Ldb Rural in Action_Coppola 02

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Introduzione

Castiglione Street View

Da cosa è delimitato un territorio? Quali sono i segni che indicano la nostra presenza in un qui, diverso da un altrove? I “confini” non sono delle linee dritte, ma dei gradienti che i sensi percepiscono e analizzano. Dall’abitato del paese, fortemente connotato, alla dimensione della campagna, si snoda un percorso fattodi esplorazioni e derive lungo i bordi.

Del concetto di confineManifesto del terzo paesaggio

Walkscapes

La flâneurie come pratica artistica. Lo strumento in grado di modificare il nostro sguardo, e di conseguenza il nostro pensiero e le nostre azioni, sul territorio nel quale scegliamo di perderci. Ma anche lo sforzo fisico del camminamento, che rimanda ad un passato rurale in cui lunghi erano i percorsi quotidiani da compiere.

pp. 7—8

pp. 9—24

p. 10p. 22

pp. 25—32

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Un dialogo con (parte I)

Sara Alberani — Giovanna FersiniSara Alberani — Augusto Caloro —Crocefissa Colluto

Appunti per un’estetica del vernacolare

Il contesto in cui si sviluppa il Parco Comune dei Frutti Minori è fonte di riflessioni e critiche all’attuale modello “abitativo”, che accostano al “come vogliamo vivere”un ulteriore quesito: dove vogliamo vivere?

Ezio SanapoElogio al bianco della calce

La casa rurale in Puglia

Le origini di un popolo sono testimoniate dai luoghi che ha abitato e le tracce lasciate in un habitat ne rappresentano il genius loci, profondamente radicato. Esse devono trovare la giusta connessione con lo strato più acerbo di un territorio, costituito dalla sua contemporaneità.

Un dialogo con (parte II)

Mauro Bubbico — Gigi SchiavanoSara Alberani — Donato (detto Donatuccio)

Diversi fatti di vita contadina

Un’inversione di tendenza rispetto al sistema di mercificazione delle nostre esistenze non può non avvenire sotto gli auspici di una tradizione “opponente”, costellata da episodi di lotta e ribaltamento degli schemi sociali consolidati.

Piccola cronologia del Novecento

Due diari sul Parco Comune dei Frutti Minori

Un confronto diretto tra due visioni dell’esperienza castiglionese, annotazioni didascaliche che diventano flussi di pensiero, interferiscono e si arrichisconoin maniera vicendevole.

pp. 33—44

p. 33p. 40

pp. 45—64

p. 46p. 47

pp. 65—80

pp. 81—100

p. 81p. 92

pp. 101—124

p. 102

pp. 125—156

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7

Frutti dimenticati

Il Parco Comune dei Frutti Minori nasce anche con l’obiettivo di recuperare la bellezza, le tradizioni e il valore della terra. I frutti minori, raccontati come persone di un mondo dimenticato, sono frutti locali, che nascono spontaneamente e che hanno svariate peculiarità, custodite all’interno della cultura popolare.

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Inizio messaggio inoltrato:>>Da: Oggetto: Data: :A:

pp. 157—172

pp. 173—188

Il parco comune dei frutti minori è un progetto di rigenerazione di terreni pubblici nelle aree rurali di Castiglione d’Otranto, attivato dalla comunità locale in collaborazione con artisti, pensatori e agricoltori radicali, al fine di ridare dignità ad aree pubbliche abbandonate e meta di discariche di rifiuti e materiali inerti, spesso dannosi alla salute, per convertirle in bene comune. Il parco nasce su terreni bonificati da cui sono stati rimossi i rifiuti, per lasciare spazio al patrimonio frutticolo salentino: le molteplici varietà di fichi, il giuggiolo, la cornula, il sorbo, i gelsi e tanti altre specie autoctone da proteggere e gustare.

Oltre ad essere giardino didattico in continua espansione, dove ospitare laboratori e seminari sulle questioni agricole e ambientali, il parco è anche viviterium, luogo della memoria e dello spirito. Chi partecipa alla sua costruzione, adotta simbolicamente un albero dedicandolo ad una persona cara, viva o morta, o ad una figura distintasi nella lotta ambientale, culturale e per i diritti del lavoro.

Le aree rurali sono luoghi di relazione fra le persone e con la natura, occasioni di scambio di conoscenze tra generazioni e saperi diversi; non piu’ zone marginali e abbandonate, ma territori centrali in cui esercitare e rafforzare i vincoli di comunità, lo sviluppo sociale e forme di economia sostenibili. Il Parco Comune dei Frutti Minori è un percorso insieme di recupero della tradizione e rinascita futura che si innesta sulle pratiche da tempo attivate nell’area di Castiglione per l’utilizzo delle terre incolte, pubbliche o private, oggi coltivate in modo naturale, con varietà antiche di cereali e in via sperimentale con la canapa come coltura di rotazione.

***

Casa delle Agriculture “Tullia e Gino” Comitato Notte Verde AgriCultura & Sviluppo Sostenibile

Associazione nata a Castiglione per ridare vita ai terreni abbandonati, ripopolare le campagne, generare economia sostenibile e rafforzare i vincoli di comunità. Progetti attivati in questa direzione: “La Notte Verde”, appuntamento divenuto imprescindibile per tutti coloro che si interessano alle pratiche di agricoltura naturale; “Chi semina utopia raccoglie realtà”: semina collettiva di antiche varietà di cereali, “La Primavera della Canapa”, “Lo spirito del Grano”.

Free Home UniversityProgetto artistico e pedagogico che nasce in Salento nel 2013, che

intende generare nuove modalità di creazione e circolazione dei saperi. È supportato dalla fondazione canadese Musagetes e dall’associazione culturale Loop House (Lecce) nel quadro di un protocollo di intesa con Regione Puglia, Provincia di Lecce e Comune di Lecce.

A cura di Alessandra Pomarico, Luigi Negro e Alissa Firth Eagland, con la collaborazione degli artisti René Gabri e Ayreen Anastas, Lu Cafausu, Adrian Paci.

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—24

Questo libro nasce dall’esperienza vissuta insieme con altri volontari a Castiglione d’Otranto (Le), durante i lavori di creazione e apertura del Parco Comune dei Frutti Minori.

Il parco è un progetto di collaborazione traCasa delle Agriculture “Tullia e Gino”

e Free Home University,su un’idea dell’artista Luigi Coppola.

La nostra volontà non è quella di restituire una fotografia oggettiva degli avvenimenti, ma piuttosto raccogliere in un’unica pubblicazione riflessioni diverse, generate dagli

stimoli ricevuti nelle giornate castiglionesi.

Riflessioni che ruotano intorno ad un perno comune, costituito dal quesito che ha animato il progetto

di Free Home University: COME VOGLIAMO VIVERE?

Più che risposte, questo libro si propone di fornire ulteriori e particolari considerazioni. In che “paesaggio” viviamo?

Con quale memoria collettiva ci confrontiamo,nella quotidianità dei nostri gesti?

Può esistere una connessione tra arte e lavoro,tra l’astrazione della bellezza e la pragmaticità

della nostra esistenza?

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* Il testo è tratto dall’introduzione

al libro di Piero Zanini,

SIGNIFICATI DEL CONFINE.

I LIMITI NATURALI, STORICI,

MENTALI, Bruno Mondadori,

Milano 1997.

***

(a) C. Magris, COME I PESCI IL

MARE… in Aa.Vv., FRONTIERE,

supplemento a “Nuovi Argomenti”,

1991, n. 38, p. 12

(b) F. Braudel, L’IDENTITÀ

DELLA FRANCIA. SPAZIO E

STORIA, il Saggiatore, Milano

1988, p. 301

(c) H. Donnan, T. M. Wilson,

IDENTITÀ E CULTURA SULLE

FRONTIERE INTERNAZIONALI,

in “Ossimori”, 1995, n. 6, p. 50

(d) D. Karahasan, ELOGIO

DELLA FRONTIERA, in

“Micromega”, 1995, n. 5, pp.

149–158

(e) Un tentativo in questo senso

sembra essere, per esempio, quello

compiuto negli stati baltici con un

esperimento–pilota di “psicologia

etnica”; con la costituzione di

“gruppi di incontro” tra etnie

diverse si cerca di superare

la conflittualità tra le diverse

identità in campo. Cfr. A. Oliverio,

LA MEMORIA COLLETTIVA

ALIMENTA LE GUERRE

ETNICHE, in “Il Corriere della

Sera”, 14 maggio 1995

(f) M. Foucault, SPAZI ALTRI.

I PRINCIPI DELL’ETEROTOPIA,

in “Lotus International”, 1985–86,

n. 48–49, pp. 9–17

(g) Ivi, p. 11. Questi spazi si

dividono secondo la classificazione

di Foucault in utopie, irreali,

e eterotopie che al contrario,

pur essendo «luoghi fuori da

lutti i luoghi», sono comunque

localizzabili

(h) V. Turner, IL PROCESSO

RITUALE. STRUTTURA E

ANTISTRUTTURA, Morcelliana,

Brescia 1972

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te. IX—Rappresentazione e limiti

1. La rappresentazione del Tp dipende

dalla possibilità di stabilirne i limiti

geografici.

2. I limiti diventano visibili alle frontiere

tra i residui e i territori sottoposti a

sfruttamento.

3. I limiti situati tra i residui recenti e

quelli più antichi restano indistinti. Dal punto

di vista del Tp essi non esistono.

4. Un residuo evolve verso la foresta. I

suoi limiti possono essere confusi con quelli

di una foresta gestita dall'uomo. Dal punto di

vista del Tp, questi non esistono.

5. Una foresta cresciuta su un residuo

presenta sempre una diversità superiore

rispetto a una foresta gestita dall'uomo.

6. Una foresta cresciuta su un residuo

appartiene al Tp.

7. La foresta con vegetazione climax, gli

insiemi primari, i residui che evolvono verso

la foresta e i residui giovani possono essere

cartografati e rappresentati allo stesso modo,

in quanto territori rifugio per la diversità.

8. La contiguità tra insiemi primari e

residui offre alla diversità una continuità

territoriale.

9. La continuità territoriale appare

in modo cospicuo nel caso di riserve ben

costituite o nel caso di una continuità tra i

residui e riserve o insiemi primari. Altrove,

appare sotto forma di linee: siepi, bordi delle

strade, foreste fluviali

o sottoforma di isole.

10. La dimensione di un territorio in grado

di accogliere la diversità è un fattore che

contribuisce a limitare il numero delle specie.

11. I limiti costituiscono in sè spessori

biologici. La loro ricchezza è spesso superiore

a quella degli ambienti che separano.

12. La rappresentazione dei limiti del

Tp non può tradurre oggettivamente il loro

spessore biologico, ma può evocarlo.

* Il testo è tratto da Gilles Clément, LE TIERS

PAYSAGE, 2004. Traduzione resa disponibile

da Luca Napoli. Copyright © 2004, Gilles

Clément. Copyleft : l’opera è libera e può

essere redistribuita e/o modificata secondo

i termini della Licenza Art Libre (http://

artlibre.org)

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[...] Comunque tu Donato N. lo conosci, no?Sì, l’ho conosciuto in questi giorni

Eh, è pure mio cugino, figlio di mia cugina, e quindi noi abbiamo dato tre ettari di terra a lui e hanno seminato un po’ di tutto, il farro, l’orzo, il grano, il grano cappello e quindi abbiamo dato a lui, proprio per questo, perché le terre sono incolte e non c’è nessuno... Mia madre con sette figli, perché mio padre riusciva a mantenere una famiglia di nove persone, e quindi c’era questa questa possibilità di tirare avanti anche se servivano pure i soldi, però i soldi non si raccoglievano nello stesso tempo, giornalmente, come fanno adesso magari, perché uno va alla giornata, lavora sei ore, otto ore e poi magari si guadagna 50 euro per esempio no? Invece allora si lavorava, quando finivano tutti i frutti, per esempio la coltivazione del tabacco, alla conclusione della consegna di questo tabacco, riuscivi ad avere tre milioni, per esempio. Allora con tre milioni, si faceva veramente tante cose. Io per esempio questa casa con tre milioni l’ho costruita

L’avete costruita voi la casa? Cioè unola casa se la poteva costruire da solo?

Sara Alberani

Giovanna Fersini(detta Giovanna a Rosanunna)

Un dialogocon

Quelle elencate a pag. 25 sono una serie di azioni

che si possono leggere e agire intrecciando a piacere

le parole delle tre colonne verticali. Azioni che solo re-

centemente sono entrate a far parte della storia dell’ar-

te e che possono rivelarsi un utile strumento estetico

con cui esplorare e trasformare gli spazi nomadi della

città contemporanea. Prima di innalzare il menhir — in

egiziano “benben”, «la prima pietra che emerse dal

caos» — l’uomo possedeva una forma simbolica con

cui trasformare il paesaggio. Questa forma era il cam-

minare, un’azione imparata con fatica nei primi mesi

della vita per poi diventare un’azione non più cosciente

ma naturale, automatica. È camminando che l’uomo

ha cominciato a costruire il paesaggio naturale che lo

circondava. È camminando che nell’ultimo secolo si

sono formate alcune categorie con cui interpretare i

paesaggi urbani che ci circondano.

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34 35

Poi è iniziato ad esserci il problema dell’abbandono di queste terre, perchéa un certo punto forse alcune generazioni...

Essì poi da quando hanno incominciato a evolversi i tempi, magari una persona non gli andava più di lavorare la terra e la lira ha incominciato a scarseggiare nel senso che c’erano delle leggi che non si poteva fare più il tabacco, perché era nocivo alla salute, quindi niente tabacco, non si poteva fare. E c’erano tante famiglie [che lavoravano il tabacco, ndr]! Le famiglie partivano di qua per sei mesi all’anno, per andare a lavorare a Ginosa, Taranto, Brindisi, Foggia, tutte le parti... Io son stata pure là, verso Metaponto, in Basilicata, in Puglia

In che anni più o meno è successo?Io sono del... diciamo... ero fidanzata, mi sono fidanzata un po’ prima quindi... sessanta... cinque, ‘70. Poi ho continuato fino al ‘76. Al ‘76 mi sono sposata, e quindi poi quando mi son sposata mia madre ha continuato per un po’ però i figli hanno incominciato ad avere problemi nel senso che non gli piaceva la campagna, perchè bisognava lavorare veramente...

È faticoso!È faticoso per chi non lo sa... Però a quei tempi, perchè poi c’è anche il problema dell’irrigazione qua! Quindi non è che tu facevi, chessò, una coltivazione e ti andava bene... Magari verso Ginosa, verso Taranto, c’era l’irrigazione. Fiumi, compagnia bella... Invece qua non essendo niente, allora una persona doveva farsi il pozzo, doveva avere i soldi per farsi il pozzo, se non avevi la possibilità di farti il pozzo... Che faceva? Doveva trovare qualche altra soluzione per poter innaffiare le piante che coltivava. Magari anche pomodori per esempio. Noi per esempio — quando me ne sono venuta da Bari — abbiamo coltivato dei pomodori che veramente... la terra ti dava dei pomodori grandi così, buonissimi! Che poi il primo anno per dispetto la gente è andata e li ha spiantati

Perché?Vandali, no? Vandalismo... Anche a quell’epoca. Dovevi stare sul chi va là. Poi le persone hanno iniziato a non voler lavorare, hanno cominciato ad avere problemi e hanno cercato di avere uno stipendio. Allora che cosa si può fare per avere uno stipendio? Specialmente chi non ha studiato? Che all’epoca, non c’era neanche tanta scuola perché se andavi a scuola, i genitori è vero che ti ci mandavano, ma è vero pure che certi ragazzi andavano a passeggio, non gli andava neanche di studiare. Chi era andato a scuola ma magari non rendeva, faceva domanda di bidello, faceva domanda di infermiere, nei militari, per avere lo stipendio. Tu metti a lavorare la terra, a zappare, e metti ad avere uno stipendio... Mio padre, anche con tanti sacrifici, le coltivava lui... [...] Perché poi mi ricordo

Eh sì, cioè con tre milioni voglio dire... Anche se mio marito aveva lo stipendio, però con cento euro, cento venti al mese, riusciva a mettersi 50 euro, 50.000 Lire da parte per costruire questa casa, invece adesso...

Senza andare neanche in banca a chiedereun prestito, un mutuo... con i risparmi

Ma non penso che si faceva neanche il prestito, non c’era neanche l’idea di andare a chiedere dei soldi in prestito

Quindi anche della sua famiglia,tutti andavano a lavorare la terra?

Dato che mia madre aveva sette figli, allora è normale che per poterli mantenere dovevamo coltivarla insieme, lavoravamo insieme, quindi io mi ricordo, perché mia madre faceva il tabacco, io da piccolina e mia sorella era neonata, che stava in campagna insieme a noi, poi specialmente d’estate, in una cesta lei dormiva e noi lavoravamo, alle quattro di mattina. C’era questa, questa...

Quest’usanza che si tramandava...Sì infatti, si faceva questo, però giustamente lavorando tutti i figli, eh... Non c’era bisogno neanche di manodopera perché tutti si lavorava, eh io mi ricordo che ero pure veloce a raccogliere il tabacco, o a infilarlo...

La famiglia numerosa, che oggi è un problema, allora era utile perché diventava una specie di impresa e poteva portare avanti un lavoro con la forza lavoro dei figli

Sì, poi magari c’era anche la possibilità di crescere degli animali, e quindi sovvenzionare la famiglia anche con... chessò, se avevi la mucca c’era del latte disponibile, se avevi conigli c’era la carne disponibile, se avevi le galline facevano le uova... Quindi si mangiava di tutto, e roba genuina, perchè galline, conigli stavano nei giardini. Mia madre per esempio aveva un giardino e aveva una casa proprio per... O magari se c’era la possibilità proprio di far crescere, chessò, un maiale allora era la ricchezza di quella famiglia perché la sovvenzionava in tutte le...

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36 37

quindi si coltivava, c’era una soddisfazione enorme, perché tu vedevi crescere queste piante dal seme, no?

È una cosa bellissima vedere, come si dice,il frutto del lavoro

Perché io ho seminato questo seme, e l’ho messo in questa terra. Specialmente se vedi che la pianta viene su rigogliosa, che vuol dire? Vuol dire che il seme ha trovato il terreno giusto. E quindi sono tutte cose che uno deve conoscere per fare, anche l’esperienza si fa mano mano [...]Adesso poi abbiamo lasciato, ché mio marito è venuto a mancare e quindi ho lasciato tutto, perché io spendevo dei soldi solo a pulire la terra, e non facevo niente più, perché non c’era nessuno, i miei figli se ne sono andati...

Quindi li avete venduti i terreni?No, no, no ce li abbiamo ancora. Spendevamo soldi solo per pulirle, ma non per coltivarle, fruttificare queste terre. I miei figli, ognuno ha preso la sua strada, però... se avessi la forza adesso, dico ai miei figli... forse dobbiamo stare attenti perchè arriveranno dei tempi che non sono come questi, chissà se un giorno, anche se mio figlio è insegnante di musica, si deve mettere un po’ a zappare la terra forse, e allora io non la venderò mai questa terra... Perchè è una cosa che mi rimane

E adesso l’ha data in uso...Allora adesso sì, infatti ce l’ha Donato, e hanno piantato. Quest’anno ancora non hanno piantato niente, non so dopo se faranno anche dei pomodori, non so. Perché poi il tempo pure è incerto, questo tempo qua. Quindi ci vuole il tempo per arare, ci vuole il tempo per coltivarla. Se ci permette il tempo di fare qualcosa, non lo so, altrimenti si pulisce e basta.

Si ricollega un po’ al lavoro che stiamo facendo noi con loro, sicuramente prima una pulizia. Perché purtroppo le terre sono anche inquinate, e non soltanto dai rifiuti che si

una volta in un campo c’erano delle olive, c’era del grano, un incendio ha divampato tutto... E allora, da ragazzini noi, con mio padre, portavamo l’acqua con le... noi le chiamiamo “capase”, erano dei contenitori con un orecchio, che si prendeva l’acqua e si trasportava, no? E quindi mio padre ha ripiantato tutti gli alberi di olivo, che mò sono pure grandi però non proprio secolari diciamo no... Lui voleva che questa terra doveva esserci, in una famiglia, eppure dato che aveva sette figli, da noi c’era questa usanza che si doveva dare ai figli pure, come proprietà, un pezzettino di terra. Allora dato che uno c’ha sette figli, che fa... almeno sette pezzi, possibilmente il più grande possibile, per poi ricostruirsi una famiglia anche loro... Pure mio marito si è dedicato alla campagna. Si è comprato il trattore, la fresa, il tagliaerba, la motosega, cioè tutte le cose che servono. Lui dedicava molto tempo, dopo il lavoro il pomeriggio fino a quest’ora stava in campagna, piantava la cipolla, il pomodoro, la zucchina, la patata, con più amici, due tre famiglie, ci siamo uniti... Perché non puoi tu da solo lavorare in campagna! Ci vuole un aiuto, ci vuole forza...

L’unione fa la forza...Eh l’unione fa la forza! Questa forza l’avevamo trovata con alcuni amici disponibili quindi erano tre famiglie che collaboravamo insieme, allora chi metteva una cosa chi metteva il lavoro, anche se mio marito la spesa l’aveva fatta con i suoi mezzi, per coltivare sta terra. Eh però, dopo tutto questo, certe annate andavano bene, certe annate andavano un po’ male, però il mangiare non ci mancava... Quando ti sedevi a tavola c’era la roba tua, la roba coltivata, anche se un po’ di meno, un po’ discreta... Perché noi non è che siamo nati contadini, i genitori nostri sono nati contadini, noi avevamo avuto questa possibilità di adattarci subito dopo di loro, quindi adesso io posso insegnare ai miei figli no? Però i miei figli non ci sono...

