impresa che li ha coinvolti in una iniziativa di qualsiasi tipo.

Così, se l'artigiano Tizio chiama Caio ai collaborare con lui per produrre una partita troppo grande di staffe o di perni, Caio ha il dovere di stare discretamente nell'ombra, di non cercare di stringere rapporti o contatti con l'impresa committente, insomma di non proporsi come alternativa per eventuali futuri ordini. Tutto questo è singolarmente visibile quando un consorzio di taxi chiama un collega in aiuto per far fronte ad un picco di lavoro : sarebbe considerato assai scorretto che il collega chiamato a dare una mano usasse quell’occasione per spostare su di sé qualche cliente. Così, ancora, un subfornitore che riceve un disegno non può usarlo per produrre un prodotto che faccia concorrenza a quello del suo cliente, o un fornitore specializzato non deve far tesoro dell'idea che gli è stata svelata per sfruttarla in proprio. Così, infine, sono regolati i rapporti tra Trussardi o Cardin e l'artigiano che propone loro un oggetto che egli ha disegnato e potrebbe produrre (e che essi potrebbero vendere con il loro marchio). Se l'offerta viene rifiutata, l'artigiano è sicuro di poter sottopporre il proprio prodotto al giudizio di altri potenziali acquirenti, avendo ragionevole sicurezza che l'idea non gli venga portata via. Parrebbe ovvio e scontato, tutto questo. E invece può essere utile ricordare che molto spesso proprio la mancanza di questa regola è di ostacolo grave alla cooperazione tra imprese ed impedisce al sistema produttivo di utilizzare tutte le sue potenzialità. Il subfornitore − e soprattutto un'impresa simile alla propria alla quale affidare parte della commessa − viene molto spesso percepito come un concorrente temibile, che occorre evitare il più possibile, perché questo è l'unica garanzia contro il fatto che egli utilizzi in proprio disegni o progetti costosi, o seduca con prezzi inferiori un committente. Così, riferisce Best, accade tra le imprese mobiliere di Cipro:

"Ma come è possibile − diceva l'imprenditore cipriota commentando la sitazione emiliana − che qui da voi uno dia un disegno ad un subfornitore? Per avere quel disegno io ho dovuto cercare un architetto italiano di cui fidarmi, ho dovuto spiegargli che cosa si vende sul mio mercato, ho dovuto pagare un onorario considerevole. Lui non ha avuto nessuna di queste spese. Se mi copia il disegno egli può vendere lo stesso mio mobile ad un prezzo inferiore del 30%, e mettermi fuori mercato".

Così ancora, certamente accade in molte regioni del Mezzogiorno d'Italia, ove forse persino i medici di famiglia hanno paura di farsi sostituire quando vanno in ferie.

Le sanzioni

Infine, la cooperazione è costruita anche su sanzioni che colpiscono chi viene meno unilateralmente alla fiducia concessagli. Queste sanzioni non implicano quasi mai il ricorso alla giurisdizione o all'arbitrato (che è infrequente o addirittura raro).

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Le sanzioni possono essere graduate in modo diverso. In alcuni casi, quando vi è il dubbio che il mancato rispetto degli impegni presi possa dipendere da cause di forza maggiore, o siano comunque non dolose, la sanzione può consistere soltanto in una diminuzione delle commesse.

Ha consegnato in ritardo, ed il lavoro non era preciso. Ma lavoriamo insieme da molto tempo, ed io “ho pensato che, se gli diminuisco la commessa, lui capisce che deve stare più attento.”

In altri casi, invece, la sanzione è rappresentata dalla sospensione delle commesse o dal rifiuto di accettarle, con perdita dell’investimento iniziale rappresentato dai sunk costs che sono stati necessari per costruire il rapporto di conoscenza e di collaborazione. Ma ad erogare la sanzione non è di necessità soltanto l'interessato. In una comunità ristretta le informazioni girano rapidamente. Se i rapporti tra due imprese si interrompono, tutti lo vengono a sapere, se non altro perché la macchina o il camion nel committente non lo si vede più arrivare a sorvegliare il lavoro o a ritirare la merce. Se ne parla al caffè o alle riunioni di partito, o alla polisportiva. Si indaga su quanto è successo, cercando di capire le ragioni degli uni e degli altri. Alla fine di questo processo, tutte le imprese che sono state testimoni di una violazione delle regole sanno o pensano di sapere ciò che è accaduto, e si regolano di conseguenza. Per questo, in generale, la perdita di reputazione che si accompagna inevitabilmente alla rottura della fiducia ricevuta ha ripercussione sui rapporti con tutte le imprese del distretto.

3. La competitività: i rapporti interni all’impresa, conflitto e partecipazione

L’altro carattere della società civile che si intreccia con il sistema economico e con il territorio, e che garantisce la capacità di reggere sui mercati internazionali, è dato dalla qualità dei rapporti tra lavoratori e imprese. Anche in questo caso nel distretto si verifica una antinomia tra forze e tensioni contrastanti, che vengono regolate in modo che ne derivi un esito positivo. È quello che si può chiamare "l'equilibrio tra conflitto e partecipazione"; e che ha a che vedere con i rapporti tra operai ed imprenditori dentro la fabbrica. C’è un punto di importanza centrale a tutto il ragionamento che qui si tenta di dipanare, ed è questo: il rapporto di concorrenza/cooperazione di cui si è detto al paragrafo precedente, particolarmente in un tessuto di imprese minori, richiede che all’interno delle imprese, tra imprenditore e lavoratori, prevalga un clima di collaborazione e di fiducia. I rapporti tra imprese non sono soltanto rapporti tra imprenditori. Sono invece molto spesso rapporti tra responsabili della produzione, tra progettisti, capisquadra, che nel momento della collaborazione devono risolvere difficili e complessi equilibri tra loyalties diverse. Solo una forte partecipazione ai destini della propria impresa, ed una consuetudine antica a rapporti di contrapposizione leale, può portare a dei rapporti fruttuosi.

