Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

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Titolo: Le cose, le cose, le cose. Le cose. Svuotamento e stallo nella poesia recente Autore: Davide Castiglione

Edizione a cura di: In realtà, la poesia

Anno: 2013

Vol.: 15

Il presente documento non è un prodotto editoriale ed è da intendersi a scopo

illustrativo e senza fini di lucro. Tutti i diritti riservati all’autore.

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Le cose, le cose, le cose Le cose. Svuotamento e stallo nella poesia recente

di Davide Castiglione

In realtà, la poesia

2013

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Premessa

Si parla spesso di un ritorno alla realtà - nel senso comune

di ‘concretezza’, ‘quotidianità’, importanza dell’esterno -

nella giovane poesia, quella scritta dai nati negli anni ’70 e

’80. Questo è, per esempio, uno dei cardini attorno ai

quali ruota l’introduzione all’antologia La generazione

entrante (Ladolfi, 2011), ma la situazione è generalizzabile,

dato che pochi difendono apertamente un paradigma

antagonista (con tensioni orfiche o enfasi su un

astrattismo anti-sentimentale). È davvero questo il caso?

Se per una volta interrogassimo i testi poetici piuttosto

che le intenzioni o le razionalizzazioni dei loro autori, ci

renderemmo conto che la situazione è più sfaccettata.

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Ci renderemmo conto che la realtà è più inseguita che

raggiunta, e spesso si presenta nella forma debole di un

minimalismo senza ambizioni né peso, non a torto

avversato da Giorgio Linguaglossa (ma solo da lui, a

quanto pare).

Un sintomo di questa debolezza generale è l’uso del

sostantivo generico ‘cose’, assolutizzato dall’articolo

determinativo e quasi sempre a fine verso: questo termine

è esemplare perché da un lato è indice di realtà, di legame

con la cosalità della Linea Lombarda; dall’altro ha

ascendenze filosofiche, e sembra riassumere l’immateriale.

Nella pratica scrittoria, tuttavia, il suo uso insistito e

spesso ornamentale lo trasforma in uno stilema estenuato,

un indice del poetico che assolve a una funzione

contraria, di pigro lirismo; un estetismo spesso gratuito,

uno specchietto per le allodole insomma (altre parole-

chiave che andrebbero studiate sono ‘corpo’, ‘parola’,

‘respiro’ e adesso anche ‘casa’, anche e forse soprattutto in

area sperimentale… è per via di una perdurante

ascendenza heideggeriana?).

Senza pretese di esaustività (molti altri testi potrebbero

essere inclusi nell’analisi) ma in un tentativo di

sistematicità, il presente saggio si propone di studiare

questo fenomeno, nella persuasione che nei testi, in

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particolare nelle loro strutture o minuzie più inavvertite

agli autori stessi, stia il sintomo di un’inerzia compositiva

che a volte non risparmia nemmeno i migliori.

Mi propongo cioè di identificare ed analizzare un

problema, non di dare o togliere una patente di qualità agli

autori che analizzo - alcuni dei quali, anzi, stimo molto.

Procederò nel seguente modo: 1) costruirò e contrasterò

alcuni concetti di ‘realtà’, mutuandoli dal modello dei

‘mondi’ di Karl Popper; 2) inquadrerò il sostantivo ‘cose’

all’interno di questi concetti; 3) analizzerò alcune

ricorrenze in cinque maestri più o meno in ombra del

Novecento di diverse tendenze (Calogero, Sereni, Cattafi,

Spatola, Balestrini); 4) analizzerò le ricorrenze in una

dozzina di autori successivi, soprattutto delle ultime

generazioni; 5) valuterò il cambiamento in atto,

articolando i nodi già presentati in questa sinossi.

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0. Quale ‘realtà’ per la poesia?

Il recente e pervasivo dibattito sulla realtà in letteratura

soffre di un limite intrinseco: un malcelato culto

dell’irrazionale. Poco di cui meravigliarsi, se teniamo

conto del debito contratto dalla critica italiana più in vista

dall’anti-positivismo crociano prima e dai vari post-

strutturalismi poi; e, per converso, la sua indifferenza se

non ostilità verso le tradizioni analitiche: fino a che punto

l’allarme lanciato da Cesare Segre in Notizie dalla crisi già

nel 1993 è stato accolto? E i dovuti omaggi a Contini

sono più formali che sostanziati in una pratica critica che

osi ripartire da lì?. Tradizioni, queste, che fondano alcune

delle punte d’eccellenza dell’accademia italiana, tra

filologia, stilistica, storia della lingua e semiotica

strutturale (Pavia, Padova, Siena, Pisa).

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Il problema è tutto nella fallacia ontologica in cui cade, prima

di cominciare, qualsiasi dibattito critico proprio in quanto

dibattito divenuto indipendente dalle analisi e dai risultati

delle analisi: sembra anzi che l’idea stessa di dibattito

fatichi a sussistere senza tale fallacia.

Per fallacia ontologica intendo la tendenza a trattare i

concetti come fossero delle essenze, degli assoluti. Il

paradosso è questo: nella teoria della letteratura si ha acuta

coscienza del fatto che i concetti (come quello di ‘realtà’,

ma anche le definizioni estetiche di ‘realismo’, ‘influenza’,

‘poetica’, ecc.) sono delle variabili, storicamente e

socialmente costruite; eppure vengono gettate nell’agone

del dibattito facendole passare per immanenti, per reali;

per costitutive, anziché per derivate. C’è una scollatura

astuta tra premesse tacite e pratiche scritte.

L’irrazionale segue con la certezza di un corollario: se i

concetti di cui dibattere in letteratura sono delle essenze

precostituite, allora sono inconoscibili, o conoscibili

parzialmente e forse solo per deduzione o sensibilità

personale! Avranno quindi sempre un residuo d’irrisolto,

di mistero - un residuo teologico anche quando si traveste

laicamente, mi verrebbe da dire. Questo consente di

accapigliarsi senza fine, con acribia argomentativa ma

spesso senza esplicitare limiti e premesse.

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Con inappuntabilità tautologica, vince l’idea vincente e

retoricamente più persuasiva, non quella di maggiore

coerenza interna e potere esplicativo. Tanto la datità del

materialismo quanto l’astrattezza della formalizzazione

sono accantonati in un’abile mossa. Non era così in

Fortini, e in molta della pratica critica tra anni ’60 e ’70,

alla quale mi richiamo.

In questo saggio, e nella mia pratica in generale, propongo

un correttivo di cui si parla poco: il senso del limite, del

rinunciare tatticamente all’ontologia (senza per questo

negarne l’esistenza) come punto di partenza di ogni

indagine.

Più a mio agio nelle premesse della filosofia analitica che

di quella continentale, mi propongo cioè di concentrarmi

su quanto è possibile conoscere in maniera soddisfacente.

Il punto allora non è più affermare che la realtà è

inconoscibile e complessa (cosa scontatamente

condivisibile, ma inutile in vista di una qualsiasi prassi); il

punto diventa proporre uno o più modelli di ‘realtà’ che

resistano schematizzazioni troppo estreme e che però

siano al tempo stesso abbastanza intuitivi da essere accolti

senza troppi problemi dalla maggior parte dei lettori,

preferibilmente non specialistici.

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Penso a una rivalutazione del senso comune, del dato di

fatto sensoriale, e anche a una rivalutazione della facoltà

di pensare a un livello più astratto.

Benché fondato sull’epistemologia, il modello pluralista e

interattivista dei tre mondi di Karl Popper in Objective

Knowledge (1994 [1979]) mi offre la piattaforma teorica di

cui ho bisogno. Cerco di delinearlo qui sotto in breve,

adattandolo al concetto (costruzione) di realtà a cui

cercherò di restare fedele, nella pratica analitica, qui così

come nei saggi futuri.

Popper postula tre mondi che interagiscono tra loro e che

sono gerarchicamente organizzati: 1) il primo mondo,

conoscibile con i nostri sensi, ovvero la datità, gli oggetti

(il buon senso dell’empirismo); 2) il secondo mondo,

quello della mente soggettiva (consciousness) fino ad allora a

fondamento di ogni epistemologia e del dualismo corpo-

mente; 3) il terzo mondo, quello ‘oggettivo’ (nel senso di

‘pubblicamente discusso’ dato a questa parola da Popper),

ovvero l’insieme delle teorie, opere d’arte e prodotti del

genere umano a fondamento della nostra conoscenza, al

di là del sapere limitato del singolo. Le biblioteche, ma

anche internet, sono incarnazioni di questo terzo mondo.

La gerarchia dei tre livelli è biunivoca: da un lato, il primo

mondo interagisce col secondo e il secondo col terzo;

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dall’altro, il terzo interagisce col secondo e ha impatti sul

primo (come una scoperta scientifica ha un impatto sulla

tecnologia che viene prodotta, e questa sugli effetti

psicologici e fisici che può causare).

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1.1 Realtà come immanenza dei realia

Semplificando, non è difficile rileggere il concetto di realtà

seguendo queste coordinate.

Il primo livello corrisponde, sul piano letterario, alla

mimesi dei referenti esterni (per es. il fatto che in una

poesia riconosciamo degli ambienti, un senso di

concretezza dato dall’uso di realia come ‘rubinetti’ o

‘monete’). In questo quadro, chi prende parola sono

personaggi riconoscibili (come in Pagliarani) o un alter-

ego del poeta (si pensi a Raboni o Giudici), oppure l’io

empirico che coincide con l’io biografico (per esempio

Sereni). Comune a questi maestri - tutti non a caso

riconducibili alla Linea Lombarda - è l’immanenza del

soggetto, il suo essere in situazione, quasi scolpito in tre

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dimensioni: di comune vi è un resistere alla trascendenza,

che però viene comunque, e per fortuna, raggiunta in

qualche forma1 - altrimenti anche i maestri scadrebbero in

un diarismo fine a sé stesso, che non potrebbe pretendere

lo status di grande poesia, di poesia che rimane e viene

tramandata.

