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Prospettive e problemi dell’energia nucleare nel mondo di Luigi De Paoli 1. L’energia nucleare tra aspettative deluse e speranze non morte Quando a metà del secolo scorso apparve all’orizzonte la possibilità di sfruttare su larga scala l’energia nucleare a “fini pacifici” furono in molti a scomodare il mito greco di Prometeo: l’uomo stava per rubare una seconda volta il fuoco agli dei. La prima volta era bastato vincere la paura, ma la seconda volta invece bisognava aguzzare l’ingegno fino al limite massimo per carpire i segreti della natura e per dominarla attraverso la tecnologia. Il fuoco esisteva comunemente in natura ed era sufficiente una tecnologia semplice per dominarlo. Per questo il controllo del fuoco aveva portato grandissimi benefici all’umanità, ma l’aveva lasciata sottoposta alla disponibilità delle risorse naturali. L’energia nucleare invece era una “energia tecnologica” (la dizione è di Sergio Vaccà, cfr Cozzi, Rullani, Vaccà 1981), in cui l’input fornito direttamente dalla natura era minimo mentre quello fornito dall’uomo era massimo. Per questo l’energia nucleare prometteva di liberare l’uomo una volta per tutte dalla schiavitù della disponibilità di risorse naturali. Non sappiamo quanto tempo abbia messo l’uomo per addomesticare il fuoco. Forse secoli o millenni o forse molto di più, visto che in epoca storica esistevano ancora le Vestali, custodi del focolare, cioè di qualcosa che non era considerato così scontato. Nel caso dell’energia nucleare la rottura doveva essere brutale. Già negli anni Cinquanta, quando si costruivano i primi reattori, si prevedeva che nel giro di qualche decennio gran parte dell’energia elettrica (il vettore di “energia intelligente” che si adatta perfettamente alla nuova società dell’informazione) sarebbe stata prodotta per via nucleare. Nel periodo degli entusiasmi iniziali (quello seguito al lancio nel 1953 del programma “Atoms for peace” del presidente americano Eisenhower), mentre si costruivano vari prototipi di reattori nucleari a fissione si studiavano e si mettevano in cantiere anche i reattori autofertizzanti 1 e i reattori a fusione, destinati a restringere sempre più i vincoli imposti dalle risorse naturali alla disponibilità di energia. Come sappiamo oggi, la storia è andata diversamente. Le aspettative di una rottura rapida e definitiva del paradigma energetico attraverso l’energia nucleare non si sono realizzate. Il ritmo di sviluppo dell’impiego dell’energia nucleare è rallentato diventando più conforme alla scala dei tempi della capacità dell’uomo e della società di adattarsi ai grandi cambiamenti. Il rallentamento è stato dovuto a diverse ragioni. In primo luogo l’atavico istinto di sopravvivenza dell’uomo ha coinvolto anche il nucleare. Prima di accettare la nuova tecnologia, bisogna essere sicuri che le sue conseguenze sanitarie (effetti delle radiazioni) siano limitate. Se i tempi di latenza delle conseguenze sono lunghi (dell’ordine di una o più generazioni) e se le probabilità sono basse e diffuse occorrono studi epidemiologici e lunghi tempi di assuefazione per decretare che anche il nuovo rischio (come il fuoco) è del tutto accettabile. Oggi non vengono più emesse in sede scientifica previsioni catastrofiche sulle conseguenze delle basse dosi di radioattività, ma nel pubblico non è ancora del tutto scomparso il timore soprattutto per dosi più elevate che potrebbero essere ricevute in caso di incidente. Proprio per questo, in secondo luogo, bisogna essere sicuri che la probabilità di incidente sia bassa e la capacità di controllarne e limitarne le conseguenze sia alta. Le risposte ingegneristiche possono essere rassicuranti, ma non c’è nulla di più convincente dei risultati dell’esperienza: se molti reattori rimangono in funzione per molti anni senza incidenti c’è un dato empirico che conferma le previsioni tecnologiche. L’incidente al reattore americano di Three Mile Island (1979) (fusione del nocciolo con modesto rilascio di radioattività all’esterno) e quello del reattore ucraino di Cernobil (1986) (fusione del nocciolo con rilascio quasi completo della radioattività) hanno contribuito a scandire il rallentamento dello sviluppo nucleare mondiale. Più di vent’anni senza incidenti nucleari gravi (ma con alcuni rilasci di radioattività all’esterno dei reattori) hanno contribuito a rassicurare 1 I reattori autofertilizzanti (o breeder) sono quei reattori nucleari che producono più materiale fissile di quanto ne consumano. 1

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Prospettive e problemi dell’energia nucleare nel mondodi Luigi De Paoli

1. L’energia nucleare tra aspettative deluse e speranze non morte

Quando a metà del secolo scorso apparve all’orizzonte la possibilità di sfruttare su larga scala l’energia nucleare a “fini pacifici” furono in molti a scomodare il mito greco di Prometeo: l’uomo stava per rubare una seconda volta il fuoco agli dei. La prima volta era bastato vincere la paura, ma la seconda volta invece bisognava aguzzare l’ingegno fino al limite massimo per carpire i segreti della natura e per dominarla attraverso la tecnologia. Il fuoco esisteva comunemente in natura ed era sufficiente una tecnologia semplice per dominarlo. Per questo il controllo del fuoco aveva portato grandissimi benefici all’umanità, ma l’aveva lasciata sottoposta alla disponibilità delle risorse naturali. L’energia nucleare invece era una “energia tecnologica” (la dizione è di Sergio Vaccà, cfr Cozzi, Rullani, Vaccà 1981), in cui l’input fornito direttamente dalla natura era minimo mentre quello fornito dall’uomo era massimo. Per questo l’energia nucleare prometteva di liberare l’uomo una volta per tutte dalla schiavitù della disponibilità di risorse naturali.Non sappiamo quanto tempo abbia messo l’uomo per addomesticare il fuoco. Forse secoli o millenni o forse molto di più, visto che in epoca storica esistevano ancora le Vestali, custodi del focolare, cioè di qualcosa che non era considerato così scontato. Nel caso dell’energia nucleare la rottura doveva essere brutale. Già negli anni Cinquanta, quando si costruivano i primi reattori, si prevedeva che nel giro di qualche decennio gran parte dell’energia elettrica (il vettore di “energia intelligente” che si adatta perfettamente alla nuova società dell’informazione) sarebbe stata prodotta per via nucleare. Nel periodo degli entusiasmi iniziali (quello seguito al lancio nel 1953 del programma “Atoms for peace” del presidente americano Eisenhower), mentre si costruivano vari prototipi di reattori nucleari a fissione si studiavano e si mettevano in cantiere anche i reattori autofertizzanti1 e i reattori a fusione, destinati a restringere sempre più i vincoli imposti dalle risorse naturali alla disponibilità di energia.Come sappiamo oggi, la storia è andata diversamente. Le aspettative di una rottura rapida e definitiva del paradigma energetico attraverso l’energia nucleare non si sono realizzate. Il ritmo di sviluppo dell’impiego dell’energia nucleare è rallentato diventando più conforme alla scala dei tempi della capacità dell’uomo e della società di adattarsi ai grandi cambiamenti. Il rallentamento è stato dovuto a diverse ragioni. In primo luogo l’atavico istinto di sopravvivenza dell’uomo ha coinvolto anche il nucleare. Prima di accettare la nuova tecnologia, bisogna essere sicuri che le sue conseguenze sanitarie (effetti delle radiazioni) siano limitate. Se i tempi di latenza delle conseguenze sono lunghi (dell’ordine di una o più generazioni) e se le probabilità sono basse e diffuse occorrono studi epidemiologici e lunghi tempi di assuefazione per decretare che anche il nuovo rischio (come il fuoco) è del tutto accettabile. Oggi non vengono più emesse in sede scientifica previsioni catastrofiche sulle conseguenze delle basse dosi di radioattività, ma nel pubblico non è ancora del tutto scomparso il timore soprattutto per dosi più elevate che potrebbero essere ricevute in caso di incidente.Proprio per questo, in secondo luogo, bisogna essere sicuri che la probabilità di incidente sia bassa e la capacità di controllarne e limitarne le conseguenze sia alta. Le risposte ingegneristiche possono essere rassicuranti, ma non c’è nulla di più convincente dei risultati dell’esperienza: se molti reattori rimangono in funzione per molti anni senza incidenti c’è un dato empirico che conferma le previsioni tecnologiche. L’incidente al reattore americano di Three Mile Island (1979) (fusione del nocciolo con modesto rilascio di radioattività all’esterno) e quello del reattore ucraino di Cernobil (1986) (fusione del nocciolo con rilascio quasi completo della radioattività) hanno contribuito a scandire il rallentamento dello sviluppo nucleare mondiale. Più di vent’anni senza incidenti nucleari gravi (ma con alcuni rilasci di radioattività all’esterno dei reattori) hanno contribuito a rassicurare

1 I reattori autofertilizzanti (o breeder) sono quei reattori nucleari che producono più materiale fissile di quanto ne consumano.

