Le chiavi di Lolita

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Valentina Papa, sentimentale

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Valentina Papa

LE CHIAVI DI LOLITA

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LE CHIAVI DI LOLITA Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2011 Valentina Papa ISBN: 978-88-6307-372-0

In copertina: Immagine Shutterstock.com

Finito di stampare nel mese di Luglio 2011 da Logo srl

Borgoricco - Padova

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Per tutti gli occhi che si poseranno su queste pagine

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BAMBINA Lilian si strinse le ginocchia al petto, lottando contro la suola scivolosa delle scarpe da ginnastica che sembravano indipendenti dal suo volere. Tirò rumorosamente su con il naso, cercando di ricacciare le lacrime, ma il labbro inferiore le tremava troppo per sembrare credibile persino a sé stessa. Appoggiò la fronte contro le ginocchia, chiudendo gli occhi, decisa a restare in quella posizione finché il sole non fosse tramontato. Sì, sarebbe rimasta così per sempre, si disse. Finché non sarebbe morta congelata, o qualcosa del genere. Tanto non cambiava molto. Il mondo sarebbe andato avanti senza di lei. Strizzò gli occhi più forte, tentando di non lasciar trapelare le lacrime che ormai pendevano agli angoli degli occhi acquamarina, e tirò per le maniche la felpa per coprirsi le mani. La pelle nuda della schiena entrò a contatto con il cemento della panchina, facendola rabbrividire, e si abbracciò fino a far combaciare le dita sulle scapole sporgenti. Le sfuggì un piccolo singhiozzo, che ruppe il silenzio, facendola vergognare. Controllò velocemente che nessuno la stesse osservando, e abbassò nuovamente il viso contro le ginocchia congiunte, abbandonandosi al pianto che sentiva nascere dentro di sé. Poi srotolò velocemente le cuffie dalla tasca dei jeans e accese il piccolo mp3, sempre al suo fianco, cliccando sulla traccia audio più triste della playlist creata apposta per quelle occasioni. La musica scivolò decisa tra le lacrime, inondandole la testa con le note basse e vibranti della voce dell’uomo che suonava dolcemente, e gli occhi di quel colore così particolare, uno strano verde tinto d’azzurro, si chiusero di nuovo al mondo. Ora esistevano solo lei e quelle note, quella tristezza. Sì, sarebbe morta così, decise. Dopo quelle che le parvero ore e ore, sentì un movimento improvviso accanto a sé, e quasi sobbalzò dalla sorpresa. Una cuffia precipitò dall’orecchio impigliandosi tra i suoi capelli, ma non se ne curò; il problema principale era asciugare il viso inondato di lacrime. Stropicciò con decisione gli occhi annebbiati, mettendoci talmente tanta forza da lasciarsi due segni rossi sugli zigomi, e lanciò un’occhiata alla figura

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indistinta al suo fianco. Un top di paillettes luccicanti rifletté la luce del sole, accecandola all’improvviso, e solo quando una mano dalle unghie laccate tirò con decisione la giacca sull’appariscente maglietta si decise a distogliere lo sguardo dal top e posarlo sul volto sconosciuto davanti a lei. La donna che si era seduta lì accanto aveva degli occhi di fuoco, neri come la più buia delle notti. L’eye-liner ne sottolineava il taglio obliquo, e le lunghe ciglia erano incurvate ancora di più verso l’alto grazie a un accurato tocco di mascara. Incantata dalla perfezione di quel viso sapientemente truccato, Lilian non si rese conto di essere rimasta a fissare la sconosciuta a bocca aperta. Gli occhi vagarono per il suo volto, studiandone i lineamenti forti e delicati al tempo stesso: le labbra ricoperte di un rosso porpora erano carnose, ma avevano una piega amara che rendeva l’espressione della donna più dura, le sopracciglia erano curatissime, impeccabili come l’ombretto chiaro… tutto in quella donna sembrava perfetto, e Lilian si sentì un piccolo mostro. Guardandosi dall’esterno, si vide lì davanti ai suoi occhi nel peggiore dei modi: gli occhi gonfi, le guance chiazzate, i capelli che facevano concorrenza a un nido, o forse a un fienile. Era orribile. Ora, più che mai, ne era convinta: sarebbe morta su quella panchina, forse per la vergogna. La donna rimase in silenzio, apparentemente ignara dello sguardo di Lilian addosso, fissando gli alberi davanti a sé. I lunghi capelli neri ricadevano in morbidi boccoli fino al seno prominente, ora nascosto dalla giacca. Lilian abbassò gli occhi sulle sue mani, che stringevano un lembo della giacca con forza, quasi volessero strapparlo. Poi la sconosciuta sospirò, il petto si alzò lasciando che le paillettes riflettessero nuovamente la luce del sole, e gli orecchini pendenti che si intravedevano tra i capelli tintinnarono appena. Anche Lilian sospirò, cercando di recuperare la cuffietta dell’mp3, e lanciò un’altra occhiata curiosa alla donna. In quel momento, gli occhi neri intercettarono i suoi. «Be’, cos’hai da guardare?» disse la donna, facendola sobbalzare. La cuffietta le sfuggì di mano, rotolando sulle sue gambe. Lilian abbassò gli occhi di colpo, intimidita, e scosse la testa, attorcigliando il filo dell’mp3 intorno all’indice. «Hai perso le parole, bambina?» disse la donna, sarcastica. Gli occhi verde acqua luccicarono di lacrime rabbiose per quel tono acido. Bambina, lei? Come si permetteva? La guardò con aria di sfida, e la donna inarcò le sopracciglia perfettamente curate, come per provocarla. Un mezzo sorriso si fece strada sulle belle labbra rosse, e Lilian decise di non darle soddisfazione.

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Non rispose, scrollando le spalle, e rimise gli auricolari alle orecchie, fingendo di essere immersa nella musica. In realtà la canzone era finita, ma qualcosa le impediva nuovamente di schiacciare il tasto “Play”. Si calò i capelli davanti al viso, ignorando la donna al suo fianco, e tamburellò le dita sulle ginocchia a un ritmo immaginario. Sentì gli occhi scuri seguire i suoi movimenti, ma finse di non accorgersene. Con la coda dell’occhio le osservò le gambe, fasciate in un paio di collant così chiari da sembrare quasi invisibili, e quasi sobbalzò nel momento in cui lei accavallò le gambe e si accostò. Sentendola vicina, girò il viso nella sua direzione e si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa. Gli occhi della donna erano a qualche centimetro dai suoi, e la osservavano ardenti di curiosità. «Si può sapere perché piangi, bambina?» disse con tono più gentile, sfilandole con naturalezza una cuffietta dall’orecchio. Lilian sentì le dita sfiorarle la guancia e rabbrividì per quel contatto. Chi era quella donna, una pazza? Doveva esserlo senz’altro, per essere vestita in maniera così appariscente e poi coprirsi con una stupida giacca nera. Se indossava una maglietta vistosa per poi nasconderla, non doveva essere molto in sé. Ancora una volta Lilian non rispose. Ma la donna non se ne curò, giocherellando con la cuffietta, canticchiando a mezza voce un motivo che non conosceva. Lilian le strappò la cuffietta di mano, decisa, e la donna alzò le mani mormorando: «Okay, bambina, scusa. Non volevo certo rubarlo.» Sorrise, scoprendo una dentatura perfetta per qualche secondo, prima di serrare nuovamente le labbra. Cosa voleva quella sconosciuta, prenderla in giro? E voleva smetterla di chiamarla bambina? Lilian iniziava a innervosirsi seriamente. «Non sono una bambina» disse all’improvviso, stupendo persino sé stessa. Perché le aveva risposto? Non avrebbe dovuto farlo, le stava dando un’inutile soddisfazione. Gli orecchini della donna tintinnarono ancora una volta, mentre lei scuoteva la testa. «Oh, ovviamente. Vuoi sentirti dire che sei grande, vero? Come devo chiamarti, donna? Ragazza? Signora?» sottolineò l’ultima parola, provocandola. «Cosa vuoi da me?» rispose lei, sentendo montare dentro una rabbia incredibile.

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La donna la scrutò attentamente, poi rise di nuovo. Un’altra risata breve, fugace, un sorriso che non saliva agli occhi. «Non voglio offrirti caramelle, né rubare il tuo mp3. Volevo solo sedermi su una panchina e l’unica quasi libera qui è questa, mi dispiace. Queste scarpe fanno dannatamente male, sai?» disse, sollevando una gamba in aria e massaggiandosi la caviglia. Gli occhi di Lilian seguirono i suoi movimenti, soffermandosi a osservare i tacchi scintillanti. «E allora perché le indossi?» Un risolino fuggevole salì dalla gola della donna, ancora una volta. Poi scrollò le spalle, riabbassando la gamba. «Ah, perché sono una donna. Le donne sanno sbagliare con classe, sai?» «Cioè?» disse Lilian senza capire, gli occhi fissi sulle eleganti scarpe. «Be’, se c’è qualcosa che fa male e loro lo sanno, sta pur certa che lo sceglieranno lo stesso. Guardando queste scarpe, già solo guardandole, so che mi faranno male dopo qualche minuto. Eppure, le indosso comunque.» «Che idiota.» la frase le uscì senza pensarci, e quasi immediatamente se ne pentì. Ma la donna non sembrò arrabbiata, e si strinse nelle spalle. «Già, un’idiota. Ma almeno non mi metto a singhiozzare su una panchina, non trovi?» «Non sto piangendo per un paio di tacchi.» Lilian alzò gli occhi al cielo, di nuovo nervosa. Lo faceva apposta, a provocarla così? O era soltanto molto stupida? Il suo sguardo però era troppo intelligente, più che stupidità la sua era vera e propria irriverenza. «Meglio piangere per le scarpe che per un uomo, bambina!» Lilian si morse un labbro, e il viso di Rob apparve come un flash improvviso nella sua testa. Già, tra i due era decisamente meglio piangere per le scarpe, in effetti. «Oh, no» si lamentò la donna, avvicinandosi di nuovo al suo viso. Senza pensarci le scostò una ciocca di capelli dalla guancia, tirandole il mento nella sua direzione e costringendola a guardarla. Gli occhi neri si fissarono nei suoi, scrutando le lacrime che aveva inutilmente tentato di nascondere. «Oh, no» ripeté di nuovo. Lilian scostò bruscamente il viso dalla sua mano, nervosa. «Cosa, cosa c’è?» I boccoli ondeggiarono come onde sul suo collo. «Queste sono proprio lacrime sprecate, bambina.»

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Dopo un attimo di silenzio Lilian passò bruscamente la manica della felpa ormai logora sul viso, per asciugare meglio gli occhi. «Dici, eh? Mi sa che hai ragione.» «Oh, ne sono certa» rispose la donna con tono sapiente. «Be’, non ci voleva uno scienziato per capirlo. Lo sapevo già» ribadì acidamente Lilian evitando di guardarla ancora, e appoggiò il mento sulle ginocchia. «Non sono una scienziata, bambina. E tu continui a piangere.» Lilian sbuffò. «Non posso mica controllarlo, sai? Non dipende da me!» «Ah no?» disse con tono meravigliato, innervosendola ancora di più. «No!» sbraitò, tornando a guardarla. Si rese conto di stare quasi urlando, ma non le importava. Cosa voleva quella matta da lei? Perché non si trovava un’altra panchina, e la lasciava in pace? Ma la donna rimase perfettamente immobile, le braccia conserte sulla giacca scura, le gambe accavallate, gli occhi fissi nei suoi. Era tranquilla, e la osservava incuriosita. Lilian iniziava a non sopportare la vista di quello sguardo fin troppo acuto, e avrebbe volentieri usato uno dei suoi tacchi per tirarglielo in testa. «Torna a casa, bambina» disse dopo qualche istante, in maniera più gentile. Lei scosse la testa, sentendo di nuovo gli occhi pungere per quel tono improvvisamente dolce, inaspettato. «Voglio stare qui. Morirò qui.» La donna alzò gli occhi al cielo. «Mio Dio, come sei tragica! Ma quanti anni hai?» «Quindici» rispose a malincuore, immaginando che le avrebbe dato nuovamente della bambina. Si pentì di non averle mentito, ma ormai era troppo tardi. «Ah, bambina… che spreco, voler morire a quindici anni! E per un uomo, poi!» «Un uomo?» disse Lilian, corrugando la fronte. La donna agitò una mano nella sua direzione, con gli orecchini che tintinnavano all’impazzata. «Un uomo, scusa, volevo dire un ragazzino! Ah, come sei pignola… se continui così, poi resti zitella.» «Davvero?» chiese lei con tono preoccupato, prima di riuscire a trattenersi. Un sorriso divertito salì di nuovo alle labbra della donna, accompagnato da una piccola risata.

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«Che ti importa, bambina, non avevi detto che desideravi morire?» Con quelle parole riuscì a strapparle un sorriso imbarazzato. «Be’, non si sa mai.» All’improvviso scoppiarono a ridere, divertite, e gli occhi di Lilian si riaccesero appena. Forse non era davvero così tragico. Dopotutto, ripensandoci, sarebbe stato davvero uno spreco morire a quindici anni. La osservò ridere di gusto, il bel volto illuminato da quella risata, le paillettes che giocavano con la luce del sole. Chi era quella donna? Com’era riuscita a farla sorridere, nonostante la sua disperazione? Dopo un po’ la risata si spense, ma lo sguardo della donna esprimeva una nuova simpatia. «Non resterai zitella» disse, e Lilian si sentì colpita dal tono fiducioso delle sue parole. La sconosciuta le sfiorò i capelli biondi, districandole un nodo. Lei la lasciò fare, stupita da tanta naturalezza. «Sei una bella ragazza, e lui naturalmente sarà uno stupido. Non sprecare nemmeno una goccia del tuo dispiacere per uno stupido, mai.» Lilian annuì, senza dire nulla, continuando a seguire con lo sguardo le mani che dolcemente districavano i nodi nei capelli. Ammirò silenziosamente la disinvoltura della donna, il modo in cui riusciva a compiere un gesto così intimo con una persona totalmente sconosciuta. E lei, lei perché glielo lasciava fare? Si rialzò di scatto, riprendendosi improvvisamente. La donna non lasciò trapelare alcuna sorpresa per quel gesto, quasi come se lo stesse aspettando, e rimase in silenzio. Un capello biondo era rimasto tra le sue mani, e lei lo lasciò cadere a terra con un pigro movimento del braccio. «Devo andare» disse Lilian, quasi come per giustificarsi. Avvertiva il desiderio improvviso di scappare il più lontano possibile da quella donna, la quale annuì appena, lentamente, poi alzò la mano per salutarla. Lilian fece un cenno con il capo verso di lei prima di voltarsi e iniziare a camminare spedita nella direzione opposta. Solo dopo qualche metro iniziò a correre, quasi furiosamente, per due interi isolati. Quando iniziò a sentire il cuore scoppiare, finalmente si fermò. E in quel momento si rese conto che le mancava qualcosa: tastò furiosamente le tasche dei jeans, in preda al panico, facendo cadere a terra un pacchetto di fazzoletti. Passò le mani sudate tra i capelli, aggrovigliandoli, e poi sul viso. No, non era possibile. Tornò a setacciare le tasche, ma sentì soltanto il contatto della stoffa contro le dita.

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E allora si voltò verso la direzione da cui era venuta, sentendo di non avere scelta. Ricominciò a correre, con la sensazione di andare controcorrente, e non si fermò nemmeno quando iniziò a sentire un dolore pungente all’altezza del fianco. Entrò nel parco a tutta velocità, correndo verso la panchina, ma già da lontano non vide nessuno seduto e sentì il cuore sprofondare. Si fermò lì davanti, appoggiandosi una mano sul cuore che martellava all’impazzata, cercando di calmare il respiro. Una goccia di sudore le scivolò sulla fronte, ma non si premurò di asciugarla. Il suo mp3 non c’era più. Abbassò lo sguardo sulla panchina, disperata. E lì, ecco abbandonata una cuffietta, con un bigliettino stropicciato. Lilian lo prese, il cuore a mille, quasi strappandolo mentre lo apriva. Una calligrafia ordinata e precisa catturò il suo sguardo, poi Lilian accartocciò di nuovo il biglietto e lo lanciò il più lontano possibile, ficcandosi la cuffietta in tasca. Lentamente, ritornò verso casa, calciando i sassi con rabbia. Chi era quella donna, cosa voleva? E ora, ora aveva anche il suo amato mp3. Non riusciva a smettere di pensarci, arrabbiandosi ancora di più, rileggendo nella mente le parole della donna: “Non piangere bambina, te lo restituisco domani”. No, non avrebbe pianto. Non era certo una bambina, lei.

