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Comune di Thiene
LE PORTE DELLA MEMORIA 2018
Iniziative per commemorare il Giorno della Memoria e il Giorno del Ricordo
Programma
Giovedì 25 Gennaio Teatro Comunale – Viale Bassani - Thiene Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein Conduce la prof.ssa Patrizia Ferronato, docente di storia e filosofia del Liceo F. Corradini. Iniziativa riservata agli studenti degli Istituti superiori e CFP di Thiene Venerdì 26 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo docente di lettere dell’I.C. di Thiene. Iniziativa riservata alle classi terze delle scuole secondarie di primo grado di Thiene, Fara Vic.no, Sarcedo e Zugliano Venerdì 26 Gennaio Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene PAROLE CHE UNISCONO, PAROLE CHE DIVIDONO. A cura di Paola Valente, insegnante di scuola primaria, scrittrice e autrice di libri per ragazzi. Iniziativa riservata agli studenti delle classi V delle scuole primarie di Thiene Sabato 27 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene Proiezione del film OSCAR di Dennis Dellai, con la partecipazione di Rosa Marion Klein e del regista Dennis Dellai. Conduce il prof. Daniele Fioravanzo, docente di storia e filosofia del liceo F. Corradini Iniziativa riservata agli studenti degli Istituti superiori e CFP di Thiene Domenica 28 Gennaio Teatro Comunale - Viale Bassani – Thiene 16 GIOVANI DELLE BREGONZE DEPORTATI NEI LAGER TEDESCHI - il rastrellamento nazifascista del 26 agosto 1944. Testimonianza di Antonio Guglielmi, unico dei deportati ancora vivente. Conduce il prof. Ferdinando Offelli, letture della prof.ssa Valentina Maculan.
Momenti musicali col Coro dei Ragazzi delle Scuole Primarie e Secondarie S. Dorotea e Talin di Thiene diretto da Andrea Dal Bianco e da Sergio Gasparella con la partecipazione di Luciano Zanonato. Immagini delle Bregonze tratte dalla recente pubblicazione “Bregonze” a cura dei fotografi Giuseppe Stella e Valter e Luca Borgo. Iniziativa in collaborazione con l’Istituto scolastico S.ta Dorotea rivolta alla cittadinanza – ingresso libero Giovedì 8 febbraio Teatro Comunale - Viale Bassani - Thiene LA TRAGEDIA DEGLI ESULI GIULIANO-FIUMANO-DALMATI In collaborazione con l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. A cura della prof.ssa Adriana Ivanov, scrittrice e testimone. Conduce la prof.ssa Nicoletta Braga, docente di lettere dell'ITET A. Ceccato Iniziativa riservata agli studenti degli istituti superiori e CFP A seguire incontro per le classi terze delle scuole secondarie di primo grado di Thiene e Zanè. C’ERA UNA VOLTA AL DI LA’ DELL’ADRIATICO UN PEZZO D’ITALIA, ISTRIA, FIUME E DALMAZIA. CON LA GUERRA SONO VENUTE LE FOIBE E L’ESODO. Conduce la prof.ssa Nicoletta Panozzo, docente di lettere dell’I.C. di Thiene. Momenti musicali con il Gruppo Flauto e Coro della Scuola Media Ferrarin diretti da Fiorella Fragnito e Domenico Zamboni. Venerdì 9 febbraio, ore 15 Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene IL PASSATO CHE NON PASSA. FASCISMO, COMUNISMO E QUESTIONE NAZIONALE IN EUROPA ORIENTALE NEL NOVECENTO. A cura del prof. Francesco Privitera, docente di storia delle relazioni internazionali - Università di Bologna. Conduce la prof.ssa Maria Luisa Nofrate, docente di storia e filosofia del liceo F. Corradini. Iniziativa in collaborazione con il liceo F. Corradini rivolta agli studenti di tutti gli istituti superiori e alla cittadinanza – ingresso libero Venerdì 9 febbraio, ore 20.30 Auditorium Città di Thiene “Fonato” - Via Carlo del Prete – Thiene QUALE SALVATORE: HITLER O CRISTO? Romano Guardini critico dell’ideologia A cura del prof. Giulio Osto, docente di Teologia, Facoltà Teologica – Padova. Conduce Luca Bortoli, giornalista de La Difesa del Popolo. Iniziativa per la cittadinanza – ingresso libero Teatro Comunale – viale F.Bassani 18/22 - Thiene (VI) Auditorium Fonato - Via Carlo Del Prete – Thiene (VI)
Le leggi istitutive
Giorno della Memoria – 27 gennaio
legge n. 211 del 20 luglio 2000 "Istituzione del "Giorno della Memoria" in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti" pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio 2000 Art. 1 1. La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati. Art. 2 1. In occasione del "Giorno della Memoria" di cui all’articolo 1, sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere.
Giorno del Ricordo – 10 febbraio legge n. 92 del 30 marzo 2004
“Istituzione del “Giorno del Ricordo” in memoria delle vittime delle foibe, dell’esodo giuliano-dalmata, delle vicende del confine orientale e concessione di un riconoscimento ai congiunti degli infoibati” pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 13 aprile 2004 Art. 1 1. La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del Ricordo” al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. 2. Nella giornata di cui al comma 1 sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado. È altresì favorita, da parte di istituzioni ed enti, la realizzazione di studi, convegni, incontri e dibattiti in modo da conservare la memoria di quelle vicende. Tali iniziative sono, inoltre, volte a valorizzare il patrimonio culturale, storico, letterario e artistico degli italiani dell'Istria, di Fiume e delle coste dalmate, in particolare ponendo in rilievo il contributo degli stessi, negli anni trascorsi e negli anni presenti, allo sviluppo sociale e culturale del territorio della costa nord-orientale adriatica ed altresì a preservare le tradizioni delle comunità istriano-dalmate residenti nel territorio nazionale e all'estero. 3. Il “Giorno del Ricordo” di cui al comma 1 è considerato solennità civile ai sensi dell'articolo 3 della legge 27 maggio 1949, n. 260. Esso non determina riduzioni dell'orario di lavoro degli uffici pubblici né, qualora cada in giorni feriali, costituisce giorno di vacanza o comporta riduzione di orario per le scuole di ogni ordine e grado, ai sensi degli articoli 2 e 3 della legge 5 marzo 1977, n. 54. 4. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Art. 2 1. Sono riconosciuti il Museo della civiltà istriano-fiumano-dalmata, con sede a Trieste, e l'Archivio museo storico di Fiume, con sede a Roma. A tale fine, è concesso un finanziamento di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 all'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata (IRCI), e di 100.000 euro annui a decorrere dall'anno 2004 alla Società di Studi fiumani. 2. All'onere derivante dall'attuazione del presente articolo, pari a 200 mila euro annui a decorrere dall'anno 2004, si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l' accantonamento relativo al medesimo Ministero. 3. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. Art. 3 1. Al coniuge superstite, ai figli, ai nipoti e, in loro mancanza, ai congiunti fino al sesto grado di coloro che, dall' 8 settembre 1943 al 10 febbraio 1947 in Istria, in Dalmazia o nelle
province dell'attuale confine orientale, sono stati soppressi e infoibati, nonché ai soggetti di cui al comma 2, è concessa, a domanda e a titolo onorifico senza assegni, una apposita insegna metallica con relativo diploma nei limiti dell'autorizzazione di spese di cui all'articolo 7, comma 1. 2. Agli infoibati sono assimilati, a tutti gli effetti, gli scomparsi e quanti, nello stesso periodo e nelle stesse zone, sono stati soppressi mediante annegamento, fucilazione, massacro, attentato, in qualsiasi modo perpetrati. Il riconoscimento può essere concesso anche ai congiunti dei cittadini italiani che persero la vita dopo il 10 febbraio 1947, ed entro l'anno 1950, qualora la morte sia sopravvenuta in conseguenza di torture, deportazione e prigionia, escludendo quelli che sono morti in combattimento. 3. Sono esclusi dal riconoscimento coloro che sono stati soppressi nei modi e nelle zone di cui ai commi 1 e 2 mentre facevano volontariamente parte di formazioni non a servizio dell'Italia. Art. 4 1. Le domande, su carta libera, dirette alla Presidenza del Consiglio dei ministri, devono, essere corredate da una dichiarazione sostitutiva di atto notorio con la descrizione del fatto, della località, della data in cui si sa o si ritiene sia avvenuta la soppressione o la scomparsa del congiunto, allegando ogni documento possibile, eventuali testimonianze, nonché riferimenti a studi, pubblicazioni e memorie sui fatti. 2. Le domande devono essere presentate entro il termine di dieci anni dalla data di entrata in vigore della presente legge. Dopo il completamento dei lavori della commissione di cui all'articolo 5, tutta la documentazione raccolta viene devoluta all'Archivio centrale dello Stato. Art. 5 1. Presso la Presidenza del Consiglio dei ministri è costituita una commissione di dieci membri, presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri o da persona da lui delegata, e composta dai capi servizio degli uffici storici degli stati maggiori dell'Esercito, della Marina, dell'Aeronautica e dell'Arma dei Carabinieri, da due rappresentanti del comitato per le onoranze ai caduti delle foibe, da un esperto designato dall'Istituto regionale per la cultura istriano-fiumano-dalmata di Trieste, da un esperto designato dalla Federazione delle associazioni degli esuli dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia, nonché da un funzionario del Ministero dell'interno. La partecipazione ai lavori della commissione avviene a titolo gratuito. La commissione esclude dal riconoscimento i congiunti delle vittime perite ai sensi dell'articolo 3 per le quali sia accertato, con sentenza, il compimento di delitti efferati contro la persona. 2. La commissione, nell'esame delle domande, può avvalersi delle testimonianze, scritte e orali, dei superstiti e dell'opera e del parere consultivo di esperti e studiosi, anche segnalati dalle associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati, o scelti anche tra autori di pubblicazioni scientifiche sull'argomento. Art. 6 1. L'insegna metallica e il diploma a firma del Presidente della Repubblica sono consegnati annualmente con cerimonia collettiva. 2. La Commissione di cui all'articolo 5 è insediata entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e procede immediatamente alla determinazione delle caratteristiche dell'insegna metallica in acciaio brunito e smalto, con la scritta «La Repubblica italiana ricorda», nonché del diploma. 3. Al personale di segreteria della commissione provvede la Presidenza del Consiglio dei ministri.
Art. 7 1. Per l' attuazione dell'articolo 3, comma 1, è autorizzata la spesa di 172.508 euro per l'anno 2004. Al relativo onere si provvede mediante corrispondente riduzione dello stanziamento iscritto, ai fini del bilancio triennale 2004-2006, nell'ambito dell'unità previsionale di base di parte corrente «Fondo speciale» dello stato di previsione del Ministero dell'economia e delle finanze per l'anno 2004, allo scopo parzialmente utilizzando l'accantonamento relativo al medesimo Ministero. 2. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio. 3. Dall'attuazione degli articoli 4, 5 e 6 non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Le Porte della Memoria 2018
Alcune recensioni del film Oscar di Dennis Dellai Alessandra Dall'Igna VICENZA Grande emozione ed entusiasmo per la prima ufficiale del film “Oscar”, proiettato martedì sera al Ridotto del Comunale di Vicenza davanti ad una affollata platea di addetti ai lavori e rappresentanti delle istituzioni. Il nuovo film del regista e giornalista del Giornale di Vicenza Dennis Dellai ha saputo raccontare, attraverso una scrittura, una regia e una fotografia autentiche e non edulcorate per uso e consumo del grande pubblico, un pezzo di storia vicentina sconosciuta ai più, accendendo il vivido ricordo dei rastrellamenti, delle code per la razione di pane, dell'oscurità dei rifugi antiaerei, del cieco odio verso gli ebrei. Ma anche del coraggio e della generosità di uomini e donne qualunque, dimenticati dalla Storia. Un'opera corale nella quale ognuno dei personaggi possiede una propria personalità e soprattutto una dignità narrativa in grado di trascinare il pubblico dentro al cuore della storia, quella del musicista e jazzista ebreo Oscar Klein che al tempo della seconda guerra mondiale visse ad Arsiero con la sua famiglia per sfuggire alle deportazioni dei nazisti. E se in un primo momento lo sguardo degli spettatori inevitabilmente vaga per lo schermo alla ricerca di luoghi e volti familiari, l'attenzione viene poi catturata dalla trama che regala lacrime e risate, colpi di scena e profonde riflessioni, e dalla convincente interpretazione del cast, buona parte del quale composta da attori non professionisti. E questo è probabilmente l'aspetto più sorprendente e miracoloso di “Oscar”, ovvero che ci si trova di fronte ad un film in costume low budget che ha coinvolto 900 comparse, finanziato da una manciata di imprenditori coraggiosi, girato di domenica con telecamere poco più che amatoriali da una squadra di volontari che hanno dedicato sei anni della loro vita a questo progetto, curandone la post produzione e la colonna sonora originale. «Riguardando il film ho rivissuto una ad una tutte le riprese - afferma Dennis Dellai - e le difficoltà incontrate in questi sei anni di lavoro. Di certo non è un film perfetto, ma mi auguro sia riuscito a trasmettere un’emozione. Ringrazio di cuore chi ha creduto fino alla fine in questo progetto». L’immagine simbolo di questa serata, e del motivo profondo che ha spinto Dellai e la sua squadra a impegnarsi così duramente, è certamente l'abbraccio sul palcoscenico tra l'Oscar cinematografico - l'attore Leonardo Pompa - e la vera sorella Rosa Marion Klein. «Io sono figlia di Alessandro e Agnese, sorella di Oscar - dice visibilmente emozionata la signora Klein dopo la proiezione della pellicola - e a nome loro voglio dire grazie per questo capolavoro che ha saputo raccontare la nostra vita. La cosa più incredibile è che Dennis, pur non conoscendoli, ha saputo cogliere l'essenza della mia famiglia, e in particolare di Oscar». Tanti i camei di personaggi più o meno conosciuti del Vicentino, su tutti un gioviale giocatore di carte che apre il film: il sindaco di Thiene Giovanni Battista Casarotto.
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Ora la pellicola verrà proiettata al cinema Verdi di Breganze, all'interno della rassegna “Giornate di cinema 2016”, domenica 17 e lunedì 18 aprile.
“Oscar”, ovvero il coraggio di sognare di Stefano Messuri
14.04.16 Summertime è la stagione che segna l'inizio di questo racconto: note immortali spezzano un silenzio di paura e salgono altissime a svelare una veduta aerea di perfetta armonia, come la natura senza l'uomo, un ‘suono' di colori; dalla stessa altezza il rumore osceno dei bombardieri rompe l'incantesimo, mitraglia inutilmente una piazza vuota e costringe alla fuga l'ultimo uomo, che suona. Forme diverse della stessa materia umana creano il miracolo della musica e producono la follia di chi vuole zittirla. Oscar è questo: un pezzo di vita attraversato dalla forza dei sentimenti; vergogna di leggi razziali e solidarietà, tradimento e vendetta, amore e distacco, forza del sogno e libertà, musica. E necessità della memoria, unamemoria che può esprimersi tutta intera in una sola lacrima. Sono temi noti, li abbiamo già incontrati al cinema, sui libri e nei ricordi, e proprio per questo difficili da maneggiare: da un lato funzionali alla presa sul pubblico, dall'altro esposti al pericolo del già visto, alle lusinghe della retorica. Dennis Dellai ha corso questo rischio, ma ne esce vincente. Oscar emoziona lasciando addosso un groviglio di sentimenti che non va più via; conduce la sua vicenda particolare al significato universale che tutti (ri)conosciamo, con la forza della semplicità; l'esatto opposto del semplicismo, o della banalità. Raccontare in modo semplice significa conoscere la materia che si modella, liberarsi da scorie retoriche e ideologiche, calpestare la stessa terra che si descrive, respirare la stessa aria di quelle persone, parlare la loro lingua, ascoltarne la voce. Ilfilm prende le mosse da una storia vera, ma non sarebbe bastato questo a renderlo “credibile”: lo diventa in mano ai suoi autori perché rispetta il principio ineludibile di coerenza interna del racconto, mantiene il patto con lo spettatore, la prima regola da osservarsi per chiunque prenda in mano una penna o una macchina da presa. Per riuscirci serviva la collaudata alchimia del duo Dellai‐Turbian, la loro competenza nella scrittura e nella regia, l'onestà intellettuale e l'umiltà di chi racconta senza mettersi in cattedra, di chi mostra senza giudicare e senza appoggiarsi al facile puntello del senno del poi. La scrittura e la regia di Oscar offrono un fedele autoritratto dei suoi autori, che firmano una sceneggiatura solida, antiretorica e priva di eccessi o caricature; convincente anche nelle figure chiave più difficili, nei chiaroscuri narrativamente ‘pericolosi' da affrontare in una prospettiva storica ancora pulsante. È molto efficace, ad esempio, la descrizione di quei funzionari in buona fede abbandonati a se stessi da uno stato fantoccio, costretti dall'«alleato» all'osservanza di leggi inconcepibili, fino allora (in parte) mitigate dal buon senso popolare e dalla solidarietà tra simili; diventano quindi credibili la rappresentazione del loro sconcerto, la certezza del rifiuto di ordini illegittimi e infami. Non manca la scena ‘dura', comunque calibrata in funzione narrativa, perché sempre di tragedia stiamo parlando; il contrappunto delle sequenze di alleggerimento (la festa in piazza, i momenti di allegria, la ‘normalità') evidenzia per contrasto l'assurdità di una guerra incomprensibile alla gente, e la pericolosa china assolutoria nei confronti della violenza cui porta ogni conflitto, a prescindere
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dalle appartenenze: “niente processo per i traditori”. In questo Dellai conferma un equilibrio di stile già chiaro nel fortunato precedente di Terre Rosse. La sua regia (affiancata dall'immancabile aiuto Davide Viero) è sicura e naturale, mai debordante, precisa nelle sequenze corali, misurata e rispettosa nei ritratti intimi e nei dialoghi. Dellai controlla da professionista la luce e la macchina da presa, rivela di amare il cinema e i suoi maestri. Non sfugge l'omaggio a Spielberg e all'indimenticabile cappottino rosso di Schindler's List [anche Schindler si chiamava Osc(k)ar], qui tuttavia rievocato in funzione salvifica e risolutiva; la colonna sonora attraversa ogni inquadratura, una musica che diventa (anche) condivisione, segno di solidarietà che si materializza nel vinile ‘proibito' di Gershwin, simbolo e testimone di un sogno di libertà e della volontà di perseguirlo. Una bella fotografia accompagna e sostiene la linea narrativa, alternando con maestria toni e luci, il montaggio ‘scompare' abilmente nelle sequenze di azione. Il cast è in stato di grazia. Leonardo Pompa e Sara Lazzaro offrono un'interpretazione intensa ed equilibrata; Piergiorgio Piccoli padroneggia la scena, Anna Zago è all'ennesima conferma, Davide Dolores, Guido Laurjni e Loris Rampazzo tra i ruoli più riusciti, Carlo Properzi Curti crea un personaggio difficile da dimenticare. Nel cameo finale l'indiscutibile spessore di Mariano Rigillo. «Eravamo pieni di sogni, volevamo solo la libertà di poterli vivere» ‐ dice Oscar. Con grande impegno, forza e passione Dennis Dellai ha raggiunto il suo.
In «Oscar», la storia scritta dalle persone, oltre l'ideologia Di Luca Bortoli www.difesapopolo.it Denis Dellai ha completato in sei anni il suo secondo film dedicato all’ultima guerra. Il cineasta amatoriale thienese racconta la vicenda del jazzista ebreo Oscar Klein che, con la sua famiglia, riesce a scampare alla deportazione ad Auschwitz degli internati che erano stati raccolti nel campo di lavoro di Tonezza del Cimone. La soddisfazione e la fatica di girare nei ritagli di tempo mettendo assieme tutti gli attori, tra cui 940 comparse, restando all’interno di un budget davvero ristretto. È l’inverno del ’43. Un gruppo di partigiani fa irruzione in osteria, all’orario di chiusura. La notte è già scesa sulla Valdastico e copre il rapimento dell’oste Giovanni, trombettista scalzato dalla banda del paese dall’ebreo Oscar Klein. È l’invidia cieca a fare di Giovanni la spia che denuncia all’occupante nazista la presenza della famiglia austriaca di origini giudaiche in paese ad Arsiero: una denuncia che paga con la morte, giustiziato dagli stessi partigiani.
È in questa scena che si concentra il messaggio più puro di Oscar, la seconda opera del cineasta amatoriale thienese Dennis Dellai, giornalista de Il Giornale di Vicenza che bissa il successo di Terre rosse con un lungometraggio in cui torna a raccontare gli anni bui della seconda guerra mondiale nell’Alto Vicentino.
Oscar, presentato il 5 aprile a Vicenza, tra domenica 17 e lunedì 18 ha ricevuto il tributo del numerosissimo pubblico che ha affollato per quattro proiezioni in due giorni il cinema Verdi di Breganze. «Anche questa volta – spiega il regista – abbiamo scelto di raccontare la storia dei singoli, degli individui, non quella delle ideologie. Emerge quindi la vicenda personale di chi, più che in base alla divisa, ha vissuto e agito a partire dalle relazioni e dalle proprie convinzioni personali».
Il bianco e il nero, con cui siamo abituati a dipingere la storia, nel film di Dellai assumono invece un tono più vero che ripercorre molte delle esperienze che fra il 1940 e il 1945 hanno vissuto i paesi e le contrade venete: su tutte quella del podestà di Oscar, costretto a ubbidire all’occupante eppure compiacente con l’ebreo, amico dei suoi figli.
Già perché il film descrive, romanzandola, la biografia del jazzista di successo Oscar Klein, che con la sua famiglia è scampato al rastrellamento del campo di lavoro di Tonezza (raccontato da Dellai) durante il quale 40 ebrei vennero deportati ad Auschwitz nel ’44 senza far più ritorno. Una narrazione suggerita da Giannico Tessari, anima de “Le porte della memoria” con cui Thiene ricorda ogni anno la
Le Porte della Memoria 2018 Shoah e l’eccidio delle foibe, e apprezzata da Rosa Marion Klein, sorella di Oscar interpretata da Eleonora Fontana, che da anni porta la sua testimonianza nelle scuole della provincia.
La soddisfazione di Dellai è palpabile, ma il regista non nasconde nemmeno la fatica. «Abbiamo concluso un’odissea di sei anni – confessa – Girare nei ritagli di tempo, mettere insieme tutti gli attori, tra cui le 940 comparse (una comunità come l’ha definita Stefano Messuri, presidente del Cineforum di Breganze, ndr) è stato tutt’altro che facile. Arduo in particolare mantenere il filo della narrazione e fare i conti con l’evoluzione della tecnologia digitale: abbiamo sostituito quattro telecamere nel tempo, il che ha significato rendere omogeneo materiale molto differente a livello fotografico».
E poi non va dimenticato l’aspetto economico: lontano anni luce non solo dalle faraoniche produzioni hollywoodiane, Oscarè un prodotto da 50 mila euro finanziato da quattro imprenditori locali. «È per quest’atto di fiducia, oltre che per l’“armata Brancaleone” di folli che mi segue in queste avventure che non ho mollato durante la lavorazione».
Nei ricordi di Dellai, assistito da Davide Viero come aiuto regista e dallo sceneggiatore Giacomo Turbian, rimarrà la collaborazione con Mariano Rigillo, grande professionista che con umiltà si è calato in quello che è ben di più di un cammeo, e ha portato con sé sul set anche la moglie e la figlia.
Oscar è in sala al cinema Odeon di Vicenza domenica 24 (ore 20.30) e lunedì 25 aprile (ore 19.30). Alcune proiezioni sono in fase di programmazione anche fuori provincia.
Oscar: quando la musica ti può salvare
Di Paolo Perlini Tanti dubbi e poche ma solide convinzioni, questo è il mio credo. E sono sempre più convinto che in qualsiasi attività artistica siano necessarie due qualità: una buona storia (o una buona musica, un soggetto da ritrarre) e passione, tanta. Tutto il resto è benvenuto ma non necessario. Ne riscontro la prova sempre più spesso ascoltando musicisti sconosciuti che suonano negli angoli delle strade o che si fanno conoscere attraverso il web oppure illustratori, disegnatori che, sempre attraverso la rete rendono pubblici i propri lavori. La stessa cosa succede nel cinema: se hai una buona storia, la voglia di raccontarla e un gruppo di amici che ti segue, puoi impiegare sei anni per produrre un film, spendere un budget ridicolo e realizzare un’opera che non ha nulla da invidiare ai colossal hollywoodiani. È questo il caso di "Oscar", secondo lungometraggio del regista Dennis Dellai che torna ad emozionarci dopo "Terre Rosse". Oscar Klein è un giovane musicista ebreo al confino ad Arsiero, un paese dell’Alto Vicentino. Il suo talento lo scopriamo nei primi minuti, quando una festa di paese viene interrotta dall’arrivo di due aerei militari. La sirena invita tutti a scendere nel rifugio, la piazza resta deserta, con gli strumenti a terra e gli spartiti che svolazzano. Lui passa di lì, vede la tromba, la tentazione è forte e inizia ad intonare Summertime, un pezzo che ci accompagna numerose volte nel film. Grazie alla musica conquista la simpatia di Vittorio e della sorella Emma, figli del podestà, ed entra a far pare della banda del paese diretta dal parroco don Franco. Dopo l’8 settembre le cose cambiano, arriva l’occupazione tedesca ed Oscar e la sua famiglia sono costretti a fuggire, grazie all’aiuto di Emma, il parroco e una rete di partigiani. Il regista ama definire il suo come un “cinema di comunità” perché in molti hanno partecipato a questo progetto, gratuitamente e con quello che potevano offrire: la comparsata, un aiuto sul set o nel trasporto dei materiali, la realizzazione delle scenografie, la fornitura di oggetti da collezione, divise e vestiti dell’epoca, nonché le armi. Un film low budget che ha coinvolto quasi mille comparse, girato nel tempo libero, ovvero la domenica perché non vivendo di cinema tutti hanno un altro lavoro che li impegna. Un film che narra una storia vera, con qualche licenza dovuta ad esigenze narrative e la cui realizzazione è un’altra storia a parte. “Cinque anni di riprese, un anno di post produzione. In tutto questo tempo abbiamo visto i figli crescere” ha detto il regista dopo la proiezione.
Le Porte della Memoria 2018 Numerosi sono gli aneddoti che rendono questo film una storia nella storia, perché quando si hanno pochi soldi bisogna ingegnarsi: se ti serve un treno ferroviario per girare una delle scene più complesse e spettacolari, non puoi chiederlo a Trenitalia, il noleggio ti costerebbe quanto l’intero film. Però, se casualmente vieni a sapere che un prete della Bassa Veronese (per chi non lo sapesse, secondo il proverbio i veronesi sono tutti matti, a modo loro e in modalità diversa) tiene in giardino sei vagoni dismessi da Trenitalia diventa logico muoversi, andare a spiare oltre le siepi, consultare sacrestani e perpetue. E alla fine questo prete lo trovano ed è vero quanto si dice, nel giardino non tiene Biancaneve e i Sette Nani ma proprio i vagoni di un treno, che gentilmente mette a disposizione.
Curiose sono state anche le difficoltà per ottenere il visto della censura, giudizio più volte respinto non per la qualità o i contenuti del film ma perché non erano rispettate sciocchezze come la lunghezza dei titoli di coda, inevitabilmente lunghi dato il numero di partecipanti e comparse che avevano lavorato gratuitamente e la troupe intendeva ringraziare.
Un film in cui ci sono omaggi a registi illustri: la sagoma di Vittorio e la storia che gira intorno al disco di Summertime ricorda il trombettista amico del "Novecento" di Tornatore; la bimba con il cappotto rosso richiama "The Schindler List". Citazioni che il regista non nasconde, anzi, le trasforma in un omaggio ai grandi del cinema. Una storia che commuove, che ci fa capire come siamo tutti uguali e tutti diversi e basta poco per diventare traditori o eroi, nonostante gli sforzi di don Franco, che ai musicisti della banda diceva: “Qui siamo tutti uguali, la musica ci unisce”. Un desiderio che nel film si è infranto. Nella realtà invece, il trombettista ebreo Oscar Klein, diventato un jazzista di fama, suonerà insieme a Romano Mussolini, jazzista, figlio di colui che promulgò le leggi razziali. Infine un film che ti fa capire quanto una buona storia e tanta passione producano bellezza. Il resto e tutto trucco.