Solo un tale intendimento riduttivo del concetto di ‘realtà’

farebbe coincidere quest’ultima, tout-court, con il mondo

sensibile esperito dal soggetto; e tanto più limitante

sarebbe farlo per la poesia, che naturalmente aspira, nei

suoi momenti maggiori, a uno stato di permanenza, di

universalità (anche gli effimeri palloncini d’elio di Pietro

Manzoni sono ricordati dalla storia dell’arte, e vedo

difficile che un artista si auguri di essere dimenticato).

I poeti autentici condividono questa insoddisfazione,

questa tendenza verso una qualche forma dell’oltre: così

Montale scrive, negli Xenia «né più mi occorrono / le

coincidenze, le prenotazioni, / le trappole, gli scorni di chi

crede / che la realtà sia quella che si vede». Una negazione

netta, quest’ultima, del paradigma naturalistico e mimetico

cui ho accennato sopra. Più radicale, e - se posso

permettermi - più potente è l’accusa amara allo stesso

1 Per esempio, semplificando al massimo: il coincidere di soggetto empirico e soggetto storico, nonché il senso del tragico, in Sereni; l’ironia di Giudici, che recita consapevolmente; l’affresco psicologico e sociale di Pagliarani; i conti con l’irrazionale (i morti, il desiderio) nell’urbanissimo Raboni.

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paradigma, affermato con rabbia trattenuta da questi versi

di Fortini, tratti appunto dalla poesia La realtà, ne L’ospite

ingrato (1966): «Le dattilografe mettono la copertina sulla

contabile. / I gatti si occupano dei fatti loro. / Nel garage

puliscono carburatori. Questa / è la realtà. Se lasci cadere

un giornale / esso volteggia e raggiunge le ortensie».

Se la realtà come datità che deve passare per un soggetto

sensibile fosse accettata come l’unica via possibile, allora -

per paradosso - ciò di cui non abbiamo diretta esperienza

risulterebbe irreale: e quindi, per proprietà transitiva e

radicalizzando, non esisterebbe. Sarebbe come dire che le

guerre mondiali sono esistite ‘solo’ per i milioni di

persone che le hanno subite, e non per noi (qui c’è una

tangenza con il concetto di simulacro come realtà

mediatizzata in Baudrillard, in riferimento alla guerra del

Golfo).

Una poesia che cercasse di ridurre la realtà che

rappresenta alla sola datità esperita da un unico soggetto o

uno sparuto gruppo di soggetti sarebbe debole e non

potrebbe parlare al di là di se stessa e del suo autore.

Sarebbe, insomma, una poesia ‘realista’ o ‘verista’ nel

senso riduttivo del termine, ma non una poesia adeguata a

porsi in modo maturo di fronte alla realtà - agli altri due

livelli della realtà (vd. 1.2 e 1.3). E però è un’illusione che

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funziona perché inseparabile dai nostri meccanismi

percettivi: ciò che abbiamo esperito ci sembra, di regola,

più ‘reale’ di quanto abbiamo sentito in differita; e ciò di

cui non abbiamo mai avuto notizia ci sembra ‘irreale’.

In questo senso dovremmo far nostra la massima

fortiniana del mutare in coscienza la maggior quota

possibile di esperienza. E con l’accenno alla coscienza, è il

momento di passare al secondo livello: quello della realtà

come esperienza soggettivamente attraversata.

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1.2 Realtà come coscienza del soggetto

La realtà non è dunque «solo quella che si vede»: c’è un

passo ulteriore che allontana dal fenomenologico. Questo

passo fu programmaticamente compiuto dai maggiori

modernisti (Eliot, Joyce, Woolf, Faulkner…) che

propugnarono questa scelta come loro vessillo, nel deciso

distacco rispetto ai modi naturalistici ottocenteschi.

La realtà diventa questione di percezione individuale,

mescolata a impulsi, al non detto, a desideri in conflitto

(l’influenza di Freud fu inestimabile in questo

mutamento). Ecco allora il monologo interiore, lo stream of

consciousness, l’interesse per il ritratto psicologico,

l’incarnarsi del narratore in voci dagli stili molto diversi.

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In questa estensione delle possibilità autoriali c’è una forte

tensione alla totalità, c’è il ragionamento che la realtà è

complessa e irriducibile a un'unica versione onnisciente.

Di qui la polifonia bakhtiniana delle voci spesso in

conflitto, le possibilità offerte dagli accostamenti analogici

e ai meccanismi di incompatibilità semantica esplorati dal

surrealismo.

La lezione modernista è stata assorbita molto tardi in

Italia, probabilmente per via del ‘tappo’ dell’ermetismo

prima e del neorealismo (più incline alla prima mimesi che

alla seconda) poi. Perfino in Montale, ammiratore e

traduttore di Eliot, non troviamo nulla di simile alla

complessità e alle rifrazioni, al gioco dei personaggi, che

costituiscono il tessuto lacerato di The Waste Land: gli Ossi

sono poco complessi al confronto, e Le occasioni tornano a

un monolinguismo petrarchesco che non fu certo del

primo Eliot. Bisognerà, a mio parere, aspettare gli anni ’60

con i poemetti purgatoriali di Sereni e Luzi (da Gli

strumenti umani e Nel magma) per ritrovare una simile

varietà tonale e una simile drammatizzazione della scena,

che Eliot a sua volta mutuò probabilmente da Browning.

Il dialogismo in Sereni - spesso un monologo interiore

drammatizzato - e la varietà ritmica e tonale, mimetica dei

moti psicologici (il ghigno, il risentimento, la

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tenerezza…), lasciano intendere che egli non è, non può

essere, semplicemente il poeta attento «alle cose», il poeta

della domesticità, come vuole la vulgata addomesticante e

vincente, già presagita da Fortini quando affermò che la

poesia di Sereni doveva essere difesa dai suoi stessi

ammiratori. Che cos’è, ad esempio, il capolavoro Un posto

di vacanza (1971) se non anche la mimesi della mente e del

processo creativo? E cosa dire dei risvolti gnomici, a un

passo dal religioso, della poesia La spiaggia a sigillo de Gli

strumenti? A volte ho il sospetto che molti giovani, quando

si richiamano a Sereni, si arrendano a quella vulgata

riduttiva di cui sopra, al dogma delle famigerate «cose».

Da qui a un minimalismo che rinuncia a interrogare e

interrogarsi, il passo è breve, ed è Sereni stesso a sentirsi

soffocato dall’etichetta di poeta “delle cose”:

Non mi garbava per niente, eppure ho finito col tirarmi

dietro quell’etichetta quasi fossi stato io a premere per averla

addosso. Proprio il mio dissenso ha parecchio raffreddato

allora i miei rapporti con Anceschi; eppure per molti io

sono ancora quello della “linea lombarda”2.

2 Sereni a Bertolucci, lettera del 22 aprile 1965, Una lunga amicizia, Garzanti 1994, p. 222.

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1.3 Realtà come stato ‘oggettivo’

Il terzo livello è quello più complesso da catturare e più

vicino, anche, alla concezione corrente e indipendente

dalle ridefinizioni teoriche: realtà come oggettivo stato di cose,

come entità complessa in cui siamo immersi e agiamo (e da cui siamo

agiti).

In Popper è il mondo oggettivo, la somma dei prodotti

della mente umana che hanno rilevanza collettiva (teorie

scientifiche, opere d’arte…). Siccome però Popper si

occupa di epistemologia, occorre forse allargare il

concetto fino a coprire, virtualmente, tutto ciò che fino ad

ora è stato esperito, intuito o creato da qualcuno e i cui

effetti sono percepiti (per es. internet) e anche tutti i

processi e state of affairs non prodotti, neanche

indirettamente, dall’uomo.

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Mi ha colpito molto, leggendo Popper, la nozione che il

terzo mondo è autonomo, che va oltre il controllo del suo

stesso creatore (sia egli scienziato o poeta); è possibile che

i meccanismi finanziari del tardo capitalismo si siano resi

autonomi allo stesso modo, siccome è verosimile che chi

li cavalca ne sia anche cavalcato, non ne abbia pieno

controllo. Un po’ come un incendio che necessita di una

dose iniziale di agenza umana (la classica sigaretta gettata

ancora accesa) per poi svilupparsi indipendentemente.

La realtà così concepita è inconoscibile non perché abbia

una misteriosa essenza (culto dell’irrazionale…) ma

semplicemente perché è troppo per le nostre facoltà

cognitive, non solo individuali. Non si oppone,

strettamente parlando, alla finzione (lo farebbe la realtà

del primo livello): opposizione che ci ha dato un

capolavoro amarissimo e divertente come il Don Quijote. Lì

la creazione letteraria era smentita dalla più bieca realtà

fenomenica; ma al terzo livello è la creazione (letteraria e

non) a plasmare la realtà fenomenica, come il marxismo -

una dottrina, quindi una creazione concettuale - ha reso

possibile l’esistenza di un modello alternativo, per quanto

misinterpretato e a volte brutalmente imposto sulla

società.