Non ci sono, perchè non hanno voluto continuare a coltivare la terra?

A questo figlio mio, che sta a Bologna, lui fa l’autista di pullmann, gli piacerebbe... Mi dice: “mamma, se avessi un pezzettino di terra, io me lo coltiverei, e mi pianterei tutto quello che...” [...] Prima i miei genitori facevano con i semi, seminavano e facevano dei quadrati che noi chiamamo “ruddhre”, li concimavano, mettevano il letame, quelle cose lì naturali, quindi gli animali li tenevano anche per questo

In questo modo si rimetteva tutto in circolo...Roba organica diciamo no? E allora il seme veniva bene, c’erano i pomodori, il tabacco, quello che sia... E allora questi pomodori venivano trapiantati alla terra già coltivata, magari si arava un paio di volte per poi ripiantare queste piantine, e

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vedono, ma sono quelli che non si vedono anche molto pericolosi, e anche chi continua a fare un tipo di agricoltura intensiva con forti elementi chimici, perché... i costi sono alti, bisogna fare in fretta, bisogna fare una super produzione! E adesso si è arrivati a quel limite, quella soglia che non tiene più perché la roba è una schifezza, piena di componenti chimiche e ci rendiamo conto che ci sono le malattie, bisogna avere riguardo, perché altrimenti che siamo qua a fare

Beh quando una terra è ammalata, ce ne vorrà del tempo prima che si disintossica, però non ci saremo neanche noi forse, tutto questo tempo, nell’arco di questi anni, da quando coltivava mio padre... quello era un periodo diverso, perchè lui arava la terra e quindi la metteva in funzione, con la falce, che non c’erano tagliaerbe, con la falce si tagliava l’erba! Non c’erano pesticidi, non c’era niente

Era tutto manuale, ci voleva tanto tempo, tanta forza fisica, manodopera

Quando invece sono tornata io, quindi negli anni novanta, fino ad oggi — adesso stanno un pochettino cambiando — però dal novanta, quasi trent’anni, che le persone erano contente perché vedevano il terreno pulito, ma quando vedevano il terreno pulito vuol dire che avevano buttato i pesticidi, seccava l’erba, “uuh! che bello pulito!”, anche io l’ho fatto, anche noi l’abbiamo fatto, perché era pulito. Non conoscendo però dove andavo incontro, perché pensavo che così facevano tutti, e lo faccio pure io, ma da ignorante però... Magari adesso che le so le cose, dico forse mio padre faceva meglio di me. E allora non posso dire adesso che cosa devo fare? Che cosa manca? Però

intanto forse è troppo tardiLa terra si è ammalata, prima che tornipulita ce ne vuole...

Ci lamentiamo dei prodotti che fanno male, ci lamentiamo delle olive che si ammalano, forse è la natura, forse è l’evoluzione naturale?

La natura comunque una risposta primao poi la da sempre

La risposta del male che abbiamo fatto noi!La natura ce lo restituisce indietro...Magari lo espelle da sola, però anche quello è un nostro problema perché ovviamente tutti facciamo parte di questo sistema

Io dico questo anche perché ho notato [un cambiamento, ndr], quando abitavo a Bari nel giardino ogni anno puntuale vedevo l’albero fiorire, vedevo la vite che germogliava, e quindi era una puntualità che io mi rallegravo a vederla, perché poi la primavera porta proprio gioia, allegria... Invece, da quando sto qui, anche se ho un bel giardino qui dietro con alberi di arance, mandarini, prugne... Io ho visto l’albero di prugne fiorire a gennaio!

Che è strano...Che è strano! Ma come mai, dico io, fiorisce a gennaio, quando dovrebbe fiorire a febbraio, marzo? È la natura che mette la sua parte, l’evoluzione naturale terrestre, non lo so... Mi spiego fino a un certo punto, però poi non so darmi una risposta. Per esempio certi alberi di aranci che adesso stanno fiorendo, tra aprile e maggio, a maggio fiori d’arancio... Io ho visto i fiori d’arancio fiorire a gennaio, a febbraio, che faceva un caldo da morire... La natura ha risentito. Però quei fiori non servono a niente, perchè frutti non ne escono mai! Allora osserva la natura e impara [ride][...] Voi questo lavoro fate?

Sì, un po’ di archivio, di storie, anche per quello che stiamo facendo qui, perché noi siamo venuti qui in terre degli altri, cioè in una comunità, un paese... Cercando di capire anche quali sono i problemi, i punti di vista, e di prenderli come esempio per cercare di trasmetterli fuori, di farli anche in altri ambiti... Davvero però, con persone concrete, stare con i piedi per terra e sapere cosa c’è da fare. Non tanti fronzoli, ecco

Non lo so se è stato utile quello che ho detto [ride]Per noi è tutto di utilità, è un’esperienza comunque preziosa

Le esperienze mie non sono quelle di un’altra... Più o meno!

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Com’era la vita nella campagna?Come si lavorava?

Vent’anni fa sono andato a fare le barbabietole…Ah, quindi fuori?

Faccio la mossa come facevano lì [fa un gesto per far capire come avveniva la raccolta], con un oggetto come un bastone e una tinella tanto larga che insomma 50 gr in tutto non andavano. E tu dovevi fare così tutto il giorno, camminare e lasciare una bietola ogni trenta centimetri e lavoravi diciassette, diciotto ore al giorno perché lavoravamo per conto nostro da contratto. Avevi setto, otto, nove ettari e dovevi finirli quanto più presto finivi, più presto te ne andavi. Ci pensavano da soli.

Ora invece la vita è cambiata, io ricordo la vita di prima…Io tengo 82 anni, allora ecco la vita di cinquantanni fa, allora la vita era molto diversa, le persone erano pure diverse, forse più unite, mo invece chi va di qua, chi va dillà, da una parte all’altra, tutti abbiamo molto da fare, più di prima. Perché prima era la campagna e basta, mo vuoi che si esce a tutto.Adesso il problema è anche a livello di tutto questo inquinamento che c’è, tutti i soldi che non ci sono e per comprare da mangiare delle cose non sane, invece prima sicuramente non c’erano soldi…

Non c’erano tante esigenze anche…Però si mangiava bene…

Certo non eravamo a digiuno…Però si mangiava solo un piatto…

Si mangiavano molto i legumi e la pasta pure si mangiava, però non mangiavamo la pasta con la carne. La carne la mangiavano i meglio…

Noi la mangiavamo due tre volte all’anno…. Pasqua, Natale e Capodanno… Poi alle fiere allora si andava a fare la visita al santo e allora compravi qualcosa così: mezzo chilo, un chilo di carne.

Si era un’altra cosa, era un po’ meno allora… mo invece la carne, durante la settimana due volte, oppure di domenica, è diverso il modo di mangiare e di vivere, le esigenze pure di tante cose, che per esempio allora non c’erano.

Allevavano un maiale e poi arrivava il momento che lo si ammazzava, no? Ma quando hanno iniziato a cambiare i tempi…

Quando è stato il cambiamento? Perché lei ha iniziato a lavorare per qualcuno…

Beh sì, è cambiato il tempo quando è andato all’estero…All’estero ci siamo andati nel 1957, è stata proprio un’infornata… perché da questo paese nel 1956 sono andate via quattro persone: lo zio di Marta che è morto il giorno che è morto Moro e poi altri tre e quando sono tornati da li avevano fatto i soldi, allora nel 1957 tutti sono partiti, a Castiglione erano rimasti pochi giovani, tutti via sono andati.

Insomma è cambiato poi, non c’è stato più il soldo da mangiare..

Infatti poi ci sono andato anche io.Il soldo prima era poco poi…

Nel 57 sono andato anche io, con contratto da tre mesi… poi stando li, dato che nel 58 ci dovevamo sposare e dovevamo aggiustare la casa, servivano i soldi… ho rinnovato il contratto e ci sono stato sette mesi, e quando sono venuto ho portato un po’ di soldi…

In francia si guadagnava di quei tempi…Portai 450.000 lire, e in quei tempi chi li conosceva prima di quei tempi…

E da allora poi il soldo ti ha fatto cambiare la vita, potevi andare a comprare, avevi, ti potevi fare la casa.

Allora la gente spariva da qui per guadagnare, e poi ognuno s’è fatto la casa, bella pure.

Quindi questa casa l’avete costruita voi?Sì sì, suo papà insieme con te no?…

Mio padre aveva queste due stanze (indica la camera da letto e la cucina) quando si è sposato nel 1925. Poi nel 34 c’era spazio ancora, del terreno, e allora ha costruito un’altra casa, io avevo 3, 4 anni, io sono del 30. Dopo poi qui c’era un’altro giardino che mio padre ha venduto perché non voleva più costruire, allora noi abbiamo costruito questa nel 1949.

E comunque continuava a lavorare in campagna?

Sì sì, sempre sempre, nei vigneti. Loro avevano dei vigneti in affitto…

A metà, c’erano i grossisti, i capitalisti con tante terre. Allora davano un fondo e tu ci piantavi la vigna e si faceva tutto a metà quando era il momento.

Sara Alberani

Crocefissa Colluto

Augusto Caloro

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E loro pagavano in soldi?Sì sì, loro poi facevano a metà.

No noi… che si menava il grano? ( si piantava il grano per esempio) facevi la raccoltà a metà. prima si raccoglieva la semina che faceva circa mezzo quintale, un quintale... si tirava quella prima e poi l’altro si faceva metà. Il proprietario non voleva perdere niente.

Quanto ha continuato a lavorare nella campagna?

Io? Ho finito la quinta elementare a 10 anni e mio padre mi ha portato al monte degli ulivi in campagna, e di la una cosa dopo l’altra e ho lavorato continuamente e ancora adesso lavoro…

Ancora adesso ci piace piantare i pomodori, delle zucchine, i fagioli, tutta questa roba. Io prima, quindici anni fa, facevo la sarta, adesso vedo poco e ho lasciato e vado in campagna con loro, mi piace andare in campagna, sì è molto bello…La campagna è bella, a me piace tanto e delle volta chiedo io stessa a mio marito “andiamo a piantare i pomodori? Andiamo a piantare i fagioli?” È un lavoro bello, che ti rilassa, certo ti stanchi anche...

I vostri figli non hanno continuato a lavorare la campagna come voi?!

No, perché abbiamo quattro figli: tre femmine e un maschio…Il maschio si trova a Milano, si è spostato e vive lì. La grande delle tre ragazza è andata a Tricase e insegna alle scuole medie, sì, la seconda e la terza media. Un’altra delle nostre figlie sta a Padova, sta in segreteria in Veneto e il maschio lavora con la moglie in provincia di Cremona in un supermercato. L’altra poi vive a Spongano e fa l’infermiera a Tricase...

Quindi dopo di voi chi lavorerà la terra?Eh, si arrangiano da soli poi…

Tutti adesso se ne vanno e i fondi restano così, intatti.Noi i fondi li abbiamo dati ai nostri figli, e però sono tutti lontani e qualcosa la facciamo noi, però poi...

Poi loro fanno quello che vogliono, se trovano da vendere, ma non c’è da vendere.

Non comprano perché non ci sono i soldi…Ma oltre i soldi, i giovani non vogliono lavorare, e quelli che sono più grandi non hanno più la possibilità di coltivare la terra e allora resta tutto così… Non appena muore qualcuno i fondi diventano abbandonati.

E vi dispiace naturalmente?Beh certo, a me dispiace...

E quelli comprati non è che funzionino veramente...E adesso è bello vivere e lavorare.

Beh direi che abbiamo finito..Finito?

Abbiamo parlato alla maniera nostra.A noi interessa solo la vostra storia… niente di pensato o programmato.

Ma dove state lavorando adesso, siete arrivati proprio alla fine del comune di Andrano o pensate di proseguire ancora per molto?

Per ora ci siamo fermati, perché è solo lungo la strada, poi stiamo piantando degli alberi di fico perché così tutti possono andarci.

E dove li state piantando?Lungo la strada...

State attenti, quanti ne abbiamo avuti di fichi, che poi li vendevano a quintali, quelli più marci. Passava uno che li comprava, poi gli altri, quelli scelti li portavano al forno dove si faceva il pane e le facevano friggere e poi le conservavano dentro i contenitori di creta. Poi quando ero più piccolo io, ti lavavano i piedi, ti davano un paio di calzettini entravi in questi contenitori e pestavi i fichi. Quando si zappava la terra per coltivare i piselli, il grano, un po’ di tutto, d’estate verso le due e mezza, tre di notte, i papà ci chiamavano e andavamo in campagna, al buio. Se c’era la luna vedevi qualcosa, altrimenti non vedevi niente e si zappava fino alle nove e mezza, dieci, tutti quanti.

I figli dovevano andare ad aiutarea lavorare quindi?

Sì ma adesso non ci vanno più, perché le scuole continuano dopo le elementari, le medie, le superiori e poi non c’è il lavoro per loro, perché si prendono il diploma, si prendono la laurea e stanno così…

A quei tempi poi non è che ognuno aveva la propria proprietà in campagna, erano pochi quelli che avevano una proprietà, tutti la affittavano e facevano a metà.

Noi, per esempio facciamo l’olio con le campagne nostre, abbiamo parecchi alberi di ulivo.

Un anno abbiamo fatto diciassette quintali di olio, era un carico molto abbondante insomma…

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Appunti per un’estetica del vernacolare

pp. 45—64

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Ezio Sanapo fa l’imbian-

chino da quando ha circa

otto anni. Ha imparato a

distinguere un pennello

fatto con la coda di un

cavallo di razza da quel-

lo fatto con la coda di un

cavallo meno pregiato o

di un asinello. L’ha impa-

rato andando a comprare

le code dei cavalli in macelleria, come facevano tutti

gli imbianchini. Ha imparato a dipingere le pareti del-

le case con la calce e a distinguere quella buona “che

non sfarina” da quella di cattiva qualità, troppo cotta o

fatta con le pietre sbagliate.

Ha imparato da solo il suo mestiere, e l’ha nobilita-

to trasformandosi in pittore. Ha passione per l’arte del

colore, è un cultore della bellezza, a cui ha dedicato la

vita, insieme con il recupero nelle terre desolate del

sud, perché la bellezza può riportare valore e ricchezza

nei luoghi in cui ha vissuto.

Ezio Sanapo parla di linguaggio, di codice visivo.

Parla di quando le case dei contadini erano tutte bian-

che, splendenti e uniformi. Il colore testimoniava la

purezza di questo ceto sociale, la sua umiltà e il suo

rispetto per gli occhi, ma soprattutto il rispetto per il

ceto sociale aristocratico, che poteva permettersi di

dipingere la facciata della propria abitazione con colori

diversi, sempre delicati, ma non di bianco. Quello era

il colore dei poveri. Era una forma di comunicazione e

di rispetto reciproco, un modo per intendersi pacifica-

mente e convivere nello stesso luogo avendone rispet-

to. L’armonia tra le colorazioni delle case non è solo

una manifestazione di buon gusto e cura per l’architet-

tura ma una dimostrazione di coesione culturale tra le

classi sociali che le abitano. Una sorta di dichiarazione

di forza e unione.

Porta con sé una serie di fotografie che ha fatto nel

paese in cui è nato e vive da tutta la vita. Sono foto di

case moderne, dai colori

accesi, vivaci e pacchia-

ni. Si infervora definendo

questo tipo di atteggia-

mento offensivo, pre-

varicante e prepotente.

Ricorda con nostalgia la

bellezza del paese quan-

do le case erano per lo

più tutte bianche e si po-

tevano dipingere i colori della natura senza mescolarli

a quelli dell’uomo, che con molta umiltà si asteneva dal

prendere una posizione cromatica, attraverso l’uso del

bianco.

Sanapo è un convinto comunista, ammiratore del-

la classe operaia e contadina, delle quali esalta i va-

lori e la solidità. Negli anni ottanta inizia a dipingere

quadri naive, nei quali ritrae paesaggi bucolici dai toni

delicatissimi, leggeri. I ritratti sono fiabeschi, le donne

sempre scalze e vestite in maniera povera; le abitazio-

ni bianche, come quelle di un tempo sono immerse in

sfondi sfumati e indefiniti. Il bianco predomina nelle

sue opere e si mescola delicatamente a tonalità pa-

stello. I suoi quadri sono puri, genuini, come la classe

contadina degli anni quaranta, ma portano con loro la

problematica della terra, del lavoro nei campi, della vita

nel Mezzogiorno.

ELOGIO AL BIANCO DELLA CALCERiflessioni di E. S.

I. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO

[...] Ho trovato uno scarto di libri di una biblioteca e c’era un libro che parlava di arte e lavoro nella provincia di Lecce, che era la provincia tra Otranto e Leuca, una provincia di circa cento comuni, quei comuni stabilivano delle regole riguardo la lavorazione dell’edilizia delle case, dell’aspetto architettonico e coloristico. C’erano tutte le regole alle quali attenersi. […] Sono tante singole case che formano un paesaggio, ma ognuna per conto suo, ognuna a modo suo, senza regole, perché accanto alla tua casa, io formo un paesaggio, o io guasto la tua visione della casa o tu guasti la mia, se ci mettiamo d’accordo io e te insieme possiamo formare una veduta paesaggistica accettabile, armonica. Ci mettiamo d’accordo, cerchiamo di contrastare il colore della mia casa ma senza offendere nessuno, tu fai un celestino, io uso un rosa ma non acceso, non vivace, lo spegnamo un po’, usiamo un colore che sembra un celestino, un beige che sembra rosa. Come si faceva una volta, sui palazzi i rosa erano appena accennati. Il celeste non era proprio un celeste, c’erano colori caldi e freddi.

[...] Singole facciate che io fotografavo e pubblicavo su Facebook senza dichiarare il luogo o il proprietario. Alla fine non mi interessava chi l’ha fatto, tanto io sto rappresentando quello che è un paese, una comunità che non è unita, il paesaggio è l’espressione di una comunità individualistica. Siamo in una fase di individualismo esagerato, così come sono i colori. È un comportamento che va da se, senza magari essere spiegato, o senza che ce ne rendiamo conto. Noi stiamo solo rappresentando il nostro io nella sua solitudine. E dico solitudine perché è una forma di malessere anche quella no? Tu fai qualcosa di molto appariscente e vistoso perché vuoi mettere in rilievo quello che tu presumi che non si veda bene. Perché non sei più niente, culturalmente parlando, e allora inventi qualcosa per emergere un po’ rispetto al resto che ti circonda. Ti consideri senza più identità e hai bisogno di essere visto, allora magari l’adulto lo fa con la facciata, il giovane lo fa scrivendo una frase dolce su di un muro, rivolta ad una ragazza. Faccio un po’ di ironia.

II. SULL’IRONIA COME STRUMENTO DI IDENTITÀ

E a proposito di ironia, dicevo prima a Mauro, quando la gente è molto consapevole della propria identità, l’ironia è una forma di reazione e di difesa contro qualcosa di oppressivo. Quando c’è qualcosa di opprimente e quello che ti opprime è molto superiore a te e non puoi affrontarlo ad armi pari, tu usi l’ironia che è una forma pacifica, non fa male però dissacra, e la gente, i salentini, la usavano questa forma di ironia per difendersi dall’oppressione dal Cinquecento in poi.

Io penso che tutta la storia del Salento sia una storia di emarginazione, dalla fine del Cinquecento in poi. Dopo il concilio di Trento, c’è stata una forma dura di governo della società dovuta alla condizione clericale e spagnola, qui da noi almeno. Il

Andrea

Mantovano,

Arte e lavoro.

Teoria e pratica

nell’edilizia di

Terra d’Otranto

fra Otto e

Novecento,

Congedo Editore

2003

E Z I O S A N A P O

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Mezzogiorno d’Italia, il Portogallo e la Spagna erano proprio il triangolo duro, quello dominato dalla chiesa e dalla gente benestante, dal clero, che era oppressivo. E poi è nata questa forma di letteratura che era raccontare le vicende della storia comune, che non si era mai fatto prima, da cui emergeva la verità della gente. Questo discorso si è fatto in molti paesi, nel Salento si utilizzava la figura di Papa Galeazzo, che raccontava le vicende della gente comune attraverso il personaggio di un prete: una figura nata dopo il Concilio di Trento, una forma di difesa dall’oppressione della Chiesa, che era oppressiva anche dal punto di vista sessuale, ed è per questo che la tendenza alla sessualità nel gergo salentino è una regola oggi.

Parlare degli organi sessuali nel parlare comune è normale, lo fanno anche le donne anziane che vanno in chiesa, è un linguaggio che è venuto fuori per protesta e poi è diventato consuetudine, come la bestemmia. La bestemmia è stata oggetto di studio sul come fare per fronteggiarla o impedirla. Tempo fa trovai un manifesto piegato in quattro in un libro del Cinquecento all’interno della Biblioteca Provinciale di Lecce, era un manifesto da mettere in pubblico ed elencava le penalità per chi bestemmiava. Si parlava di un tappo in bocca, la cosiddetta mordicchia.

[…] Quindi parlavamo della produzione di oggetti di terracotta, tipo i carabinieri che stanno sempre in coppia. È un souvenir del salento la statuetta del carabiniere con il pennacchio, com’erano nell’Ottocento, quando sono arrivati giù, calati dall’alto. Sapete benissimo che quando una cosa è calata dall’alto e non è richiesta, c’è sempre il rigetto, allora ecco che subentra l’ironia, ecco che nasce il fischietto sul sedere del carabiniere. Una forma di dissacrazione della figura del carabiniere, come il Papa Galeazzo. Questo succede quando la gente è molto consapevole della propria identità culturale, quando questa si perde diventa molto indifesa e ha bisogno di apparire in tutti i modi possibili.