Le Porte della Memoria 2018
La memoria non basta di Paola Valente
Il ricordo di ciò che ha informato la vita degli esseri umani è scritto nei documenti della storia, insieme alle varie interpretazioni. E’ la memoria oggettiva, fatta di date, di cifre e di avvenimenti. C’è anche un ricordo più profondo, il ricordo del cuore, inciso nella carne di chi è stato protagonista e spesso vittima della storia. E’ un ricordo che si tramanda di generazione in generazione e che non finisce mai di bruciare, iscritto nelle cellule corporee come una mappa del dolore. Chi non ha vissuto la shoah è un testimone che non sa, ma immagina e la sua sofferenza è appunto immaginativa: si mette in qualche modo nei panni di chi ha perso la vita, la dignità, la famiglia, il senso di appartenenza all’umana congerie e si batte perché ciò non succeda mai più. I testimoni diretti del massacro operato dai nazifascisti sono quasi scomparsi. Restano coloro che hanno raccolto i loro racconti, guardato le foto, letto i documenti, coloro che desiderano sapere e comprendere come la divisione delle persone in gruppi abbia potuto determinare la sopraffazione dei più deboli. C’è anche un altro tipo di testimone indiretto. E’ colui che nega la shoah, che la minimizza, che giustifica i torturatori perché, in qualche modo, le vittime se la sono andata a cercare, perché è convinto che esistano razze inferiori che premono ai confini nazionali per minare il suo benessere faticosamente costruito, perché i torturatori “hanno anche fatto molte cose buone”. Commemorare il martirio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali, delle persone che non appoggiavano il nazifascismo non è sufficiente per ricostruire un rapporto sano con tutta l’umanità. Mentre da un lato si deprecano i fatti accaduti quando in Europa imperversavano i totalitarismi, dall’altro si erigono muri per difendere ciò che è chiamato “identità nazionale”, senza rendersi conto che tale divisione crea il rischio che tali fatti si ripetano. Mettere un’etichetta a un essere umano definendolo in base al sesso, alla religione, all’etnia di appartenenza, alle idee espresse significa che quell’essere umano non è considerato per ciò che sente e ciò che fa, ma per ciò che il pregiudizio gli attribuisce. Sei un migrante? Ebbene, sei automaticamente uno scansafatiche che ha attraversato il mare con il telefonino in tasca per approfittare della nostra accoglienza. Sei un rom? Automaticamente sei un ladro. Sei un omosessuale? Automaticamente sei un pervertito. Sei una donna? Automaticamente sei una proprietà del maschio. Sei un musulmano? Automaticamente sei un terrorista. E così via. Il pregiudizio impedisce qualsiasi dialogo ed è il muro più alto e invalicabile che esista. “Non sono razzista, ma …” era un tempo il refrain di chi viveva di pregiudizi. Ora il razzista si vanta di esserlo perché ha trovato una valvola di scarico alla propria infelicità. Quando si alimenta dentro di sé l’odio contro qualcuno, si crea un mostro sempre più affamato, che invade la mente con tentacoli innumerevoli. Quando gli odiatori si riuniscono in gruppi, danno forma all’odio, trasformandolo in ideologie e in politica, ideologie e politica che la gente semplice accetta appunto perché sono idee
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semplici, efficaci, divisive. E’ molto più semplice e efficace attribuire pregi e difetti a una categoria che conoscere gli uomini a uno a uno. I morti nei campi di sterminio avevano una propria, meravigliosa unicità che non ci è più dato di conoscere. Il nazismo si preoccupò, prima di uccidere, di cancellare l’unicità dei prigionieri: ne cancellarono prima il nome, sostituito da un numero; quindi uniformarono i corpi rasando i capelli, vestendoli tutti uguali, affamandoli, sfruttandoli, infine bruciandoli tutti insieme, che si mescolassero in un ammasso indistinto di cenere. Era il loro modo, crudele e inumano, di ribadire come quelle persone appartenessero a un’unica categoria da distruggere senza pietà. Non importava se i bambini subivano la stessa fine: erano pur sempre ebrei, sarebbero cresciuti, avrebbero propagato la loro “razza”. L’idea di razza come connotazione di inferiorità non risparmia neppure i bambini, gli innocenti. La memoria non basta e non bastano neppure le innumerevoli, per fortuna, testimonianze storiche. Prova ne sia, fra l’altro, il rigurgito fascista e nazionalista che pervade il nostro Paese. Non si difende la propria identità culturale senza sapere che tale identità è un insieme di prestiti da tantissime altre culture. Non esiste una cultura omologata e chiusa in se stessa e, se esistesse, sarebbe destinata ben presto a perire, soffocando se stessa in idee e norme rigide e obsolete. Bisogna perciò partire dai più giovani, lasciarli liberi di esplorare il mondo senza inculcare in loro idee pregiudiziali, rispondere alle loro domande non con teorie ma con i fatti. Non è raccomandando di rispettare gli altri che noi insegniamo ai più giovani il rispetto. Le prediche sono assolutamente inefficaci. E’ l’esempio che conta: i nostri figli rispetteranno gli altri nelle misura in cui li rispettiamo noi. Rispetteranno l’ambiente perché vedono che noi lo rispettiamo. Leggeranno e si informeranno in proporzione a quanto lo facciamo noi. Combatteranno contro le disuguaglianze e le prepotenze se anche noi lo faremo. Per gli adulti, questa si chiama responsabilità.
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Il 26 agosto 1944 un grande rastrellamento nazifascista ha colpito le colline delle Bregonze e 16 giovani sono stati deportati e costretti al
lavoro coatto.
Mi capita sempre più spesso di riconoscere che senza l’istituzione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio di ogni anno, istituito con legge dello Stato nel 2000, molte storie e molte vicende della Seconda Guerra Mondiale sarebbero andate perse per sempre. Il pericolo che un momento di riflessione e di fare memoria possa diventare rituale e diventare una celebrazione retorica è sempre presente, ma pensiamo alle numerosissime iniziative e ricerche che ogni anno vengono proposte e fatte conoscere in ogni angolo d’Italia, sulla spinta dell’appuntamento del 27 gennaio. Ultima della serie il rastrellamento delle Bregonze del 26 agosto 1944 che ha significato la deportazione e il lavoro coatto per almeno 16 giovani dei Comuni di Carrè, Zugliano e Lugo di Vicenza. Qualcosa di questo rastrellamento si sapeva, qualche ricerca era stata fatta, ma per avere la consapevolezza delle dimensioni e della durezza di quel rastrellamento bisognava avere davanti i nomi e i volti delle vittime, dei giovani catturati e deportati. Otto mesi di lavori forzati hanno segnato questi giovani per sempre, nel fisico e nel morale. Sono tornati distrutti e non hanno raccontato nulla o quasi o forse non hanno trovato chi stesse ad ascoltarli. Il disastro della guerra era stato così grande, con famiglie che avevano avuto i figli a combattere e a morire in mezzo mondo e chi era tornato vivo non faceva notizia perché alla fin fine era stato fortunato. Antonio Gugliemi è l’ultimo di loro ancora fra noi e anche lui ha raccontato poco; fortunatamente, all’età di 90 anni, ben portati, ha deciso che la sua storia e quella dei suoi compagni doveva essere conosciuta. La ricerca ha voluto comprendere tutti i giovani che quel sabato 26 agosto sono stati catturati e deportati, uno era padre di un bambino di pochi mesi, altri avevano 17 o 18 anni, altri ancora erano soldati che con l’8 settembre avevano deciso che non volevano più saperne di fare la guerra, avevano già sofferto abbastanza. E’ stato possibile, grazie ad Antonio Guglielmi e ai famigliari dei compagni di sventura ricostruire qualcosa della loro prigionia, poco per la verità, per il motivo che ho detto e anche perché la maggior parte di loro è deceduta, ancora giovani, da molti anni, fra gli anni ‘70 e ’90. Però almeno un quadro di questa dura e disumana vicenda ora è stato disegnato. Non è l’unico caso di deportazioni dimenticate o rimosse. A fine febbraio 1945, ben 10 Thienesi, quasi tutti della Conca sono stati catturati nelle loro case, deportati nel lager di Bolzano e costretti a lavorare per i Tedeschi. Anche di questo rastrellamento è rimasto nella memoria molto poco. E si potrebbe continuare. Per chi non ha vissuto la guerra, ormai non c’è più nessun testimone, viene da pensare che la nostra zona, abbia sì patito, scontri, deportazioni, morti ed esecuzioni, ma non nella misura reale; c’è l’idea che siamo stati risparmiati da sorti peggiori che toccarono ad altre zone del Paese. Per molti giovani addirittura la Guerra da noi non è mai esistita!
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Non è così, ricerca dopo ricerca emerge che la nostra terra ha sofferto e ha pagato un tributo di sangue molto grande; è bene saperlo e soprattutto ricordarlo.
Giannico Tessari
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10 FEBBRAIO: DEDICATO AD EGEA
Guardare indietro per guardare avanti non è un paradosso, ma la lezione di vita che la storia vorrebbe insegnare ad ognuno di noi, per trarre l’insegnamento da imitare, per spazzar via l’errore e l’orrore da non ripetere. E le commemorazioni, le date simbolo, gli anniversari mirano ad individuare una pagina del passato che bussi alla porta della nostra conoscenza, della nostra coscienza, della nostra umanità, sollecitando il sapere, la consapevolezza, la riflessione. E’ quanto auspica la data del 10 Febbraio, che dal 2004 coincide con il Giorno del Ricordo, istituzionalizzato con voto quasi unanime del Parlamento, al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’ esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale. Nella giornata…sono previste iniziative per diffondere la conoscenza dei tragici eventi presso i giovani delle scuole di ogni ordine e grado…
I giovani, sì, non solo quelli attuali, ma anche quelli ormai adulti e maturi che per sessant’anni, fino appunto al fatidico 2004, non hanno trovato cenno nei loro testi scolastici della tragedia delle foibe e dell’esodo, per una congiura del silenzio - come la definì l’ allora presidente Napolitano - che non perdonava agli esuli il fatto di esser fuggiti al 90% in quasi 350.000 dalle loro terre, ormai jugoslave e sottoposte al regime comunista del maresciallo Tito, come se fossero tutti fascisti. Privati dei diritti fondamentali, perseguitati in quanto italiani, unici tra i connazionali ad aver sperimentato sulla loro pelle non solo il nazifascismo come il resto della nazione, ma anche il comunismo reale, pagarono il prezzo della sciagurata guerra cui Mussolini ci aveva condotto anche con la perdita del suolo natale, un territorio che equivale quasi ad una regione come le Marche. Pagarono agli errori del fascismo il prezzo in assoluto più alto di tutto il conflitto, proprio loro accusati di essere fascisti in fuga. Erano in fuga da un altro totalitarismo, frutto dell’ espansionismo nazional- comunista di Tito, pur avendo compiuto dopo il fatidico 8 settembre 1943 scelte sofferte e diversificate come tutti gli altri connazionali: non solo repubblichini di Salò per difendere il confine orientale dalle mire dei partigiani di Tito, ma anche combattenti tra le fila della Resistenza, forze regolari a fianco degli anglo- americani nel risalire la penisola, internati IMI nei campi di prigionia germanici per essersi rifiutati di collaborare coi tedeschi…
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Non era certo una fascista in fuga la “bambina con la valigia”, immagine simbolo del Giorno del Ricordo, Egea Haffner, nata a Pola, Italia nel 1941. Nel 1947, con la firma del Trattato di Pace siglato a Parigi il 10 febbraio, che cadeva come una mannaia sulle popolazioni dell’Adriatico orientale, assegnandole alla Jugoslavia, l’ esodo da Pola toccò il picco e circa 30000 su 32000 polesani fuggirono. Egea fu costretta a fuggire già nel 1946, poco dopo che suo padre era stato prelevato dai titini di notte e non era più tornato a casa, probabilmente infoibato come avvenuto ad altre migliaia di italiani già dopo l’ armistizio dell’8 settembre 1943 e dopo il 25 aprile 1945, dunque ad armi ferme! Partendo con la mamma, le fu scattata la famosa fotografia, oggi manifesto ufficiale del Giorno del Ricordo. Una zia le fece i boccoli e le confezionò un vestitino di seta, le misero in mano un ombrellino e la valigia con su scritto “esule giuliana n. 30001”, un numero allusivo: gli abitanti di Pola in fuga erano 30000, dicevamo, più uno… la piccola Egea. Vive a Rovereto la signora Egea Haffner e ha 76 anni. E quel musetto corrucciato, quel corpicino costretto a portare sulle spalle una tragedia più grande di lei ci ricordano di ricordare. Il 10 febbraio è stato istituito a questo scopo, per Egea e per tutti quei bambini defraudati della loro infanzia, per tutti quegli italiani defraudati delle loro terre, e spesso della vita.
Adriana Ivanov Danieli esule a un anno da Zara
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Il Passato che non passa. Fascismo, comunismo e questione nazionale nell’Europa Orientale del Novecento
La “crisi dei migranti” ha reso evidenti le contraddizioni del processo d’integrazione europea, inceppatosi fra derive sovraniste e mancata costruzione di una dimensione sovranazionale europea. Nuovi “muri” e confini sembrano dividere l’Europa e gli altri, o forse gli stessi europei, alla ricerca di risposte sul proprio presente, che affondano le radici nel passato e nella necessità di costruire una memoria condivisa della Storia europea. Partendo dalla riflessione sulle esperienze del confine giuliano e altoatesino, s’intende ragionare, con uno sguardo più complessivo, ai temi contemporanei dell’allargamento a Est e alla ridefinizione dello spazio europeo dopo la Guerra Fredda. L’Europa orientale, in particolare, sembra essere ancora “prigioniera” del proprio passato, dominato dalla “questione nazionale”, percepita in chiave etnica e politicamente assertiva. Fascismo e comunismo trovano, quindi, ancora proseliti fra molti cittadini dell’Europa orientale, nella convinzione di poter difendere più efficacemente la sovranità nazionale, altrimenti percepita come messa a rischio dalla democrazia e dal mercato, in un mondo sempre più globalizzato. Breve Bibliografia di base Balibar, E., Crisi e Fine dell’Europa? Bollati Boringhieri, Torino, 2016 Chabod , F., Storia dell’Idea d’Europa, Ed. Laterza, Bari , 1961, 1995. Giddens, A., Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita, il Mulino, Bologna, 2000. Meyer , M., L’anno che cambiò il mondo. La storia non detta della caduta del Muro di Berlino, il Saggiatore, 2009. Ceccotti F., Pizzamei B., Storia del confine orientale italiano 1797‐2007 Cartografia, documento, immagini, demografia, Irsml Fvg, Trieste 2008; De Castro, D., La questione di Trieste. L’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, 2 voll. Lint, Trieste, 1980; Di Michele A., L’italianizzazione imperfetta. L’amministrazione pubblica dell’Alto Adige tra Italia liberale e fascismo, Alessandria 2003. Galeazzi M., Roma‐Belgrado, gli anni della guerra fredda, Longo, Ravenna, 1995; Karlsen, P., Frontiera Rossa. Il PCI, il confine orientale e il contesto internazionale 1941‐1955, Libreria Editrice Goriziana, 2010. Marcantoni M., Postal, G., Sudtirol. Storia di una guerra rimossa (1956‐1967), Roma, 2014. VARSORI A., ROMERO F., Nazione, interdipendenza, integrazione. Le relazioni internazionali dell’Italia (1917‐1989), Roma 2006. Vidali, V., Ritorno alla città senza pace. Il 1948 a Trieste, Vangelista, Milano 1982
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L’arco di tempo, tra il Congresso di Vienna del 1815 e la Conferenza di Pace di Parigi del 1919, rappresenta la parabola discendente degli Imperi sovranazionali europei. Con l’avvento delle “primavere dei popoli” del 1848 vennero a disegnarsi differenti progetti nazionali, spesso contrapposti tra loro nella propria definizione territoriale, dando avvio alle diverse vicende dei risorgimenti europei. Sebbene nell’accezione mazziniana, il “risveglio dei popoli” avrebbe dovuto seguire un progetto condiviso di autodeterminazione dai grandi imperi sovranazionali, in particolare da quello asburgico, all’epoca indicato come la “prigione dei popoli”, assumendo un respiro europeo e federalista, prevalse ‐ invece – nei circuiti irredentistici europei la visione herderiana del “blut und boden” (il sangue e la terra). Tale visione divenne, quindi, elemento distintivo e preponderante dei nazionalismi europei nella costruzione dei rispettivi modelli identitari. La Nazione, perciò, divenne una comunità immaginata di sangue, lingua, cultura e fede, fisicamente distribuita su di un territorio riconosciuto come proprio da una specifica reinterpretazione della Storia. E’ all’interno di quest’ambiente culturale, che tanto caratterizza il corso dell’Ottocento e del Novecento (fino alle sue propaggini nel XXI sec, nella difficile dialettica fra processo d’integrazione europea e sovranità degli Stati/Nazione), che si dipanano le vicende, prima, del Risorgimento Italiano e, poi, di quello Jugoslavo e si viene a sviluppare la controversa “questione giuliana”.
Il Risorgimento italiano, però, ha una valenza ben più ampia, rispetto al semplice contesto nazionale, sia per le implicazioni geopolitiche che ne conseguirono, sia soprattutto per la valenza simbolica che esercitò sulle popolazioni dell’Europa orientale, quale modello di riferimento per comportamenti emulativi nella definizione dei rispettivi “risorgimenti” (di solito, nelle storiografie dell’Europa orientale il termine risorgimento è sostituito da quello di rinascita/rinascimento). La Terza guerra del Risorgimento del 1866, portò all’ingresso del Veneto nella compagine unitaria italiana e, di lì a poco nel 1870, la presa di Roma, futura capitale del Regno d’Italia terminò il ciclo risorgimentale avviato nel 1848. Tuttavia, la Terza guerra del Risorgimento, rappresentò il tornante da cui scaturì, in un rapporto causa‐effetto (oramai ampiamente riconosciuto dalla storiografia contemporanea europea), quella serie di eventi storici che condussero alla Prima Guerra Mondiale (e conseguentemente alla Seconda). Inoltre, sebbene poco raccontata, poiché pagina meno nobile (per le sconfitte militari subite), rispetto alle due precedenti, la Terza guerra del Risorgimento fu quella che determinò l’avvio della fase risorgimentale jugoslava (e più in generale delle popolazioni dell’Impero alla ricerca d’una propria sovranità: polacchi, cecoslovacchi, romeni), quale reazione ai nuovi equilibri nazionali all’interno dell’Impero asburgico.
L’Impero asburgico, infatti, aveva nella comunità italiana, la terza delle nazionalità più ricche nella propria struttura politico‐economica imperiale. Allo stesso tempo, la comunità italiana rappresentava un elemento di mediazione fra le parti austriaca e ungherese dell’Impero, cui il drammatico ridimensionamento per la perdita del Lombardo‐Veneto aveva imposto, dopo lunghi rinvii, la necessità dell’Ausgleich nel 1867 e la trasformazione dell’Impero nella Duplice Monarchia austro‐ungarica. Contemporaneamente, tali sconvolgimenti geopolitici innescarono una serie di rivolte nell’Impero ottomano, volte alla costruzione di Stati nazionali sull’esempio di quello italiano (in Romania, in Bulgaria e in Serbia). La Serbia (assieme a Romania e Bulgaria), con il Congresso di Berlino nel 1878, ottenne – di fatto – la propria indipendenza, predisponendosi a svolgere un ruolo di tipo “piemontese” nel processo risorgimentale jugoslavo.
Pertanto, il Risorgimento italiano ha una valenza ben più ampia, rispetto al semplice ambito nazionale, sia per le implicazioni geopolitiche che seguirono al processo di unificazione italiano, sia ‐ soprattutto ‐ per la valenza simbolica che questo esercitò sulle popolazioni dell’Europa orientale, quale modello di riferimento nella costruzione dei rispettivi stati nazionali. Anche all’interno dell’Impero asburgico, infatti, Polacchi, Ungheresi, Romeni, guardavano con
Le Porte della Memoria 2018 ammirazione ai successi italiani e tentavano di approfittare delle crescenti difficoltà per la corona austriaca nel preservare l’integrità dell’Impero a fronte del progredire delle molte aspirazioni nazionali. L’applicazione del principio del divide et impera nei confronti delle differenti popolazioni dell’Impero da parte degli Asburgo, si riverberava però sugli imperi vicini, russo e ottomano, dove abitavano molti degli stessi gruppi nazionali presenti sotto la corona asburgica e che si trovavano, spesso, in condizioni più svantaggiate. Tutto ciò, finiva per ingenerare un circolo vizioso, in cui la chimera dell’autodeterminazione si irrobustiva sempre di più di miti nazionalisti che si sovrapponevano territorialmente, riproponendo quelle stesse dinamiche che stavano mettendo in crisi i grandi imperi sovranazionali. Se la Polonia sognava la ricostruzione dell’immenso regno medievale che si estendeva dal Mar Baltico al Mar Nero, l’Ungheria auspicava la rinascita della Grande Ungheria di Mattia Corvino. La Romania, invece, immaginava uno stato, Romania Mare (La Grande Romania) che si estendeva dalla Bessarabia ai Balcani lungo tutto l’asse del Danubio, scontrandosi inevitabilmente con i sogni ungheresi e bulgari, laddove la Bulgaria, ad esempio, si sarebbe dovuta estendere sui territori (dal Mar Nero all’Egeo) dell’antico Regno spazzato via dall’invasione turca del XIV secolo. Paradossalmente, ciascun progetto statale nazionale delle popolazioni europee orientali, suggeriva una dimensione sovranazionale, tipica degli stati medievali e di cui i grandi imperi, asburgico, zarista e ottomano erano eredi diretti. Così agendo, quindi, veniva a ripresentarsi la stessa dinamica che stava dilaniando le strutture imperiali che governavano l’Europa orientale fra il XIX e XX sec. Il successo italiano non faceva che accrescere tali spinte nazionaliste e le ambiguità di fondo dei rispettivi progetti statali, anche perché l’Italia stessa stava mostrando, oramai, “il lato oscuro” del proprio progetto risorgimentale.
Sul finire del XIX sec., a mano a mano che l’Italia unita accresceva il proprio ruolo internazionale nel “Concerto” europeo e partecipava attivamente alle logiche “imperialiste” caratteristiche dell’epoca, la politica estera italiana prendeva sempre più una postura nazionalista, specie nella regione adriatica.
L’atteggiamento italiano, a sua volta, provocava come reazione da parte asburgica l’esasperazione delle proprie politiche balcaniche, nel tentativo di impedire il progetto nazionalista italiano della trasformazione dell’Adriatico in un “Mare Nostrum”.
Tuttavia, l’azione verso Sud nel tentativo di raggiungere le sponde albanesi, approfittando della fase di decadenza dell’Impero ottomano, portava Vienna in rotta di collisione con Belgrado, oramai alla guida di un progetto politico “piemontese” per la costruzione di uno Stato unitario slavo‐meridionale.
L’annessione austriaca della Bosnia Erzegovina nel 1908 (intesa come ostacolo definitivo alle spinte espansioniste serba e italiana nella regione adriatica) fu, quindi, prodromo delle guerre balcaniche del 1912‐13 e della Prima guerra mondiale scoppiata l’anno successivo. Le guerre balcaniche furono interpretate dai protagonisti (Serbia, Romania e Bulgaria), come guerre risorgimentali sul modello italiano, che avrebbero dovuto condurre alla definizione dei rispettivi stati nazionali in forma compiuta. Tuttavia, la sovrapposizione territoriale di questi progetti nazionali rendeva pressoché impossibile la loro completa realizzazione e innescava reciproche frustrazioni, foriere di nuovi conflitti, oltreché un nazionalismo sempre più esasperato.
Allo stesso tempo, il nazionalismo liberale italiano, anch’esso sempre più aggressivo, intimoriva gli slavo meridionali, Sloveni e Croati, spingendoli verso l’alleanza politica con i Serbi, poi consacrata a Corfù nel 1917, nell’accordo per la costruzione del Regno SHS (dei Serbi, Croati, Sloveni, di Jugoslavia a partire dal 1929).
L’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale nel 1915, con la prospettiva di concludere il Risorgimento con l’unione di Trento e Trieste, fu definitivamente modificata dalla pretesa del nazionalismo liberale italiano, giustificata da esigenze militari, di “occupare” l’Adriatico con una linea di continuità costiera che giungesse fino a Valona. Così gli Slavi, che ancora nel 1848
Le Porte della Memoria 2018 erano considerati “alleati” contro l’”austriaco” e le cui rivolte nel 1870 in Bosnia e Serbia erano state sostenute anche da volontari garibaldini, divengono ora i nuovi nemici, ostacolo alla diffusione della “civiltà italica” nell’Adriatico, contrapposta alla barbarie slava.
Viceversa, il progetto jugoslavo prevede la costruzione di uno Stato unitario da Salonicco a Klagenfurt, passando per Trieste, affinché la Jugoslavia possa efficacemente difendersi dalla politica di potenza italiana nel bacino adriatico (e affermare la Jugoslavia stessa come potenza regionale in competizione con la Bulgaria). Entrambi i Risorgimenti sono oramai condizionati dalle logiche geopolitiche del XX secolo e, nel caso italiano, anche dalla comparsa di un fenomeno di accresciuto razzismo nei confronti degli Slavi, accentuato dall’ostilità liberale verso l’esperienza rivoluzionaria russa del 1918 e dall’instaurazione del regime comunista in Russia. “Slavo‐comunisti” diviene l’epiteto più comune nella pubblicistica nazionalista italiana per indicare le popolazioni slave, a significare la loro attitudine selvaggia e anarchica, contraria all’ordine costituito, simbolo di civiltà. Tale risentimento fu marcato ulteriormente dalla decisione bolscevica di pubblicare nel 1917, il testo del Patto di Londra, che il governo italiano, all’insaputa dello stesso Parlamento, aveva segretamente firmato con la Triplice Intesa nel 1915. Il Patto (o Memorandum) di Londra prevedeva l’accoglimento delle richieste italiane per l’espansione a Est del confine con l’inclusione, sostanzialmente, di tutta la Venezia Giulia, la Carnia, l’Istria (ossia tutto il litorale austriaco e il suo entroterra) e una porzione importante della Dalmazia e delle isole antistanti. Prevedeva anche la cessione di Valona e dei territori albanesi limitrofi e, di fatto, un protettorato italiano su buona parte dell’Albania stessa. Infine, il Trentino e parte dell’Alto Adige sarebbero divenuti anch’essi italiani. Fiume, sebbene a maggioranza italiana, non venne inclusa nel Memorandum, sia perché formalmente sotto l’amministrazione ungherese, sia perché, all’epoca della firma del Patto non era stata presa in considerazione l’ipotesi della disgregazione dell’Impero asburgico e, quindi, la città istriana avrebbe dovuto garantire un porto alla Duplice monarchia, già privata di quello di Trieste.
La pubblicazione degli accordi segreti generò costernazione nell’opinione pubblica europea e americana, già sconvolte dalla tragicità del primo conflitto mondiale. Gli Stati Uniti, che non avevano firmato Il patto di Londra, dichiararono subito di non volerlo riconoscere. Anzi, il Presidente Wilson, nel tentativo di dare ordine ai processi di autodeterminazione che stavano coinvolgendo vaste popolazioni dell’Europa orientale, anche con il sostegno bolscevico, lanciò la propria proposta dei “XIV punti”, fulcro delle successive trattative di pace, con i quali riconobbe la legittimità alla nascita dello Stato unitario jugoslavo, della Cecoslovacchia e della Polonia. Tuttavia, la nascita di questi nuovi stati non rappresentò una fonte di stabilizzazione della geografia politica europea, al contrario fu foriera di nuovi conflitti. La Polonia, nel tentativo di realizzare il proprio obiettivo nazionale si ritrovò, fra il 1918 e il 1924, subito coinvolta in una sequenza di conflitti per il controllo dell’Ucraina orientale, nella guerra polacco‐ucraina e in uno scontro con la Lituania, e quindi con la Russia bolscevica, che si risolsero in reciproci massacri di popolazione nel tentativo di “pulire etnicamente” le zone contese. Allo stesso modo, romeni e ucraini si combattevano per il controllo della Moldavia e della Bessarabia.
L’Ungheria, sconfitta, era stata “punita” con il Trattato del Trianon (1919) che l’aveva ridimensionata ai confini attuali, generando però un forte revanchismo nel paese. Da quel momento, la massima aspirazione della classe dirigente magiara fu quella di riportare le popolazioni ungheresi rimaste all’esterno dei nuovi confini, in Slovacchia, Romania, Jugoslavia e Ucraina, in un'unica compagine magiara.
La scomparsa di quattro Imperi (asburgico, ottomano, tedesco e zarista) sconvolse la geografia dell’Europa, quindi, ma cambiò radicalmente anche gli scenari della politica italiana.