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che le stime sulla bassa probabilità di incidente sono attendibili, ma fino a che punto la “paura del nucleare” è stata vinta?In terzo luogo perché una tecnologia soppianti le altre bisogna che si dimostri indiscutibilmente superiore anche dal punto di vista economico. Soprattutto negli Stati Uniti, l’accelerazione impressa allo sviluppo nucleare nella prima parte degli anni Settanta, si è trasformato in un disastro economico2. Molti ordini di reattori sono stati cancellati e la costruzione di alcuni è stata interrotta. Molte utilities si sono trovate in difficoltà per l’escalation dei costi, qualcuna è addirittura fallita. Le ragioni di questa catastrofe economica sono state chiaramente individuate: crescita accelerata della taglia senza aspettare il ritorno dell’esperienza, mancanza di standardizzazione, variazione dei progetti durante la costruzione per l’intervento dell’organismo di sicurezza (negli USA la Nuclear Regulatory Commission), scarsa capacità dei gestori degli impianti perché utilities troppo piccole con uno o pochissimi reattori. In sintesi: i reattori nucleari sono stati considerati troppo presto una tecnologia matura e quando questa convinzione si è rivelata errata le conseguenze economiche sono state pesanti, tali cioè da rendere il nucleare non competitivo.Il problema della maturità tecnologica del nucleare e della sua competitività ha messo in evidenza un’altra caratteristica che limita la rapidità di diffusione del nucleare: la necessità di investire massicciamente su un grappolo di innovazioni che rendono possibile lo sviluppo di una filiera nucleare. Non basta infatti concepire un nuovo tipo di reattore, bisogna mettere a punto e sperimentare tutti gli elementi che lo compongono e fare la stessa cosa per il ciclo del combustibile destinato ad alimentarlo (si pensi alla fase dell’arricchimento dell’uranio o del riprocessamento). E’ chiaro che non nuovo concetto di reattore non può essere messo sul mercato in poco tempo e che sono richiesti forse decenni di sperimentazione per dire che la nuova filiera è stata messa a punto. Questo fatto e i costi associati tendono a restringere il campo della sperimentazione di nuove soluzioni in campo nucleare ed è stato individuato da alcuni (Lilienthal 1980, Dyson 1979) come uno dei talloni di Achille dell’energia nucleare che si è orientata troppo presto verso una particolare soluzione perché si era dimostrata “funzionante”.Un altro elemento che ha rallentato lo sviluppo dell’energia nucleare è stata la preoccupazione per la “chiusura del ciclo”. Si può ricorrere massicciamente all’uso di un prodotto o di un processo produttivo se si sa o si suppone che il suo impatto sia sotto controllo per un intervallo di tempo ragionevole. Per la verità non è sempre stato così. Molti prodotti sono stati introdotti sul mercato senza sapere esattamente quali sarebbero state le loro conseguenze di lungo periodo (si pensi al DDT o ai cloro-fluoro-carburi). Nel caso del nucleare invece, poiché era noto dalla fisica che alcuni radionuclidi prodotti dalla fissione avevano tempi di dimezzamento di decine di migliaia di anni (e anche più), è apparso subito chiaro che bisognava porsi il problema di come trattare questi rifiuti. Ma come trovare soluzioni di deposito che diano garanzie per centinaia di migliaia di anni? E’ chiaro che non è possibile fare esperimenti che diano garanzie assolute e che, per i dubbiosi, l’unica soluzione è quella di limitare la produzione di questi rifiuti (e quindi limitare lo sviluppo nucleare) o quella di trovare una tecnologia di trasmutazione di tali elementi radioattivi con la conseguenza di rallentare lo sviluppo nucleare in attesa che tale tecnologia venga messa a punto e sperimentata.Infine, un altro fattore di rallentamento dello sviluppo nucleare che vale la pena ricordare è la connessione tra usi civili e usi militari (su cui torneremo nel seguito). Se Eisenhower aveva lanciato il programma “Atoms for peace” (anche) per redimere l’America dall’aver lanciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki e nello stesso tempo per chiedere agli altri paesi dall’astenersi dallo sviluppare programmi nucleari militari, un altro presidente americano, Jimmy Carter, lanciò nel 1976 un altro programma denominato INFCE (International Nuclear Fuel Cycle Evaluation) per chiedersi se fosse possibile indirizzare lo sviluppo nucleare in modo tale che la strada civile e quella 2 Il numero di Forbes dell’11 febbraio 1985 era così intitolato"Nuclear Follies," e così affermava: “The failure of the U.S. nuclear power program ranks as the largest managerial disaster in business history, a disaster on a monumental scale. The utility industry has already invested $125 billion in nuclear power, with an additional $140 billion to come before the decade is out, and only the blind, or the biased, can now think that most of the money has been well spent. It is a defeat for the US consumer and for the competitiveness of US industry, for the utilities that undertook the program and for the private enterprise system that made it possible”.

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militare non potessero incrociarsi. Ma la risposta a questo interrogativo fu che, benché alcune soluzioni siano più proliferanti di altre, non esiste una soluzione esclusivamente tecnologica al problema della proliferazione. Conseguentemente il miglior modo per combattere la proliferazione delle armi nucleari è quello di rallentare la diffusione dei reattori nucleari nel mondo (soluzione che gli Stati Uniti sembrano aver fatta propria, pur senza dichiararlo esplicitamente, insieme a quella di abbandonare lo sviluppo delle tecnologie più proliferanti come quella dei reattori veloci al plutonio).

2. La situazione odierna dell’energia nucleare nel mondo

La situazione dell’energia nucleare nel mondo a metà 2007 presenta molti lati positivi, spesso però associati ad alcune ombre per coloro che credono in questa fonte. Il dato positivo più importante è che la produzione elettronucleare non può certo dirsi marginale a livello mondiale. Infatti, nel 2006 i reattori nucleari hanno prodotto 2.658 miliardi di kWh (TWh) netti pari a poco più del 15% della produzione elettrica mondiale (più di nove volte la produzione totale italiana). Tuttavia, benché la produzione nucleare continui a crescere, essa non tiene il ritmo della crescita della produzione elettrica mondiale per cui il suo peso, dopo aver sfiorato il 18% a metà degli anni novanta, è sceso di quasi tre punti percentuali in dieci anni (vedi fig. 1).

Fig. 1- Produzione e quota dell’energia nucleare nella generazione elettrica mondiale

Generazione elettrica e quota dell'energia nucleare nel mondo

0

500

1000

1500

2000

2500

3000

3500

1970 1974 1978 1982 1986 1990 1994 1998 2002 20060%

2%

4%

6%

8%

10%

12%

14%

16%

18%

Produzione (TWh) Quota (%)

Un secondo elemento da sottolineare è che in metà dei trenta paesi in cui vi è una produzione elettriconucleare questa fonte ha contribuito per almeno il 30% alla produzione elettrica del paese (vedi tab. 1). In altri termini, nei paesi dove il nucleare è presente, questa fonte ha un ruolo molto importante. A bilanciare questo aspetto vi è però il fatto che la produzione nucleare è rimasta una tecnologia adottata quasi solo nei paesi industrializzati dell’OCSE o dell’ex-blocco comunista (se si escludono questi paesi, al club nucleare appartengono solo Argentina, Brasile, India, Messico, Pakistan e Sud Africa). Si è quindi ben lontani da una tecnologia facile d’uso. Senza dimenticare però, come si vedrà più oltre, che la sua diffusione nei PVS è stata frenata anche dalla preoccupazione di non favorire la proliferazione nucleare.