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Il terzo mondo popperiano, intermediato dal secondo, ha

effetti sul primo: con una mossa che si libera dal

meccanicismo materialista a senso unico (le idee nascono

da uno stato di contingenza, che le plasma ma dalle quali

non viene plasmato) e si ripristinano nientemeno che

alcuni aspetti dell’idealismo platonico: il fatto che il

mondo fenomenologico è controllato dal mondo delle

idee, come il disegno architettonico di un edificio dirige la

costruzione materiale dell’edificio stesso.

Questo terzo livello di realtà è costituito dalle strutture

soggiacenti alla società, all’economia, alla conoscenza

stessa. Forse è da questa maggiore complessità che deriva

il maggior grado di scientificità delle discipline applicate al

primo e meno complesso livello di realtà (per es. fisica,

biologia, geologia, zoologia) rispetto a quelle applicate al

secondo livello (per es. psicologia, linguistica) e al terzo

(storia, antropologia, economia, filosofia).

La poesia, ovviamente, non è una disciplina, ma in quanto

prodotto cosciente eppure non utilitaristico dell’uomo

può svelare qualcosa di ogni livello: le poesie che

incorporano e problematizzano il processo creativo e

percettivo (per es. Un posto di vacanza o l’intera opera di

Wallace Stevens) oscillano tra il secondo e il terzo livello,

essendo creazione individuale ma capace di interrogarsi

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sull’intorno che ha permesso al soggetto di esprimersi,

fino a sostituire lo stimolo iniziale (fenomenico) con la

realtà costruita dall’opera stessa, che in Stevens (ma al

contrario in Sereni) si vuole indipendente e assoluta.

Col terzo livello si sono confrontate le opere più

apertamente ambiziose, dai Cantos di Pound alla Beltà di

Zanzotto: centrale in queste opere è la riflessività sulla

forma stessa dell’espressione, che non è dunque

necessariamente un vezzo, un estetismo.

Si capisce allora l’importanza data da Fortini al metro e

alle forme chiuse, come convenzioni che però, proprio in

quanto tali, regolano la tradizione e salvano dallo

psicologismo (che non mancava di rimproverare a Sereni)

e quindi da una epistemologia fondata sull’espressività

individuale.

L’ordine prefigurato dal sistema del testo, in Fortini, è un

modello che anticipa l’ordine nuovo da fondare (il

comunismo), come argomenta Balicco (2011). Quindi c’è

una convergenza tra il profetico (l’avvento del nuovo) e lo

scientifico (la messa a punto di modelli scientifici passibili

di applicazioni future, non prevedibili con gli strumenti

oggi a disposizione). Sembrerebbe dunque che la

formalizzazione abbia una fortissima potenzialità

conoscitiva: è questa a rendere, ad esempio, alcune delle

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poesie di Giovenale (quelle in cui il radicalismo sintattico

non copre il fondo tragico e non diventa da questo

indipendente) tra le più promettenti (e rischiose) di questi

tempi, almeno in Italia e secondo il mio gusto personale.

Questo livello è solo abbozzato, ovviamente; e non mi

sento all’altezza, al momento, di capire e mostrare in che

modo la poesia lo possa affrontare nel corpo del proprio

testo (per usare una parola oggi di moda - ‘corpo’, non

‘testo’, ovviamente). Pertanto, dopo questa piattaforma

teorica, nel resto del saggio mi dedicherò a indagare in che

modo il primo livello (i realia) sia gestito dalle nuove

generazioni, per vedere se l’immanenza viene evocata

come fine a sé stante oppure nell’esplicito tentativo di

trascenderla.

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2. Le ‘cose’

Rassicuro potenziali detrattori e apostoli della fallacia

ontologica sul fatto che quello sopra delineato è un

modello euristico per la realtà; come qualsiasi modello, è

una finzione utile e non la definizione di un’essenza.

Come accennato nella premessa, analizzerò varie ricorrenze

del sostantivo ‘cose’ in poesia. Avrei potuto scegliere altre

parole, ma ‘cose’ effettivamente sta diventando (è già) un

problema espressivo (uno stilema fine a se stesso) nonché

una parola bifronte, indice di referenzialità nel linguaggio

corrente ma con profonde implicazioni in quello

filosofico.

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A proposito, recensendo il libro di Remo Boidei La vita

delle cose (Laterza 2009: ecco l’occorrenza già nel titolo!),

Stefania Pietroforte esplicita la distinzione netta tra

‘oggetti’ e ‘cosa’:

L’italiano ‘cosa’ (e i suoi correlati nelle lingue romanze) è la

contrazione del latino causa, ossia di ciò che riteniamo

talmente importante e coinvolgente da mobilitarci in sua

difesa (come mostra l’espressione “combattere per la

causa”) … “Cosa” è, per certi versi, l’equivalente

concettuale del greco pragma, della latina res o del tedesco

Sache (dal verbo suchen, cercare), parole che non hanno

niente a che vedere con l’oggetto fisico in quanto tale…3

Senza addentrarmi in un discorso filosofico che non mi

compete, è comunque evidente che dietro alla parola

‘cose’ c’è molto di più che un indice di referenzialità: c’è

tutta una tradizione filosofica, e verrebbe da chiedersi

quanto la poesia sia influenzata da questa matrice.

Il titolo del libro di Bodei finisce con ‘cose’ come il

celebre libro di Foucault Le parole e le cose e come molti

versi dei poeti (e titoli di libri di poesia: Il mondo delle cose di

Nadia Agustoni, Umane cose di Veronica Fallini, Le cose

senza storia di Pusterla…).

3 Stefania Pietroforte, recensione a La vita delle cose

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Il punto che mi interessa è vedere che significato

contestuale e che implicazioni di poetica assume questa

parola nei passaggi poetici che analizzerò presto.

En passant, può non essere un caso che l’ultimo libro di

Giovenale si intitoli proprio In rebus (nelle cose, nelle

cause, con anche il significato di ‘enigma’ che rebus

comporta: polivalenza tipica della tradizione poetica,

quindi al di qua, nell’elemento ordinatore del titolo, di un

nuovo paradigma ancora tutto da verificare); e, per restare

al latino, In re ipsa di Giulio Marzaioli e, prima nel tempo,

Res amissa di Giorgio Caproni.

Su tutt’altro versante, ‘le cose’ è un’espressione ricorrente

nel linguaggio parlato: ‘bisogna cambiare le cose’, ‘le cose

non mi stanno andando granché bene’, e così via. In

questo caso, però, l’uso di ‘cose’ è convenzionale,

fossilizzato, un escamotage del discorso che fa della

vaghezza la sua stessa bandiera: ‘faccio cose, vedo gente’,

come recita la celebre battuta di Ecce Bombo. Potremmo

dunque a ragione aspettarci che nella poesia più

fenomenologica, più mimetica, il termine venga usato in

questa accezione.

Le ‘cose’, comunque le si intenda, sembrano dettare una

forte direttiva alla poesia odierna. Prima di iniziare l’analisi

dei casi singoli, una premessa: gli esempi sono tratti quasi

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a caso dalle letture che ho fatto di recente, e sono - per

così dire - “venuti a me” senza che io mi impegnassi

particolarmente a cercarli; questo è indicativo

dell’epidemia stilistica in corso (parecchie occorrenze le

ho trovate anche in Gabriel Del Sarto e in chissà quanti

altri autori se ne potrebbero trovare!)

Per chiarezza espositiva, il sintagma nominale ‘le cose’ (o i

corrispettivi preposizionali ‘nelle cose’ o ‘delle cose’) è

evidenziato con sottolineatura.

In verità, per una discussione veramente esaustiva

occorrerebbe utilizzare un software per l’analisi testuale

(come Wordsmith Tools), caricare i testi di tutte le raccolte

ritenute significative di questi ultimi anni, e analizzare

ogni occorrenza automaticamente trovata della parola

cercata.

Non escludo che si possa farlo in futuro; tuttavia,

decidere quali sono i libri più rappresentativi dovrebbe

essere un compito di squadra, dovrebbe derivare da un

comitato di specialisti della letteratura italiana dell’ultimo

decennio (fatto su cui sono poco fiducioso a giudicare

dall’attitudine di specialisti di generazioni precedenti la

mia: vedi questa discussione sulle aspirazioni scientifiche

della filologia d’autore, su Le parole e le cose).

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2.1 Le ‘cose’ in Calogero, Sereni, Cattafi, Spatola e

Balestrini

La mia attenzione per questi poeti è duplice: oltre al fatto

di essere relativamente trascurati dall’attenzione critica

(soprattutto Calogero, Cattafi, Balestrini e Spatola),

costituiscono un continuum di allontanamento dalla linea

lombarda: da uno dei capostipiti più illustri (Sereni,

malgrado il suo fastidio per l’etichetta) a un poeta assai

più metaforico e però legato dall’amicizia per i maestri

lombardi (Cattafi), a un poeta più marcatamente filosofico

(Calogero) fino due avanguardisti del Gruppo 63’,

successivi di due generazioni rispetto a Sereni.

Ben quattro dei sei stralci tratti dai cinque poeti vengono

da raccolte coeve: Gli strumenti umani, di Sereni, è del 1965;

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L’osso, l’anima di Cattafi del 1964; L’ebreo negro di Spatola

del 1966; Come si agisce, di Balestrini, copre gli anni 1961-

1963: un confronto dovrebbe dunque essere altamente

significativo delle diverse tendenze di un’epoca, anche

ricordando la freddezza o distanza di Sereni rispetto al

Gruppo ’63 (tra parentesi, è ironico che quest’anno

ricorra sia il cinquantennale del gruppo sia il centenario

della nascita di Sereni).

In ordine cronologico, però, la prima occorrenza che ho

trovato è in Calogero, dalla raccolta del 1956 In dittico:

[1] La lievità commosse le cose.