L’incapacità della classe dirigente liberale italiana di accettare il cambiamento politico imposto dall’ingresso degli Stati Uniti sulla scena europea e la proposta americana della cosiddetta
Le Porte della Memoria 2018 “Linea Wilson” per il confine orientale, che rappresentava comunque un buon compromesso fra quanto auspicato a Londra e la realtà della situazione scaturita con la fine della guerra, portò Roma a un isolamento politico internazionale che favorì, esso stesso, l’ascesa del fascismo, quale momento di riscatto dell’orgoglio nazionale ferito. Il nazionalismo italiano, frustrato dalla cosiddetta “vittoria mutilata”, si lanciò nell’occupazione di Fiume nel 1919, guidata da D’Annunzio, accelerando la crisi del sistema politico italiano.
Tuttavia, la nascita dello Stato jugoslavo era oramai realtà e, sebbene avesse dato compimento all’aspirazione unitaria degli slavo‐meridionali, allo stesso tempo non aveva realizzato l’attesa dell’inclusione di tutti gli Sloveni e Croati all’interno del Regno SHS, essendone rimasti nuclei consistenti negli stati limitrofi, Italia e Austria. Presto, assorbita dalle necessità del consolidamento interno di uno Stato, altrettanto composito quanto quello italiano, Belgrado abbandonò le proprie velleità espansionistiche verso la Venezia Giulia e la Carinzia. Ciò permise, quindi, a Italiani e Jugoslavi di giungere a un accordo, con il Trattato di Rapallo del 1920, che cercò di ricomporre i rapporti fra i due Paesi. Il nuovo confine non comprendeva Fiume, che sarebbe rimasta città libera fino al 1924, quando con il Trattato di Roma, Mussolini ‐ oramai capo del governo ‐ ottenne dagli Jugoslavi l’inclusione della città e dei suoi dintorni nello Stato italiano.
Sebbene sembrasse finalmente risolta la “questione del confine orientale”, per il fascismo ciò rappresentava solo una soluzione temporanea.
Il revisionismo fascista attirò l’attenzione delle classi dirigenti europee‐orientali fortemente orientate dai rispettivi nazionalismi in una rivalità senza fine. L’esempio italiano, di nuovo, rappresentava un modello di riferimento, per le politiche revisioniste ungheresi, romene, bulgare, polacche o, all’interno di stati plurinazionali, croate (per la Jugoslavia) o slovacche (per la Cecoslovacchia), alimentando la nascita di partiti di ispirazione fascista che rivendicavano un uso assertivo della politica estera, fino all’uso della forza, per il raggiungimento dei propri obiettivi nazionali. Pertanto, seguendo il filo degli eventi internazionali e la progressiva instabilità in Europa, causata dal rafforzamento del fascismo e dall’ascesa del nazismo in Germania, tutti i paesi europei‐orientali, ad eccezione della Cecoslovacchia, scivolarono definitivamente verso regimi autoritari di ispirazione fascista a partire dagli anni Trenta. La partizione della Cecoslovacchia, ottenuta con il Trattato di Monaco del 1938, rappresentò l’evento chiave per “rimettere mano ai confini”. Con la mediazione di Germania e Italia, grazie agli arbitrati di Vienna del 1939 e 1940, l’Ungheria ottenne la restituzione di una parte dei territori perduti nel 1919, a scapito della Slovacchia (ora indipendente) e della Romania (che sarebbe stata compensata con l’acquisizione della Bessarabia e della Dobrugia a scapito dell’URSS nel 1941). Anche la Polonia (che l’anno dopo sarebbe stata partita fra Germania e URSS) approfittò del momento, occupando il distretto di Teschen in Cecoslovacchia. La Bulgaria, invece, ottenne, grazie alle pressioni italiane, che la Romania cedesse parte dei territori meridionali a ridosso del Danubio. L’Italia aveva dato il buon esempio e, in particolare, la “politica adriatica” e l’acquisizione dell’Albania nel 1939 avevano preparato il terreno per la successiva spartizione dei Balcani, riprendendo le fila delle guerre balcaniche del 1912‐1913.
Nel corso degli anni Venti del XX sec., il fascismo italiano rivendicò in maniera sempre più aggressiva e decisa gli obiettivi nazionalistici del “Mare nostrum” adriatico, con politiche via via più minacciose verso la Jugoslavia, accentuatesi dopo l’inclusione nel 1929 dell’Albania nella sfera di influenza italiana. Il fascismo trovò, così, un valido alleato nel movimento ustascia del nazionalista croato Ante Pavelic, che auspicava lo smembramento della Jugoslavia e la nascita di uno Stato indipendente croato. L’ambiguo rapporto fra fascismo e ustascismo si basava sul presupposto, italiano, che in cambio del sostegno alla causa ustascia, al momento della nascita della Croazia indipendente, questa avrebbe rinunciato alla Dalmazia a favore dell’Italia. Al contrario, quando nell’aprile del 1941, l’invasione nazifascista della Jugoslavia, pose fine alla prima esperienza
Le Porte della Memoria 2018 unitaria, procedendo allo smembramento dei territori jugoslavi, la Croazia indipendente (che comprendeva anche la Bosnia) accettò solo su pressioni hitleriane la cessione della costa dalmata all’Italia, generando una profonda frustrazione e un acceso risentimento verso gli Italiani da parte croata.
Con l’annessione di metà della Slovenia e della Dalmazia, l’occupazione italiana del Montenegro e il precedente ingresso dell’Albania nell’Impero (1939), si veniva così a realizzare il sogno del nazionalismo italiano del “Mare Nostrum”, quale luogo della rinata “civiltà italica”, propagandata dal fascismo come ricostruzione delle vestigia dell’Impero romano. Ben presto, però, a partire dall’estate del 1941, il movimento partigiano titino rese molto precarie queste conquiste, rendendo l’occupazione italiana sempre più spietata e aggressiva. La dissoluzione della Jugoslavia vide la partecipazione di Ungheria, Romania e Bulgaria. Poiché alleati delle potenze nazifasciste poterono occupare quei territori contesi dalla Prima guerra mondiale e rivendicare i propri progetti nazionalisti. L’Ungheria ottenne la Vojvodina (prima serba), la Bulgaria buona parte della Macedonia, la Romania territori di confine a scapito della Serbia. Infine, l’Albania, quale parte dell’Impero italiano annesse il Kosovo e la Macedonia albanese, realizzando per la prima volta l’unione di tutte le popolazioni albanesi (comprese quelle nella Grecia sconfitta e occupata nel 1941). L’invasione dell’Unione sovietica, nell’estate, del 1941, avrebbe dovuto concludere l’epoca delle revisioni territoriali e la realizzazioni dei progetti nazionali di Ungheria, Romania, Bulgaria, ma anche di Slovacchia e Lituania che poterono annettersi territori persi dalla Polonia e poi dall’URSS. D’altronde, sebbene, l’Unione sovietica proclamasse l’internazionalismo rivoluzionario, di fatto a partire dagli anni Venti, a mano a mano che il potere di Stalin andava consolidandosi, si era orientata verso una politica di ricostruzione territoriale dell’Impero zarista, attraverso il ricupero delle regioni perse nel frangente della rivoluzione, in seguito all’autodeterminazione dei popoli proclamata da Lenin. Sicché, la ripresa dei paesi Baltici, della Carelia finlandese, della Polonia orientale (dove si trovavano importanti minoranze bielorusse e ucraine), della Bessarabia (con minoranze ucraine) furono l’oggetto della “parte segreta” del Patto Molotov‐Ribbentrop del 1939, che rappresentò l’apice di questa politica staliniana, a cui seguirono l’occupazione della Bessarabia e la guerra con la Finlandia nell’inverno 1941. La successiva “liberazione” dei paesi baltici a seguito dell’invasione tedesca, ripagò l’adesione ideologica delle tre repubbliche al nazifascismo con la restituzione dei territori contesi con la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina. L’alleanza militare con la Finlandia permise a quest’ultima di riprendersi i territori perduti a causa dell’occupazione sovietica.
Tutta l’Europa orientale si trovava ora nel ciclone della Seconda Guerra Mondiale, ciascun paese vi era stato coinvolto trascinato dalla propria “questione nazionale”, attraverso l’adesione di molti al fascismo, quale risolutore di tale questione, nell’illusione di aver portato a termine, ciascuno il proprio “risorgimento”, così come aveva fatto l’Italia nei decenni precedenti. Per queste ragioni, il secondo conflitto mondiale in Europa orientale fu estremamente violento, condensando gli aspetti della lotta al nazifascismo, con le differenti logiche nazionaliste confliggenti fra loro, avendo spesso come capro espiatorio comune le popolazioni ebraiche aggredite da un feroce antisemitismo. L’obiettivo era la “pulizia etnica” dei territori acquisiti, per ottenere popolazioni omogenee, appartenenti per lo più al proprio gruppo nazionale.
Anche il teatro di guerra jugoslavo fu, per questo, uno dei più violenti della II Guerra Mondiale. Alla durezza dell’occupazione nazifascista si aggiunse un feroce conflitto interetnico che coinvolse milizie serbe leali alla monarchia (cetnici) e croate (ustascia), ma anche slovene e musulmane, in lotta fra loro e contemporaneamente nemiche dei partigiani titini. In questa lotta di tutti contro tutti, che coinvolse in maniera tragica ed estesa le popolazioni civili, si giunse all’8 Settembre e alla resa italiana. Nel caos politico generale che ne seguì, a causa del collasso istituzionale dello Stato dovuto anche alla fuga del Re, le truppe italiane di stanza nei Balcani si
Le Porte della Memoria 2018 trovarono in balia degli eventi. Una parte, disarmata dai Tedeschi, fu deportata nei campi di lavoro in Germania, una parte fu trucidata sul posto (Corfù, Dodecaneso), quando tentò eventuali forme di resistenza. Ben due divisioni italiane, però, passarono con i Titini, sulla base del voto espresso da truppa e ufficiali, venendo a costituire la “Divisione Garibaldi”, che riprese simbolicamente i valori garibaldini del Risorgimento ottocentesco e fu partecipe della ricostruzione democratica dell’Italia.
Grazie all’Armistizio, i partigiani poterono utilizzare i depositi militari italiani per equipaggiarsi e organizzarsi in un vero e proprio esercito. A Novembre del 1943, a Jaice, il gruppo dirigente titino aveva posto, intanto, le basi politiche del progetto di ricostruzione della Jugoslavia in senso federale e, al tempo stesso, in continuità con l’ideale jugoslavista dell’inclusione di tutte le comunità slavo‐meridionali in un unico Stato: Venezia Giulia, Carinzia, Macedonia egea sarebbero dovuti entrare a far parte di questa “Grande Jugoslavia”. Il progetto di Tito era però ancora più ambizioso, l’unione dei movimenti partigiani comunisti, jugoslavo, bulgaro, albanese e greco (quest’ultimo contrapposto ai monarchici ellenici in una guerra civile dal 1944 al 1949), avrebbe dovuto realizzare una Confederazione balcanica, capace di superare le dispute nazionali che dividevano i Balcani dal 1912.
L’Italia, invece, oramai dilaniata dalla guerra civile, con il Nord occupato dai Nazisti a protezione della Repubblica di Salò e il Sud liberato e cobelligerante con gli Alleati, perse il controllo dei territori della Venezia Giulia che furono annessi al Terzo Reich. La situazione locale si deteriorò ulteriormente in una lotta senza quartiere fra milizie al servizio dei nazifascisti (italiane, slovene, croate e serbe) e i partigiani titini (sloveni, croati, serbi, montenegrini, albanesi), a cui si unirono partigiani italiani di varia estrazione politica. L’evoluzione della guerra, definitivamente sfavorevole alle forze nazifasciste, portò i partigiani titini, tra la fine del 1944 e l’inizio del 1945, a conquistare le regioni settentrionali della Jugoslavia, mentre Russi, Americani e Inglesi convergevano verso l’Europa centrale.
Se la linea di demarcazione fra i teatri operativi alleati era stata ben definita per l’Europa centrale e la Germania, non era però stato previsto il successo dell’esercito partigiano titino, oramai proclamatosi Esercito Jugoslavo, capace di precedere l’arrivo delle armate alleate e incunearsi nelle rispettive zone di occupazione. Il 1° maggio del 1945, le truppe jugoslave entrarono a Trieste nel tentativo di imporre la statualità jugoslava sulla città e i territori limitrofi. Allo stesso modo, i partigiani titini cercarono di prendere il controllo della Carniola e della Carinzia austriache, anticipando l’arrivo degli anglo‐americani. Questi ultimi, però, divisi rispetto all’atteggiamento nei confronti dell’Italia, pur cobelligerante, rimasero inizialmente incerti rispetto alla definizione del confine orientale. Mentre Washington cercava di non indebolire eccessivamente l’Italia sul piano politico, pensando già agli assetti del dopoguerra, e rimaneva disponibile a negoziare un confine orientale sulla falsariga della Linea Wilson, diversamente Londra (e poi Parigi) manifestavano un atteggiamento punitivo verso gli Italiani. Roma, consapevole della propria debolezza politica, si fece, allora, essa stessa, promotrice del progetto americano della “Linea Wilson”, che all’epoca aveva tanto disdegnato. Alla fine prevalse di nuovo la realtà sul campo. La “Linea Morgan”, che divideva le truppe inglesi da quelle jugoslave, ritiratesi ai primi di Giugno da Trieste, divenne il punto di riferimento dell’orientamento franco‐inglese a favore della suddivisione del territorio triestino nelle zone A (italiana) e B (jugoslava). Di fatto, era stato sancito il nuovo confine orientale italiano, poi ratificato con gli Accordi di Osimo del 1975.
L’occupazione jugoslava dei territori italiani fu violenta e vendicativa. Unendo alle precedenti tensioni etno‐nazionali fra Italiani e Slavi, il furore rivoluzionario delle milizie titine, migliaia d’Italiani (ma anche Sloveni e Croati) furono trucidati e infoibati, perché ritenuti collaborazionisti e collusi con il nazifascismo, oppure perché ritenuti un ostacolo alla rivoluzione comunista e al futuro disegno territoriale titino.
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La debolezza politica italiana nell’immediato dopoguerra, le divisioni interne fra le forze politiche democratiche, l’avvento della “Guerra Fredda”, resero difficile, se non impossibile, negoziare una soluzione ragionevole per il contesto istro‐veneto e, nel caos di quegli anni, le comunità italiane si avviarono all’abbandono delle terre contese. L’esodo degli Italiani, fra il 1945 e il 1956, fu parte di un più vasto processo di omogeneizzazione dei territori di confine dell’Europa orientale, nel tentativo di prevenire future forme di autodeterminazione che potessero generare eventuali perdite territoriali e nuove tensioni. Gli “esodati”, come furono definiti i profughi istriani, non trovarono accoglienza facile in un’Italia fortemente provata dalla guerra. L’uso strumentale della ricollocazione dei profughi in aree “difficili”, come il Trentino‐Alto Adige, spopolatosi delle comunità italiane nel corso del conflitto, ricordava le politiche nazionaliste interbelliche di italianizzazione dell’Istria e della parte slovena acquisita dall’Italia. Allo stesso modo, gli insediamenti di profughi nelle “provincie rosse”, deciso dal governo centrale democristiano, dovevano rappresentare un elemento di disturbo per il PCI, nel contesto del duro confronto ideologico che caratterizzò gli anni del primo dopoguerra.
In Europa orientale, la sconfitta nazifascista e l’avanzata dell’Armata Rossa fino nel cuore della Germania, ripristinò lo status quo ante, confermato dalla Conferenza di Parigi. Gli Alleati ripristinarono quasi tutti i confini prebellici, ad eccezione dei territori acquisiti dall’Unione sovietica con il Patto Molotov‐Ribbertrop, che le furono confermati, provocando lo spostamento ad Occidente dell’intera Polonia, a scapito di precedenti regione tedesche, cedute a titolo di compensazione dalla Germania stessa. Sebbene, come anticipato, massicci spostamenti di popolazioni caratterizzarono il dopoguerra, nel tentativo da parte degli Alleati di omogenizzare quanto più possibile sul piano etnico‐nazionale gli stati europeo orientali, ciò nonostante, molte questioni nazionali rimasero aperte, nascoste sotto la retorica dell’internazionalismo e della fratellanza promosse dall’URSS nei paesi satelliti. In verità, il livello di cooperazione fra i paesi del blocco sovietico rimase molto basso e manifestò lungo tutto l’arco della Guerra Fredda tensioni di vario genere come fra Romeni e Ungheresi, Romeni e Bulgari ad esempio.
Nel frattempo, la rottura nel Cominform fra la Tito e Stalin, nel 1948, rimescolava ancora una volta le carte e rompeva gli schemi della Guerra Fredda. La Jugoslavia socialista si avviava così, dagli anni Cinquanta del XX sec., verso un progressivo percorso di avvicinamento all’Occidente che, nel tempo, avrebbe favorito la ripresa di relazioni stabili fra Italia e Jugoslavia.
La restituzione di Trieste all’Italia nel 1954 rappresentò il primo passo verso la normalizzazione dei rapporti fra i due Paesi.
Con il Trattato di Osimo, Italia e Jugoslavia ricostruirono una convivenza che durò fino alla fine dell’esperienza della Federazione socialista, quando nel 1991 questa entrò in un violento processo di dissoluzione durato un lungo decennio. Pur con difficoltà, gli Stati successori, sloveno e croato, assieme all’Italia, hanno saputo costruire rapporti positivi che hanno contribuito all’ingresso di questi due Paesi nell’UE (2004 Slovenia; 2013 Croazia). Gradualmente, il confine ha perso il suo significato divisivo e, grazie agli Accordi di Schengen, finalmente l’intera regione giuliana e l’Istria hanno ritrovato la loro unitarietà. All’interno di questo nuovo ambito politico democratico comune e condiviso si è avviato il progetto della costruzione dell’Euroregione adriatico‐ionica che dal 2013 riunisce tutti i paesi rivieraschi dell’Adriatico in un importante strumento di cooperazione e integrazione.
Anche per i paesi dell’Europa orientale, l’allargamento a Est dell’UE ha rappresentato l’occasione di risolvere le dispute nazionali che tanto a lungo hanno travagliato questa parte del Continente. All’interno dell’UE, senza più barriere, grazie alla libera circolazione e nel pieno rispetto delle minoranze, i nuovi stati membri hanno avviato percorsi di cooperazione prima impensabili. Tuttavia, la crisi finanziaria del 2007 e l’annosa questione dei migranti, che giungono in Europa da varie parti del mondo, hanno risvegliato, in diversi settori delle società dell’Est
Le Porte della Memoria 2018 Europa, nostalgie per una sovranità (mitizzata), mai completamente goduta o realizzata. Partiti di chiara ispirazione revanscista (e con richiami espliciti alle esperienze fasciste interbelliche) sono diventati nuovi protagonisti della scena politica in molti stati dell’Europa orientale. L’UE affaticata da più di un decennio di scontro fra dimensione sovranista (fortemente presente anche nei paesi membri occidentali) e dimensione federalista appare impacciata e in ritardo nel rispondere a questi fenomeni politici, che si autoalimentano nell’inerzia comunitaria. Ciò che è mancato nel progetto dell’UE, è stato, innanzitutto, “la costruzione degli Europei” (per parafrasare il celebre motto di d’Azeglio), ossia l’acquisizione di un senso di cittadinanza comune. Il primo passo in questa direzione è proprio la ricostruzione di una memoria condivisa degli (e dagli) Europei, che permetta loro di superare le proprie divisioni per riconoscersi nell’ordito comune che li caratterizza comunque, pur riconoscendosi nelle rispettive differenze. Breve bibliografia di riferimento al testo
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VENERDI’ 9 FEBBRAIO 2018, ORE 20.30, AUDITORIUM CITTA’ DI THIENE “FONATO”, VIA CARLO DEL PRETE. Quale salvatore: Hitler o Cristo? Guardini critico dell’ideologia. Nel 50° della morte di Romano Guardini (1968-2018) Conduce il prof. Giulio Osto, docente di teologia, Facoltà Teologica – Padova Introduce il giornalista Luca Bortoli
Quale salvatore: Hitler o Cristo? Guardini critico dell’ideologia
Nel 50° della morte di Romano Guardini (1968-2018)
«La Verità vale; il Potere costringe. Alla verità manca il potere immediato, tanto
più quanto più essa è nobile. Quanto la verità appartiene al grado più alto, tanto più debole diventa il suo diretto potere costrittivo, tanto più lo spirito deve maggiormente aprirsi a essa nella libertà»
Romano Guardini Celebriamo nel 2018 il 50° anniversario della morte di Romano Guardini. Il filosofo e
teologo italo-tedesco nasce a Verona nel 1885, ma si trasferisce con la famiglia già l’anno successivo a Magonza, in Germania. Viene invitato nel 1923 a insegnare all’Università di Berlino, in una cattedra istituita appositamente per lui. Nel 1939 il regime nazionalsocialista sopprime la cattedra di Guardini ed egli interrompe ogni intervento pubblico. Dal 1943 al 1945 Guardini vive, insieme all’amico parroco Josef Weiger, nel paesino di Mooshausen, fino a quando nel 1945 gli viene assegnata una cattedra all’Università di Tubinga sulla quale insegnerà fino al 1948, per poi passare all’Università di Monaco di Baviera fino al 1962, dove poi muore nel 1968.
Perché nel 1939 il regime sopprime la cattedra di Guardini? Cosa c’è di tanto pericoloso nella docenza di questo sacerdote cattolico in una università di tradizione luterana? Come mai Guardini è tra i primi posti nelle liste delle persone pericolose e controllate dalla polizia di stato?
Guardini aveva semplicemente pubblicato nel 1935 un piccolo libretto intitolato Il Salvatore e, nel 1937, un libro sulla figura di Cristo: Il Signore. Osservazioni sulla persona e sulla vita di Gesù Cristo. In Guardini è totalmente assente qualsiasi riferimento esplicito alla situazione storico-politica dell’epoca, eppure le lezioni del professore di origini venete sono affollatissime. Il pensiero e la testimonianza di Guardini costituiscono una delle più fulgide espressioni di una critica e resistenza intelligenti e profonde alle vicissitudini di un potere che arriverà ad annientare l’umano. I giovani della Rosa Bianca, che si opposero al regime nazionalsocialista, leggevano Guardini e, infatti, egli parlò ben due volte a Monaco per commemorare la resistenza eroica di quel gruppo di studenti.
All’interno de Le porte della memoria 2018 un momento per conoscere una figura importante di educatore delle coscienze perché anche oggi possiamo essere persone responsabili della nostra libertà.
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La Shoah in Italia, dalle leggi razziali alla deportazione
80 anni fa nell’Italia fascista entrarono in vigore le leggi razziali antiebraiche. Ringraziamo la prof.ssa Raffaella Corrà, docente di storia e filosofia, di questo contributo per ricordare quell’avvenimento che segnò in modo drammatico e terribile la nostra storia nazionale. La Shoah fu, al di là delle specifiche, incommensurabili responsabilità, il prodotto di un’Europa che aveva perso se stessa. Una delle condizioni che resero possibile l’opera dei suoi realizzatori fu la precedente crescita del pregiudizio e dell’avversione contro gli ebrei. Questo ampliamento dell’antisemitismo e del numero dei suoi sostenitori aveva recato in sé anche una certa progressione della banalizzazione dell’ostilità antiebraica e dell’indifferenza pubblica verso le sue vittime. (Sarfatti, La Shoah in Italia p.31) Quanto più privi il perseguitato dei suoi diritti, tanto più ti puoi permettere di colpirlo e degradarlo ulteriormente. La persecuzione delle vite costituisce una conclusione non necessaria, frutto però di un processo graduale, portato avanti fino all’esito finale della dichiarazione contenuta nel manifesto programmatico della R.S.I: Gli ebrei sono da considerarsi stranieri, in questa guerra sono nemici. Nel 1938, anno in cui l’Italia fascista vara le leggi razziali, gli ebrei italiani erano 46.656. Il 70 per cento delle famiglie ebraiche aveva un capofamiglia commerciante, impiegato, professionista. La composizione sociale risulta quindi generalmente superiore alla media italiana (70 per cento di operai o contadini), anche se, in realtà, soprattutto a Roma, c’era soprattutto commercio ambulante. Un elemento distintivo degli ebrei italiani era invece il livello di scolarizzazione, più alto della media italiana; il 5 per cento era costituito da insegnanti. Un terzo di tutti i matrimoni di ebrei del ’35-37, alla vigilia del divieto, era di matrimoni misti. Gli ebrei italiani avevano ottenuto la parità sul piano dei diritti civili e politici nel 1861, al momento dell’unificazione. Questa avvenuta assimilazione è sottolineata più volte da P. Levi: Questo villaggio , o città, o regione, o nazione è il mio, ci sono nato, ci dormono i miei avi. Ne parlo la lingua, ne ho adottato i costumi e la cultura. A questa cultura ho forse anche contribuito. Ne ho pagato i tributi, ne ho osservato le leggi. Ho combattuto le sue battaglie, senza curarmi se fossero giuste o ingiuste; ho messo a rischio la mia vita per i suoi confini, alcuni miei amici o parenti giacciono nei cimiteri di guerra; io stesso, in ossequio alla retorica corrente, mi sono dichiarato disposto a morire per la patria. Non la voglio né la posso lasciare. (Primo Levi, I sommersi e i salvati) Gli ebrei partecipavano più degli altri alla vita politica; all’inizio degli anni ’20 aderivano un po’ a tutti i partiti. Nel 1938, 6900 ebrei erano iscritti al Partito Nazionale Fascista.
La persecuzione dei diritti (1938-1943)
Alla fine del ’37, solo in Germania era in vigore una legislazione antisemita. Nel ’38 – ‘39 venne varata in forme e gravità diverse in Romania, Ungheria, Italia, Slovacchia, poi Austria e alla fine Boemia, Polonia. Quando la guerra determinò la progressiva chiusura delle frontiere, l’Europa antisemita si ritrovò piena di ebrei che non voleva. Fu una delle premesse dello sterminio. In Italia, a lungo è prevalsa la tesi giustificazionista dell’allineamento alla Germania nazista, dopo l’asse Roma-Berlino del ’38. Michele Sarfatti smentisce questa tesi:
Ai fabbricanti di consolazioni aventi nazionalità non tedesca, piace affermare che la Germania nazista impose agli altri Stati l’adozione di legislazioni antiebraiche. In realtà sappiamo che tali
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imposizioni non ebbero luogo. Da un lato nessun documento le attesta. Dall’altro, qualora fossero esistite, le deboli Ungheria, Romania e Slovacchia avrebbero dovuto adottare sin dal 1938-39 il criterio classificatorio biologico, cosa che invece fecero nelle rielaborazioni legislative successive alla guerra. E qualora esse fossero esistite, l’Italia non avrebbe emanato nel settembre-novembre 1938 norme talora più gravi di quelle che in quel preciso momento vigevano in Germania (tali furono tra l’altro, le espulsioni generalizzate degli studenti dalle scuole pubbliche e degli stranieri dal paese e l’introduzione dei primi limiti legislativi al diritto di proprietà.
(M.Sarfatti, La Shoah in Italia, Einaudi p.37) Vediamo alcune date 14-15 gennaio 1938: il Ministero dell’Interno dispone il censimento della religione professata dai propri dipendenti. Estate 1938: l’Ufficio Demografico del Ministero dell’Interno divenne Direzione generale della Demografia e della Razza (pratiche di accertamento su battesimi sospetti, pratiche di arianizzazione). 14 luglio: pubblicazione del documento Il fascismo e i problemi della razza, talora noto come Manifesto degli scienziati razzisti. L’antisemitismo biologico costituisce una precisa novità.
1. Le razze umane esistono. La esistenza delle razze umane non è già una astrazione del nostro spirito, ma corrisponde a una realtà fenomenica, materiale, percepibile con i nostri sensi….