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Tab. 1 – Situazione dei reattori nucleari nel mondo (settembre 2007)

Elettricità prodotta nel 2006

Reattori in esercizio(potenza netta)

Reattori in costruzione

Reattori chiusi definitivamente

TWh % No. MWe No. MWe No. MWeArgentina 7,2 7 2 935 1 692Armenia 2,4 42 1 376 0 0 1 376Belgium 44,3 54 7 5.824 0 0 1 11Brazil 13 3 2 1.795 0 0 0 0Bulgaria 18,1 44 2 1.906 2 1.906 4 1632Canada* 92,4 16 18 12.589 0 0 3 478China 51,8 2 11 8.572 5 4.220 0 0Czech Republic 24,5 31 6 3.538 0 0 0 0Finland 22 28 4 2.696 1 1.600 0 0France 428,7 78 59 63.260 0 0 11 3951Germany 158,7 32 17 20.339 0 0 19 5944Hungary 12,5 38 4 1.755 0 0 0 0India 15,6 3 17 3.779 6 2.910 0 0Iran 0 0 0 0 1 915 0 0Italia 0 0 0 0 0 0 4 1423Japan 291,5 30 55 47.587 1 866 3 320Kazakhstan 0 0 0 0 0 0 1 52Korea (South) 141,2 39 20 17.454 2 1.920 0 0Lithuania 8 69 1 1.185 0 0 1 1185Mexico 10,4 5 2 1.360 0 0 0 0Netherlands 3,3 4 1 482 0 0 1 55Pakistan 2,6 3 2 425 1 300 0 0Romania 5,2 9 2 1.308 0 0 0 0Russia 144,3 16 31 21.743 7 4.585 5 786Slovakia 16,6 57 5 2.034 0 0 2 518Slovenia 5,3 40 1 666 0 0 0 0South Africa 10,1 4 2 1.800 0 0 0 0Spain 57,4 20 8 7.450 0 0 2 621Sweden 65,1 48 10 9.034 0 0 3 1225Switzerland 26,4 37 5 3.220 0 0 0 0Taiwan 38,3 20 6 4.921 2 2.600 0 0Turkey 0 0 0 0 0 0 0 0Ukraine 84,8 48 15 13.107 2 1.900 4 3500Regno Unito 69,2 18 19 10.222 0 0 26 3324USA 787,2 19 104 100.322 1 1.165 28 9764WORLD 2658,1 16 439 371.684 32 25.579 119 35.165Fonte: IAEA

Un altro fattore non solo positivo, ma cruciale per l’energia nucleare è che aumenta la durata di funzionamento dei reattori senza che si verifichino incidenti gravi, in particolare di fusione del nocciolo. Ormai l’esperienza cumulata di esercizio ammonta a quasi 13.000 anni-reattore. Il Rapporto Rasmussen (WASH-1400), che è stato il primo studio approfondito3 sulla probabilità di incidente nucleare per i reattori ad acqua di tipo occidentale (BWR e PWR), stimava che la probabilità di fusione (parziale) del nocciolo senza rilascio all’esterno di radioattività fosse 1 ogni 20.000 anni-reattore mentre la probabilità di un evento catastrofico con rilascio totale della

3 Già nel 1957 l’AEC aveva comunque commissionato uno studio (WASH-740) sui rischi di incidente con rilascio di radioattività da parte di un reattore nucleare, ma lo studio non era stato condotto in termini probabilistici bensì con riferimento alle conseguenze del “massimo incidente credibile”.

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radioattività fosse di uno su un miliardo di anni-reattore4. Il fatto che si siano superati i 10.000 anni-reattore di esperienza e che, per i reattori di tipo occidentale, vi sia stato finora un solo caso di fusione parziale del nocciolo (Three Mile Island, USA, nel 1979) rafforza la credibilità delle stime di sicurezza fatte sulla base di modelli teorici. D’altra parte i reattori più recenti hanno sicuramente un grado di sicurezza superiore e il secondo studio di tipo probabilistico sulla sicurezza dei reattori lanciato dalla Nuclear Regulatory Commission alla fine degli anni Ottanta (noto come NUREG 1150) ha ridotto ulteriormente la stima della probabilità di incidente. Un quarto fattore positivo per l’energia nucleare è che è aumentata grandemente l’affidabilità dei reattori anche dal punto di vista della continuità di funzionamento. Ciò ha portato il fattore di disponibilità degli impianti nucleari, definito dall’IAEA come il rapporto tra l’elettricità prodotta e l’elettricità producibile se l’impianto funzionasse sempre alla massima potenza5, dal 60-70% negli anni ottanta al 70-80% negli anni novanta e stabilmente sopra l’80% negli anni 2000 (vedi fig. 2). Un più alto fattore di disponibilità significa che, a parità di potenza installata, la produzione elettrica aumenta perché gli impianti sono in grado di funzionare con maggiore continuità. Per apprezzare il progresso che c’è stato, si consideri ad esempio che nel 1995 erano in funzione 436 reattori con una potenza totale di 346.836 MW mentre nel 2006 erano in funzione 439 reattori con una potenza di 371.684 MW. Il numero di reattori è rimasto quasi costante e la potenza installata è cresciuta del 7,2%, ma la produzione elettronucleare è cresciuta del 20,3% passando da 2210 a 2658 TWh. Se si guarda a un periodo un po’ più lungo, dal 1990 al 2006, la capacità nucleare installata è aumentata del 13,5% cioè di 44 GW (da nuovi impianti e da aumento di potenza di quelli esistenti), mentre la produzion elettrica è salita di 757 TWh (cioè del 40%). Tale incremento è stato dovuto per il 36% ai nuovi impianti, per il 7% all’aumento di potenza di quelli già in funzione e per il 57% al miglioramento del fattore di disponibilità. Ovviamente l’aumentata produttività ha avuto effetti positivi sui risultati economici dei gestori degli impianti nucleari.

4 Gli incidenti catastrofici si verificano solo se una serie di fattori da cui dipende l’entità delle conseguenze sono tutti nel loro stato peggiore. Per esempio ci deve essere la fusione del nocciolo, le barriere di protezione si devono rompere verso l’esterno, il vento deve soffiare verso aree densamente abitate, cid eve essere inversione termica e I sistemi di protezione civile devono essere inefficaci Per questo la probabilità di un incidente catastrofico è solo 1 su un miliardo per anno-reattore come riassunto nella tabella seguente:

Probabilità di fusione del nocciolo1 su 10000 per reattore-annoProbabilità di rotture del sistema di contenimento1 su 100Probabilità di vento in cattiva direzione1 su 10Probabilità di inversione termica1 su 10Probabilità di fallimento

dell’evacuazione1 su 10Il prodotto di queste probabilità è uno su un miliardo di reattori-anno5 Questo fattore di solito è chiamato Load Factor (fattore di carico) anzichè Energy Availability Factor come fa l’IAEA.

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Fig. 2 – Andamento dell’energy availability factor (media ponderata mondiale)

Fonte: IAEA, PRIS

Oltre a funzionare con un maggior fattore di carico, gli impianti nucleari hanno visto la loro vita utile aumentata. Quando molti rettori vennero costruiti negli anni Sessanta e Settanta, si pensava che sarebbero stati chiusi dopo 25-30 anni. Con il passar del tempo si è visto che i reattori possono rimanere in funzione almeno per 40 anni (vedi fig. 3), ma ormai si parla anche di una vita utile che può arrivare a 60 anni. Negli Stati Uniti, ad esempio, dopo il 2003 molti gestori hanno chiesto alla NRC un prolungamento della autorizzazione al funzionamento dell’impianto da 40 a 60 anni e il DoE assume ormai che almeno il 75% dei reattori prolungherà la propria vita (EIA 2006). Questo prolungamento impedirà che la produzione nucleare diminuisca nel prossimo decennio (quando molti reattori dovevano essere chiusi) ed ha ovviamente riflessi economici positivi.

Fig. 3 – Numero di reattori per età di entrata in servizio (alla data del 1.1.2007)

Fonte: IAEA, Operating experience with nuclear power stations in Member States in 2006.

La principale ombra che grava sull’energia nucleare, se si guarda ai reattori in esercizio, è quella di apparire vecchia. Nel decennio 1970-1979 sono entrati in esercizio 131 reattori, in quello successivo 217, ma nel decennio 1990-99 solo 54 reattori e nei primi sette anni del decennio 2000 solo 26 (vedi fig. 3). Nel 2007 probabilmente entreranno in funzione solo 3 reattori e un ritmo

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analogo dovrebbe continuare nei prossimi anni. Ciò significa che solo grazie al prolungamento della vita dei reattori ben oltre i 25-30 anni inizialmente previsti la produzione nucleare non comincerà a diminuire nei prossimi anni. D’altra parte però non manca qualche segno positivo che lascia sperare in una ripresa del nucleare. In primo luogo più della metà dei reattori in costruzione si trovano in Russia, India e Cina, cioè in paesi dove lo sviluppo economico nei prossimi anni e decenni dovrebbe continuare a essere vigoroso e con esso anche la crescita dei consumi elettrici. In secondo luogo v’è stato recentemente qualche segno di risveglio da parte del “gigante addormentato”, gli Stati Uniti, dove non è più stato ordinato un reattore dalla metà degli anni settanta, ma dove a fine maggio 2007 è rientrato in funzione il reattore di Browns Ferry 1 fermo dal 1985 (era entrato in funzione nel 1973) e recentemente è stato deciso di completare la costruzione del reattore di Watts Bar 2, iniziata alla fine del 1972 e arrestata a metà percorso nel 1985. Gli Stati Uniti, che rimangono il Paese con il maggior numero di reattori nucleari in esercizio (104), meritano particolare attenzione perché è da questo paese che devono venire alcune risposte fondamentali sulla possibilità di rilancio del nucleare. Tali risposte riguardano la convenienza economica di questa fonte e la sua accettabilità dal punto di vista della non proliferazione e della chiusura del ciclo del combustibile. A questi temi sono dedicati i prossimi due paragrafi.