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JAMEELA Rigiro tra le dita il piccolo mp3, lo sguardo perso nel vuoto. La mia immagine annoiata si riflette nello specchio di fronte, e passo in rassegna il trucco che cerca di rallegrare gli occhi spenti e le labbra imbronciate. La maschera è perfetta, ma non l’attrice che la indossa. Faccio partire per l’ennesima volta l’ultima canzone che stava ascoltando quella ragazzina, immergendomi di nuovo nei miei pensieri. Per qualche assurdo motivo, non riesco a non pensare alla bambina del parco. Era di una bellezza inusuale per una quindicenne, ma non sembrava rendersene nemmeno conto. Sarebbe sbocciata tra qualche anno, forse, quando avrebbe smesso di indossare vestiti sformati e scarpe da ginnastica. Quando avrebbe finalmente preso coscienza di sé come donna, insomma. Per un attimo mi torna in mente l’immagine di me alla sua età, ma la scaccio subito, ritoccandomi il mascara, anche se è perfettamente inutile. Dopo essermene resa conto, poso di nuovo lo sguardo sull’mp3. C’era qualcosa che non andava, lì dentro. Troppe canzoni tristi. Troppa melodia. Niente rock, pop, niente che ci si aspettasse da una playlist di una ragazzina. Si può capire molto dalla musica che ascolta una persona. Si comprende meglio la sua indole, credo. Ma stavolta, se non avessi saputo che si trattava dell’mp3 di una quindicenne, le avrei dato la mia età. Musica classica. Musica rilassante, triste, riflessiva. Melodie dolci, note lunghe, voci sussurrate. Mai una chitarra elettrica, una batteria che scandisse il ritmo, una nota incalzante che facesse venire voglia di ballare. Niente di niente. Imposto la modalità “Riproduzione casuale”, giusto per fare un tentativo, e parte “Imagine” di John Lennon. Pura poesia, è vero, ma poteva apprezzarla una quindicenne? Schiaccio nuovamente il tasto centrale. “My way”, Frank Sinatra. Troppo per una ragazzina. Decisamente. Mi ritrovo a canticchiarla tra me, giocherellando con i trucchi sparsi sul tavolo, e non mi accorgo dell’uomo appoggiato alla porta. È Willy, arrivato silenziosamente alle mie spalle, che come sempre entra senza permesso in camerino.

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«I did it my way…» sussurro a occhi chiusi, persa nella musica. Un piccolo applauso mi fa sobbalzare, e mi giro verso Willy con espressione sorpresa. Lui ride, continuando ad applaudire. «Bravissima, tesoro!» «Ciao, Willy» rispondo, alzandomi e ricomponendomi. Mi avvicino e sfioro rapidamente la sua guancia con le labbra in un gesto meccanico, abituale. «Hai intenzione di esibirti cantando, stasera? Vuoi stupirci tutti con il tuo lato romaaantico?» continua lui, alzando gli occhi al cielo in una finta espressione estasiata. «Va a quel paese, Will. Sei una vecchia checca, ecco cosa sei.» Rido, dandogli uno spintone, ma lui para il colpo e mi abbraccia. Avvicina le labbra al mio lobo e sussurra: «Non scherzo, Jam, eri divina! Tanto che ti mangerei…così!» improvvisamente, oltre al fiato caldo sento i suoi denti mordicchiarmi l’orecchio, e mi scanso di colpo, sempre ridendo. «Will! Mi hai fatto male!» protesto, massaggiandomi il lobo. Lui mi guarda con l’aria da cucciolo sperduto che fa impazzire tutti, i caldi occhi nocciola fissi nei miei. «Oh, tesoro, come può una vecchia checca come me far male a una giovane amazzone come te? Andiaaamo…» mi schernisce con un gesto della mano, che lascia intuire la sua natura omosessuale più della voce leggermente in falsetto. «Non cercare di incantarmi, caro. Piuttosto…» Poso nuovamente gli occhi sull’mp3. Lo prendo, senza pensarci, e gli porgo le cuffie. Schiaccio il tasto di riproduzione casuale e gli faccio cenno di ascoltare. Dopo qualche secondo entrambi abbassiamo gli occhi sul monitor dell’mp3, non riconoscendo il brano. E il titolo compare, strisciando lentamente sulla finestra: “Au clair de la lune”, Debussy. Alzo gli occhi su Will, che mi osserva disorientato. «Ti sei data alla musica classica, amore? O è un modo per sedurmi elegantemente?» Scuoto la testa, spegnendo l’mp3. Lo appoggio sul tavolino, in mezzo ai trucchi, ma poi ci ripenso e lo chiudo in un cassetto, avvolgendolo in un collant trovato per caso. Will rimane a guardarmi, registrando i miei movimenti senza comprendere. «E quindi?» dice infine, curioso come sempre. «Quindi cosa?» fingo di non capire, per stuzzicarlo. Will alza le spalle. «Sto aspettando di capire cosa prevede questo piano di seduzione.»

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Mi volto con espressione divertita. «Potrei mai sedurre un gay? Non sono così autolesionista, né mi sento tanto superiore!» «Anita ci ha provato di nuovo, sai? Dice che devo riscoprire me stesso.» Scoppio a ridere. «E tu cosa le hai detto stavolta?» Will si stringe nelle spalle, fingendo nonchalance. «Oh, semplicemente che avrei preferito farlo con il suo nuovo uomo, George, visto che mi lancia occhiate interessate.» Si unisce alla mia risata, e mi abbraccia di nuovo. Poi mi dà una piccola pacca sulla spalla, invitandomi a uscire dal camerino. «Su amore vai, o farai tardi. Le ragazze ti stanno già aspettando!» Sbuffo e mi sistemo velocemente i capelli, poi riapro la porta del camerino ed esco. Dopo qualche secondo ci ripenso e torno indietro, riaprendola di scatto. Will si gira con espressione stupita. «Ancora qui?» «Solo una cosa… tu credi che quell’mp3 sia mio, vero?» Lo vedo corrugare la fronte, sorpreso dalla mia domanda. «No, in realtà pensavo fosse di Nancy. Le canzoni tristi le si addicono, nei suoi momenti peggiori.» Mi trattengo dal dirgli: “E se ti dicessi che è di una ragazzina di quindici anni, mi crederesti?” lanciandogli un bacio e uscendo. Lo vedo alzare le spalle prima di chiudere la porta, e sorrido. Non posso dargli alcuna spiegazione, non riesco a capacitarmi nemmeno io dell’interesse smisurato che ho nei confronti di quella strana ragazza. Rimuovo nuovamente l’immagine di me alla sua età, e raggiungo a grandi passi le altre ragazze, già pronte per iniziare. «Jam, finalmente!» protesta Anita. «Scusatemi, ci sono. Andiamo, ragazze.» Accendo le luci sul palco, sentendo mormorii d’approvazione lì fuori, e indosso il mio sorriso più accattivante. La maschera è di nuovo perfetta, l’attrice si è calata nella parte. Mi lancio sotto i riflettori a passo sicuro, e quando due occhi di uno strano color acquamarina colmi di lacrime appaiono come un flash nella mia testa li scaccio con decisione. Ci avrei pensato più tardi, forse, perché non c’era decisamente posto per quella bambina. Non lì dentro.

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LILIAN Rob e Kate camminano mano nella mano, sorridenti, a pochi passi da me. Fingo di non vederli e meccanicamente cerco l’mp3 nella tasca dei jeans. Non c’è nulla, naturalmente, e maledico per l’ennesima volta la sconosciuta del parco. Sempre tenendo gli occhi bassi, come immersa nei miei pensieri, mi faccio sorpassare. Sono così presi a sbaciucchiarsi e a ridere che probabilmente non mi hanno nemmeno notata. Meglio così. Rientro in aula, decisa ad aspettare la fine dell’intervallo lì dentro. In classe c’è solo Stephanie, chinata sulla sua borsa in cerca di qualcosa. Alza gli occhi sentendo dei movimenti e mi osserva mentre entro in classe, diretta al mio banco. «Lilian» dice decisa. Mi volto nella sua direzione senza parlare, con un cenno del capo. «Mmmh.» «Vuoi venire con me?» sventola un pacchetto di sigarette nella mia direzione. Ci penso per circa tre secondi prima di annuire. Cos’ho da perdere? La mia migliore amica è intenta a sbaciucchiare il mio ex fidanzato e le altre sono indaffarate a scambiarsi pettegolezzi su di me, ormai ribattezzata “la fontana” dopo essere scoppiata a piangere in classe, nel bel mezzo della lezione di storia. Come se non bastasse Louis ha la febbre, e non tornerà prima di qualche giorno. In sostanza sono sola e metà dell’istituto probabilmente sta parlando della mia crisi di pianto. Questo pensiero mi induce ad accettare con più foga del necessario, e Stephanie mi guarda incuriosita, ma non dice nulla. Ci rintaniamo nell’angolo più sicuro del giardino, guardandoci intorno con circospezione, mentre altri studenti fumano tranquillamente intorno a noi. Non ho il coraggio di dirle che non ho mai fumato, non voglio ridicolizzarmi ancora di più, e quindi prendo silenziosamente tra le dita la sigaretta che Stephanie mi porge. La scruto, leggermente nervosa, come in attesa che possa parlarmi e dirmi lei quando espirare e quando inspirare. L’odore del tabacco mi nausea un po’, ma lotto contro quella sensazione. Stephanie mi porge la sua sigaretta accesa e la prendo senza comprendere, rimanendo come una stupida con due sigarette in mano. Dopo qualche

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secondo lei alza gli occhi al cielo e me le strappa entrambe di mano, scuotendo la testa. Poi fa coincidere le due estremità e la mia sigaretta si accende grazie all’altra. Me la porge con gesto stizzito, e comprendo che mentalmente mi sta dando dell’incapace. Sento le guance diventare calde, ma mi impongo di fare finta di nulla. So per esperienza che se mi accorgo di stare per arrossire il pensiero serve soltanto ad accelerare il processo, e non ci tengo a diventare fucsia davanti a un gruppo del quinto anno che ha già seguito spassosamente la scenetta dell’accensione. Mormoro un “grazie” quasi inudibile, e Stephanie alza le spalle. Non c’è che dire, una gran compagnia. Sto quasi per pentirmi di aver accettato quando la vedo farmi un bel sorriso, che ricambio dopo un attimo di stupore. Ma i suoi occhi non sono fissi nei miei, guardano qualcosa alle mie spalle che si avvicina a grandi passi. Mi volto e vedo l’amico di Rob, di cui non so il nome, camminare nella nostra direzione con un sorriso. Si avvicina a Stephanie e la bacia sulla guancia, sedendosi accanto a lei. Li osservo stupita, notando la confidenza con cui chiacchierano, e rimango con la sigaretta sospesa per aria. Dopo un po’ lui mi guarda e ride, dando di gomito a Stephanie. «Le hai spiegato che deve avvicinarla alle labbra, o accenderla per non fumarla è una nuova moda?» Scoppiano a ridere e io li ignoro, voltando la testa dall’altro lato. Incrocio lo sguardo di un ragazzo appoggiato alla finestra, poco lontano, che mi fissa ostinatamente, con l’espressione quasi rabbiosa. Rimango a bocca aperta, stupita da quello sguardo nervoso, ma dopo qualche secondo mi accorgo che in realtà non mi sta guardando realmente. È perso nei suoi pensieri, e non devono essere di certo riflessioni positive, vista la faccia incazzata. Comunque, è proprio carino. Voglio dire, davvero molto carino. Rimango a fissarlo per più tempo del necessario, strizzando gli occhi per cogliere i dettagli malgrado la distanza. In quel momento però lui abbassa la testa e sbuffo, quasi senza rendermene conto. Peccato. Il mio sospiro attira l’attenzione dei ragazzi intorno a me, che ammiccano alla sigaretta dandosi di gomito e ridacchiando. La guardo anch’io, chiedendomi cosa ci sia di tanto divertente, e mi accorgo che ormai è quasi del tutto bruciata. Lo scheletro di cenere si regge quasi per miracolo, e con un piccolo tocco di classe lo faccio cadere a terra. Sto quasi per sentirmi una gran figa, finché non mi rendo conto che tutta la cenere è finita sulle mie All Star rosa. Cazzo.

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Scrollo il piede con noncuranza, augurandomi che nessuno mi abbia vista, e sollevo lo sguardo verso la finestra. Ovviamente, il tizio carino guarda nella mia direzione, e adesso sta davvero guardando me. Sento le guance imporporarsi, e senza pensare avvicino la sigaretta alle labbra, inspirando con tutte le mie forze. L’odore del tabacco sembra esplodermi in bocca, e sento lo stomaco contorcersi. Voglio morire, fa schifo. Totalmente schifo. Il primo istinto che ho è quello di vomitare, ma mi trattengo. Sento che il ragazzo alla finestra mi sta guardando, percepisco i suoi occhi su di me. Espiro lentamente, lottando contro la tosse che sembra pizzicarmi la gola, gli occhi pieni di lacrime per lo sforzo. Faccio un cenno di saluto a Stephanie, che non mi nota nemmeno, troppo presa dall’amico di Rob, e comprendo che non posso resistere un attimo di più. Inizio ad avviarmi a grandi passi verso il bagno, evitando di alzare di nuovo gli occhi alla finestra. Maledetto ragazzo, perché non trova un altro passatempo? Arrivo in bagno tossendo e sputo nel lavandino, disgustata. Okay, ho fatto una stronzata. Non fumerò mai più, davvero mai più. Nemmeno se Rob decide di sposare Kate. Nemmeno tra un milione di anni. Continuo a tossire per un po’, maledicendomi, e osservo il mio riflesso allo specchio. Dio, sono proprio un disastro. I capelli sembrano degli spaghetti biondi incollati alla testa, e il rossore del viso per la tosse mi fa sembrare un’ubriacona. Per non parlare degli occhi, pieni di lacrime per lo sforzo di trattenere i colpi di tosse. Una voce profonda, alle mie spalle, mi fa girare di scatto. «Stai bene?» Il tizio della finestra è sulla soglia del bagno delle donne, e mi osserva con espressione grave. Da vicino è ancora più bello. Avvampando, asciugo le lacrime e annuisco, incapace di aprire bocca. Lui si avvicina e mi toglie il mozzicone di sigaretta di mano, ormai praticamente stritolato dalle mie dita. Abbasso gli occhi sulle sue scarpe, osservando la suola schiacciare il mozzicone sul pavimento, e mi impongo di respirare normalmente, ma dentro mi sento morire dalla vergogna. Perché diavolo è entrato? E perché non riesco nemmeno a ringraziarlo? Dai, Lilian, puoi farcela. Alza gli occhi e digli “Oh, tutto perfetto, grazie!”. Mi schiarisco la voce, sempre guardando per terra. Ne esce un suono gracchiante, che mi fa arrossire ancora di più. «Ehi?» dice il ragazzo, sorridendo appena.

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Wow, è decisamente carino. Un ciuffo di capelli color miele gli sfiora delicatamente il sopracciglio destro, lasciando scoperta metà fronte. Sull’altro sopracciglio, noto di sfuggita, ha un minuscolo piercing. Figo, anzi… fighissimo. Dev’essere del quinto anno, sicuramente. E io devo essere una deficiente, visto che non dico nulla. Mi ricompongo, sfregandomi gli occhi. «Ehm…sì» mi schiarisco di nuovo la voce «sì, grazie.» Il ragazzo aggrotta le sopracciglia, divertito. «Grazie di cosa?» Mi stringo nelle spalle, desiderando morire. Scema, scema, scema. Sì, grazie? Ma che avevo detto? Grazie di che in effetti? Dio, se hai pietà di me, lasciami morire in questo istante. Okay, nessuna pietà. Sono ancora viva. Rialzo gli occhi su di lui, incerta. Il sorriso ha lasciato posto a un’espressione incuriosita. Sta aspettando una risposta, e farfuglio in fretta: «Di… di essere venuto a vedere come stavo, ecco.» «Oh, figurati» di nuovo un sorriso fuggevole. «Comunque, ehm… non dovresti essere qui. Questo è il bagno delle ragazze» biascico, come una perfetta cretina. Lui si guarda intorno, come se fosse stato teletrasportato lì dentro e se ne rendesse conto solo ora, poi alza le spalle e si volta. «Sì, in effetti… be’, allora ciao.» «No, scusami, io…» inizio a dire, ma è già andato via. Fantastico. Un ragazzo stupendo mi guarda, osserva la scenetta di me che tento di fumare, si accorge che sono una perfetta incapace e che sto per morire soffocata, viene qui apposta per salvarmi… e io? Gli dico che questo è il bagno delle femmine. Eh, già. Dovrei fare la PR, sono troppo brava a relazionarmi. Specialmente con un figaccione del quinto anno, che probabilmente penserà che sono pazza. Passo le dita tra i capelli, già perfettamente lisci, e sospiro di nuovo. Che disastro. I miei occhi cadono sul mozzicone di sigaretta, e ho quasi la tentazione di prenderlo e portarlo in classe. Potrei attaccarlo sul diario, come ricordo. Ripercorro mentalmente la scenetta, gli occhi fissi sul mozzicone. “Questo è il bagno delle ragazze.” “Sì, be’, allora ciao.” No, ripensandoci, forse è meglio lasciarlo dov’è.