Il ruolo e la natura della partecipazione

Tutte le discussioni sul post-fordismo, che non è qui il caso di ripercorrere, portano alla stessa conclusione. La frammentazione e la volubilità della domanda, la necessità di produrre rapidamente quanto il mercato richiede (e che può accadere non richieda più domani), la necessità di garantire che il prodotto abbia la qualità promessa richiedono ai lavoratori un impegno diverso da quello che era richiesto dalla fabbrica fordista. Per essere efficiente e competitiva, in queste condizioni l’impresa ha bisogno della collaborazione attiva degli operai sia nella progettazione del prodotto, sia nel processo produttivo, sia nella progressiva e delicata operazione di messa a punto del processo produttivo alle esigenze della produzione. In sostanza, competitività ed efficienza richiedono che i lavoratori pongano nel processo produttivo non soltanto forza lavoro di qualità "normale", ma anche, come dice Gallino con una

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espressione che è forse la più precisa tra tutte quelle usate nella letteratura, "dosi addizionali di intelligenza, di impegno e di diligenza" (Gallino, 1978). Il significato preciso di questa "normalità", e quindi, per contrasto, il senso anche concreto di queste "dosi addizionali di impegno", può essere specificato con riferimento a contesti analitici e culturali assai diversi. Si può pensare alla forza lavoro ordinaria identificandola con quella descritta da Marx nel Manifesto: "Il lavoro dei proletari, con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro, ha perduto ogni carattere di indipendenza e quindi ogni attrattiva per l'operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio da cui non si chiede che un'operazione estremamente semplice, monotona, facilissima da imparare". Le dosi addizionali di impegno, in questo caso, presuppongono una diversa organizzazione del lavoro, o almeno un peso delle varianze più rilevante di quello che Marx pensava potesse sopravvivere al trasferimento del sapere dagli operai alle macchine, e consistono nel fatto che il lavoratore, nel processo produttivo, si fa carico di compiti più complessi, e assume ruoli e responsabilità più importanti. Alternativamente, si può usare come parametro la situazione, teorizzata dai classici del taylorismo-fordismo, in cui concezione ed esecuzione sono nettamente separate, e le dosi addizionali di impegno cui si è fatto riferimento valgono a ricongiungere almeno in parte le due attività. (Vien fatto di notare, a questo punto, che il passo di Marx citato, più che alludere alla situazione in fabbrica alla metà del secolo scorso, sembra trovare una verifica compiuta proprio nel fordismo. Così che, se la nozione marxiana di lavoro astratto viene considerata in riferimento non allo sfruttamento ma alla condizione soggettiva dell'alienazione, si può forse affermare che la fabbrica fordista è il luogo privilegiato di erogazione del lavoro astratto. Se questa non fosse una forzatura eccessiva del pensiero marxiano, si potrebbe quindi addirittura sostenere che, in una organizzazione del lavoro caratterizzata da quelle dosi addizionali di impegno di cui parla Gallino, il contributo dei lavoratori al processo produttivo non prende più la forma del lavoro astratto, ma riassume la concretezza di un lavoro svolto per produrre oggetti utili). Oppure, ancora, la normalità può essere definita facendo riferimento alla teoria dei contratti, ed in particolare alla natura del contratto di lavoro e del controllo operato dall'impresa sul lavoro subordinato. Il punto è, in questo caso, che il contratto di lavoro impegna ad prestazione corretta ed efficace, ma certo non può impegnare alla creatività. Allo stesso modo, il controllo gerarchico per sua natura profonda è insufficiente ed incapace a costringere un subordinato a livelli straordinari di impegno. In questo quadro le dosi addizionali di impegno sono ciò che nessun contratto potrà mai pretendere nè garantire, ciò che il lavoratore mette o toglie dal processo produttivo a sua assoluta discrezione, e sono anche ciò che restano fuori dalla sfera del controllo, e che il controllo non può controllare. Insomma, le dosi addizionali di impegno sono, di fatto, testimonianza di un coinvolgimento vero del lavoratore nel processo produttivo; sono il segno che il lavoratore partecipa al processo produttivo non solo con la testa e le mani, ma anche con il cuore ed i visceri, e percepisce il proprio lavoro come utile, importante, anche dal suo punto di vista, oltre che dal punto di vista dell'impresa. Ed è certo che, quando ciò si verifica, quando la partecipazione operaia al processo produttivo e ai destini dell'impresa raggiunge livelli alti, ne deriva per le imprese una straordinaria capacità competitiva, in termini sia di prezzo che di qualità. A tutto questo conviene dare un nome preciso: e può essere utile usare i termini partecipazione e coinvolgimento per indicare le situazioni di fabbrica in cui i lavoratori partecipano al processo produttivo nel modo impegnato e generoso che si è tentato di descrivere.

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Le regole della partecipazione

Su quali presupposti, con quali contenuti, in quali forme si svolge nel distretto la negoziazione che porta alla partecipazione ed al coinvolgimento dei lavoratori nell'attività dell'impresa? Come nel caso precedente, conviene distinguere tra regole di cautela, regole di interazione, e sanzioni.

Le cautele

Come si è detto, la partecipazione non è soggetta a controllo. Essa può essere concessa e ritirata ad nutum, senza preavviso, e senza alcun intervento di voice che renda esplicito che il comportamento sta per cambiare o è cambiato. Addirittura, quando le regole formali del lavoro siano fatte salve, può essere necessario un tempo non irrilevante perché l'imprenditore percepisca che la situazione è cambiata, e che la disponibilità ad erogare le "dosi addizionali di impegno" di cui si è parlato è venuta meno. In questa prospettiva la partecipazione è decisione quotidiana, che deve essere ripetuta e confermata in ogni momento. Un comportamento cauto lo si misura, quindi, prima di tutto, dal fatto questo è un gioco che si gioca solo quando tutto lascia pensare che, in quella situazione concreta, ne valga la pena. Ma vi sono anche strategie più complesse, giocate su scelte più importanti, che insistono su un arco temporale più ampio, a costi più alti per chi le pratica. Il moratorium è la prima di queste strategie. Solinas (1996) ha posto bene in evidenza ed ha accertato che ogni lavoratore che inizia una carriera di lavoro, nei primi anni della sua vita lavorativa, cambia lavoro due tre o quattro volte, alla ricerca del "posto" che meglio gli si confà. In questa ricerca si nasconde un processo di apprendimento delle regole del lavoro di fabbrica, ed un processo di assuefazione ad una disciplina dura e pesante. C'è anche la ricerca di un ambiente di lavoro gradevole, di capi e di compagni con i quali sia facile convivere. Ogni giovane che comincia a lavorare, in sostanza, cerca il luogo e l'ambiente che gli è più congeniale. Può essere quello ove la flessibilità degli orari gli consente di far tardi alla discoteca, o dove non è difficile ottenere una mezza giornata di ferie per andare a pescare, o dove può guadagnare molto per pagarsi la casa.