Nell'infingardo spazio l'acredine

scorre, fitto nudo nodo di gioia,

e appena mosse le vene e le onde.

(Lorenzo Calogero, 1956)

Riconosciamo in [1] i referenti astratti in funzione di

soggetto, quelli di circostanza decontestualizzati (quale

infingardo spazio? Di chi le vene, dove le onde?).

Le cose è qui paziente semantico di un nome astratto

(lievità) e come tale non è interpretabile nel senso realista

di una poesia degli oggetti.

Qui interpreterei le cose come uno sfocato insieme di

elementi sensoriali e visivi, preferibilmente non fisici, e

Page 33: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

33

insomma possibile antecedente di tutto ciò che viene

dopo (lo spazio, l’acredine, il nodo di gioia, le vene, le

onde).

Le marche stilistiche di [1] sono di matrice smaccatamente

ermetica, anche se meridionale è la sensorialità che invece

mancherebbe in un Luzi (scorre, nudo, mosse). La datazione

di [1] ne fa un (attardato) esempio di lirismo, quando il

neorealismo era ormai in ascesa (accuse di tradizionalismo

furono perfino rivolte al coevo La bufera e altro di

Montale!).

Nell’arco però di pochi anni, Sereni restringe il campo

semantico di cose a una referenzialità fisica e concreta,

come in questo passaggio tratto dalla poesia Il muro, ne Gli

strumenti umani (1965):

[2] Scagliano polvere e fronde scagliano ira

quelli di là dal muro -

e tra essi il più caro.

«Papà - faccio per difendermi

puerilmente - papà…».

Non c’è molto da opporgli, il tuffo

di carità il soprassalto in me quando leggo

di fioriture in pieno inverno sulle alture

che lo cerchiano là nel suo gelo al fondo,

se gli porto notizia delle sue cose

se le sento tarlarsi (la duplice

la subdola fedeltà delle cose:

Page 34: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

34

capaci di resistere oltre una vita d’uomo

e poi si sfaldano trasognandoci anni o momenti dopo)

su qualche mensola

in Via Scarlatti 27 a Milano.

(Vittorio Sereni, 1965)

Come in altri luoghi del libro, l’incontro con i morti in

stato di dormiveglia o sogno si trasforma in accusa -

richiamo alla responsabilità, senso di colpa storico ed

esistenziale - nei confronti del vivo.

La prima occorrenza di cose appartiene a quell’uso della

lingua corrente a cui ho accennato nella sezione

precedente: non è infrequente dire frasi del tipo ‘puoi dare

un’occhiata alle mie cose, di tanto in tanto?’. Questo

perché cose è specificato dall’aggettivo possessivo sue, e

pertanto il possibile spettro di referenti di cose in [2] è assai

più ristretto che in [1]. Questo esempio è dunque una spia

della mimesi del parlato che costituisce il più deciso

rinnovamento formale della maggiore poesia del secondo

novecento.

Qualcosa però già cambia nella seconda occorrenza di [2]:

le cose sono generalizzate, di primo acchito allontanate

dall’immanenza, appartenenti non più soltanto al padre.

Eppure, con una mossa che le riavvicina a chi le possiede,

acquisiscono qualità umane: fedeltà, capacità di resistere.

Page 35: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

35

Attributi, per inciso, che bene si adatterebbero al Sereni

uomo e poeta, tanto da poterle leggere come un

correlativo oggettivo di un’ideale perseguito dal poeta

stesso.

Inoltre, è bene sottolinearlo, queste cose sono cose

fenomeniche: sono oggetti tridimensionali, non res.

Vero, mancano referenti precisi: e però la menzione della

mensola e dell’indirizzo dove abitava il poeta (Via Scarlatti

è anche il titolo della poesia che apre Gli Strumenti umani),

fanno intendere che le cose hanno funzione di antecedente

di oggetti materici, tanto più che è possibile sentirli

‘tarlarsi’ (verbo usato in genere per il legno del mobilio,

infatti menzionato mediante iponimo: ‘mensola’).

Questa analisi ha rivelato come in Sereni ci sia effettiva

immanenza e individuabilità dei referenti: una vicinanza

che permane anche nei momenti più gnomici, come in In

una casa vuota, dove il nostro sostantivo nel verso ‘che

spero io più smarrito tra le cose’ si riferisce testualmente

alla scena di inerzia tratteggiata nei versi precedenti.

E passiamo ora a due estratti da Cattafi - il primo da Come

vanno le cose (in L’osso, l’anima, 1964), il secondo l’intera

Nebbia a Cimbro (in Chiromanzia d’inverno, 1983, postumo):

Page 36: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

36

[3] Ti spiattello in faccia come vanno le cose:

vanno male.

Benché abbia perso lo spirito e la lettera

della fede in quella

sfera che tu conosci,

sono ancora inquieto.

(Cattafi, 1964)

[4] Scende densa la nebbia

su cimbro frazione

di vergiate provincia

ai varese via

aprile venticinque al numero

diciotto la nebbia nidifica in lunghezza

profondità larghezza

VARESE CIMBRO VERGIATE

assieme assegna APRILE

coi numeri DICIOTTO VENTICINQUE

sono però così disincarnato

da svincolarmi

pago d’un paio di cose

confuse larvali innominate.

(Cattafi, 1983)

In [3] - un testo coevo al precedente analizzato di Sereni -

le cose viene usato nel senso più comune, di linguaggio

corrente: la mimesi del parlato è ancora più esibita che in

Sereni.

Page 37: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

37

Il soggetto poetico sceglie una dizione rasoterra, e svuota

cose del residuo psicologico che ancora resiste in Sereni: le

cose sono solo un vizio del discorso comune, una

scorciatoia di comodo richiesta dall’economia della lingua.

Nel senso che ha in [3] alla luce di quanto scritto dopo,

cose corrisponde alla totalità del conoscibile, allo stato delle

cose: al terzo livello di realtà (benché svuotata dalla

convenzionalità bruta dell’espressione), mentre le due

ricorrenze di Sereni si attestano, rispettivamente, al primo

livello (fenomenico) e al secondo (personale, psicologico).

In Calogero l’indeterminazione è tanta che cose può qui

corrispondere sia al primo che al secondo mondo

(fenomenico e psicologico), donde il suo sentore

filosofico.

In [3] le ‘cose’ sono elusive, privatissime, e addirittura

decostruiscono il fenomenologico: l’espediente è la nebbia

che annulla i contorni e rende anche il personaggio

poetico ‘disincarnato’. Da qui l’uso iconico dell’assenza di

interpunzione e la rinuncia alle maiuscole in ‘varese’,

‘cimbro’ e ‘vergate’.

Tra parentesi, è utile ricordare che anche Sereni, in una

poesia dove protagonista è la nebbia (qui una mia lettura

testuale) rinuncia all’interpunzione, benché i confini della

Page 38: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

38

città in Sereni rimangano comunque più netti, meno

concettuali, di questi in Cattafi.

A differenza dell’uso per me un po’ ornamentale in

Calogero [1], la vaghezza di cose in [3] è felicemente

funzionale al testo, è una precisa scelta rinforzata dalla

triade aggettivale con climax ascendente ‘confuse larvali

innominate’.

Cattafi rovescia un luogo comune della poesia, qui: quello

per cui le cose (ma quali cose?), per essere, hanno bisogno

di essere nominate. Solo il non nominarle, l’impossibilità

di conoscerle per intero, le preserva.

C’è un senso del limite, del rispetto quasi religioso per

l’inconoscibile, che dà conto dell’ultima fase della poesia

di Cattafi, più apertamente spirituale. Siamo ben lontani

da un estetico culto dell’irrazionale: non c’è esaltazione,

c’è invece una calma accettazione, c’è un arrendersi

consapevole e finemente giocoso all’irrelatezza

riconquistata dai referenti, che approssimano ora le

parole.

Il rammarico di Sereni (‘freddati nel nome che non è / la

cosa ma la imita soltanto’, in Un posto di vacanza, 1971)

diventa dunque possibilità per Cattafi: sono le cose,

adesso, che si affannano per imitare le parole e i concetti

che le sottendono.

Page 39: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

39

Non è, ripeto, apoteosi della sparizione del reale come nel

paradigma decostruzionista: nel Cattafi di Nebbia a Cimbro

l’evento che rende possibile questa libertà è epifanico

come la nebbia, non è costitutivo del nostro modo di

vivere e di conoscere.

C’è un’etica modernista che lo rende compatibile al se

stesso di [3], dove il contrasto apparente con [4] non

potrebbe essere maggiore: dopo aver ‘spiattellato in faccia’

le cose, ora il poeta le preserva inconoscibili con la

complicità della nebbia, cioè di una situazione presentata

come irreale ed eccezionale, quasi salvifica (di nuovo, c’è

un che di religioso, eppure non teleologico).

Le cose in [4] potrebbero appartenere, simultaneamente, a

tutti i livelli di realtà: potrebbero essere oggetti concreti,

referenti intravisti o immaginati dietro la nebbia a Cimbro

(un gatto, una rosa, una finestra); sono senz’altro

interiorizzati dal poeta, che se ne dice ‘pago’ - e quindi

appartengono al secondo livello; infine, potrebbero

riferirsi all’epifania stessa in atto nella poesia, ovvero nella

trasformazione delle cose in concetti, del minuscolo in

maiuscolo, quasi verso l’idea platonica: un processo

fondante del reale (la nostra capacità di astrarre e di

immaginare, che ci ha portato, volenti o meno, al

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40

progresso scientifico) pienamente compatibile col terzo

livello, o mondo, popperiano.