III. SULL’ARMONIA DEL PAESAGGIO VISIVO (2)

La facciata è una forma di apparizione esagerata. Combattere questa cosa qua non è facile. Io pensavo che modificare il paesaggio fosse facile. Basterebbe imbiancare come dice il regolamento del 1889. Elogio al bianco della calce è il nome della mostra che faccio. In una lettera al ministro Bray dico che hanno distrutto molte case con la volta a stella, per motivi tecnici, per ingrandire la casa in verticale. Motivi tecnici a danno di quelli culturali. Io parlo del salentino di oggi, del meridionale di oggi come individuo, il suo stato di conservazione dopo questo sfacelo di realtà consumistica, che ha cambiato la vita a tutti. Io sto denunciando il fatto che c’è stato un eccessivo ricorso alla pietra a vista, perché è intesa come l’elemento dell’edilizia derivato dalle cornici dei palazzi in stile classico, ora lo fanno anche le case dei contadini ma le trasformano in tanti modi, le usano in tanti modi senza tenere conto della necessità di usarla. Ho visto un’insegna di un negozio di abbigliamento intimo e sulla lastra di pietra leccese era scolpita una donna con un tanga a pois. C’è questa esagerazione, questo bisogno spasmodico di apparire perché abbiamo perso identità. Se l’avessimo conservata non ce ne sarebbe stato bisogno.

[...] Io sto cercando di suscitare un po’ d’interesse in qualcuno che possa aiutarmi a fare qualcosa per salvare il paesaggio, stavo dicendo prima, sembrava una cosa da niente ma non lo è, ho capito che il motivo principale è che non ci sono più

regole in un paese ma anche nella società. Non ci sono più regole, c’è un distacco tra una generazione e l’altra, dovuta ad una mancanza di lascito tra una generazione e l’altra, un consegnare qualcosa, che erano le regole, i valori, i principii di una comunità, di una famiglia. Non c’è più un collante tra una generazione e l’altra, già questo è un problema di fondo.

[...] Allora è nato il voto di scambio. “Io sono diventato sindaco grazie al tuo appoggio, alla tua famiglia, ai tuoi amici. Come faccio quindi a proibirti di colorare la tua cosa in maniera così vistosa? Io non vedo, non so niente, non mi hai chiesto niente, non me ne sono accorto”: questo discorso di complicità è andato avanti per troppo tempo. Non c’è più memoria dei luoghi, dei principii e delle regole che conservavano la società nei decenni e tutto ciò è stato un danno procurato dal consumismo. Comprando tutto ciò che ci hanno proposto di comprare, abbiamo venduto l’anima.

[...] La Sovrintendenza alle Belle Arti, in quanto portata a tutelare i beni architettonici, si è interessata solo di quelli classici, palazzi e chiese, non dei centri storici abitati dal ceto popolare; infatti il mio è andato distrutto. Si è sparpagliato quel ceto, è andato frantumato e disperso all’estero, le loro dimore erano il patrimonio storico, centenario, della loro presenza. È stato abbandonato e distrutto con i colori che vediamo oggi. Anche dalla Sovrintendenza alle Belle Arti. Io ho denunciato al ministro questa mancanza di competenze, ho denunciato il fatto di non essersi occupati della tutela dei centri storici. Purtroppo nessuno mi ha risposto.

IV. SULLA GIUSTA RESPONSABILITÀ

Una volta si imbiancava per disinfettare la casa, per rinfrescarla ogni anno a primavera. La si usava nell’agricoltura in molti modi, la calce veniva venduta dagli ambulanti ai privati. Nel garage, nel sottoscala, tutti avevano il Caucinaru, usato per farci bollire la calce in acqua, che sciogliendosi diventa pasta omogenea e compatta. L’imbianchino andava a casa della gente, l’abitante gli mostrava la sua calce, l’imbianchino la scioglieva nell’acqua, la setacciava e imbiancava, con lo stesso materiale del proprietario della casa. Se la calce non era buona era colpa del proprietario, non dell’imbianchino — quindi mia —, se spolverava non era colpa mia, voleva dire che era bruciata. Quando un sasso di calce duro viene messo nell’acqua a bollire deve essere coperto di acqua, se durante la cottura la pietra si gonfia ed emerge dall’acqua si spappola a secco e diventa debole. L’acqua la rinforza, così invece diventa granulosa e si spolvera. E non è molto aderente al muro, ecco.

Mi ricordo il gesto, di più di una signora quando ero ragazzino, mi ricordo che mi chiedevano: “puoi darmi una mano a spostare l’armadio?”. Una volta c’erano questi armadi pesanti con i piedi deboli, a furia di spostarli ogni anno si indebolivano, rischiavano di spezzarsi e poi magari cadevano. La signora era accanto a me e nascondeva dietro di sé la scopa e, non appena spostavo l’armadio, con un gesto rapido puliva il muro, il fondale dell’armadio e per terra, che ne so... gomitoli, scarafaggi, tutto veniva raccolto in un baleno e tu non vedevi niente, se lo portava via e tu non vedevi nulla. Tutto pulito. Lo faceva perché si vergognava a far vedere che magari c’erano ragnatele o sporcizia.

Walter Mazzotta

(a cura di),

I racconti di

Papa Galeazzo,

Ediprogram

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Il Mediterraneo è il centro della nostra civiltà. Nei Paesi che vi si affacciano si è sviluppata un’identità artistica che merita analisi e valutazioni approfondite, proprio per soddisfare il desiderio di consolidarne i caratteri, di renderli distinti dall’“interna-zionalismo” che tutto uniforma e appiatti-sce. Finora, l’attenzione a questo argomen-to è quasi sempre stata rivolta velocemente, con superficialità, e si è rivelata incapace di evidenziare in modo sostanziale — al di là dei sensi e delle forme di un certo folclori-smo — aspetti, funzioni, tecnologie, imma-gini in grado di valorizzare il Mediterraneo e, addirittura, proiettarne l’immagine in ogni parte del mondo.

In tale contesto, anche l’architettura medi-terranea non è da ritenersi solo un “segno stilistico”, appartenente a epoche o, per lo meno, ad anni del passato. È certamente riduttivo cercare di definirla attraverso la monumentalità, la grandiosità, lo sviluppo di materiali e sistemi di avanzata tecnolo-gia; essa rappresenta, nella sostanza, uno specifico modo di porsi di fronte al proble-

ma costruttivo, una tendenza, un atteggiamento, sicuramente una soluzione. È così simbolo di uno stile alternativo, semplice e affida-bile, al dilagare di progetti che sono frutto di una fantasia sfrenata, che propongono le forme più strane, le tecnologie più esasperate, gli stri-dori più spinti e dimostrano indif-ferenza totale verso il paesaggio, la storia, la tradizione, la consuetudi-ne.

[...] Quali definizioni per l’architet-tura mediterranea? Quali caratteri la distinguono? Pochi sono i suoi

modelli abitativi, poiché essa conforma il territorio secondo semplici percorsi di razionalità e geometria. [...] Si adatta alle accidentalità del terreno; si ripete linear-mente negli insediamenti a schiera lungo le coste marine, o lungo le direttrici stradali di regioni interne; si esprime in costruzioni isolate che identificano punti di osserva-zione ed emergenze paesaggistiche. Si con-figura in tipologie volumetriche elementari che si compongono di parti distinguibili funzionalmente: il tetto a terrazza o a fal-da semplice; il patio, il fronte di affaccio; l’intonacatura a colori tenui, per favorire la riflessione del calore o l’identificazione della superficie.

[...] Le costruzioni nell’area mediterranea dimostrano in questo modo che l’architet-tura è soprattutto un’arte collettiva, poi-ché accetta e affronta, con il contributo di diverse componenti tecniche, gli aspetti, le ideologie, le problematiche della realtà e dello sviluppo sociale. Di sicuro, l’archi-tettura del Mediterraneo offre interessanti e alternativi punti di analisi e valutazione della tecnologia costruttiva e pone a con-fronto i criteri di semplicità con quelli di più avanzata tecnologia, quelli basati sulla tradizione con quelli rivolti alla sperimen-tazione; rende validi i principi dell’isola-mento e dell’inerzia termica, offrendo al progettista una varietà di soluzioni razio-nali, affidabili ed efficaci nel lungo perio-do. [...]

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V. SULLA PRATICA ARTISTICA COME IMPEGNO

Io sto portando avanti questa lotta da quando ho cominciato a prendere coscienze della realtà della mia terra, del Salento. Quando tornai dalla Svizzera negli anni Settanta e andava di moda fare politica, impegnarsi nei sindacati. Poi c’era anche un ritorno alla cultura popolare negli anni Settanta, un ritorno molto sentito, anche nel nord. Nei film, ad esempio con Novecento di Bertolucci, e nella letteratura con Fontamara di Silone, che parlavano di un ritorno del ceto contadino, che è stato perso e ripreso verso la fine degli anni Ottanta, ma più come una moda ed è un peccato tutto ciò. Negli anni Settanta era più sentito, era “un prendere coscienza” della propria identità. E io cominciavo a dipingere, ad usare il linguaggio della pittura, partecipavo a delle mostre e questo suscitava molto interesse, dipingevo anche se era problematico.

Nei primi Novanta c’è stato un ritorno al proprio habitat, al proprio privato, c’è stato il tentativo di persuadere la gente a tornare nel privato attraverso la strategia della tensione, le stragi, gli attentati, facendo credere che tutto ciò che è fuori non è più sicuro. Tu passeggi ma non ti senti sicuro, tutto ad un tratto ti scoppia una bomba accanto, oppure in stazione. Insomma, una strategia per far tornare la gente nelle proprie case, fino a disinteressarsi dei problemi sociali, non far più delle manifestazioni, o andare a combattere per le riforme per le leggi, come l’aborto, la reversibilità, che erano temi caldi del periodo. Facendo frantumare tutto, si frantuma la comunità e si ha una società di singoli individui che non comunicano tra loro e che non rivendicano niente singolarmente. Io me ne accorgevo perché, quando esponevo negli anni Novanta e qualcuno si fermava in galleria, si teneva ad una certa distanza dai quadri. Allora gli si diceva che poteva avvicinarsi, ma c’era qualcosa che indisponeva gli spettatori e fondamentalmente era la vista di una problematica, quella che io esponevo attraverso i quadri. Un invito ad impegnarsi un po’, ma nessuno si voleva davvero impegnare.

[...] L’artista non è un titolo, è uno stato d’animo, l’arte è un modo di leggere le cose e le persone, e capirle meglio, capirle e rispettarle. La realtà non è piatta come la vediamo ad occhio nudo. Tutte le cose hanno un’anima, io sono credente ma in termini religiosi si dice “hanno un’anima” e io dico “c’è poesia nelle persone”, la poesia è l’anima delle cose. L’arte è una forma di comunicazione, non è una forma di mercato, non serve ad altro. Ormai si è confuso tutto ultimamente, tutto è mercato quindi anche l’arte. Insegnare ai ragazzi cos’è l’arte è un buon inizio, perché gli adulti sono già indisposti. Si presume che in quanto adulto, si rechi ad una mostra solo per comprare, ma non è vero, l’arte serve per comunicare, per trasmettere dei valori. Gli adulti hanno bisogno dei ragazzi. C’è bisogno di unire le generazioni e creare un collante con il quale legarle: le regole, i valori. L’arte è una provocazione, deve essere anche quello, non è solo una forma poetica, deve essere ironica. Quando uno ci mette buona volontà tutti possiamo essere artisti, io sono un autodidatta. Ho la quinta elementare perciò ho imparato da solo a leggere e a scrivere correttamente.

[…] C’era un rapporto di complicità con tutto quello che ci circonda. Tutti i mestieri che ho fatto, l’imbianchino, il decoratore... sono una reazione del mio carattere, un modo che ho sviluppato per amare il prossimo e tutto ciò che mi circonda, la realtà la società, la mia terra. Sono più sensibile e ne soffro di più e sento di dover fare qualcosa per richiamare l’attenzione verso coloro che non se ne accorgono. Occorre essere un po’ sensibili, un po’ emotivi per leggere le cose.

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La storia dell’architettura,

com’é scritta e insegnata nel mondo occidentale, si occupa solo di poche culture selezionate. Considera solo una piccola parte del globo — l’Europa e segmenti dell’Egitto e dell’Anatolia. Inoltre l’evoluzione dell’architettura è studiata solo nelle sue ultime fasi. Sorvolandoi primi cinquanta secoli, i cronisti ci presentano un apparato di architettura “formale”, un modo arbitrario di introdurci all’arte del costruire, come sarebbe quello di datare la nascita della musica con l’avvento dell’orchestra sinfonica. Questo approccio discriminativo degli storiciè dovuto al loro parrocchialismo. Ci sono poi i pregiudizi sociali. la storia dell’architettura che ci viene propinata ammonta a poco più di un “chi è?” di architetti che celebrano il potere e la ricchezza, un’antologiadi edifici di, da e per privilegiati.

Bernard Rudofsky, Architecture without architects.A Short Introduction to Non-Pedigreed Architecture,The Museum of Modern Art, New York, 1965

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Consiglio Nazionale Delle Ricerche

RICERCHE SULLE DIMORERURALI IN ITALIA

Vol. 28

CARMELO COLAMONICO

La casa ruralenella Puglia

con contributi diOsvaldo Baldacci, Andrea A. Bissanti,

Luigi Ranieri E Benito Spano

FIRENZELEO S. OLSCHKI EDITORE

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grafiche diverse. Da qui, le sue peculiari caratteristi-che etniche e dialettali, geneticamente riconducibili alla stessa posizione geografica della penisola e alla sua anzidetta protensione nel mare verso altri cen-tri d’irradiazione culturale. Le dibattute influenze che le vicende immigratorie e i conseguenti apporti di cultura esogena di provenienza orientale avreb-bero esercitato anche nella sua tradizione edilizia non sono chiaramente determinate. È un fatto però inoppugnabile che il Salento rappresenta, con la vi-cina Murgia dei Trulli, il paese in cui l’architettura a strobilo ha la massima diffusione e le più variate applicazioni, e incontrovertibile altresì la circostan-za — chiaramente rilevata dalla presente indagine — che non va oltre il confine meridionale della pia-na messapica l’areale del caseggiato a corti, affatto sconosciuto nella forma agglomerata agli altri centri pugliesi, quanto comune a diverse altre “province” culturali del mondo mediterraneo.

2. Forme e caratteri della casa di paese. — La scarsa rilevanza dell’insediamento rurale disperso attribuisce anche qui un interesse preminente all’e-same delle caratteristiche della dimora paesana e delle forme dei ripari campestri che ne rappresen-tano il necessario complemento. Anche calcolando il nuovo apporto al decentramento agricolo determi-nato di recente dall’attuazione della riforma agro–fondiaria, in nessun Comune della regione il numero degli abitanti permanentemente stanziati in campa-gna raggiunge l’aliquota del 10% della popolazione totale. Dei nove e più abitanti su dieci, accentrati nel villaggio, quelli appartenenti al ceto rurale devono, al solito, dividere la loro vita tra il domicilio in pa-ese e il casolare o il ricovero di campagna, sottopo-nendosi a spostamenti giornalieri anche su distanze notevoli. La sistemazione in paese raramente è oggi nei limiti di una dimora elementare, formata di un solo ambiente d’uso indifferenziato e promiscuo. Ciò vale specialmente per i centri della parte istmide della penisola, dove non esiste, o vi è presente ecce-zionalmente, il caseggiato a corte che caratterizza invece quelli del Salento leccese. Nelle dimore pa-esane del Salento tarantino e brindisino il massimo grado di elementarità strutturale consiste già nello schema di un’abitazione monocellulare sovrapposta a un seminterrato di varia utilità, oppure, più cor-

rentemente, nelle linee già note di un gran vano uni-tario internamente suddiviso, mediante separatori orizzontali e verticali, nel quadruplice spartito della sala-cucina (corrispondente al semivano anteriore), dell’alcova, della camerina e del magazzino sotto volta. Non è comunque in quest’ordine di struttu-re e dimensioni che l’edilizia salentina può ancora prospettarci, rispetto alle subregioni vicine, una sua propria tipologia. Motivi nuovi e originali non com-paiono che al livello delle abitazioni maggiori con ambienti disposti l’un dietro l’altro, secondo lo sche-ma della cosiddetta casa a correduru. L’espressione definisce propriamente una dimora composta di al-meno tre vani, uno anteriore, più ampio (camera de nanzi o de nanti, con funzione di soggiorno e locale per ricevere), e gli altri due, aventi un lato in comune ma senza comunicazione diretta fra loro, entrambi addossati alla parete di fondo del primo. Il correduru o correturu, ricavato in quello dei due vani minori in cui è per solito allogata la cucina, è in sostanza l’an-dito di attraversamento della metà posteriore dell’a-bitazione (della sua parte centrale, nel caso di una struttura più complessa). Allungato lateralmente al divisorio interno e compreso fra le due porte per le quali si accede dalla stanza anteriore all’ortale (op-pure al vano più interno di successiva edificazione), il corridoio risulta delimitato superiormente da un assito di tavole (‘ntaulatu) o nei tipi modificati da una soletta di cemento (soglia) che serve come ripo-stiglio e dispensa (maazzenu, malanzenu, tramenza-nu, ma anche paiaru e paiera quando ha l’accesso dalla stalla attigua o viene comunque utlizzato pre-cipuamente per contenervi una partita di foraggi). La casa a correduru, già frequente nei pae-si dell’Albania salentina — dove pure si arricchisce della cantina vinaria (lu ciddharu) localmente il più comune accessorio della dimora accentrata —, è più tipica e diffusa nei centri della piana messapica, dentro un’area che abbraccia quasi tutto l’entroterra brindisino, fra le Murge di Taranto, i primi gradoni dell’altopiano continentale e la strozzatura media-na della penisola. Su questa terza fronte rivolta al Salento leccese, il tipo della casa con disimpegno a corridoio e mezzanino sovrastante dirada assai ra-pidamente per cedere posto e importanza ad altre forme più specifiche della subregione delle Serre. Differiscono sensibilmente al di qua del collo di tor-

1. Premessa. — La depressione occupata dal Mar Piccolo e il lungo solco d’impluvio del Canale Reale, svolgentesi alla base della terrazzata zolla murgiana, segnano sul terreno il passaggio dalla Pu-glia continentale alla sua estrema propaggine penin-sulare, storicamente individuata come stanza delle genti salentine. Nell’unità geografica della regione pugliese — affermata fondamentalmente dalla natura comu-ne della roccia madre e da una monotona tematica morfologica a larghissima predominanza di superfi-ci tabulari — questa ultima contrada del paese, am-pia da sola circa il doppio delle due subregioni prima esaminate, si inscrive con una propria interpretazio-ne delle strutture comuni e con motivi, da fisici a umani e culturali, di più o meno chiara originalità. Ha importanza anzitutto la sua stessa posizione all’estremo sud della regione, già notevolmente al-lungata nel senso della latitudine, e anche di più, in quanto primo fattore d’individuazione geografica, la sua configurazione a penisola slanciata a ponte fra due mari in direzione dell’oriente mediterraneo. Nel-la struttura del rilievo, codesta entità peninsulare, in parte, riprende il tipo morfologico della Puglia piana settentrionale; in parte, svolge ampiamente il nuovo motivo plastico delle lunghe dorsali a statura colli-nare, disposte secondo l’asse della penisola o margi-nalmente alle sue fronti litorali e infine convergenti con queste alla cuspide spartiacque del Capo di Leu-ca. Se, pertanto, la pianura messapica rappresenta semplicemente una replica, al di qua dell’altopiano centrale, del Tavoliere di Foggia (una replica peral-tro minore e idrograficamente impoverita, ma pure fasciata da tutt’altro rivestimento agrario), la ner-vatura delle “serre”, già nettamente profilata nella sezione istmide del paese (con quel primo fascio di corrugamenti che prende il nome di “Serre della Ma-rina” o di “Murge Tarantine”), conferisce lineamenti

orografici propri al territorio salentino. Sul fondo di tale caratterizzazione fisica, insorgono pure mode-rati mutamenti, rispetto alle attigue subregioni d’al-topiano e di anfiteatro marginale, in ordine ai fatti di geografia umana. Nel determinare il trapasso a un paese di bassure appena sollevate nelle ondulazioni serra-ne, la “soglia messapica” segna anche la scomparsa quasi perentoria dell’insediamento umano disperso (caratteristico delle Murge Basse e dei loro piatti scaglioni premessapici), mentre rimpicciolisce il modulo di quello accentrato. Si esprime cioè altri-menti, in forma più attenuata, in quest’ultimo lembo di terra pugliese, il fenomeno comune a quasi tut-ta la Puglia continentale dell’agglomeramento delle popolazioni contadine in grossi centri di dimensioni urbane. Più precisamente, grossi agglomerati com-patti caratterizzano ancora il popolamento della pianura messapica, ma nel Salento tarantino e poi, a sud della strozzatura mediana della penisola, in quasi tutto il Salento leccese l’insediamento uma-no si distribuisce in centri di minore entità della media regionale e piuttosto ravvicinati fra loro. Se perciò l’“accentramento agricolo” raggiunge local-mente valori anche più elevati che in altre contrade pugliesi, le conseguenze del fenomeno, nei riguardi dell’economia agraria, vi sono temperate da codesto frazionamento della coperta umana. Alla maggiore densità di sedi accentrate corrisponde in effetti un più compatto rivestimento agricolo costituito dalla normale trilogia di vite, olivo e tabacco. Infine, scendendo dall’altopiano si avverte anche un sensibile cambiamento in ordine ai fatti culturali. La parte peninsulare della vecchia Terra d’Otranto, essa sola costituente l’autentico paese dei salentini, ha espletato realmente nel corso dei tempi, da quelli preclassici al periodo attuale, attive funzioni di tramite nei rapporti umani tra aree geo-