Tra tutte queste alternative, c’è anche chi cerca un ambiente nel quale sia possibile crescere professionalmente, ove si impara di più, nel quale l’impegno personale si traduca in riconoscimenti, reddito, responsabilità. Solo in questo caso vale la pena di giocare tutte le proprie carte, per perseguire risultati importanti in termini di rispetto, di possibilità di apprendimento, di salario, di opportunità. Nel moratorium, insomma, in molti casi si intravvede la ricerca del luogo e dell'ambiente in cui impegnarsi è fruttuoso, in cui far fruttare al meglio il proprio impegno. E questa ricerca, come è ovvio, ha proprio la natura di quella condizione posta in modo unilaterale e preliminare che caratterizza la cautela. Non è diversa la ricerca di mobilità da posto di lavoro a posto di lavoro. Anche in questo caso le motivazioni possono essere diverse, ma anche in questo caso, spesso, mobilità significa ricerca delle condizioni ove il proprio sovrappiù di impegno possa dare frutti copiosi. L'ultimo caso che conviene citare è quello più immediatamente interpretabile. È il caso del lavoratore che, essendogli richiesto un impegno particolarissimo nello sviluppo di una nuova linea di prodotti, o in un nuovo mercato, chieda all'imprenditore di diventare socio in una nuova impresa, appositamente costituita, che di quel prodotto o di quel mercato si occupi. In questo caso il lavoratore, con la evangelica “prudenza del serpente”, chiede che l’imprenditore prenda impegni precisi circa una equa divisione del sovrappiù, ed abbandoni la discrezionalità consueta per praticare una strada di impegni che possono essere validati dal ricorso alla giurisdizione.

“Per lanciare la nuova linea di prodotto alla quale avevamo pensato bisognava correre davvero molto. Se ero io a dover correre, volevo essere sicuro che almeno una parte dei

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guadagni finisse davvero nelle tasche mie. Per questo ho chiesto di diventare socio nella impresa che doveva produrre il nuovo frangizolle.”

Si può quindi formulare le regola che governa questi comportamenti, e che è analoga a quella già citata nel caso dei rapporti tra imprese:

È cosa buona − e ideologicamente corretta − contribuire al meglio delle proprie capacità al successo dell'impresa nella quale si lavora. Ma i comportamenti prudenti sono ammessi e legittimi. Il fatto che il lavoratore chieda garanzie di avere adeguate contropartite al proprio impegno non testimonia scarsa stima e fiducia nell'imprenditore, ma è semplicemente il segno di una stimabile avvedutezza.

Anche in questo caso, come in quello discusso nel paragrafo precedente, il senso della regola è ben chiaro. L'impegno massimo è soggetto a contrattazione e a condizioni. I due soggetti godono di pari dignità, e liberamente contrattano. La condizione di lavoratore subordinato non implica reverenza e riconoscenza. E si nega, quindi, ogni obbligazione assorbente ed imperativa nei confronti del proprio datore di lavoro. Anche stavolta il contenuto della regola risulta evidente quando si rifletta al fatto che in altri ambienti culturali e sociali lavorare per qualcuno implica l'accettazione di una condizione di subordinazione e di dipendenza che non solo impedisce di porre condizioni di sorta, ma si traduce in subordinazione ideologica, in clientelismo politico, in dipendenza culturale.

Le regole di interazione

La prima, e più importante, regola di interazione è che l’impresa deve porre in essere un regime gerarchico che garantisca ai lavoratori un potere di decisione sul “tipo di innovazione di prodotto e di processo che viene adottato”, sulla "progettazione dell'innovazione e delle sue forme di applicazione nell'impresa". Questo richiede che i lavoratori abbiano un ruolo rilevante nella definizione dei nuovi prodotti, nella identificazione delle tecnologie da adottare, e nella ottimizzazione dei processi produttivi.

"Oggi l'impresa non può più decidere in modo autonomo quali sono i prodotti da costruire, ma deve guardare al mercato e, visto che siamo tutti consumatori, anche i lavoratori possono dare un loro contributo per migliorare i prodotti che poi saranno destinati anche a loro." "Poi ho passato tutti i disegni ai miei operai ed ho accettato le loro osservazioni, perchè chi ci lavora dentro, proprio manualmente, può dare senz'altro un ottimo contributo per ciò che riguarda il lavoro e la gestione interna." "Da noi è molto importante il confronto quotidiano con il lavoratore, il quale è in grado di dare giudizi su quello che sta facendo, su quello che sta nascendo, per cui, diciamo, è sempre un confronto molto stimolante."

Un regime di partecipazione che si realizzi sotto questo profilo offre premi sostanziali sia al lavoratore che all'imprenditore. Il primo esce da un regime gerarchico autoritario ed incomprensibile, che fa referenza solo a sè stesso, e vede valorizzate le proprie capacità tecniche ed il proprio intuito. Il secondo migliora il proprio prodotto, e l'efficienza del processo produttivo di cui è responsabile. Ma anche i prezzi che ciascuno paga sono alti. Se è vero che agli operai si richiede di dare un elevato consenso ed un elevato impegno per il conseguimento degli obiettivi dell'impresa anche gli impegni dell'imprenditore non sono da poco. Egli deve passare da una gerarchia basata sull'autorità ad una gerarchia basata sull'autorevolezza, che è assai più faticosa e difficile. L'imprenditore deve accettare

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di sottoporre a discussione le soluzioni alle quali è pervenuto, deve impegnare una parte non irrilevante del suo tempo in un rapporto alla pari con i suoi dipendenti, per sentire la loro opinione e le loro proposte. Non si tratta, semplicemente, di leggere quanto è stato scritto in un foglio e messo in buchetta destinata a raccogliere i suggerimenti. In tutto questo, come è facile notare, vi sono molti tratti di quella "partecipazione culturale organizzativa" di cui parla Baglioni. C’è, in questo, una importante implicazione, che caratterizza fortemente l’organizzazione del lavoro. Per lasciare spazio a quelle "dosi addizionali di impegno" di cui si è detto, occorre cioè che il regime di rapporti gerarchici perda di specificazione e di dettaglio sino a sconfinare nell'informale e nel non precisato. Occorre, in altri termini, che, abbandonando le ipotesi fordiste, l'impresa acquisti la consapevolezza di non conoscere con precisione l'insieme delle alternative d'azione disponibili, e di non riuscire a tenere sotto controllo tutte le variabili coinvolte nel processo produttivo. Vista sotto questo profilo, l'informalità richiede precise regole di comportamento, che lasciano agli operai una forte autonomia operativa. L’informalità diventa, pertanto, una modalità particolare di organizzazione, che si presenta come una particolare strategia cooperativa volta a ridurre l'incertezza dell'ambiente e ad assicurare flessibilità. L'informalità che garantisce la gestione degli imprevisti e delle varianze va quindi considerata come una azione organizzativa che si avvicina al coordinamento per mutuo adattamento, che non ritiene di specificare dettagliatamente, come invece è proprio del taylorismo, le sfere d'azione e decisione.