Passiamo ora in area avanguardistica, con Balestrini e

Spatola, per vedere come cose viene trattato da loro.

Comincio da questo estratto da Sterilità e metamorfosi di

Spatola (in L’ebreo negro, 1966), già discusso da Guido

Guglielmi qui:

[5] riga che cresce e che sale sul foglio

fuoco che danza nel volto contro se stesso

mentre distesa sul fianco la città s’addormenta

e semino capelli e dita nel ventre che arai

e il ventre è questa parete che scivola sopra di me

e come sappiamo da sempre da tempo bambini gridano in piazza

luce che si consuma nel pesce che ruota dentro la testa

tela bianca che strappo con l’unghia affilata

unghie spezzate contro la tenera carne

la tua colpa colomba rossa che sale dall’intestino

è la mia colpa dispersa nel ventre di alcune madri

e nel tuo ventre il nodo che lega alle cose

pesce che s’alza nell’aria e che l’aria consuma

(Spatola, 1966)

L’influenza del surrealismo di [5] è nella sequenza di

immagini irrelate, alcune violentemente anti-referenziali

(‘pesce che ruota dentro la testa’ che rimanda al De

Angelis di ‘il grembiule è rinchiuso nella testa’, in Distante

un padre, 1989), ciascuna delle quali occupa un verso che è

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41

anche unità tonale in sé compiuta: le immagini sono

assolutizzate e quindi svincolate dalla referenzialità: riga,

foglio, fuoco, volto, città e così via sono solo parole, resistono

l’integrazione nel discorso. Ogni verso inaugura un nuovo

soggetto che subito lascia il posto ad altri soggetti, così

che l’io poetico non ha statuto di controllo, a differenza

che in Sereni [2] e Cattafi [3] e [4], e si ricollega invece più

alla presa esterna di Calogero [1].

Forse è prematuro per dirlo, ma alla luce di ciò è

(paradossalmente) possibile che certi tratti della

neoavanguardia si richiamino all’ontologia ermetica: se lì

la visione era, per così dire, trascendente al poeta, qui è

interiorizzata in un demiurgismo nìcciano; o la si affidi a

un tutto più grande di cui essere parte come in [1], o alle

proprie pulsioni psichiche come in [5], in ambo i casi

sempre di visione svincolata dalla coscienza individuale e

dalla situazione.

Nel contesto di [5], le cose rimangono non-specificate,

svincolate da tutto, forse vittime di una lettura ideologica

della famigerata ‘autonomia del significante’ di

Saussuriana memoria e nella pratica superato da decenni

nella linguistica teoretica che i nostri critici non si

premurano nemmeno per sbaglio di leggere.

Page 42: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

42

Le cose in Spatola non hanno possibilità generica di

incarnazione come in Calogero [1], non sono affatto

oggetti specifici come in Sereni [2], né il loro occorrere è

qui regolato da un modo di dire corrente, come in Cattafi

[3], né è preparata dall’atmosfera di quanto detto prima,

come Cattafi [4]. Al più, qui cose può riferirsi al gioco

interno al testo (i referenti elencati alla rinfusa nell’impeto

creativo) oppure restare totalmente indeterminato.

Le cose sfugge a tutti e tre i livelli, semplicemente perché…

non è un sintomo di realtà, sia essa fisica, mentale o

collettiva.

Sotto appunto l’influenza possibile di Saussure e poi di

Wittgenstein (meaning is use, il significato è uso, massima

spesso travisata), le cose sono un segno linguistico

svuotato, senza giustificazione estrinseca né funzionalità

apparente.

A rischio (militante) di sembrare impopolare o ingiusto,

direi che è da questa matrice avanguardistica e da tutta la

filosofia della liberazione dalle cose a cui essa fa capo

(Derrida, la metafisica della presenza e le sue

semplificazioni) che ‘le cose’ diventano pura parola,

orfismo sotto mentite spoglie e, per estensione,

ornamento estetico (già Fortini ammoniva

Page 43: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

43

sull’estetizzazione precoce e quasi costitutiva delle

avanguardie).

Mi pare che sia da questa matrice che si origina una buona

parte del tipo di ricorrenza di tale parola a fine verso nella

giovane poesia, che analizzo nella sezione seguente. Ed è

risolutamente contro questo tipo di ricorrenze - che

emergeranno dalla mia lettura - che il presente saggio

intende porsi.

A riprova di quanto detto, questo uso meno giustificato,

direi estetizzato, lo ritroviamo in due occorrenze di

Balestrini, la prima del 1963 e la seconda del recentissimo

2010:

[6] la didattica formica dialettalmente la mosca

insieme per caso nella nebbia delle cose

con compassione spietata riconoscenza ricatta

come 120.000 pecore automatiche

(Balestrini, 1963)

[7] È l’uguaglianza del comportamento nei confronti di tutte

le cose

costruire cioè riunire ciò che esiste allo stato disperso

immaginiamo una strada con molta gente

(Balestrini, 2010)

Page 44: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

44

In [6] l’espressione - ormai divenuta grammaticalizzata - la

nebbia delle cose può essere intesa come un prelievo dal

linguaggio prefabbricato che ha caratterizzato in parte la

neoavanguardia, e che da questo punto di vista non è

superficialmente lontano dal Cattafi di [3].

La differenza profonda è negli intenti: mimetico in Cattafi

e di riciclo indifferente in Balestrini. Si noti anche, per

inciso, come proprio l’espressione la nebbia delle cose sia una

possibile matrice (una frase ipotizzata dalla quale l’intera

poesia sarebbe generata: vd. Riffaterre 1978) della poesia

di Cattafi Nebbia a Cimbro prima analizzata.

Le cose [6] ha anche un sapore (parodicamente) filosofico,

in quanto i soggetti animali (mosca, pecore, senza contare la

conversione funzionale di formica usato come verbo) sono

tipici della favola didattica da Esiodo in poi. La riprova è

nell’uso didattico o illustrativo del linguaggio, uso da

questo punto di vista assai diverso da quello materico-

visionario in Spatola.

La liberazione del significante in entrambi gli autori

sottostà a regole diverse: in Spatola è esplosione del

rimosso, in Balestrini discorso meccanizzato e parodia

dello stile giornalistico; all’attitudine neoromantica e

affermativa del primo si oppone quella corrosiva e critica

(Scuola di Francoforte?) del secondo.

Page 45: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

45

Mezzo secolo più tardi, Balestrini riutilizza le cose in fine

verso [7]. È incredibile come le due occorrenze abbiano

tratti comuni: in entrambi sono immerse in un discorso

didattico, velatamente edificante (una volta tolta la patina

della parodia) e stanno a indicare la totalità delle cose, lo

stato delle cose, ricollegandosi così al terzo mondo, come

in Cattafi [3].

La differenza è che in Cattafi la prospettiva è interna al

soggetto enunciante, in Balestrini il soggetto enunciante è

pantomima d’altro: di conseguenza, le cose sono investite

da un tono filosofeggiante, non lontanissimo dal Calogero

di [1] e dal Sereni di [2]; la differenza è che nel primo le

cose sono paziente semantico, nel secondo agente

semantico, e in Balestrini semplice dato circostanziale:

vale a dire che in quest’ultimo il soggetto enunciante le

relega sullo sfondo, come (in modo però diverso) avviene

in Spatola.

Ecco perché nei due avanguardisti le cose sono

effettivamente ornamento: la loro importanza è o nella

possibile denotazione (Balestrini) o nel fatto di essere un

mero elemento testuale (Spatola), ma mai nell’essere

investito dal soggetto poetico. Ecco perché ho la

sgradevole impressione, leggendo la neoavanguardia, di

un divorzio irrimediabile tra parole e cose, di una de-

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46

automatizzazione del soggetto che però purtroppo

diventa (fuorviante) automatizzazione del sistema

linguistico.

Page 47: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

47

2.2 Le ‘cose’ nella poesia recente

Con Balestrini siamo arrivati ad anni a noi recenti, e

abbiamo esplorato uno spettro possibile di significati

(contestuali) di cose come indice ora di mimesi dei

referenti, ora del parlato, ora del discorso filosofico, ora

come semplice elemento testuale.

In questa sezione mi propongo di analizzare la poesia

recente, sia di poeti affermati (Cepollaro e Dal Bianco) ma

soprattutto di giovani, nati dal ’70 in poi: l’ordine è

cronologico, in base alla data di nascita degli autori

piuttosto che alla data di pubblicazione dell’estratto

analizzato.

Infatti, se ‘le cose’ è un indice non solo di poetica ma

anche, per così dire, socio-linguistico, un termometro dei

Page 48: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

48

tempi, è più verosimile che le continuità e i cambiamenti

siano più apprezzabili se si prende in considerazione la

data di nascita dei poeti (e quindi, indirettamente, la

temperie culturale nella quale si sono formati).

Lo scopo è di vedere se è possibile iniziare una qualche

genealogia stilistica e di poetica; genealogia che altri

dovranno continuare e affinare, o anche confutare ma (e

questo ‘ma’ è importante) sempre appoggiandosi ai testi,

come ho continuamente fatto e come farò.

[8] è questione di proporzione ed è

meglio abituare lo sguardo al grande per non

credere che il piccolo basti e che sia tutto: la forza

del fragile è stare dentro una certa verità delle cose

(Cepollaro, 2011)

[9] Quando vedo l’infame paffuto fidarsi

Del senso delle cose,

essere tutto nello sguardo

a cercare la stessa fiducia nel nostro, nel mio,

(Dal Bianco, 2013)

[8] è tratto da un’inedito di Cepollaro, in continuità

stilistica con la raccolta Le qualità (2008) già analizzata in

questo sito da Luigi Bosco (qui).