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All’uscita da scuola lo rivedo tra la folla. Non è difficile notarlo, è decisamente più alto degli altri. Il ciuffo biondiccio gli copre quasi del tutto un occhio, ma mi accorgo comunque della sua espressione assorta. I miei occhi scivolano sulle sue mani, che stringono un mp3 identico al mio. Sto quasi per mettermi a saltellare dalla felicità, ma il mio buonsenso una volta tanto funziona e mi trattengo. Abbiamo lo stesso mp3! Oh, sapevo che avevamo qualcosa in comune! Dopo qualche secondo di esaltazione, lo vedo svoltare in direzione opposta a quella in cui vado io. Be’, peccato. Sarebbe stato ancora più bello sapere che abitiamo vicini. Ma dovrò accontentarmi di rivederlo a scuola, a meno che non inizi a pedinarlo. Magari fumando con noncuranza una sigaretta, giusto per dimostrargli che sono capace. Mi ritorna in mente il sapore disgustoso del tabacco, e capisco che è meglio evitare. Okay, niente sigaretta. Limitiamo la fantasia, sarà già tanto se riuscirò a parlare normalmente. E poi, è stato talmente carino… è venuto a controllare che stessi bene, entrando nel bagno delle ragazze, e nemmeno mi conosce! Rob non l’avrebbe mai fatto, ed ero la sua ragazza. Il pensiero di quel cretino e della delusione cocente mi fa salire le lacrime agli occhi, ma le trattengo. Non ha senso piangere per uno stupido, giusto? Sono lacrime sprecate. Ricordo le parole di quella donna, sorridendo appena, ma poi mi torna in mente l’mp3 e un moto di rabbia mi perfora dentro, esplodendo con la stessa forza del tabacco in gola. Guardo l’orologio, è appena l’una. Cosa faccio, inizio ad andare al parco? A che ora arriverà? Non mi ha detto nulla, eppure ho come la sensazione che potrebbe già essere lì. Mi avvio silenziosamente verso il parco, camminando piano. A metà strada ho un moto di bontà e mi ricordo di avvisare mio fratello che non tornerò subito. Prendo il cellulare e digito velocemente un sms: “Ciao Jake, non torno per pranzo. A dopo.” Non ho neanche il tempo di rimetterlo in tasca che sento il bip di un nuovo messaggio. “Ok.” Semplice, conciso, diretto. Questo è mio fratello. Sospiro e decido di mandare un messaggio a Louis, giusto per sapere come sta. “Looouis, va meglio? Qui tutto al solito. Oggi ho tentato di fumare una sigaretta e stavo per soffocare. E ho fatto una figuraccia con un tizio carino! Quando torni? Senza te è uno schifo. L xxx” Louis è il migliore amico del mondo. Ci conosciamo dalle elementari, precisamente da quando sono caduta durante l’ora di ginnastica e lui mi ha regalato un cerotto con disegnato un dinosauro. Era il suo preferito, mi aveva detto, ma visto che sanguinavo me lo cedeva volentieri. Io gli avevo

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sorriso, ringraziandolo tra le lacrime, e l’avevo applicato solennemente sul ginocchio sbucciato. Da quel giorno, amici per sempre. In un certo senso, quella caduta ha segnato l’inizio di un ciclo. Louis c’è sempre quando cado, anche in senso figurato, voglio dire. Ogni volta che ho bisogno di lui, e lui di me, eccolo ed eccomi. È un vero amico, lo adoro. Piace persino a mio fratello, che non sopporta mai nessuno. Incredibile. Ma del resto non si può non adorare Louis. Ha una faccia simpatica, da cagnolone, e un sorriso buffo. Mentre penso a tutto questo, arriva la sua risposta: “Da quando fumi?! Per il tizio sei la solita… idiota! Mi sento ancora male, forse dopodomani. Cioè, sto meglio ma vorrei risparmiarmi l’interrogazione di mate. Ah-ah. Ciao, Lillidiota!” Oddio, quanto lo odio quando mi chiama Lillidiota. “Ti odio, Louistupido. Dirò a tua madre che stai meglio, così domani sei costretto a venire. Baci baci” digito velocemente, premendo il tasto d’invio. La sua risposta arriva subito, come immaginavo: “Ok, Jake sarà contento di sapere che fumi allora! Bye byeee!” Sorrido, scuotendo la testa. Che scemo, so che non lo farebbe mai. E poi, questa è stata probabilmente la prima e l’ultima sigaretta della mia vita. Anzi, ripensandoci, è sicuramente così. Quasi senza accorgermene sono arrivata alla panchina, ma quella strana donna non è ancora qui. Mi siedo e tolgo lo zaino dalle spalle, guardandomi intorno. In realtà, mi sento piuttosto scema. E se non arriva? E se arriva tra ore e ore? Inizio ad avere fame, e non posso aspettarla in eterno. Ma devo riavere il mio mp3. Trascorro un quarto d’ora a giocherellare con il cellulare, passando in rassegna gli sms ricevuti. Ce ne sono tantissimi di Rob, che non mi decido a cancellare. Li rileggo con un misto di nostalgia e riluttanza, anche se in realtà li so già tutti a memoria da tempo. “Ok Lilly, allora passo più tardi? Non vedo l’ora. Mi manchi, piccola.” “Sei stupenda Lilly. Ti adoro!” “Così ti voglio, piccola! A domani, buonanotte. Mille baci. R.” “Per che ora?” oh, questo non so davvero perché l’ho conservato. Schiaccio il tasto “Cancella” ma quando mi viene richiesta la conferma per cancellare il messaggio definitivamente non ho il coraggio di premere l’ok. Mi sento ridicola, eppure non riesco a farlo. Continuo a leggere i messaggi, arrivando al mio preferito. “Buongiorno Lilly. Ti ho sognata stanotte, sai? Ci vediamo tra poco, non vedo l’ora. Nella realtà sei ancora + bella, e posso baciarti davvero. Tuo R.”

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È la cosa più romantica che mi abbia mai scritto, e se ripenso a quella mattina mi si stringe il cuore. L’avevo riletto mille volte, con una luce di felicità negli occhi. Mi sentivo volare, ero così felice… e ora cosa mi è rimasto? Nulla. Tutto quell’amore, tutte quelle parole decantate… e si è messo con Kate. Esattamente due settimane dopo quell’ultimo, meraviglioso messaggio. Tutti gli sms successivi erano pieni di scuse improbabili, bugie e frasi di circostanza. Forse perché in quei momenti era già con Kate, e doveva allontanarmi in qualche modo. “Ora non posso, Lil. Ciao a domani”, rileggo questo fantastico messaggio, ricordando perfettamente quel pomeriggio in cui gli avevo chiesto se uscivamo. Ora non posso… ed era con lei. Stronzo. Maledetto, orribile stronzo. E stupida io, che credevo alle sue bugie, prima di accorgermi della verità… troppo tardi per non farmi inutilmente male, troppo ingenua per non averlo intuito. Sento di nuovo lacrime di rabbia pungere ai lati degli occhi, e non mi premuro di asciugarle. Non ne ho la forza, e lascio che cadano sul display del cellulare. Una lacrima cade su un paio di scarpe luccicanti, dal tacco vertiginoso. Il cuore mi va sotto i piedi, immaginando a chi appartengono quelle gambe perfette. Alzo gli occhi e infatti eccola lì, la bellissima sconosciuta, stagliata come una dea di fronte a me. I suoi occhi neri penetranti mi guardano con disapprovazione. «Oh Dio, bambina! Stai di nuovo piangendo?» Oh, no.

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UN CAFFÈ Lilian scosse la testa, sentendosi avvampare. «Ehi, ciao.» La sconosciuta non rispose, osservando ostinatamente il volto rigato dalle lacrime, fino a farla sbuffare. «Cos’hai da guardare, non hai mai visto nessuno piangere?» disse Lilian, la voce tremante dalla rabbia. «Veramente, fino a oggi non ti ho mai vista in altre condizioni.» La donna sorrise appena, le belle labbra curve verso l’alto. Eppure i suoi occhi tradivano una certa preoccupazione. Scrutò attentamente la ragazza, poi lo sguardo le cadde sul cellulare che stringeva tra le mani. «Brutte notizie?» disse, accennando con il mento al cellulare. Lilian scosse la testa, rimettendoselo in tasca. «Macché. Semplicemente brutti ricordi» rispose, pentendosene quasi subito. Perché gliel’aveva detto? Non aveva senso, quella donna non doveva sapere nulla di lei, e tantomeno doveva lasciarsi andare alle confidenze. Invece quelle parole fecero scattare una molla nella donna, e quasi come se fosse una psicologa si sedette al suo fianco, con grazia. «Dai, racconta. Ancora quel ragazzo? Te l’avevo detto, non si sprecano le lacrime per un uomo.» Lilian indicò le scarpe. «Solo per un paio di scarpe che fanno male. Lo so, lo so.» Gli occhi neri della donna ebbero un guizzo divertito, ma si spense subito. Un’unghia perfettamente curata indicò a sua volta le scarpe della ragazza. «Finché indossi quella sottospecie di scarpe, non potrai mai capire.» «Sottospecie di scarpe?» il tono di Lilian era indignato «scherzi? Queste sono le All Star! Sono stupende!» La sconosciuta sollevò le sopracciglia. «Forse alla tua età, bambina. Mi ci vedi, con addosso quelle?» Lilian la osservò per un attimo, poi sorrise. Era così bella, con quei pantaloni stretti e il top oro abbinato alle scarpe… in effetti, se avesse

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sostituito quei tacchi vertiginosi con le sue All Star rosa sarebbe parsa ridicola. O forse no, bella com’era. «Che numero hai? Ti vanno?» chiese Lilian, senza pensare, curiosa di vederla con le sue scarpe. La donna si strinse nelle spalle. «Vediamo, fammi provare.» Tolse elegantemente un sandalo, appoggiandolo a terra, mentre Lilian sfilava la scarpa aiutandosi con la punta dell’altra. Guardando i gesti raffinati della donna, però, arrossì appena e si affrettò ad abbassarsi per togliere delicatamente le scarpe in una scarsa imitazione della sconosciuta, che la osservava trattenendo un sorriso. «Tieni» disse poi gentilmente. Anche le unghie dei piedi erano smaltate di rosso, e Lilian nascose il piede ricoperto da un calzino di Snoopy dietro al polpaccio della gamba sinistra, vergognandosi ancora di più. Poi però l’imbarazzo scomparve quando la donna si alzò in piedi, saltellando su un piede solo, per mostrargli l’effetto delle All Star su di lei. Era comunque altissima, anche senza tacchi, e nonostante quelle scarpe rosa sporco era stupenda. Agitò il piede nella direzione di Lilian, facendola ridere, e poi disse: «Andiamo, sono antiestetiche! Vedi?» Lilian scosse la testa. «Non è vero, semplicemente non hai gli abiti adatti.» La donna le lanciò la scarpa con il tacco, e lei la prese al volo con espressione stupita. «Provati quella, bambina.» Lilian rimase in silenzio, agitando il piede scalzo. «Non posso.» «Perché no? Andiamo… io ho provato le tue!» La sconosciuta vide la ragazzina abbassare lo sguardo, di nuovo imbarazzata. «Il fatto è che… mmmh… non so camminare sui tacchi» tagliò corto. «Non devi camminarci, devi solo indossarli» obiettò la donna, con tono ovvio. Lilian le prese bruscamente di mano la sua scarpa, rimettendosela con gesti frettolosi. «Non importa, non mi va» aveva ripreso i toni scostanti, e sembrava arrabbiata e confusa.

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Cosa le era saltato in mente, di far provare le sue scarpe a una sconosciuta? E perché, poi? Ricordando improvvisamente il motivo per cui era lì, alzò gli occhi sulla bella donna che la fissava in silenzio. «Dov’è il mio mp3?» Lei glielo porse, tirandolo fuori da una borsetta lucida. Lilian glielo strappò di mano, senza tante cerimonie, e si alzò. Poi, ricordandosi le buone maniere, la ringraziò e iniziò a incamminarsi verso casa. «Ehi, bambina!» la chiamò la donna, stupita «dove vai?» «A casa. Ciao! E… grazie!» rispose Lilian senza voltarsi. La donna rimase a osservarla per un po’, incuriosita. Poi d’improvviso parve comprendere. «Ti sei offesa perché non sai camminare sui tacchi? Posso insegnarti, sai? Non è difficile!» «Non mi importa!» urlò in risposta Lilian, rabbiosa. «Prova con quelli di tua madre, a casa, se non vuoi che ti insegni io!» Dopo qualche attimo di silenzio, Lilian scosse la testa, voltandosi a guardarla. «Mia madre è morta.» La sconosciuta aprì la bocca per replicare, poi la richiuse, mortificata. Lilian si voltò di nuovo e riprese a camminare più in fretta. All’improvviso la donna si alzò e la rincorse, quasi volando sui tacchi. «Ehi. Ehi, bambina, fermati.» Lilian si girò con aria di sfida. «Cosa vuoi?» Rimasero a guardarsi per qualche secondo, e la donna la scrutò a lungo. Poi disse con semplicità: «Ti va un caffè?» Lo chiese in modo gentile, distaccato, e con sua grande sorpresa Lilian accettò. «Okay» rispose, senza sapere nemmeno il perché. Forse era perché il tono in cui aveva posto la domanda non ammetteva rifiuti, o forse perché non voleva andarsene in quel modo. O forse perché non aveva usato parole di compassione, al contrario di tutti gli altri. «Quando la smetterai di chiederti se hai fatto bene o male ad accettare, magari andiamo» disse la donna, levigando il tono brusco con un sorriso. Lilian ricambiò il sorriso. «Mi insegnerai a camminare sui tacchi?» «Se credi di esserne capace, bambina…» la stuzzicò la sconosciuta, ammiccando alle sue scarpe rosa.

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«Certo che sì» Lilian alzò il mento, spavalda. Poi aggiunse: «Dopo il caffè, però.» Un sorriso divertito si fece strada sulle labbra rosse della donna, arrivando per la prima volta fino agli occhi. «Dopo il caffè, giusto. Andiamo, bambina.»

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JAMEELA Camminiamo in silenzio per un po’, stranamente senza alcun imbarazzo. Quando si sta zitti ci si sente sempre in dovere di dire qualcosa, anche una banalità sul tempo, pur di riempire quel vuoto. La verità è che non c’è nessun vuoto, semplicemente non si sa apprezzare il silenzio. Ci hanno insegnato che bisogna parlare, parlare, parlare e parlare. Riempire i vuoti. Ma un silenzio è più pieno di una parola banale sul tempo che fa. E io ora mi sento bene, ci sto comoda in questo silenzio. I ragazzi hanno bisogno di silenzio, sono bombardati da parole. E poi, se proprio devo dirla tutta, non so cosa mi sia saltato in mente. Questa ragazzina è come una calamita, più la guardo più sento scattare dentro qualcosa che mi attrae magneticamente nei suoi confronti. Sarà che l’ho vista due volte e in entrambi i momenti era così fragile, così triste… improvvisamente mi rendo conto che voglio aiutarla, e questa sorta di istinto materno mi spaventa e mi sconcerta molto. Ma ormai sono qui, e non ho voglia di tornare indietro. La osservo di sottecchi e mi accorgo che probabilmente si sta ancora chiedendo cosa voglio da lei, e perché ha accettato il mio invito così azzardato. Eppure, ho come la sensazione che anche lei stia bene. Perlomeno ha smesso di piangere, è già una conquista. «Ti piace qui?» indico uno dei miei locali preferiti, lo “Zaya”, dove lavora una delle ragazze. Paula, la sudamericana, una di quelle con cui vado decisamente d’accordo. «Io ci vengo spesso, c’è una mia amica che ci lavora e se non c’è il capo probabilmente ci regala anche due o tre pasticcini.» Lei annuisce, scostando un ciuffo di capelli biondi dal viso, e osservo con stupore che ha gli occhi di un colore spettacolare, quasi indefinito: è un misto tra azzurro e verde, le iridi sembrano brillare sotto il sole. «Accidenti bambina, hai degli occhi meravigliosi» dico, sinceramente stupita. Le allontano una ciocca di capelli dal viso, lasciandolo bene in vista. Ha la pelle vellutata, sembra una pesca, e sorrido con dolcezza a quel pensiero.