2. Il concetto di razza è concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose.
3. La popolazione dell’ Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà ariana.
4. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. 22 agosto: censimento speciale nazionale degli ebrei, a impostazione razzista. 1-2 settembre: Il Consiglio dei Ministri approva un primo gruppo di provvedimenti legislativi antiebraici. Essi dispongono tra l’altro l’espulsione degli ebrei dalla scuola: Art. 1. All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado [...] non potranno essere ammesse persone di razza ebraica [...] Art. 2. Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. Art. 3. A datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengano ai ruoli per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal servizio; [...] Gli insegnanti espulsi dall’insegnamento secondario furono 177. Furono create 23 scuole elementari ebraiche. Gli ebrei si organizzarono con scuole private: Il mio maestro era Formiggini, di mestiere commerciante di vini e che era stato pregato di espletare le funzioni di maestro nella scuola ebraica perché sul mercato di Bologna si trovavano pochi maestri ebrei. (Giancarlo Sacerdoti, memorie di un ebreo bolognese) 6 ottobre: Il Gran Consiglio del fascismo approva la dichiarazione sulla razza.: Art. 9. L'appartenenza alla razza ebraica deve essere denunziata ed annotata nei registri dello stato civile e della popolazione [...]. Art. 12. Gli appartenenti alla razza ebraica non possono avere alle proprie dipendenze, in qualità di domestici, cittadini italiani di razza ariana. I trasgressori sono puniti con l'ammenda da lire mille a lire cinquemila. Art. 13. Non possono avere alle proprie dipendenze persone appartenenti alla razza ebraica: a) le Amministrazioni civili e militari dello Stato;
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7-10 novembre: viene approvato un secondo gruppo di leggi antiebraiche. Esse tra l’altro contengono la definizione giuridica di “appartenente alla razza ebraica” e dispongono il divieto di matrimonio tra italiani ariani e camiti e semiti, di limitazione del diritto di proprietà ecc. Art. 1. Il matrimonio del cittadino italiano di razza ariana con persona appartenente ad altra razza è proibito. Il matrimonio celebrato in contrasto con tale divieto è nullo. Art. 10. I cittadini italiani di razza ebraica non possono: a) prestare servizio militare in pace e in guerra; [...] c) essere proprietari o gestori, a qualsiasi titolo, di aziende dichiarate interessanti la difesa della Nazione [...]e di aziende di qualunque natura che impieghino cento o più persone [...]; d) essere proprietari di terreni che, in complesso, abbiano un estimo superiore a lire cinquemila; e) essere proprietari di fabbricati urbani che, in complesso, abbiano un imponibile superiore a lire ventimila [...]. 1938-1942: viene decisa l’espulsione totale degli ebrei dall’esercito, dallo spettacolo, dal mondo culturale, dalle libere professioni, la progressiva limitazione delle attività commerciali, degli impieghi presso ditte private, delle iscrizioni nelle liste di collocamento al lavoro ecc. 9 febbraio 1940: Mussolini comunica ufficialmente all’unione delle comunità israelitiche italiane che tutti gli ebrei italiani dovranno lasciare l’Italia entro pochi anni. Giugno 1940: internamento degli ebrei italiani considerati maggiormente pericolosi. Maggio ’42: Precettazione al lavoro obbligatorio degli ebrei. 9 aprile ’42: E’vietato utilizzare in qualsiasi modo per la produzione di film, soggetti, sceneggiature, opere letterarie, drammatiche, musicali, scientifiche, artistiche e qualsiasi altro contributo, di cui siano autori appartenenti alla razza ebraica, nonché impiegare e utilizzare comunque nella detta produzione, o in operazione di doppiaggio o di postsincronizzazione, personale artistico, tecnico, amministrativo ed esecutivo appartenente alla razza ebraica.
Nel momento, dunque, in cui il fascismo varò una legislazione antiebraica, l’Italia non era seconda a nessun altro Paese per meticolosità e severità delle misure imposte agli ebrei.
La persecuzione delle vite (1943-1945)
Ci sono 45 giorni tra la caduta del fascismo (25 luglio) e la diffusione della notizia dell’armistizio (8 settembre ’43). Sconcerta il mantenimento in vigore di tutte le leggi antiebraiche. Dopo l’armistizio, l’Italia venne divisa in due parti e a nord della linea del fronte nacque la Repubblica di Salò (RSI). In questa area ebbe subito inizio la persecuzione delle vite, che durò fino all’estate ’44 nelle regioni centrali e fino all’aprile ’45 in quelle settentrionali. Furono colpite circa 43000 persone di razza ebraica. Di essi 8000 erano stranieri o apolidi e 35000 italiani. Nella maggior parte del territorio, gli arresti vennero effettuati da tedeschi e italiani, nelle due zone Operationszone (Prealpi e Litorale adriatico) solo dai tedeschi. Il 16 ottobre 1943, venne “svuotato” di tutti gli ebrei il ghetto di Roma: La grande razzia nel vecchio Ghetto di Roma cominciò attorno alle 5,30 del 16 ottobre1943. Oltre cento tedeschi armati di mitra circondarono il quartiere ebraico. Contemporaneamente altri duecento militari si distribuirono nelle 26 zone operative in cui il Comando tedesco aveva diviso la città alla ricerca di altre vittime. Quando il gigantesco rastrellamento si concluse erano stati catturati 1022 ebrei romani. Due giorni dopo in 18 vagoni piombati furono tutti trasferiti ad Auschwitz. Solo 15 di loro sono tornati alla fine del conflitto: 14 uomini e una donna. Tutti gli altri sono morti in gran parte appena
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arrivati, nelle camere a gas. Nessuno degli oltre duecento bambini è sopravvissuto.» (F. Cohen, 16 ottobre 1943. La grande razzia degli ebrei di Roma) L’unica donna sopravvissuta è Settimia Spizzichino:
Fummo ammassati davanti a S. Angelo in Pescheria: I camion grigi arrivavano, i tedeschi caricavano a spintoni o col calcio del fucile uomini, donne, bambini ... e anche vecchi e malati, e ripartivano. Quando toccò a noi mi accorsi che il camion imboccava il Lungotevere in direzione di Regina Coeli... Ma il camion andò avanti fino al Collegio Militare. Ci portarono in una grande aula: restammo lì per molte ore. Che cosa mi passava per la testa in quei momenti non riesco a ricordarlo con precisione; che cosa pensassero i miei compagni di sventura emergeva dalle loro confuse domande, spiegazioni, preghiere. Ci avrebbero portato a lavorare? E dove? Ci avrebbero internato in un campo di concentramento? "Campo di concentramento" allora non aveva il significato terribile che ha oggi. Era un posto dove ti portavano ad aspettare la fine della guerra; dove probabilmente avremmo sofferto freddo e fame, ma niente ci preparava a quello che sarebbe stato il Lager". (Settimia Spizzichino da "Gli anni rubati") Il 14 novembre 1943 fu emanato il manifesto programmatico del Partito Fascista Repubblicano: Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica. Il 30 novembre 1943 viene emesso il seguente proclama, firmato dal ministro dell’interno della R.S.I. Buffarini:
A tutti i capi delle Province Libere
Nr. 5. Comunicasi, per la immediata esecuzione, la seguente ordinanza di Polizia [...]:
1. Tutti gli ebrei, anche se discriminati, a qualunque nazionalità appartengano, e comunque residenti nel territorio nazionale debbono essere inviati in appositi campi di concentramento. Tutti i loro beni, mobili ed immobili, debbono essere sottoposti ad immediato sequestro [...]. 2. Tutti coloro che, nati da matrimonio misto, ebbero, in applicazione delle leggi razziali italiane vigenti, il riconoscimento di appartenenza alla razza ariana, debbono essere sottoposti a speciale vigilanza dagli organi di polizia. Siano per intanto concentrati gli ebrei in campi di concentramento provinciali in attesa di essere riuniti in campi di concentramento speciali appositamente attrezzati.
Il Corriere della Sera pubblicò il testo del proclama con questo commento (non firmato): Essendo stati gli ebrei dichiarati nemici dell’Italia, ovvie erano le conseguenze della decisione. Non solo essi non dovevano più essere lasciati liberi di circolare nel nostro paese e quindi di nuocere con ogni mezzo alla causa nazionale, ma si doveva procedere altresì alla confisca dei loro beni…essi andranno a confortare il disagio dei sinistrati dai bombardamenti aerei. E’alla Tribù d’Israele che risale la maggior responsabilità di questa guerra. Impossessatasi delle leve di comando dell’economia mondiale, essa ha premeditato l’aggressione e il soffocamento dei popoli proletari, scatenando un conflitto universale il cui scopo è quello di dissanguare l’Europa e dischiudere le porte del potere assoluto alla razza eletta… Ma non solo questo beneficio ritrarrà l’Italia che si riorganizza per il combattimento dai provvedimenti ora adottati. Mentre si procederà alle retate e all’isolamento di questi irriducibili nostri nemici c’è da prevedere una diminuzione non indifferente dello spionaggio e degli atti terroristici. I fili di molte congiure e tradimenti si spezzeranno come per incanto. Il livore e l’oro
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ebraico avranno cessato di nuocere. E sarà tanto di guadagnato per la patria e per le sue fortune. (Corriere della Sera 1 dicembre 1943) Bibliografia: Michele Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Einaudi Le leggi razziali spiegate agli italiani di oggi. Einaudi La Shoah in Italia. Einaudi Lucio Collotti, La persecuzione degli ebrei in Italia. Laterza
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“Ho compiuto i 18 anni nel lager”. Antonio Guglielmi, uno dei sette deportati di Grumolo Pedemonte
Intervista del 20 giugno 2017 Sono stato preso nel rastrellamento del 26 agosto del 19441, alle cinque di mattina, ero a letto. I rastrellatori erano Tedeschi e Fascisti. A Grumolo io fui il primo ad essere catturato, abitavo allora poco lontano dalla latteria, lungo la strada che portava alla Ca’ Vecia; fui portato a piedi alla latteria dove aspettava un camion. Si proseguì verso la Ca’ Vecia e lungo la strada furono raccolti altri giovani. Ci hanno radunati alla Ca’ Vecia, dove sono arrivati altri camion pieni di prigionieri. Poi mi hanno portato in prigione a Thiene per due giorni e poi a Vicenza a San Biagio, 8-10 giorni, quindi a Peschiera del Garda e lì hanno fatto lo smistamento, durato uno, due giorni e ci hanno caricato in carri bestiame e inviato in Germania. A Vicenza ho potuto incontrare brevemente i miei genitori. Di Grumolo siamo stati catturati in 7, ora solo io sono ancora vivo, sono tutti morti; poi ce n’erano da Lugo e da Carrè, tutti morti anche loro.
- Il sig. Antonio va a prendere un libro in un’altra stanza, vuol far vedere che il rastrellamento è citato e anche la deportazione di sette giovani di Grumolo. Si tratta del libro Grumolo Pedemonte, Storia di una comunità civile e religiosa2. Osserva la mancanza dei nominativi dei sette deportati. Ricordo i compagni di Grumolo Pedemonte partiti con me, Brazzale Aggeo “Angelo”, Sella Aldo, Binotto Battista, Crosara Pietro, Bortoli “Pierini” Francesco, Turle Giuseppe; due della mia classe Crosara e Turle, e gli altri più vecchi. Alcuni avevano fatto il militare e si erano sbandati dopo l’8 settembre3. Di Centrale era Dal Santo Giacometto “Talian”, di Lugo erano Pasin Giovanni, Strozzo Venuto, un Grazian e Dal Bianco “Il Moretto”, di Carrè Cornolò Placido e Calgaro Gildo
conosciuto come “Il Duce”che abitava in via Rua.
Ricordo che alla Ca’ Vecia i Tedeschi avevano piazzato una mitragliatrice con la quale hanno sparato anche verso Zugliano; poi si è inceppata e allora hanno chiamato uno dei prigionieri, Aldo Sella, per sbloccarla. Lui, inesperto, si è bruciato le mani per il calore e i Tedeschi si sono messi a ridere4. Siamo entrati nel Reich per il Brennero e a Innsbruck è stato fatto lo smistamento; mi hanno mandato in un campo di concentramento, un po’ particolare perché era stato ricavato all’interno di una cartiera, il Lager Papierfabrich a Bruck an der Mur in Stiria. Alla cartiera siamo arrivati di sera e ricordo che ci hanno dato da mangiare pannocchie di granoturco, bianco, cotto nell’acqua, in bidoni usati per contenere benzina, petrolio. Dopo ci hanno mandati a dormire, siamo rimasti lì per pochi giorni. Da quel campo andavamo a lavorare poco lontano. A piedi raggiungevamo la stazione ferroviaria di Bruck an der Mur e poi in treno fino a Hafendorf (vicino a Kapfenberg) distante 5 Km e sempre a piedi raggiungevamo la fabbrica Gebr. Böhler & Co.
Antonio Guglielmi all'età di 22 anni
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In settembre ero ancora nel lager Papierfabrich e poi ci hanno trasferiti, vicino alla fabbrica, nel lager Ramsauer Plateau. La fabbrica5 era molto grande, formata da tanti capannoni, dicevano che fosse una ditta americana requisita dai Tedeschi.
Si lavorava 12 ore al giorno dal lunedì al sabato, una settimana 12 ore di giorno e una settimana 12 ore di notte. Il campo era delimitato da reticolati e dietro al campo di concentramento c’era la contraerea; ogni tanto gli Alleati venivano a bombardare ma noi siamo stati fortunati, non abbiamo mai avuto danni. Dormivamo su letti a castello con le tavole messe sul lato corto, con pagliericcio di paglia, prima di noi c’erano prigionieri francesi che avevano lasciato i pagliericci disfatti e ridotti in
polvere. Mi hanno dato un paio di sgalmare (Schuh), una tuta grigia, pantaloni e giacca. Alle suole delle
sgalmare avevo applicato delle lamette di ferro per farle durare di più. Eravamo stati presi d’estate per cui non avevamo vestiti pesanti; la tuta che ci era stata fornita era di sacco, materiale leggero che non proteggeva dal freddo. Per andare al lavoro, sopra alla giacca, mettevamo sulle spalle l’unica coperta che avevamo, tenuta ferma da un chiodo. Penso che dal lager alla fabbrica la distanza fosse di circa 2 Km che facevamo due volte al giorno, passando per la stazione ferroviaria di Hafendorf.
Il nuovo lavoro consisteva nel costruire parti dei carri armati, i famosi Tigre. Noi facevamo le fiancate, unendo le varie parti con delle grosse saldature, noi facevamo lo scheletro. Io ero addetto al controllo delle saldature, dovevo eliminare la scoria e controllare la qualità delle saldature. Facendo luce con una lampadina e usando il gesso e un martello, dovevo segnare col gesso se c’erano problemi. Interveniva poi un capo e uno passava con la mola elettrica per togliere la saldatura mal riuscita e si doveva rifarla. Noi facevamo lo scheletro e la torretta. Quando le fiancate corazzate erano pronte c’era una gru che camminava da una campata all’altra, le agganciava e le caricava sul treno che entrava fin dentro la fabbrica. Questi elementi venivano portati a Graz per il completamento dei carri armati, con cingoli, motore e altro.
Sa quante volte ho pianto per il male agli occhi, lavorando dentro al carro armato per battere via la scoria protetto da maschera, che a poco serviva, a fianco di un altro che saldava quasi a contatto con me usando l’acido e gli occhi mi bruciavano e lacrimavano? Quanto male mi facevano e allora mi dicevano per calmare il dolore di mettere sugli occhi le bucce di patate, ma dove andavo a prendere le bucce? Se ne avessimo avute, le avremmo mangiate!
Carta d'identità per lavoratori rilasciata a Antonio Guglielmi il 3 ottobre 1944.
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Faceva molto freddo e per riscaldarmi, quando non ero controllato, applicavo l’elettrodo del saldatore alle lamiere fino a farlo diventare rosso e in questo modo mi riscaldavo un po’. Come conseguenza l’elettrodo finiva in briciole; ma nessuno mi controllava.
Quando c’erano gli allarmi aerei, tutti andavano nel rifugio mentre io con altri pochi e il capo rimanevamo in fabbrica, protetti in un piccolo riparo, dotati di maschera ed elmetto, pronti ad intervenire in caso di bombardamento. Quando il turno era di notte capitava spesso che passavo delle ore nel rifugio dentro la fabbrica. Vicino alla fabbrica si trovava una montagna all’interno della quale era stato ricavato un rifugio dove andavano operai e Tedeschi in caso di allarme. I bombardamenti alleati ci hanno sempre risparmiati, eppure la fabbrica era molto grande; hanno interessato le città di Graz, Linz e altre. Ricordo un avvenimento che mi fece molta impressione. Le fiancate e le torrette venivano stampate a caldo da presse enormi. Ricordo che un Russo che lavorava con me si è sistemato sopra una lamiera appena trattata per riscaldarsi, ma con l’allarme veniva staccata la corrente elettrica e la pressa è venuta giù …schiacciandolo. Una volta alla fine del lavoro, siamo tornati al campo e mi ero appena disteso sulla branda quando c’è stato un allarme aereo; siamo andati al rifugio dove siamo rimasti dalla sera alle sei alla mattina alle sei, in tempo per andare al lavoro. Un mese prima che la guerra finisse mi hanno portato a scavare fossi anticarro, verso Vienna, per cercare di rallentare i Russi che si stavano avvicinando. Ci assegnavano dei tratti da fare e finito il tratto potevamo tornare al campo di concentramento, a piedi. Non avevamo più alcuna energia e voglia di lavorare perché ci mancavano le forze. Mangiavamo pochissimo; il pane era in filoni e ad ognuno di noi davano una fettina (con le mani cerca di dare l’idea della quantità di pane che riceveva, misure da fetta biscottata), un piccolo mestolo di acqua e rape, rare volte c’erano anche delle carote, ma più spesso solo rape. Alla sera al lager ancora minestra di rape. Al lager prendevo il rancio con una bella ciotola di terracotta. Ricordo che nella fabbrica il pavimento era ricoperto da un tavolato di legno, ormai mal ridotto, per cui i tedeschi hanno deciso di eliminarlo e di sostituirlo. La tavole da sostituire venivano tagliate in pezzi abbastanza lunghi. Senza essere visto sono riuscito a nascondere sotto la giacca alcuni pezzi, nascosti anche dalla coperta che mi mettevo sulle spalle e li ho portati nella baracca dove avevamo una stufa che funzionava con carbone coke, però per noi introvabile. Se mi avessero scoperto a rubare i pezzi di legno avrei avuto dei bei problemi!
I lavori per i fossi anticarro venivano fatti di notte e al mattino, eravamo in aprile, tempo adatto per piantare le patate, le loro Kartoffeln, stavamo tornando al campo e siamo passati vicino a campi dove da poco erano state piantate le patate. Noi abbiamo cercato di prenderne, ma i Tedeschi si sono accorti e si sono fatti minacciosi e abbiamo lasciato perdere….
Noi non abbiamo mai visto i Russi, ma un contatto c’è stato. Si è trattato di un mitragliamento fatto dai Russi diretto verso la fabbrica; una pallottola ha colpito l’orologio Nella fabbrica c’era l’orologio e una pallottola ha colpito un orologio da parete. Otto, dieci anni dopo la fine della guerra ho fatto una viaggio con la moglie, una figlia, che poi è mancata, e suo marito e ho visitato anche la zona della fabbrica. Volevo visitare
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l’interno della fabbrica, ma non mi hanno lasciato entrare, ma da fuori ha visto l’orologio ancora con l’ammaccatura della pallottola.
Prima che finisse la guerra i Tedeschi ci hanno radunati e caricati su carri bestiame e portati verso il Tarvisio. Ci hanno portati al confine, prima ancora che arrivassero gli Americani, perché temevano che ci rivoltassimo contro di loro.
Dal Tarvisio abbiamo fatto il viaggio fino a casa tutto a piedi. Avevamo i piedi fasciati da stracci perché non avevamo più scarpe. Delle donne lungo la strada ci hanno chiesto da dove venivamo e ci hanno offerto da bere e da mangiare. Siamo arrivati a Padova e poi Vicenza. Potevamo tagliare la strada, evitando Padova, ma avevamo paura di incontrare gli Americani e di essere portati a Udine per il periodo di quarantena. In effetti gli Americani li abbiamo visti a Pontebba, vicino al Tarvisio, diretti in Austria. Arrivati a Vicenza, con me c’erano, Cornolò Placido di Carrè e un Manzardo chiamato Ganassa, alto, magro, di Lugo, morti anche loro, abbiamo incontrato uno con un biroccio. Nonostante l’incitamento di una donna a nostro favore affinché costui ci desse un passaggio, lui tirò dritto. Arrivati a Thiene abbiamo incontrato Mattio Ciappacan (Matteo Contro una figura mitica della Thiene di allora, il 1° Maggio portava sempre un garofano rosso sul bavero della giacca, fedele al suo credo politico n.d.r.), che ci ha accolti con calore e che ha chiamato un’ambulanza per portarci fino a casa, tutti e tre. Sono arrivato a casa a sera e la voce del mio ritorno si è sparsa subito.
Ho evitato di entrare in casa perché ero pieno di pidocchi e sono andato nell’orto a cambiarmi. I pidocchi li chiamavamo “la croce uncinata”. Era il 12 maggio 1945.
Del gruppo catturato il 26 agosto, siamo stati i primi a tornare e poi sono tornati anche gli altri. Fortunatamente tutti vivi.
Ricordo che Battista Binotto è tornato dopo qualche giorno e subito qualcuno è venuto ad avvertirmi del suo arrivo, incredulo, perché Battista indossava bellissimi stivali neri.
Lettera inviata alla famiglia tramite la Croce Rossa Internazionale. Manca la data, ma la residenza di Antonio Bruck an der Mur, colloca questa lettera nel primo periodo dell'internamento, quando il lager era Papierfabrich, presso una cartiera. Si noti l’eliminazione del nome del lager mediante ritaglio della carta. Antonio attribuisce questo alla censura. Il retro della lettera era destinato alla risposta da parte della famiglia. In questo caso non è stato usato.
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L’apparenza era questa. Ma in realtà il povero Battista aveva fatto la strada a piedi nudi e aveva piedi e gambe nere per il fango e lo sporco! A pochi giorni dalla liberazione Battista era stato spostato in un altro luogo, non so dove e non so il motivo per cui non siamo tornati assieme. Tornando ai miei compagni di sventura, Angelo Brazzale e Aldo Sella, dopo un breve periodo passato assieme a me, durante il quale venivano mandati a lavorare in fonderia sempre della Böhler a Sankt Marein im Mürztal, un centro non molto lontano da dove mi trovavo (n.d.r. la distanza tra i due centri è di 13 Km percorsi in treno), sono stati spostati in un lager nelle vicinanze della fonderia. Ricordo che Grazian un giorno è tornato dal lavoro nella fonderia ed è andato in infermeria perché un getto di materiale fuso lo aveva colpito al piede. Battista Binotto era nel mio stesso campo e ha lavorato nello stesso capannone dove lavoravo io, ma in un’altra campata, e usava una macchina a carburo che ritagliava le lamiere. Pietro Crosara e Giuseppe Turle sono stati divisi dal nostro gruppo e inviati a lavorare in Germania. Un compagno, non ricordo il paese, ha avuto un grave infortunio e ha perso una gamba. Per questo fatto è stato rimpatriato. Con me, nello stesso campo c’era anche Giacometto Dal Santo di Centrale, classe 1925, che dopo il ritorno ha fatto il collocatore. Nella fabbrica faceva il mio stesso lavoro e ci alternavamo nel controllo delle saldature. Lui mi è sempre stato grato perché l’ho aiutato, nel viaggio di ritorno, quando non riusciva a reggersi in piedi per la debolezza. Il carro bestiame che ci trasportava verso l’Italia, scoperto, era stracolmo e Giacometto non aveva trovato un posto per sedersi, allora gli ho ceduto il mio posto. Arrivato al Tarvisio è stato ricoverato in ospedale per cui è tornato qualche tempo dopo.
- Il signor Antonio mostra documenti e corrispondenza della prigionia, soddisfatto per averli conservati per tutti questi anni e commentando che non tutti hanno conservato questi cimeli! Fa notare il timbro della censura e delle parti ritagliate perché non risultasse il lager dove era rinchiuso.
Ho ricevuto delle lettere da casa e in alcune venivo informato che sarebbero arrivati dei pacchi con vestiario e cibo. In una - che mostra - si annuncia l’arrivo di vestiario pesante e tabacco. Il tabacco avrebbe fatto comodo per scambiarlo con cibo. Ma non è mai arrivato nulla! I pacchi e le lettere venivano spediti da Bolzano per mezzo di uno di Grumolo che lavorava a Bolzano, Piero Comberlato “Pierin dea Nea”, pensando che la posta sarebbe arrivata prima. Non mi risulta che qualcuno dei miei compagni di sventura siano mai arrivati pacchi.
- Gli è capitato di chiedersi come faceva a farsi la barba in Germania, perché ricordava di non avere avuto né rasoio né altro, ma poi, pensandoci bene, ha trovato la risposta: non aveva bisogno di tagliarla, perché non era ancora cresciuta! Antonio Guglielmi compì i 18 anni, il 4 novembre 1944, da lavoratore coatto!
1 Si tratta del rastrellamento che aveva come obiettivo la distruzione di un reparto garibaldino segnalato nella zona di Marola, proveniente dalla Val Leogra e diretto sull’Altopiano di Asiago. Nello scontro persero la vita due partigiani. Con l’occasione i nazifascisti vollero colpire le forze partigiane che sulle Bregonze si stavano rafforzando.
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Vedi Ferdinando Offelli, 70° Anniversario della Battaglia di Marola (1944-2014), a cura dello SPI CGIL, del Comune di Chiuppano e dell’ANPI. Vedi inoltre sito Centro studi Anapoli - Montecchio Precalcino 2 Nazareno Leonardi e Giovanni Thiella “Grumolo Pedemonte, Storia di una comunità civile e religiosa”, Tip. Sumanin Conselve, dicembre 1984, pag.156. Vengono riportate alcune parti della relazione che il parroco don Gasparo Zonta ha inviato al vescovo di Padova alla fine della guerra, il 27 settembre 1945. Questa la breve citazione: “...nel rastrellamento del 26 agosto 1944, furono deportati in Germania 7 parrocchiani e fu bruciata una stalla con fienile per avervi trovato vecchie armi nascoste...”. 3 Nell’agosto 1944 ci fu un bando per l’arruolamento dei nati nel primo semestre 1926. Il secondo semestre 1926 in realtà non venne mai chiamato alle armi dalla RSI. Guglielmi Antonio, Crosara Pietro, Turle Giuseppe sono tutti del secondo semestre 1926 per cui non erano renitenti alla leva. Tuttavia i Tedeschi avevano un gran bisogno di mano d’opera per cui tutte le occasioni erano buone per inviare in Germania giovani necessari al loro sforzo bellico. Antonio Guglielmi al suo ritorno si è avvalso della dispensa del servizio militare essendogli stata riconosciuta la deportazione ai fini dell’assolvimento del servizio militare. 4 Il fatto è ricordato anche da Fulvio Calgaro “Risso” classe 1936 che nell’incontro del 6 novembre 2017 ha aggiunto: ”il poveretto ha appoggiato le mani bruciate sulla porta della chiesa di Marola implorando la Madonna di aiutarlo”. 5 Vedi testimonianza di Lorenzo Rubechi, IMI di Città di Castello http://www.lanazione.it/umbria/cronaca/2014/01/27/1016881-lavoravo_fonderia_scheletro_morte_fame_ecco_come_sono_salvato.shtml
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Sabato 26 agosto 1944 prima dell’alba le colline delle Bregonze furono investite da un grande rastrellamento nazifascista e sedici giovani
furono deportati
Di questo rastrellamento1 gli storici accennano quando scrivono dello scontro di Marola di Chiuppano fra un reparto partigiano Garibaldino in transito verso l’altopiano di Asiago e soverchianti forze nazifasciste che portò all’uccisione di due eroici partigiani, Nello Tarquini “Pascià” e Francesco Urbani “Lupo”.
Ogni ultima domenica di Agosto, da moltissimi anni, viene organizzata dal Comune di Chiuppano una commemorazione per ricordare i due partigiani e i Caduti della Brigata Mameli.
E’ merito del signor Antonio Guglielmi (vedi testimonianza precedente), vittima lui stesso, ancora diciassettenne, del rastrellamento in questione, se l’attenzione è stata ampliata e prende in esame la sorte dei molti giovani catturati dai nazifascisti e deportati. Grazie alla sua lucida memoria, sono emersi i nomi di una quindicina di compagni di sventura, otto del Comune di Zugliano, sei solo di Grumolo, uno di Centrale, uno di Zugliano, cinque del Comune di Lugo di Vicenza delle contrà Cerchiarolla, S.ta Maria, Creari, Graziani, Molan e Rosa, tutte sul lato nord est delle Bregonze e due di Carrè.
Un aiuto è venuto da una ricerca curata da Maurizio Duso2 di Lugo di Vicenza, che porta la data del tre maggio 2013, dal titolo “Il rastrellamento del 26 agosto 1944 nel versante nord-est delle Bregonze fino a Marola”. I protagonisti che furono catturati e deportati erano già allora scomparsi, ma con la sua ricerca Maurizio Duso ha raccolto le testimonianze di parenti e figli dei deportati sui fatti di quel giorno.