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49

Il tono di [8] è filosofico-didattico, assertivo, e la presa è

esterna al soggetto enunciante (manca la persona poetica):

tutti tratti che apparentano [8] a [6] e ancor più a [7] (che

cronologicamente segue di due anni); o detto altrimenti,

tratti che apparentano Balestrini e Cepollaro, come a

marcare un passaggio di testimone dal Gruppo ’63 al

Gruppo ’93 - con l’ovvia importante differenza del venir

meno della parodia nell’ultimo Cepollaro come nell’ultimo

Balestrini.

In entrambi gli estratti, ‘cose’ è al massimo grado di

generalizzazione: tutte le cose, e verità delle cose. In entrambi i

casi, quindi, le ‘cose’ sono assolutizzate (= indifferenziate)

nello spettro dei referenti, ma nella frase hanno

comunque valore circostanziale.

Una occorrenza simile è in [9], un estratto non

particolarmente felice dall’ultimo libro di Dal Bianco (qui

una mia nota). L’ovvia differenza è che in Dal Bianco,

memore della lezione sereniana, ci sono persone poetiche

nel testo (vedo, nostro, mio); e però le cose, contenute nel

sintagma trito senso delle cose (senso, di nuovo una parola

‘carica’, com’era verità in Cepollaro).

Mi sembra significativo che in questi ultimi estratti (da [5]

a [9]) ‘le cose’ siano sempre divorziate sia dai referenti sia

dall’investimento del soggetto poetico.

Page 50: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

50

Per rovesciare questa situazione (= per dare peso,

funzionalità alla scelta) bisognerà aspettare uno dei poeti

più rigorosi della generazione successiva, Giovenale.

[10] viene dalla raccolta Shelter del 2010; eppure, sembra

assai distante da suoi amici e maestri riconosciuti come

Balestrini e Cepollaro:

[10] Fuori intanto è bello: le cose

si spargono e si deformano,

per il nastro che le trascina.

L’occhio non segue quanto è vietato.

Se è legato è giusto.

(Giovenale, 2010)

Anzitutto, la presa è interna: non c’è una persona poetica

(un ‘io’ grammaticale), ma c’è un discorso diretto a cui

sono state tolte le virgolette. L’osservazione del tempo

che fa fuori appartiene verosimilmente a un soggetto

umile (un recluso, uno sconfitto, giusta l’organizzazione

macro-tematica della raccolta), non a una voce, per così

dire, superiore e ordinante.

In [10] le cose sono prive di referente esplicito, ma solo

perché non ci è dato di vederle: esse infatti ‘si spargono e

si deformano’, e quindi sarebbe sbagliato definirle con

antecedenti testuali. Quasi a ribadire il concetto, ‘l’occhio

Page 51: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

51

non segue quanto è vietato’: le cose non si possono

nominare con precisione, ma questo sembra il desiderio

taciuto, la spinta.

La mano di chi scrive è qui pietosa, perché queste ‘cose’

diventano soggetto (‘si spargono e si deformano’) poi

oggetto (‘le trascina’) e sono implicitamente presenti

nell’affermazione seguente, segnalate da ‘quanto’.

Per questo, forse con scorno del Giovenale teorico - che

spesso non condivido nel cosa e nel come - il Giovenale

poeta mi sembra qui più ricollegarsi alla lezione di Sereni

e Cattafi, dove le cose sono investite da un soggetto e

sono, per così dire, portate avanti nel discorso, quasi

accompagnate. Non la neoavanguardia, non il

postmodernismo: ma un modernismo umanista, quello

che affiora negli autori che ritengo migliori.

Non si può proprio dire lo stesso del seguente estratto

[11] della quasi coetanea Lella De Marchi:

[11] Cos’è la sostanza delle cose?

la forza della gravità, il peso

che quella forza imprime su tutte

le cose per spingerle a terra, il peso

che le cose stesse espandono ai lati

per stringersi al peso di tutte le cose

(De Marchi, 2010)

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Qui i sintagmi le cose e delle cose riprendono il generico uso

filosofico degli estratti dal [6] al [9].

C’è di più: le cose ricorrono ben altre due volte (quattro in

totale), diventano cioè una ossessione verbale per così

dire tematizzata. C’è uno sforzo quasi barocco nel

nominarle e definirle, come per un horror vacui: tanto che

nessuna scena referenziale è costruita e il desiderio di

cosalità (parlo di desiderio perché questa insistenza e la

domanda iniziale sembrano segnalarlo), di ricerca di una

‘sostanza’ rimane insoddisfatto.

Il tono filosofico dato da ‘le cose’ con referente generico,

continua in due autori quasi coetanei di Giovenale e De

Marchi, ovvero Federici e Benigni. I loro estratti si

prestano però a considerazioni un po’ diverse:

[12] lascia che a dire siano le cose

gli abitatori del mondo addossati alla cruna

dell’ago, le lingue impresse a memoria

l’elencazione dei nomi dei morti toglie il respiro

tempo è di dare le mani nell’andirivieni dei vivi

fermare gli occhi, lo sguardo a chi trema

(Federici, 2009)

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[13] Ognuno custodisce un male

sceglie un nome alle cose

e patteggia inconsapevole la sua pena,

perché

perché come una voce inquirente

la memoria ci insegue.

(Benigni, 2012)

I due brani (il primo soprattutto) hanno un’impronta più

decisamente lirica, e tematizzano il rapporto tra cosa e

nominazione che avevamo visto esplicito solo in Cattafi

[4]. Il tono lirico di [12] si deve anche al ‘tu’ autoriflesso

(comune in Montale e Sereni, tra gli altri: Montale stesso

vi ha beffardamente dedicato la poesia che apre Satura, Il

tu).

Le ‘cose’ dunque, benché non determinate (non c’è

nessun referente esplicito), diventano soggetto logico e

sono investite dal soggetto poetico, tanto che sembrano

prendere corpo per via dei referenti successivi accostati

per apposizione (gli abitatori, le lingue…) e richiamanti

una realtà archetipica, non certo mimetica dell’esistente

come lo conosciamo oggi.

Stessa tematizzazione è in Benigni: [13] è più

deangelisiano nell’assolutezza della dizione (‘ognuno’, che

in De Angelis ricorre spesso, è parola carica come ‘mai’,

‘sempre’, ‘nessuno’, ‘tutto’… una marca del tragico

Page 54: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

54

insomma), ma ‘cose’ è solo paziente (riceve l’azione senza

a sua volta iniziarne una) e ugualmente, se non più,

indeterminato, senza referenti a cui appigliarsi.

Una referenzialità tenue, a metà tra Giovenale e Federici,

è in questo estratto di Erika Crosara:

[14] “le lodi rimbalzano fra cannule e strisce ventose,

netto e mondato cammina. c’è fresco sotto le instabili

mura, muore ogni discorso davanti al serraglio. oggi

che il campo è nudo e un falco si annuncia nelle cose

minori, nei laghetti, per strada”

(Crosara, 2010)

Altrove ho analizzato per intero la splendida poesia da cui

[14] è tratta. Di simile al Giovenale di [10] c’è il fatto che

un personaggio sconfitto, uno altri che il poeta, prende

parola; di simile al Federici di [12] c’è l’uso

dell’apposizione dopo cose, a dare un indizio di

referenzialità. In [14] questo è più evidente che in [12],

dato che qui i referenti sono concreti e in minore (laghetti,

per strada). È proprio questa aggiunta, questa nominazione

di referenti concreti, a dare allo sguardo di chi scrive una

pietas: come di chi segga paziente a osservare ed elencare

ciò che vede, piuttosto che menzionare di fretta e passare

ad altro.

Page 55: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

55

Un’altra ottima poetessa e coetanea di Crosara, Veronica

Fallini (qui una mia recensione al libro da cui sono tratti i

versi:), in [15] usa ‘le cose’ in un modo che ricorda da

vicino il Sereni di [2]: le cose sono legate a manufatti

umani (subito dopo si menzionano pagine di libri) e di

questi si predica la durevolezza che ricorda al soggetto

poetico la propria finitezza, la propria morte:

[15] È uno scompenso la durevolezza delle cose

– imprendibili pagine mi fermo a sfogliare

di libri –e oltre al dovuto, oltre l’inaudito

si produce l’offesa più stupefacente.

(Fallini, 2011)

Nuovamente in bilico tra generalizzazione filosofica e

potenziale richiamo a referenti concreti è il nostro

prossimo estratto [16] da Piero Simon Ostan:

[16] ma più che altro è la stessa la mandibola che balla

quando la cena sa di poco e la camicia non stirata

l’apprensione dei giorni che fa lo stomaco compresso

con la tensione continua dei nervi raccolta nelle giunture

è la sua sintassi quando dico le frasi che non vengono

preciso il lampo nello sguardo che ricuce le cose

rifà buono il tempo.

(Ostan)

Page 56: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

56

[16] è una sorta di monologo interiore, dove si

susseguono iponimi del corpo e accenni a interni

(‘mandibola’, ‘cena’, ‘camicia’, ‘stomaco’, ‘nervi’,

‘sguardo’): topoi oggi in voga come quelli del corpo, della

casa e del ‘dire’ (a ben vedere, tutti heideggeriani, votati al

lirismo) sono ben filtrati e agiscono da sfondo, senza

tematizzazioni sfacciate: così le cose sono nuovamente in

bilico tra tensione assolutizzante e i referenti concreti che

precedono e a cui grammaticalmente le cose possono essere

legate (ma un ‘queste cose’ sarebbe stato più esplicito in

questo senso).