Capitolo IX

LA PENISOLA SALENTINABenito Spano

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sostituzione. Fanno le spese di questa volontà pia-nificatrice soprattutto le grandi corti, per lo spazio che ciascuna di esse racchiude. Si accentua perciò ogni anno di più la preponderanza numerica delle piccole corti per poche famiglie e accanto ad esse la frequenza delle “corti singole” contenenti una sola abitazione, ma abitate da rurali di condizione supe-riore alla media. Nel passaggio dall’area delle corti — sostan-zialmente corrispondente ai vecchi ambiti murati — alle zone di espansione fuori borgo, il caseggiato di paese si distende in schiere longitudinali, ogni abi-tazione disponendosi con affaccio diretto sulla via. Rispetto alle case occupate da famiglie di altra con-dizione, rivelano in ogni schiera la loro caratterizza-zione rurale quelle che affiancano nel prospetto una porta e un portone: la porta mette nella camera prin-cipale che fa pure da disimpegno per tutti i vani suc-cessivi fino alla cucina; il portone introduce invece nella rimessa (sampuertu o simportu), abbastanza capace per contenere la stalluccia della giumenta (appartata sul fondo mediante un divisorio di muro o di tavole tirato sino a metà altezza del vano), il carro agricolo e l’aratro nella parte anteriore; il fienile e i telai del tabacco nell’ammezzato di tavole sopra-stante. Pareti e volta del vano, che è sempre il mag-giore della casa, si presentano al solito variamente tappezzate di filze di prodotti agricoli da conservare o in essiccazione. È questo il tipo normale della casa con rimessa, che altri amplia costruendo la stalla nella superficie dell’ortale (sciardinu, perché più

grande della ssuta) onde riservare la rimessa a locale di essiccazione del tabacco, a cellaio e alle funzioni di magazzino agricolo (la rimessa si trasforma in an-drone laterale, ma ha sempre uno spazio riservato al carro). […]

4. Le altre dimore di campagna e la varietà

dei ripari sparsi sui fondi. — Entro un certo raggio all’interno di ogni centro abitato, là dove più si com-plica e infittisce il mosaico particellare del suolo produttivo e più intenso è il rigoglio delle coltiva-zioni, l’antico insediamento a masserie ha ceduto il predominio ad altre forme di abitazioni rurali. Le tracce residue e raramente vitali del vecchio modo di abitato quasi scompaiono, attraverso codesti spazi irregolarmente circolari, in mezzo a una più o meno fitta disseminazione di costruzioni minori e più mo-derne, le quali, assieme all’accresciuta intensità e varietà delle colture agrarie, avvertono della perma-nenza del lavoro contadino sui fondi. A ciascuna unità fondiaria, costituita nella media normalità da poche parcelle tenute a colture ortive (irrigate con acqua di pozzi), a tabacco, a viti e a fruttiferi, corrisponde un nucleo edile composto di abitazione (o abitazioni) e di annessi rustici, che i locali definiscono con nomi diversi, tratti dalla lin-gua e dal dialetto: “giardino”, “casa”, “casina”, “tor-re”, “casino”, “villino” e “villa”. Tale nomenclatura, ben più differenziata di quanto non richieda la reale varietà dei tipi edilizi e delle strutture agrarie, com-prende peraltro definizioni equivalenti. L’abitazione

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sione della penisola anche l’impianto del vecchio caseggiato paesano, al vicinato del vicolo sostituen-dosi quello della corte comune a più abitazioni. Per tale nuova disposizione, comune a tutti i centri dell’area peninsulare leccese, le abitazioni paesane non prospettano direttamente sulle strade del borgo. Ne sono separate da un cortile di varia forma e grandezza, che limita sulla via o con un sem-plice muro tirato fino all’altezza media di una casa a terreno o con la stessa parete di fondo delle abita-zioni che, volgendo le spalle alla strada, definiscono il lato esterno del perimetro. Nel suo aspetto originario ogni scorcio stra-dale si caratterizza pertanto dal riscontro di due cortine murali parallele, a tratti in fabbricato grezzo o bianche d’intonaco, che espongono, come uniche aperture, séguiti irregolari di portoni e di ingres-si comuni ai cortili interni. Le case di ogni gruppo, raramente disposte in altro modo che su fronti ret-tilinee convergenti ad angolo retto, non sempre oc-cupano e determinano coi loro allineamenti tutti e quattro i lati del cortile. Sono anzi frequentissime le schiere semplici o articolate a squadra (su due lati contigui), soprattutto comuni nei cortili di forma stretta e allungata, il cui rettangolo sia perpendi-colare alla strada. Cortili stretti e allungati in senso parallelo alla via contengono più spesso due schiere di abitazioni, quella di fondo alquanto più lungo del-la dirimpettaia, essendo questa interrotta dal por-tico dell’ingresso. Una schiera più lunga di un’altra comprende anche un maggior numero di abitazioni. La regola è infatti che tutte le case si affaccino sul cortile con un prospetto non maggiore di un lato del vano d’ingresso e che gli altri ambienti siano costru-

iti uno dietro l’altro (eccezionalmente sopra quelli a terreno) e accresciuti eventualmente con dipenden-ze tecniche appartate nell’ortale che ne completi la pianta sul fondo. Ogni unità di abitazione impegna dunque del circuito della corte, o della lunghezza complessiva dei lati abitati, quel breve tratto che è necessario per collocarvi l’entrata ed eventualmente una finestra, ricavata come apertura sussidiaria del-lo stesso vano anteriore. Vario è il numero di abitazioni contenute nel-la “corte” salentina. Vi sono cortili occupati da due–tre famiglie e cortili con dieci–dodici abitazioni, i più grandi con un numero anche maggiore. L’esem-plare in pianta, rilevato nel vecchio abitato “a corte” di Martano, è un tipico cortile collettivo di medie dimensioni, con pozzo centrale e tre grandi botole granarie un tempo adoperate dalla piccola comunità per conservare provvigioni e scorte agricole. Com-prende sette abitazioni, tutte occupate da rurali (del ceto contadino) e formate, eccetto le due più piccole, da almeno un paio di ambienti (cucina–soggiorno e letto–ripostiglio). Una dimora della schiera laterale è fornita di cantina seminterrata; le tre costituenti l’asse di prospetto, danno sul retro in piccoli ortali tenuti a verziere e giardino. Riflettono una comune normalità le dimensioni, la disposizione ambientale e le strutture delle abitazioni (ancora del tipo con copertura a pioventi), ed è normale altresì l’assen-za di piani superiori al terraneo o al rilevato, così comuni viceversa nelle corti plurifamiliari della re-gione partenopea e della pianura lombarda. La fre-quenza delle piccole e delle grandi corti appare oggi nel Salento fortemente alterata in ogni centro abita-to dallo sviluppo preso dappertutto dalla edilizia di

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secco. I passaggi all’architettura tutta di pietra sono peraltro mediati da fasce o zone particolari a preva-lenza di forme miste, di pietre e vegetali. I pagliai (pagghiari, ancora, e pagghiaruni, i più grandi) del-le contrade periferiche alla pianura messapica sono sempre dei ripari di questo tipo. Risalendo la gra-dinata murgiana, tra Francavilla e Carovigno, essi arrivano a mescolarsi superiormente con le forme tipiche della Murgia dei Trulli o, localmente, con quelle secondarie della casedda ostunese; verso le Murge Tarantine e le Serre mandano incastri nelle aree specifiche dei ripari troncoconici già di forme tipicamente meridionali. Sui rilievi delle “murge” a sudest di Taranto, le costruzioni tutte di pietre a secco sono nella gran-de maggioranza di proporzioni rilevanti. Si tratta di grossi ripari gradonati, a due, tre e fino a cinque ordini di ripiani circolari, vale a dire formati da due, tre, cinque tronchi di cono sovrapposti, ciascuno af-fiancato da un segmento della scala elicoidale che porta sulla spianata in sommità. Ed è pure rimar-chevole che appare qui, per la prima volta, come autenticamente indigena la voce truddu (o troddulu) per designare queste espressioni dell’architettura “a tholos”. Le popolazioni di Lizzano e di Maruggio pronunciano truddu; ad Avetrana si dice tròddulu; al plurale le flessioni corrispondenti sono truddi e tròdduri o tròdduli. Con la loro disseminazione, i trulli delle Murge Tarantine individuano dunque una prima area di costruzioni a secco di tipo più schiet-tamente peninsulare e di dimensioni giganti, quali

non ritroveremo prima di giungere a sud di Gallipoli. In genere, diradano nelle piaghe olivetano, dove si vedono pure gli esemplari più arcaici (e fra questi parecchi già decrepiti e in rovina); mentre si affit-tiscono sui terreni a vigneto. È connesso comunque alla espansione della viticoltura il continuo molti-plicarsi dei trulli: se ne costruiscono tuttora, con preferenza per le forme a più terrazze, associando a ciascuna costruzione i truogoli per le soluzioni an-ticrittogamiche, nonché uno o due ripuesti, capaci vasche seminterrate costruite in sito, con “fette” di tufo e piano di cemento inclinato verso un pezzetto d’angolo, per depositarvi provvisoriamente il raccol-to del vigneto durante le operazioni di vendemmia. Appartiene a questa prima area di grossi ripa-ri in pietre a secco una forma tutt’affatto particolare di costruzione rustica (pure associata normalmente alla coltura della vite) che fa a metà tra il trullo gra-donato e la casetta in muratura. A Sava, che ne rap-presenta il principale centro di dispersione, prende il nome di “casile”: lo chiamerò pertanto “casile sa-vese”. Il suo aspetto è appunto quello di una casupo-la monovano, costruita senza fondazioni ma raffor-zata su tre lati da un robusto contrafforte di pietre a secco, dello spesso da uno a un metro e mezzo e alto poco meno di due metri. Dalla formazione di questo rincalzo prende inizio la sua costruzione, che solo nella seconda fase prevede l’innalzamento dei muri a calce dell’abitacolo. Negli esemplari meglio rifini-ti, la volta del casile è a botte, la copertura esterna, un lastricato di chianche, il piano di calpestio, una

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del giardino (lu sciardinu) non è sostanzialmente di-versa dalla comune casa di una qualsiasi altra pro-prietà contadina. Entrambe consistono normalmen-te in costruzioni del tipo unitario e a piano terra, internamente suddivise in due o più ambienti abi-tabili ed eventualmente affiancate da un accessorio destinato a ricovero per l’animale da lavoro, oppure a ripostiglio di attrezzi e magazzino provvisorio (ar-còa, rimessa, suppuertu a seconda delle zone). [...] Mi pare, in definitiva, di poter fissare per queste forme di abitato le normali dissomiglianze accennate dalla nomenclatura nelle seguenti co-stanti: la “casa” di fondo a colture intensive e quella del “giardino”, sono per lo più l’abitazione stessa a carattere permanente del proprietario diretto–col-tivatore; la “casina” può anche essere soltanto l’a-bitazione a carattere stagionale del proprietario–coltivatore il quale vi si trasferisce dal paese con la famiglia nei mesi in cui si “fa l’orto” o si raccoglie e lavora il tabacco; il “casino” e la torre di villeg-giatura o il villino sono determinati dall’unione di due abitazioni, quella temporanea del padrone del fondo e quella permanente del colono; la “villa agri-cola”, infine, denota una condizione come quella del casino ma spesso, nei paraggi immediati dei centri abitati, risulta dall’unione di due abitazioni perma-nenti, quando anche la famiglia del proprietario ha stabile domicilio nella casa di campagna. Appena fuori da queste aree particolari di abitazioni sparse e di coltivazioni intensive riappa-re il dominio caratteristico dell’abitato a carattere temporaneo e dei ripari campestri. Tutti i contadini della piana messapica e delle depressioni fra le Serre sono abili costruttori di capanne vegetali. Ne costru-iscono di forme e grandezze assai diverse, come an-nessi alle case sparse (di tipo tradizionale e nuovo) e come ripari e rustici isolati. Dove l’aratro e la vanga portano in superficie quantità di pietre sufficienti, si dà alla pagghiara un carattere di maggiore stabilità, componendo su basi di pietre a secco le strutture ve-getali; altrimenti si procura di assicurare al manufat-to pagliaceo una migliore tenuta con l’accuratezza degli incastri e la solidità complessiva del telaio. Si vedono grosse capanne isolate o a coppia (una per gli uomini e gli strumenti di lavoro, l’altra per la giu-menta e il carro o usata come magazzino provvisorio del raccolto) costruite per durare molti anni, appena

rinnovandosi nel fasciame pagliaceo; altre invece, più piccole e di fattura meno curata, destinate a vita più effimera. Tali sono, in ogni caso, i ripari vegetali formati da due pioventi direttamente poggianti sul terreno (umbracchiu) che costruiscono i tabacchicol-tori del Capo su terreni presi in fitto per una coltiva-zione, e che essi stessi solitamente distruggono alla fine della campagna. Anche nel corredo rustico delle case sparse vi sono normalmente tettoie e capanne di assai varia dimensione e funzionalità, che ne esaltano l’ambien-tamento in un quadro di terre basse e relativamente povere di pietrame. Di tali complementi, interamen-te o in massima parte formati con frasche, ramaglie di ulivi, canne palustri e paglia di cereali, sono spes-so dotate anche le nuove costruzioni insorte nelle aree di riforma, per ogni altro carattere tutt’affatto estranee alla tradizione edilizia indigena. Le forme di codesto abitato colonico, distribuite peraltro in contrade particolari lungo le due facciate costiere della penisola già dominate dall’incolto e vuote o quasi vuote di insediamenti fissi, ripropongono con maggior insistenza il modulo di una abitazione a piano terra, composta di tre o quattro vani princi-pali (compresi il magazzino delle scorte e la cucina) un portico a due archi o una tettoia e corredata di un gruppo di dipendenze rustiche imperniato sulla stal-la e sul forno; oppure — localmente e come espres-sione di una fase costruttiva più recente — il tipo del-la casa unitaria disposta su due piani, con in più e di diverso, rispetto allo schema precedente, una terza stanza per dormire e i rustici incorporati (nei vani terranei). Per la prima forma, di gran lunga la più diffusa, sia nella versione con tetto a pioventi, sia in quella con copertura a terrazza, si potrebbe parlare di costruzioni “tipo Arneo”, rispettivamente, e “tipo Serranova”, dal nome delle contrade che ne risultano massimamente impegnate; per l’altra di un impianto “tipo Cerano” certamente il più evoluto, funzionale ed esteticamente curato fra quanti ne ha espresso nell’intera regione questa edilizia eterodossa legata alla recente riforma agricola. Come i territori piani definiscono nel loro complesso la grande area delle capanne vegetali, le plaghe rilevate (terrazzamento perimurgiano, Murge Tarantine e Serre) formano il dominio degli annes-si e dei ripari isolati costruiti solo con pietrame a

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murge baresi

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strozzatura istmide

areale degli uliveti

areale dei vigneti

“le serre”

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salentina (paiaru) i nomi di cali o calavaci o chipùru, quest’ultimo segnalato come più propriamente ma-gliese. Una diversità originaria di funzioni, fra gli elementi destinati precipuamente a pagliai e riposti-gli e quelli adibiti più segnatamente a ricoveri per l’uomo, riscaldabili col fuoco, od anche ad essiccatoi per i fichi. Furni dei ficheti o paiari dei seminativi, le co-struzioni a trullo forniscono comunque, attualmen-te, un confortevole rifugio al contadino sia per l’am-piezza dell’abitacolo, sia per il relativo isolamento che la grossezza dei muri e della volta vi consente dalle temperature esterne. Nelle giornate più fredde lasciano la possibilità di accendervi dei fuochi, come rivelano molte volte ceneri e sterpi ammucchiati en-tro un circolo di sassi, come la parete attigua anne-riti dalla fuliggine. Ve ne sono anche di dimensioni assai rilevanti, paragonabili ai trulli plurigradonati delle Murge tarantine: gli esemplari più grandi, a tre, quattro, cinque gradoni si rinvengono più par-ticolarmente dentro un’area che insiste sulla serra di Ugento, ma che ha già i suoi avamposti presso la costa gallipolina, da un lato (Torre del Pizzo), e ne-gli uliveti tra Morciano e Salve, dall’altro. In uno di questi esemplari situati più a sud ho misurato (in una costruzione a tre tronchi di cono sovrapposti e alta al culmine intorno ai 14 m) uno spessore murario alla base di oltre quattro metri. Nell’ampio abitacolo era-no custodite numerose scale di legno, di quelle che si adoperano localmente per la rimonda degli ulivi, altrove per cogliere le olive pendenti. Il vasto piano di terra battuta era altrimenti ingombro di cataste di ramaglie, ivi accumulate come scorta di legna da ardere per l’inverno. Ma oltre ad essersi perfezionata sino ad esprime edifici di queste dimensioni, l’architettura della pietra ha segnato qui anche una evoluzione in-teressante verso forme le più adatte ad essere tra-sformate in dimore di campagna. Affiancando due o più trulli a base quadrata e sostituendo la copertura “a tholos” con la volta “a lamia”, il muratore lapici-da ha realizzato la forma rettangolare anche molto allungata del vecchio riparo; una forma detta ap-punto dalla struttura del tetto lamia (da Otranto a Tricase), liama nell’Ugentino, e lamione (quella più grande). Forniti di focolare, intonacati e provvisti di infissi alle aperture, lamie e lamioni costituiscono

attualmente le più caratteristiche dimore staglionali sparse dell’estremo Salento, soprattutto frequenti nel basso Ugentino, tra la serra e il mare; intorno al Capo di Leuca e nei Comuni a sud di Otranto. […] Non tutta la provincia di Lecce è ugualmente costellata di edicole in pietre a secco. Nelle parti pia-neggianti o depresse tra una serra e l’altra, dove pure diminuisce relativamente la disponibilità di materia-li lapidei alla superficie del terreno, l’architettura di pietra non cementata cede il posto a una prevalenza di case monocellulari, fabbricate a calce e coperte di laterizi (casa te l’imbreci, casa a dettu, casipula, casiceddha ecc.). Costruite a coppia per ricavarne una unità bicellulare (un elemento per l’uomo, l’altro per la stalla o magazzino), oppure corredate di un annesso laterale ad unico piovente (suppinna o vetto-glia), esse definiscono il tipo dell’abitazione stagio-nale di tutta un’area centrale che va da San Cesario a Ruffano. Spesso presentano pure una tettoia sopra l’ingresso che ha la funzione di riparare dal sole (e detta perciò ‘mbracchiu), ma che, con qualche adat-tamento, può venire utilizzata per la cucina estiva. Sorgono per lo più su piccole proprietà contadine, derivanti da vecchie lottizzazioni enfiteutiche di grossi patrimoni fondiari, tenute a ortaggi, a tabac-co e a colture permanenti di tipo legnoso (vigneto e fruttiferi). La famiglia vi si trasferisce nei mesi da maggio a ottobre, per attendere alle operazioni col-turali del tabacco, alla coltivazione dell’orto e infine alla vendemmia. Per il resto dell’anno le vettoglie o case con suppinna ridivengono dei semplici ricoveri diurni per il lavoratore, che vi ritorna quotidiana-mente dal paese, e dei depositi di attrezzi. In tutte le dimore di campagna ricordate sino a questo momento, dalla lamia alla casa con suppin-na fino al casino, alla masseria e alla villa agricola, raramente l’abitatore non ha a che fare con la col-tivazione dei tabacchi orientali. Una parte benché modesta dello spazio messo al riparo di un tetto vi è sempre riservata ai bisogni di questa coltura che, nonostante un recente declino (manifestatosi come conseguenza dello sviluppo della emigrazione all’estero), rappresenta sempre una delle più adatte all’ambiente e delle più redditizie. È in funzione di questa coltura la trasformazione avvenuta nell’ulti-mo mezzo secolo nell’edilizia rurale dell’estrema pe-nisola salentina. […]

stesa di cemento, utile anche per depositarvi l’uva appena raccolta: in questo caso si conferisce al pavi-mento una lieve inclinazione verso una “conchetta” d’angolo, destinata a raccogliere il mosto. Ma anche nei tipi più rudimentali (che intanto provano l’anti-chità di questo modo di costruire il riparo sui fondi) è quasi sempre un manufatto fornito di focolare a muro, di infissi all’uscio e di due o più pisuli, menso-le tufacee di varia utilità sporgenti sia all’interno el vano, sia all’esterno, ai due lati dell’ingresso. […] Forme ibride, di compromesso tra la comune fabbrica muraria e il manufatto a secco, sono pure variamente presenti in tutta la subregione delle Ser-re, senza però dar luogo a tipi chiaramente definiti per strutture e funzioni, come avviene per il casile savese, né a prevalenze zonali od anche locali ben determinate. Esse appaiono piuttosto, nella loro di-spersione frammezzo alle versioni normali di un’ar-chitettura rustica minore interamente realizzata in pietre a secco, come tante e dissimili interpretazioni episodiche e aberranti del modo di ricavare il con-sueto riparo di campagna dallo spietramento del ter-reno. La vera caratteristica di questa parte della pe-nisola salentina rimane pertanto quella di costituire unitariamente una compatta area di diffusione delle forme a trullo, le più tipiche, evolute e rappresen-tative, accanto a quelle con tetto coneggiante delle basse murge, d’una tradizione edile schiettamente contadina che riguarda e investe, con la sua dupli-ce linea di sviluppo, tutta quanta la Puglia pietrosa. Specialmente in corrispondenza delle Serre, le cam-pagne vi appaiono costellate di innumerevoli edico-

le trulliformi, dai contadini usate sia come rustici, sia come ricoveri giornalieri od occasionali. Sono costruite con le pietre raccolte sul terreno, o tra le macerie di trulli in rovina, oppure, ancora, ricavate dalla terra dissodata. Indifferentemente alla loro de-stinazione agricola, vi sono plaghe nelle quali ogni parcella di terreno possiede il suo trullo e perfino i suoi trulli, tanto che in certi addensamenti zona-li si raggiungono densità medie di 70-80 manufatti per kmq. Le forme sono fondamentalmente due: a tronco cono, e, meno spesso, a tronco di piramide, ma la denominazione è quasi sempre unica, in ogni contrada, per entrambe. A base quadrata o circola-re, i ripari di pietra a secco sono sempre dei furni (o furnieddhi) per le popolazioni di tutta un’area che va da Veglie a Ugento, lungo il litorale jonico, spin-gendosi all’interno della penisola fino ad abbrac-ciare i Comuni centrali entro la linea definita dalle posizioni di Collepasso e Cutrofiano; sono invece pagghiari (con le varianti fonetiche di paiari, paiare e, per i maggiori, paiaruni) per le popolazioni dell’e-stremo sud della penisola e di tutta la sua sezione orientale, dove pure divengono più frequenti le for-me derivate, a base quadrilatera e alzato troncopi-ramidale. A queste due grandi sezioni territoriali, all’ingrosso corrispondenti al dominio della vite e, rispettivamente, dell’olivo e delle colture seminati-ve, si sovrappongono zone più particolari in cui la costruzione riceve anche un secondo nome. La prin-cipale di esse coincide approssimativamente con l’estensione attuale dell’isola dialettale neogreca, dove si adoperano come voci equivalenti alla forma

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Il pajaru (o paia-

ru, o pagghiaru, o

furnieddhu, furnu,

truddu, chipuru,

caseddhu a secon-

da del luogo) è una

costruzione rurale

realizzata con la

tecnica del muro a

secco.