"Gerarchie? Ogni operaio gestisce tutta una serie di macchine dall'a alla z, e noi non facciamo un solo tipo di macchine, ma molti tipi. C'è il capo officina che distribuisce il lavoro anche quando non ci sono i titolari, poi ognuno deve montarsi la propria macchina." Abbiamo mentalità aperta coi dipendenti; si coinvolgono sempre, se si tratta di qualcosa esterna che non sono competenti no, ma sulle cose dell'officina ci si riunisce tutti insieme e se ne parla." "Il controllo lo faccio un pò io, ma ognuno è responsabile di quello che fa. È il lavoratore stesso che si sente in dovere di fare le cose con professionalità." "Se c'è un problema i dipendenti sono coinvolti, lo sentono come loro, se una spedizione è in ritardo si danno da fare per mandarla via in tempo, conoscono le esigenze di qualità dei nostri clienti senza bisogno di essere seguiti continuamente."

Alla regolazione dell’informalità si può arrivare per vari percorsi. Talvolta le regole sono tutte implicite, e trovano la loro legittimazione nel costume e nello stile di lavoro dell’impresa. Ma in altri casi le regole che governano la discrezionalità possono essere contrattate esplicitamente, in modo individuale o collettivo. In questo caso le regole non sono frutto della spontaneità o dello spirito comunitario, ma una costruzione sociale che può essere man mano modificata, ed adattata ad esigenze diverse e mutevoli. In realtà, tuttavia, i casi del primo tipo sono molto rari. Quasi sempre una organizzazione del lavoro informale è una conquista difficile, da perseguire con tenacia e ostinazione, contro un imprenditore riluttante, disposto soltanto a chiedere la partecipazione, e non a pagarne i prezzi. Ed anche quando sia stata realizzata, è sempre vittoria effimera, da consolidare e riaffermare nel quotidiano alternarsi delle vicende aziendali. In questo senso, quindi, il conflitto è la garanzia profonda della partecipazione, e l’antinomia di cui si è detto all’inizio verifica ancora la sua paradossale efficienza. Senza la possibile sanzione del conflitto la partecipazione è buona volontà e gentilezza di cuore, oppure scambio ineguale e resa incondizionata. Pensare che la caduta del fordismo possa naturalmente portare a questo, senza che lo scontro abbia un ruolo decisivo, significa ipotizzare che le condizioni tecniche della produzione e l'urgenza di essere competitivi determinino da sole il modo di produrre. Ancora una

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volta sarebbe la tecnica che prevale sull'uomo. Sarebbe la paura delle quattro tigri a determinare le condizioni di lavoro in fabbrica. In ogni caso, a prescindere dalla loro origine, derivino esse dalle lotte operaie o dalla consapevolezza degli imprenditori, la partecipazione dei lavoratori alla progettazione del prodotto ed alla organizzazione del lavoro, e la discrezionalità nello svolgimento dei compiti, hanno una implicazione importante, che è indissolubilmente legata alla organizzazione informale. È il riconoscimento esplicito che le uniche differenze tra imprenditore e lavoratori sono quelle del ruolo del ruolo e dell’autorità, e che non vi sono, invece, differenze di autorevolezza, di levatura intellettuale o di rango. È, in sostanza, il riconoscimento reciproco della pari dignità. Nel contesto organizzativo descritto, autonomia e discrezionalità dei lavoratori non dipendono dalla benevolenza dell'imprenditore o del dirigente, ma dalla consapevolezza che i risultati di qualità ed efficienza dipendono dal coinvolgimento attivo dei lavoratori. In questo contesto gli operai non sono più terminali passivi; ma protagonisti, sia pur nell'ambito di differenze di ruolo, che sono accettate in quanto di carattere funzionale, cioè basate sulla competenza. L'imprenditore ha scelto liberamente di perseguire la competitività percorrendo questa strada. Come premessa e risultato di questa situazione, occorre che i lavoratori e gli imprenditori si riconoscano come persone di pari dignità, diverse e complesse, che da pari a pari si cimentano e si esprimono non solo in fabbrica, ma anche in un ampio arco di interessi e valori, e che anche dalla ricchezza della vita associativa, politica, culturale e ricreativa traggono materia per la riproduzione delle competenze, per lo scambio di idee, ed anche per costruire i loro rapporti personali.

"Chi ha solo il lavoro nella vita è limitato, non può rendere. Chi si distrae vede meglio, ha le energie per voler arrivare." "Da noi prevale il tipo di operaio che non vede solo il lavoro, che non ne fa l'unica ragione. Ci vuole tenacia nel lavoro, ma bisogna anche aver progetti propri." "Non è vero che le aziende preferiscono i secchioni, i maniaci del lavoro; questi anzi sono considerati assillanti, pesanti, rigidi. Chi è più equilibrato e spontaneo dà risultati migliori" "Abbiamo bisogno di gente cosciente che mandi avanti il lavoro, se il caso, anche contro il parere dei capi"

Ed è sufficiente, questa condizione, a eliminare ogni ipotesi di paternalismo, poiché il paternalismo presuppone sempre il riconoscimento di differenze profonde, che segnano non solo la vita di fabbrica ma anche i rapporti sociali fuori dall’impresa.

La consapevolezza che lo scontro anche duro è sempre possibile sta a fondamento non solo della propria condizione di lavoro e del proprio reddito, ma anche della stima che uno ha di sè, in fabbrica e fuori dalla fabbrica, quando lavora e quando con gli amici va a giocare bocce, o alla sezione di partito, o a pescare. Tutto questo può essere tradotto in una regola che ha una valenza assai ampia:

Condizione della partecipazione è la consapevolezza, da parte di tutti, che il ruolo svolto all'interno dell'impresa − di imprenditore o di lavoratore alle dipendenze − non implica alcuna gerarchia di subordinazione culturale o politica, e non comporta necessariamente un giudizio di inferiorità sul piano professionale. All'interno dell'impresa è necessaria una struttura gerarchica, ma nel proprio lavoro ciascuno ha ampi spazi di discrezionalità e di iniziativa, si assume la responsabilità del proprio operare ed è disponibile a pagare il prezzo dei propri errori

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. Ma non è soltanto un cambiamento nel regime delle relazioni gerarchiche che l'imprenditore deve affrontare se vuole avere i vantaggi i vantaggi della partecipazione. Ci sono anche problemi importanti connessi con la distribuzione del sovrappiù. Ed è singolare che a questi si arrivi per vie traverse, attraverso itinerari logici e regole di comportamento che, si potrebbe dire, "la prendono molto alla lontana". In particolare, le garanzie richieste all'imprenditore sotto questo profilo sono fondamentalmente due. Egli deve impegnarsi a dare con chiarezza e verità informazioni puntuali circa le vicende che riguardano l’impresa ; e deve anche impegnarsi ad uno stile di vita che abbia caratteri non irrilevanti di sobrietà. Verità nelle informazioni circa l’andamento dell’impresa significa, innanzitutto, chiarezza di rapporti.