3. La convenienza dell’energia nucleareSi può stare certi che, se l’energia nucleare non si rivelerà competitiva con le altre fonti, finirà con l’essere abbandonata. Tuttavia per esprimere un giudizio sulla sua convenienza nel medio-lungo termine bisogna fare un calcolo che è anche una scommessa perché si devono fare ipotesi su costi e prestazioni degli impianti nucleari e delle soluzioni alternative per 30-60 anni.

3.1 La metodologia di calcoloSolitamente il calcolo di convenienza ex-ante per la scelta del tipo di impianti da realizzare si basa sul costo unitario attualizzato (levelized cost) calcolato in base alla seguente formula:

(1)

∑∑∑

=

=

=−=

+⋅

+⋅⋅⋅++++⋅= n

t

tt

tt

n

tt

tn

tt

n

kt

tt

aq

aCcsqaCaCc

COI

1

11

)1(

)1()1()1(

Dove:c è il costo medio attualizzato del kWh prodottoCIt è l’investimento effettuato nell’anno t-esimoa è il tasso di attualizzazione COt sono le spese di esercizio (escluse quelle di combustibile), chiamate anche spese di “operation

and maintenance” (O&M), effettuate nell’anno t-esimoqt è l’energia prodotta nell’anno t-esimocs è il consumo specifico di combustibile per kWh prodottoCCt è il costo unitario del combustibile (ad es. c€/kg) nell’anno t-esimok sono gli anni intercorrenti tra l’inizio degli esborsi e l’entrata in servizio dell’impianton è la vita utile dell’impianto

La formula (1) per il calcolo del costo medio attualizzato del kWh può essere espressa in modo più semplice con alcune sostituzioni e ipotesi semplificatrici. Anzitutto, si può indicare con Isp il costo di investimento attualizzato per unità di potenza (ad es. in €/kW) che può includere anche il costo di smantellamento. In secondo luogo di solito si ipotizza che COt, Cct e qt siano costanti (in termini reali) durante tutta la vita utile dell’impianto. Infine si deve tenere presente che:

(2) ann

nn

t

t

aaaa /

1 1)1()1()1(/1 α=

−+⋅+=+∑

=

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è il fattore di ammortamento in n anni al tasso a di 1 euro. Esso corrisponde alla rata annuale posticipata necessaria ad estinguere in n anni il debito presente di 1 euro6..

Con queste ipotesi e convenzioni il costo medio attualizzato si può scrivere:

(3) cI

HcoH

cs Csp n aC=

⋅+ + ⋅

α /

Dalla (3) si deduce che il costo di produzione attualizzato dipende dalle ipotesi che si fanno su sette elementi noti con un grado di approssimazione diversa:1. il costo specifico di investimento (ovvero il costo di impianto) (Isp);2. il costo annuo unitario di O&M (co);3. il costo unitario del combustibile (Cc);4. il consumo specifico di combustibile (che dipende dal rendimento dell’impianto) (cs);5. il tasso di attualizzazione (a);6. la vita utile dell’impianto (n);7. il numero di ore equivalenti annue di funzionamento dell’impianto (che dipende dal fattore di

disponibilità) (H).A questi costi “interni” vanno poi aggiunte le esternalità, tra cui, negli ultimi anni, hanno assunto grande importanza le emissioni di anidride carbonica. Saranno forse le esternalità a decidere quale sarà la fonte più competitiva nei prossimi decenni, ma, non essendo ancora chiaro quale valore potrà assumere il costo di abbattimento delle emissioni di anidride carbonica, si deve partire dalla valutazione dei costi “interni”.E’ chiaro che in un calcolo ex-ante tutti gli elementi sopra richiamati sono noti con un certo grado di incertezza, specie perché bisognerebbe conoscere valori su un lungo arco temporale (come detto, alcuni decenni). Per ovviare a questo problema si possono usare tecniche di simulazione quali il metodo Monte Carlo. Naturalmente però i risultati dipendono dalla bontà delle assunzioni sulla distribuzione dei valori di partenza.

3.2 I risultati di alcuni studi comparativiDiversi organismi internazionali hanno condotto studi sul costo comparato di generazione elettrica affidandosi a gruppi di esperti in rappresentanza dei paesi membri. Il più famoso di questi studi è quello condotto congiuntamente in seno all’Ocse da ormai più di venti anni dalle due agenzie Iea e Nea7. L’ultima edizione di tale studio (OECD/IEA, NEA 2005) indica che, per impianti elettrici di base in funzione nel 2010, con le ipotesi di un tasso di attualizzazione del 5% reale, un fattore di carico dell’85% e una vita utile di 40 anni, il costo di produzione in $ 2003 è compreso tra 21 e 31 $/MWh per gli impianti nucleari, tra 25 e 50 $/MWh per quelli a carbone e tra 37 e 60 $/MWh per quelli a gas. Se invece si adotta un tasso di attualizzazione del 10%, i costi livellizzati di generazione sono compresi rispettivamente tra 30 e 50 $/MWh per il nucleare, tra 35 e 60 $/MWh per il carbone e tra 40 e 63 $/MWh per gli impianti a gas (cfr fig. 4). Volendo sintetizzare il messaggio contenuto in queste cifre, si può dire che il costo della produzione nucleare è mediamente allineato o più basso di quello della produzione elettrica da carbone e più basso di quello da metano negli impianti a ciclo combinato. Emerge però anche che i margini di convenienza diminuiscono se si prende un tasso di sconto più alto. Ciò dipende dall’alta intensità di capitale dell’energia nucleare, superiore a quella degli impianti a carbone e molto superiore a quella degli impianti a gas (vedi fig.4 e 5)

6 Questo fattore in inglese è chiamato “Capital Recovery Factor” o CFR.7 Finora sono stati pubblicati sei rapporti: nel 1983, nel 1986, nel 1989, nel 1993, nel 1998 e nel 2005.

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Fig. 4 – Intervallo dei costi di generazione degli impianti a carbone, a gas e nucleari (USD 2003/MWh)

Fonte: OECD/IEA NEA 2005

Se si esamina la situazione della convenienza del nucleare a livello di singolo paese, secondo lo studio dell’OCSE, il nucleare rimane competitivo con la fonte carbone e gas in quasi tutti i paesi (tranne negli Usa e in un caso in Corea) se il tasso di attualizzazione è del 5% e in gran parte dei paesi se il tasso sale al 10% (vedi fig. 5). La convenienza rispetto al gas sarebbe invece quasi generalizzata (vedi fig. 5). All’interno di questo quadro generalmente favorevole al nucleare, vi sono però margini di convenienza molto diversi. La mancanza di un “prezzo unico”, e quindi di un unico rapporto tra i costi di generazione, non deve stupire. L’elettricità è infatti una commodity difficilmente trasportabile su lunghe distanze. Pertanto, nei costi di produzione elettrica, tendono a prevalere i costi locali di costruzione degli impianti (che hanno la maggiore incidenza nel caso del nucleare e, in misura un po’ minore, della produzione da carbone) e di approvvigionamento dei combustibili (soprattutto per il gas e, in misura minore, per il carbone).