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«Non nascondere quegli occhi tenendoli bassi, è un peccato. Guarda sempre in su, testa alta. Intesi?» Lei annuisce imbarazzata, e in quel momento sento il suo stomaco borbottare. Automaticamente si porta una mano sull’addome, arrossendo ancora di più, e io guardo l’orologio. «Cosa c’è, hai fame? In effetti sono quasi le tre, e probabilmente non hai mangiato ancora nulla. Vero?» «In effetti, no. Qui fanno anche dei panini oltre al caffè?» chiede, guardando dubbiosa attraverso la vetrina. Seguendo il suo sguardo vedo Paula vagare tra i tavoli e annuisco. «Eccome se li fanno. Vieni, Paula ti farà molto più di un panino.» Non appena entriamo nel locale Hugh, il proprietario, viene a salutarmi con un sorriso. «Oh, ma che bella sorpresa! Buongiorno mia cara, come stai?» Rivolgo il più accattivante dei sorrisi ad Hugh, lasciandomi prendere una mano e osservandolo mentre sfiora il dorso con le sue labbra in un gesto di galanteria. «Buongiorno a te, Hugh. È sempre un piacere… tutto bene, ti ringrazio. E tu?» «Oh, indaffarato come sempre… stavo uscendo in questo istante, devo sistemare alcune cose prima di sera. Per fortuna c’è Paula in servizio oggi, quella donna è un angelo.» Hugh la cerca tra i tavoli, rivolgendole uno sguardo di pura ammirazione. Osservo la ragazza con la coda dell’occhio, e la vedo con gli occhi fissi su Paula. Sudamericana pura, ha lunghi capelli castani che tiene ordinatamente legati in una coda, ma persino con la divisa e senza trucco riesce a farsi notare per quanto è bella. Mi piace molto, Paula, è una ragazza in gamba. Ritornando a rivolgere le mie attenzioni a Hugh, mi rendo conto che probabilmente sta pensando lo stesso, e sorrido. Dopo qualche minuto sembra riscuotersi dai suoi pensieri e ci saluta gentilmente, stringendo la mano anche alla ragazzina. Mi rendo conto solo in quel momento che non so il suo nome, ma non faccio in tempo a chiederglielo che Paula arriva per farci accomodare al tavolo migliore. Non appena ci sediamo, però, mi anticipa lei. «Ehi, sai che non so nemmeno come ti chiami? Buffo, vero?» «Me lo stavo chiedendo anch’io…» le sorrido, stupita da quella telepatia. Gli occhi acquamarina assumono un bagliore divertito. «Indovina» dice sfidandomi, e in quel momento vedo tutti i suoi quindici anni e tutta la vitalità del mondo in quegli occhi. In quell’attimo, è viva. Sono così stupita da quella luce improvvisa che quasi non l’ascolto, ma

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poi raccolgo la sfida e la osservo in maniera teatrale. Lei ridacchia, divertita dalla mia espressione concentrata, e attende in silenzio, giocherellando con uno dei mille braccialetti colorati che ha al polso. «Non indovinerai mai…» mi prende in giro animatamente, e vorrei sbagliare più nomi possibili per poterla vedere ridere ancora un po’. Sembra una bambina, e il suo divertimento contagia anche me. «Sssh. Ci sono.» Lei mi guarda incredula. «Che aspetti? Spara.» «Annie» dico io con convinzione. Una risata fragorosa rompe il silenzio del locale, e la sua espressione è talmente buffa che inizio a ridere anche io. «Annie?! Come ti è venuto in mente, Annie?» scuote la testa, quasi orripilata. «Andiamo, non è così male. A me piace. Annie. Ti starebbe bene, sai?» dico per stuzzicarla. «Oh, ti prego. È quasi peggio del mio vero nome» fa lei, agitando una mano nella mia direzione. I braccialetti sul polso tintinnano furiosi, esprimendo la sua indignazione. «Non hai gusto, come chiaramente facevano intendere le scarpe» la prendo in giro, e mi accorgo che mi sto divertendo un mondo. «Le scarpe sono bellissime, sei tu che non capisci niente» risponde a tono, senza alcun imbarazzo, e sono felice di vederla finalmente così distesa. Sta iniziando a essere sé stessa, e come immaginavo è una piccola ribelle. Le sorrido. «Allora, com’è che ti chiami?» «Lilian» risponde dopo un attimo di pausa. So che ha pensato di dirmi un nome falso, glielo leggo in faccia, e lei probabilmente si accorge che l’avrei scoperta perché arrossisce. «Davvero?» faccio io, per confermare i miei sospetti. «Purtroppo…» si stringe nelle spalle, sospirando. «Cos’ha che non va? Mi piace. E poi, ci avevo quasi azzeccato. Lilian… Lilianne… Annie. Semplice, no? Da oggi in poi sei Annie, ho deciso.» «Oh, neanche per sogno. Sembra un nome da bambina!» protesta immediatamente, come immaginavo. «Già, scusami, perché tu sei grande» continuo a scherzare, provocandola. Mi sento diversa, quasi rinata di fronte a questa ragazzina. Lei mi risponde con una linguaccia, poi sorride. «E tu, come ti chiami?» «Indovina» replico io, con il suo stesso tono.

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Lilian sbuffa, ma mi accorgo che sta reprimendo un sorriso. «Oh, dovevo immaginarlo.» «Sì, ma il nome non lo potrai mai indovinare… fidati.» «Ne sei così convinta?» il suo tono di sfida mi fa sorridere ancora. È una bella sensazione, non mi sono mai sentita così spensierata. Annuisco e mi metto comoda: se è testarda come sembra, la cosa andrà avanti per le lunghe. «Jennifer» spara subito, e io scuoto la testa. «No?» Ha un’espressione talmente delusa che devo trattenere una risata, è davvero buffa. «Non fare quella faccia, Annie. Mi fai quasi sentire in colpa, sarò costretta a cambiare nome.» «No è che… insomma, ti si addice.» «Dici? Be’, è carino. Ma non ho un nome tanto comune, ti ho avvertito. Ti arrendi?» Come immaginavo, scuote la testa. «Scherzi? Sono soltanto al primo tentativo. Mmm… Laureen.» «No.» «Rebecca.» «No.» «Angelina?» «No.» Si mordicchia un labbro, e io fingo di sbadigliare. «Tina!» «Sì, Turner. Molto piacere.» Ridiamo tutte e due, e ritento: «Arrenditi, su.» «Neanche morta. Ylenia.» «Mmm…no.» «Julie.» Assumo una finta espressione sorpresa, portando le mani davanti alla bocca. «Oddio, sì! Come hai fatto a indovinare?» Gli occhi acquamarina mi perforano, dubbiosi. «Che bugiarda.» Sfodero un sorrisetto. «Devo pur scoraggiarti in qualche modo. Non puoi arrivarci da sola.» «È così impossibile?» «Guardami. Secondo te, sono inglese?»

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I suoi occhi non hanno bisogno di ispezionarmi. «No, ovvio che no. Sembri latina. Per questo avevo pensato a Jennifer… hai lo stesso colore di pelle di Jennifer Lopez.» Stendo un braccio verso di lei, osservandolo con occhio critico. «Dici? Sì, forse è vero» le sorrido «comunque, sono egiziana. Mia madre e io siamo nate in Egitto, mio padre è arabo.» «Oh» fa lei, affascinata dalla storia «egiziana…» «Già» taglio corto, improvvisamente spaventata all’idea che possa chiedermi altro. «Ecco perché non potrei mai indovinare. Cleopatra?» tenta, speranzosa. Scoppio a ridere. «No, fortunatamente no. Anche se hai azzeccato il mio soprannome, brava.» «Davvero? Chi ti chiama così?» chiede lei, interessata. Mi blocco per un attimo, poi mi rilasso nuovamente. «Oh, sai, gli amici. Comunque» cerco di distrarla, portando di nuovo l’attenzione sul mio nome «mi chiamo Jameela.» «Ja…che?» «Jameela» ripeto più lentamente. «Jameela? E che razza di nome sarebbe?» «Ehi, io non ho certo insultato il tuo!» dico, fingendomi offesa. «Oh, scusami, hai ragione. È che… è così strano. Però mi piace. Jameela» ripete di nuovo, guardandomi «e ha un significato particolare?» Annuisco. «Sì, è di origine araba, e significa “bellissima”.» Lilian sorride, un lampo di ammirazione negli occhi. «Allora ti si addice sul serio, i tuoi non potevano scegliere un nome migliore.» Con mia grande sorpresa, mi accorgo di arrossire appena. Il suo complimento è così caldo, così sincero, che lo sento provenire direttamente dal cuore. Ricevo complimenti a valanghe, ogni giorno, ma questa è la prima volta che mi capita di avvertire un lieve rossore sulle guance. Pazzesco, questa bambina ha dei poteri magici su di me. «Grazie» le dico sincera. Lei sembra percepire il mio imbarazzo e minimizza con un altro gesto della mano che fa tintinnare di nuovo i braccialetti. «Di che. Allora, ordiniamo?» dice ad alta voce, attirando l’attenzione di Paula che si avvicina con un gran sorriso.

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«Ehi Jam, ciao. Tutto bene?» dice Paula cordiale, prendendo il blocchetto per le ordinazioni. «Benissimo, grazie» rispondo con un sorriso, e mentre lo dico mi accorgo di pensarlo davvero. «Lei è Annie» dico, indicando con un cenno Lilian davanti a me, e trattengo una risata mentre vedo che sta per contrariarsi. «Veramente mi chiamo…» «Sssh, Annie» la interrompo io, fingendo di rimproverarla. Paula le tende la mano e lei la stringe leggermente stizzita, lanciandomi un’occhiata di fuoco. Le sorrido candidamente in risposta, poi mi rivolgo nuovamente a Paula. «Siamo piuttosto affamate, qui. Che ci consigli?» «Oh, potrei portarvi un menù completo o un sandwich con patatine come contorno. Cosa preferite?» Lilian mi guarda, in attesa. Mi stupisco della sua educazione, non mi aspettavo certo che chiedesse il mio consenso per ordinare. Resto in silenzio più del dovuto, finché non è lei a parlare. «Per me andrebbe bene il sandwich. E le patatine, grazie. Jam?» Gli occhi acquamarina mi scrutano in attesa. Annuisco, ordinando lo stesso, e Paula si allontana al bancone. Sono ancora persa a crogiolarmi nella sensazione del tutto nuova di una persona che chiede a me se va bene. Così persa che non mi rendo conto che Lilian mi fissa incuriosita, e solo dopo qualche attimo torno in me. «Jam» dico, facendole il verso per prenderla in giro. Lei sorride, non cogliendo la provocazione, e si stringe nelle spalle. «Anche lei ti ha chiamato così, mi piace. Però visto che tu mi chiami Annie anch’io voglio chiamarti in un modo in cui non ti chiama nessuno…» si guarda intorno, poi prende un tovagliolino e mi porge una penna uscita magicamente dal suo zaino rosa «scrivimi il tuo nome.» «Perché?» Lei sbuffa, alzando gli occhi al cielo. «Fallo!» «Ma tu guarda se devo prendere ordini da una bambina. Cos’è, vuoi che ti faccia un disegnino mentre aspettiamo la pappa, Annie?» la stuzzico di nuovo, è più forte di me. Mi diverto troppo, è così spontanea e buffa quando si arrabbia. «Ma perché vuoi farmi arrabbiare a tutti i costi?» Fingo di pensarci su. «Oh, non saprei» le lancio un’occhiata pensosa, poi sorrido «mi piace.»

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I suoi occhi hanno un guizzo divertito, ma lo nasconde subito lanciandomi la penna. «Su, scrivi.» Prendo in mano la penna e scrivo pazientemente “Jameela” a grandi lettere, poi giro il tovagliolo nella sua direzione. «Ecco, così.» Lei lo scruta con attenzione, restando in silenzio per qualche minuto, e io mi soffermo a osservarla. I capelli lisci le cadono davanti al viso, dritti come spaghetti, e quando solleva un braccio tutti i braccialetti scivolano violentemente verso il gomito, tintinnando all’impazzata. Osservo il suo viso, dai lineamenti dolci, e mi rendo conto che tra qualche anno sarà ancora più bella di quanto lo è già ora. La mia radiografia critica è perfetta, e vorrei darle un paio di consigli su come truccarsi o sistemare i capelli per iniziare a valorizzare il suo viso. Ad esempio potrebbe iniziare a mettere il mascara, ha le ciglia così lunghe… «Ho trovato» esulta, interrompendo i miei pensieri. Gira il tovagliolo nella mia direzione e vedo che ha completamente scarabocchiato il mio nome, cancellando alcune lettere. «Cos’è questa roba, arte moderna?» dico io, sollevando un sopracciglio di fronte a quel caos. «Ma no…guarda» mi indica pazientemente uno scarabocchio in basso, che leggo ad alta voce: “Eela = Yla”. Mi zittisco, senza comprendere, poi la guardo di nuovo. «Yla?» Lei annuisce entusiasta. «Bello, vero?» «Sto saltando dalla gioia» dico con tono piatto, porgendole di nuovo il tovagliolo. Il suo viso si rabbuia subito. «Non ti piace? Yla… è carino. Anche se ho l’alternativa.» «Anche? Wow. Su, vediamo, quale sarebbe?» La osservo mentre scarabocchia qualcos’altro in tutta fretta, poi mi passa nuovamente il tovagliolo. Stavolta è più chiaro, c’è scritto: “Amee = Amy”. «Amy?» «Già» annuisce, illuminandosi appena «ti piace?» «Non capisco, non puoi semplicemente chiamarmi Jam?» faccio io, sventolando il tovagliolino. «Oh, no che non posso. Io devo distinguermi» dice lei, sorridendo soddisfatta «ti piace?» Ricambio il sorriso.

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«Annie e Amy. Mi suona tipo cartone animato, ma è divertente. E sai che ti dico? Anche Yla mi piace. Hai l’esclusiva, bambina, sei stata originale.» «In realtà però mi piace molto di più Jam. È più figo.» «Stai dicendo che hai cambiato idea?» «Naaah. Semplicemente posso chiamarti in tre modi diversi, quindi mi distinguerò in ogni caso.» Scoppio a ridere. «Ah, bambina… sei forte, sai?» «Anche tu, davvero.» Ci guardiamo con reciproca simpatia, e mi accorgo di stare stringendo ancora il tovagliolo tra le dita. Senza pensarci, lo piego con cura e lo metto in borsa. Lilian mi osserva incredula, poi sorride. «Lo tieni?» «Certo che sì. È un bel ricordo» dico, ma la sua espressione mi fa subito comprendere che è la cosa sbagliata da dire. «Che c’è?» «Oh, nulla» finge indifferenza, ma il suo viso è un libro aperto. «Avanti, bambina. Ti si vede in faccia che c’è qualcosa che non va. Non hai mica intenzione di piangere anche qui, vero?» tento di sdrammatizzare, e le strappo un mezzo sorriso. Lei tiene gli occhi bassi, torturando un altro tovagliolino, poi dice: «Hai detto che è un bel ricordo. Ti ricorderai di me, quindi.» «Sì. Ovviamente sì. Voleva essere una cosa carina, sai?» ironizzo, ma lei scuote la testa. Poi abbassa nuovamente gli occhi sul tovagliolo, e deglutisce a fatica. «Un ricordo devi averlo se una persona poi non la vedi più. Se la vedi sempre non ne hai bisogno, ce l’hai davanti agli occhi e non ti serve a niente.» Il suo tono di voce ha una nota di una tristezza indefinita, e mi tocca il cuore. La osservo silenziosamente fare a pezzettini il tovagliolo, poi mi decido a parlare. «Be’, non sempre. Per me un ricordo non è necessariamente qualcosa di una persona che non vedo più, ma anche qualcosa che appartiene a una persona per me importante. Non credi?» La osservo mentre soppesa le mie parole, apparentemente concentrata sul tovagliolo, poi finalmente alza gli occhi. «Forse hai ragione.» «Ovvio che ho ragione. E comunque per imparare ad andare sui tacchi avrai bisogno di almeno un anno di lezioni. Quindi ci vedremo molto spesso.»