"Non abbiamo segreti per nessuno, non è che se c'è qualcosa lo teniamo nascosto per tirarlo fuori al momento opportuno."

"Io devo fornire l'operaio di tutte le informazioni, perché si senta tranquillo nel suo lavoro."

Per l'imprenditore dare informazioni corrette sulle difficoltà e sui successi dell'impresa significa anche porre le premesse per accettare un qualche tipo di legame tra produttività e salari, o per introdurre qualche forma di partecipazione agli utili. Accade, cioè, che quando l’impresa è in crisi, l'imprenditore può invocare solidarietà e sostegno e può chiedere che l’aumento di salari sia limitato al minimo previsto dai contratti nazionali. Ma, per ottenere questo risultato occorre anche che quando la situazione è favorevole l’impresa non si rifiuti di concedere aumenti di salario anche consistenti. Alle rivendicazioni degli operai, in clima di verità sulle condizioni oggettive di floridezza, non si può rispondere che l’aumento non è possibile. In sostanza, per gli operai c’è un prezzo da pagare quando le condizioni sono sfavorevoli, ed un premio quando le condizioni sono favorevoli. Come ha dichiarato un operaio di Parma:

"Se l'azienda va male, non ne parliamo neppure, ma se va bene vogliamo i soldi."

Ragionamenti simili possono farsi con riferimento all'impegno di "sobrietà" cui l’imprenditore deve assolvere. Ciò che emerge dall'esame degli atteggiamenti e dei comportamenti, dalle dichiarazioni e dalle recriminazioni o dai compiacimenti, è che in questo contesto si ammette, come fatto naturale, che l'imprenditore abbia redditi più alti del lavoratore, (che si misurano con una casa diversa, con una casa in montagna e forse anche una al mare, con una Mercedes invece che una Fiat), ma che non sono ammessi gli sprechi o i consumi troppo opulenti. Chi si gioca i profitti a Montecarlo non ha il diritto e non ottiene le "dosi addizionali di impegno" che sono il segno della partecipazione. Il punto di sostanza, al fondo, è che l'imprenditore può chiedere che i suoi lavoratori facciano tutto ciò che possono per difendere i destini dell'impresa solo se, come si dice , anche lui "ha fatto la sua parte". E significa, questo, che quando l'impresa fa profitti, deve fare anche investimenti, e che i lavoratori devono lavorare con i macchinari migliori che la tecnologia ed il mercato rendono disponibili. La sobrietà che viene richiesta non è uguaglianza nei livelli di reddito e di consumi. È, invece, l'impegno a reinvestire gli utili nella misura che consente di tenere l'impresa sulla frontiera dell'efficienza. Senza questo impegno, la richiesta di partecipazione viene ritenuta un imbroglio, ed il padrone si ritiene inaffidabile.

“io ci metto della pelle, ma lui deve darmi il tornio a controllo numerico migliore di tutti.”

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Le due condizioni sopra esposte − di trasparenza e verità nelle informazioni, e di sobrietà nei costumi di vita dell’imprenditore − si traducono quindi in un impegno alla partecipazione nei profitti e in un impegno al reinvestimento degli utili. La regola corrispondente a quanto detto finora può essere enunciata nel modo che segue:

L'imprenditore deve assumere un impegno di verità (da cui deriva una dinamica salariale fortemente connessa con il merito e con il successo dell'azienda), ed un impegno di sobrietà (da cui deriva un tasso di reinvestimento degli utili elevato, sino a garantire, se queste sono le conzioni le condizioni dell'impresa, la migliore tecnologia disponibile.

Le sanzioni

Le sanzioni che possono colpire l’imprenditore inadempiente sono due. La prima viene decisa dall’operaio, che può far ricorso alla voice, o può ricorrere all’exit ed abbandonare l’impresa, portandosi dietro tutto il patrimonio di conoscenze che ha accumulato, che l’imprenditore sarà costretto a ricostruirsi. Di questo pericolo gli imprenditori sono acutamente consapevoli.

“Il mio patrimonio principale è la forza lavoro, che io ho cresciuto da tanti anni. Queste donne che vedete lavorare bisogna difenderle, anche quando viene la crisi, perché sono loro che fanno l’azienda.”

La seconda sanzione viene decisa ed erogata dalla comunità. Ad un imprenditore che non rispetta i patti sarà sempre più difficile assumere operai per bene e capaci. La sua capacità di reclutamento si abbatte in modo radicale, ed egli sarà costretto a lavorare con manovali poco qualificati che nessuno è disposto ad assumere. Anche per il lavoratore non disponibile ad impegnarsi le sanzioni sono pesanti. Man mano che la sua carriera di lavoro progredisce, egli avrà sempre maggiori difficoltà nel trovare una occupazione interessante, non avrà occasioni di mobilità professionale, e godrà di scarsa considerazione perfino tra i colleghi.

4. Una politica per la cooperazione e la partecipazione

Nelle pagine precedenti ci si è chiesti perché nei distretti, nonostante la fortissima concorrenza, vi sia ampia collaborazione tra le imprese, e nonostante il conflitto, vi sia di solito un clima di partecipazione dentro le imprese. In prima approssimazione per spiegare questo stato di cose si è fatto riferimento ad un sistema assai complesso di cautele, di premi e di sanzioni. In questa sede, poichè l'obiettivo non è più semplicemente quello di registrare quanto accade, ma quello di progettare misure ed interventi efficaci, occorre tentare di dare una risposta più puntuale. A questo fine, forse può essere utile schematizzare quanto accade nei distretti facendo uso del dilemma del prigionero. Di questa situazione classica, infatti, le relazioni che legano tra loro gli attori del distretto hanno spesso i caratteri.

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− La rottura della fiducia, quando sia praticata da ambedue le imprese impegnate nello scambio, o dai lavoratori e dall'imprenditore, porta al peggiore dei risultati prevedibili, giacché nessuno ottiene i risultati desiderati, nonostante abbia impegnato energie e risorse.

− La cooperazione, che passa per il reciproco mantenimento degli impegni, garantisce un risultato positivo per entrambi.

− La defezione isolata garantisce il massimo di successo. Il subfornitore che riceva un modello da produrre, lo produca per proprio conto e lo venda col suo marchio realizza il massimo dei profitto. Così accade anche all’impresa committente che paghi il prezzo minimo consentito dal mercato, o dilazioni al massimo i termini di pagamento. Così accade anche all'imprenditore che, avendo sollecitato ed ottenuto il massimo di impegno da parte dei suoi operai, si rifiuti poi di onorare il contratto implicito che stava alla base della partecipazione operaia.