Fig. 5 – Confronto tra i costi previsti totali al 2010 tra diversi tipi di impianti nei diversi paesi

Fonte: OECD/IEA NEA 2005

I risultati dello studio Ocse sono per lo più confermati (e non potrebbe essere diversamente, visto che in sede Ocse sono portate le esperienze nazionali) anche da analisi aventi per oggetto il confronto dei costi di generazione nei singoli paesi che ribadiscono la convenienza del nucleare (ad es. EdF 2004, Royal Academy of Engineering 2004, Canadian Energy Research Institute 2004). Una eccezione degna di nota riguarda gli Stati Uniti. Due studi americani, condotti rispettivamente dal Massachusetts Institute of Technology nel 2003 e dall’Università di Chicago nel 2004 per conto

Rapporto di costo tra le centrali a gas e nucleari al tasso di sconto del 5% e 10%

Rapporto di costo tra le centrali a carbone e nucleari al tasso di sconto del 5% e 10%

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del DoE, affermano infatti chiaramente la non competitività del nucleare negli Usa non solo rispetto al carbone, ma anche rispetto al gas8. Lo studio del MIT afferma decisamente: “Today, nuclear power is not an economically competitive choice” (p.3). Pur senza citarli esplicitamente, il MIT critica gli studi comparativi (come quello dell’Ocse) basati su “engineering estimates of what might be achieved under ideal conditions” mentre andrebbero presi “parametri basati sull’esperienza reale” (p. 7). Il MIT avanza quindi una serie di ipotesi che considera più realistiche, tra cui che il costo del capitale per le centrali nucleari debba essere superiore di circa il 2% rispetto a quello degli impianti convenzionali perché più rischiose per gli investitori. In base a tali assunzioni, il MIT conclude che, nel caso base, l’elettricità nucleare costerebbe 67 $/MWh contro i 42 $/MWh del carbone e una valore compreso tra 38 e 56 $/MWh per le centrali a gas a ciclo combinato (a seconda del prezzo del gas). Senza volere in alcun modo confutare le tesi del MIT (ci vorrebbe un lavoro ben più ampio di questo), si può comunque osservare, a proposito dei rischi che si corrono in qualsiasi studio previsivo, che il rapporto del MIT assumeva un costo medio reale del gas per tutta la vita degli impianti compreso tra 3,77 (caso migliore) e 6,72 $/MBtu (caso peggiore) mentre le utilities americane hanno gia pagato il gas in media nel 2006 6,94 $/MBtu (EIA 2007) e analogamente assumeva un prezzo del carbone di 1,20 $/MBtu con un aumento annuo reale dello 0,5% mentre nel 2006 è stato di 1,69 $/MBtu (EIA 2007), il che cambia notevolmente (e provvisoriamente) i risultati del confronto.Dubbi sulla convenienza del nucleare non sono stati lanciati solo dal MIT, ma anche da altri studiosi, che hanno esaminato soprattutto esperienze nucleari negative o disastrose (come quella del Regno Unito). Per esempio anche Thomas (2005) critica la mancanza di dati basati su esperienze reali soprattutto per il costo degli impianti (anche perché da molti anni nei paesi industrializzati non si costruiscono nuovi reattori tranne che in Giappone e Corea), ma anche per il costo di O&M che, pur avendo una bassa incidenza, in alcuni casi si è rivelato molto più elevato del previsto (e tale ad esempio da aver provocato il fallimento di British Energy). Infine viene avanzata una critica sulla mancanza di dati credibili sui costi di smantellamento degli impianti e di trattamento e stoccaggio dei rifiuti radioattivi.Questi argomenti valgono a sottolineare la difficoltà con cui è possibile esprimere un giudizio conclusivo sulla competitività dell’energia nucleare rispetto alle altre fonti fossili (a prescindere dai costi per l’eventuale limitazione delle emissioni di anidride carbonica).

3.3 Le specificità dei costi degli impianti nucleariCome si è già osservato, la convenienza della produzione elettronucleare dipende essenzialmente dal costo dell’impianto, cioè dai cd “overnight costs” (i costi diretti di costruzione) e dagli interessi intercalari durante il periodo di costruzione. La discussione si svolge intorno agli “overnight costs” che, ad esempio, secondo lo studio IEA-NEA del 2005, sono compresi tra 1000 e 2000 $/kW (tranne nel caso giapponese dove arrivano a 2500 $/kW) e che molti considerano ottimistici. A nostro parere la discussione è fuorviante perché, come abbiamo sottolineato più volte da tanto tempo (cfr De Paoli 1990, De Paoli-Ninni 1996), non esiste un costo degli impianti nucleare, ma esiste un ampio intervallo di costo per unità di potenza installata in relazione ad almeno cinque fattori:

- specificità di paese;- specificità di sito;- specificità di tecnologia;

8 Lo studio del MIT estende però il giudizio di non convenienza del nucleare anche agli altri paesi in regime di concorrenza: “ with current expectations about nuclear power plant constructions costs, operating cost and regulatory uncertainties, it is extremely unlikely that nuclear power will be the technology of choice for merchant plant investors in regions where suppliers have access to natural gas or coal resources. It is just too expensive. In countries that rely on state owned enterprises that are willing and able to shift cost risks to consumers to reduce the cost of capital, or to subsidize financing costs directly, and which face high gas and coal costs, it is possible that nuclear power could be perceived to be an economical choice”.(p. 40-41)

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- specificità di impianto;- specificità di committente.

L’influenza del paese sul costo di una centrale nucleare si fa sentire soprattutto attraverso il processo di licensing pubblico. Attraverso le autorizzazioni si possono imporre norme più o meno severe in fatto di sicurezza, ma soprattutto si può dare un’autorizzazione completa e non rivedibile oppure un’autorizzazione per sottosistemi e progressiva con il rischio che, durante la costruzione, il progetto debba essere adattato e i tempi di costruzione dilatati. Questa è stata l’esperienza degli Stati Uniti soprattutto negli anni ’70 e all’inizio di quelli ‘80 ed ha causato il “disastro nucleare” evidenziato da Forbes che abbiamo citato in precedenza. E’ proprio per superare questo ostacolo che gli USA hanno poi lanciato un programma per la preapprovazione di progetti di reattori nucleari. Un altro aspetto country-specific è quello del costo e della produttività del lavoro. Una centrale nucleare è una grande opera civile. I costi di costruzione e montaggio e delle materie prime (cemento e acciaio) rappresentano circa la metà del costo totale dell’impianto. Non c’è nessuna ragione per cui i lavoratori o i materiali di costruzione costino nello stesso modo in Giappone, in Finlandia o in Romania (e non a caso il costo delle centrali nucleari giapponesi è il più elevato). Anche la produttività dei lavoratori differisce da paese a paese (e non solo) e può attenuare, ma anche accentuare le differenze tra i costi unitari del lavoro.L’incidenza del sito si fa sentire sia sul progetto che sulla sua realizzazione. Costruire un impianto nucleare in una zona sismica (come il Giappone o la California) o dove non c’è abbondanza d’acqua (per cui è assolutamente necessario costruire le torri di raffreddamento) può comportare costi un po’ diversi. Anche la logistica per approvvigionare in sito i materiali e i componenti richiesti può avere una qualche incidenza sui costi. Ma soprattutto l’incidenza del sito si fa sentire nell’atteggiamento della popolazione. Se la popolazione locale è fortemente ostile sono probabili ritardi e interruzioni nella costruzione. Sono anche possibili variazioni del progetto. Tutto ciò pesa sia sui costi diretti che soprattutto sugli oneri finanziari (che in regime normale rappresentano ca un terzo degli overnight costs). La specificità tecnologica si riferisce al fatto che i reattori nucleari non sono tutti uguali. Un reattore ad acqua pesante del tipo Candu ha caratteristiche diverse da un reattore ad acqua leggera. Lo stesso dicasi per i BWR (boiling water reactors) e i PWR (pressurized water reactors): i primi erano stati proposti proprio per evitare il costo del generatore di vapore. All’interno della stessa tecnologia vi sono poi diverse “generazioni” con costi leggermente diversi. La specificità di impianto si riferisce a due elementi principali: la taglia del reattore e il numero di reattori per sito. Accrescere la taglia del reattore dovrebbe comportare una riduzione dei costi per economie di scala, anche se questo non è stato vero in passato (vedi De Paoli, Genco 1985). Molto più importante è il numero dei reattori per sito perché si possono mettere in comune alcune facilities, ma soprattutto, se la costruzione dei reattori è distanziata in modo ottimale, ci si può giovare dell’esperienza acquisita nella costruzione dei reattori che precedono. Questo è stato uno dei grandi punti di forza del nucleare francese, basato per lo più su quattro reattori per sito, la cui costruzione iniziava a circa un anno di distanza l’uno dall’altro. Affidarsi a manodopera che ha acquisito esperienza ha un grande impatto sulla produttività (vedi sopra).La specificità del committente si riferisce non tanto alla sua capacità di svolgere una funzione di acquirente di un impianto nucleare senza affidarsi totalmente a una società di ingegneria esterna, quanto alla sua capacità di programmare un certo numero di realizzazioni a scadenze regolari e basate su impianti per quanto possibile standardizzati, con un ritorno di esperienza verso il progettista-costruttore del reattore. Anche questo aspetto è stato uno degli elementi che ha fatto sì che il nucleare francese, basato su “palier” di reattori uguali ordinati secondo un programma prestabilito (“economie di programma”), costasse decisamente meno che in tutti gli altri paesi, specie quelli, come gli Stati Uniti, dove i committenti avevano spesso un solo impianto con caratteristiche un po’ diverse da tutti gli altri. Ovviamente lo stesse “economie di programma” realizzate da un singolo committente di dimensioni adeguate (come EdF in Francia) potrebbero

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essere ottenute se vi fosse un mercato mondiale più ampio e gli acquirenti acquistassero impianti “a catalogo”, cioè il più possibile standardizzati, offerti dai produttori.