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«Un anno? Scherzi?» «No, sono serissima. Con il tuo portamento da muratore sarà un miracolo se in un anno riuscirai ad assumere un tocco di femminilità.» Ecco, la sto provocando di nuovo. Ma preferisco vederla arrabbiata che triste, la tristezza non sono in grado di gestirla. La rabbia sì, è un fuoco che so domare facilmente. Lei si finge offesa. «Muratore?!» Scoppio a ridere, poi cerco di tornare seria e annuisco. «Bambina, guardati. Sei bella, anzi bellissima, ma questa felpa sformata e le scarpe da tennis non aiutano di certo a valorizzarti. Perché non indossi qualcosa di più femminile al posto di questa maglia gigantesca?» Lei osserva meravigliata la felpa bianca, quasi come se non sapesse nemmeno di indossarla. Le maniche sono arrotolate sui polsi due volte, e nonostante questo continuano a scivolarle sul dorso della mano. «Questa? Ma è fantastica… è di mio fratello.» Inarco le sopracciglia. «Di tuo fratello?» «Già» conferma lei, ignorando il mio tono sarcastico. È talmente orgogliosa che potrebbe arrivare a dire che è una felpa da donna, lo sento. «Ma non conta, cioè è praticamente una felpa da donna.» Appunto, come sospettavo. Resto in silenzio, fissandola in maniera eloquente. Lei ha il buongusto di arrossire appena, poi si stringe nelle spalle. «Be’, è unisex, okay? «Già meglio… ma comunque è enorme per te.» Lei scoppia a ridere. «Ci credo, mio fratello è alto quasi due metri!» «Davvero?» Lei annuisce compiaciuta, quasi fosse merito suo. Ancora una volta mi intenerisce, e le sorrido. «Be’ anche tu non scherzi, sei alta per la tua età. Non quanto me, sia chiaro» tiro indietro i capelli in un gesto da vamp, facendola ridere. «Già, tu sei altissima. Ma che lavoro fai? Scommetto che sei una modella, vero?» Il mio cuore sembra fermarsi, e impallidisco. Lilian mi osserva con gli occhi accesi di curiosità, aspettando una mia conferma. Resto in silenzio un po’ più a lungo del necessario, in preda al panico. Naturalmente non posso dirle la verità, è fuori discussione. Ma mentire in maniera così

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palese, spacciandomi per modella… no, non posso farlo. La mia bocca però è più veloce della mente, la bugia scivola tra le labbra fin troppo facilmente. «Sì, esatto. Non che fosse difficile immaginarlo, eh?» tento di scherzare, ma sento il cuore martellare in petto. Lilian mi osserva con un nuovo rispetto, ora. «Wow. Una modella. Figo!» Metto le mani avanti: «In realtà lavoro per un’agenzia pubblicitaria, non sono una di quelle modelle superfamose che finiscono sui giornali… non correre troppo con la fantasia, bambina» ecco, ora che ho introdotto la solita bugia dell’agenzia pubblicitaria mi sento più tranquilla. «E non fai delle sfilate? Non vai a Parigi, a Milano…?» chiede lei, ormai già partita con le fantasie più colossali. Io scuoto la testa, stringendomi nelle spalle. «Può capitare, ma dipende da tante cose» Decido di restare sul vago, ho paura di dirle troppo. E la cosa più strana è che non riesco a sentirmi tranquilla, vivo male ogni bugia. È la prima volta che mi accade, di solito è tutto così semplice… invece con questa ragazzina non ci riesco, è più forte di me. I suoi occhi turchesi sono così limpidi, e il modo in cui mi guarda mi fa rabbrividire: non ho mai visto tanto rispetto, tanta ammirazione negli occhi di una persona. È la prima volta che mi succede, il primo sguardo di stima che ricevo. Stima. È una parola, un vestito che mi sta stretto… forse perché non l’ho mai indossato prima. Ma è un vestito fittizio, un velo che ricopre la mia vera veste, un abito che questa bambina non può conoscere. E spero non conoscerà mai. «Cosa c’è?» mi chiede, leggermente preoccupata, vedendo la mia espressione afflitta. «Oh, nulla tesoro» mi riscuoto da quei pensieri e le sorrido con convinzione. Non mi rendo quasi conto di averla chiamata tesoro, è stato del tutto spontaneo, e lei arrossisce appena. Poi si schiarisce la voce, imbarazzata. «Quindi, tu potresti… cioè, se ti va, ovvio…» inizia a dire, ma poi si blocca. «Potrei cosa?» la incoraggio, sperando di tutto cuore che non mi chieda di portarla con me alle sfilate. «Potresti… mmmh… aiutarmi a trovare anche dei vestiti carini… per me, ecco.» Il suo tono imbarazzato mi fa sorridere. «Certo che posso. Andiamo a fare shopping assieme, ok?»

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«Davvero? Quando?» mi chiede incredula. «Quando vuoi. Oggi non credo sia il caso, però, immagino dovrai studiare» dico, sentendomi un’altra persona. Ho un tono così responsabile che potrei essere sua madre, ed è un ruolo in cui non mi riconosco per niente. Eppure, inizia a piacermi. «Sabato?» si mordicchia il labbro inferiore, speranzosa. Io annuisco, e lei sembra quasi sollevata. Poi si affretta a specificare: «Anche questo sabato, intendo. Va bene, vero?» «Cioè dopodomani, Annie?» «Sì.» «Perfetto» ci sorridiamo, felici, e in quell’istante arriva Paula con un vassoio. «Ecco il pranzo, ragazze. Buon appetito!» dice con tono allegro, servendoci i panini. Lilian la ringrazia, raggiante, poi torna a guardarmi. «Jam… ma tu oggi sei libera? In caso, potremmo anche…» Ancora prima che formuli il resto della domanda, la blocco e scuoto la testa. «Non pensarci neanche, bambina. Oggi studi, niente shopping anticipato.» Lei apre la bocca per protestare, ma la fulmino con uno sguardo, e lei richiude la bocca con espressione contrariata. Poi addenta il sandwich con forza, iniziando a masticare, e mangiamo in silenzio per qualche minuto. Io fingo di non accorgermi del suo improvviso malumore, mangiucchiando le patatine. «Jam…» ritenta lei, dopo qualche istante. «Niente da fare, bambina. Mangia.» Lei sbuffa, ma fingo di non accorgermene e reprimo un sorriso.

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LILIAN

Finisco il sandwich in silenzio, cercando di mantenere un’espressione offesa, ma non dura a lungo. Jameela sembra totalmente irremovibile, e comprendendo di avere di fronte un osso duro la rabbia sfuma in fretta. «E va bene, aspetterò fino a sabato» dico infine con tono rassegnato, rompendo il silenzio. Lei minimizza con un sorriso splendente. «Ti sembra così lontano? È soltanto dopodomani!» Prendo una patatina e la immergo nel ketchup. «È un’eternità, invece. Specialmente perché passerò due giorni a studiare, il mio migliore amico è ammalato e non posso uscire.» «Perché no?» chiede, incuriosita. Esito un secondo prima di decidere se dirle o meno la verità, poi incrociando i suoi occhi scuri capisco che mentirle non ha senso, se ne accorgerebbe subito. «Louis è il mio unico amico. O lui, o nessuno.» «Non posso credere che una ragazza carina come te abbia soltanto un amico… stai scherzando?» Scuoto la testa. «Purtroppo no. Cioè, in realtà avevo degli altri amici, prima…» inizio a dire, poi mi blocco. Non so se spiegarle o meno cos’è successo. Voglio dire, mi ha già beccata a piangere due volte, non vorrei farmi ribattezzare “la fontana” anche da lei. A questo punto è meglio essere chiamata bambina. «E poi cos’è successo? Ci hai litigato?» Ha un tono comprensivo, ma il suo volto è privo di morbosa curiosità. Ed è questo particolare che mi spinge a dirle cos’è successo. «Diciamo di sì. Se te lo racconto, non mi prendi per una sfigata cronica, vero?» Lei sorride, scuotendo la testa. «Non sei una sfigata.» «Fidati… dopo quello che sto per raccontarti, lo penserai.»

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«Non lo penserò» dice lei con tono rassicurante, e mi sorride di nuovo in quel modo tenero che mi sembra quasi una carezza. È un sorriso da mamma, un sorriso che mi ha fatto anche prima, e lo adoro. Mi fa sentire coccolata, e soprattutto abbatte ogni mia difesa. «Okay» dico, ricambiando il sorriso «due mesi fa mi sono messa con Rob, uno dei ragazzi più carini della scuola. Gioca a basket, come…» Mi interrompo, in preda al panico. No, questo non posso dirlo. Lancio un’occhiata di sbieco a Jameela, che mi sta ascoltando in silenzio, e deglutisco. «Dicevo, gioca a basket.» Lei finge di non accorgersi del mio panico improvviso, e le sono grata per questo. Poi annuisce per incoraggiarmi ad andare avanti. «È veramente… molto carino. Mi piaceva tantissimo, e ogni mattina il pensiero di incontrarlo a scuola mi rendeva felice di andarci. Incredibile, eh?» Jameela sorride. «Penso che l’unico motivo che possa rendere felice una ragazza di andare a scuola è l’idea di vedere il ragazzo che le piace… era così anche per me. Quando c’è qualcuno che ti interessa non vedi l’ora delle lezioni, dell’intervallo, di poterci stare vicino… ricordo ancora la mattina quando sceglievo con cura i vestiti da indossare perché lui mi trovasse carina.» Ha lo sguardo perso nei ricordi, e io annuisco, felice che possa comprendermi così bene. «Esatto, proprio così. Ho passato quasi un anno a guardarlo, a fantasticare su di lui, e finalmente il mio sogno più grande si era avverato: lui mi aveva notata, e mi aveva chiesto di uscire. Il giorno dopo siamo entrati a scuola tenendoci mano nella mano.» Sospiro, ricordando la felicità di quel momento, gli sguardi di tutte le ragazzine su di me, la mia maglietta nuova per l’occasione. «Siamo stati insieme per circa tre mesi, tre mesi spettacolari. A scuola stavamo sempre insieme, e uscivamo quasi ogni pomeriggio.» «E poi cos’è successo? Una catastrofe, immagino.» «Già. Circa due settimane fa, è cambiato tutto… era strano, diverso dal solito. Inventava milioni di scuse per non uscire, e a scuola mi evitava. Non lo capivo, e mi sfogavo con la mia migliore amica, Kate. Cercavo una spiegazione logica a quel modo di fare assurdo, ma nemmeno lei riusciva ad aiutarmi. Anzi, era più strana di lui. Lo difendeva, dicendomi che magari aveva problemi a casa…» «E invece, si era messa con lui» mi interrompe, scuotendo la testa. Il suo tono è totalmente rassegnato, non è una domanda.

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«Come lo sai?» faccio io incredula. Lei si stringe nelle spalle. «Mi sembra ovvio, no? Un’amica dovrebbe aiutare te, non difendere lui… almeno, una vera amica si comporta così di solito.» «Già. Soltanto Louis tentava di farmelo capire, ma io non ci credevo. Stavamo quasi per litigare, anche perché nemmeno lui ne era sicuro, ne aveva solo l’impressione.» «Questo Louis è perspicace per essere un maschio» commenta lei, colpita. «Be’, in realtà è gay» dico senza rendermene conto. Doveva essere un nostro segreto, e se viene a sapere che l’ho detto a qualcuno mi ammazza. «Cioè, forse. Non lo sa nemmeno lui» tento di rimediare. «Allora dovrebbe conoscere Willy, un mio amico. Lui è decisamente gay» Jameela sorride, pensando al suo amico «magari potrebbe chiarirgli le idee.» «Il fatto è che ha tre sorelle, è sempre cresciuto in mezzo alle donne.» «Non credo dipenda da quello, sai?» mi sorride dolcemente. «Non lo so. Forse dovrebbe parlare con il tuo amico, mi sa che è una buona idea. Lavora con te?» Il sorriso dolce lascia posto a un’espressione spaventata, e la guardo incuriosita. «Chi, Willy?» dice, sbiancando leggermente. «Sì, il tuo amico… il tuo amico gay» faccio io, cercando di capire cosa le sia preso. «Oh, sì. Sì, è uno stilista» afferma, poi ride in maniera leggermente innaturale. Che strano. Vorrei chiederle se è tutto a posto, ma mi anticipa. «Allora, cos’ha fatto il tuo amico?» «Dov’ero rimasta? Ah, sì. Louis sospettava che ci fosse dietro un’altra ragazza, e iniziava a dubitare di Kate. Un giorno stavamo quasi per litigare, ero così arrabbiata… gli dicevo che Kate non c’entrava nulla, non avrebbe mai potuto farmi un gesto simile. Non gli rivolsi la parola per tutta la mattina, e il pomeriggio me lo ritrovai sotto casa con il motorino. Senza dire una parola, mi porse il casco e mi portò davanti a casa di Rob. E lì, sul vialetto, c’era il motorino di Kate parcheggiato accanto al suo. Non riuscivo a crederci. Pensa che ricontrollai persino la targa per sicurezza, i miei occhi si rifiutavano di accettare la realtà.» Jameela scosse la testa. «Che stronza. Non hai certamente perso una grande amica, eh?»

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«Già» dico, con più amarezza del dovuto. Volevo davvero bene a Kate, ancora stentavo a capacitarmi di quello che aveva fatto. «Quindi piangevi per questo, al parco.» Annuisco, ma poi sorrido. «Appena mi insegnerai a camminare sui tacchi, però, al massimo piangerò per un paio di scarpe. Giusto?» Jameela scoppia in una risata cristallina. «Giusto, bambina, così ti voglio.» Finiamo di mangiare i nostri sandwich con gusto, e dopo questa confessione mi sento libera. Non so perché, ma so di potermi fidare di lei. La cameriera, Paula, arriva a prendere i nostri piatti quasi a passo di danza. Quando il proprietario è andato via ha acceso un piccolo stereo sul bancone, e serve tra i tavoli canticchiando canzoni dal ritmo latinoamericano. I clienti le sorridono, osservandola con ammirazione, e anche io e Jameela la guardiamo mentre prende le ordinazioni battendo i piedi a ritmo di musica. Dopo qualche secondo torna al nostro tavolo, portando due enormi coppe di gelato. Io la osservo senza parole mentre le appoggia davanti a noi, poi scuoto la testa. «Forse hai sbagliato tavolo, noi non avevamo ordinato…» inizio a dire, ma Paula sorride. «No, nessun errore. Regalo della casa!» La guardo, senza parole. «Oh, davvero? Wow, grazie mille Paula!» Lei si allontana volteggiando, poi fa un inchino a distanza. «A te, Annie!» «Veramente mi chiamo…» inizio a dire, ma Paula è già lontana, a servire un altro tavolo. Incrocio lo sguardo di Jameela e la fulmino con un’occhiata, ma lei continua a ridere, incurante della mia frustrazione. Lentamente mi sciolgo in un sorriso anch’io. Adoro questa donna. Usciamo dal locale tra le mie proteste e i tentativi di zittirmi di Jameela, mentre Paula ci osserva con il suo perenne sorriso cordiale e ci fa un cenno di saluto con la mano. «Non è giusto, almeno lasciami pagare la mia parte!» Jameela scuote la testa, tirando dritto. «Non se ne parla neanche. Offre la casa, oggi.»