Se questo è il quadro, e se la buona volontà e la positiva influenza dei geni prevalenti nel patrimonio cromosomico emiliano o veneto viene ritenuta trascurabile, quale è la costellazione di interessi che può garantire una così netta prevalenza della collaborazione? La prima spiegazione, e quella più facilmente visibile, è che il riferimento deve essere non ad un gioco one shot, ma ad un gioco ripetuto. Chi tradisce la fiducia riposta in lui, come si è detto, perde il cliente, o il fornitore, o la possibilità di avere il meglio dai suoi operai, o la possibilità di lavorare in condizioni migliori e con un reddito più alto. Nel gioco giocato una volta sola egli ha guadagnato più che con la cooperazione, ma non è così nel gioco ripetuto, quando prezzi e guadagni vengano conteggiati su un periodo lungo, di cui né l’uno né l’altro dei partner conoscano il termine. Il caso più semplice, a questo proposito, è quello della fissazione del prezzo di fornitura. Un prezzo molto basso, che in certe condizioni di mercato può non arrivare a coprire i costi fissi del subfornitore, rappresenta per l’azienda committente un guadagno rilevante. Se invece il calcolo di convenienza viene riferito ad una relazione continuativa, dovrà prevalere la consapevolezza che

“un fornitore morto non serve a nessuno.”

ed il prezzo pagato al subfornitore dovrà essere tale da consentire non solo salari adeguati alla qualità della manodopera richiesta, ma anche investimenti sufficienti a rimanere sulla frontiera della tecnologia disponibile. Allo stesso modo, chi richieda partecipazione operaia può rifiutare un congruo aumento di salario quando l'impresa ha successo. Ma può farlo soltanto una volta. In una relazione continuativa l'imprenditore deve mantenere i suoi impegni o deve rassegnarsi a perdere tutti i differenziali di competitività che derivano dall'impegno speciale dei lavoratori. In più casi, dunque, l'organizzazione produttiva del distretto può essere spiegata nel modo in cui si è detto, e la cooperazione può essere considerata frutto semplicemente di una continuità di rapporti che non lascia spazio all'opportunismo. In fondo, in schemi analitici come quelli appena accennati, la variabile che spiega molte cose è semplicemente la reputazione, ed il grande bisogno di reputazione che segna la vita degli attori del distretto. Accanto a questo, tuttavia, c’è forse anche un’altra struttura profonda. L’idea è che anche dentro il distretto, quando non sia praticata da ambedue le parti, il venir meno alla fiducia rende più della cooperazione; ma la struttura dei pay-offs viene alterata in maniera profonda, sino a cambiare il rapporto tra gli attori, nella sua struttura essenziale. Rispetto ad una situazione “senza regole” (per quanto sia difficile immaginare un luogo o una situazione così fatta), le regole del distretto sono tali da diminuire i rischi della fiducia e da aumentare sia le sanzioni connesse alla rottura dei patti che i premi al mantenimento della parola data, col risultato di rendere comparativamente più facile e più proficua la cooperazione. I codici di comportamento del distretto, in altri termini, avrebbero caratteri specifici e

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particolari, tali da favorire ed incentivare fiducia e cooperazione, esaltando per questa via, le probabilità di successo di tutti gli attori. Quanto si è detto nei paragrafi precedenti sembra confermare questa ipotesi. Le cautele di cui si è detto rappresentano ovviamente un modo di ridurre il rischio della defezione unilaterale. Quando le proprie commesse o i propri ordini siano suddivisi tra più fornitori o tra più clienti, nessuna defezione può essere così rilevante da mettere a rischio la vita dell'impresa. Come si è detto, comportarsi in questo modo ha dei costi, ma agevola un regime di fiducia. Le norme che nel distretto regolano il caso di una produzione “sbagliata” sono un altro esempio di tutela del rischio (che questa volta non deriva dalla cattiva volontà o dalla scorrettezza, ma dalle difficoltà di comunicazione). Quando il subfornitore tagli le asole troppo grandi il committente pagherà la materia prima sprecata, e il fornitore ci rimetterà soltanto il suo lavoro, se proprio il prodotto non può essere recuperato. Le regole sembrano garantire ragionevolmente entrambi i contraenti, con una divisione equa delle perdite. Ed in ogni caso, poichè le regole prevedono visite reciproche frequenti, e consegne a lotti molto piccoli anche quando il volume dell’ordine sia rilevante, il pericolo che una eventualità di questo genere si verifichi è assai basso, anche se non è esperienza rara, vista la estrema informalità dei contratti e della definizione delle specifiche. Poiché le visite reciproche costano tempo ed impegno, anche in questo caso vi è un leggero aumento dei costi, che agevola la fiducia e che probabilmente viene più che compensato dalla maggiore collaborazione che ne deriva. Non solo il rischio di defezione individuale è diverso rispetto ad una situazione "normale", ma sono diversi anche i premi alla cooperazione reciproca. Per cominciare, questi premi sono finemente graduati rispetto agli sforzi compiuti. Si prenda in esame l’esempio citato in cui un artigiano produttore di macchinari per le fabbriche di piastrelle chieda di mettere a punto la sua nuova macchina in una fabbrica. Il premio che egli ricava dalla cooperazione, se realizza il fine che si prefigge, non è rappresentato solo dai profitti che egli realizza vendendo la nuova macchina a chi gli ha permesso di sperimentarla. Poiché si riconosce che la dose d'impegno che l'artigiano ha investito nella sua ricerca è maggiore dei costi sopportati dall'impresa che lo ha ospitato, le regole del gioco prevedono che l'impresa in cui l'artigiano ha messo a punto il suo nuovo macchinario goda soltanto di un diritto di primogenitura. Sarà lui ad usarlo per primo, con tutto il know how accumulato nella fase di sperimentazione. Ma il suo vantaggio è solo temporaneo, e l’artigiano potrà vendere la nuova macchina a chiunque altro, in un mercato più vasto, aumentando corrispondentemente i suoi profitti. Allo stesso modo, può essere diverso per entità ed importanza il premio che ricompensa l'impegno di un operaio al successo dell'impresa nella quale egli lavora. Si passa dai riconoscimenti in termini di occasioni di apprendimento e di formazione, ai riconoscimenti sul salario e sul ruolo, alla proposta di divenire socio nell'impresa o in una nuova impresa creata ad hoc per sfruttare una idea o una occasione di mercato particolarmente promettente. Oltre alla accurata e graduata definizione dei premi, come si è già posto in evidenza più volte, la situazione distrettuale garantisce spesso anche che la cooperazione porti con sé frutti particolarmente copiosi. La partecipazione operaia impone il reinvestimento degli utili, ed è per questa via garanzia di successo dell'impresa, e quindi di salari e profitti più alti di chi non persegue ad un tempo ampia collaborazione e alti livelli tecnologici. La cooperazione tra imprese porta con sé la stabilizzazione dei prezzi, e la garanzia di un certo volume di ordini, e la precisione nelle consegne, che sono, anche queste, tutte condizioni favorevoli al buon andamento dell'impresa. Anche alla pratica diffusa, riconosciuta ed accettata, di avere molti clienti o molti fornitori, va riconosciuto un valore particolare e positivo, perché essa consente di fatto di usare il know how acquisito su una platea ampia, tale da ricompensare in modo allargato lo sforzo fatto per apprendere. Occorre tenere a mente la norma che, così facendo, non si