3.4 I costi di O&M e del combustibileI costi di “operation and maintenance” nell’ultimo studio OCSE sono compresi tra 6 e 10 $/MWh (tranne in Giappone dove sono indicati a 14,5 $/MWh) e quelli del combustibile si aggirano attorno a 5 $/MWh (tranne che in Giappone dove sono di 11,8 $/MWh). Anche queste cifre sono state considerate come ottimistiche dallo studio del MIT e da altri. Tuttavia, fatte salve le considerazioni sulla differenza del costo del lavoro e dei materiali, in questo caso si dispone di informazioni sui costi effettivi desumibili dai bilanci delle utilities per giudicare il grado di realismo di questi dati. Anche negli USA, dove i costi erano sensibilmente saliti negli anni Ottanta, i dati a consuntivo medi per gli oltre 100 reattori mostrano che i costi di O&M tra gli inizi degli anni ’90 e i primi anni 2000 sono diminuiti di circa il 10% in termini nominali e di quasi il 30% in termini reali attestandosi intorno a 13-14 $/MWh negli ultimi anni (vedi fig. 6). Un valore attorno a 10 $2003/MWh (limite superiore indicato dallo studio OCSE 2005) appare quindi un po’ ottimistico, ma non irrealistico per sistemi elettrici più efficienti di quello americano.Per quanto riguarda il costo del combustibile, invece, l’indicazione di un costo intorno a 5 $/MWh sembra pienamente confermata anche dai dati storici americani (cfr fig. 6). Dopo aver toccato dei picchi nel corso degli anni Settanta, il prezzo dell’uranio per una ventina di anni (tra il 1984 e il 2004) è stato compreso tra 10 e 20 $/lb di U3O8. Tra le ragioni di un prezzo basso e cedente, vi era soprattutto un’evoluzione della domanda più bassa del previsto per il rallentamento dei programmi di sviluppo dell’energia nucleare, ma anche l’accordo Stati Uniti-Russia per smaltire sul mercato civile parte delle scorte di uranio accumulate per usi militari. Nel corso degli ultimi tre anni, tuttavia, il costo dell’uranio sul mercato spot è salito enormemente (da 10-15 $/lb U3O8 fino a 135 $/lb a metà del 2007 per poi scendere a 75-80 $/lb a ottobre 2007). E’ difficile dire se questo aumento straordinario del prezzo dell’uranio (che interessa tuttavia una frazione modesta dei consumi, vedi tab.2) sia destinato a permanere o a essere in gran parte riassorbito grazie al rilancio degli investimenti in esplorazione e sviluppo. In ogni caso, per quanto riguarda l’impatto del prezzo dell’uranio sulla competitività del nucleare, vanno tenuti presenti due fattori. In primo luogo il costo dell’uranio (ai livelli di prezzo precedenti) rappresentava solo il 30% circa del costo del combustibile nucleare (il 70% era rappresentato dai costi di arricchimento, conversione e fabbricazione). In secondo luogo l’incidenza del costo del combustibile sul costo dell’energia nucleare è modesta (meno del 15% nel 2006). Pertanto, anche se l’aumento del prezzo dell’uranio dovesse permanere, la competitività del nucleare non verrebbe sconvolta. A titolo esemplificativo se invece di 20 $/lb l’uranio costasse 100 $/lb, l’incremento sul costo di produzione sarebbe di 5 $/MWh (cioè raddoppierebbe il costo del combustibile), cifra non trascurabile, ma non tale da alterare in modo decisivo la competitività del nucleare9

9 Non va poi dimenticato che nel frattempo anche il prezzo del carbone e del gas è notevolmente aumentato e che l’incidenza di questi combustibili –in particolare del gas- sul costo di produzione elettrica è ben più elevata.

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Fig. 6 – Andamento del costo di O & M e del combustibile delle centrali nucleari negli USA

0,0

2,0

4,0

6,0

8,0

10,0

12,0

14,0

16,0

18,0

20,0

1990 1992 1994 1996 1998 2000 2002 2004 2006

$/M

Wh

operation maintenance O&M O&M $2000 Fuel

Fonte: EIA, Electric Power Annual, anni vari e ns elaborazioni.

Tab. 2 –Prezzo della libbra di uranio acquistata dagli operatori di centrali nucleari americani

contratti a MT e LT

Acquisti su mercato spot

% spot su tot

media ponderata

1994 10,80 9,01 22,2% 10,401995 11,68 10,30 31,3% 11,251996 14,10 14,22 19,2% 14,121997 13,07 11,61 13,1% 12,881998 12,49 10,56 18,3% 12,141999 12,05 9,52 16,7% 11,632000 11,67 8,54 20,1% 11,042001 10,93 7,92 26,0% 10,152002 10,57 9,29 16,3% 10,362003 10,93 10,10 14,5% 10,812004 12,25 14,77 14,4% 12,612005 13,69 20,04 10,5% 14,362006 17,10 41,38 8,7% 19,22

Fonte: EIA, Uranium Marketing Annual Report

4. La proliferazione nucleareUno dei problemi che hanno accompagnato da sempre lo sviluppo dell’energia nucleare per la produzione di elettricità è stato la sua connessione con la possibilità di usi bellici. Nucleare civile e nucleare militare sono due fratelli siamesi, certamente distinti, ma difficili da separare in modo definitivo. E gli Stati Uniti sono stati il padre di entrambi i fratelli, anche se hanno poi cercato disperatamente di separarli per bloccare la crescita della proliferazione dell’uso militare. Il

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programma Atoms for peace lanciato da Eisenhower nel 1953 serviva a chiedere agli altri paesi di rinunciare alla corsa verso il nucleare militare in cambio degli aiuti a sviluppare la tecnologia nucleare civile e all’impegno di fornire il combustibile per i reattori nucleari. Il programma INFCE (International Nuclear Fuel Cycle Evaluation) lanciato da Carter nel 1976 (dopo l’esplosione della bomba atomica indiana del 1974) serviva invece a chiedere agli altri paesi di rinunciare a un certo percorso di sviluppo del nucleare civile, considerato troppo in grado di favorire l’uso militare dell’energia nucleare. In mezzo c’è stato il Trattato di non proliferazione (firmato nel 1968), fortemente voluto dagli USA, che sanciva la divisione del mondo in due: da un lato i paesi nuclearmente armati (USA, Russia, Gran Bretagna, Francia e Cina), che avevano fatto esplodere prima di quella data un ordigno nucleare e che erano “autorizzati” a detenere armi nucleari, dall’altro tutti gli altri paesi a cui era chiesto di rinunciare a dotarsi di armi atomiche in cambio dell’assistenza per l’uso civile del nucleare.A trent’anni di distanza dall’INFCE la situazione non è molto cambiata (se non che nel frattempo il club nucleare si è allargato almeno a Pakistan che ha fatto esplodere un ordigno nel 1998 e Israele che ha certamente la bomba ma non lo dichiara ufficialmente). Si è solo aggravata la preoccupazione per il terrorismo internazionale e il ricorso che i terroristi potrebbero fare anche all’arma nucleare (“pulita” o “sporca”, cioè basata su materiale radioattivo mescolato a esplosivo tradizionale). Gli USA, sempre più gendarmi del mondo dopo la crisi dell’URSS, partono da un sillogismo alquanto semplice da enunciare: per semplificare il lavoro di gendarmi bisogna che il numero di paesi nuclearmente armati sia il più basso possibile; le strade che possono portare alla bomba sono tre: l’uranio altamente arricchito (> 20%), il plutonio o i reattori/centri di ricerca10 dove si acquisiscono le capacità di gestire i processi che possono portare al plutonio o all’uranio altamente arricchito (HEU), quindi, per limitare la proliferazione, bisogna ostacolare la produzione e la capacità di produzione di HEU e di plutonio.Ai tempi dell’INFCE gli Stati Uniti hanno chiesto agli altri paesi di rinunciare a percorsi tecnologici considerati proliferanti. In primo luogo hanno chiesto di adottare il cd “ciclo aperto”, cioè di eliminare il combustibile estratto dai reattori dopo averlo opportunamente condizionato. Hanno chiesto cioè di rinunciare al “ciclo chiuso” e in particolare al riprocessamento del combustibile esaurito con separazione del plutonio e dell’uranio arricchito residuo che possono essere riutilizzati (con uno sfruttamento del potenziale energetico dell’uranio che può arrivare fino a 50 volte quello del ciclo aperto ripetendo più volte l’operazione). In secondo luogo hanno chiesto di rinunciare ai “reattori veloci autofertilizzanti” (fast breeder reactors) alimentati a plutonio (o uranio altamente arricchito). Infatti, se si sviluppano questi reattori, il ciclo chiuso e la separazione del plutonio diventano praticamente inevitabili. Infine hanno chiesto di limitare la diffusione degli impianti del ciclo del combustibile solo ai paesi dove le economie di scala lo giustificano (in pratica quasi solo nei paesi nuclearmente armati del TNP). Quest’ultima richiesta non è stata formulata in termini così espliciti, ma gli Stati Uniti hanno usato più volte questo argomento per denunciare il desiderio di dotarsi di armi nucleari da parte di quei paesi che, pur avendo un modesto programma di reattori nucleari, volevano dotarsi anche degli impianti del ciclo del combustibile. In termini ancora meno ufficiali gli Stati Uniti hanno invitato gli altri paesi occidentali a non favorire l’acquisizione di competenze nucleari tramite l’assistenza tecnologica e ai centri di ricerca dei PVS, soprattutto quelli considerati a rischio.Quando gli Stati Uniti hanno lanciato l’INFCE, quasi tutti i paesi occidentali, oltre all’URSS, si sono dimostrati poco disposti a seguire gli americani sul terreno della messa al bando di alcune tecnologie nucleari civili perché ritenute proliferanti e ancor meno su quello della limitazione dello sviluppo nucleare ai paesi industrializzati o a quelli considerati “sicuri”. Questa diversa posizione era spiegabile con il diverso ruolo che i paesi intermedi, anche se nuclearmente armati,come 10 Oggi funzionano nel mondo 284 reattori di ricerca in 56 paesi. Nel tempo però molti reattori di ricerca sono già stati chiusi.