In Tommaso Di Dio [17] torna il nesso (tematizzato) tra

cose e nominazione (di nuovo, heideggeriano) visto in

Federici [13]; c’è però una concretezza leggermente

maggiore (cortili, vette degli alberi), che avvicina [17] a

Crosara [14]:

[17] E questa lingua falsa

sembra tenerci, trattenerci

sul piano sicuro delle cose; dare fiato

aria sopra i cortili, nelle vette gli alberi

la luce che lì s'incurva e piega secondo la mano

che prende, la mano che lascia.

(Di Dio, )

Page 57: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

57

Inoltre, per la prima volta in questa rassegna, [17] ci

presenta un ‘noi’ collettivo che finora non era stato

tentato: è presto per dire se il ‘noi’ è di matrice

deangelisiana (come in Benigni è ‘ognuno’), ma certo il

‘noi’ di Di Dio e ‘l’ognuno’ di Benigni stanno in una

relazione complementare: somma di solitudini in Benigni

[13] e unità o solitudine collettiva in Di Dio. Nel primo

caso, la solitudine è civile (si ricordi la tematizzazione del

tribunale); nel secondo è esistenziale, quasi antropologica.

Antonio Bux invece riprende il nesso cose-vista che

finora abbiamo incontrato in Giovenale [10] e Ostan [16]:

[18] “Come curare l’angelo all’interno:

separare la crescita delle cose

guardarle con occhio di vetro

e immaginarsi rotti, a dilatare

specchi da infrangere guardando

della vista l’intermittenza futura

(Bux)

A differenza di entrambi, tuttavia, non c’è una persona

poetica (esplicita in Ostan, mediata in Giovenale), perché

il tono - assertivo ma all’infinito - è più vicino

all’impersonalità di un Cepollaro [8] mentre una spiccata

sensibilità barocca (il doppio, gli specchi) avvicinano Bux

[18] a De Marchi [11].

Page 58: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

58

Il manierismo (togliendo l’accezione negativa del termine)

di [18] è nel gioco del linguaggio che si auto-genera, con

isotopie che si sviluppano per metonimia dal nesso vista-

vetro-dispersione (‘occhio di vetro’, ‘specchi’; ‘guardando’,

‘vista’; ‘separare’, ‘rotti’, ‘infrangere’, ‘intermittenza’). Le

‘cose’ rimane filosofico, non determinato: il divorzio dal

referente è un portato naturale di una sensibilità barocca,

dove i vuoti contano più dei pieni, come avevamo anche

notato a proposito di De Marchi [11]. Personalmente,

penso che questa sensibilità più di altre sia a rischio di

disimpegno, vista la spinta giocosa e ‘interna’ al

linguaggio: forse una poesia più dialetticamente sporcata

dai referenti (penso a Giovenale, Crosara, Ostan, Fallini,

tra gli altri) è più adatta alla transizione dal postmoderno a

un nuovo modernismo ‘critico’ che sembra mancare in

De Marchi e nel Bux di [18] (la raccolta inedita The

Nothing Family prende una direzione radicalmente diversa).

I prossimi tre esempi li discuto insieme, perché mi

sembrano più di altri il sintomo di una crisi da inter-

influenza (fenomeno quasi sociologico, come sono le

spinte epigoniche discusse da Willie van Peer in un

articolo del 2002 su stilistica e evoluzionismo): tutti gli

autori (Bini, Corsi, Frison) sono miei coetanei (classe ‘85)

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59

e tutti usano lo stesso sintagma delle cose in modo

pericolosamente simile:

[19] Ti chiedo questa cosa: riuscirai

a non farti prendere dal panico,

intendo alla prospettiva delle cose

che domani tiene in serbo per noi?

(Bini)

[20] guardiamo dal vano che si attarda

la linea di apertura delle cose

scegliendo da un angolo di strada

le rose lasciate in via rossini:

(Corsi)

[21] Ci lasciavano raccogliere camelie

sulla strada del Sempione

così rosse che potevano dividere l’erba

o ancora di più, nel fondo, nella radice

nella delusione delle cose

nella costernazione.

(Frison)

Prospettiva delle cose, apertura delle cose, delusione delle

cose: in questi tre esempi le cose è dato circostanziale

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60

generico, e forse segno di una stanchezza stilistica che

sembra infittirsi a partire dagli autori nati negli anni ’80

ma con prodromi nella generazione precedente.

In tutti e tre gli estratti c’è infatti una genuina volontà di

aderenza al fenomenico, segnalata dalla presenza di un

interlocutore (in [19]) o da un ‘noi’ più paucale che in Di

Dio [17], e da riferimenti topografici, da via rossini al

Sempione. Un’ascendenza da Linea Lombarda

(ricordiamo il Via Scarlatti di Sereni!) ma forse esautorata,

incerta se cedere al filosofico e all’indeterminatezza

dominanti in altri autori: come se il fenomenico stia

lasciando il passo al generico, all’ineffabile, al rigurgito

lirico.

In [19], [20] e [21] si aggrava una tendenza già presente in

Ostan [16] e Di Dio [17]: il motivo - di sociologia della

letteratura, diciamo così - può essere dovuto alla

conoscenza reciproca di questi autori, al loro

coinvolgimento in festival e iniziative culturali - non mi

sorprenderebbe allora se il maggiore isolamento di autrici

quali Fallini e Crosara, e un maggiore grado di resistenza

di Giovenale al suo stesso (diverso) ‘fare gruppo’, possano

portare a una (mia) percezione di maggiore autenticità

nella loro pratica scrittoria.

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61

Si sbaglierebbe a pensare che l’epidemia di ‘le cose’ a fine

verso sia limitata a un verseggiare dopotutto tradizionale:

non solo perché la rassegna si è soffermata anche su

autori che fanno parte della, o proseguono la, neo-

avanguardia (Spatola, Balestrini, Cepollaro) ma anche di

coloro che forse la proseguono anche se se ne professano

distanti (Giovenale).

Con l’accenno a Giovenale veniamo dunque ad alcune

delle ‘scritture di ricerca’ di giovani che sembrano seguire

- se non addirittura intensificare - il suo operato: Fabio

Teti e Daniele Bellomi, coi quali questa rassegna si chiude.

Ecco qui sotto i loro estratti:

[22] «se hai scritto

è necessario sparire è per questo», risponde l’altro,

che non sta impresso sulle cose e

freon del frigo – altre lancette. torto;

buio visto; e quando detto

ipotenusa

(Teti)

[23] se stiamo parlando

puoi vedere come tutto gira, se gira ancora, e gira, ci costringe

ad indossare occhiali, a lasciarli fluttuare su sfondi più chiari,

se la vista gira e vuole convergenza, se dicendo piano la riga

o il verso appena ricomposto, con la vista che rigira le cose,

(Bellomi, 2013)

Page 62: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

62

Anzitutto, è possibile notare che i due estratti sono

stilisticamente molto diversi: dall’estremo balbettio di [22]

alla fluidità copiosa di [23]. Sono in effetti gli estremi di

due possibilità aperte alla scrittura di ricerca: da un lato,

l’interruzione quasi analitica, millimetrica, del discorso,

come in Teti [22], spessissimo nel Giovenale di Shelter e

Criterio dei vetri; dall’altra l’indifferenziazione - il continuum

dove tutto è sullo stesso piano - di certo Balestrini, o - per

uscire dall’Italia - di certe sequenze di Jeremy Prynne (qui

una mia lettura) in Inghilterra o di Susan Howe negli Stati

Uniti.

A dire il vero, [23] non è nemmeno estremo (come invece

in altri luoghi sa essere Bellomi): la sintassi è rispettata,

addirittura c’è una persona poetica collettiva e un

interlocutore (stiamo parlando, puoi vedere). Il tema è

inizialmente quello dello scambio comunicativo in

situazione (se stiamo parlando) ma subito dopo si sposta a

quello a metà tra vista (vedere, occhiali, vista) e metapoesia

(dicendo, riga, verso) che si riallacciano probabilmente al

Magrelli di Ora serrata retinae, e agli sviluppi in Giovenale;

tema anche molto frequente in Bux come visto in [18].

Più incentrato invece sul dialogo, sul dire (altro cardine

della poesia contemporanea: da un lato l’occhio, dall’altro

la lingua) è [22]. C’è un brandello di dialogo (risponde

Page 63: Le cose svuotamento e stallo nella poesia recente

63

l’altro) dove la locuzione (il verbiage, usando la precisissima

nomenclatura tecnica della linguistica funzionale di

Halliday) contiene la quotazione di uno scritto, marcata

dal corsivo, e che come tema ha la necessità della

sparizione (cf. Giovenale: ‘chi manca è più limpido, / si

prende la ragione’) forse di marca derridiana e post-

strutturalista, nel paradosso di scrittura e

presenza/assenza (buio visto poco dopo sviluppa il

paradosso riallacciandosi alla vista e all’assenza).

Dunque, convergenze tematiche ma differenze stilistiche

sostanziali in [22] e [23]. Ma come viene trattato le cose?

In [22], sotto sotto, c’è la stessa tensione per il concreto, i

dettagli di interni (frigo, lancette) che abbiamo trovato nel

pure diversissimo Ostan [16]: in [22] sulle cose resta a metà

tra referente e marca filosofica, in poesia sempre astratta

perché tolta dal contesto delle opere filosofiche di

riferimento o dal bacino più generico di un insieme di

opere o correnti di pensiero (per es. ‘le cose’ per come

tratteggiate da Foucault in Le parole e le cose).