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«Grazie, ma… mio fratello non vuole che qualcuno mi offra da mangiare. Dice che è pietoso.» Lei mi scocca uno sguardo stupito. «Non c’è nulla di pietoso, è un gesto d’amicizia. Tuo fratello sa cosa significa questa parola?» Mi stringo nelle spalle, contenta che abbia detto che è una cosa da amiche. «Jack è un tipo molto orgoglioso. E molto solitario» mi sento in dovere di difenderlo. «È una vera sfortuna essere entrambe le cose. L’orgoglio e la solitudine insieme sono terribili, perché uno è causa dell’altro. Quanti anni ha tuo fratello? Dev’essere molto più grande di te, immagino.» «Ne ha venticinque, dieci in più di me.» Jameela si blocca. «Cosa? Come può un ragazzo di venticinque anni essere solitario? Ha solo tre anni in meno di me…» il suo tono si fa pensieroso. Quindi lei ha ventotto anni. Wow. È strano, ma gliene davo di più. Sembra così… vissuta. Non so perché, ma mi da questa sensazione. Anche se questo non toglie nulla alla sua bellezza mozzafiato. Del resto è una modella, no? «Prima non era così. Giocava a basket anche lui, era felice. Quando papà è morto, però…» dico, senza pensarci. Poi il sangue mi ghiaccia le vene, e mi sento come se mi avessero versato un secchio d’acqua gelida in testa. Perché l’ho detto? Perché? Non ho il coraggio di alzare gli occhi su Jameela, e restiamo in un orribile silenzio per qualche attimo. Mi sento come paralizzata. Poi lei mormora a bassa voce: «Anche mio padre è morto, sai? Il mio vero padre, intendo, mio padre adottivo. Per me era lui mio padre, lo amavo profondamente. È stato un duro colpo, e per un certo periodo anch’io ho vissuto in completa solitudine. Ora che ci penso» continua con un sospiro «credo di capire tuo fratello. Mi sono comportata allo stesso modo, ogni gesto da parte degli altri mi sembrava un segno dettato dalla compassione. Poi per fortuna sono cambiata. Vedrai, tesoro, succederà lo stesso anche a lui. Ci vuole solo un po’ di tempo.» Annuisco, tenendo gli occhi bassi per non mostrarle le mie lacrime, ma mi rendo conto che sto tremando sotto la felpa di Jack. E probabilmente lei se ne accorge, perché a un certo punto il suo profumo incantevole mi penetra le narici e le sue braccia mi stringono forte. Resto per qualche istante immobile, poi la abbraccio anch’io. Devo quasi sollevarmi sulle punte per

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stringerla, ma lei sembra non farci caso e mi accarezza i capelli per un’eternità. Dopo qualche minuto accosta le labbra al mio orecchio e sussurra: «Stai battendo ogni record con questi pianti improvvisi, bambina. Piangerai anche quando indosserai i tacchi, a questo punto?» Le lacrime lasciano posto a un piccolo sorriso, e ci stacchiamo delicatamente. I suoi occhi neri sono lievemente lucidi, ma sorride. Mi accorgo di averle completamente inzuppato il top dorato sulla spalla, e mi scuso. «Sabato te lo ricompro. Promesso.» «Scherzi?» scuote la testa, quasi indignata «questo è esclusivo, collezione Annie autunno-inverno. Top dorato con lacrime di Annie, un pezzo unico.» Mi fa di nuovo ridere. «Lo indosserai alla prossima sfilata?» Lei sembra esitare di nuovo, o forse è solo una mia sensazione. Poi annuisce. «Certo che sì.» Tiro fuori il cellulare dalla tasca, controllando l’ora. Sono quasi le quattro, il tempo è volato. «Jam, devo andare.» «Già, credo sia il caso. Mi raccomando, studia. Altrimenti sabato niente shopping.» Alzo gli occhi al cielo. «Oddio, questo tono da mamma non mi piace per niente. Non potresti comportarti da sorella maggiore? Mi mette meno ansia, almeno.» Lei mi lancia un’occhiata furba. «No, fidati, preferisco il ruolo di madre. Una sorella maggiore non ha tutto questo potere» sorride di nuovo, e resto come sempre abbagliata dalla sua perfezione. «E mamma sia. Mi dai il tuo numero di cellulare?» le dico, agitando il telefonino davanti al suo viso. «Che fai, ci provi?» mi prende in giro lei, facendomi ridere. «Sai com’è, mica mi capita tutti i giorni di incontrare una modella…» le rispondo tra le risate, ma improvvisamente la sua si spegne. Poi ride di nuovo, ma i lineamenti del suo viso sono improvvisamente tesi. Che le prende? C’è qualcosa, ma non riesco a capire… «Tutto bene?» chiedo, un po’ preoccupata. Lei sembra riscuotersi, ma il suo sorriso è ancora forzato. «Certo. Su, dammi il cellulare. Ti scrivo il numero.»

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Glielo porgo in silenzio, poco convinta, e la osservo mentre digita velocemente sui tasti. «Wow, sei veloce» non posso fare a meno di notarlo, stupita. Lei alza gli occhi su di me con aria di superiorità. «Cosa credevi, bambina? Sono una mamma moderna, io.»

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UN RICORDO Una volta a casa, Lilian si concesse un lungo bagno caldo, sorda alle proteste di Jack che le intimava di fare in fretta. Non c’era alcuna fretta, in realtà, semplicemente suo fratello era pignolo. «Sto uscendo, sto uscendo» mormorò, richiudendo gli occhi e scivolando più in basso tra la schiuma. «Muoviti» disse Jack contro la porta, tenendo tra le braccia i vestiti da stirare. Era stanco, nervoso e infastidito dall’improvviso buonumore della sorella. Amava Lilian con tutto sé stesso, ma lo preoccupava la sua ingenuità sconfinante nei limiti dell’assurdo. Sua sorella era la reincarnazione di Alice nel paese delle meraviglie, probabilmente Carroll si era ispirato a lei per il suo personaggio. Quando finalmente si decise a uscire dal bagno, osservando la sua aria beata l’apostrofò bruscamente. «Lil, senti un po’…» disse, seguendola fino alla sua stanza. «Mmm?» rispose lei, guardandosi nello specchio con occhio critico e iniziando a pettinare i capelli bagnati lentamente, con dolcezza. «Non ti sarai rimessa con Rob, vero?» proruppe, ergendosi nel suo metro e novantasette. Lilian spalancò gli occhi, girandosi verso il fratello. «Che razza di domande sono? Certo che no!» Jack si strinse nelle spalle, sentendosi improvvisamente sollevato. «No, mi sembrava. Così.» Lilian scosse la testa, ricominciando a pettinarsi. Osservò il fratello andare via guardandolo dallo specchio, con le braccia cariche di panni. «Jack?» lo chiamò dalla camera. «Cosa c’è?» urlò lui di rimando. Lilian si fissò nello specchio per qualche istante, poi disse: «Vuoi una mano a stirare?» «No, faccio io» rispose, tornando indietro e guardandola dalla porta «comunque, grazie.» «Di che…» mormorò Lilian, incapace di aggiungere altro.

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Avrebbe voluto parlargli di Jameela, di come si erano conosciute, dell’mp3, delle scarpe… avrebbe voluto dirgli tante cose, ma non disse nulla. E le parole non dette sono come sassi lanciati nel mare, affondano e restano lì, tra gli abissi… in attesa che qualcuno le scambi per conchiglie e le riporti in superficie, pronto a sapere la verità. Lo specchio rifletteva il suo volto pensieroso, e Lilian rimase lì a fissarsi in silenzio per qualche istante. Poi i suoi occhi si spostarono sul cappellino poggiato sul comodino. La scritta “Tornados” era ricamata in lettere rosse scintillanti sulla tela blu scuro, e accanto al cappello c’era la fotografia del padre durante una partita. Lilian conosceva a memoria quella foto, sapeva descriverla nei minimi particolari, probabilmente si sarebbe consumata a furia di guardarla. Eppure, ancora una volta, ci si avvicinò. Il padre era sospeso in volo, in procinto di segnare il punto decisivo, la palla stava per sfiorare il canestro. E negli occhi del padre, durante quel salto, c’era già una luce di trionfo. Sapeva che la palla sarebbe entrata. Sapeva che avrebbero vinto. I capelli biondi svolazzavano attorno alla fascia blu che gli avvolgeva la fronte, un regalo della mamma. Era bellissimo, e quella foto ne esaltava il corpo muscoloso e l’altezza, degna del suo ruolo di campione. «Ciao, papà» mormorò Lilian, sfiorando con le dita la cornice argentata «oggi ho trovato un’amica, sai? Sono contenta. Ti sarebbe piaciuta tanto.» Si guardò alle spalle con circospezione, poi sussurrò: «Forse piacerebbe anche a Jack, ma non gliel’ho ancora presentata. Lui è sempre così burbero, papà.» Sorrise appena, toccandosi le labbra con la punta delle dita. Poi avvicinò le dita che aveva baciato al volto del padre, lasciando un piccolo alone sul vetro della cornice. Con un sospiro si allontanò dalla stanza diretta in cucina, ma improvvisamente si ricordò di una cosa. Mentre tornava a casa, su una bancarella, aveva trovato dei portachiavi carini. Era rimasta colpita da un portachiavi in particolare, con appeso un pallone da basket in miniatura. L’aveva subito comprato, senza pensarci due volte, e aveva fatto incidere sull’acciaio il suo nome e quello del fratello. Aprì in fretta lo zaino, e prese tra le mani la piccola busta che conteneva il portachiavi. «Ehi, Jack. Vieni un secondo.» Dopo qualche istante sentì i passi del fratello lungo il corridoio. «Sto stirando, Lil, cosa c’è?» «Vieni» lo incitò a entrare in camera, sorridendo. Jack la guardò, incuriosito, poi i suoi occhi si abbassarono sul pacchettino.

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«Cos’è?» «Un pensiero per te. L’ho visto e mi sei venuto in mente. Tieni.» Gli porse il pacchetto con un sorriso, in attesa. Lo osservò mentre lo scartava lentamente, e cercò di indovinare la sua espressione mentre posava sul dorso di una mano il portachiavi. I suoi occhi si soffermarono sulla pallina da basket, poi sull’incisione. «Lil…» iniziò a dire, cercando parole che non riusciva a trovare. I suoi occhi turchesi luccicarono appena, poi scosse la testa. «Perché?» Lilian si morse un labbro, stringendosi nelle spalle. «Pensavo ti sarebbe piaciuto, Jake… a papà sarebbe piaciuto tanto» sussurrò, volgendo gli occhi in direzione della fotografia. Jack deglutì sonoramente. «Certo che mi piace. È… è bellissimo. Io… grazie. Grazie mille. Solo non capisco… ecco…» esitò, alzando gli occhi sulla sorella. «È un ricordo, Jake» tentò di giustificarsi, alzando le mani in segno di resa. Lui la guardò con espressione amara. «I ricordi sono dolorosi» disse, stringendo con forza il portachiavi tra le dita, e gli occhi turchesi si spostarono sulla fotografia. Lilian scosse la testa, avvicinandosi lentamente e prendendogli le mani. «Non sempre, fratellino. Un ricordo non è necessariamente qualcosa di una persona che non c’è più, sai?» disse, citando le parole di Jameela. Jack la guardò con vivo interesse, stupito da quelle parole. Rimase in silenzio, attendendo che riprendesse a parlare, e fissò lo sguardo sulle loro mani strette. Il portachiavi penzolava dall’indice di Lilian. Lei inspirò profondamente, poi sorrise. «Un ricordo può anche essere qualcosa che appartiene a una persona per me importante, che guardando quell’oggetto possa pensare a me. Per fargli ricordare che gli voglio bene» alzò gli occhi sul fratello, con un sorriso incerto «come io voglio bene a te, fratellino.» Le braccia di Jack l’avvolsero stretta, e lei si aggrappò a quell’abbraccio con tutta sé stessa. Lui non riusciva a parlare, troppo commosso da quel gesto inaspettato. Dopo qualche istante la lasciò andare, accarezzandole una guancia. «Grazie. Grazie, Lil.» Si sorrisero, poi Jack la guardò con una nuova curiosità. «Chi ti ha detto queste parole?» Lilian esitò un istante prima di rispondere, poi si decise. «Oh, una mia grande amica.»

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Gli sorrise incoraggiante, come per dare veridicità alle sue parole, e poi lo abbracciò di nuovo con entusiasmo. Jack non poté fare a meno di ricambiare l’abbraccio, sciogliendosi in un sorriso.

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JAMEELA «Allora, come mi sta?» la voce di Lilian è carica d’entusiasmo mentre sposta la tenda del camerino. Mi sorride, raggiante, facendo una giravolta su sé stessa. Indossa un abito giallo canarino che fa a pugni con il colore dei suoi capelli, e oltretutto è talmente alta che il vestito le copre a malapena metà gamba. Sospiro, aspettando che si spenga un minimo del suo devastante entusiasmo. Poi incrocio il suo sguardo carico d’attesa. Mi dispiace smontarla, ma non posso mentire. I miei occhi cadono sulle All Star rosa che continua imperterrita a indossare, e che sotto un abito del genere stanno davvero male. «Jam?» Un altro sospiro. Mi faccio coraggio, con lei bisogna essere schietti anche a costo di offenderla. «Annie, è orrendo. Voglio dire, il vestito in sé è carino…» aggiungo, cercando di rimediare vedendo la sua espressione affranta. Forse sono stata troppo dura. «Ma sono io che non ci sto bene, giusto?» mi interrompe, afflitta. «No, no, no! Ma che dici!» le appoggio le mani sulle spalle, scuotendo la testa. «Tu sei perfetta, ma questo… be’, questo non è l’abito adatto. Soprattutto con quelle scarpe.» Lei si guarda i piedi, poi torna a voltarsi verso lo specchio. «Sì, in effetti…» ammette dopo qualche minuto. Io incrocio le braccia sul petto, trattenendo l’istinto di alzare gli occhi al cielo. «Ora, vuoi ascoltarmi e indossare quello che ti consiglio io o dobbiamo continuare a scegliere abiti a caso?» I suoi occhi incontrano i miei nello specchio. «Hai campo libero, scegli tu.» Sorrido, soddisfatta, e le dico di aspettarmi lì. Mi avvio a grandi passi verso il reparto donna, osservando con occhio critico tutti i capi esposti.

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Faccio un giro completo radiografando ogni cosa, sotto lo sguardo della commessa che sta piegando dei jeans con aria annoiata. Poi mi fermo e torno indietro, prendendo rapidamente tutto ciò che mi sembra adatto. Tutto questo non richiede che pochi minuti, e ritorno a passo svelto verso i camerini con una montagna di vestiti tra le braccia. Lilian è ancora davanti allo specchio, ma sentendo il ticchettio delle scarpe sul pavimento si volta e resta a bocca aperta. «Hai svaligiato il negozio?» Io sorrido. «Tu entra in camerino e inizia a toglierti quella specie di canarino morto di dosso, ci penso io a passarti i vestiti.» Lei osserva la pila di roba con espressione preoccupata. «Non potrò mai permettermi tutti questi abiti, Jam. È praticamente un intero guardaroba nuovo! Mio fratello mi ucciderà…» dice, mangiucchiandosi un’unghia. Io le accarezzo una guancia scuotendo la testa, nonostante sia compiaciuta dal suo senso di responsabilità. «Non preoccuparti, ora. Pensa solo a provarli, su.» Le porgo un paio di jeans attillati, perfetti per esaltare la sua figura alta e snella, ma lei li osserva con aria dubbiosa. «Questi?» Annuisco. «Provare per credere. E da sopra metti questo top» le appoggio sulla spalla un top bianco con ricamate delle paillettes sui bordi «e poi questa camicia turchese.» Lilian entra nel camerino con la faccia rassegnata, ma non le bado. Mi siedo su un comodo pouf davanti alla sua cabina e accavallo le gambe, in attesa. Un commesso passa con le braccia colme di vestiti e mi sorride, ma lo ignoro, osservando i piedi nudi di Lilian sotto la tenda mentre indossa i jeans. «Jam!» mi chiama, in preda al panico «sono stretti!» Mi abbasso leggermente e trattengo una risata nel vedere i pantaloni infilati a metà. La tenda mi nasconde il resto, ma mi basta per capire. «Annie» dico con tono paziente «sono semplicemente aderenti. Se, anziché quegli orribili pantaloni sformati, tu indossassi più spesso questi, ti troveresti benissimo.» «Impossibile. Mi stanno strangolando le gambe.» Alzo gli occhi al cielo, incrociando le braccia sul petto. «Digli di respirare dalle ginocchia, possono resistere.» La sento sbuffare dietro alla tenda.