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Francia e Inghilterra, giocano sullo scacchiere internazionale, ma soprattutto con la vivace concorrenza allora esistente tra le imprese europee (in particolari francesi e tedesche) e quelle americane sul mercato delle esortazioni nucleari. La politica di non proliferazione era quindi vista anche come un modo per difendere le imprese nucleari americane che stavano perdendo la loro leadership tecnologica. Infine, la politica proposta dagli americani era osteggiata anche da molti paesi in via di sviluppo. Come alcuni studiosi (Vaccà 1978) sottolinearono subito, l’INFCE conseguiva il risultato politicamente improponibile di suddividere il mondo in paesi di tre categorie: i paesi nuclearmente armati a cui tutte le tecnologie erano permesse, i paesi industrializzati senza armi atomiche che potevano sviluppare liberamente l’uso civile del nucleare e i paesi in via di sviluppo a cui era richiesto di rinunciare non solo alle armi atomiche, ma anche a dotarsi degli impianti del ciclo del combustibile nucleare perché potenzialmente proliferanti.Dopo il sostanziale fallimento dell’INFCE, gli Stati Uniti, all’inizio degli anni ’80, decisero di continuare sulla strada indicata da soli. Tutti i finanziamenti pubblici alla ricerca e sviluppo in campo nucleare furono drasticamente tagliati. La sperimentazione riguardante i reattori veloci autofertilizzanti e il riprocessamento del combustibile irraggiato furono abbandonati. Anche la tecnologia di arricchimento dell’uranio mediante laser fu congelata in quanto potenzialmente più proliferante delle altre. Alle decisioni governative si sommò il fatto che, come già ricordato, il nucleare si rivelò un fallimento economico per le utilities e nessun reattore fu più ordinato dalla fine degli anni ’70. Il quasi arresto dello sviluppo nucleare negli USA e il venir meno del loro sostegno alla ricerca non poteva non avere effetti a livello mondiale, ivi inclusi sulla traiettoria di sviluppo tecnologico. Lo sviluppo dei reattori veloci, che molti ritenevano sarebbero diventati competitivi negli anni ’90, si è praticamente arrestato. La discussione ciclo aperto-ciclo chiuso è continuata e la posizione americana ha quanto meno impedito che la strada del riprocessamento e riciclo del combustibile irraggiato (che da un punto di vista logico appare superiore) si affermasse su larga scala. Nessun impianto di arricchimento dell’uranio mediante tecnologia laser è stato realizzato.Politicamente i paesi occidentali dotati di tecnologia nucleare, pur non avendo accettato le tesi americane per le proprie scelte tecniche, hanno progressivamente adottato un atteggiamento molto più prudente nelle esportazione di impianti nucleari. Ma questa prudenza non ha portato ai risultati sperati. Valgano per tutti due esempi. La Francia negli anni ’70, sperando di vendere alcuni impianti nucleari, si era impegnata ad aiutare il Pakistan a costruire un impianto di riprocessamento. Tale esportazione fu cancellata sotto le pressioni americane. Ciò non ha impedito al Pakistan di dotarsi di armi atomiche sviluppando un programma militare autonomo. La KWU-Siemens aveva venduto chiavi in mano allo Scià di Persia due reattori nucleari che erano in uno stadio avanzato di costruzione quando scoppiò la rivoluzione iraniana nel 1979. Durante gli anni ’80 i due reattori furono ripetutamente danneggiati dai bombardamenti iracheni. Dopo una decina di anni di interruzione dei lavori, gli iraniani chiesero ai tedeschi di riprendere e completare la costruzione dei reattori, ma la Siemens, anche su sollecitazione americana, propose di abbandonare la costruzione dei due reattori e di sostituirli con impianti elettrici a gas. Il risultato è stato che l’Iran ha concluso un accordo con la Russia per completare uno dei due reattori secondo la tecnologia russa VVER (vicina ai PWR occidentali) e per collaborare nel campo della ricerca e della fornitura del combustibile. Si era anche discusso di sostegno russo per la costruzione di un impianto di arricchimento dell’uranio secondo la tecnologia della centrifugazione. Anche in questo caso le pressioni americane mandarono a monte l’accordo, ma non impedirono che qualche anno dopo l’Iran realizzasse da solo l’impianto di arricchimento. La cronica di questi ultimi mesi racconta che è in corso un braccio di ferro tra gli Stati Uniti che chiedono all’Iran di rinunciare all’arricchimento dell’uranio e quest’ultimo che sostiene il proprio buon diritto a farlo, avendo un reattore che sta per entrare in servizio ed avendo ratificato il trattato di non proliferazione.

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In sintesi, la preoccupazione americana per la non proliferazione ha sicuramente condizionato l’evoluzione tecnologica e il ritmo di diffusione dell’energia nucleare nel mondo. Ciò è vero ancora oggi. Tuttavia l’atteggiamento americano ha anche fatto sì che paesi come l’India, il Pakistan, l’Iran e altri abbiano puntato a uno sviluppo nucleare autonomo. Oggi ci sono due reattori veloci in costruzione nel mondo: uno in Russia e uno in India, cioè la tecnologia “proliferante” messa in naftalina in occidente viene portata avanti altrove. La proliferazione nucleare è stata limitata, ma non eliminata. Fino a quando la contraddizione di “permettere” ai paesi “amici” come Israele o il Pakistan di avere la bomba atomica e di volere impedire che l’Iran abbia la capacità di averla potrà reggere? E se il nucleare diventasse un’opzione inevitabile per combattere le emissioni dei gas serra e la scarsità dei combustibili fossili, sarà ancora possibile pensare a un nucleare localizzato quasi solo nei paesi industrializzati? Fino a che punto le opzioni tecnologiche devono dipendere dalle preoccupazioni di non proliferazione invece che dalla selezione naturale sulla base delle convenienze tecnico-economiche? Sono questi alcuni dei non semplici interrogativi da cui dipende lo sviluppo dell’energia nucleare.