Certamente, l’intenso lavorio versale e sintattico di Teti -

che ricorda quello di Giovenale per il rifiuto di moduli

estenuati, nei quali invece sembrano ancora adagiarsi

molti altri autori - gli permette di evitare ‘le cose’ a fine

verso, con l’aggiunta di congiunzione ‘e’ subito dopo, in

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funzione di spezzatura (gli enjambement estremi,

grammaticali, tipici ad esempio di Williams e del tardo

Sereni, usati tantissimo da Cristina Annino, sono

generalmente evitati dal mainstream poetico, tutto preso da

una rassicurante e consolatoria comunicatività diretta).

In [23] le cose sono (stranamente, dato che di vista si parla)

divorziate dai loro referenti, in maniera simile che in Bux

[18] e forse sulla scia comune di Spatola [5].

Insomma, è difficile trovare chi si salva, dall’inconscio

collettivo messo a nudo dal proliferare delle ‘cose’ (che -

credo - mai fu utilizzato da Montale, per dire; ma sono nel

tardo Fortini, nella poesia Molto chiare si vedono le cose in

Paesaggio con serpente). Come una marca di un’estenuazione,

un divorzio prossimo dal mondo, ‘le cose’ a fine verso

naviga di testo in testo indifferente alle correnti, e - al di là

delle premure degli autori per differenziarsi in tutto e per

tutto dai predecessori o da altri contemporanei - sta lì a

ricordare il bacino comune, la (non) eredità culturale

comune da cui veniamo, la difficoltà o l’incapacità di

proporre una poesia dialettica, che leghi materialismo

(referenti, processi) e pensiero astrattizzante basato su

quelli: una poesia che ricorra all’allegoria, anziché

attestarsi a una mimesi estenuata e neppure più mimetica,

o a una sfrenata deriva dell’astratto.

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3. Conclusione

È tempo di sintesi, di bilanci, di riannodare i fili molteplici

del discorso. Avevo promesso, nella prima sezione, di

collegare ‘le cose’ ai livelli di realtà popperiani. La tabella

qui sotto e il mio commento a seguire cerca di mantenere

quella promessa iniziale.

Tav. 1. Le ‘cose’: livello di realtà nel contesto di ogni estratto

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Come tutte le categorizzazioni di fenomeni complessi,

anche questa mia può ovviamente essere messa in

discussione: le categorie sono - per statuto intrinseco -

riduttive, ma utili, poiché permettono un’idea quantitativa

dopo la mia discussione qualitativa. D’altronde, spesso un

fenomeno può appartenere - a seconda di come lo si

analizzi - a vari livelli, e in effetti alcuni poeti ricorrono

contemporaneamente in più categorie (e spesso sono i

testi più ricchi, più pensati).

Credo che le categorie rendano sufficientemente conto

delle macro-differenze riscontrate: oltre ai tre livelli

popperiani, è stato necessario aumentare il grado di

precisione del livello tre, in effetti il più complesso da

gestire.

Una premessa è necessaria, a questo punto, per capire in

che modo vanno lette (contestualizzate) le categorie: il

livello 1 (prima colonna a sinistra) raggruppa esempi che

usano ‘cose’ come semplice pronome ‘riassuntivo’ di

oggetti concreti già citati o citati subito dopo. Attuano

cioè una generalizzazione a partire dai dati testuali già

presenti, e interpretano ‘cose’ come ‘oggetti’: la poesia di

questi estratti è cioè una vera e propria poesia in re,

referenziale.

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67

Il livello 2 raggruppa gli estratti che investono ‘le cose’ di

una importanza per il soggetto poetico e/o la voce

enunciante: anche se spesso non ci è dato conoscere con

esattezza i referenti di ‘cose’, è evidente che qui le ‘cose’ si

riferiscono potenzialmente a oggetti (o entità, idee

ipoteticamente non generiche) con cui chi parla si pone in

relazione dialettica, o almeno ne avverte intimamente

l’impatto (questo è anche dimostrabile a livello

linguistico).

Il livello 3 attiene a tutte le occorrenze in cui ‘cose’ fa parte

del discorso: è dunque riciclato dalla lingua corrente ma

può avere, nei testi, funzioni assai diverse. Queste

funzioni sono essenzialmente quattro: funzionale nel testo

(quando l’astrattezza, genericità di ‘cose’, si lega anche ad

altri livelli ed è giustificabile in base al contesto della

poesia); marca colloquiale (mimesi del parlato, come

quando diciamo ‘vorrei che le cose cambiassero’);

generico filosofico (quando ‘le cose’ si possono

parafrasare come res e causa, e indicano la totalità di

quanto esiste); generico ‘accessorio’ (quando ‘le cose’

sembrano usate per pigrizia, stanchezza stilistica, e

sarebbero con più profitto sostituibili con altre parole:

come si fa nella didattica, dove un amico insegnamente mi

ha detto che un esercizio utile è quello di farcire un testo

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di ‘cose’ e chiedere poi agli studenti di trovare dei

sinonimi più adeguati).

Chiaramente, c’è una certa comunicazione tra i sotto-

livelli della colonna di destra: vuoi perché non è sempre

facile stabilire fino a che punto un uso è giustificato dal

contesto linguistico della poesia in questione, vuoi perché

spesso e volentieri il generico filosofico è una specie di

maschera che fatica a nascondere un uso ‘ornamentale’

come è quello della sotto-colonna più a destra.

Occorre ribadire che tutto quanto ho scritto e scriverò in

questa sede è unicamente basato sugli estratti analizzati:

condizione necessaria ma non sufficiente per capire un

poeta, ma forse sufficiente per capire una certa tendenza.

Bisogna evitare l’errore di ricondurre il giudizio su un

brano testuale all’intera opera dell’autore, dato che un

simile salto induttivo richiederebbe un focus ben più

cospicuo sul singolo autore: tuttavia, in questa sede, a me

interessa la poesia come discorso, ovvero nella sua

realizzazione inter-autoriale.

Guardando la tabella dall’alto, la cosa che impressiona di

più è la scarsità di esempi del livello 1 e del sotto-livello

‘marca colloquiale’: entrambe le colonne indicano un

nesso diretto e robusto tra parola e cosa, una capacità di

concretezza visiva e di messa in situazione. Pochi poeti

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sembrano in grado di soddisfare questo requisito: dopo

Sereni, il più esplicito, solo Crosara, Fallini e Teti - sia

pure tutti in maniera morbida o ellittica, sembrano creare

un nesso tra nome e cosa, per quanto problematico. Sono,

queste, poesie che più di altre - all’accorrere della magica

parolina ‘cose’ - mettono in situazione, permettono in

qualche modo a chi legge di entrare nella scena.

Il sotto-livello ‘marca colloquiale’ è occupato solo da

Cattafi [3] (a dire il vero, un estratto qui non analizzato di

Matteo Fantuzzi andrebbe a occupare la stessa casella). La

diagnosi è simile a quella fatta per la colonna 1: la maggior

parte dei poeti non insegue con convinzione un

ancoraggio (per quanto precario e problematizzato, vd.

Teti) con il mondo contingente, sensoriale.

Il livello 2 - quello che permette di spiare nello stato

d’animo e nella mente della persona poetica o di un suo

intermediario - è quasi parimenti spoglio: dopo il

naturalismo della prima colonna, e il modernismo di

questa seconda, sembra che i poeti cerchino altre

soluzioni. Ma sarà vero?

A volte ho più l’impressione che la scelta verso una certa

inconsistenza (sia essa mascherata o no da tono

filosofeggiante) sia dovuto a una poesia parassitaria verso

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forme esterne di filosofia, forse un facile lirismo ereditato

da una vulgata heideggeriana.

La stessa ‘pigrizia’, passando al livello 3, è evidente nella

poca voglia o dimestichezza nel rendere un termine carico

come ‘cose’ veramente funzionale al suo contesto: non

molti sono i poeti che, facendo propria la lezione

modernista, intrecciano organicamente forma e

contenuto. Sereni, Cattafi, Giovenale e Teti (l’inclusione

di Ostan è più problematica, dato che ‘cose’ è solo

flebilmente giustificato dai riferimenti concreti dei versi

precedenti, e si legherebbe comunque al solo primo

livello) sono gli unici che ri-semantizzano ‘cose’ in

maniera sostanziale, costruendo il giusto contesto per

esse.

Non sorprendentemente, i due sotto-livelli più a destra

(generico filosofico e generico svuotato, che poi sono

pericolosamente intercambiabili a volte) sono anche i più

affollati e recenti, e riguardano soprattutto autori giovani.

Si badi bene, non condanno a priori le scelte di chi usa

‘cose’ in modo filosofico: c’è una certa differenza tra l’uso

più appropriato che ne fanno Federici, Di Dio e Teti, e

quello più ornamentale di Dal Bianco, Bux e De Marchi.

Gli altri autori stanno un po’ in mezzo tra questi due poli.

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L’ultima sotto-colonna mostra usi non giustificati, in cui

davvero ‘cose’ appare perché probabilmente è una parola

che piace, una sorta di vademecum poetico, come poteva

essere ‘notte’ in epoca romantica: forse in questi casi la

patina di cosalità e modernità (e la risonanza facile) di

questa parola, è usata in luogo di perifrasi e costrutti più

rischiosi e faticosi, che invece proprio in una maggiore

precisione, in un veto al laissez-faire, troverebbe una via

d’uscita alla situazione ad alto gradiente epigonico di

(almeno) un aspetto della poesia italiana contemporanea.

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