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debbono tradire segreti o pratiche che rappresentano un vantaggio comparato rispetto ai concorrenti del fornitore o del clienti. Ma le numerose occasioni di convergenza tecnologica del distretto garantiscono spesso che ciò possa accadere senza danni per alcuno. Le istituzioni e le regole del distretto, rispetto ad una situazione “normale”, aumentano anche l’entità delle sanzioni. Tanto maggiore è lo sforzo fatto “per imparare a lavorare assieme”, tanto maggiore è la perdita che ambedue i contraenti ne derivano in caso di rottura della fiducia. Più in generale, si può dire che col crescere dei premi aumentano automaticamente le sanzioni, perchè la rottura della fiducia e la defezione, in tanto in quanto implicano la perdita di un premio sempre più alto, comportano anche una sanzione crescente. Più in generale ancora, a proposito dell’entità dei premi e delle sanzioni, vale una considerazione di Russo (1996b), che mette in evidenza che nel distretto ciascun attore “gioca molti giochi contemporaneamente”. Ogni fornitore ha molti clienti, talvolta diversi fornitori che lavorano per lui, collocati più lontano dalla linea del mercato del prodotto finito, ed ogni cliente ha molti fornitori, e spesso molti clienti. Ogni attore gioca su tanti tavoli allo stesso tempo. Ed il punto è che lo stile di gioco di ciascun giocatore, su ciascuno dei tavoli aperti e praticati, è noto anche ai giocatori degli altri tavoli. Lo stile di gioco su un tavolo, la correttezza o la scorrettezza su uno qualunque dei tavoli, si fa sentire su tutti i tavoli, in un gioco di effetti che si dilatano nello spazio e nel tempo. La vicinanza fisica tra i giocatori, i frequenti cambiamenti di ruolo (da impresa finale a subfornitore e viceversa), la mancanza di linee di divisione giocate sulla classe di appartenenza, la straordinaria mobilità sociale generano quell’ambiente di rapida diffusione delle informazioni di cui si è detto. La comunità viene messa in condizioni di dare un giudizio ragionevole sui casi controversi. La manipolazione delle informazioni diventa particolarmente difficile ed in definitiva le conseguenze di un certo operato si amplificano a dismisura, nel bene e nel male. Rispetto ad un ambiente “non distrettuale” la struttura dei pay-offs viene quindi fortemente alterata nel modo in cui si è detto, e le probabilità di successo delle cooperazione ne risultano corrispondentemente aumentate. Il fatto che in questi casi non ci si trovi semplicemente davanti ad un gioco ripetuto, ma ci si trovi davanti ad un cambiamento dei valori relativi dei pay-offs del gioco, consente forse di affrontare più agevolmente un problema assai rilevante anche dal punto di vista operativo e della politica industriale. Che un gioco cooperativo consenta vantaggi per tutti , quando lo si giochi nel lungo periodo, è un dato certo, di cui tutti sono consapevoli. Ma se è così, perché questo stile di gioco non si afferma in ogni luogo? Perché il gioco cooperativo non diventa costume prevalente in tutte le strutture economiche? Affermare che le regole del gioco dei distretti sono state scritte dalla storia non basta, ed è una risposta analiticamente non soddisfacente. Non si dice, in questo modo, perché la cooperazione prevalga in certi luoghi e non in altri, e, seppure implicitamente, si suggerisce che i codici scritti dalla storia nelle comunità dei distretti sono irriproducibili, così che nessuna comunità può scegliere oggi di praticarli se non li ha già praticati in passato. In questo modo, inoltre, si chiude ogni spazio alla iniziativa politica. Come dice beffardo Sabel, non vi è alcun grado di autonomia "nella scelta dei propri antenati". Per contro, chiedersi da dove deriva la diversa struttura dei pay offs che prevale nei distretti suggerisce alcune linee di interpretazione interessanti. In particolare, è utile concentrare l'attenzione su due punti. Il primo, di cui si è appena detto, è che la cooperazione è favorita dal fatto che si verificano congiuntamente due condizioni: la rapida diffusione delle informazioni ed una ricca articolazione dei rapporti che ciascuno intrattiene con gli altri. Come si è posto in evidenza, questa situazione non soltanto agevola il riconoscimento dei comportamenti opportunisti, ma amplifica le conseguenze delle scelte di lealtà o di scorrettezza compiute da ciascuno, alterando quindi per questa via i pay-offs relativi al corso