Il rastrellamento interessò l’intera zona delle colline delle Bregonze e per i nazifascisti fu possibile organizzarlo in breve tempo perché era già pronto un rastrellamento che sarebbe stato ancora più grande, denominato dai Tedeschi “Operazione Hannover”, che doveva estendersi a tutta la Pedemontana e che si sarebbe concluso con la famosa Battaglia di Granezza del 6 settembre 1944. Così non fu un problema per i nazifascisti impiegare parte delle forze disponibili per colpire la formazione partigiana Garibaldina di cui abbiamo accennato e con l’occasione dare la caccia a fiancheggiatori dei partigiani, a militari sbandati dopo l’8 settembre, a renitenti alla leva, compresi giovani che non avevano ancora l’età per la leva essendo nati nel 2° semestre 1926 come Crosara Pietro nato il 10 luglio, Giuseppe Turle il 12 luglio e Antonio Guglielmi, il più giovane, il 4 novembre, non ancora diciottenne, tutti di Grumolo Pedemonte. Per i Nazifascisti tutto andava bene pur di spargere il terrore fra la popolazione e di avere braccia da impiegare nelle loro fabbriche di guerra.
I nazifascisti setacciarono ogni angolo delle Bregonze, controllarono ogni casa; salirono sulle colline da più direttrici, da Centrale, Grumolo Pedemonte, dall’Astico verso le frazioni di Lugo di Vicenza. Sapevano dove andare a cercare perché alcune testimonianze sostengono che una volta circondate le case e le contrade, facevano i nomi delle persone che cercavano.
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Il rastrellamento iniziò da prima dell’alba e durò tutta la mattinata; sorprese quasi tutti nel sonno, pochi a quell’ora erano nei campi a lavorare come Placido Cornolò di Carrè, residente in via Prà Converto, con la casa che guardava sull’Igna, che secondo il figlio Massimiliano si trovava da qualche parte a “fare il fieno”. Antonio Guglielmi di Grumolo Pedemonte, per la giovane età, pensava di non aver nulla da temere; ricorda perfettamente cosa accadde. Venne catturato che si trovava ancora a letto e portato alla latteria, a poca distanza da casa, dove attendeva un camion. I rastrellatori avevano iniziato la loro azione partendo dalla latteria che allora si trovava poco dietro il bar Mariolo e salirono su per le vie Corone, via Monte Cucco, via Tugurio. Via via che i giovani venivo presi salivano sul camion e alla fine si sono ritrovati alla Ca’ Vecchia, dove furono portati altri rastrellati. Gli ultimi catturati del gruppo di Grumolo, nella corte di Pio Simonato, furono Francesco Bortoli classe 1922, militare sbandato dopo l’8 settembre e Pietro Criosara; il primo vi abitava con la famiglia e il secondo vi si trovava per il lavoro come bracciante. Gli altri, Binotto Battista, classe 1923, Brazzale Ageo e Sella Aldo, entrambi della classe 1920, erano militari sbandati dopo l’8 settembre.
Fulvio Calgaro, chiamato Risso per i capelli, intervistato dal prof. Ferdinando Offelli3, ricorda che il segnale per l’avvio del rastrellamento avvenne con il lancio di un razzo da villa Rospigliosi. Anche lui, che aveva allora 8 anni, fu catturato col padre e caricato su un camion rosso. Lui ricorda che sul camion che li portò in contrà Marolla c’erano 56 persone, provenienti dai dintorni e un buon gruppo della contrada Sangoanin di Lugo di Vicenza. I nazifascisti sostennero successivamente di aver ucciso 11 ribelli e di aver arrestato 65 sospetti senza riportare perdite (vedi nota n. 1 Atlante delle stragi nazifasciste). Sempre Fulvio Calgaro ricorda che gli uomini catturati furono portati prima a Thiene e poi a Vicenza. Suo papà fu portato 2 giorni a Thiene e 3 a Vicenza e poi fu liberato. Non tutti furono però deportati in Germania e molti, dopo alcuni giorni, tornarono a casa. Fra costoro Bortolo Lino Strozzo, di Sangoanin, Mario Dal Santo, classe 1927, per la giovane età.
Le testimonianze riportate nella ricerca di Maurizio Duso riferiscono molti particolari di quanto accadde sul versante Nord-Est, in Comune di Lugo di Vicenza. Nonostante l’orario, circa le 4 del mattino, alcuni colsero quello che stava accadendo e diedero l’allarme facendo sì che molti riuscissero a nascondersi. Non tutti: Dal Bianco Federico “Moretto Sarcerola” classe 1914, Pasin Giovanni 1915, Strozzo Benvenuto classe 1919, Grazian Olinto classe 1920, Manzardo Giuseppe, classe 1922 conosciuto come “Ganassa”, tutti militari sbandati dopo l’8 settembre, e molti altri furono catturati. Risulta da queste testimonianze che i rastrellati di questa zona delle Bregonze furono fatti scendere a piedi fino al ponte sull’Astico (Ponte degli Alpini) dove furono fatti salire su un camion (o un furgone) coperto da un telone che non permetteva di vedere chi c’era nel cassone. Da lì furono portati nella fabbrica di Marini a Zugliano (poi Cascami seta) dove c’era un distaccamento tedesco e poi a Vicenza. Anche Binotto Battista di Grumolo Pedemonte fu catturato a Lugo, in via Rosa, dove si era nascosto in casa della sorella Maria. Una conferma di quanto sostenuto da Fulvio Calgaro che a Marola fossero presenti fra i catturati anche abitanti di Lugo, è venuta dal sig. Nicola Duso, zio di Maurizio Duso, in
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quanto in quell’occasione fu catturato anche suo padre Giovanni che si trovava in visita ai parenti e con lui un certo Rigon, che essendo dipendenti della Cartiera Burgo avevano i documenti in regola e pertanto dopo essere stati condotti nelle carceri di Thiene, sono stati rilasciati. Uno zio del sig. Nicola del 1905, Daniele Marolla, fu invece portato a Vicenza, ma dopo un paio di giorni è ritornato. Molti dei rastrellati che furono trattenuti a Vicenza furono portati a lavorare alla Böhler a Kapfenberg in Stiria, centro situato a 62 Km a nord di Graz: Antonio Guglielmi, Battista Binotto, Giacomo Dal Santo nello stabilimento di Hafendorf/ Kapfenberg, Ageo Brazzale, Aldo Sella, Gildo Calgaro, Olinto Grazian, Venuto Strozzo, Giuseppe Manzardo, Federico Dal Bianco dopo un certo tempo sono stati trasferiti a lavorare nella nuova fonderia a St. Marein. Francesco Bortoli e Pietro Crosara , sono stati separati dal gruppo già a Innsbruck e inviati in lager in Germania che poi saranno specificati. Con loro due doveva esserci anche Ignazio Carollo. Giovanni Pasin da Bruck fu successivamente spostato in una zona della Cecoslovacchia annessa al Reich, mentre di Giuseppe Turle non siamo riusciti ad avere notizie sul luogo di deportazione; sicuramente non si trovava in Stiria. Gli stabilimenti di Böhler a Kapfenberg4 e zona circostante sono stati tra i più importanti siti di produzione di carri armati del Terzo Reich. Poco dopo l'annessione dell’Austria al Terzo Reich, Böhler ricevette un grande prestito per ampliare di molto lo stabilimento. Così le acciaierie furono estese e fu costruita una nuova fonderia. A Kapfenberg-Deuchendorf sono state avviate ulteriori produzioni come il complesso per le pistole, un laminatoio e il nuovo gruppo di montaggio dei mezzi blindati. Le produzioni furono ampliate in modo tale che alla fine della guerra Böhler impiegava 23.000 persone5. Per proteggere la fabbrica dai bombardieri alleati, era stata avviata la costruzione di una
galleria che avrebbe dovuto ospitare la fabbrica. Nell'ambito dell'espansione dello stabilimento Böhler a Kapfenberg, dovevano essere costruite nuove acciaierie e un altro laminatoio. A causa della mancanza di spazio a Kapfenberg, è stato deciso di costruire queste nuove opere a Sankt Marein. Dal 1943, tuttavia, solo una parte delle acciaierie è stata costruita. Il laminatoio non è stato completato. Purtroppo l’unico testimone vivente è il sig. Guglielmi, ma con le informazioni da lui avute è stato possibile cercare documentazione presso l’Archivio di Stato e rintracciare mogli, figli e parenti per ricostruire, per quanto possibile, quanto accadde a ciascuno dei deportati. Molte notizie provengono dai fascicoli personali dei Ruoli Militari conservati in Archivio di Stato di Vicenza e altre dai famigliari che hanno conservato documenti e ricordi.
Riportiamo un breve ricordo per ciascuno, procedendo in ordine alfabetico e mettendo in evidenza i dati sul servizio militare che per molti era iniziato nel 1940, chi combattendo
Il ministro degli armamenti delReich Albert Speer inaugurò lanuova acciaieria a St. Marain il 3 luglio del 1944. La scrittasignifica “Buona Fortuna” ed è iltradizionale saluto dei minatoritedeschi, con il loro simbolo, ilmartello e il piccone.
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sul fronte francese, chi su quello Balcanico, chi in Sicilia per opporsi allo sbarco degli Alleati.
BINOTTO BATTISTA, classe 1923, via San Biagio, Grumolo Pedemonte di Zugliano, bracciante. Ha partecipato alle operazioni di guerra in provincia di Gorizia dal 18/11/1942 col 23° Settore G.A.F. mobilitato. E’ stato preso a Lugo di Vicenza, dove si era nascosto in casa della sorella Maria che abitava in via Rosa.
Nella cartolina postale, a lato, dice di trovarsi assieme a Aldo Sella, Carlon (Antonio Guglielmi) e Brazzale e di lavorare in uno stabilimento 12 ore al giorno e, per non preoccupare i famigliari, “di godere ottime condizioni di salute”. Prigioniero fino
all’8 maggio 1945 e poi trattenuto dalle forze alleate fino al 12 maggio 1945. Gli è stata riconosciuta la Croce al Merito di Guerra per l’internamento. E’ deceduto nel 2010, all’età di 87 anni. BORTOLI FRANCESCO “Pierini” classe 1922, Via Tugurio 6, Grumolo Pedemonte di Zugliano, agricoltore. Il 30 gennaio 1942 fu inserito nel 227° Rgt. Fanteria P.M. 105; col grado di caporale, dal 1° agosto all’8 settembre 1943 fu impegnato nello scacchiere del Mediterraneo per la difesa costiera. Difficile ricostruire con precisione la sua prigionia. In una cartolina postale del 10.11.1944 spedita dal Gemeinschftslager Hegebreite Bernburg (Sassonia Anhalt, Saade) informa di trovarsi con Ignazio e Crosara. Quasi sicuramente si tratta di Ignazio Carollo “Gredo” e Crosara è Pietro.
Cartolina postale inviata al cugino Schiesaro Antonio, via San Biagio, Grumolo Pedemonte, dal lager Papierfabrich, Bruck an der Mur, Germania
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Naturalmente scrive: “Salute ottima …qui la vita è ottima, si lavora 8 ore al giorno e poi si è liberi…”. Siamo al 10 novembre e Bernburg si trova nella Germania centrale a metà strada fra Magdeburgo e Halle ed è naturale che Francesco chiedesse di mandagli un pacco “ e se potete mandarlo mi occorrerebbe un pacco di vestiario perché qui fa freddo”. Di Bortoli Francesco si trovano altri due documenti in Archivio di Stato compilati al suo rientro dalla prigionia. In quello rilasciato nel centro di alloggio di Como in data 21 agosto 1945 viene indicato come luogo di prigionia “Halter”. Non esistendo un centro con questo nome, potrebbe trattarsi di Haltern am See in Renania Settentrionale, con inizio del lavoro in data 30 settembre 1944. Crosara Pietro che nella precedente cartolina figurava presente nel lager di Bernburg, in una dichiarazione, che verrà ripresa poi, indica come luogo di prigionia
“Bocquom” che potrebbe essere Bochum a trenta Km da Haltern. In quel luogo dice di essere rimasto fino al 26 febbraio 1945. Quindi il lager di Bernburg potrebbe essere stato un lager di smistamento per poi i due (con loro c’era ancora Carollo Ignazio?) essere spostati in Renania. Resta il fatto che, nei ricordi dei parenti, Bortoli Francesco e Pietro Crosara hanno fatto almeno una parte della prigionia assieme e li unisce un fatto che riporteremo quando parleremo di Pietro Crosara. Francesco Bortoli è stato liberato l’8 maggio 1945 e poi trattenuto dalle forze alleate fino al 21 agosto 1945, data del suo rientro passando per il Centro Alloggio di Como. Gli sono state riconosciute due Croci al Merito di Guerra, una per le vicende belliche e una per la deportazione nel Reich. E’ deceduto nel 1969, all’età di 47 anni.
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BRAZZALE AGGEO (nel ruolo matricolare AGEO), classe 1920, via Corone 5, Grumolo Pedemonte di Zugliano, contadino. Arruolato in data 5 gennaio 1941 nel 14° reggimento Cavalleggeri Alessandria. Il 6 aprile 1941 si trovava in territorio in stato di guerra e l’8 settembre ha trovato il suo reggimento in Dalmazia. Deve avere avuto la passione per la bicicletta, tanto che nel suo ruolo matricolare alla voce cognizioni extra professionali risulta ciclista. Deportato a St. Marein im Mutztale lager Bohler Steiermarck (Stiria) – Germania. Liberato dagli Alleati il 23 maggio 1945. Al ritorno la sua salute era irrimediabilmente compromessa e fu tutto un dentro e fuori dall’ospedale di Thiene. E’ deceduto il 10 dicembre 1947 ad appena 27 anni. Il santino ad un mese dalla morte è stato fornito dal
nipote, figlio della sorella Maria, sig. Francesco Dalle Carbonare nell’incontro del 6 settembre 2017. Il sig. Francesco Dalle Carbonare ricorda, in modo particolare, la perdita della salute che costrinse lo zio a vivere praticamente, il poco tempo che gli restava presso il reparto sanatorio dell’ ospedale di Thiene. Al sabato tornava a casa per ritornare in ospedale il lunedì. In famiglia si raccontava che lo zio fosse stato deportato a Mauthausen dove era addetto alla pulizia dei forni crematori. A
seguito della ricerca è emerso che Ageo ha lavorato nella fonderia della Bohler. Sempre il nipote ricorda che lo zio, nero di capelli, è tornato con i capelli ramati per il lavoro nella fonderia.
Alcuni giovanotti di Grumolo Pedemonte prima della guerra e fra loro due,con i nomi sottolineati, che saranno deportati a seguito del rastrellamentodel 26 agosto 1944. Da sinistra: Bortoli Francesco, Lucchini Angelico, SellaAdelchi, Stupiggia Ampelio, sconosciuto quello con la fisarmonica, inginocchio a sinistra Guglielmi Beniamino, fratello di Antonio e vicino BrazzaleAgeo (foto fornita da Francesco Dalle Carbonare).
Santino ad un mese dalla morte, conservato dal nipote Dalle Carbonare Francesco.
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Gli sono state riconosciute due Croci al Merito di Guerra per i fatti bellici 1943-’45.
CALGARO GILDO, “Il Duce”, classe 1920, nato a Posina, Carrè, via Rua n. 3, agricoltore.
Chiamato alle armi l’11 febbraio 1940 e incorporato nella 14.ma Compagnia Sanità.
Dal 24 aprile 1942 all’8 settembre 1943 impegnato in operazioni di guerra in Balcania con
la 2a Sezione Sanità; imbarcato a Fiume raggiunse
Ragusa l’1 maggio 1942. All’8 settembre si trovava nella
39.ma Compagnia Sanità.
Prigioniero nel campo Stahlwerk Marein, denominato
120 e liberato dai Russi il 25 aprile 1945, è rientrato il 20
maggio, via Tarvisio.
In un incontro con la figlia Adriana e il cugino Fulvio
Calgaro, avvenuto il 31 dicembre 2017, sono emersi
alcuni fatti di quanto Gildo raccontava. Andando per
ordine fu denominato “Il Duce”, perché quando tornò
dall’Albania portava un copricapo avuto da Galeazzo
Ciano, genero di Mussolini. Dall’Albania è tornato col
cap. Giovan Battista Polga di Lugo di Vicenza che poi
diventerà un esponente repubblichino di primo piano,
comandante del reparto di Polizia ausiliaria in forza alla
Questura di Vicenza. Era noto per aver diretto molte
operazioni di rastrellamento contro i “ribelli”. Quando Gildo fu catturato, il 26 agosto, era
presente anche il Polga. Fra i due ci fu uno scambio drammatico: Gildo gli ricordò di
avergli salvato più volte la vita in Albania e ora lui ricambiava in questo modo. Polga gli
rispose: “Ti avevo detto di venire con me!” Al che Gildo ribattè: ”Piuttosto di venire con te
preferisco che tu mi spari!”. Mancano notizie sul luogo di deportazione, mentre risulta che
fosse con Dal Santo Giacomo, Cornolò Placido, Binotto Battista, Sella Aldo, quindi si
trovava a Bruck an der Mur. Lavorava a costruire e riparare linee ferroviarie e tale era la
fame, che le radici dell’erba che trovavano scavando per posizionare i binari, venivano
conservate per poi cucinarle in un barattolo di latta. Maggiori sono i dettagli sul ritorno,
avvenuto secondo Fulvio il 27 giugno 1945 (nel ruolo matricolare risulterebbe il 20
maggio). E’ arrivato ad Asiago portato dagli Americani e poi è tornato a piedi da solo in
condizioni fisiche che si possono immaginare: pesava 43 Kg. A Cesuna una donna gli
dette un paio di ciabatte perché le sgalmare che portava erano a pezzi. Arrivato a casa ,
c’è il ricordo che si è seduto sul pozzo per liberarsi dai vestiti infestati di pidocchi e ha
bevuto una tazza di latte che però ha rimesso subito. Il dott. Pilla di Carré gli consigliò di
mangiare 30 gr. al giorno di pasta, non di più, perché lo stomaco si era ristretto. Ha chiesto
notizie di “Talian”, se era tornato, perché quando l’aveva visto l’ultima volta, sembrava
morto. Negli anni successivi è tornato a Cesuna per ringraziare la donna che gli aveva
dato le ciabatte, ma non è riuscito a incontrarla. Anche lui ha dovuto essere ricoverato in
un sanatorio a Verona. E’ morto all’età di 59 anni.
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CAROLLO IGNAZIO “Gredi”, classe 1925, Zugliano, Via Monti 2, oggi via Grumialti, contadino. Non ha fatto il sevizio militare, lasciato in congedo. Al momento della cattura si trovava in casa, in canottiera, per il gran caldo di quel giorno e in quel modo è stato portato via. A riferire qualche piccolo ricordo è la signora Italia Simonato classe 1937, vedova di Ermenegildo Carollo del 1931, 14° di 15 fratelli Carollo, 11 maschi e 4 femmine e figlia di Pio Simonato. Quest’ultimo fu esponente partigiano della zona, nella cui casa fu costituita la Brigata Mameli e in cui trovava spesso rifugio il suo comandante “Riccardo”, Roberto Vedovello. Con Ignazio sono stati catturati anche due fratelli, Bortolo, mutilato nella guerra di Grecia, e Berto, reduce di Russia; un altro fratello Bruno del 1923 era già in Germania come internato militare. La signora ricorda il camion pieno di giovani, fra cui c’era anche Bepi Guglielmon, e le madri che si davano da fare per far giungere cibo e vestiario ai figli. Quando iniziò il rastrellamento, il padre Pio si trovava poco lontano dalla casa, diretto con un figlio da Tullio Paterno con un carro pieno di trifoglio “matto”, da ricavare semenza, quando incontrò due Tedeschi con una moto carrozzella. I Tedeschi lo fermarono, ordinarono di staccare il cavallo e di far scendere il figlio dal carro e mitragliarono il carro, pensando che il trifoglio nascondesse qualcuno. Bortolo Carollo fu liberato a Verona e poté tornare a casa e dopo alcuni giorni anche Berto tornò. Ignazio invece fu deportato in un lager con Pietro Crosara e Francesco Bortoli. La signora Italia ricorda vagamente che in quel lager successe qualcosa di importante quando i due Pietro Crosara e Bortoli Francesco furono sorpresi a raccogliere bucce di patata. Forse Pietro fu messo in prigione. L’accaduto è stato riportato quando si parla di Pietro Crosara. Nel ruolo matricolare risulta rientrato dalla Germania il 12 giugno del 1945. Riconosciuto partigiano della Brigata Mameli per attività dal 1.3.44 all’1.5.45. Poco dopo il suo ritorno Ignazio è emigrato in Belgio a lavorare in miniera e dopo pochi anni è emigrato in Australia, raggiungendo il fratello Berto, dove è deceduto nel 1984 a Fairy Meadows, all’età di 59 anni (testimonianza della signora Italia Simonato del 25 novembre 2017). CORNOLO’ PLACIDO, classe 1923, Carrè via Prà Comberto 5, contadino. Nel suo fascicolo militare si trova che è stato deportato in Germania dal 26 agosto 1944 al 15 maggio ‘45 in quanto civile renitente alla leva. Fu dopo la guerra esonerato dal servizio militare in quanto reduce dalla prigionia. Deceduto nel 1984 a 61 anni. Il figlio Massimiliano dice che il padre non raccontò mai della prigionia. Ricorda che fu catturato mentre di buon mattino faceva il fieno; fu portato alla Ca’Vecchia e poi al lavoro in Austria. CROSARA PIETRO classe 1926, Grumolo Pedemonte di Zugliano, Via Monte Cucco 2 , contadino. Finita la guerra, fu dispensato dal prestare il servizio di leva e fu posto in congedo illimitato provvisorio in applicazione della legge che dispensava dalla leva coloro che erano stati deportati nel Reich. E’ stato riconosciuto partigiano della Brigata Mameli dall’1 maggio 1944 all’1 maggio 1945.
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Le notizie raccolte provengono dal figlio Franco, incontrato in data 12 settembre 2017. La notte che precedette il rastrellamento, il padre aveva dormito da Pio Simonato e alla mattina fu sorpreso dai Tedeschi che lo catturarono. Con lui c’era anche Francesco Bortoli; i due avevano dormito nel fienile. I genitori di Pietro chiesero subito l’intervento delle autorità fasciste per la liberazione del figlio, ma ebbero come risposta che non potevano fare nulla e che Pietro non avrebbe dovuto frequentare la casa di Pio Simonato, sospettato di essere partigiano. In una dichiarazione del 29 aprile 1964 Pietro Crosara sostenne di essere stato catturato perché appartenente a formazioni
partigiane e, dopo tre giorni passati nel carcere mandamentale di Thiene, di essere stato portato in Germania presso il campo di concentramento di Bochumom (dovrebbe essere Bochum), ove è rimasto fino al 26 febbraio 1945, data in cui è stato trasferito nel campo di Mauthausen da dove è stato rimpatriato in data 17/9/45 a cura del Comando inglese. Il figlio ricorda un fatto che gli fu riferito da Francesco Bortoli, compagno di prigionia del padre. Una sera i due avevano raccolto delle bucce di patate trovate per terra; furono subito scoperti e per Bortoli fu decisa l’impiccagione. Pietro fu lesto a tagliare la corda che stava per strozzare l’amico, con un falcetto ruggine che aveva con sé. A rendere possibile il salvataggio in extremis dell’amico fu la grossa
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sciarpa che Bortoli aveva al collo per ripararsi dal freddo e che impedì alla corda di ucciderlo. Il figlio di Francesco aggiunge che i Tedeschi, non contenti, infierirono poi sul padre fino a lasciarlo quasi morto. Di questo fatto Pietro non fece mai parola con il figlio e fu Francesco Bortoli a raccontarglielo. Franco ricorda di avere sempre visto il Bortoli con un foulard al collo. Forse l’uso del foulard era collegato ai segni lasciati dalla corda che stava per ucciderlo? Purtroppo non sapremo mai cosa effettivamente successe in quell’occasione che deve essere stata drammatica. Fu questo il motivo per cui Crosara fu inviato a Mauthausen in data 26 febbraio 1945, come lui dichiara davanti al segretario comunale di Zugliano in data 29 aprile 1964? Sono state chieste informazioni in merito all’archivio di Mauthausen, ma non è stata confermata la presenza di Crosara in questo campo. Considerata l’incompletezza degli archivi di Mauthausen, la mancata conferma non significa che ciò non sia accaduto. Sempre nello stesso documento Pietro Crosara fissa il rientro al 17 settembre 1945, a cura del comando inglese. E’ deceduto nel 1976, all’età di 50 anni. DAL BIANCO FEDERICO “Moretto Sarciarola”, classe 1914, via Cerchiarolla di Lugo di Vicenza. Il 15 giugno 1940 combattente sulle Alpi Occidentali, contro la Francia, col 232° Reggimento Fanteria Avellino. Dal 16 giugno 1941 all’ 8 settembre 1943 nei Balcani col 26° settore G.a.F. raggruppamento Croazia. Deportato a Bruck an der Mur, ha iniziato a lavorare il 10 settembre 1944. E’ rientrato dalla Germania il 25 maggio 1945 dal Tarvisio. Gli è stata riconosciuta la Croce al Merito di Guerra per l’internamento. E’ deceduto nel 1990, all’età di 76 anni. DAL SANTO GIACOMO “ Giacometto Talian”, classe 1925, via San Rocco, Centrale di Zugliano, studente di V ginnasio. Soldato di leva in congedo illimitato provvisorio. Le notizie sono state fornite dalla signora Fiore Dal Santo, classe 1934, sorella di Giacomo, in un incontro lunedì 6 novembre a Centrale. La famiglia abitava in via San Rocco, dopo il castello Rospigliosi. La signora aveva quattro fratelli, Andrea era militare ed è stato catturato a Fiume e internato in un lager dai Tedeschi e per molti mesi la famiglia non ha avuto sue notizie, Giacomo, Mario, classe 1927 e Florindo del 1930. Alle sei del mattino compaiono nel cortile due tedeschi che chiedono se c’erano partigiani in zona. Poi arrivarono altri Tedeschi e prendono i due fratelli che erano a letto. La madre aveva messo da parte 50 uova che i Tedeschi hanno mangiato sotto forma di una grande frittata. Mario è stato poi liberato a Vicenza per la giovane età. Giacomo è stato portato a Marola dove è stato costretto a trasportare delle armi per i tedeschi durante lo scontro con il gruppo di partigiani Garibaldini. Mario invece era rimasto sul camion. Ricorda ancora esattamente l’indirizzo del lager di Giacomo, Papierfabrich Bruck an der Mur 12 A Germania. Il fratello ha patito tanto la fame e si è adattato a cercare chiocciole (cornioli) nelle concimaie e mangiarle dopo aver tolto il guscio. La signora Fiore ricorda che il postino, proveniente, a piedi, dall’ufficio di Grumolo, distribuiva la posta alla scuola elementare e quando lei capiva che la lettera
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proveniva dal fratello Giacomo, durante la ricreazione, riusciva di corsa a portarla a casa (dopo il Castello Rospigliosi) per poi ritornare in tempo a scuola. Giacomo sulla strada di casa, indebolito e malato, è stato ricoverato in un ospedale a Tarvisio; quando è tornato a casa pesava 36 Kg ed era irriconoscibile, tanto che la madre nel vederlo si è sentita male. A portarlo fino alla porta di casa sono stati i fratelli Baggio, camionisti, che lo avevano raccolto stremato, lungo la strada. Da casa erano partiti vari pacchi di vestiario perché Giacomo faceva sapere di avere freddo, ma nessuno è arrivato. Allora un’amica di famiglia attraverso un militare tedesco è riuscita a fargli arrivare dei pacchi. Dopo il ritorno, Placido Cornolò e anche Battista Binotto lo andavano a trovare portando un po’ di zucchero, uno dei pochi alimenti che riusciva a mangiare. Per il periodo dal 1 luglio 1944 al 1 maggio 1945 gli fu riconosciuta la qualifica di partigiano combattente nel Btg. Martiri della
Libertà, div. Garemi. La figlia Maria Gianna conserva la Croce al Merito di Guerra e una lettera inviata al padre in data 30/11/1944 dai famigliari. E’ scritta a più mani dai genitori e dal fratello Mario. Leggendola si può cogliere il clima di paura che ha caratterizzato quegli anni, per questo e per altro riportiamo ampi stralci della lettera. Inizia il fratello Mario: “…Qui la va bene però sempre con paura dei bombardamenti. Io continuo a lavorare sotto l’O.T. e mi trovo bene come spero ti troverai tu. Io mio trovo a fare coraggio essendo solo io qui a casa col babbo che ha paura, anche la mamma pure. Indo (Florindo n.d.r.) aiuta qualche cosa in casa. Adesso stiamo facendo legna nel bosco e ogni tanto, uno due giorni la settimana, rimango a casa per i lavori qua. Domenica 26, ti abbiamo spedito un pacco da vestire non avendo avuto la possibilità di mandarti da mangiare, ma sta certo che la prima volta che capita un’altra occasione, ti faremo avere da mangiare., quello che possiamo. Certi momenti vedendomi qui solo mi viene malinconia pensando le serate passate assieme l’inverno scorso. Io non go più gusto di andare da nessuna parte perché anca alla sera, più lontano che vado, è da Comparin. Alla festa si va al cinema con paura o altrimenti vado da Aldo Caoduro (il mugnaio n.d.r.) e si apre la radio ascoltando la musica, ma come ripeto senza gusto, spero che ritornerai presto. Distinti saluti da Aldo e dalla Maria del Ponte, Comparin e vicini tutti. Poi i genitori. …Caro figlio Giacometto, ora non posso fare a meno di scriverti poche righe per esprimerti la mia passione, prima di tutto ti faccio sapere che questa è la terza lettera che ti spediamo in più ti abbiamo spedito un piccolo pacco di solo 2 chili e di più non abbiamo potuto Questo pacco contiene 2 fanele, 1 camicia, 1 paio di mutande, 2 paia di calsoti di lana, 1 pulover, tre fassoleti nuovi, speriamo che ti basteranno, sperando di vedersi presto a mangiare le noci, se potrò ti spedirò un altro pacco e ho già preparato il pane e tutto. Caro figlio nelle tue care lettere, su ognuna ci hai chiesto l’indirizzo di Andrea, ora te lo spedisco ma ho paura che l’avrà cambiato come per Bortolo Casalin.