Normalmente si tratta di costru-

zioni isolate nelle campagne, ma

ve ne sono anche alcune che sono

unite in gruppi di 2 o 3 a formare

edifici più complessi. Rappresen-

tano oggi uno degli elementi ca-

ratteristici del paesaggio salentino

tanto da essere tutelate e valoriz-

zate dalle istituzioni locali. Si tratta

di edifici simili ai più famosi trulli, a

forma di tronco di cono, con pianta

circolare o quadrangolare e costru-

iti con pietre ricavate dai terreni

circostanti “a secco”, ovvero senza

l’aiuto di alcuna malta o sostegno.

Le costruzioni presentano di nor-

ma un’unica camera senza finestre

verso l’esterno. Hanno un notevole

spessore, che assicura un ambien-

te interno fresco anche nei mesi

più caldi. I furnieddhi venivano uti-

lizzati come riparo momentaneo o

deposito (il nome li fa ritenere ori-

ginariamente depositi di paglia),

ma di fatto sono stati utilizzati per

gli usi più diversi, non ultimo come

abitazione dei contadini durante

il periodo estivo, allorché essi si

trasferivano dal centro abitato per

ottemperare ai lavori campestri

dall’alba al tramonto. Non di rado

al loro interno trovano posto rustici

caminetti, cisterne e stipi incasto-

nati nei possenti muri.

Nell’alto Salento nella zona di Ma-

ruggio il termine pajaru denota

tuttavia un altro tipo di costruzio-

ne, sempre a secco ma dal tetto

fatto in fasci di sparto che danno

un aspetto molto simile al cottage

irlandese. Quelle costruzioni che

nel leccese costituiscono i furnied-

dhi o pajare, in quest’area vengono

invece chiamate tròdduri.

Non si conosce con esattezza l’e-

poca di costruzione. Probabilmen-

te sono stati edificati in periodi suc-

cessivi a partire dal 1000 d.C. circa,

in epoca bizantina, con il materiale

di risulta dei lavori di dissodamento

dei terreni agricoli, materiale con

il quale sono costruiti anche i nu-

merosissimi muretti a secco che

recintano quasi tutte le proprietà

agricole del territorio in cui si pos-

sono ritrovare. Ma non si esclude

neppure un’origine in epoca molto

più antica, tra il 2000 a.C. e la fine

dell’Età del bronzo, come evoluzio-

ne di costruzioni megalitiche quali

le specchie; altre teorie, avvalorate

dalla somiglianza con altre struttu-

re nell’area mediterranea, vogliono

la costruzione importata dall’ester-

no in epoche successive.

Esistono varie tipologie di pajare,

sia per dimensioni che per moda-

lità di costruzione. Le pajare più

antiche sono di norma più piccole

e presentano un perimetro in pie-

tra e una copertura realizzata con

tronchi e frasche; successivamen-

te si utilizzò esclusivamente la pie-

tra. Alcune costruzioni presentano

un anello in pietra come rinforzo

alla struttura principale; quasi tutte

sono dotate di una scaletta esterna

per agevolare l’accesso al tetto per

eventuali manutenzioni.

Le lamie, o lammie, rappresentano

una variante delle pajare, con una

struttura a base quadrangolare o

rettangolare ed una copertura fatta

di lastre di pietra o tegole in terra-

cotta.

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0601. calotta

02. terrazzo (utilizzato

per l’essicazione di

alimenti al sole)

03. piezzi di liccisa

o carparo (conci di pietra

leccese o tufo duro)

04. muro esterno in

petra ija (pietra viva)

05. muro interno

06. nicchia

07. muraja (riempimento

di pietrame minuto

e terra)

08. scala

09. sittaturu (panca)

07

08 09

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Avremmo dovuto diffidare fin dall’inizio di questi progetti, perché se ti faccio vedere qua cosa hanno combinato gli ingegneri dell’Anas è una cosa assurda, già vent’anni fa. Un esempio per tutti nel territorio: a Tricase e Andrano hanno fatto passare la strada sull’altare della basilica antica, la Basilica del Mito. La strada è passata sull’altare. Poi, sempre lì, per fare la strada Tricase-Marina di Tricase hanno fatto la strada che andava a sbattere sul monumento di una quercia plurisecolare, la quercia vallonea, la più antica. La vallonea per di più, biotipo particolare di questo territorio; spostandola fuori da questo territorio non cresce. Per dire di cosa sono capaci questi dell’Anas. E abbiamo già degli esempi. Poi è nata negli anni ottanta l’idea di fare una grande strada. Questi hanno speso 800 milioni di euro, sai cosa ci puoi fare con 800 milioni di euro? Tunnel, gallerie sopraelevate... Quindi l’opera è più che assurda, da qualunque punto di vista. Arrivare a Leuca con quattro corsie. Chi deve arrivare a Leuca? Ma chi deve partire, soprattutto, da Leuca? Poi la storia va avanti, il progetto viene fuori. Certo, tutti i sindaci che sono stati interpellati in quegli anni hanno dato il loro consenso. Sviluppo del turismo, sviluppo industriale, l’hanno raccontata così. Oggi siamo alla crisi di tutto. Tutto fermo. Non c’è più una fabbrica nel sud Salento. Viene fuori il progetto. Che fai? Dove ci sono le strade c’è il progresso, dove ci sono le strade si può lottizzare. Quindi noi abbiamo difeso il territorio proprio con questi interventi seminativi. La prima semina l’abbiamo fatta in un campo dove passa la 275. Questo l’anno scorso. Ma arriviamo al dunque. C’è un piccolo comitato di opposizione, per di più anche nel giro elettorale di Vendola, quelli di SEL, che inizia a rendersi conto della cosa. Facciamo un po’ di opposizione. E Vendola ha contrattato. Quando si fa politica si fanno queste cose qua. Quando è venuto a Tricase, l’ho sentito con le mie orecchie, ti sembrava di quelli buoni; la Godelli preparata per le cose, non aveva fatto ancora nessun disastro. La Godelli dice che lui l’ha chiamata di notte dicendole che avrebbero dovuto trovare una soluzione. Verrà una strada-parco, non più invasiva. Cos’è questa strada-parco non s’é capito, ma non è servita a niente, perché a giorni dovrebbero iniziare i lavori. Quindici giorni fa hanno già

Mauro Bubbico

Gigi Schiavano

Un dialogocon

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è semplice. Quello non lo ha capito lui e neanche tutti quelli che gli stavano attorno. Qua l’economia si era autorganizzata sull’emigrazione. Tornavano i migranti con i soldi. Quindi si era creato un minimo di economia. Era sostenuta dagli emigranti. Ecco perché dobbiamo pensare di nuovo noi, da soli, a come fare le cose.

Ed è ancora sostenuta dagli emigranti?No. I nuovi emigranti che sono partiti non ci vengono nemmeno in ferie qua. Questo per dire quanto sono idioti i nostri politici. Sono tutti pensionati in Svizzera. Bastava organizzare la ricezione. Ma se tu vieni qua mica puoi vivere di sole. Se ti ammali dove ti curi? Sono tutti anziani. Questi sono problemi semplici e tu mi parli di turismo, ma tu non sai neanche di che cazzo parli. Perché qua ci sono dieci mesi di sole, di pace. Hai pensato solo ad organizzarti il tuo turismo. Stamattina ho mandato a fanculo una che diceva di avere problemi con la burocrazia di Lecce, perché voleva costruirsi la piscina nel palazzo storico comprato ad Alessano con il mare a due chilometri. Ma andate a fanculo voi e chi vi manda qua! Dobbiamo fare a meno dei ricchi. Non è vero che portano economia e benessere. Per carità, recuperano locali, ma con una testa che non ci interessa proprio. Si mangiano i loro soldi. L’attualità è questa. E come hanno fatto negli anni sessanta, inconsapevolmente, i migranti ad organizzare la loro economia dovremmo fare noi. Questa strada arriva a Lecce e noi ci stiamo facendo un parco. Questa è la dimostrazione che le balle non possono più essere raccontate. Anche dal punto di vista politico ha rilevanza questa cosa. Ma è venuto mai Vendola da queste parti a vedere? Hanno la concezione della politica retorica, di equilibri di palazzo ecc. Lui poi ha rovinato tutto, e sai perché? Perché non era il suo mestiere. Lui ha usurpato un luogo che non gli spettava. Se avesse fatto il giornalista avrebbe fatto molto molto molto di più perché era un bravo giornalista. Ha voluto fare il rappresentante politico senza capirci niente. Tu hai rovinato l’aria senza accorgertene. Ha fatto la campagna su un tema solo, sulla sanità. È sparita la sanità. Con l’aggravante, perché qua stiamo parlando di due mandati. Qua c’è un era. Mussolini ancora ce lo ricordiamo e vent’anni è durato. Questa è l’era Vendola. Basta con le chiecchere. Stamattina ho dovuto fare un discorso lungo perché delle ragazze mi hanno chiesto cosa è successo. Perché anche l’altro giorno ho detto a Coppola, il nostro storico: “scusa, e non trovi lo spazio in questa ricostruzione delle lotte contadine, del movimento contadino e della legge agraria per parlare della Coldiretti? Oggi che la televisione sta riciclando la prima organizzazione mafiosa italiana?” Nel ‘45 questi, quando tutta l’Italia era contadina, che tutti i grandi

fatto i sopralluoghi quelli dell’Anas. Io sono andato in questo paesino che si chiama Casa del Pellegrino, perché là c’è una casa proprio sul tracciato dei pellegrini che andavano a Leuca. Però questa strada-parco è andata perduta perché era soltanto una formula per far fantasticare gli altri. Con questa idea io credo che noi abbiamo realizzato la strada-parco. Queste sono le strade-parco. Tutte queste aree possono essere usate diversamente, con i frutti, con le persone che ci vanno, col benessere che creano, non soltanto con la costruzione dei muretti a secco. Con la costruzione di tutte queste attività si può creare una strada-parco lunga chilometri e chilometri, visibile e abitabile. Lasciamo perdere i vecchi monumenti ma creiamone di nuovi e con lo stesso spirito, creati da artigiani. Uniamo questa idea di arte, artigiano e agricoltore, e creiamo di nuovo un paesaggio vivibile.

Ma questo è un dei motivi per cui è nato questo progetto? C’è un legame tra la 275e il Parco Comune dei Frutti Minori?

No, questa è una casualità. Perché noi eravamo qua, io stavo setacciando il farro ed è arrivato Luigi che aveva sentito parlare di noi, di Casa dell’Agricoltura. Gli ho parlato di quello che stavamo facendo. Due mesi dopo è tornato e ha parlato con Donato e con gli altri, ha trovato le sinergie. È proprio un rapporto di amicizia che ha creato questa cosa qua. Poi lui ha contattato tutti questi giovani. Il progetto è quello. Ha fatto lui il progetto. Ha preso spunto dall’idea di Casa dell’Agricoltura sul territorio. Di territori così, c’è solo questo. Ma noi saremo una decina. È venuto qua il senatore Acquaviva; forse ai più non dice niente questo nome. Il senatore Acquaviva era socialista. Io ti posso dire che era più potente di Craxi nel partito. Hai visto quanto era potente Craxi nel partito? Lui era più potente di Craxi. Perché era il braccio destro di Craxi come organizzazione; chi ha firmato i Patti Lateranensi è Acquaviva, quindi era la congiunzione tra il mondo cattolico e i socialisti. Lui viene eletto nel collegio di Tricase, comunemente detto il “collegio del cane”. Se ci metti un cane viene eletto. È stato eletto Vitalone, è stato eletto Buttiglione, Bianco, gente valdostana. I voti erano garantiti dal sistema clientelare. Torniamo ad Acquaviva. Perché mi sono interessato a lui in questi giorni? Ho letto il suo libro. Acquaviva nell’introduzione al libro spiega come è fallito il progetto. Lui era un uomo potente. I politici quando tirano un linea, la linea non rimane sulla carta. Lui va negli atti parlamentari, vede che è senatore di queste terre. Si interessa un po’. Si documenta. Per lo stato noi non esistiamo perché non c’è un’uscita verso questa terra. Di spese del Senato non risulta niente. Viene qua e trova una civiltà. E si chiede come facciano ad andare avanti. La risposta

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detto allo storico e suscitò alla fine un po’ di nervosismo ad un certo punto parlando dei decreti Gullo (Fausto Gullo fece dei decreti sull’occupazione delle terre, quindi legalizzava la vecchia richiesta). Noi non abbiamo un Gullo oggi, no? Chi è il nostro referente? I politici sono quelli che sono, quindi, noi dobbiamo fare da soli, e per di più ci mettono fuori legge. Non abbiamo nemmeno un Gullo che ci difenda. E lui disse: “Ma c’è la Bellanopa che è una di senatrice di qua, che è sottosegretario al lavoro in questa legislatura” e la chiamò. Ha risposto, mi ha detto che era disponibile per un incontro ma mi ha dato un altro numero però. Ah bene! Già è tutto dire. Ma comunque non ci importa, se vuole venire ci confrontiamo con tutti, questa è la prova che le cose si possono trasformare. La semina collettiva per esempio. Un campo in fondo con la catena. La mattina che abbiamo seminato là ci siamo trovati un sacco di persone, gente che non aveva mai messo piede in quel fondo, non era loro. Però bambini, anziani di quasi cento anni a seminare in un campo non loro, con una catena. Si era persa la proprietà privata. Quella signora ce l’aveva dato perché non sapeva che farci. Quattro ettari di una fertilità pazzesca. Perché i fratelli sono emigrati a Milano, lei è vedova e sta qua. Anche queste. Noi le abbiamo in comodato queste; pensavamo farci una sede ma costa un sacco di soldi per ristrutturarlo. Perché ad un certo punto noi dobbiamo trovare un centro, una dinamo che faccia girare le cose. Perché quando siamo andati a Isola del Piano al Monastero di Montebello lì insiste l’azienda Girolomoni. Noi siamo andati lì, e lì è stato il pastificio biologico ad organizzare tutta la collina. Ecco, noi dobbiamo trovare una cosa simile. Io dico questo: ai cattolici non ho mai sentito parlare della Coldiretti e di cosa fosse. Però quella parte ci cattolici buoni che ci sono stati in Italia se hanno fatto qualcosa di buono è quella struttura lì. Perché lì è chiaro che non ha potuto fare tutto Gino da solo.

Ma tu l’hai conosciuto personalmente?L’ho conosciuto una volta a Bologna in un dibattito. Io potevo andare anche con lui, ma non sono andato con lui perché là erano troppo cattolici. Figurati, nel 1978 del cattolicesimo avevamo un’altra idea. Ma lui più che un coltivatore biologico era tipo un missionario dell’ottocento, una forza. Lui non mandava i figli a scuola. Si pose il problema... perché disse semplicemente ai suoi contadini là: “Ma da Urbino è mai tornato nessuno indietro a parlare di terra e a coltivare la terra? Che cazzo gli insegnano in quella cazzo di scuola?” Chiamò i suoi amici cattolici, intellettuali di grande levatura, Sergio Quinzio, Pietro Geronetti, e aprì la scuola a Isola del Piano per i suoi figli e per gli altri. Tu devi vedere i figli che cosa sono. La vera eredità là, non è il pastificio, la vera eredità

e i dirigenti si stavano sforzando di creare un meccanismo unitario per affrontare la problematica dei mezzadri, dei

coloni, dei braccianti, questo Bonomi, consigliato dal suo Papa crea la prima lobby mafiosa, perché escono fuori dalla Federterra e creano la prima organizzazione mafiosa nel Parlamento Italiano. La Coldiretti è finita sotto inchiesta milioni di volte. Rossi-Doria ha speso la vita a denunciare questo. Paese Sera era un quotidiano che ogni giorno pubblicava gli scambi della Coldiretti. Saltini, un altro giornalista, per di più cattolico, pressava la Federconsorzi per capire cosa era successo. Ma se vai a vedere oggi sono ancora là. Geronzi, tutti questi nomi te li ritrovi ancora oggi. La Coldiretti nel ‘45 con le sacrestie, che erano il loro potere, organizzavano il concime, il solfato di rame, il pane. Venivano distribuiti nelle sacrestie. Queste sono le cose che possono venire fuori. Ma alla fine non ci interessano perché noi abbiamo a che fare con i giovani. Dobbiamo

creare autonomia. La biodinamica ci viene incontro, anche l’agricoltura biologica. Questa è la nostra sfida. I terreni possono essere fertilizzati con queste pratiche che stiamo imparando. Giovanni Haussmann; questo è il più grande agronomo italiano. Non solo sa scrivere bene, ma ha un approccio veramente ad ampio raggio. Non è morto da molto. Lui lavora sulla struttura del terreno. Lui non parte dalle piante, parte dal terreno. È il terreno che noi dobbiamo curare. Questi terreni che ci piacciono molto sono poveri di sostanze organiche. Noi ieri sera eravamo in delle aule sociali dove cento anni fa c’era un bosco. Lì era tutto un bosco. Da lì a Supersano.

Poi ci troviamo con i terreni rossi, quindi degradati. Ed eravamo nelle aule sociali a parlare di bosco. Il meccanismo è strano. Noi a parlare di bosco dove il bosco c’era. Bosco, terreni degradati, cemento e noi, a parlare di bosco. Quindi noi abbiamo solo una strada: quella di creare una società giusta e la terra è la base naturale per creare una società giusta, perché il rapporto giusto con la terra può creare una società giusta. È disarmante la semplicità. Ci siamo complicati le cose perché,

è chiaro, ci sono degli interessi. Quando scopriranno tra poco che noi facciamo biodinamica verranno qua i finanzieri e arresteranno tutti. Perché siamo alternativi. Io gliel’ho

Paolo Bonomi, fondatore e presidente

della Coldiretti fino al 1980

Manlio Rossi-Doria, economista

e politico noto anche per la sua

lotta contro la Federconsorzi

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com’è che qua sull’altare non si parla mai di te? Ma che cazzo fate? Ma che cosa pregate?” Ma c’è riuscito. C’è riuscito. La sua opera rimarrà nei secoli. Loro producono una loro varietà che si chiama Graziella Ra, che anche questa è una storia da

raccontare. Graziella Ra. Senti due minuti questa storia qui. Questo è un grano. Loro avevano iniziato con il grano Cappelli che è il grano di riferimento, è quello più buono. È ottimo. Qualità ottima devi scrivere sulla pagella. Gli altri buoni, sufficienti, mediocri o più che sufficienti ma questo ottimo. E infatti lui è andato su questo. Un archeologo tornando dall’Egitto e amico di questo capo giardiniere polacco, di nome Ivo, gli consegna questi semi, i cerca di riprodurre questo

grano qua e là, poi si perde, lo recuperano e vanno avanti. Quando questo signore archeologo ha dato il grano all’amico Ivo gli ha detto: “Eventualmente, lo riproducete e lo chiamate Graziella”. Chi è questa Graziella? Un giorno vanno a fare una conferenza in un paesino della Toscana sull’Appennino e gli dice una storia. Che è una delle prime ragazze ammazzate dai nazisti. Questa ragazzina la scambiarono per una staffetta e morì. Si sapeva di un padre, che non era il padre, che era partito per l’Egitto e la storia si ricollega. E questa storia ha probabilmente a che fare col grano ottimo che loro producono. Loro producono la pasta loro con questo grano. “Ra” sta per sole, la divinità egiziana, e “Graziella” è il nome della ragazza. Girolomoni è tutto questo. Perché lui è archeologo... è tante cose. Questi lavori non li conoscevo, ma non sapevo nemmeno che erano così avanti, quando un giorno, accendo la radio, Rai 3, e c’era una trasmissione sui profeti, e mi chiedo di cosa stanno parlando. Gino Girolomoni. E quindi lo vedi che giriamo nel piccolo che c’è? Perché la novità è questa: se cinque anni fa... io ho parlato sempre di terra, come ne sto parlando adesso ne ho parlato sempre. Però era diverso. Oggi se ti metti a parlare di terra ti arrivano tante persone. Giorni fa a Lucugnano, un paesino qui vicino, non si è potuta fare nemmeno la conferenza che avevano ideato questi amici, sulle erbe spontanee edule (che si possono mangiare) c’erano più di mille persone. C’era la biblioteca piena, i corridoi, il cortile, non si poteva fare. C’è un’attenzione particolare. Anche qua a Castiglione.