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di azione prescelto. Tanto più i comportamenti degli agenti sono noti, e rapidamente visibili le loro eventuali modificazioni nel bene e nel male, tanto più agevole e probabile è la cooperazione. Conviene tenere a mente che la fitta rete di comunicazione non deriva soltanto dalla concentrazione di attività produttive su un territorio limitato, né soltanto dalla frammentazione delle attività produttiva (che inevitabilmente aumenta il numero di contratti in cui ciascuna impresa è impegnata), ma anche dalle istituzioni che operano nell'area. Associazioni imprenditoriali attive e democratiche offrono frequenti occasioni di incontro e di discussione, in cui circolano rapidamente giudizi e notizie. I partiti politici, o le associazioni di ogni genere (culturali, religiose, di volontariato, o perfino per il tempo libero), rappresentano anche loro una trama di scambi e di rapporti personali dai quali la communis opinio sulla moralità professionale di un operatore viene rapidamente confermata o modificata. Tutte le istituzioni che aumentano le qualità professionali degli agenti (dalle scuole, ai centri di servizio, ai circoli di qualità) contribuiscono a che le valutazioni compiute caso per caso siano più competenti e più attente, compiute da una platea più ampia di giudici, e rapidamente trasmesse in tutte le articolazioni della compagine sociale. L'altro fattore che induce un cambiamento nella struttura dei pay offs è rappresentato dal codice di comportamento che vige nel distretto. Le regole di questo codice sono certo state scritte nel passato, nella storia del territorio, anche se vengono continuamente modificate. Ma non serve a nulla affermare indistintamente che esse sono state scritte dalla storia, con l'unica conclusione politica che, come sostiene Bufalino in singolare accordo con il Sabel già citato, "conviene, a chi nasce, molta oculatezza, nella scelta del luogo, dell'anno, dei genitori" (L'Unità, 10 marzo 1996). Occorre invece notare, anche in questo caso, il ruolo rilevante che nell'elaborare queste regole hanno svolto le istituzioni. Le associazioni degli artigiani, particolarmente forti, hanno in alcuni casi propagandato e diffuso regole di cautela. La "regola del 20%" di Lorenz ("non prendere mai più del 20% delle proprie commesse da un singolo committente, se non vuoi finire come ostaggio nelle sue mani") è stata oggetto di discussione in molte riunioni, e proposta e diffusa come regola di gestione oculata. In generale, l'autorevolezza dei maggiorenti della comunità viene legittimata da alcune istituzioni che hanno un ruolo non irrilevante. I consorzi fidi, per esempio, assegnano ad artigiani esperti e di buona fama il compito di concedere prestiti a basso tasso di interesse, con criteri di affidabilità che valutano la richiesta di credito non con riferimento alla consistenza patrimoniale del richiedente, ma con riferimento alla sua serietà ed alla sua capacità professionale. In altri casi, comportamenti di cooperazione sono indotti e proposti come modello da imitare dagli organismi politici della comunità. Nei casi di crisi aziendale, per esempio, l'opera di mediazione delle istituzioni locali e le iniziative della cittadinanza a favore dell'impresa in difficoltà sono sempre state subordinate ad un atteggiamento di ragionevole disponibilità delle due parti in conflitto. Il sindaco si impegnava ad esercitare pressioni forti presso le banche locali, o presso altri imprenditori che potessero contribuire a salvare una certa impresa in crisi, soltanto se i lavoratori e l'imprenditore erano disponibili a "fare ciascuno la propria parte", con un impegno forte. Nella storia dell'apparato industriale emiliano hanno avuto grande rilievo, fino ad entrare nella mitologia locale, alcuni importanti salvataggi di imprese in crisi che sono stati compiuti con una fideiussione del comune che garantiva un prestito concesso dalle banche ai lavoratori dell'impresa che si erano costituiti in cooperativa, e che avevano trasformato le loro liquidazioni in capitale dell'impresa. È stato, anche questo, un incentivo ed un insegnamento alla partecipazione. All'aumento della trasparenza e della visibilità dei comportamenti contribuiscono anche le numerose mostre, le fiere ed i concorsi organizzati dagli stessi enti locali, che hanno spesso una valenza soltanto locale (da piccolo municipio che festeggia il patrono), ma che valgono a testimoniare stima e considerazione per chi produce un buon vino, o una bella macchina per raccogliere il fieno, o una bella copia delle lampade di Tiffany, da vendere cara in ogni parte del mondo. In questa stessa direzione si

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muovono le iniziative della Regione per diffondere la certificazione d'origine dei prodotti agricoli e dell'industria alimentare, o per diffondere la certificazione d'impresa seconda le norme ISO 9000. Un ruolo importante, nella prospettiva che viene qui esaminata, anche i contratti di lavoro e le leggi formali dello Stato. I rapporti tra lavoratori ed impresa, o quelli tra imprese grandi e piccole, sono stati caratterizzati da momenti di conflitto spesso molto duro. Questi fenomeni sono stati particolarmente frequenti nell'area dei distretti dell'Italia centrale e settentrionale, ove sindacati e associazioni artigiane hanno stipulato contratti regionali e locali molto prima che nel resto del Paese, garantendo salari e condizioni di lavoro quasi uguali a quelli delle grandi imprese. Questo risultato, nello schema di analisi che è stato prima proposto, può essere letto come un abbattimento dei rischi di defezione unilaterale da parte dell'imprenditore. L'arco delle azioni possibili che in questo contesto resta aperto all'imprenditore è meno ampio di quello precedente, e le tentazioni di sfruttamento massimo ne risultano ridotte. Allo stesso modo, le leggi che sull'onda del movimento del 1968 garantiscono un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, e proibiscono i licenziamenti che non avvengono "per giusta causa" hanno ridotto la libertà d'azione dell'imprenditore, delimitando il campo delle sue reazioni possibili e del suo opportunismo. Lo stesso effetto, ma questa volta nei rapporti tra imprese, avrebbe una legge che imponesse ai committenti di pagare i fornitori entro un certo termine stabilito.1 In sostanza questi provvedimenti valgono a ridurre la fondamentale diseguaglianza tra datore di lavoro e lavoratore − o tra cliente e fornitore − e quindi facilitano l'emergere di una condizione di collaborazione. Vale, tutto quanto si è detto sinora, a specificare il modo con cui la storia ha scritto le regole dei distretti. La legge ed i contratti hanno costruito un quadro di riferimento. Una regolazione più raffinata, basata su norme solo apparentemente meno cogenti, ha fissato norme non scritte, applicate con saggezza sotto il controllo della comunità, per far fronte al problema della ragolazione in una materia così difficilmente regolabile come la partecipazione in fabbrica o la cooperazione tra imprese. Sono così venuti diffondendosi ed affermandosi contratti tipo non scritti, la cui applicazione è controllata da una comunità di persone competenti che sanno quello che accade. Ma a questo punto è sicuro che questo processo di fissazione e costruzione delle norme − scritte e non scritte − può essere perseguito e gestito da istituzioni consapevoli, che possono mimare e replicare processi di regolazione perseguiti forse senza piena consapevolezza nel passato in alcune aree particolari, per creare condizioni di partecipazione e di cooperazione. Le misure di politica industriale per indurre cooperazione e partecipazione in determinate aree o in determinate regioni o paesi appaiono possibili da praticare. Le istituzioni possono certamente avere un ruolo nel creare, o favorire, o incentivare la cooperazione. Riferimenti bibliografici Barca, F. (a cura di) 1997 Storia del capitalismo italiano: dal dopoguerra a oggi, Roma, Donzelli.

1 Naturalmente è anche possibile pensare a provvedimenti legislativi che, difendendo eccessivamente i lavoratori o le piccole imprese, inducano in costoro comportamenti opportunistici. È il caso, per esempio, che si è verificato in Italia in alcuni comparti del settore dei pubblici dipendenti. Ma questa è un'altra storia.

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