Nel 1953, a qualche anno dalla liberazione, scrive nel retro “..mira questa faccia incadaverita…”
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Sappi che sono due mesi ed mezzo che non riceviamo posta e a lui non so come la sia …..segue. Gli fu riconosciuta la Croce al Merito di Guerra per attività partigiana. E’ deceduto nel 1995, a 70 anni. GRAZIAN OLINTO, classe 1920, via Graziani, Lugo di Vicenza, contadino. Erano in tre fratelli tutti sotto le armi. Il maggiore, Bortolo, classe 1915, è deceduto il 19/9/1941 per malattia contratta in servizio in Grecia. Col grado di sergente, dal 10 giugno al 15 luglio 1940, si trovava sul fronte delle Alpi Occidentali col Battaglione Duca degli Abruzzi, compagnia comando ad Aosta, comandante il maggiore Cremasi. Il 20 marzo fu trasferito al 9° Alpini battaglione reclute, Compagnia Comando sino al giorno 21 gennaio 1942. Poi in congedo. Fu richiamato il 4 giugno 1943 al 9° Alpini, Btg Vicenza, compagnia d’istruzione a Gorizia. Dopo l’armistizio si nascose a casa, arrivò il 26 agosto e fu catturato e portato in prigione
a San Biagio, il giorno 9 settembre arrivò nel campo di concentramento 12 A in Stiria. Il 10 Novembre (cartolina postale a lato) scrive alla moglie Angelina, la rassicura di trovarsi bene e di essere con tutti i compaesani. Chiede notizie del bambino Gianlino, di pochi mesi. E’ rientrato l’ 8 maggio 1945 dal Tarvisio. Il figlio Gianlino ricorda che il padre è fuggito dal lager appena ha visto che la
sorveglianza è diminuita. Al suo rientro pesava 40 Kg. Quando è tornato, a Lugo era in corso la dura punizione per i Fascisti locali che furono picchiati, mentre alle donne accusate di aver frequentato Fascisti e Tedeschi furono tagliati i capelli. Fu invitato a partecipare per vendicarsi per quanto aveva patito, ma preferì rimanere a casa, in famiglia. Il figlio conferma quanto raccontato da Antonio Guglielmi in merito al ferimento del padre alla caviglia da un getto di materiale fuso e riferisce che spesso ha avuto dei
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disturbi e arrossamenti nel punto della ferita. Una settimana dopo il ritorno dalla prigionia, il 14 maggio è nato il secondo figlio Mario, quindi la signora ha vissuto tutta la gravidanza con il marito lontano e temendo che gli potesse capitare il peggio. Riconosciuto partigiano della Brigata Mameli dal giugno 1944 al maggio 1945. E’ deceduto nel 1979, all’età di 59 anni. MANZARDO GIUSEPPE, classe 1922, via Molan 1, Lugo di Vicenza, contadino. Chiamato alle armi nell’11° Regg. Genio il 21 settembre 1942. Inquadrato nella 3a compagnia marconisti a Udine. All’8 settembre era a Udine. Deportato a Bruck an der Mur, ha iniziato il lavoro il 20.9.1944; fu liberato l’8 maggio 1945 e trattenuto dalle forze Alleate per qualche giorno. Rientrò in Patria il 12 maggio 1945. Scrive a casa il 4 marzo 1945, pochi giorni dopo la partenza per il rientro di Venuto Strozzo, annunciando che lui “vi spiegherà della nostra situazione”, lamentando che l’ultima cartolina gli è pervenuta il 24 novembre e augurandosi che altre siano in arrivo. Sotto l’atto di notorietà che i deportati erano tenuti a fare nel proprio Comune per dichiarare la propria situazione di militari dopo l’8 settembre. Il testo che veniva loro richiesto di
sottoscrivere era uguale per tutti: “…non ha mai collaborato con forze nazi fasciste, né fu iscritto col P.F.R. né di aver prestato servizio del
lavoro presso la O.T. o enti similari militarizzati…”. Osservare che i testimoni sono tutti compagni di deportazione: Dal Bianco, Pasin, Strozzo e Grazian. Ha avuto il riconoscimento della Croce al Merito di Guerra per l’internamento in Germania. E’ deceduto nel 1991, a 69 anni.
PASIN GIOVANNI, classe 1919, via Creari 3, Lugo di Vicenza, contadino. Il 10 febbraio 1941 prestava servizio militare nel 5° Regg. Artiglieria d’Armata, il 15 maggio 1942 fu trasferito al 1° Regg. Artiglieria di Corpo d’Armata, 2a Btr. 161° gruppo semovente
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da 90/53 per poi essere inviato il 15 ottobre 1942 in Sicilia, territorio dichiarato in stato di guerra. Il suo reparto combatté contro gli Alleati sbarcati nell’isola da luglio fino all’agosto 1943. Nel foglio matricolare è riportata la nota “sa sciare”. Deportato in Germania, località dove lavorava Bruck an der Mur e iniziò il lavoro il 20.9.1944. Dal documento in possesso del figlio Maurizio risulta che il padre, dopo il lavoro coatto a Bruck, come da lui dichiarato in un documento conservato in Archivio di Stato, fu condotto a Tetschen Bodenbach, attuale Dĕčin nella Repubblica Ceca, a quel tempo annessa al Reich assieme ai Sudeti.
Rimpatriato il 25 maggio 1945. Fu riconosciuto invalido di Guerra per postumi pleurite con decadimento organico. Gli fu concessa la Croce al Merito di Guerra per il periodo bellico. Segue testimonianza del figlio Pasin Maurizio raccolta da Maurizio Duso e riportata nel fascicolo già citato. “Lavorava in una fonderia 10/12 ore dall’alba al tramonto, gli erano concessi 10 minuti di pausa per i bisogni fisiologici e qualche sigaretta. Mangiava poco e per avere qualcosa in più prima e dopo dell’orario di lavoro aiutava i contadini che abitavano nella zona con piccoli lavori. Da questi lavori ricavava una patata o un pezzo di pane che lo aiutavano a sopravvivere. Ad un certo punto notò che la sorveglianza era diminuita e con sei compagni della zona decise di scappare. Hanno sempre camminato di notte per sfuggire ai controlli e quando hanno capito che la guerra era finita sono saliti su un treno e si sono ritrovati a Milano. E’ tornato a casa il 25 maggio 1945 pelle e ossa. In prigionia si è ammalato ma ha dovuto tacere perché altrimenti sarebbe stato fucilato”. Pasin Giovanni è deceduto nel 1972, all’età di 53 anni.
Dati del lavoratore: luogo di nascita è stato riportato “Sarog –Vindenza”, calore degli occhi blu, colore dei capelli biondo, segniparticolari cicatrice sul dito medio destro
Passaporto temporaneo perlavoratori stranieri, rilasciato il26 gennaio 1945 dall’ autoritàdel distretto di TetschenBodenbach. Conservato dalfiglio Maurizio.
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SELLA ALDO, classe 1920, via Corone 4, Grumolo Pedemonte di Zugliano, falegname.
Fu chiamato alle armi il 7 gennaio 1941 nel 14° Regg. Autieri fino al 9 novembre 1942, poi
passò al 1° Regg. Autieri, 262°
Autoreparto Pesante P.M. 206, schierato
sul fronte occidentale fino all’8
settembre 1943. Prigioniero dei Tedeschi
fino all’8 maggio poi rimase a servizio
degli Alleati fino al 22 maggio. Ha
lavorato dal 1 settembre 1944 a BrucK
and der Mur. Quando fu liberato si
trovava a Marein im Murztzal 12 A.
Rientrato dal Tarvisio il 22 maggio 1945.
E’ deceduto nel 2002, all’età di 82 anni.
Gli fu riconosciuta la Croce al Merito di
guerra per l’internamento.
Nella cartolina, sotto si è aggiunto con
un saluto alla famiglia Marchiorato
Augusto. Grazie alle indicazioni di
Antonio Guglielmi e poi alla conferma
di Pierluigi Dossi che ha fornito le notizie
che seguono, è stato accertato che si
tratta di MARCHIORATO DOMENICO
AUGUSTO, classe 1918, di Montecchio
Precalcino, via Capodisotto, contadino.
Marchiorato fu chiamato alle armi nel
marzo 1940, presso il 5° Regg. Artiglieria
d'Armata, 10° Raggruppamento, in
Verona; partecipa alle operazioni di
guerra contro la Francia.
In seguito agli eventi dell’8 settembre '43, “sbandato” da Verona riesce a rientrare a casa.
“Renitente” alla chiamata alle
armi della “Repubblica di Salò”,
malgrado fosse riuscito a sfuggire
ai nazifascisti anche durante il
grande rastrellamento di
Montecchio Precalcino del 12
agosto 1944, dopo l'arresto del
padre, è costretto a costituirsi.
Deportato in Germania (n. 2099)
nel Lager 12/A della fabbrica di
acciai inox Gebr. Böhler.
Rimpatriato il 22 maggio 1945, è
ricoverato presso l'Ospedale
Militare di Verona; per i postumi
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della deportazione morirà di Tbc a Montecchio Precalcino il 31 maggio 1948.
STROZZO BENVENUTO, classe 1919, via Santa Maria, Lugo di
Vicenza, contadino .
Chiamato alle armi nel 32° Artiglieria div. Isonzo il 10 marzo 1940.
Il 6 aprile 1941 con il suo reparto era alla frontiera Italo Jugoslava,
l’8 settembre si trovava a Novo Mesto (Slovenia) con il 6°
Artiglieria div. Isonzo, 1° Gruppo, II Batteria.
E’ stato deportato nel lager Papierfabrich 12.a a Bruck an der
Mur e costretto a lavorare per Gebr. Boher Co. A-G. Da quel
lager ha inviato una cartolina postale in famiglia in data
7.12.1944, il lavoro era nella fonderia di St. Marein.
Fu ricoverato per 40
giorni in un ospedale
tedesco e dopo fu rimpatriato, via Tarvisio,
perché ammalato, in data 10 marzo 1945
assieme ad altri lavoratori coatti non più abili
al lavoro. Gli furono riconosciute due Croci al
Merito di Guerra una per le operazioni belliche
e una per l’internamento.
I RACCONTI DI PRIGIONIA DI MIO ZIO VENUTO,
Bruno Strozzo 24/11/2017 (una parte del
racconto è stata ripresa dalla ricerca di Maurizio Duso).
Cerco di buttar giù alcune cose che ho sentito raccontare direttamente da mio zio
Venuto riguardanti la sua cattura, la prigionia ed il ritorno.
*La cattura è avvenuta nella sua camera da letto dove è stato sorpreso durante il
rastrellamento e non aveva nessuna via di fuga perché la casa dove abitava aveva tutte
le uscite in un solo lato che naturalmente era già presidiato dai tedeschi. E' stato
catturato assieme al fratello Bortolo (Lino).
Normalmente dormivano fuori casa, nei ricoveri che si erano attrezzati nei boschi
circostanti: la sera prima tutto sembrava tranquillo per cui hanno deciso di rifocillarsi un
po' in famiglia. Tutto il resto è più o meno noto...
*I due fratelli sono stati portati al ponte della “Gaiofa” dove c’era un camion, furono
caricati e portati da Marini a Zugliano dove alcuni ricevettero le prime percosse, in
particolare fu molto picchiato il “Moretto Sarcerola” perché su di lui avevano dei sospetti.
Portati a Vicenza hanno avuto mezza anguria ed un cucchiaio, dicendo: “Magnè che
sta meza anguria ve servirà per la minestra stasera” come scodella. Hanno passato la
giornata immersi nel terrore, con botte e urla. La sera hanno ricevuto la minestra, una
brodaglia, e chi aveva conservato la scorza di anguria ha mangiato e chi l’aveva buttata
via ha digiunato! Il giorno successivo Lino fu liberato in quanto era in regola con i
documenti che accertavano che lavorava per la TODT, mentre Venuto, sbandato, fu
deportato.
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Lino andò alla stazione per
salutare il fratello Venuto e si
videro attraverso il finestrino
del treno, Venuto si sporse
per salutare il fratello, passò
un addetto che gli chiuse lo
sportellino in faccia, che
quasi gli rompeva il naso.
*Della prigionia mi
raccontava delle condizioni
estreme del lavoro in
fonderia a causa delle
vampate di calore delle
colate e senza protezioni per
cui talvolta non aveva la
necessità di farsi la barba perché si bruciacchiava ed al contrario, dopo il lavoro, per il
freddo si riparava con dei sacchi di carta
adattati come delle canottiere con i
buchi per le braccia.
*Una sera al rientro dal lavoro, non so
come, è riuscito a procurarsi alcune
patate ma sono stati messi in fila per
l'appello ed una perquisizione. Si è sentito
spacciato pensando che qualcuno
l'avesse scoperto e stessero inscenando il
tutto per punirlo esemplarmente. Cercò di
passare queste patate a uno che stava
nella fila dietro, ma questi non le prese per
cui caddero a terra. La perquisizione ad
personam si avvicinava sempre più verso
di lui e si sentiva ormai spacciato, ma la fortuna questa volta l'ha aiutato e forse per la
complicità del buio i perquisitori non si sono accorti di niente.
*Intanto per le tribolazioni e la “dieta” il suo fisico dava evidenti segni di cedimento e non
sosteneva più i ritmi del lavoro, per cui andava sostituito. Si è reso conto che
succedevano spesso strani e gravissimi incidenti nel lavoro, probabilmente creati di
proposito ed anche a lui due o tre volte è capitato di salvare la pelle per pura fortuna. Di
questo se ne lamentava con il suo Kapò (che mi diceva fosse una buona persona) che
sembra l'abbia aiutato per il rientro a casa.
*Per il rientro in Italia hanno organizzato un trasporto su due camion con prigionieri
gravemente malati e quindi inutili.
All'entrata in territorio italiano, per i camion tedeschi c'era il pericolo di qualche
rappresaglia da parte di partigiani per cui di notte viaggiavano con cautela a fari spenti.
Nei pressi di Pontebba è stata data la possibilità a chi lo volesse (e fosse in grado di farlo)
Permesso per uscire dal lager di St. Lorenzen e andare a
lavorare nella ditta Bohler.
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di procedere a piedi per conto proprio. Il senso di libertà e la paura di essere bersaglio
vagante su questi camion ha fatto sì che un bel gruppetto accettasse l'offerta.
Non poteva esserci scelta migliore, dopo pochi chilometri a causa di un ponte che non
c'era più perché era stato fatto saltare e complice il buio, i due camion con i disgraziati
che c'erano sopra sono finiti di sotto e risultò che non si fosse salvato nessuno.
*Il gruppetto proseguì a piedi per tutto il giorno ed a sera si fermarono in un paesino della
Carnia dove furono ospitati nella canonica in uno stanzone dove c'era un grosso
secchiaio in pietra.
Erano tutti malridotti e febbricitanti e la tosse faceva da padrona. Venuto che era allo
stremo delle forze, per pietà del parroco venne privilegiato potendo così dormire sul
secchiaio anziché per terra.
Nonostante la stanchezza era difficile prender sonno e ad un certo punto Venuto si
accorse che uno di loro ad ogni colpo di tosse sputava sangue! Questo lo spaventò e
rabbrividì al pensiero di trovarsi in mezzo a dei tubercolosi. Non ci pensò due volte,
raccolse le forze che gli restavano e se ne andò da solo senza dir nulla.
*S'incamminò e prese la direzione di casa. Mi raccontò qualche aneddoto che però non
focalizzo bene: ad esempio si imbatté in un camion di tedeschi (lui aveva i documenti in
regola) che lo avrebbero ospitato fino al mattino seguente per accompagnarlo poi con
un loro trasporto fino a Vicenza.
A sentir parlare tedesco aveva i brividi, non si fidava più di nessuno, ringraziò e continuò
da solo.
*Dopo qualche giorno e con un po' di fortuna arrivò a Breganze dove abitava un suo zio.
Questi prese il cavallo con un carretto e lo portò fino a casa.
*Si presentò così davanti a sua madre che rimase incredula di fronte a questo straccione
malridotto (aveva 25 anni e pesava 36 chili) e si abbracciarono piangendo.
Era tornato un figlio, un altro era partito prima di lui per la Russia ed era disperso tra la
neve durante la ritirata: la madre lo ha aspettato invano fino alla fine dei suoi giorni
sperando in un altro miracolo.
Sempre Bruno Strozzo, riferisce di aver sentito che i Tedeschi nel salire dall’Astico verso la
collina erano guidati da un Fascista locale che con gesti delle braccia dava indicazioni,
per poi mimetizzarsi nelle retrovie. Finita la guerra alcuni sono andati a cercarlo per
punirlo, ma si sono limitati a qualche manata, visto che aveva dei figli.
Mio papà Bortolo, detto Lino, era partigiano, capo squadra nella brigata Mameli. Fu
catturato con lo zio Venuto, ma dopo una notte passata a Vicenza è stato liberato in
quanto in regola con i documenti che accertavano il suo lavoro alla TODT.
Lo zio Venuto non si è più ripreso completamente anzi a fine anni 70 ha trascorso un paio
d'anni a Galliera Veneta con la TBC. E’ morto nel 1991, a 72 anni.
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TURLE GIUSEPPE “Moro Turle”, classe1926 , via Maso 2,
Grumolo Pedemonte di Zugliano, falegname.
La sua cattura avvenne in coincidenza con l’incendio da
parte dei Tedeschi del fabbricato rurale in loc. Valisana di
Grumolo Pedemonte di Zugliano, condotto dalla famiglia
Tonello e di proprietà di Rossi Silvio di Francesco di Thiene,
vicino a dove abitava, a seguito del ritrovamento di
vecchie armi6. Giuseppe era sfuggito al rastrellamento del
mattino, ma nel pomeriggio volle andare a vedere
l’edificio bruciato e in quel momento venne catturato.
E’ stato l’unico dei
giovani catturati che
non erano ancora in
età di leva, a fare il militare dopo la liberazione, a
partire dal 5 settembre 1947 al centro addestramento
di Arezzo. Il 28 ottobre 1947 giunto al Btg. Colleg. Div.
Mantova /Centro di Mov. Dep. 11° Genio). Il 24
agosto 1948 ricollocato in congedo illimitato. Autista.
La norma prevedeva che la deportazione valeva agli
effetti del servizio militare.
Riconosciuta la qualifica di partigiano dall’1 Agosto
1944 all’1 maggio 1945 con la Brigata Martiri della
Libertà Div. Garemi.
Gli è stata riconosciuta la Croce al Merito di Guerra in
seguito ad attività partigiana.
E’ deceduto nel 1979, all’età di 53 anni.
TORNARONO TUTTI A CASA, MA… Tornarono tutti a casa, ma la salute di molti di loro era irrimediabilmente persa.
Ageo Brazzale morirà a 27 anni nel 1947 e Marchiorato Augusto morirà a 30 anni nel 1948,
entrambi per una malattia contratta in prigionia, Strozzo Venuto non si riprese più
completamente, Pasin Giovanni fu riconosciuto invalido di guerra e gravi problemi di
salute li ebbero tutti o quasi. Molti sono deceduti quando avevano poco più di 50 anni.
Dopo anni di guerra, in una guerra che non finiva mai, molti di loro dovettero subire
anche la durissima prova di otto mesi di lavoro coatto, schiavi dei Nazisti, con umiliazioni e
maltrattamenti spesso crudeli e certamente disumani.
Pochi di loro hanno parlato e raccontato, alcuni di loro proprio non hanno parlato ed è
per questo che di qualcuno in queste pagine si è scritto poco.
Con questa ricerca pensiamo di aver reso loro, dopo 74 anni, con troppo ritardo, un
doveroso omaggio e un po’di giustizia, almeno morale per tutto quello che hanno patito
e che, non raccontando, hanno voluto risparmiare ai loro famigliari.
Ora non possiamo dire non sapevamo!
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Un grazie di cuore a tutti i familiari dei deportati per averci accolti nelle loro case ed
averci fornito tutte le informazioni in loro possesso. Grazie a Ornella Dalla Costa che ha
facilitato i contatti con le famiglie di Grumolo Pedemonte e ha collaborato a tutta la
ricerca con consigli e suggerimenti, a Dino Maculan per i contatti con le famiglie di
Centrale e Maurizio Duso e Bruno Strozzo con quelle di Lugo di Vicenza. Infine un grande
grazie ad Antonio Guglielmi perchè senza la sua testimonianza e disponibilità questa
ricostruzione non sarebbe stata possibile e forse tutto sarebbe finito nell’oblio. A questo
punto va detto che è stato il Sindaco Sandro Maculan a incoraggiare il signor Antonio
Gugliemi a raccontare quello che gli era successo durante la guerra, ancora
diciassettenne, e da lì è nato il resto. Un grazie anche a Giovanni Rosa che dalla
Germania e a Mauro Dei Rossi dall’Austria hanno aiutato la ricerca.
1 Atlante stragi nazifasciste http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=3932. Scheda
compilata da Pierluigi Dossi
Bortolo Enzo Segalla, LE ORME DEI PADRI, viaggio nella storia da Marola a Chiuppano, Carrè e
Caltrano, Grafiche Simonato, Fara Vicentino, novembre 2014, pgg 265-280
Ferdinando Offelli, 70° anniversario della Battaglia di Marola (1944 – 2014), SPI CGIL, VICENZA, ANPI
THIENE, AMMINISTRAZIONE COMUNALE DI CHIUPPANO, Grafiche Simonato, Fara Vic.no, aprile 2015 2 Maurizio Duso, Il rastrellamento del 26 agosto 1944 nel versante nord-est delle Bregonze fino a
Marola, 3 maggio 2013, Biblioteca Civica di Lugo di Vicenza 3 Ferdinando Offelli, 70° anniversario della Battaglia di Marola (1944 – 2014),pgg. 29-35 4 Dai siti www.geheimprojekte.at/firma_boehler_kapfenberg.html
e https://www.geocaching.com/geocache/GC5WC0F_bohler-werk-xii?guid=c73bc321-f099-42ff-
9671-14104eb11f79 5 http://www.dpcamps.org/ZA_Eng.pdf
Liste der Unternehmen, die im Nationalsozialismus von der Zwangsarbeit profitiert haben. Lista delle
aziende che durante il nazionalsocialismo hanno approfittato del lavoro coatto.
Si trova che nel comprensorio di Bruck an der Mur, sede del comando, c’erano 22.609 lavoratori 6 Nazzareno Leonardi – Giovanni Thiella, Grumolo Pedemonte - Storia di una comunità civile e
religiosa, Tip. Suman in Conselve, dicembre 1984, pag 156.
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Una storia poco conosciuta quella della presenza di un piccolo gruppo di ebrei provenienti dai territori della Jugoslavia occupata, per
quasi due anni in “internamento libero” a Caltrano, durante la Seconda Guerra Mondiale
Il 22 novembre 1941-XX° la Questura di Vicenza comunicò che al Comune di Caltrano erano stati destinati 10 ebrei profughi della ex Jugoslavia, provenienti dalla Dalmazia, per l’internamento civile detto anche libero. La comunicazione fu inviata per conoscenza alla stazione dei RR.CC. di Caltrano e al comando Tenenza di Schio. Così iniziò la permanenza di un piccolo gruppo di ebrei a Caltrano che si concluderà subito dopo l’8 settembre 1943. I Caltranesi, ma anche gli abitanti di altri paesi del Vicentino, li chiamavano “Croati” per la zona di provenienza. Una analoga ricerca è stata inserita nel fascicolo “Le Porte della Memoria 2016” e dedicata agli ebrei stranieri internati nel Comune di Arsiero, ma in quel caso, oltre che i documenti conservati in Archivio di Stato di Vicenza nella busta “Questura di Vicenza, ebrei internati civili”, erano stati di grande aiuto le testimonianze di Rosa Marion Klein e di Walter Landmann, a quel tempo giovanissimi, ad Arsiero con le loro famiglie e tuttora viventi. Nel caso di Caltrano possiamo contare solo sui documenti dell’Archivio di Stato, essendo andato, fra l’altro, distrutto da un incendio l’archivio comunale. Chi fosse interessato, può trovare il fascicolo delle porte della Memoria 2016 nelle biblioteche civiche dei Comuni contermini. Analogamente alla ricerca del 2016, tutti i nomi sono stati tolti per un senso di rispetto, visto che parliamo di tanti aspetti che rientrano nella sfera privata degli internati e anche dei Caltranesi, e anche perché uno degli scopi della ricerca è di cercare di conoscere le condizioni di vita a cui erano costretti dalle leggi razziali gli ebrei, italiani o stranieri che fossero. Un altro scopo di questo lavoro è sapere come si sono salvati e da chi sono stati aiutati. A distanza di tanti anni sarebbe giusto rendere omaggio e onore a chi ha rischiato la vita per aiutare persone che dopo la persecuzione erano destinate all’annientamento. La Questura dette disposizioni su come condurre la pratica: “Come in tutti gli altri casi sarà da stendere al loro arrivo un verbale senza però rilasciarne copia agli interessati ed inoltre si chiede di comunicare le prescrizioni a cui dovranno attenersi. Infine si comunica che per l’alloggio sarà versata una indennità di 50 L al mese a nucleo famigliare e Lire 8 al giorno come sussidio giornaliero per il capofamiglia”. Gli internati ricevevano un sussidio dal Governo Normalmente le famiglie dovevano arrangiarsi a trovare un alloggio, chi affittando stanze in case private e chi rivolgendosi a piccole pensioni. Lo Stato italiano versava loro, nel caso fossero riconosciuti indigenti, i seguenti importi: 50 Lire al mese per l’alloggio, 8 Lire giornaliere al capofamiglia per vitto e un supplemento di sussidio di 4 Lire giornaliere per la moglie e di 3 Lire per ogni figlio. Nel luglio 1943 questi importi furono rivisti in aumento, 9 lire per il vitto, 5 per il coniuge e 4 per ogni figlio.
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Questi sussidi permettevano appena di sopravvivere e gli internati dovevano provvedere con mezzi propri se li avevano o con il ricavato di piccoli lavori che però erano osteggiati soprattutto se potevano privare i locali di occasioni di lavoro, in particolare nelle attività agricole. Il 26 novembre venne steso un verbale in cui il Podestà Zuccato dichiarava di prendere in consegna dagli agenti di P.S. i dieci ebrei. E’ del 12 dicembre 1941 una scheda predisposta dagli uffici comunali contente i dati dei nuovi arrivati con le indennità spettanti e la precisazione che si trattava di persone senza mezzi di sostentamento:
- Darvas Aladar nato il 12/4/1893 , impiegato, per vitto 8 Lire, per alloggio 50 Lire con la moglie Schulzer Stefania nata il 26/12/1897, casalinga, Lire 4 per vitto
- Darvas Paolo (fratello di Aladar) nato il 14/4/1896, impiegato, 8 Lire + 50 Lire per l’abitazione
- Hertmann Paolo nato il 16/8/1915, laureato (avvocato), 8 L+ 50 L e Schaecher Alice 20/7/1909, maestra di musica (professoressa di pianoforte) 4 L
- Papo Naham 17/9/1894 artigiano, 8 L per il vitto + 50 per l’alloggio, con la moglie Attias Blanka 2/2/1898 casalinga, 4 L e la figlia Papo Rossella 9/10/1925, studente 3 Lire
- Jungwirth Lavoslav 26/9/1898, commerciante 8 L + 50 L - Jungwirth Giacomo (fratello del precedente), 8/4/1902, commerciante, 8 L + 50 L
Sei nuclei famigliari, provenienti tutti dalla Jugoslavia, a cui nel corso dei mesi se ne aggiungeranno altri:
- Volmuth Vladimiro nato l’8/3/1891, coniugato con Schulzer Elsa (sorella di Stefania) 12/3/1896
- Herilinger Vladislav nato il 14/8/1906, impiegato, proveniente da Canove e poi trasferito a San Nazario
- Katz Israel, 1/11/1917, professore agronomo, proveniente da Canove il 4 marzo 1943
- I gemelli Papo Puba e Alberto, nati 6/7/1921 (figli di Naham e Blanka)
Il primo problema era la loro sistemazione, tutti adulti tranne una giovane signorina di 16 anni. Da una comunicazione del Comune (lettera del 5/12/1941- XX°) inviata alla Questura sappiamo che per collocamento degli ebrei internati in questo Comune quest’Ufficio in mancanza di ambienti idonei, muniti di mobilia, strettamente indispensabile, ha provveduto collocando gli stessi presso un’osteria del luogo. Tale sistemazione è ritenuta opportuna anche in considerazione della difficoltà di approvvigionare tale convivenza della legna indispensabile nella corrente stagione invernale. Dato l’elevato costo dei generi alimentari di prima necessità, il prezzo della pensione è stato di L 15,20 al giorno e per persona. Si è trovata la soluzione con il versamento delle indennità previste e per la differenza provvederanno gli interessati.