Ma questo è dovuto alla crisi?La crisi, ma come diceva bene quella ragazza, smarrimenti. Abbiamo bisogno di verità. Guarda qua. Castiglione, un paesino, cinquanta persone. Qua è secca pure l’aria. Ma è vero che Castiglione ad un certo punto è particolare perché

Monastero di Montebello

sono i figli. Lui era il sindaco di Isola del Piano, perché come indipendente nelle liste del Partito Comunista uscì lui. Ma da sindaco si tolse la fascia, no? Era un paese che si spopolava, non c’era lavoro, non c’era niente. Sindaco di cosa? Delle pecore? E prese due hippie, la moglie incinta, una vaccae andarono nel monastero. Il pallino suo era questo qua: il monastero era del quattrocento e i monasteri erano l’economia; basta pensare ai cistercensi. E il monastero è il castello del simbolo, il nuovo logo. Prima era Alce Nera ed erano due: lui e l’attuale proprietario di Alce Nera. Però Alce Nera prediligeva da sempre la commercializzazione, invece lui era per la produzione; si è creata sempre di più questa comunità, salvo quando sono arrivati i colossi. Perché là chi ha disturbato tutto? le Coop che volevano il marchio e la distribuzione. Allora l’ultimo atto suo è stato quello di vendere la sua parte di Società di Alce Nera. Lo hanno strapagato. E ha costruito un moderno pastificio. Poi in una mattina di Giugno un infarto lo ha... perché secondo me è andato a che fare con le banche. [ride] È un bellissimo posto. Ma tu devi vedere come hanno ristrutturato la chiesa adiacente al monastero.

E tutte queste storie come hai fatto a saperle?Tutte queste storie stanno su internet. Io ne so un po’ di più perché i Girolomoni li avevo seguiti e quasi incontrati. Ma

stiamo parlando del ‘78, quando lui era già sindaco e aveva già mandato tutto affanculo. Poi un libro era suo, si chiamava “La civiltà contadina”. Loro pubblicano una rivista che si chiama Mediterraneo. È una rivista pazzesca per la ricchezza delle notizie. Lui si rammarica solo di una cosa, che secondo me qua possiamo pure riprendere se troviamo le persone giuste. Senti che idea aveva negli anni ‘80: da sindaco fece a tempo ad organizzare nelle sale del palazzo là, una mostra contadina. La sua idea era quella di riprendere la tessitura. Aveva conosciuto un poeta olandese, o comunque straniero che gli aveva dato l’idea. Su questa tessitura, su questi panni scriviamo poesie. Tessiamo

le poesie. Tessiamo poesie. Diventava un prodotto unico al mondo. E non se ne fece niente perché diede retta dice lui: “L’unica volta, un po’ per inesperienza ho dato retta a questo imbecille di segretario comunale e ho lasciato perdere l’idea. E lui quasi quasi si rammarica di non averla portata avanti perché sarebbe potuta diventare un’economia per la cittadina. Il prete una volta lo chiamò, scrive, e lui disse al prete: “ma

Gino Girolomoni, fondatore di “Coop.

Alce Nero” (oggi “Gino Girolomoni Coop.

Agricola”) e della rivista “Mediterraneo”

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dovuto difendere le mie idee. Io non la vedevo molto bene perché la proposta che era stata fatta dall’Asso Canapa era di (perché loro abitano a Crispiano in uno stabilimento) importare tutta la canapa; quindi stiamo parlando di fibre chiamate “tecniche” che gli serve per l’edilizia, per l’imbottitura di macchine, insomma, è una fibra che si usa nell’eco... green. Io invece sono dell’idea che la terra debba produrre cibo. Siccome della canapa abbiamo mangiato anche il pane. Con i semi si fa un’ottima farina. Allora se andiamo in questa direzione, facciamo la farina, l’olio... Ha il 30% di olio questa cazzo di canapa, però sul mercato non ci serve, questo è il mercato tedesco. Quando abbiamo fatto la manifestazione abbiamo pranzato con tutto a base di canapa. La farina si mette in piccole percentuali attorno al 10%. però ha dato un sapore che quasi quasi il pane con la canapa è anche superiore nel gusto. Ma perché la canapa ci interessa anche? Perché è in rotazione. Perché è una pianta che ha un ciclo primaverile-estivo. Poteva essere interessante, però ho messo le mani avanti, e le ho prese, perché lui è un po’ il referente di questa Asso Canapa. Però stiamo ancora a livello sperimentale tutti. Sono più interessato io a vedere i risultati della canapa. Però quello che ci interessa è creare un’idea che sia il volano, che non necessariamente si deve fossilizzare sul pastificio, che non possiamo fare perché non abbiamo né il grano, né i soldi, né l’acqua. Perché là a Isola del Piano è stata trovata l’acqua che ha indirizzato tutto. Perché, guarda caso, loro hanno l’acqua sorgiva. La prima cosa che ha fatto Girolomoni è stata comprare il bosco. Per preservare. A valle è tutto inquinato. Allora, per fare la pasta buona, ci vuole l’acqua buona, ed è difficile da trovare in questo territorio. Mi sembra che l’idea sia proprio quella che abbiamo vissuto in questi giorni. Il fatto di coltivare le terre, di far girare le persone come esempio, come cose da fare, stare insieme. Noi abbiamo mangiato in tutti questi dieci giorni le nostre cose. Cioè noi abbiamo portato la farina e quello ci ha fatto la pizza, abbiamo portato la farina e ci hanno fatto la pasta, abbiamo portato la farina e ci hanno fatto il pane, i pomodori sono quelli che abbiamo fatto noi. Può essere anche questa qua un’economia. Qua mangiamo tutti che forse a cento euro non ci arriviamo. Dovremmo chiedere a Luigi. A mezzogiorno abbiamo sempre mangiato pane e pomodoro, la sera c’è sempre il pasto caldo. Il ristorante di Matera “Panza a credenza”, potremmo fare “Pane a credenza”, perché qua si usava il pane a credenza. Pane a credenza perché fino agli anni ‘60 il pane si prendeva davvero a credenza. Che significa pane a credenza? Significa che il pane c’è sempre, da mangiare c’è sempre. Vieni qua che una fetta di pane la trovi sempre. No?

è un paesino e c’è un gruppo di giovani che ha fatto la differenza. Il gruppo ha fatto la differenza perché sono tutti laureandi, biologi, che a un certo punto messi in un paese più grande sarebbe stato l’1%, però su Castiglione, che è piccolo sono diventati il 10%. Quindi è chiaro che si sente la presenza, fanno gruppo, si conoscono. Per la comunicazione abbiamo avuto un successo enorme ma poi se andiamo sul campo abbiamo poco da... non siamo ancora costituiti di niente. Dovremmo fare una cooperativa per esserlo almeno fiscalmente. E come vendi? L’ultima volta che abbiamo fatto la Notte Verde, da noi sono venuti, che vendevamo la nostra farina. La finanza. Abbiamo dovuto semplicemente togliere il prezzo e mettere donazione. Con questo escamotage abbiamo risolto. Sennò prendevamo una multa ed eravamo sistemati per le feste. Tiziana con Luca, che fa parte dell’associazione, che è una giornalista di Castiglione. È tutta una cosa semplice. E per di più questa cosa qua ha mandato avanti i meccanismi politici del paese. Anzi, io pure avevo il problema all’inizio, perché il gruppo o è coeso all’inizio oppure non funziona. E invece, forse, questa settimana è quella che più ha... anche quando abbiamo fatto la canapa. Io ho... per mio dovere; ho

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Quadrato

Radioso

SaragollaSeveroSimetoSvevo

TorrebiancaTresor

ValnovaVaranoVetrodurVinciVitromax

Yelodur

AltamiraAndanaAntilleAquilanteArabiaArroccoArticoAubusson

BanderaBlascoBolognaBramante

EpidocExotic

IllicoIsengrain

Mieti

PalesioPr22r58

SagittarioSirtakiSolehio

Tiepolo

Zanzibar

AdamelloAlemannoAnco MarzioAppioAppuloArcangeloArnacorisArtemideAvispa

Bronte

CannizzoCapeiti 8CappelliCiccioClaudioColosseoCreso

DauniaDoratoDuilio

FlaminioFlavio

GarganoGiemmeGranizo

ImhoterIrideIsildurItalo

K26Kiko NickKronos

LatinurLevante

MeridianoMessapiaMiradouxMonastirNeodurNorba

OcotilloOfantoOrobel

PapricaParsifalPietrafittaPlinioPortoricoPreco

Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali

Banca dati: varietà di frumento coltivate in Basilicata Pz-Mt 1992-2011

Varietà di frumento teneroVarietà di frumento duro

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Le persone più anziane hanno sempre lavorato la terra però, dopo di loro, che cosa succede?

È una bella domanda, che cosa succede dopo? Quindi l’intervista non è incentrata sulla tabacchicoltura.

No, è ovvio che in queste zone è stata la coltura principale quindi è molto interessante come discorso.

Ho capito, l’argomento che hai illustrato. L’ho capito e cercherò di centrare quell’argomento.

In base alla sua esperienza.Perfetto, casomai dovessi uscire fuori, mi freni. Allora bisogna partire molto indietro, a quando c’era il latifondismo. Latifondismo sappiamo tutti cosa significa: che i terreni della zona, soprattutto nel regno di Napoli, di cui noi facevamo parte, erano concentrati ai signorotti, vale a dire ai baroni, principi e marchesi che c’erano nella zona. Siccome noi parliamo di questo paese, a Castiglione c’era il barone che aveva tutti i possedimenti e quindi l’altro resto erano vassalli, cioè gente che coltivava il terreno, contadini, artigiani che lavoravano tutti per il signorotto, non proprietari terrieri. Quindi negli anni Cinquanta, con l’evento della Repubblica, è successo che l’allora Ministro dell’Agricoltura, che poi è stato anche Presidente della Repubblica Segni, in quel governo fece la riforma fondiaria perché tutta la gente che ha vissuto

Sara Alberani

Donato(detto Donatuccio a Peppi)

nel meridione soprattutto, aveva la fame della terra. Ci fu lo spezzettamento delle terre dei signorotti date al contadino come proprietario a riscatto, quindi effettivamente ‘stu signore ‘stu forese, aveva adempito il suo sogno di diventare proprietario terriero. ‘stu stozzu de terra è meo.

In cambio di cosa?Nono, lo dava lo Stato. Lo toglieva ai latifondisti e quindi lo dava al contadino. Anche prima c’erano forme di riscatto, cioè lo Stato o il Comune di appartenenza del terreno – perché il Comune anche aveva dei possedimenti – lo dava al contadino col riscatto. Per esempio il valore era di 1000 lire, in quel tempo, negli anni Venti, tant’è vero che io ho una scrittura di mio nonno che aveva preso a riscatto delle campagne e poi queste mille lire le doveva pagare in tanti anni, che poi alla fine le mille lire erano insignificanti.Comunque, torniamo al latifondismo, il contadino ha avuto in dotazione finalmente questo possedimento terriero e allora se noi andiamo invece nella zona di Otranto e di Arneo, effettivamente vedete case coloniche, in più il pezzettino di terra che veniva dato al contadino, per la coltivazione di quello che voleva.Nell’Arneo invece era tutto terreno a pascolo, quindi, il pascolo che in quegli anni facevano i bovini, gli ovini i caprini, profumava proprio!Questo pascolo poi fu distrutto perché fu dato ai contadini, però fermo restando che le proprietà del Mezzogiorno erano in mano a pochi, ai signorotti, se noi parliamo di Castiglione c’era il barone, più altre due tre famiglie nobiliari che avevano tutti i possedimenti terrieri. Le coltivazioni che si facevano allora, i terreni erano coltivati soprattutto a grano, perché l’alimento principale era grano, orzo e avena. L’avena per il bestiame, l’orzo e il grano per l’alimentazione umana, sia per fare la pasta fatta in casa sia per il pane, oppure il pane di orzo che oggi è diventato una cosa prelibata. In quel periodo un poveretto, uno che aveva un quintale di grano e sei-sette figli che cosa faceva? Vendeva un quintale di grano e se ne comprava due di orzo.

C’era uno scambio merce con merce.Certo, anche. C’era il baratto, perché i soldi chi ce li aveva? Il signorotto.

Quando è iniziata a cambiare la situazione, per esempio il baratto?

Ecco io stavo per arrivare. Negli anni Sessanta ci fu un’ondata di emigrazione, sia in Francia e dopo in Svizzera e quindi in Francia si andava alla piantagione di barbabietola da zucchero e quindi venivano chiamati i nostri bravi giovani contadini che andavano sia alla sarchiatura che al diradamento della bietola,

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perchè veniva seminata e poi è chiaro che doveva essere diradata e poi nel mese di Settembre questi ritornavano in Francia per estirpare la barbabietola con un arnese a forma di forca.Quando iniziò l’emigrazione l’operaio, il contadino, il muratore che purtroppo non aveva l’abitazione, non aveva terreno, con quei soldi cominciò a comprare terra per farsi la casa. Incominciò a comprarsi la campagna, venti-trent’alberi d’ulivo, cominciò a comprarsi terra semenzabile per fare tabacco.

Che anni erano?Gli anni Sessanta. Anni Sessanta-Settanta, per poi andare a scemare, e oggi chi è rimasto, è rimasto in Svizzera e non tornerà certamente più in Italia. Adesso in questo periodo siamo ritornati allo stesso livello del latifondismo: i terreni vengono abbandonati perché non fruttano. Perché? Prima c’era la coltivazione del tabacco, negli anni Settanta e Ottanta, rendeva dalle trecento alle seicento mila lire al quintale, quindi la famiglia lavorava trent’are, un ettaro a seconda di come era composta la famiglia. A fine anno la famiglia contadina riusciva a prendere cinque-dieci milioni sposava una figlia, faceva la casa al figlio. Questa era l’attività principale tant’è vero che a Castiglione c’erano quattro manifatture di tabacchi, che concessioni speciali prima (nel ‘64 si chiamavano concessioni speciali), la concessione speciale per esempio era di 100-130 quintali, non era un abisso, era limitata però dava lavoro alla gente anche durante l’inverno per lavorare il tabacco. Quindi si è perduto, poi dopo il ‘64 sono subentrate le cooperative, la forma cooperativa, ditte private difficilmente ce n’erano. Sia ai fini fiscali e sia perché la cooperativa doveva partecipare, il contadino alla lavorazione e poi se c’erano degli utili allo spartimento di questi. All’atto teorico, all’atto pratico non è stato così. La cooperativa invece è stata una forma di aiuto per le giornate lavorative fatte dalle persone, ai fini pensionistici, disoccupazione. Quindi, la coltivazione di tabacco, oltre a portare il beneficio economico alla famiglia portava tanto lavoro, sia nel campo che nell’industria, non di trasformazione, di manipolazione perché la trasformazione del tabacco significa portare il tabacco dallo stato in cui è in sigaretta. Quello poteva farlo solo lo Stato, mentre la ditta nel momento in cui faceva una manipolazione, per manipolazione s’intendeva prendere una filza di tabacco da una cassa e spostarla di là, mentre la lavorazione che poi veniva fatta in gradi era A, B, C, e C2, era fatta in gradi poi c’era il tecnico che visionava e le maestre che erano addette al controllo delle operaie e della produzione della qualità e quindi poi al di sopra di loro c’era il direttore tecnico.

E poi c’è stata la fine delle cooperative.

Forse nasce il problema, se così vogliamo chiamarlo, perchè una riflessione che stiamo facendo è sulla salute dei terreni e su come è stata fatta una coltivazione di tipo intensivo di sfruttamento e di tipo chimico di cui forse non c’era conoscenza di cosa succedeva.

Non è che non c’era conoscenza. Si dice del contadino: scarpe grosse, cervello fino. Il contadino non è fesso, che cosa ha fatto: siccome la foglia del tabacco doveva rispettare certe caratteristiche, per esempio la Erzegovina, e qua ci troviamo in una zona di Erzegovina, non doveva superare i 15 centimetri, la Perustitza stretta come una cinghia non doveva superare i 12 centimetri, lo Xanthi Yakà non doveva superare i 10 centimetri. Il contadino ha innaffiato, ha concimato e le foglie hanno perduto la caratteristica, allora siccome c’era una concorrenza tale, perché il tabacco negli anni negli anni Settanta-Ottanta, andava a seicento-settecento mila lire, purché avesse le caratteristiche di foglia di tabacco, non la qualità, non si puntava più sulla qualità, ma sulla quantità. Mentre prima un ettaro di terra dava per esempio dieci quintali l’ettaro, lo stesso ettaro ora ne dava cento, perché c’era la forzatura con l’irrigazione e la concimazione.

Ma forse è stato sbagliato dall’inizio nel senso che di aderire ad una monocoltura, come quella del tabacco, è stato in funzione di monetizzazione: c’erano le multinazionali che sovvenzionavano tutto questo e diciamo che i contadini si sono trovati a congregarsi, ad associarsi e un po’ a seguire la coltivazione del tabacco ovunque. Perché? Non per sussistenza ovviamente, ma per aderire ad un sistema, esserne parte e monetizzare. Quindi la differenza tra avere un campo, metterlo a coltura di sussistenza (l’orto, le piante, i frutti) e invece adoperarlo per tabacco significa già essere dentro ad una filiera che non è più quella...

Sì, ma questo è avvenuto dopo il ‘64, perché prima la coltivazione era controllata: ogni contadino per esempio, in base alla concessione dello Stato che c’era, davano per esempio dieci are, poi c’era un tecnico che misurava il terreno ed estirpava le piantine. Questo è avvenuto dopo il ‘64, d’accordo? E poi piano piano hanno cercato di rimediare con le quote, cioè io che potevo produrre cinquanta quintali di tabacco ne potevo produrre dieci: hanno cercato di ritornare all’origine ma non ci sono riusciti. In effetti nel mercato Comune Europeo, né in Italia, né in altri luoghi, la coltura del

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tabacco non esiste più. E poi che cosa è successo? Mentre prima la concessione pagava il tabacco, il proprietario della concessione tirava fuori i soldi, e una volta trasformato veniva consegnato allo Stato e quindi c’era una lavorazione tutta speciale per lo Stato in Macedonia e nazionale, tutta manuale, tant’è vero una concessione speciale di 100-150 quintali aveva una lavorazione di 200-300 operaie perché la lavorazione era tutta fatta a mano. Poggiavano la foglia di tabacco e la dovevano stirare. Poi c’erano le varie categorie: c’erano i fici che dovevano fare la selezione in grado per poi arrivare alla balletta che veniva messo in nazionale o Macedonia e una volta venduto allo Stato chiaramente si prendevano i soldini. Dopo il ‘64 la Comunità Economica Europea ha sovvenzionato, allora più o meno 300mila Lire, servivano alla cooperativa per comprare il tabacco. Quindi ha funzionato in un modo strano, allora è chiaro che c’è stato un invogliamento, nel momento in cui c’è stata una grossa richiesta è successo che la coltura non è stata più controllata e poi ha fatto la fine che ha fatto. Perché non ci sono stati dei controlli. Il contadino dice io ho fatto 500 quintali di tabacco a 500mila Lire al quintale e prendo tanti milioni. Cinquanta milioni. Ecco, così si è perduta la coltivazione di tabacco.Poi c’è stata pure l’olivicoltura qua, che è stata messa a dimora sia per la zona, perché noi di origine siamo greci, albanesi ed egiziani, quindi l’importazione dell’ulivo serviva sia per cogliere il frutto e fare l’olio, la zona infatti era piena di tappeti o frantoi ipogei, sottoterra, si lavorava da Ottobre-Novembre fino ad Agosto-Settembre. Anche perché allora la produzione era una piccola produzione, perché non c’erano i concimi chimici. Allora un albero, per esempio, dava un tomolo, una vascata, la vascata era fatta da nove tomoli, un tomolo sono 33 chili. Perché poi, in base ai paesi che vai, trovi usanze diverse, qua c’era un recipiente che si chiamava picciolo e si riempiva, e poi c’erano alcuni paesi che facevano i curmi, cioè affinché il frutto cadeva a terra e in altri paesi era raso, cioè si passava proprio un rasoio, c’era un pezzo di legno che mandava tutto a terra, quello che riusciva a prendere il recipiente. Ora, è chiaro, la fruttificazione non è che era elevata, era limitata, perché non c’erano i concimi chimici.

E quando sono iniziati i concimi chimici?I concimi chimici negli anni Sessanta, perché prima c’era solamente la concimazione naturale. Chi c’aveva il letame concimava e chi non ce l’aveva, io mi ricordo da ragazzo mio padre aveva una mucca e una pecora, però altri non ce l’avevano e d’estate i ragazzi di dietro al traino, la mucca o il cavallo, che passava e faceva gli escrementi, loro li raccoglievano nel secchio per poi portarlo a campagna.

Questa era la concimazione di allora.Pensa che si possa tornare indietro?

No, secondo me no. Il progresso non porta ‘stu grosso cambiamento, anche perché tornare indietro, se un albero oggi fruttifica cento quintali e non sono sufficienti a coprire le spese, perchè la coltivazione d’ulivo è rimsta a terra, perché basta pensare a un chilo d’olio costa 3 euro, 3,50 all’ammasso.

Non si può pensare di farlo solo per sé stessi, per mangiare?