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«Molto divertente» mormora, ma poi inizia a saltellare come una forsennata nel tentativo di farli salire lungo le gambe. «Ti aiuto?» le chiedo, incerta. «No!» ha la voce affannata, e mi viene ancora più da ridere. Finalmente sento la zip salire. «Ce l’ho fatta» dice con una certa soddisfazione, poi resta in silenzio. Sorrido tra me, immaginando lo sguardo stupito che si sta lanciando nello specchio, e dico: «Ti ammirerai dopo, ora indossa il top e la camicia.» Dopo qualche secondo sento i suoi mormorii di soddisfazione mentre si ammira allo specchio, e non posso fare a meno di sentirmi fiera di me. «Annie? Esci, su, voglio vederti.» Lei scosta lentamente la tenda, e prima dei suoi vestiti vedo i suoi occhi acquamarina più luminosi che mai. I pantaloni aderenti slanciano la sua figura più di quanto credevo, e mi accorgo che ha delle gambe davvero molto belle. Il top si indovina sotto la camicia solo all’altezza del petto, dove alcune paillettes brillano e attirano l’attenzione. Ma il pezzo forte, come immaginavo, è la camicia turchese: la fa scintillare, in perfetto contrasto con i capelli biondi che sembrano ancora più luminosi. «Wow. Sei stupenda, bambina» le dico guardandola con ammirazione. Lei arrossisce appena, poi si osserva di nuovo con aria critica. «In effetti…» sussurra, alzando un sopracciglio. Si volta verso di me, portando le mani davanti al viso e urlando improvvisamente: «Sono uno schiantooo!» Mi butta le braccia al collo, facendomi quasi cadere dal pouf, e io non posso fare a meno di ridere stringendola forte. «Che ti avevo detto? Devi solo scegliere gli abiti giusti.» Lilian si discosta leggermente, tenendomi sempre le braccia al collo e sedendosi praticamente sulle mie gambe. «Lo so, è solo che sembravano cose così semplici!» Ha le guance arrossate per l’entusiasmo, il suo solito entusiasmo contagioso. I suoi capelli mi solleticano il collo, ma non li sposto. È così strano tenerla tra le braccia. Le sorrido. «Ma infatti i vestiti migliori sono quelli semplici. La semplicità è il segreto di ogni cosa ben riuscita, non lo sai? E poi, detto sinceramente, dove pensavi di andare con quell’orrendo abito canarino?» faccio io, storcendo il naso. In quel momento una donna scosta la tenda della sua cabina, indossando l’abito giallo che poco prima aveva provato Lilian, e mi sento morire.

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Dallo sguardo di fuoco che ci lancia, è evidente che ha sentito il mio commento. Tento di riparare schiarendomi la voce: «Ehm… quell’abito di prima, con i ricami verdi sulle tasche, intendo.» Lilian sta per scoppiare a ridere, ma annuisce lanciando un’occhiata di sbieco alla donna, che sta osservando con sollievo la mancanza di ricami verdi sulle tasche. «Sì, ho capito quale. Che orrore!» dice, portandosi una mano alla fronte. Faccio uno sforzo tremendo per non ridere, poi le passo un’altra t-shirt, stavolta rosso rubino, con un disegno floreale sul fianco. Lilian la prende con aria incuriosita. «E questa? Ma è lunghissima. Ed è stretta. Sei fissata con le cose attillate o sbaglio?» «Sei alta e snella, è il tipo di vestito che ti sta meglio. Di sicuro, meglio dei maglioni enormi di tuo fratello.» Lei sorride, poi mi stampa un bacio sulla guancia. «Mi fido di te, la provo.» Io la caccio con un gesto della mano, fingendomi distaccata, ma dentro di me sorrido. Sotto i modi di fare bruschi e la testardaggine in realtà si nasconde una ragazza dolcissima e affettuosa. Ora che ha smesso di stare sulla difensiva, Lilian si sta mostrando per ciò che è realmente: un’adolescente come tante altre, insicura e a tratti forse spaventata. E di fronte a tutto questo mi è scattato interiormente uno strano meccanismo materno, che mi porta a difenderla e a volerle insegnare cos’è la vita. Proprio io, che faccio la morale e mi comporto da madre. Io che nella vita credo di non poter più insegnare molto, mi sto riscoprendo una persona nuova. Lilian non sa chi sono, e la stima che leggo nei suoi occhi per me mi riempie il cuore. Non posso deluderla, voglio farle credere di essere quello che pensa che io sia. O meglio, quello che le ho fatto credere, alimentando le sue fantasie. Una modella. Mi viene quasi da ridere. Un tempo, in effetti, lo ero. In fondo non è del tutto una bugia, quando lavoro con Paula per i servizi pubblicitari è un po’ come se lo fossi. Mi tornano in mente le sfilate da ragazzina, e sorrido. Una modella. Se questo può farti felice, bambina mia, questo sarò ai tuoi occhi. «Come mi sta?» Lilian scosta la tenda così in fretta che la cabina sembra tremare. Alzo lo sguardo riprendendomi dai miei pensieri e sorrido. «Stupenda. Visto?» dico, cercando di dare alla mia voce un tono squillante.

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Poi però la guardo meglio, e nonostante le stia davvero molto bene c’è qualcosa che non va. Qualcosa tra lo sterno e la gola, per l’esattezza. Lei segue i miei occhi e li abbassa sul suo petto, poi ci appoggia le mani con espressione rassegnata. «Ehm… qui purtroppo la casa non mi ha dato molto in dotazione.» Alzo un sopracciglio, cercando di non ridere. «Hai quindici anni, tesoro.» Lilian fa un cenno verso il mio seno. «Scommetto che se ora hai due tette del genere alla mia età avevi già una seconda abbondante… vero?» «In realtà, una terza» stringo le labbra per non ridere alla sua espressione sconvolta. Lei scuote la testa, rassegnata. «C’è chi ha tutte le fortune, eh?» Io aguzzo lo sguardo sul suo seno quasi inesistente, poi comprendo. «Seconda?» Lilian si stringe nelle spalle, poi si guarda intorno imbarazzata. Avvicinandosi, mi sussurra: «In realtà non ne ho idea. Forse.» La guardo inorridita. «Non sai la tua taglia? Stai scherzando, bambina?» Lei poggia l’indice sulle labbra, pregandomi di parlare a bassa voce. «Sssh. È imbarazzante, okay? Ma non ho mai… cioè… capito?» Purtroppo credo di aver compreso, e scuoto lievemente la testa. «Dopo andiamo nel reparto intimo, a comprare un reggiseno decente. Non posso credere al fatto che indossi quella sottospecie di top elasticizzato con due stringhe laterali, è un insulto al tuo seno. Sono cose che puoi indossare a dieci anni, non a quindici!» «Ma non ho seno!» protesta lei, portandosi nuovamente le mani al petto. Io le lancio un’occhiata eloquente. «Sì che ce l’hai, ma per il momento è poco, e non lo aiuti di certo a svilupparsi se lo tieni compresso in un top da bambina. E poi ci sono dei reggiseni fatti apposta per esaltare quel… mmm… quel poco che c’è, diciamo. Mai sentito parlare di push-up, bambina?» Lei mi osserva sconcertata. «Push che?» Alzo gli occhi al cielo, poi prendo una gonna jeans e una maglia rosa e gliela porgo con aria tragica, facendola ridere. «Oddio, Annie, va a provare questi mentre assimilo il peso della tua ignoranza.»

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La guardo mentre tira la tendina, sempre ridendo, e poi quando esce dal camerino la faccio felice dicendo che con questa gonna e la maglia rosa le sue amatissime scarpe da ginnastica possono andare. Come immaginavo la notizia la rende felice, e nei dieci minuti successivi prova con gioia crescente un’altra serie di vestiti che sembrano disegnati su misura per lei. È perfetta. È bellissima. Sono talmente orgogliosa di lei che inizio davvero a sentirmi sua madre. Già, sua madre. La tristezza mi assale mentre immagino la bellissima donna che doveva essere, e mi chiedo cupamente come sia morta. Dev’essere stato un duro colpo per Lilian, perdere entrambi i genitori così giovane. Sarà accaduto nello stesso istante, o in due momenti successivi? I pensieri corrono veloci, facendo accavallare le domande, ma poi mi riscuoto. Non voglio pensarci, né chiederle mai nulla di simile. Quello che voglio è darle le piccole dritte che ogni madre dà alla propria figlia negli anni dell’adolescenza. Il fatto che a Lilian sia mancata una figura materna che le indicasse i vestiti giusti, persino l’intimo da indossare, mi rattrista. Sono piccole cose, forse banalità, ma fanno comprendere quanto una madre sia indispensabile negli anni dell’adolescenza. Mi torna in mente il maglione che indossava, quello di suo fratello, e sorrido amaramente. Come può esaltare la sua femminilità, se non ha un modello da seguire? Lilian si para davanti a me, indossando dei pantaloni viola scuro con una maglia bianca. «Be’, non dici niente? In fondo è solo la dodicesima mise diversa che mi vedi addosso» ride, scostandosi con le dita i capelli che le coprono il viso. In quel momento noto qualcosa a cui non avevo mai fatto caso prima: al pollice indossa una fede d’oro puro, che brilla sulla sua pelle chiara. Lilian segue il mio sguardo e avvicina la mano al mio viso, mettendo la fede ben in vista. Non dice niente, aspettando che sia io a parlare, ma la mia mente è un foglio bianco. «Era di tuo padre, vero?» chiedo banalmente. Lei annuisce, poi mi sorride e restiamo per qualche attimo in silenzio. «Non mi hai ancora detto come sto, vestita così» dice improvvisamente con tono allegro. Cerco di dare al mio tono un po’ di vivacità. «Che domande fai? Ti sta d’incanto. Semplice, ma elegante… mi piace. Del resto, l’ho scelto io» dico, facendola ridere. Poi però torna a guardarmi con espressione preoccupata. «Mmm… però se prendo anche questi arrivo a quota dodici t-shirt, un top, una camicia, due gonne e cinque paia di pantaloni. Non è un po’ troppo?»

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Io fingo di pensarci su mentre lei attende ansiosamente la mia risposta. Poi esclamo: «Certo che è troppo! È eccessivo, esagerato, smisurato…» mi blocco per un attimo, poi le sorrido con aria furba «ed è proprio per questo che è perfetto così! Se è esagerato, è adatto a una vera donna.» Lilian ride, sollevata dalle mie parole. «Un po’ come i tacchi, no?» Annuisco compiaciuta. «Vedo che impari in fretta, bambina.» Poi mi volto in direzione del camerino, dove regna il caos più totale. In effetti, ho un po’ esagerato con le quantità. Mi sa che forse, dopotutto, non le servono davvero proprio tutti quei vestiti. Però è così bello vederla indossare cose nuove e farle comprendere che ci sono abiti che ne esaltano la sua bellezza che non mi importa niente. È una ragazza, e quindi ha diritto ad avere un armadio strabordante di abiti, no? No, okay, forse non ne ha diritto. Però voglio renderla felice, e non mi importa se sto sbagliando metodo. Forse la sto viziando, forse sto sbagliando tutto… ma sto seguendo il cuore, e per quanto sia sbagliato è la strada che preferisco, il sentiero a me più noto. Mi guardo intorno e vedo uno strano abito verde muschio, tutto attorcigliato. Lo prendo e lo osservo con aria critica. Non mi piace nemmeno un po’, ma questi lacci particolari sono perfetti per tenere occupata Lilian qualche minuto. Glielo porgo con aria reverenziale. «Ultimo abito. Promesso. Devi indossarlo, sento che è perfetto per te.» Lei lo osserva un po’ scettica, dando un’occhiata ai lacci. «Ne sei proprio sicura? Senza offesa, ma sembra orribile. Hai perso il tocco magico, mamma?» mi prende in giro, prendendo il vestito con due dita come se fosse un sacco d’immondizia. Io la spingo verso il camerino, entrando con lei. «Fidati di me, figlia ingrata. Prima però portiamo fuori tutti questi abiti, direi che il camerino è già abbastanza piccolo senza infilarci dentro tutto il tuo nuovo guardaroba, non trovi?» Raccatto velocemente gli abiti ed esco, barcollando sotto il peso dei mille vestiti. Oddio, abbiamo davvero esagerato. Me ne rendo conto solo ora, ma non posso fare a meno di sorridere. Non mi importa. Aspetto che Lilian chiuda la tenda e mi allontano in fretta, in direzione della cassa. La commessa mi guarda con gli occhi spalancati vedendo una montagna di abiti avvicinarsi su un paio di tacchi vertiginosi, e l’espressione stupita rimane identica anche quando mollo la pila di vestiti sul bancone.

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«Prendo questi» dico senza troppe cerimonie, e la guardo mentre con l’entusiasmo di un bradipo prende la t-shirt rossa e la piega lentamente. La sua calma mi innervosisce, e mi rendo conto che pur essendoci una ventina di lacci, Lilian finirà sicuramente di vestirsi prima che la commessa abbia finito. Senza pensarci due volte, sfodero la mia carta di credito. «Senta, io sono lì dentro, mia figlia sta provando altri abiti. Quando uscirà verrò qui a ritirare tutto, questione di qualche minuto. Nel frattempo le lascio la carta, faccia lei.» La commessa annuisce, quasi totalmente indifferente, e io me ne vado a grandi passi. Poi ci ripenso e torno indietro. «E non provi a passare due volte lo stesso abito, guardi che la controllo dal camerino. Grazie.» Nessuna reazione, sta ancora piegando la prima maglia. Alzo gli occhi al cielo e mi allontano verso i camerini, dove Lilian mi aspetta con aria incuriosita. «Dov’eri finita?» Le sorrido. «Avevo visto un abito carino, stavo cercando la tua taglia.» Lilian strabuzza gli occhi. «Un altro?» Mi stringo nelle spalle, lanciandole un’occhiata d’intesa. «Be’, se non è esagerato non fa per noi, no?» Lei ride, scuotendo la testa, e poi si decide a scostare la tenda per mostrarmi il vestito. Avevo ragione, è decisamente tremendo. Ci guardiamo un istante con serietà, poi scoppiamo a ridere. Lilian si asciuga le lacrime, sempre ridendo. «Vedi, è come pensavo! Ti si è scaricata la batteria, non sei più la stylist di mezz’ora fa!» «Attribuisci questo duro colpo alla mia stanchezza, sii buona!» Congiungo le mani in un gesto di preghiera, poi gli occhi mi cadono di nuovo sull’abito e non riesco a trattenere una seconda risata. «Oh Dio, bambina, toglilo immediatamente ti prego. Sembri un esperimento mal riuscito. Lei tira la tenda, sempre ridendo, e io ne approfitto per dare un’occhiata al di fuori dei camerini. La commessa sembra stia piegando la gonna, tutti gli altri vestiti sono spariti all’interno di un voluminoso sacchetto. Fantastico, ce l’ha fatta. In quell’istante alza gli occhi e incrocia il mio sguardo. Immediatamente la gonna sparisce nel sacchetto del negozio e la vedo prendere la carta di

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credito. Oh, finalmente si è decisa. È incredibile quanto potere abbia uno sguardo di fuoco su un bradipo del genere. Dopo qualche minuto, Lilian esce dal camerino con i suoi abiti di sempre, e mi trattengo dal chiederle di cambiarsi e indossare uno dei vestiti nuovi. So che ci rimarrebbe male anche perché, come mi ha detto prima, non capisce cosa ci sia di tanto brutto in quella meravigliosa camicia a quadri di suo fratello. Di tre taglie più grande, arrotolata intorno al suo vitino da vespa. Oddio, è inguardabile. Gli occhi acquamarina si fissano nei miei, divertiti. «So cosa stai pensando e… okay, ti do ragione. Dopo aver provato tutta quella roba favolosa, direi che mi sta meglio la gonna con la maglia rosa. Dici che posso indossarla subito, appena pago?» Io annuisco con aria teatrale, poggiandomi una mano sul petto e sospirando. «Spero proprio di sì.» Lei ride, dandomi dell’esagerata, ma quando ci avviciniamo alla cassa e la commessa le porge il sacchetto con tutti i vestiti ordinatamente - e lentamente – piegati, il suo sorriso svanisce. Io firmo velocemente lo scontrino, fingendo di non accorgermi del suo sguardo attonito. Saluto la commessa con un sorriso a labbra strette, spingendo Lilian verso l’uscita, ma lei resta immobile. «Oh, no. No. No. Non se ne parla» dice, iniziando a protestare. Io le poggio un dito sulle labbra e sorrido. «Sssh, bambina. È tutto okay, è un regalo. Va bene?» Lilian scuote la testa. «No, non va bene… è assurdo, ho preso mezzo miliardo di abiti. Avrai pagato una cifra assurda, e io volevo fare una selezione di quello che avrei comprato! Non potevo permettermi tutto… e tu hai pagato per me.» Le appoggio le mani sulle spalle, guardandola dritto negli occhi. «Non ho pagato per te. Ti ho regalato dei vestiti, è diverso. L’ho fatto con il cuore, Annie» mormoro, dicendole la verità. Lei deglutisce, spostando lo sguardo altrove. «Lo so e ti ringrazio, ma…» «Ma Jack si arrabbia se qualcuno paga al posto tuo, giusto? Be’, il fatto è che Jack non saprà nulla.» Le sorrido incoraggiante, ma mi accorgo che è ancora dubbiosa. Alla fine sbotto: «Andiamo, bambina, sono o non sono tua madre? È la mamma che paga, almeno nel nostro caso. Okay?»