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Le restrizioni imposte: 12 regole da rispettare e tante altre Non è stato possibile esaminare l’elenco delle restrizioni che gli internati dovevano rispettare e che era stato loro comunicato e da loro sottoscritto all’arrivo a Caltrano. Un documento analogo è disponibile per gli ebrei internati ad Arsiero, che si riporta, per cui si pensa che quello di Caltrano fosse uguale, con l’unica modifica, naturalmente, riguardante il perimetro concesso per i loro spostamenti all’interno del territorio comunale. Fu con una circolare dell’aprile 1941 che le prescrizioni destinate agli internati ebrei furono comunicate ai Comuni. Riportiamo il documento sottoscritto da una coppia di internati in data 14 ottobre 1941, il giorno stesso del loro arrivo ad Arsiero,
1) Divieto di tenere presso di loro passaporti o documenti equipollenti e documenti sanitari.
2) Divieto di possedere denaro a meno che non si tratti di piccole somme non eccedenti le cento Lire. Le somme eccedenti dovranno essere depositate presso banche ed uffici postali, su libretti nominativi che saranno dal Podestà custoditi. Qualora gli internati abbiano necessità di effettuare prelevamenti, dovranno chiedere di volta in volta l’autorizzazione al Podestà, autorizzazione che sarà concessa se la richiesta apparirà giustificata per una somma non superiore a quella consentita. Prelevamenti di somme maggiori dovranno essere autorizzate dal Ministero.
3) Divieto di detenere gioielli di valore rilevante e titoli. Tanto i gioielli che i titoli dovranno essere depositati, a spese dell’interessato, in cassette di sicurezza presso la banca più vicina, dove l’internato sarà fatto accompagnare per tale operazione. La chiave della cassetta sarà tenuta dall’interessato, mentre il libretto di riconoscimento sarà conservato dal Podestà.
4) Divieto di detenere armi e strumenti atti ad offendere. 5) Divieto di occuparsi di politica. 6) Agli internati è consentito soltanto la lettura di giornali italiani; per la lettura di libri e
giornali in lingua straniera deve essere chiesta l’autorizzazione al Ministero. 7) La corrispondenza e i pacchi di qualsiasi genere, sia in arrivo che in partenza,
devono essere sempre revisionati, prima della consegna e della spedizione, dal Podestà o suo incaricato.
8) Divieto di tenere apparecchi radio. 9) La visita dei famigliari agli internati e del pari la convivenza con gli internati dei
famigliari, devono essere autorizzate dal Ministero, al quale devono essere inoltrate le relative istanze per tramite della Questura.
10) Agli internati è inoltre fatto obbligo. a) Di circolare solo entro il seguente perimetro:
[segue indicazione del perimetro] b) Di non allontanarsi da detto perimetro. [ segue indicazione del perimetro]
Il permesso di allontanarsi dall’abitato sarà concesso solo previa autorizzazione del Ministero dell’Interno;
c) Di non uscire dall’abitazione prima dell’alba e dopo un’ora dal tramonto.
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11) Gli internati potranno consumare i pasti in esercizi o presso famiglie private del luogo, dietro autorizzazione del Podestà.
12) Gli internati hanno l’obbligo di serbare buona condotta non dar luogo a sospetti e mantenere contegno disciplinato. I trasgressori saranno puniti a termine di Legge o trasferiti in colonie insulari. Fatto, letto e sottoscritto. (firma dell’internato) IL PODESTA’ Firma non leggibile IL SEGRETARIO Firmato E. Luca
Incontri con i parenti e altre richieste per uscire dal Comune Erano considerati dei nemici in casa per cui ogni loro spostamento era controllato. Molte le richieste di poter uscire dal Comune. Per quelle legate alla salute, che sono la maggioranza, vedremo in un punto successivo. Per gli internati civili era proibito spostarsi liberamente fuori dal Comune e dovevano, per qualsiasi motivo, chiedere l’autorizzazione. Cinque internati chiedono alla Questura un permesso permanente per recarsi ogni 15 giorni o nella vicina cittadina di Thiene (10 minuti in treno) oppure a Rocchette (25 minuti a piedi) per fare acquisti per la casa e per la cucina perché il paese è piccolo e non trovano quello che serve a loro, compreso il necessario per l’igiene, bagno e taglio capelli. La Questura nega l’autorizzazione. Più richieste per recarsi a trovare parenti in vari centri della provincia: a Enego, a Posina, a Sossano, a Sandrigo; qualche richiesta viene accolta, ad altre la Questura nega l’autorizzazione rispondendo che se il motivo è quello di parlare di affari di famiglia, c’è la possibilità di scriversi. E’ evidente che la corrispondenza è soggetta a censura e quindi è comprensibile che gli internati preferivano vedersi a quattr’occhi. Delle volte per aggirare l’ostacolo si chiede di visitare il parente perché ammalato. A proposito di corrispondenza va ricordato che gli internati avevano l’obbligo di spedire la posta consegnandola al Comune e avevano il recapito presso il Comune stesso. C’è una richiesta di potersi recare per 8 giorni a Enego ospite del cugino. La Questura nega l’autorizzazione. Autorizzazione negata ad un internato trasferito da Canove per recarsi per due giorni in Altopiano per prendere indumenti lasciati là e fare visita ad un parente ammalato. Due internati chiedono di andare a Sossano a far visita ai cugini. Sono 23 mesi che non si vedono. La visita viene autorizzata. Il Podestà di Sossano comunica che i due non si sono mai presentati per vidimare l’autorizzazione. Risulta poi che i due hanno rinviato il viaggio. Infine in una nota i Carabinieri di Caltrano comunicano che i due sono rientrati da Sossano con due giorni di ritardo.
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Un internato viene visto con un altro internato alla stazione ferroviaria di Cogollo del Cengio, diretto sull’Altopiano. A vederli è i segretario comunale del Comune di Roana che provvede ad informare il Prefetto e i carabinieri di Asiago. Viene accertato che i due sono rimasti qualche giorno in Altopiano. Così li descrivono i carabinieri di Asiago: Si ritiene opportuno ricordare che i predetti ebrei sono dei pessimi soggetti e (omissis) per poter con più agio fregare i cristiani ha rinnegato la propria fede e ha abbracciato la religione cattolica…. Vengono chiesti severi provvedimenti verso i due. Passano pochi giorni e il Prefetto scrive al Ministero degli Interni, Direzione Generale della Pubblica Sicurezza per segnalare che gli ebrei stranieri indicati in oggetto, (uno dei due era stato visto alla stazione di Cogollo del Cengio) continuano, nonostante siano stati richiamati più volte, a non attenersi alle prescrizioni loro imposte. Che cosa avevano fatto? Si erano allontanati dalle 5 del mattino fino alle 21 (siamo in giugno) di ben 12 Km da Caltrano per fare legna per conto terzi, nonostante l’ordine contrario ricevuto dal Comandante della Stazione dei Carabinieri. Elementi indisciplinati e prepotenti mantengono anche un contegno poco riguardoso verso le autorità preposte alla loro vigilanza. Anche perché serva da esempio per gli altri internati e per poterli meglio controllare, si propone che gli stessi siano internati in un campo di concentramento e si resta in attesa delle determinazioni di cotesto Ministero. La richiesta di trasferimento non ha seguito.
Le norme che vietavano la libera circolazione agli internati avevano riflessi molto pesanti sulle poche possibilità di lavoro che erano loro concesse, perché in alcuni casi il lavoro avrebbe richiesto di uscire dal Comune. Agli internati era reso praticamente impossibile ogni tipo di lavoro Era volontà del Regime mantenere gli internati in stato di bisogno in modo che fossero più gestibili e sottomessi; nel corso della guerra però, con molti uomini alle armi, venivano buoni anche loro per alcuni lavori, a condizione che il lavoro non creasse occasioni di incontro con i locali e che il loro impiego non privasse del lavoro i residenti. Anche gli imprenditori fecero pressione sul regime affinché li rendesse disponibili al lavoro, anche perché molti di loro erano particolarmente qualificati sul piano professionale. In un caso è il podestà Zuccato (documento a sinistra) a rivolgersi alla Questura per proporre
Documento conservato in Archivio di Stato di Vicenza eripreso dal sito “Dal Rifugio all’inganno”. Dal documentosono stati tolti i nominativi dei tre internati proposti per illavoro
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l’utilizzo di alcuni internati ebrei, difettando della mano d’opera necessaria, per la raccolta delle ramaglie nei boschi comunali per costituire un deposito a favore degli abitanti da utilizzare nel periodo invernale. Dovendo pernottare nei boschi, il controllo potrebbe essere affidato ai Militi forestali del Comune di Cesuna o alle guardie boschive del Comune di Caltrano. La Questura nega l’autorizzazione non ritenendo opportuno il pernottamento nei boschi , trattandosi di persone indisciplinate e che mal sopportano le prescrizioni loro imposte. Siamo ad aprile 1943 e un internato chiede di potersi recare in un bosco appartenente al Comune per un lavoro che consiste nel trapianto di pini nella malga Lovarezza alle dipendenze della Milizia Nazionale Forestale, località distante 20 Km per via montagna. Data la distanza l’occupazione richiede il pernottamento sul posto. I Carabinieri richiesti di un parere, tenendo conto dei precedenti di condotta e delle condizioni economiche dell’interessato, danno parere favorevole. Un internato, laureato, rivolge un’istanza al Questore affinché gli sia concesso: 1) poter esercitare un lavoro manuale (rilegatura di libri); 2) Volergli concedere due permessi settimanali per necessità di lavoro entro un limite di cinque chilometri; 3) Un permesso mensile per recarsi nella città per l’acquisto di materiale occorrente al suddetto lavoro, essendo i negozi di questo paese sprovvisti di materiale per rilegatura. Rivolge questa domanda perchè egli e la moglie vivono col solo sussidio propostogli dallo Stato. “Mi propongo di non abusare della clemenza concessami. Sperando nel buon esito della domanda porgo doverosi ossequi”. Più sottomesso di così! La Questura, attraverso il Podestà, comunica all’interessato che la domanda non può essere accolta. Dopo circa sei mesi, in data 5/X/1942, l’internato ripresenta la domanda, perché forse ha saputo che il Regime sta cambiando la politica sul lavoro degli internati, allargando un po’ le maglie dei divieti; oltre a ribadire di trovarsi in ristrettezze economiche fa presente che la moglie è malata e bisognevole di cure. Inoltre gioca una carta che può aiutarlo: fa presente che nell’arco di 5 Km non c’è nessuno che rilega libri per cui non porterebbe via il lavoro a nessuno! I Carabinieri di Caltrano, nel trasmettere l’istanza dell’internato alla Questura, allegano un loro rapporto con parere negativo: Nel trasmettere l’unita istanza, dell’interessato in oggetto, tendente ad ottenere l’autorizzazione per assentarsi dalla residenza due volte alla settimana per recarsi nei Comuni viciniori per lavoro (rilegatura di libri) si comunica che nelle immediate vicinanze di Caltrano ci sono stabilimenti ausiliari, quali il lanificio Rossi di Piovene-Rocchette e il cotonificio Rossi di Chiuppano ed altre opere di importanza militare. Sì dà quindi parere contrario alla concessione di questo permesso. Maresciallo d’alloggio a piedi Comandante la Stazione Corrias Salvatore Passano pochi giorni e il Questore decide che la richiesta di uscire dal Comune due volte alla settimana non può essere accolta e pertanto nega l’autorizzazione.
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Problemi di salute, visite e ricoveri ospedalieri, l’unico modo per uscire da Caltrano Nei fascicoli conservati in Archivio di Stato di Vicenza buona parte dei documenti riguardano le richieste di visite mediche specialistiche e in qualche caso di cure ospedaliere. L’iter era il seguente: l’interessato inviava alla Questura, tramite il Comune, la richiesta che doveva avere allegata la certificazione dell’Ufficiale Sanitario che confermava la necessità della visita o cura o ricovero. La Questura chiedeva alla stazione dei Carabinieri di Caltrano di confermare la necessità della visita e se la visita potesse essere eseguita in loco. A seguito della risposta dei Carabinieri, quasi sempre positiva per la necessità della visita e negativa sulla presenza in loco di uno specialista, la Questura molto spesso autorizzava. Gli internati erano autorizzati quindi a recarsi o a Schio o a Vicenza o a Thiene. L’autorizzazione conteneva delle prescrizioni, sempre le stesse, che le spese di viaggio e della visita specialista o della cura fossero a carico del richiedente e che la visita fosse fatta nell’arco di un solo giorno. Poi l’internato doveva seguire una precisa procedura. All’arrivo nel centro dove avere le cure doveva presentare l’autorizzazione alla stazione dei Carabinieri i quali riportavano l’ora alla voce “visto arrivare” e poi l’ora di partenza per il rientro. L’autorizzazione con queste registrazioni doveva poi essere consegnata in Comune. Una procedura di questo tipo aveva lo scopo di scoraggiare le richieste. Qualche storico ritiene che Ufficiali Sanitari e Carabinieri, compiacenti, chiudessero un occhio e così gli internati avevano la possibilità di uscire dai piccoli centri in cui erano reclusi, per stabilire contatti che poi si potevano trasformare in occasioni per avere informazioni, lavoro o scambio di merci o oggetti per attenuare le dure condizioni di vita a cui erano costretti. Chiesto un parere su questo argomento, l’ing. Walter Landmann esclude che la sua famiglia sia ricorsa a questo metodo per uscire da Arsiero. La maggioranza delle richieste erano per cure dentarie. C’è una richiesta di visita dentistica a Thiene per un giorno, per otturazione di un dente, e viene chiesto Thiene perché le spese di viaggio e del dentista sono minori rispetto che andare a Schio o a Vicenza. Viene richiesta una riparazione ai denti a spese dello Stato. Risposta: le protesi dentarie non sono a carico dello Stato, solo le cure dentarie semplici. C’è un caso in cui, al rifiuto dell’Autorizzazione da parte della Questura, il richiedente torna alla carica dopo 15 giorni con una nuova richiesta, lamentando che la precedente richiesta era stata negata senza un motivo. In alcuni casi la Questura dirottava le richieste a specialisti di Vicenza e di Schio, non autorizzando la sede di Thiene. La ragione emerge in un documento in data 14/VII/1943 (n. 8416 di prot. Segreto) del Comando Supremo, Servizio Informazioni Militare Centro C.S. di Verona, che dà parere contrario a recarsi a Thiene perché trattasi di località militarmente importante. Non bisogna dimenticare che gli internati ebrei erano considerati nemici dello Stato, possibili spie, e pertanto da tenere lontano da obiettivi militari. Non è l’unico caso questo dell’intervento del Comando Supremo di Verona per escludere Thiene dall’essere raggiunta da internati. Ci soffermiamo su un altro caso non solo perché dopo un mese la risposta sarà negativa, ma anche perché appare chiara la confusione presente ai vari livelli decisionali. Domanda del 25 giugno 1943 per una visita medica a Vicenza. Il 3 luglio i Carabinieri confermano che l’internata è affetta da una certa
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malattia, ma che per la cura può rivolgersi a Thiene; la Questura interpella in merito Verona che conferma che Thiene è località militarmente importante e quindi propone che la visita avvenga a Vicenza. La Questura prende atto e invita i Carabinieri di Caltrano a proporre all’internata una sede diversa da Thiene. il 31 luglio, è passato più di un mese, i Carabinieri rispondono testualmente alla Questura: a seguito del foglio pari numero del 3 andante (si riferiscono alla loro comunicazione con cui hanno suggerito Thiene) di questo comando, si esprime parere contrario che l’ebreo in oggetto si rechi in altre città diverse non essendo necessaria e urgentemente abbisognevole la cura medica che richiede. Il 2 Agosto la Questura nega l’autorizzazione della visita a Vicenza e così si chiude la pratica iniziata il 25 giugno! In una richiesta per cure dentarie a Thiene, da effettuarsi in più appuntamenti, il richiedente fa presente che il viaggio a Thiene costa L 3,60 mentre quello per andare a Vicenza costa, oltre a L 18 per il viaggio, L 60, dovendo restarci tutto il giorno. Anche in questo caso la Questura nega l’autorizzazione. Un internato lamenta un’orticaria con forte prurito e forti disturbi alla digestione, tanto da richiedere bagni medicati presso l’ospedale. C’è qualche richiesta anche di visita oculistica generica e anche per problemi di cataratta. Una richiesta comprende cinque visite dall’oculista, una alla settimana per 5 settimane. Il Questore autorizza. In un caso la rigida procedura per l’autorizzazione non viene applicata per motivi d’urgenza. E’ l’Ufficiale Sanitario, dott. Selmo Girolamo, che richiede un ricovero ospedaliero urgente per evitare contagi (sospetta dermatosi scabbiosa). Il Comune dispone l’immediato ricovero, senza aspettare l’autorizzazione della Questura. Viene informata la stazione Carabinieri di Thiene per l’opportuna vigilanza sul paziente. Il ricovero dura 5 giorni. Una signora chiede di poter andare a Thiene per farsi confezionare una ventriera su misura, soffrendo di abbassamento di stomaco e di disturbi intestinali. Il Questore non autorizza, invitando la medesima a chiedere l’autorizzazione per Schio o per Vicenza, per il motivo detto prima. L’interessata inoltra quindi una nuova domanda per acquistare la ventriera a Vicenza; i carabinieri confermano la necessità e la Questura autorizza. Il Medico Condotto prescrive una radioscopia per un internato a spese dello Stato. La prefettura chiede al Ministero dell’Interno l’autorizzazione per la spesa. Tramite la Questura il Ministero dell’Interno dispone una visita del medico provinciale per verificare la necessità dell’esame radioscopico. Il Medico provinciale conferma l’esame. Il Ministero autorizza la visita specialistica precisando che “agli internati in genere deve essere usato lo stesso trattamento fatto per gli indigenti italiani per quanto riguarda visite da parte di medici specialisti, concessione di specialità medicinali, etc.” La visita radioscopica viene fatta all’ospedale di Thiene. La storia prosegue perché l’interessata lamenta che dopo due mesi non ha ancora avuto l’esito dell’esame e chiede una visita dal Primario Formenton. Visita concessa. Dopo altri tre mesi viene chiesta un’altra visita dal Primario. I Carabinieri danno parere contrario, perché per il Primario non c’è la necessità di cure e la Questura nega la visita.
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Ricomposizione dei nuclei familiari Dai 10 internati presenti al 26 novembre del 1941 arriviamo ai 15 dell’ 8 settembre 1943. L’incremento è dovuto quasi del tutto alla ricomposizione dei nuclei familiari o parentali. In un caso si è trattato di un trasferimento da Canove per punizione e in un altro, sempre da Canove e dopo qualche tempo l’internato è stato trasferito a San Nazario. Vediamo il caso del trasferimento per punizione di cui dai documenti consultati non si coglie il motivo. L’ internato a Canove chiede alla Questura di Vicenza il trasferimento di un cugino che si trovava nel lager di Ferramonti di Tarsia (Cosenza), portando come motivo che il cugino per motivi di salute preferisce il clima di montagna e deve evitare un clima troppo caldo, inoltre la convivenza avrebbe avuto effetti positivi oltre che dal punto di vista del morale e della collaborazione fra i due, anche per l’aspetto materiale. La Questura risponde negativamente alla richiesta. L’internato viene dopo poco tempo trasferito a Caltrano, per ragioni di opportunità che in documenti successivi prendono la sostanza di una punizione. Il 4 marzo 1943-XXI l’internato arriva a Caltrano e a quanto pare darà del filo da torcere alle autorità fasciste. E veniamo ora ai ricongiungimenti familiari. A dicembre 1941, un giovane di vent’anni, internato a Canove di Roana, viene a sapere che genitori e sorella si trovavano a Caltrano e chiede di far loro visita; sono sette mesi che non si vedono. Nei giorni successivi il padre chiede che il figlio venga riunito alla famiglia (quando si ricongiunga alla famiglia il fratello gemello non è dato sapere), spiegando che la famiglia si è divisa perché il figlio è dovuto partire con un trasporto il quale è partito da Spalato 4 giorni prima di noi, non sapendo che noi partissimo. Passano venti giorni e il figlio è autorizzato a raggiungere la famiglia, accompagnato dai Carabinieri, e prende alloggio all’albergo Leon D’Oro, dove nel frattempo si era trasferita la famiglia. A lui era stato riconosciuto un sussidio giornaliero di 3 L. Un’altra famiglia aveva trovato alloggio presso una signora che abitava in via Roma. Siamo ai primi giorni del 1942, anno XX e una signora internata col marito chiede alla Questura che la sorella internata a Santa Maria Del Taro, in provincia di Parma, Albergo Alpino, possa essere trasferita a Caltrano col marito, per poterla assistere in quanto sofferente di una malattia cronica. Il Ministero dell’Interno chiede il parere del Comune sul trasferimento; il parere è favorevole in quanto i coniugi richiedenti hanno dato prova di disciplina ed obbedienza agli ordini e prescrizioni impartite. La Prefettura dà il nulla osta al trasferimento. I due nuovi arrivati si trovavano in Italia dal dicembre 1941 provenienti da Spalato, col 5° scaglione di ebrei dalmati. Ai primi di maggio interviene la Questura affinché ai nuovi arrivati siano comunicate le prescrizioni stabilite per gli internati. Un internato in data 3 maggio 1942, chiede al Ministero degli Interni che i suoi famigliari presenti nel campo di concentramento di Ferramonti di Tarsia vengano trasferiti a Caltrano. Il Comune dà parere favorevole, ma la Prefettura dà parere contrario in considerazione del numero elevato di internati nella provincia e in special modo nel Comune di Caltrano, questo anche agli effetti della vigilanza. Il Ministero non consente il ricongiungimento. Viene ripresentata domanda dopo più di due mesi e la risposta del Ministero rimane negativa.
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Altra richiesta bocciata quella di un internato che chiede che un cugino internato a Posina possa trasferirsi a Caltrano: Qui a Caltrano ci sono 11 internati e non sarebbe difficile trovare alloggio anche per lui. Di fronte a queste richieste di trasferimento di famigliari e di parenti, viene da pensare che le condizioni di vita degli internati a Caltrano, nonostante tutte le limitazioni, fossero migliori che altrove.
La loro fuga da Caltrano e Il sequestro dei loro beni Precisamente dalla denuncia che gli Ebrei avevano lasciato il paese fatta dal Podestà in data sabato 11 settembre 1943, si può desumere che la fuga da Caltrano fu repentina e non ci fu la possibilità di portare con sé i beni che ogni famiglia aveva. Inoltre in caso di spostamento con mezzi pubblici, treno o pullman, una valigia avrebbe subito attirato l’attenzione delle forze di Polizia Fasciste e Tedesche a caccia degli ebrei in fuga. Quindi si prendeva solo il più necessario. I beni rimasti furono soggetti, per le leggi razziali, al sequestro, come risulta dalla seguente Ordinanza di Polizia in data 30 Novembre 1943:
Il punto 1) prevede la creazione di campi di concentramento provinciali e per la nostra Provincia fu individuata come sede a Tonezza del Cimone l’ex colonia Umberto I°. Il 23 dicembre vi furono portati 45 internati di cui 8 erano in internamento ad Arsiero e dopo poco più di un mese, il 30 gennaio, partirono per Auschwitz in 42 (i tre Landmann in quanto famiglia mista non partirono), fatti salire sul trasporto n. 6, partito da Milano, dal binario 21. Nessuno di loro tornò e molti finirono subito nelle camere a gas. Nessuno degli internati a Caltrano fu portato a Tonezza, tutti riuscirono a fuggire. Sempre in relazione al punto 1) veniamo al problema dei beni che gli ebrei stranieri lasciarono con la loro fuga dopo l’occupazione tedesca. La denuncia presentata da due internati a Caltrano sulla scomparsa di parte dei loro beni ci offre l’occasione per accennarne. Ne parla Paolo Tagini nel suo libro “Le poche cose. Gli internati ebrei nella provincia di Vicenza 1941-1945” in un capitolo, pgg. 167-174 dove fa presente che le entrate incamerate dalla RSI a seguito del sequestro dei beni lasciati furono molto
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modeste, per cui propende che i proventi di tali beni semmai andarono a rimpinguare le tasche di diversi profittatori locali. E veniamo alla denuncia. Due internati a Caltrano, finita la guerra sono tornati per riavere i loro effetti e oggetti lasciati in loco, affidati ai proprietari dell’abitazione dove avevano vissuto. Avendone recuperati solo una parte, in data 25/VII/1945 hanno presentato una denuncia alla Questura: (nei testi i nominativi sono stati sostituiti da dei puntini)
Il sottoscritto….. lasciò presso la padrona di casa ….. quasi interamente i propri indumenti e oggetti vari per la cucina. La padrona mi assicurò di custodire gelosamente quanto affidatale. Alla liberazione si recò per ritirare il materiale ma quasi metà di quanto consegnatale era sparito. Lei ha consegnato al Commissario Prefettizio una parte. Ora vorrei si facessero indagini per cercare di recuperare almeno una parte di quanto perduto, oppure ottenere un indennizzo per il danno subito.