Vabbé ma tutti lo fanno per sé stessi, però significa fare un quintale o due, se uno ha famiglia numerosa, all’anno, ma non puoi fare cinquanta quintali di olio, allora è chiaro, l’uliveto resta abbandonato, perché non dà reddito. Perché il Mercato Comune Europeo, da una parte ha portato tanto benessere, dall’altra tanto malessere perchè è chiaro, c’è la Grecia, c’è la Spagna, con costi inferiori. C’è la concorrenza, ma non solamente da questi paesi, poi è chiaro ci sono i paesi africani e i vari produttori di olio che poi scrivono olio pugliese o olio lucano, gli olii vengono importati mettiamo tutti i giorni. Si possono fermare 100 quintali, però quanti quintali passano dalla dogana?

Conosce qualcosa di biodinamica?Biodinamica... Io non l’ho avuta questa esperienza.

Oggi per esempio c’era un signore che ha fatto su sé stesso esperienza di biodinamica, e noi qua stiamo facendo coltura biodinamica, da oggi stesso.

E che cosa avete fatto se è lecito?C’è un composto che è chiamato Preparato 500 che è letame di vacca, ovviamente vacche che hanno mangiato bene, che non hanno avuto erba chimica, messo dentro corni di vacca, per macerare sotto il terreno.

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Quando è pronto diventa un colloide, humus, dinamizzato e diluito in acqua e spruzzato nel campo.

Cioè qua non c’è stata la biodinamica, ma sai perché? Qua sono mancate le grandi stalle.

Per il letame, però è possibile farlo anche con il sovescio.

Lo so, lo so. Però io mi riferisco ad appezzamenti, per fare quel trattamento come li fanno per esempio nella Val Padana, al mais, qua non si può fare perché qua le stalle non ci sono, l’allevamento di bestiame non c’è. V’ho fatto l’esempio prima, come veniva concimato il terreno.

Però ne basta talmente poco che con quello è possibile mettere in circolo un processo virtuosistico che che poi la natura...

Io comunque quest’esperienza non l’ho avuta, come tecnico questa esperienza non l’ho fatta. Nelle varie attività che ho svolto, nelle varie aziende in cui sono stato la biodinamica non c’era. Sarei un disonesto a dire sì.

Castiglione allora sarà un esempio.Per esempio la concimazione non chimica, l’abbiamo fatta. Biologica. Perché oltre al concime naturale, c’era il concime non chimico in natura, mi sono spiegato? C’era il concime organico, io per esempio quel poco che ho l’ho concimato con concime organico. CHe è una via di mezzo, ed è uscito negli anni fine Settanta, inizio Ottanta. Perché prima era tutto chimico. Quando è uscito qua lo chiamavano ‘u sale. MI dà una picca de sale.Che poi era il solfato ammonico.

Ha visto la differenza tra una coltivazione chimica e una a concime organico?

Ma quello certo che l’ho vista. Sicuramente perché tutti questi prodotti sono a lento effetto, che danno un procedimento piano piano alla piannta, è chiaro che se uno vuole lo sviluppo subitaneo deve ricorrere al concime chimico, ai nitrati. è chiaro che usato in piccole dosi non fa male, se prendo un quintale di concime chimico a pronto effetto e lo irroro nel terreno produco dei danni, sia alla coltivazione ma anche al prodotto. è chiaro se tutto va preso, però usato come bisogna usarlo, si potrebbe anche. Se in un ettaro di terra al posto di un quintale ce ne metto cinque ottengo il processo inverso: la pianta non produce. Viene bruciata.

Lei ha laterra ancora?Ma io ne ho un pochettino perché l’ho ereditata da mio padre io ho sempre lavorato pressso varie ditte, soprattutto nel campo del tabacco, un po’ di esperienza nell’orto frutta, come pelati, carciofi per la Findus, zucchine poi patate novelle,

quelle che si trovano surgelate. Ho avuto queste esperienze per quattro-cinque anni, gli ultimi anni quando il tabacco ormai non c’era più.

E come trattava la frutta?Io periziavo tutta la produzione.

Era comunque coltivazione chimica...No no, venivano controllate e addirittura venivano fatte le analisi perché generalmente poi il pomodoro pelato veniva dalla zona di Brindisi, quindi terreni profondi, che davano una certa quantità e qualità. È chiaro che poi una volta arrivati in ditta venivano selezionati, fatta l’analisi e poi scaricato il camion. Su questo punto puoi stare tranquilla che tutti i prodotti usciti dalla ditta dove ho lavorato, prima venivano analizzati, dal tecnico, poi c’era la perizia per vedere la qualità del prodotto, se erano malati, bacati o se c’erano pomodori verdi, quindi la perizia fatta nei cassoni. E poi veniva scaricato il prodotto. Anche perché tutte le ditte erano super controllate dai vari organi alimentaristi compreso il NAS.

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Diversi fattidi storia contadina

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Così Vittorio Bodini, poeta salentino e testimone ocu-

lare della vicenda dell’Arneo, descrive quell’atmosfera:

Siamo in una landa macchiosa che ci circonda a

perdita d’occhio, tutta groppe ispide come di una

sterminata mandria di bufali. […] Da Nardò a Taran-

to non c’è nulla, c’è l’Arneo, un’espressione vaga-

mente favolosa, come nelle antiche carte geogra-

fiche quei vuoti improvvisi che s’aprivano nel cuore

di terre raggiunte dalle civiltà. {02}

Ignazio Silone invece scrive nella prefazione del suo

romanzo Fontamara:

Fontamara somiglia dunque, per molti lati, a ogni

villaggio meridionale il quale sia un po' fuori mano,

tra il piano e la montagna, fuori delle vie del traffico,

quindi un po' più arretrato e misero e abbandonato

degli altri. Ma Fontamara ha pure aspetti partico-

lari. Allo stesso modo, i contadini poveri, gli uomini

che fanno fruttificare la terra e soffrono la fame, i

fellahin i coolies i peones i mugic i cafoni, si somi-

gliano in tutti i paesi del mondo; sono, sulla faccia

della terra, nazione a sé, razza a sé, chiesa a sé;

eppure non si sono ancora visti due poveri in tutto

identici.

[…]

La scala sociale non conosce a Fontamara che

due piuoli: la condizione dei cafoni, raso terra, e,

un pochino più su, quella dei piccoli proprietari. Su

questi due piuoli si spartiscono anche gli artigiani:

un pochino più su i meno poveri, quelli che hanno

una botteguccia e qualche rudimentale utensi-

le; per strada, gli altri. Durante varie generazioni i

cafoni, i braccianti, i manovali, gli artigiani poveri

si piegano a sforzi, a privazioni, a sacrifici inauditi

per salire quel gradino infimo della scala sociale;

ma raramente vi riescono. La consacrazione dei

fortunati è il matrimonio con una figlia di piccoli

proprietari. Ma se si tiene conto che vi sono terre

attorno a Fontamara dove chi semina un quintale

di grano, talvolta non ne raccoglie che un quintale,

si capisce come non sia raro che dalla condizione

di piccolo proprietario, penosamente raggiunta, si

ricada in quella del cafone. [Io so bene che il nome

di cafone, nel linguaggio corrente del mio paese,

sia della campagna che della città, è ora termine

di offesa e dileggio: ma io l'adopero in questo libro

nella certezza che quando nel mio paese il dolore

non sarà più vergogna, esso diventerà nome di ri-

spetto, e forse anche di onore.]

[...]

La maggior parte di essi trascinano così la vita

come una pesante catena di piccoli debiti per sfa-

marsi e di fatiche estenuanti per pagarli. Quando il

raccolto è eccezionalmente buono e frutta guada-

gni ìmprevisti, questi servono regolarmente per le

liti. Perché bisogna sapere che a Fontamara non vi

sono due famiglie che non siano parenti; nei villag-

gi di montagna, in genere, tutti finiscono con l'es-

sere parenti; tutte le famiglie, anche le più povere,

hanno interessi da spartire tra di loro, e in mancan-

za di beni hanno da spartirsi la miseria; a Fontama-

ra perciò non c'è famiglia che non abbia qualche

lite pendente. La lite, si sa, sonnecchia negli anni

magri, ma s'inasprisce di repente appena c'è qual-

che soldo da dare all'avvocato. E sono sempre le

stesse liti,

interminabili liti, che si tramandano di generazione

in generazione in processi interminabili, in spe-

se interminabili, in rancori sordi, inestinguibili, per

stabilire a chi appartiene un cespuglio di spine. Il

cespuglio brucia, ma si continua a litigare, con livo-

re più acceso. Non vi sono mai state vie di uscita.

Mettere da parte, in quei tempi, venti soldi al mese,

trenta soldi al mese, d'estate magari cento soldi al

mese, questo poteva fare, di risparmiato, una tren-

tina di lire in autunno. Esse se ne andavano subito:

per gl'interessi di qualche cambiale, oppure per

l'avvocato, oppure per il prete, oppure per il

farmacista. E si ricominciava da capo, nella prima-

vera seguente. Venti soldi, trenta soldi, cento soldi

al mese.

[…]

Questo racconto apparirà al lettore straniero, che

lo leggerà per primo, in stridente contrasto con la

immagine pittoresca che dell'Italia meridionale egli

trova frequentemente nella letteratura per turisti.

In certi libri, com'è noto, l'Italia meridionale è una

terra bellissima, in cui i contadini vanno al lavoro

cantando cori di gioia, cui rispondono cori di villa-

nelle abbigliate nei tradizionali costumi, mentre nel

bosco vicino gorgheggiano gli usignoli. Purtroppo,

a Fontamara, queste meraviglie non sono mai suc-

cesse. I Fontamaresi vestono come i poveracci di

tutte le contrade del mondo. {03}

In un memorabile intervento del 1969, Gianni Bosio po-

lemizzava con l’ideologia che dominava allora, ma an-

cora oggi infesta, la ricerca e la riflessione sul folklore e

sulla cultura popolare:

Secondo questo tipo di ideologia l’uomo popolare

è portatore di un mondo (arcaico) che è da recupe-

rare… ma non si tratta dell’uomo storico così come

egli è e si presenta, ma di un’immagine dimezzata;

si tratta del buon selvaggio, dell’uomo che è buo-

no in quanto dimensione astorica: si tratta appunto

dell’uomo folklorico. Ed è questa e questa sola di-

mensione che conviene adoperare, usare, sfrutta-

re, culturalmente e politicamente.

L’uomo folklorico è la sola misura lecita per l’uomo

storico contemporaneo e subalterno per parteci-

pare al festino della cultura politica della classe do-

minante… L’uomo storico, l’uomo politico, l’uomo

della fabbrica e dei campi, viene semplicemente

ignorato.

Il progetto che Gianni Bosio proponeva, che noi cer-

chiamo di condurre avanti,

è invece la ricerca dell’uomo storico il quale si pro-

ietta nel futuro armato del vecchio e del nuovo; si

proietta in quel futuro anche per tagliare ogni con-

cezione che lo considera uomo dimezzato. {01}

Piccola cronologiadel Novecento

9—10 aprile 1920 Repubblica Neretina

31 marzo—7 aprile 1921 Giornate rosse allistine

15 giugno 1922 Omicidio di Cosimo Profico

a Ugento

novembre 1926 Scioperi delle tabacchine

di Neviano, Novoli, Trepuzzi, Poggiardo

gennaio—marzo 1927 Scioperi a Soleto e Salve

21 novembre 1927 Sciopero delle tabacchine

a Marittima

15 maggio 1935 Rivolta di Tricase

19 ottobre 1944 Riforma Gullo (DLL Concessioni

ai contadini delle terre incolte)

1 maggio 1947 Strage di Portella della Ginestra,

in Sicilia

12 maggio 1950 Riforma Segni

10 agosto 1950 Istituzione della Cassa per il

Mezzogiorno (Casmez)

28 dicembre 1950 Occupazione dell’Arneo

25 gennaio 1961 Assedio di Tiggiano

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104 105

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106 107

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108 109

e il 1922 il Salento fu sconvolto da un'ondata di

scioperi, occupazioni di terre e altre forme di lotta che

solo in parte erano riconducibili negli schemi del riven-

dicazionismo tradizionale, in quanto la massiccia pre-

senza socialista nelle organizzazioni dei contadini cer-

cava di dare unità d'azione alle loro lotte, indirizzandole

verso obiettivi politici oltreché economici.

È in questo clima, che vanno inserite le vicende

svoltesi ad Alliste ai primi di aprile del 1921, alle quali si

è dato il nome di

[…] per la consapevolezza dei contadini di aver

dato vita ad un’azione rivoluzionaria.

Il 31 marzo 1921, in seguito al mancato accordo

tra la lega dei contadini ed i proprietari terrieri allistini,

venne indetto lo sciopero per il giorno successivo. […]

Alle ore 10 del 4 aprile 1921, il capolega Cosimo Panico

si recò in municipio per consegnare al sindaco Vin-

cenzo Vergari il testo del "concordato" da sottoporre

alla firma dei proprietari. Nel frattempo, la massa dei

contadini stazionava minacciosa davanti al municipio

impedendo a chiunque di uscirvi, se prima non si fosse

firmato il patto: avvenne così che il sindaco, l'assessore

Pasquale Trianni ed il segretario comunale Giuseppe

De Matteis rimasero «sequestrati» per l'intera giornata

all'interno del Municipio.

Il sindaco Vergari, a nome dei proprietari, prometteva

che il lavoro non sarebbe mancato per nessuno in Alli-

ste e che i salari sarebbero stati equivalenti a quelli dei

Paesi vicini. I contadini volevano però fatti, non parole,

e perciò chiedevano con sempre maggiore insistenza

che i proprietari si recassero in Municipio per la firma:

se non lo avessero fatto spontaneamente, pretende-

vano che fossero «tradotti anche coi ferri a mezzo dei

RR. CC.». Di fronte al tergiversare del sindaco, la ten-

sione saliva e si giunse a minacciare mali estremi, quali

ad es. l’incendio del municipio. «Oggi è Repubblica e

bisogna far sangue» fu lo slogan più emblematico fra

quelli urlati in piazza in quei giorni (si avverte l’eco della

Repubblica Neretina).

[…] L'indomani i contadini bloccarono le vie d'in-

gresso al paese e gli amministratori comunali decisero

di tener chiuso il municipio e, pur continuando i tentati-

vi di conciliazione, alla fine della giornata si era ancora

in una situazione di stallo. Il 6 aprile, rimosse le barrica-

te, fu riaperto il Municipio: a Racale e Melissano venne

in quel giorno siglato il patto tra contadini e agrari, ma

ad Alliste la situazione continuava a rimaner difficile,

anche se era tenuta sotto controllo dal massiccio af-

flusso dei regi carabinieri e di un’autoblindata che vi-

gilava per le vie del paese. Tuttavia, essendosi sfaldato

il fronte degli agrari dopo gli accordi raggiunti a Racale

e Melissano, anche il padronato allistino scese a patti

con i contadini. Il 7 aprile, pertanto, i proprietari terrieri

allistini apposero la firma sul concordato, che recepiva

in toto le richieste contadine. {06}

TRA

IL

1919

GI

ORNATE

ROSSE

sulla spinta

dei movimenti

operai e contadi-

ni, nacque la Lega di Resistenza dei Contadini, il cui

animatore fu il neretino Eugenio Crisavola, il quale

chiese ai proprietari terrieri solo migliori paghe e prezzi

più bassi. I padroni prendevano tempo, e comunque

non ne volevano sapere. {04}

L’8 aprile 1920 si preparò lo sciopero generale, si

studiò nei particolari il piano per isolare completamen-

te la città e per far cadere il governo municipale.

[…] Tra gli scioperanti nacque l’idea di proclamare,

a battaglia vinta, la

retta dai proletari rivoluzionari.

[…] Nella notte tra l’8 e il 9 aprile furono tagliati i

fili del telefono e della luce, s’innalzarono barricate agli

ingressi principali della città, fu bloccata la stazione

ferroviaria, disarmati i carabinieri e il delegato di Pub-

blica Sicurezza, di modo che Nardò fu totalmente iso-

lata. […] una folla di oltre cinquemila persone si riversò

nella Piazza del Comune, mentre i ricchi proprietari si

rinserrarono nei palazzi insieme alla servitù, rimasta

A

NARDÒ

loro fedele. Alcuni baldi giovani salirono sulla loggia del

Municipio per ammainare il tricolore e issare la ban-

diera rossa. Un consistente manipolo di dimostranti

sfondò il portone di palazzo Personè e dai magazzini

furono trafugati grano, vino, olio, formaggi e salumi in

abbondanza.

Verso le tre pomeridiane arrivarono in città settanta

soldati e trenta carabinieri, armati di moschetti, pistole

e bombe a mano. L’ordine impartito dal Prefetto di Lec-

ce era stato perentorio: repressione! […] Fu una vera

strage: persero la vita cinque uomini, un sesto morirà

dopo alcune ore. I feriti furono ventisette, alcuni dei

quali in condizioni gravi, mentre tra le forze dell’ordine

si contò un solo morto. […] La repressione dei padroni

si scatenò con ferocia inaudita sui contadini e mura-

tori rivoltosi tra l’inspiegabile indifferenza delle forze

dell’ordine.

La mattina del 10 aprile i ricchi proprietari organiz-

zarono una contro–manifestazione per le strade citta-

dine. I palazzi furono bardati col tricolore e ornati a fe-

sta. Una folla di 1500 persone sfilò per le vie più impor-

tanti di Nardò, con in testa gli agrari più ricchi. Cinque

giorni dopo, esattamente il 15 aprile, alcuni signori si

riunirono nel Palazzo Comunale e fondarono il “Fascio

d’Ordine”, i cui componenti si vantarono di aver repres-

so la sommossa e affossato la Repubblica Neritina:

un’istituzione vissuta solo ventiquattro ore, ma che poi

rinacque più forte e più bella vent’anni dopo. {05}

REPUBBLICA

NERETI

NA

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110 111

una delle pri-

me imprese coo-

perative del Mez-

zogiorno, venne costruita nel 1902 con la ragione so-

ciale “Consorzio Agrario del Capo di Leuca”. Nel 1906

l’Acait ottenne dal Monopolio la concessione speciale

per poter lavorare per le manifatture statali tabacco

levantino per una superficie di 70 ettari, poi portata a

300 ettari e successivamente ridotta a 163. Nel 1909

acquistò dalla ditta Allatini lo stabilimento che tuttora

reca l’insegna A.C.A.I.T. e nel 1925 ampliò il magazzino

con la costruzione di un salone situato al primo piano.

[...]

L’A.C.A.I.T. era formata da un’ala con uffici e a destra

uno spaccio che vendeva alimentari a basso prezzo.

Ospitava anche un asilo nido per i bambini delle opera-

ie che venivano controllati da tre balie: una si chiamava

Giovannina. Le donne che avevano dei bambini pote-

vano allattarli. C’era l’ambulatorio per le operaie e gli

impianti igienici; c’erano inoltre celle frigorifere per la

conservazione degli orto frutticoli e una grande autori-

messa di macchine agricole.

Nell’A.C.A.I.T. in maggioranza i lavoratori erano

donne. In tutto erano 1000 lavoratori: 900 donne e 100

uomini. Si iniziava a lavorare all’età di 12-13 anni. L’ora-

rio di lavoro era: la mattina dalle 7 alle 12, poi una breve

pausa di un’ora e, finita la pausa, si ritornava a lavorare

fino alle 18. Ogni 15 giorni c’era la paga: 50 lire, man

mano aumentava un po’. L’idea di sciopero non era

nemmeno concepita.

Tra le lavoratrici c’era molta solidarietà: se qualcu-

na non stava bene o non aveva terminato il lavoro, le

altre la aiutavano. Ogni giorno le tabacchine, a turno,

venivano perquisite, perché non si poteva portar fuori

il tabacco e il filo di cotone. Una volta l’anno i dottori

andavano a controllare le condizioni fisiche delle lavo-

ratrici nelle apposite infermerie.

L’A.C.A.I.

T.,

ed il 1927, le

operaie tabacchi-

ne diedero vita,

insieme a braccianti e coloni, ad una serie di manife-

stazioni contro l’obbligatorietà del tesseramento sin-

dacale: nel novembre del ’26 scesero in lotta le opera-

rie di Neviano, Novoli e Trepuzzi dove in centinaia ma-

nifestarono il proprio dissenso astenendosi dal lavoro:

a decine vennero arrestate per istigazione.

La stessa cosa accadde a Poggiardo, dove gli ar-

resti tra le dimostranti ebbero come effetto collaterale

quello di espandere il movimento, al quale partecipa-

rono più di 200 lavoratrici. Nei primi tre mesi del 1927,

TRA

IL

1926

i magazzini di molti paesi del Salento furono teatro di

manifestazioni e scioperi di protesta; i casi più clamo-

rosi per numero di partecipanti si verificarono a Soleto

e a Salve, dove vennero fermate e denunciate più di

50 tabacchine. Le autorità addette all’ordine pubblico

furono sollecitate dal ministro dell’interno ad adottare

energiche misure di vigilanza per reprimere ogni mani-

festazione di dissenso, dovuta, a loro avviso, alla man-

canza di un’educazione sindacalista dei lavoratori.

Nonostante la vigilanza e la repressione, le ope-

raie tabacchine continuarono a manifestare il proprio

dissenso anche nei mesi successivi. Alla riapertura dei

magazzini, nel novembre del 1927, le agitazioni conti-

nuarono, non solo per protesta contro i contributi sin-

dacali obbligatori, ma anche per chiedere un aumento

di salario giornaliero.