5 Conclusioni: quali prospettive?

All’inizio degli anni 2000, con il passaggio di consegne tra l’Amministrazione Clinton e quella di Bush, (e dopo la crisi dei missili tra Pakistan e India del 1998), gli Stati Uniti hanno deciso di cambiare atteggiamento verso l’energia nucleare anche senza dichiarazioni altisonanti come in passato. Lo strumento di questo cambio di rotta è stato il lancio del programma denominato “Generation IV Nuclear Energy Systems Iniziative”(DOE 2006). L’obiettivo era quello di sviluppare reattori nucleari di nuova generazione (la quarta) che fossero più competitivi e più resistenti alla proliferazione riaprendo la possibilità di sviluppare nuovi concetti di reattori che invece era stata chiusa (prematuramente secondo molti) negli anni settanta con la scelta dei reattori ad acqua in pressione o bollente (vedi fig. 7). Consci che il successo di questa iniziativa dipende dalla cooperazione internazionale (sia per la condivisione delle spese di R&D che, soprattutto, per l’adozione su larga scala della nuova tecnologia), gli Stati Uniti hanno invitato chiunque volesse ad aderire al programma. Ciò ha consentito la creazione del GIF (Generation IV International Forum), a cui hanno aderito fin dall’inizio una dozzina di Paesi con capacità tecnologiche in campo nucleare. Non chiedendo di rinunciare ai reattori in corso di sviluppo da parte di altri paesi e da mettere in esercizio nei prossimi anni (in particolare dell’EPR, European Power Reactor, sviluppato da Francia e Germania) gli Stati Uniti hanno ottenuto un atteggiamento più collaborativi da parte di tutti. Il Generation IV è stato poi affiancato dall’Advanced Fuel Cycle Iniziative (AFCI), con l’obiettivo di sviluppare insieme il tipo di combustibile e il ciclo del combustibile destinato ad alimentare i nuovi reattori. Alle due iniziative di carattere più tecnologico e di ricerca si è poi aggiunta la Global Nuclear Energy Partnership (GNEP), più aperta alla partecipazione di tutti e con compiti più politici.

Fig. 7 L’evoluzione dei reattori nucleari

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Oggi il programma Generation IV è concentrato sullo sviluppo di due tipi di reattori: un reattore a temperatura molto elevata (VHTR), in grado di produrre sia elettricità a basso costo sia idrogeno; un reattore veloce non destinato ad essere autofertilizzante, ma a distruggere il plutonio e gli altri attinidi generati nei reattori nucleari in modo da semplificare la gestione delle scorie. Come si vede, si tratta di una ripresa in grande stile delle ambizioni nucleari presenti all’inizio degli sviluppi degli usi pacifici. Mediante un reattore del tipo VHTR, il nucleare potrebbe rispondere non solo alle esigenze di produrre l’energia elettrica, ma anche l’idrogeno, cioè il carburante del futuro, in grado di sostituire il petrolio nel settore trasporti praticamente con un impatto ambientale nullo. Mediante un reattore veloce basato sul riciclo del combustibile nucleare irraggiato, ma senza la separazione del plutonio, si evita da un lato il rischio della proliferazione e dall’altro si distrugge buona parte del materiale radioattivo a vita più lunga, diminuendo il quantitativo di rifiuti da condizionare e la loro pericolosità. Ovviamente non è affatto detto che gli ambiziosi obiettivi attuali possano essere conseguiti (INEEL 2004). Però gli sforzi attuali si basano su tecnologie e concetti gia seguiti in passato e su sforzi internazionali congiunti. Vi sono dunque maggiori speranze che i reattori nucleari che potrebbero essere costruiti verso il 2030 siano radicalmente diversi da quelli odierni e con caratteristiche tecniche migliori sia dal punto di vista economico che della non proliferazione (vedi fig. 7).L’energia nucleare potrebbe quindi avere tra una ventina d’anni una “Second nuclear era”, per usare l’espressione di Weinberg (1984), che era negli auspici di alcuni pionieri americani negli anni Settanta di fronte all’impasse in cui la nuova fonte energetica si trovava negli Stati Uniti. Ma nel frattempo che cosa è lecito attendersi?Sembra anzitutto altamente improbabile una forte ripresa degli ordinativi di centrali nucleari a livello mondiale. Le centrali nucleari verranno costruite nei prossimi anni (quasi) esclusivamente nei paesi che già hanno reattori in funzione perché hanno già fatto gli investimenti in “cultura nucleare” che rendono conveniente questa scelta. Per alcuni di questi si tratterà di sostituire i reattori che, nonostante il prolungamento della vita utile, dovranno essere chiusi (Francia, Giappone, Est europeo…). Solo da paesi-continenti come Cina e India potrebbe venire un forte impulso allo sviluppo del nucleare dati gli elevati tassi di crescita della domanda elettrica. Non sembra però che né Cina né India abbiano intenzione di correre troppo preferendo seguire un ritmo di sviluppo che permetta l’acquisizione delle competenze necessarie. Gli Stati Uniti rimangono un grande punto interrogativo, legato soprattutto alla capacità del nucleare di essere competitivo nel contesto americano. L’Unione europea potrebbe forse vedere un qualche rilancio del nucleare se si riuscisse ad affrontare alcuni problemi con una posizione comune: per esempio per la creazione di un organismo di sicurezza e regole di autorizzazione uniche o ancora per quanto riguarda un sito per lo stoccaggio delle scorie radioattive. Nonostante i recenti tentativi di varare una direttiva

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comunitaria, non sembra che vi sia né consapevolezza né consenso (data la forte opposizione dei partiti “verdi”) per arrivare a questo risultato in tempi brevi (Risoluti 2003, Thomas 2003).In secondo luogo lo sviluppo del nucleare continuerà a soffrire dell’opinione largamente diffusa che non c’è una soluzione definitiva per le scorie nucleari. Benché questa tesi possa essere criticata in quanto il problema è più di consenso sociale che di carattere tecnico11, il fatto che nessun paese abbia finora proceduto alla realizzazione di un impianto di stoccaggio definitivo di rifiuti radioattivi a vita lunga continua ad alimentare i dubbi. Più realistico invece è attribuire il ritardo con cui si stanno definendo le soluzioni tecniche alla discussione in corso sulla strada migliore per la chiusura del ciclo del combustibile nucleare di cui si è parlato sopra. Anche il problema del “decommissioning” ovvero della chiusura e dello smantellamento dei reattori nucleari dopo la loro chiusura definitiva continuerà ad essere un tema di discussione che pesa sulle prospettive del nucleare. Tuttavia, anche in questo caso il problema non è tanto tecnico in quanto le soluzioni ci sono (Cumo et al. 2004), ma economico perché lo smantellamento potrebbe avvenire alcune decine di anni dopo la chiusura degli impianti e non è detto che siano stati accantonati fondi sufficienti o che i fondi siano ancora disponibili per pagare tale operazione (Thomas 2005 b).In terzo luogo lo sviluppo dell’energia nucleare nel medio periodo dipenderà dalla sua competitività che è strettamente legata al contesto nel quale i reattori vengono realizzati. Come abbiamo scritto più volte (ad es. De Paoli 2003), un mercato elettrico liberalizzato e un’industria elettrica privata sono meno adatti allo sviluppo del nucleare di un mercato monopolistico basato su imprese pubbliche. Un sistema monopolistico e pubblico infatti garantisce la socializzazione dei costi e dei benefici, quindi non ha bisogno di un’assicurazione esterna (difficile da fare per eventi molto rari, ma potenzialmente catastrofici) e di pagamenti di premi per il rischio agli investitori. Inoltre, poiché i benefici vanno all’intera collettività, può essere più facile trovare il consenso sociale per realizzare gli impianti e quindi contenerne i costi. Infine un sistema pubblico monopolistico trova più facilmente i fondi per finanziare i grandi investimenti necessari per realizzare le centrali nucleari. Naturalmente un sistema monopolistico pubblico, potendo contare sul trasferimento automatico del rischio sui cittadini e sui consumatori elettrici, potrebbe anche essere indotto a osare troppo, cioè a sottovalutare i rischi che si corrono con la scelta nucleare. La questione non riguarda quindi la superiorità di un sistema organizzativo rispetto a un altro, ma solo la maggiore o minore praticabilità della scelta nucleare. Poiché oggi l’orientamento nettamente prevalente è verso sistemi di mercato in cui operano imprese private, ne deriva che le prospettive del nucleare sono oggi meno buone che non negli anni Sessanta e Settanta, nel pieno dello sviluppo della “prima era nucleare”.Tuttavia se la lotta contro i cambiamenti climatici richiedesse uno sforzo consistente per la riduzione delle emissioni di CO2 e se la tensione sui mercati dei combustibili fossili verificatesi negli ultimi anni dovessero portare a una stabilizzazione del prezzo del gas e del petrolio su livelli elevati (vicini agli attuali), allora il ricorso all’energia nucleare potrebbe tornare ad essere attraente da un punto di vista sociale e tale convenienza finirebbe fatalmente per ripercuotersi anche sulla convenienza privata degli operatori.

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Roma, 2° ed.

11 Una descrizione dettagliata delle attività legate al trattamento e al condizionamento del combustibile nucleare esaurito e delle scorie conseguenti, che mostra che le soluzioni esistono e sono state applicate già oggi, è contenuta, ad esempio, nel volume divulgativo pubblicato da EdF nel 2004.

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