Il Questore incaricò i Carabinieri per le indagini. Si riportano alcune parti, le più significative, del rapporto, in data 7 settembre 1945, del Brigadiere Comandante della Stazione Carabinieri di Caltrano Francesco Pantaloni; …Per timore che al sopraggiungere dei Tedeschi esso (l’internato n.d.r.) avrebbe subito rappresaglie o peggio, siccome non di razza ariana, fuggì lasciando quasi tutto il corredo suo e della consorte e altra roba nella stanza che abitavano, senza però darla in consegna a nessuno, previo controllo, custodita in 4 valigie. Quando venne l’ordine al Comune di Caltrano di requisire tutti gli oggetti di proprietà degli ebrei, (la proprietaria n.d.r.) ebbe cura di denunciare parte della roba lasciatavi dal ….. nascondendo quella che credette migliore. Poco dopo la roba denunciata, che si presume sia quella elencata nell’allegato di ritorno, per ordine dell’allora commissario prefettizio, Mancini Romolo nato a Monte Pagano (Pescara) il 2/9/1890, giustiziato verso la fine di aprile c.a. dai partigiani, fece ritirare la roba denunciata e lasciata in deposito presso … e pare che la distribuisse agli sfollati… . Poiché non vi fu una consegna regolare da parte del ….. alla …. e che questa ultima non solo non sapeva cosa esso lasciò nelle valigie, perché della cosa si interessò la figlia deceduta, quando fu fatto la denuncia, ma ebbe cura di non denunciare tutta la roba, che poi la non denunciata fu restituita al legittimo proprietario, affrontando il rischio di rappresaglie da parte delle brigate nere, a parere di questo comando la ….. non dovrebbe rispondere circa la roba mancante al ….. .Unico responsabile sarebbe il Mancini, che fu giustiziato dai partigiani ed ebbe la casa saccheggiata e la famiglia è ritornata al paese di origine. A sostegno delle richieste del sig. ….. si attivò anche la comunità israelitica di Milano con una lettera del 26 agosto 1945, dell’ufficio legale inviata alla Questura. Nella lettera, dopo aver riportato il motivo della denuncia, si fa presente …….Naturalmente secondo le nuove disposizioni tutte le ……..(non è leggibile n.d.r.) a carico dei perseguitati razziali sono state revocate. Ciononostante il sig. ….. non è ancora entrato in possesso degli oggetti di cui alla nota allegata. Vi saremo molto grati se codesto Spett.le Ufficio vorrà interessarsi perché il sig…… entri in possesso dei suoi effetti o quantomeno del valore
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corrispondente, essendo egli venuto a conoscenza che il Commissario repubblichino ….. del Comune di Caltrano aveva distribuito detti oggetti alla popolazione…. Venne prodotto un elenco degli oggetti perduti in numero di 37 e uno per i generi alimentari: 50 Kg di patate, 1 Kg di zucchero, 3 Kg di marmellata, 1 Kg di riso, 6 Kg di farina bianca e 100 Kg di legna. Non è dato sapere come si sia conclusa la vicenda. E’ questo un aspetto della persecuzione degli ebrei, quello della spogliazione dei loro averi, che non è stato sufficientemente approfondito dagli storici e che non ha coinvolto solo il Regime e le sue organizzazioni. Dopo la guerra a Caltrano arrivarono comunicazioni che provavano che molti degli internati si erano salvati. Solo di alcuni mancano informazioni. Il Podestà di Caltrano sabato 11 settembre, ore 11.50, informò con un telegramma la Questura che Gli ebrei internati in questo Comune hanno abbandonato la residenza per ignota destinazione. Di loro più alcuna notizia fino a luglio quando cominciarono a giungere da Bari richieste di informazioni al Comune. E’ giunta una decina di lettere dall’Ente di Assistenza del Comune di Bari, tutte uguali, di questo tenore: “Se l’internato politico di nazionalità Jugoslava abbia goduto del sussidio governativo da e fino a quando e in quale misura giornaliera. L’internato ha dichiarato di essere stato internato a Caltrano per motivi politici, così risulta dalla sua dichiarazione al momento di richiedere l’ammissione al beneficio del sussidio governativo presso questo ente”. La risposta del Comune, a firma Angonese per conto del Sindaco, fu la seguente: …si conferma che dal 26/11/1941 al 10/09/1943 lo stesso si trovava a Caltrano e che ha percepito dal 26/11/1941 al 30/6/1943 L 8 di retta giornaliera e L 50 mensile per indennità di alloggio. Poi dal 1/7/1943 al 10/9/1943 L 9 giornaliere e L 50 per indennità di alloggio. In data 4 luglio 1946 scrive anche la Questura di Milano a quelle di Bari, Vicenza e Roma sul conto di una internata. La signora (omissis) munita di dichiarazione di soggiorno rilasciata a Bari il 27 giugno 1944, proveniente da Roma, si è qui trasferita nel nord per recuperare degli indumenti che aveva depositati a Caltrano ove è stata a suo dire internata dal 1/5/1942 al 10/9/43. Si prega di fornire sul suo conto le rituali informazioni. La (omissis) è stata qui censita. La questura di Vicenza rispose che durante la sua permanenza mantenne regolare condotta. Il 17/9/1945 il Ministero dell’Interno scrive alle Prefetture di Vicenza, di Roma e di Bari allegando la richiesta di un internato residente a Roma, tesa ad ottenere gli arretrati del sussidio a partire dall’8 settembre 1943. Il Ministero chiede se corrisponde al vero quanto dichiarato e se gli spetti quanto chiede. Nella sua richiesta l’interessato sostiene di essere stato internato dall’ottobre 1941 al settembre 1943 a Caltrano da dove è scappato l’8 settembre 1943. Di non aver pertanto ricevuto il sussidio dall’8 settembre 1943. Chiede il versamento degli arretrati. Dopo l’armistizio ha passato la linea del fronte e ha raggiunto Bari; si è trasferito a Taranto dove è stato occupato presso la base navale inglese per un anno da dove è qui giunto (a Roma n.d.r.) il 20 settembre 1945.
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E’ del 24/8/1945 la richiesta di informazioni della Questura di Taranto su un internato, prima a Canove, poi a Caltrano ed infine trasferito a San Nazario e arrivato a Taranto nel dicembre del 1943. Si chiedono particolarmente notizie riguardo alla sua posizione politica. Da San Nazario si risponde che l’internato mantenne buona condotta morale e politica senza dar luogo a rimarchi di sorta. In San Nazario non manifestò alcun sentimento politico. Di coloro che si sono avute notizie alla fine della guerra, tutti raggiunsero il Sud Italia e in particolare la Puglia che dopo l’Armistizio dell’ 8 settembre divenne la meta salvifica per moltissimi ebrei provenienti, oltre che dal Nord Italia, dai Balcani e dalle isole greche. Anche Olga Bleier, cognata di Luigi Meneghello, da Malo raggiunse la Puglia. Nel fascicolo Le Porte della Memoria del 2012, abbiamo dedicato grande spazio alla drammatica storia della famiglia Bleier, a noi cara, perché due componenti della famiglia, le sorelle Olga e Katia, vissero a Thiene, la prima sposata con Eugenio Varnai e la seconda con Luigi Meneghello, noto scrittore e cittadino onorario di Thiene. In quell’occasione furono riferiti alcuni particolari della fuga dei coniugi Varnai da Malo dove si trovavano internati, accenni che ora possiamo confermare e integrare avendo avuto nel gennaio 2012 un contatto con il sig. Gaetano Grotto, figlio di Igino, nella cui casa di Malo erano ospitati i Varnai. Questo quanto riportato allora nel fascicolo in base al racconto di alcuni parenti Meneghello, sulla fuga dei Varnai: …Partirono su un camioncino sgangherato con il cassone coperto da un telone, diretti verso sud. Erano terrorizzati di essere fermati da qualcuno e di essere scoperti; la loro parlata tradiva le origini non italiane. I Varnai portarono con loro solo una scatola da scarpe dove erano conservati i beni per loro più preziosi… le foto di famiglia! Ad Ancona salirono su una barca e arrivarono a Bari lasciandosi dietro le spalle le linee su cui si fronteggiavano Tedeschi e Alleati. Attraverso vari passaggi siamo arrivati al sig. Gaetano Grotto. Per gli amanti dello scrittore Luigi Meneghello il sig. Gaetano in Libera Nos a Malo è “Pendola”. L’autore lo battezzò con questo nome perché aveva una capigliatura bionda e riccia, curata dalla sorella, di nome Caterina, per cui aveva più testa che spalle, da qui il nome di Pendola. Il suo racconto conferma nella sostanza come avvenne la fuga e aggiunge dei particolari se vogliamo curiosi, ma anche drammatici: Ad aiutare i Varnai a fuggire fu mio fratello Francesco, del 1919, che salì sul camion con i Varnai, non so chi guidasse il camion, per raggiungere una stazione ferroviaria a Firenze. Il fratello era diacono nel seminario di Vicenza, prossimo al sacerdozio. Fece il viaggio
Padre Francesco Grotto, Missionario Comboniano nato a Malo 1919 – 2009. Ha operato anche a Thiene, presso l’Istituto Missioni Africane di via Dante.
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vestito da prete e arrivati alla stazione fu lui a portare la valigia camminando qualche passo più indietro dei Varnai, per non far capire di essere assieme a loro. In quei tempi chi aveva una valigia poteva essere sospettato di tentare la fuga. Il piano prevedeva che i Varnai, privi di borse o valigie, salissero sul treno e appena sistemati, lui avrebbe passato loro la valigia attraverso il finestrino. Accadde che la valigia gli scivolò, cadde a terra, si aprì …e il treno partì per Ancona. Ecco il motivo per cui i Varnai si ritrovarono solo con la scatola delle foto di famiglia! Francesco Grotto venne poi ordinato sacerdote nel 1944, sei anni dopo passò con i Missionari Comboniani e svolse la sua missione in Africa per 50 anni, 40 dei quali in Togo.
Questa ricerca sull’internamento libero delle famiglie ebree a Caltrano, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, meriterebbe un approfondimento ed un ampliamento, anche per capire come si svolse la loro fuga da Caltrano verso il Sud Italia e da chi furono aiutati. E’ sperabile che ci siano persone che hanno ricordi o documenti che possano arricchire la conoscenza di un fatto che deve trovare un giusto spazio nella storia di Caltrano.
Per approfondimenti sull’internamento degli ebrei dal 1941 al 1945 in Provincia di Vicenza è utile consultare il sito http://www.dalrifugioallinganno.it/ curato dai prof.ri Antonio Spinelli e Claudio Daniele e il libro di Paolo Tagini Le Poche cose, Istrevi, Cierre gruppo editoriale, ottobre 2006.
prof. Antonio Spinelli e Claudio Daniele, prof. Antonio Daniel
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Alessandro Vischio
“Ricordi di Iugoslavia”
La marcia di Alfeo Dal Maso verso la prigionia
Anche quest’anno le giornate della Memoria e del Ricordo offrono l’occasione per
presentare all’attenzione dei lettori nuove testimonianze su quanto i nostri concittadini
hanno vissuto ormai poco più di settant’anni fa. Le pagine che seguono riportano vari
estratti dalle memorie di Alfeo Dal Maso, soldato della celebre divisione “Acqui” e
sopravvissuto all’eccidio di Cefalonia. Qui, però, non leggeremo di quanto successo ad
Alfeo nel settembre del 1943, che è già stato esposto altrove1, ma di ciò che visse al
termine del conflitto.
Lo ritroviamo, infatti, nel maggio del 1945, nei pressi di Lubiana, oggi capitale della
Slovenia, sulla via del ritorno a casa. Ormai, dopotutto, la guerra è finita.
“Quando nel maggio de 45 [sic] la Germania capitolò io ero sui monti fra Celie
e Lubiana in marcia verso l’Italia. Arrivai a Lubiana e la oltrepassai sicuro di
tornare [a c]asa ma avevo fatto i conti senza l’oste. Dovetti tornare a Lubiana
dove trovai altre migliaia di italiani e di lì a Celie2 e poi a Zagabria a Bielovar3
oltrepassare il Drava e il Danubio finché dopo un mese di cammino ci fermarono
a Novi Vrbas4 nella Backa5.”
1 Chi scrive è venuto a conoscenza del documento grazie al prof. Giannico Tessari. Si tratta di un
manoscritto di diciassette pagine, a sua volta una trascrizione del diario originale eseguita negli anni ‘60
dal figlio dell’Autore, il Sig. Gianfranco Dal Maso. Il memoriale è suddiviso in tre capitoli, il primo dei
quali tratta dell’eccidio di Cefalonia, mentre il secondo ed il terzo riguardano il periodo trascorso da
Alfeo come prigioniero dei partigiani di Tito in Jugoslavia, al termine del conflitto. Tutti i passi riportati
in questo articolo appartengono al terzo capitolo, intitolato Ricordi di Iugoslavia. Per la testimonianza di
Alfeo Dal Maso su quanto avvenuto a Cefalonia si rimanda ai seguenti due articoli: Vischio, “I vivi vi
chiameranno dispersi”, L’eccidio di Cefalonia nelle memorie di un thienese, prima parte, pp. 39‐49; Id., “I vivi vi
chiameranno dispersi”, L’eccidio di Cefalonia nelle memorie di un thienese, seconda parte, pp. 35‐42.
2 Celje, località della Slovenia orientale.
3 Bjelovar, centro della Croazia settentrionale, a poco meno di 100 km ad est di Zagabria.
4 Non è stato possibile individuare l’esatta posizione di questa località, ma sembra ragionevolmente
collocabile nei pressi della cittadina serba di Vrbas, nella Serbia settentrionale.
5 Dal Maso, Diario, p. [XI]. Le prime dieci pagine del manoscritto sono numerate con cifre romane. Le
ultime sette sono prive di numerazione, che in questa sede viene aggiunta nelle citazioni in nota tra
parentesi quadre. Nella trascrizione del testo del manoscritto si è tenuta la massima fedeltà all’originale,
mantenendo anche eventuali errori di ortografia e parti barrate ma ancora parzialmente leggibili (in ogni
caso, debitamente segnalate). Dove necessario per la comprensione del testo sono stati aggiunti, tra
parentesi quadre, lettere e segni d’interpunzione assenti nell’originale, o comunque non chiaramente
riconoscibili. Si è, infine, utilizzato il corsivo per segnalare le parti di discorso diretto.
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Alfeo, come molti altri militari italiani, si trova ora ad essere prigioniero delle milizie
jugoslave di Tito6 e, come si è appena visto, non gli si prospetta più il ritorno in Italia, ma
una lunga marcia che avrebbe portato lui e molti altri verso la prigionia in un campo di
concentramento. Nel proprio memoriale, Alfeo indica le varie tappe del suo cammino,
percorso in attesa che una fantomatica commissione italiana disponesse tempi e modi del
ritorno in patria suo e degli altri militari prigionieri.
“Un mese di martirio di fame di terrore e per molti di morte. Alcuni fatti che
successero in mia presenza cercherò di spiegarli come meglio posso. A Lubiana ci
dissero7 che per tornare in Italia dovevamo prima presentarci ad una
commissione italiana venuta lì apposta per inquadrarci perché non era giusto che
si rimpatriasse così sbandati come s’éra [sic]. E la commissione dissero è a Celie.
Partimmo fiduciosi e in tre giorni i 100 km che ci dividevano da Celie furono
superati. Per il mangiare arrangiarsi e per il dormire c’erano i prati. A Celie ci
dissero che la commissione era a Zagabria. Altri 240 km. E mangiare? Arrangiarsi
che poi avrebbe pensato la commissione. E dormire? sperare nel sonno. Dopo
una settimana anche Zagabria era raggiunta. Ci Ci rinchiusero in un grande
edificio con tante guardie attorno appassionate al tiro col mitra e al canto.
“Attendemmo la commissione per due giorni. La sera del secondo giorno ci
fecero uscire, ci misero per quattro ci dettero un pane per ogni fila (duecento gr. a
testa) e con la scorta di guardie a cavallo ci fecero partire. Per dove? Mistero. E
qui cominciò la prima parte della nostra odissea quella che noi battezzammo
come la «MARCIA‐DELL[A] GIOVINEZZA8». Fame sete e spogliazione botte e
qualche pallottola nel cervello di chi non si adattava furono i nostri compagni
fino a Bielovar. Non ricordo di preciso quanti giorni camminammo ma ricordo di
un colonnello medico che in tre chilometri da completamente vestito si trovò in
mutande. Cominciò a dare gli stivaloni e poi la giacca e via via la bustina la
camicia l’orologio. Lì provò a protestare e ricevè quattro scudisciate.
“E chi ci spogliava non era la commissione ma gente che aspettava lungo la
strada il passaggio della colonna di prigionieri. E le guardie cantavano e
6 Le circostanze della cattura di Alfeo da parte dei titini sono ignote. È possibile che, dopo essere stato
catturato a Cefalonia, abbia trascorso la prigionia in uno dei campi di lavoro che i tedeschi avevano
allestito in Jugoslavia, e che qui sia poi caduto nelle mani dei partigiani comunisti al termine del conflitto.
7 L’Autore, lo si è già detto sopra, fa parte di una colonna di militari italiani e tedeschi prigionieri dei
partigiani comunisti di Tito, così come indicato in Dal Maso, Diario, p. VI: “Da 12 giorni si camminava e
niente ci era stato dato dai partigiani titini […].” Non è possibile avere un’idea chiara della consistenza
numerica della colonna, che l’Autore del Diario stima, in un primo momento, tra i sei ed i settemila
uomini. Dal Maso, Diario, p. VI: “La lunga colonna incominciò la marcia. Sei o settemila uomini, cogli
occhi sbarrati per la fame e la paura ripresero a camminare scortati dalle guardie a cavallo […].” Nel terzo
capitolo – p. [XIII] –, come si vedrà nelle prossime pagine, Alfeo indica in circa quattromila il numero
degli italiani componenti la colonna, mentre dei tedeschi viene registrata solo la presenza, non la
consistenza numerica. Per quanto riguarda il complesso contesto dei movimenti interni alla resistenza
jugoslava, nonché ai loro rapporto con i militari italiani (anche dopo l’Armistizio), si rimanda a quanto
detto in Vischio, Memorie di un marinaio, Dalla fuga dal Lager al ritorno a casa, pp. 48‐53, ed alle relative note
e bibliografia.
8 In stampatello maiuscolo nel testo.
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sparavano allegre9.”
Come si è visto, la marcia si rivela essere un vero e proprio inferno per i militari italiani,
sottoposti alle angherie delle guardie e tormentati dall’ostilità della gente locale. A questo
punto Alfeo racconta di un episodio che, data la sua crudezza, si è impresso in modo
particolare nel suo ricordo di quei giorni.
“Al terzo giorno mi pare successe qualcosa di extra10. È facile immaginarsi la
nostra fame e conseguente debolezza[.] Bene, si camminava sotto un sole
tremendo da diverse ore quando un partigiano ci sorpassò in bicicletta
guardandoci con aria da dominatore. Un po’ più avanti di me un italiano toccò
col braccio il manubrio della bicicletta si che il partigiano fu costretto a mettere
piede a terra e a fermarsi: Disse: Ti xe taliano? Sì rispose sorpreso l’altro e subito
fummo attorno a lui in massa per sentir qualche novità: Va ben tosi presto semo a
casa disse lui e intanto con grande calma levò dalla fondina la pistola, levò dalla
canna il tappo di cotone e sorridendo la puntò alla fronte di quello che l’aveva
urtato che lo guardò incredulo e sparò. Scappammo.
“Un cappellano in divisa militare si levò la croce rossa che portava sul cuore:
Perché non sia profanata disse e aggiunse: maledette genti. Altra gente che sfinita si
lasciava cadere a terra era finita a colpi di mitra. Nessuno poteva fermarsi.
Davanti avevamo una lenta agonia di dietro una morte sicura. Fino a quando?
Mistero11.”
La situazione diviene sempre più difficile, fino a che nella disperazione generale si
riaffaccia la speranza di poter ritornare presto a casa.
“Giungemmo a Bielovar. Un Commissario politico partigiano che parlava
italiano ci disse che gli Italiani andavano mandati a casa e che loro si tenevano i
tedeschi12. La croce rossa riapparve sul petto del cappellano: E mangiare?
Domani avrete da mangiare. Il cappellano seguì il Commissario e ritornò con la
convinzione che tutto il male fosse finito. L’indomani ci misero per quattro e ad
ogni quattro diedero un pane e la marcia ricominciò come prima; peggio di
prima. La croce del cappellano scomparve. Camminammo ancora per qualche
giorno. Giunti che fummo ad Osiek ci fermammo un paio di giorni. Lì mangiai
rane crude che trovai in una pozzanghera. Venne uno e disse di dividerci e gli
9 Dal Maso, Diario, pp [XI]‐[XII].
10 L’episodio descritto in questo passo precede, secondo quanto racconta il terzo capitolo del memoriale,
l’arrivo della colonna dei prigionieri a Bjelovar. Tuttavia nel secondo capitolo del Diario, intitolato
Episodio, Un giorno di marcia e dedicato al racconto, in particolare, di questo tragico frangente, Alfeo
sembra collocare il fatto nel tragitto tra Bjelovar ed Osijek. Dal Maso, Diario, p. VI: “Da Lubiana ci
avevano condotti in giù: Celie, Zagabria, Bielovar e ora?”. Esistono anche altre parziali incongruenze tra il
contenuto del secondo e quello del terzo capitolo, e ciò si deve certamente al fatto che il memoriale è stato
redatto, in ogni caso, ad anni di distanza dai fatti narrati.
11 Dal Maso, Diario, pp. [XII]‐[XIII].
12 Questo è l’unico accenno alla presenza di militari tedeschi tra i prigionieri.
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italiani si divisero in due categorie. Nella prima categoria c’erano tutti gli ufficiali
più soldati, oltre forse duemila circa in tutto. Nell’altra e, c’ero anch’io, solo
qualche sergente e soldati, altri duemila circa. Quando venne un grosso ufficiale
partigiano il colonnello medico spogliato che comandava la prima categoria
disse: Noi siamo prigionieri, quelli sono fascisti. Ricevette dall’ufficiale partigiano un
calcio in uno stinco sicché scappò fra i suoi saltando come uno stambecco. Con
quattro urli la prima categoria ricevé l’ordine di partire e partì con la scorta a
cavallo verso il Sud. Pensavo fra me alla fraternità degli italiani. Il giorno dopo
col solito pane in quattro si [p]artì anche noi e verso il Nord. Il cuore mi si
apperse [sic] [a]lla speranza perché Nord voleva dire Italia13.”
Speranza presto delusa. Poco dopo la partenza, infatti, la colonna attraversa il fiume
Drava e si dirige sempre più ad est, in direzione del Danubio, che supera tre giorni dopo,
inoltrandosi quindi nella regione della Backa14. E quest’ultima parte di quel tragitto
infernale si sarebbe presto rivelata essere la peggiore.
“Davanti a noi c’era un’immensa pianura pochissime piante una strada di
campagna e ogni 8‐10 km un paese. Fuori di ogni paese le guardie ci fermarono
poi una partiva al galoppo e quando tornava si partiva anche noi. Capimmo il
valore di quella manovra quando entrammo nei paesi. Tutta la gente era in attesa
di noi con sassi e bastoni e cominciava la sinfonia. Le guardie entravano in scena
con i cavalli e giù botte. Chi cadeva in quel caos era morto. E cadere era facile
perché tutti correvano tutti volevano stare in mezzo alla strada. Passammo così
una decina di paesi. Ormai solo l’istinto ci faceva desiderare di vivere. Io ero alla
fine. Un giorno invece che al mattino si partì al pomeriggio. Quel giorno avevo
perduto molto diverso sangue dal naso: non capivo più. Si partì ma le forze non
c’erano. Rimasi in fondo alla colonna per un po’ poi mi staccai non potevo seguire
gli altri. Pensavo senza paura alla mia fine quando ricevetti attraverso la schiena
13 Dal Maso, Diario, p. [XIII].
14 Corrispondente all’area dell’odierna Serbia settentrionale compresa tra il Danubio ed il Tibisco.
Ricostruzione approssimativa del tracciato della marcia compiuta da Alfeo Dal Maso. Il percorso segnato è da intendersi come puramente indicativo.
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una tremenda scudisciata. Chissà come fui in mezzo agli altri e fino alle porte di
un paese ci rimasi. Qui la solita sosta la solita partenza e una debolezza ancora
più grande. Mi presi indietro solo: presi una legnata su un braccio e come Dio
volle fui fuori dal paese dove vidi con sorpresa che fermarono tutti in un grande
recinto. Come fui dentro mi distesi a terra e aspettai15.”
La marcia è ora terminata e per Alfeo e quanti sono con lui inizia la difficile
permanenza in un campo di concentramento. Nelle ultime pagine del suo memoriale,
riportate di seguito, Alfeo descrive la vita che conduce, per circa cinque mesi, a Novi
Vrbas.
“Non lo sapevamo ma quello era il posto dove, dovevamo arrivare. Dopo circa
700 km di cammino Novi Vibas [sic] era raggiunta. La marcia della giovinezza era
finita. Incominciava un’altra terribile esperienza: 5 mesi nelle mani del «boia[».] Il
quale boia era un sergente che comandava il campo di concentramento. Dopo
averci divisi a gruppi rimanemmo in circa 500 in quel paese, gli altri in altri
luoghi della Backa. Il lavoro era obbligatorio. Si usciva al mattino alle 5 si andava
per diversi km finché arrivati sul posto si doveva estirpare l’erba dalle
barbabietole. Erano incolte coperte d’erba. Ci inginocchiavano uno per fila e via.
Bisognava levare tutta l’erba, sfoltire le barbabietole senza alzare mai la testa. E il
sole ci arrostiva. Mangiare? Una gavetta di granturco portato pestato cotto
nell’acqua senza sale. Al tramonto si tornava [a]l campo. Si entrava ognuno alla
volta e ognuno aveva [l]a sua snerbata sulla schiena. Ci si buttava sfiniti sulla
[p]aglia uno addosso all’altro per dormire ma tra i pidocchi tra la dissenteria ben
pochi chiudevano occhio.
“[In?] più un paio di volte alla notte il boia veniva a [d]arci la sveglia e la
ginnastica. Ginnastica notturna e chi non la eseguiva bene riceveva le botte. Al
mattino [i]dem. Ora io mi ammalai: mi portarono all’infer[m]eria dove c’era un
dottore italiano il quale aveva in dotazione un quaderno e una matita e [b]asta.
Colla matita scriveva i nomi degli ammalati: [og]ni mattina faceva l’appello: chi
non rispondeva era morto; dopo un po’ sepolto. Si beveva solo: niente mangiare.
Dopo 20 giorni cominciarono a darci un po’ di pane ma del sale ancora niente.
Per circa tre mesi me ne stetti così. Intanto le notizie dei sani lavoratori arrivarono
e non erano liete.
“Lavoro botte dissenteria per tutti le eccessioni [sic] erano in peggio16.”
Qui termina il memoriale di Alfeo Dal Maso e, di conseguenza, anche questo breve
articolo. Suo scopo, come già detto all’inizio, era presentare ai lettori la testimonianza di
Alfeo Dal Maso sulla propria prigionia in Jugoslavia alla fine della Seconda Guerra
Mondiale, e l’ha fatto soprattutto lasciando la parola al testo, considerando che nulla
avrebbe potuto rendere meglio la crudezza di fatti che hanno certamente segnato
quest’uomo, sopravvissuto al conflitto e mancato nel 1999. In ciò, tuttavia, non vuole
15 Dal Maso, Diario, pp. [XIV]‐[XV].
16 Dal Maso, Diario, pp. [XV]‐[XIV].
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prestarsi ad una sterile commemorazione emotiva di avvenimenti tanto tragici quanto
ormai lontani nel tempo, ma invitare a guardare alle tracce delle vicende passate come ad
utili spunti di riflessione ed approfondimento per comprendere meglio gli sviluppi del
presente.
FONTI E BIBLIOGRAFIA
DAL MASO Alfeo, Diario, manoscritto inedito.
VISCHIO Alessandro, “I vivi vi chiameranno dispersi”, L’eccidio di Cefalonia nelle memorie di
un thienese, prima parte, “Archivio, Rivista sulla storia di Thiene”, n. 19, anno IX (2016), pp.
39‐49.
ID., “I vivi vi chiameranno dispersi”, L’eccidio di Cefalonia nelle memorie di un thienese, seconda
parte, “Archivio, Rivista sulla storia di Thiene”, n. 20, anno X (2016), pp. 35‐42.
ID., Memorie di un marinaio, Dalla fuga dal Lager al ritorno a casa, “Le Porte della Memoria
2014”, (2014), pp. 43‐64.
Al lettore potrebbe essere utile sapere che i numeri del semestrale “Archivio, Rivista sulla storia
di Thiene” e della pubblicazione annuale “Le Porte della Memoria” citati in questa breve
bibliografia sono reperibili presso varie biblioteche della provincia di Vicenza. Per maggiori
informazioni in merito si invita a consultare il catalogo della Rete delle Biblioteche Vicentine,
rintracciabile al seguente indirizzo: http://biblioinrete.comperio.it/.
REFERENZE ICONOGRAFICHE (tutti i siti internet sono stati visitati per l’ultima volta in data
10/01/2018)
Ricostruzione approssimativa del tracciato della marcia compiuta da Alfeo Dal Maso, “Google
Maps”, https://www.google.it/maps/@41.29085,12.71216,6z?hl=it.
Le Porte della Memoria 2018
La stesura dei vari testi è stata curata o coordinata da Giannico Tessari per conto dell’Associazione Amici della Resistenza. Si ringraziano quanti hanno collaborato per la realizzazione della dispensa, a qualsiasi titolo. Un ringraziamento particolare va al sig. Antonio Guglielmi, che con la sua storia di lavoratore coatto ha reso possibile questo nuovo fascicolo che cerca di mantenere vivo il ricordo di quanti hanno vissuto la terribile esperienza dei lager della Germania nazista. Un grazie anche ai famigliari dei suoi compagni di prigionia per l’aiuto offerto nel ricostruire la deportazione dei 16 giovani delle Bregonze, aiutati in questi contatti da Ornella Dalla Costa, Dino Maculan, Maurizio Duso e Bruno Strozzo. Grazie alla prof.ssa Raffaella Corrà, che continua ad offrire la sua collaborazione, anche ora che ha lasciato la scuola per la pensione e al dott. Alessandro Vischio, nostro giovane e valido storico. Per la ricerca di informazioni ricorriamo spesso a Giovanni Rosa e a Mauro Dei Rossi, cari amici e buoni conoscitori del mondo germanico, sempre disponibili ad avviare nuovi contati. Ricordiamo per la preziosa collaborazione Nicoletta Panozzo per l’accurato lavoro di correzione dei testi. E’ possibile utilizzare quanto contenuto nella dispensa, per attività non a fine di lucro, a condizione di riportare la provenienza e citando “Dispensa realizzata per le Porte della Memoria 2018 dall’Associazione Amici della Resistenza di Thiene”. Thiene, 27 gennaio 2018