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Finalmente riesco a farla sorridere, e in meno di un attimo mi butta le braccia al collo. È un gesto talmente inaspettato che barcollo sotto il suo peso e quello dei vestiti, ma che come sempre mi apre il cuore. «Grazie grazie grazie grazie grazie» mi sussurra lei, stringendomi fortissimo. Io le bacio i capelli. «Guarda che non è finita, manca il pezzo forte.» Lilian si scosta, aggrottando la fronte, poi comprende e il suo viso si rabbuia. «Oh, no.» La zittisco con un’occhiata, poi la prendo a braccetto e ci dirigiamo verso l’uscita. «Su, oggi è la tua giornata. Saluta pure quell’orribile top, da oggi ti inizio al mondo del vero intimo femminile.» Lei si guarda attorno con aria imbarazzata, intimandomi di abbassare la voce, e inizia a mangiucchiarsi un’unghia. Quel gesto di nervosismo mi riporta alla mente un episodio che pensavo di aver rimosso. «Smettila. Quando lo facevo, da bambina, mia madre mi strofinava i polpastrelli con l’aglio. Io piangevo e andavo da mio padre…» le dico senza pensare, rendendola partecipe di uno dei momenti peggiori della mia infanzia, prima dell’adozione e della meravigliosa famiglia che mi ha accolto. Lilian sposta le mani dalla bocca, guardandomi con aria sconvolta. «Stai scherzando?» Scuoto la testa, senza incrociare i suoi occhi. «E tuo padre che faceva?» Le mie labbra si piegano in un sorriso amaro. «Lui le diceva di usare il peperoncino.» Restiamo in silenzio per qualche secondo, poi improvvisamente Lilian mi scocca un bacio sulla guancia. «Ora mi sento doppiamente fortunata ad avere una mamma come te.» Le sue parole riescono a farmi ridere, scacciando quei brutti ricordi, e ci fermiamo per qualche attimo di fronte alla vetrina del negozio di intimo. Ci guardiamo nel riflesso del vetro per qualche istante, e Lilian ci studia pensosamente. «Secondo te, ci somigliamo almeno un po’?» Osservo la sua figura magra e snella, i capelli biondi e gli occhi chiari quanto la pelle. Poi passo in rassegna me stessa, il mio corpo reso sinuoso dalle curve, ma pur sempre slanciato, la massa di capelli neri come gli occhi e la pelle ambrata. Siamo il giorno e la notte.

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«Due gocce d’acqua, bambina» dico con un sorriso, facendola scoppiare a ridere.

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LILIAN «Ehi, Lil… wow! Cos’è successo, ti sei trasformata in donna durante la notte?» Louis sembra assolutamente senza parole, e i suoi occhi scivolano stupiti dalla maglia rosa alla gonna di jeans, soffermandosi più del dovuto sulle mie gambe al vento. Okay, forse come primo giorno ho un po’ esagerato, ma in quel camerino non mi sentivo così vistosa. Entrando a scuola però è tutto diverso: si sono già voltati due ragazzi, e il commento di Louis mi fa arrossire più del dovuto. Ho l’impulso di tornare a casa a cambiarmi, ma resto dove sono e fingo di sentirmi a mio agio. «Molto divertente, Louis. Come stai, ti sei ripreso?» Gli sfioro la guancia con un piccolo bacio, incrociando lo sguardo di Stephanie che sta passando in quel momento. Lei mi fa una specie di radiografia silenziosa, poi sorride sconcertata e mi fa un cenno di saluto. Bene, ho passato la prova. Ciao, miss simpatia. «Direi di sì.» Louis continua a guardarmi, un po’ sorpreso, e si passa una mano tra i capelli ondulati. «Tu piuttosto mi sembri rinata. Cos’è successo?» Mi stringo nelle spalle con un sorriso. «Tutto merito di una mia nuova amica. L’ho conosciuta l’altro giorno al parco… in realtà, è stato tutto molto strano…» inizio a dire, ma il suono della campanella che segna l’inizio delle lezioni ci interrompe. «Oh, dobbiamo andare. Te lo racconto dopo, va bene? Louis agita l’indice. «Non pensarci neanche, cara. Ora mi dici tutto mentre andiamo in classe, dai!» con uno strano entusiasmo mi prende per il polso, trascinandomi verso l’aula e spronandomi a raccontargli tutto. «Una modella? Scherzi?» Louis mi guarda a bocca aperta, completamente affascinato dalla storia. Io sorrido raggiante.

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«No, te lo giuro! Devi assolutamente vederla, Louis, è… è…» cerco le parole migliori per descrivere Jameela, ma nessuna sembra renderle giustizia. «Dire bellissima è troppo poco» ripenso ai suoi occhi scuri dal taglio ondulato, ai capelli corvini così lunghi e lucidi, al fisico perfetto che si ritrova… «credimi, è più che bella. Sembra perfetta. Forse lo è.» Louis ride. «Devo vederla per forza, allora.» Io annuisco felice. «Certo che sì. Hai tutti i diritti di conoscere la mia mamma…» L’espressione perplessa di Louis mi diverte. «La chiamo così, lei mi tratta come se fossi sua figlia. Sai, è strano… la conosco da poco, ma le voglio molto bene.» «Ci credo, anch’io vorrei bene a una modella meravigliosa che mi compra i vestiti.» Gli lancio un’occhiata di fuoco. «Non è per quello. Non è quello che mi compra, è quello che mi da. È come mi fa sentire quando siamo insieme, come mi ascolta quando parlo, mi consiglia… mi fa ridere, mi lascia sfogare, mi dice la sua opinione… si comporta davvero come la migliore delle madri.» Louis mi ascolta rapito, e io continuo con un sorriso. «E poi spesso è un po’ brusca, nei modi. O è dolcissima o è scontrosa, mi dice delle frasi secche che sembrano pugni. Come se volesse darmi qualche lezione, capito? Ma alla fine è buona, dietro a quei modi scostanti. Te l’ho detto, in pratica è una mamma.» sussurro, vedendo il professore avvicinarsi al nostro banco. Ci lancia un’occhiata eloquente, e mi zittisco subito con un sorrisino di circostanza al suo indirizzo, che ignora. Louis abbassa gli occhi sul libro, fingendosi concentrato, ma io non ci riesco: mi guardo intorno, persa nei miei pensieri, e incrocio senza volerlo lo sguardo di Kate. I suoi occhi si dilatano, come se fosse in preda al panico più totale, ma poi mi accorgo che sta tentando di farmi un mezzo sorriso. La ignoro e mi volto, quasi strappando una pagina del libro tanto la giro con forza. Louis solleva le sopracciglia, stupito dalla mia violenza improvvisa, ma non gli do alcuna spiegazione. Lui però continua a guardarmi, in attesa, e allora prendo la matita e scrivo “K” sul banco. Questo basta per fargli capire, e lanciando un’occhiata di sbieco a Kate annuisce, tornando poi a posare gli occhi sul libro. Adoro Louis, capisce sempre tutto al volo. Per questo faccio fatica a credere che sia un maschio.

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All’intervallo ricomincio a sentirmi osservata, ma la sensazione è più piacevole del previsto. I ragazzi delle altre aule mi lanciano occhiate ammirate, e improvvisamente non mi vergogno più delle mie gambe scoperte. In giardino vedo un sacco di altre ragazze con la gonna, e questo mi fa sentire sempre più a mio agio. Inoltre avendo Louis accanto oggi va meglio, almeno non sono costretta ad accettare l’invito di Stephanie a raggiungerla nell’angolino riservato ai fumatori incalliti. Sto continuando a parlare e straparlare di Jameela, e proprio mentre inizio a raccontargli dell’esperienza traumatica della scelta dell’intimo e della fantastica invenzione del push-up qualcuno mi si para davanti, bloccandoci il passo. Alzo gli occhi e la faccia di Rob irrompe sul grande schermo, lasciandomi senza parole. «Ehi, ciao» mi dice con un sorriso accattivante, facendomi sollevare le sopracciglia. Cosa crede di essere, il playboy del liceo? Non posso credere al fatto che mi stia rivolgendo la parola Giuda in persona. «Rob» faccio io, fingendo totale indifferenza. Mi guardo intorno velocemente, alla ricerca di Kate ovvero “l’amica perfetta”. Dov’è finita? Come mai non sono mano nella mano, tutti intenti a sbaciucchiarsi? Rob finge di non accorgersi della mia mancanza d’entusiasmo, e continua a bloccarci la strada tentando di fare conversazione. Non capisco cosa voglia da me. «Allora, come va?» Alzo gli occhi su di lui, incredula per la sua stupida domanda. Come va? Oh, tutto perfetto. Oggi è il primo giorno che non piango quando mi sveglio, direi che va decisamente bene! Vorrei rispondergli così, ma non ne ho il coraggio. «Bene. Senti dobbiamo andare, scusaci… ciao» dico con tono sbrigativo, evitando di guardarlo in faccia e trascinando Louis per un braccio. Ma mentre ci allontaniamo la sua voce mi blocca, e mi giro nella sua direzione. «Cosa c’è, Rob?» ho un tono di voce talmente esausto che sento trasparire tutta l’amarezza nei suoi confronti, e forse l’ha percepito anche lui. «Vorrei parlarti, Lil. Se ti va» aggiunge, un po’ meno sicuro. Io incrocio gli occhi castani di Louis, che non danno alcun cenno di approvazione, e sospiro. Poi mi giro verso Rob e osservo il suo viso dai lineamenti forti, ben marcati, la bocca che fino a poche settimane fa

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riempivo di baci. È ancora così bello, ai miei occhi, che il cuore non risponde ai comandi e batte all’impazzata vedendolo. Strizzo il braccio di Louis una volta prima di lasciarlo, in segno di saluto, e gli vado incontro. Spero tanto che capirà. La bocca di Rob si curva in un piccolo sorriso di trionfo vedendomi tornare indietro, ma basta uno sguardo per raggelare quel sorriso. Stavolta non hai vinto nessuna partita, caro mio, non è così semplice. «Dimmi» lo sprono, incrociando le braccia sul petto. Wow, questo push-up è fantastico, ora ho una seconda a tutti gli effetti, e direi che si vede. Inspiro, fiera per la prima volta delle mie quasi-tette, e poi mi concentro su Rob. Lui sembra cercare le parole giuste, e biascica qualcosa che somiglia molto a un “mi dispiace” prima di zittirsi e di esibire la migliore espressione possibile da cane bastonato. Peccato che non mi faccia alcun effetto. Restiamo in silenzio per un po’, e io osservo con attenzione la punta delle mie All Star. Poi finalmente si decide a parlare di nuovo. «So che ti ho fatto del male, Lil. Non volevo, ho sbagliato a comportarmi così…» Io annuisco, mordendo il labbro inferiore. Eh, già. Mi hai proprio fatto del male. Sì, hai decisamente sbagliato. Ma cosa vuoi da me ora? Cerco di trasmettergli questa domanda con la forza del pensiero, e gli occhi di Rob si abbassano fugaci sul mio corpo. Poi sorride, ritrovando la sua solita sicurezza. «Sei bellissima oggi, sai? L’ho pensato appena ti ho visto.» Ascolto incredula quelle parole, lasciandomele risuonare nella testa all’infinito. Poi vedo in lontananza la figura di Kate, appoggiata al muro, che sta guardando nella nostra direzione. Faccio un cenno con la testa verso di lei, mormorando: «C’è la tua ragazza che ti aspetta, Rob. Ci vediamo.» Faccio un passo indietro per andare nella direzione opposta, ma lui mi blocca di nuovo. «Aspetta… ti prego.» Scuoto la testa con decisione. «No, mi spiace. Non sperare di tornare indietro, Rob, quello che hai fatto non lo dimentico. E soprattutto non sono come Kate. Anche se lei non conta più niente per me, io non frego il ragazzo a un’amica» dico, con voce tremula. Spero tanto che Kate abbia sentito, e a giudicare dalla velocità con cui abbassa la testa credo proprio di sì. «Ci vediamo, Rob.»

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Mi allontano velocemente, lasciandolo solo in mezzo al giardino, diretta verso i bagni. Entro quasi di corsa, appoggiando le mani al lavandino e guardando la mia espressione stralunata allo specchio. Non posso credere a quello che è appena successo, e prima di riflettere prendo il cellulare e digito velocemente un numero che ho già imparato a memoria. Dopo qualche squillo, finalmente la sua voce. «Pronto?» sembra assonnata, eppure sono le undici. «Jam!» quasi urlo nel cellulare «non immagini cos’è appena successo! Ma stavi dormendo?» La sua voce stanca mi dà la risposta al posto suo. «Mmmh… non importa. Cos’è successo?» ora sembra leggermente più sveglia «non dovresti essere a scuola, tu?» «Ma sono a scuola! È l’intervallo.» La sua risata si accende nel cellulare. «Giusto, scusami. Sono passati un po’ di anni, sai.» Io sorrido, scuotendo la testa. «Per fortuna eri una mamma moderna!» sento dei rumori in sottofondo, come delle voci, e corrugo la fronte «ma sei con qualcuno? «Eh? No, no… tranquilla. Cos’è che dovevi dirmi?» il suo tono vago non mi convince, ma decido di lasciar perdere. «Indovina? Rob è venuto da me e mi ha chiesto scusa!» «Cosa? Dici sul serio?» ora è del tutto sveglia, mi sembra quasi di vederla mentre si solleva dal letto di scatto. O almeno, io farei così. «Sì! Mi ha detto che gli dispiace, ma io l’ho praticamente ignorato, ho fatto l’indifferente… sono stata grandiosa, avresti dovuto vedermi, non so neanch’io come ci sono riuscita!» parlo quasi senza prendere fiato, entusiasta, camminando furiosamente avanti e indietro nel bagno. «Bravissima, tesoro. Hai fatto bene. Come sei vestita?» chiede improvvisamente, lasciandomi perplessa. «Perché?» «Voglio capire come mai stamattina gli si è accesa la scintilla, al tuo amichetto.» «Ho la gonna di jeans e la maglia rosa… e le All Star» specifico con un sorrisino. «E il push-up» aggiunge lei, facendomi il verso. «Ehm, sì. Ovviamente» scoppiamo a ridere, poi aggiungo: «E c’è di più, mi ha detto che sono bellissima! Mi ha proprio detto: sei bellissima oggi, l’ho pensato appena ti ho vist…» mi blocco, sentendomi morire.

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Sulla porta del bagno c’è il ragazzo dell’altra volta, più bello che mai. Ha le braccia incrociate sul petto e un’espressione eloquente sul viso, con il ciuffo di capelli che nasconde per metà uno dei suoi incredibili occhi. Il piercing brilla sul sopracciglio sollevato, catturando la mia attenzione. «Ehm… ti richiamo. Ciao» mormoro nel telefono, chiudendolo di scatto. «Ehi, ciao» faccio poi rivolta al ragazzo, cercando di mantenere la calma. Gli concedo un sorriso tremulo, lisciandomi la gonna, ma i suoi occhi non si abbassano sulle gambe e restano fissi nei miei. «Ciao.» Un silenzio imbarazzante cala tra di noi mentre cerco qualcosa da dire, ma lui mi anticipa. «Ho sbagliato di nuovo bagno» dice, facendo un sorrisino «scusami. Ciao.» Apro la bocca per dire qualcosa, ma non mi viene in mente nulla, e lo guardo mentre si allontana. È assurdo, l’ha fatto apposta. So che l’ha fatto apposta. Gli piaccio. Sì, sì, sì. Lo so. Voglio dire, non sarà così idiota da sbagliare bagno ogni volta, vero? FINE ANTEPRIMA.CONTINUA...

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