L’episodio più significativo si manifestò a Maritti-

ma, dove il 21 novembre scesero in sciopero più di 150

tabacchine per protestare contro la diminuzione della

mercede. Individuate come promotrici dell’abbandono

del lavoro, vennero tratte in arresto 21 operaie e, insie-

me con loro, fu arrestato il locale fiduciario sindacale

che, ritenuto responsabile di avere manifestato la pro-

pria solidarietà alle lavoratrici, venne immediatamente

sospeso dalla carica. {07}

Page 57: Ldb Rural in Action_Coppola 02

112 113

In via Nizza, Ugento, Peppino Ba-

sile, consigliere comunale e pro-

vinciale di IdV, strenuo “difensore

degli interessi del popolo” e oppo-

sitore dell'amministrazione comu-

nale di centro-destra, viene barba-

ramente ucciso con 19 coltellate.

Basile15

GIUGNO

2008

2008

1922

Pro

fico

In Piazza Colonna a Ugento, Co-

simo Profico, bracciante agricolo

impegnato nella lotta per la distri-

buzione della terra del demanio ai

contadini, viene barbaramente uc-

ciso dal fascista Luigi Ancora con

quattro colpi di pistola alla nuca.

15

GIUGNO

1922

1922

2008

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114 115

le tabacchine di Tiggiano assediarono la città, in

segno di protesta nei confronti dell’amministratore dei

beni della Baronessa di Caprarica, nella vicina Trica-

se, che decise di escludere 250 tiggianesi (all’epoca

un quarto della popolazione femminile), preferendo

una manodopera forestiera. Le donne intrappolarono

le concorrenti nel magazzino mentre il paese da una

parte, e le forze militari dall’altra, si preparavano ad

una vera e propria guerra. Dopo 27 giorni di sciopero

le richieste delle lavoratrici vennero accolte e ritornò

l’ordine pubblico tra la generale soddisfazione della

popolazione e delle istituzioni. Tutte le tabacchine ven-

nero assunte. E ancora a Calimera, il 13 giugno 1960

nel magazzino Villani e Pranzo, un incendio scoppiato

durante dei lavori di disinfestazione, condotti senza al-

cuni rispetto delle norme di sicurezza, uccise quattro

tabacchine e ne ferì gravemente altre tre. {10}

IL

25

GENNAI

O

1961

il ministero delle Corporazioni

decretò lo scioglimento del Consiglio

di Amministrazione dell’A.C.A.I.T. I Tri-

casini quando appresero la notizia espressero imme-

diatamente un fortissimo dissenso perché vedevano in

questo provvedimento una reale minaccia contro il loro

lavoro e soprattutto la fine della sicurezza economica

rappresentata dall’A.C.A.I.T.

La mattina del 15 maggio le operaie tabacchine vo-

levano astenersi dal lavoro, ma i dirigenti dell’A.C.A.I.T.

le convinsero a tornare a lavorare.

Nel pomeriggio si raccolsero le firme da inviare

al capo del governo. Nel frattempo venne appeso un

manifesto del podestà di Tricase, Avv. Edgardo Aymo-

ne, che invitava i cittadini a tornare tranquilli a lavoro.

Questo manifesto provocò una vera e propria protesta.

Le persone cominciarono ad agitarsi e volevano abbat-

tere i cancelli del municipio. Visto che gli animi non si

calmavano, vennero chiamati i carabinieri che furono

incaricati di sparare. {08}

A PERENNE MEMORIADI

NESCA MARIAPANARESE PIERINOPANICO COSIMARIZZO POMPEOSCOLOZZI DONATA

CHEIL XV MAGGIO MCMXXXV

CADDEROPER LA DIFESA DEI DIRITTI

DEL PROLETARIATO TRICASINO

I CONCITTADINI

AUSPICE LA SEZIONE SOCIALISTA

NEL DECENNALE DALLA MORTE

POSERO

IL

14

MAGGI

O

1935

Sotto il fuoco dei moschetti caddero tre operaie ta-

bacchine e due contadini: cinque morti che sancirono

dolorosamente la nascita di quel particolare movimen-

to sindacale salentino, contrassegnato da un’acerba

caratterizzazione muliebre sul versante operaio e dal

retaggio ribellistico e disorganizzato su quello rurale,

che rimase in ombra per tutta la durata del fascismo e

sarebbe riesploso in forma virulenta tra il 1949 e il 1951

durante la rivolta dell’Arneo. {09}

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116 117

e il 1950 e tra

il 1950 e il 1951,

migliaia di conta-

dini si mossero per occupare le terre di un vasto lati-

fondo incolto tra le provincie di Lecce, Brindisi e Taran-

to, scatenando la

Dai comuni di Copertino, Nardò, Arnesano, Gua-

gnano, Leverano, Carmiano, Salice Salentina, Campi

Salentina, ma anche del brindisino, San Pancrazio,

Manduria, Erchie, il punto di raccordo era il Pozzo d’Ar-

neo, unica sorgente di acqua potabile per uomini e ani-

mali. {12}

Il 28 dicembre 1950 fra i duemila e i tremila contadini,

seguiti dai vertici delle Leghe contadine e della CGIL si

mossero in direzione dell’Arneo dai paesi di Nardò, Co-

pertino, Veglie. Per alcuni giorni i contadini occuparono

le terre, dividendole e spietrandole. Da una occupazio-

ne simbolica si era passati da una occupazione della

terra che aveva nella produzione un suo fine.

Quando il Ministro degli Interni Scelba seppe

dell’occupazione dette ordine alle forze di pubblica

sicurezza, guidate dal commissario Stefano Magrone

di reagire fermamente alle dimostrazioni. Fra il capo-

danno 1951 e il tre gennaio la reazione non si fece at-

TRA

IL

1949

QUESTI

ONE

DELL’ARNEO

tendere e, con lancio di lacrimogeni e azioni di blocco

stradale i contadini furono scacciati. Il Ministero della

Difesa spedì anche un aeroplano per controllare me-

glio le azioni dei contadini. Il 7 gennaio furono arrestati

centinaia di contadini, che successivamente sarebbe-

ro stati processati.

Lo stesso giorno l’Arneo fu inserito nel progetto di

riforma della Legge Stralcio In questa occasione le bi-

ciclette e le coperte dei contadini furono distrutte dalle

forze dell’ordine come rappresaglia.

Il processo voluto dai vertici della forza pubblica,

in capo al commissario Magrone ebbe come imputati

sessanta fra contadini e capilega. Un collegio di av-

vocati da tutta Italia, dell’area socialcomunista, difese

gratuitamente i contadini. Il processo si celebrò fra il

marzo e il maggio 1951, e alla fine l’accusa fu smontata

e i contadini condannati furono solo in dieci che subi-

rono pene simboliche. {13}

e il 1950 ci

furono numerose

occupazioni delle

terre incolte, proteste e manifestazioni in quasi tutti i

Comuni del Salento, perché la riforma Gullo (chiamato

il “Ministro dei Contadini”) aveva garantito la redistri-

buzione delle terre (per far fronte ad una pesantissima

crisi economica che aveva messo in ginocchio soprat-

tutto l'economia del Sud Italia), ma non venne mai at-

tuata dai governi che si succedettero.

Com'è noto, il 1 maggio del 1947 ci fu la strage di

Portella della Ginestra, dove furono uccisi 11 contadi-

ni e feriti 65. La responsabilità, secondo alcuni, fu dei

ricchi proprietari terrieri. Per tale motivo De Gasperi si

dimise, poi tornò, poco dopo, con un governo di soli

partiti di centro destra. Fu la famosa rottura dei governi

di coalizione Antifascista.

TRA

IL

1944

quando l'allora Ministro dell’Agricoltura Segni (ric-

co proprietario terriero) realizzò un'altra riforma agraria,

che svuotò di significato la riforma Gullo. Questa era

una riforma che aveva la formale intenzione di espro-

priare migliaia di ettari di terre da assegnare ai piccoli

proprietari terrieri: le espropriazioni dovevano riguar-

dare 800.000 ettari, dei quali 650.000 nel Mezzogior-

no. Ma nella realtà fu espropriato poco più di 1/10. In

Salento si espropriarono pochi ettari, che non bastava-

no alle migliaia di contadini senza terra.

Il senatore Tamborino era proprietario di ben

28.000 ettari di terre, che usava solo per la caccia. Ec-

cettuate alcune masserie che provvedevano all'alleva-

mento di animali, il resto di quella immensa distesa di

terra era totalmente incolta. Secondo alcune fonti il se-

natore Tamborino fece pressioni a Roma affinché dalla

riforma agraria fosse estromessa la Provincia di Lecce,

onde evitare la redistribuzione delle sue terre.

Ma Tamborino e tutti i grandi latifondisti salenti-

ni, messi alle strette, alla fine cedettero alle pressioni

del P.C. e della lega dei contadini e promisero in totale

4500 ettari di terra. Se ne distribuirono solo 890, poi

tutto si bloccò.

Nel frattempo il Parlamento approvava la legge

stralcio (n. 841/1950) per la redistribuzione delle terre

ai contadini. Ma stranamente il Salento ne rimase fuo-

ri. Alcuna zona del Salento era menzionata nella leg-

ge. {11}

È

IL

12

MAGGI

O

1950

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118 119

dice che a Berna costassero 75 franchi, al cambio 11

mila lire dell'epoca (il guadagno per una settimana di

lavoro), e spesso i capannoni erano messi a disposizio-

ne dalle ditte ove lavoravano.

Inoltre gli usi, i costumi e le usanze erano diverse e

spesso i Meridionali non riuscivano ad integrarsi. I fa-

mosi cartelli "non si affitta ai meridionali" si ritrovavano

anche all'estero.

A seguito dell'unità d'Italia furono molti i salentini

che, per tante ragioni, furono costretti ad abbandona-

re la loro terra per cercare fortuna o per non morire di

fame. Da allora ai giorni nostri l'emigrazione è un feno-

meno ormai strutturato. Un censimento del 1951 ripor-

ta che circa 22.800 salentini lasciarono la propria casa,

di cui 2100 circa andarono all’Estero. Però 10 anni più

tardi, nel 1961, si parlava di circa 63.600 espatriati, di

cui 43.700 all'estero. Ancora oggi continua il fenome-

no. Secondo i dati forniti da SVIMEZ, nel 2011 si sono

trasferiti al Centro-Nord ben 19.900 pugliesi, di cui cir-

ca 9.000 salentini. {14}

inserita nel-

la agenda politi-

ca del tempo, fu

solo discussa ma mai trattata veramente. L’obiettivo

fu sempre quello di tenere il Sud alle dipendenze del

Nord. Esempio è la

un ente fondato nel 1950 (e chiuso nel 1984) che aveva

l'obiettivo di fare investimenti per il Sud e di creare le

infrastrutture necessarie per appianare le divergenze

economiche con il Nord Italia. La Cassa del Mezzo-

LA

QUESTI

ONE

MERIDI

ONALE,

giorno fu solo un contenitore politico alle dipendenze

della Democrazia Cristiana e ottenne pochissimi risul-

tati. Da una valutazione attenta della sua capacità di

spesa, infatti, ne risulta che gli investimenti usati dalla

Casmez per il Sud rappresentavano solo lo 0,5% del

PIL, a differenza degli investimenti ordinari per il Nord,

che rappresentavano il 35% del PIL.

In questo contesto furono tanti i salentini costretti

ad emigrare. I più lasciarono il Salento alla volta della

Germania, del Belgio, della Svizzera, mete ambite, per-

ché occorreva continua forza-lavoro ed i salari erano

alti. Ma anche in questi paesi i salentini trovarono con-

dizioni di vita pessime. A partire dalle case. Le crona-

che raccontano di capannoni ove vivevano più di 100

persone, i cui letti erano così tanti che dormendo ci si

poteva trovare sulle lenzuola del malcapitato vicino.

Tutto era in comune: bagni, cucina, docce. Gli affitti si

CASSA

DEL

MEZZOGI

ORNO

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120 121

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122 123

Page 63: Ldb Rural in Action_Coppola 02

Testi

{01}

Alessandro Portelli, introduzione a Vincenzo Santoro

e Sergio Torsello (a cura di), Tabacco e tabacchine

nella memoria storica. Una ricerca di storia orale a

Tricase e nel Salento, Manni editore 2002, p. 16

{02}

Vittorio Bodini, L’aeroplano fa la guerra ai contadini,

in Barocco del Sud, Besa Editrice, Nardò, p. 120

{03}

Ignazio Silone, Fontamara, https://ilcorso3b.files.

wordpress.com/2013/12/fontamara.pdf

(ultimo accesso 21 giugno 2014)

{04}, {11}, {14}

Storia del Salento. Le lotte per la terra ai primi del

‘900, http://www.laputea.com/it/cultura-salento/

scopri-salento/storia-salento (ultimo accesso 23

giugno 2014)

{05}

Emilio Rubino, La Repubblica Neretina, http://www.

fondazioneterradotranto.it/2012/11/22/la-repubblica-

neritina/ (ultimo accesso 23 giugno 2014)

{06}

Giornate Rosse allistine, Wikipedia,

http://it.wikipedia.org/w/index.php?title=Giornate_

Rosse_allistine&oldid=60758930 (ultimo accesso 22

giugno 2014)

{07}, {10}

Marco Piccinni, Tabacco e Tabacchine nel Salento,

http://www.salogentis.it/2013/06/17/tabacco-e-

tabacchine/ (ultimo accesso 21 giugno 2014)

{08}

1° C Scuola Secondaria di 1° grado Via Apulia Tricase,

L’A.C.A.I.T., http://apuliascuola.gov.it (ultimo accesso

22 giugno 2014)

{09}

Gino L. Di Mitri, Gazzetta del Mezzogiorno,

21 marzo 2011

{12}

Presentazione del documentario L’Arneide. Lo stato

fa la guerra ai contadini di Luigi del Prete, http://www.

archiviosonoro.org/puglia/archivio/archivio-sonoro-

della-puglia/fondo-documentari-e-fiction/larneide-lo-

stato-fa-la-guerra-ai-contadini.html (ultimo accesso

23 giugno 2014)

Immagini

p. 102

Occupazione delle terre a Montescaglioso (MT) in

località “Tre confini”, 29 settembre 1949. I contadini

si dispongono a formare il simbolo di falce e martello

p. 104–105

Annuncio in difesa dei lavoratori agrari (anni ’40)

p. 106–107

Immagini della Mostra per il 20° anniversario della

Resistenza. Fonte: Albe Steiner, Il manifesto politico,

Editori Riuniti 1978

p. 110

Tabacchine (Archivio Storico Parabitano). Fonte: Anna

Trono, Fabiola Pesare, La donna nella realtà produttiva

salentina. Tabacchi e tabacchine nel Salento leccese;

pianta di Nicotiana Tabacum, da cui viene prodotto

il tabacco. Fonte: Wikimedia Commons

p. 111

Lo stabilimento A.C.A.I.T. in una foto d’epoca; lo stesso

stabilimento dopo la riconversione industriale

Fonte: http://pubzine.eu

p. 115

I canti delle tabacchine. Fonte: Anna Trono, Fabiola

Pesare, La donna nella realtà produttiva salentina.

Tabacchi e tabacchine nel Salento leccese

p. 116

Fausto Gullo, il “ministro dei contadini”.

Fonte: Archivio fotografico de L’Unità;

la strage di Piano della Ginestra in un giornale

d’epoca. Fonte: http://altocasertano.wordpress.com

p. 117

Manifestazione a Montescaglioso (MT) nel corso dello

sciopero generale dei braccianti (giugno 1949)

p. 118

Cartina del Regno delle Due Sicilie, compilata ed

eseguita su pietra da Benedetto Marzolla (Napoli,

1841). Fonte: Real Litografia Militare

p. 119

Due immagini di Torino negli anni ’70.

Fonte: sconosciuta

p. 120

“Da Melissa a Modena”, supplemento al n. 3 di

“Lavoro” a cura della Cgil, 15 gennaio 1950.

pp. 121—123

Cartoline celebrative edite dalla Cgil in occasione del

1° maggio in ricordo dei caduti nelle lotte contadine.

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Due diari sul Parco Comunedei Frutti Minori

Castiglione d’Otranto,12—21 aprile 2014

da

pag

. 125

a pag. 156

Page 65: Ldb Rural in Action_Coppola 02

126 127

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raggiungimento di una totale messa in comune

del bene terra. Caroline invece riflette sull’attività

mattutina: non è stata tanto colpita dalla quantità

e assurdità dei rifiuti trovata tra erbe e rovi, quanto

dall’estrema forza e capacità dell’ecosistema di

digerire, riassorbire e ritrasformare in terreno i rifiuti

prodotti dagli umani. Dice che sulla terra dovremmo

comportarci da “ospiti delicati” e non assumere

anche in ambito agricolo un comportamento e una

filosofia antropocentrica.

DOMENICA 13 APRILE 2014

Sveglia alle 9:00, piove, Mattia è già uscito.

Restiamo un po’ a casa incerti sul da farsi,

pensiamo che per la pioggia non si lavori. Alle 11:30,

finita la pioggia io e Gianluca decidiamo di uscire

per una visita a Castiglione, ci chiama Mattia e

ci dice che sono alla curteddha a lavorare, allora

ci dirigiamo lì e subito cominciamo a lavorare

all’orto sinergico che è già a buon punto. Dopo la

pausa pranzo, al riparo dalla pioggia che è tornata,

restiamo un’oretta con Angelo Salento, un sociologo

dell’Università del Salento. Angelo ha preparato

un talk sulle diverse forme di aziende agricole e su

diverse forme, motivI e senso di produzione. Nel

frattempo smette di nuovo la pioggia e parte di noi

torna a lavorare all’orto, si spera di finirlo domani.

SABATO 12 APRILE 2012

Alle 9:00 ci si trova presso le aule sociali,

si preparano gli attrezzi, si aspettano i ritardatari

e ci si avvia verso l’area della curteddha.

Passiamo la mattinata a ripulire dai rifiuti le fasce

di terreno ai bordi della strada, via Vecchia Lecce.

Differenziamo i rifiuti e li ammucchiamo su

un telone. Dopo un’attesa pausa pranzo a base

di pane, pomodori d’inverno e peperoncino ci

riuniamo nell’aia. Rene pone il problema del senso

delle nostre attività: quando un gruppo di persone

si riappropria di una cosa pubblica in disuso

o abbandonata tende spesso a riprodurre le stesse

dinamiche di sistema dalle quali si vorrebbe

distaccare. E allora, dice, bisognerebbe interrogarsi

per cercare innanzitutto il senso di determinate

azioni e poi per cercare di non riprodurre

gli stessi sistemi anche se lo si fa dal basso.

Gigi dell’associazione percorre alcune tracce

storiche per analizzare l’attuale status di uso

della terra e la commercializzazione di massa dei

prodotti, dinamiche di mercato, ecc. Rocco racconta

l’esperienza del loro gruppo e le attività svolte negli

ultimi 3 anni dichiarando l’intenzione di costituire

una cooperativa, ma riflettendo al contempo sul

fatto che una cooperativa non è comunque il

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in Salento, come in gran parte del Sud è molto

radicata. Nel pomeriggio andiamo in un ex

magazzino di tabacco ad assistere alla lavorazione

della pasta che mangeremo stasera a cena.

La comunità di Castiglione ci sorprende giorno

dopo giorno per il suo spirito unitario e solidale,

per la gentilezza e l’apertura mentale, per l’energia

e l’entusiasmo che mettono in qualunque iniziativa.

La sera si cena con l’associazione Auser, gli anziani

del paese. Le donne sono un vulcano, dopo aver

lavorato tutto il giorno a preparare chili e chili

di pasta fatta in casa sono comunque molto più

energiche di noi e dopo cena ci trascinano in danze

e balli sfrenati.

MARTEDÌ 15 APRILE 2014

La mattina ci si sveglia presto e si va sui campi

a preparare le attività per le scolaresche del

circondario che cominciano ad arrivare dalle 9:00,

piantumano le erbe aromatiche tutt’intorno all’orto

sinergico (serviranno a tenere lontani gli insetti

nocivi), costruiscono strumenti musicali da materiali

riciclati e raccolgono i rifiuti residui a bordo strada.

Dopo pranzo si fa una riunione plenaria con Irene

che svolge una matassa di lana rossa da passarsi

man mano che si interviene, ne risulterà un reticolo

abbastanza intricato, anche perché la discussione

LUNEDÌ 14 APRILE 2014

Andiamo alla curteddha di buon’ora, è arrivato

anche Emilio. Alcuni anziani dell’associazione Auser

sono già al lavoro per rimettere in sesto il muretto

a secco a ridosso dell’orto sinergico, noi non

possiamo far altro che dare una mano da

“manovali”, sono loro che conoscono la tecnica

di costruzione e, nonostante l’età, mantengono

un vigore fisico invidiabile. Emilio fa il punto della

situazione e osserva, riguardo alla Festa dei Vivi,

che nelle passate edizioni la costante è stata quella

del percorso, del pellegrinaggio o processione,

dello spostamento in una dimensione sempre

molto intima; l’anno scorso – continua – a Phoenix,

in Arizona, si è verificato invece un coinvolgimento

di molte più persone, anche esterne al progetto, la

cui partecipazione è stata caratterizzata comunque

da una forza emotiva e da un delicato intimismo.

Dopo un giro di interventi ci lasciamo con il compito

di pensare a diversi interventi per il prossimo due

novembre, da effettuarsi magari in più posti diversi.

Giancarlo propone di utilizzare un vecchio cinema

abbandonato a San Cesario, Gianluca di prendere

spunto dalla simbologia funeraria del barocco

leccese, io propongo di indagare la dimensione

domestica e quotidiana del culto dei morti che

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MERCOLEDÌ 16 APRILE 2014

Quando ci si ritrova tutti è già abbastanza tardi,

si comincia una discussione sul viviterium, tiro fuori

il gomitolo di lana rossa che mi ha lasciato Irene

e lo usiamo. Emilio descrive la sua idea originaria

e la pone sul tavolo come un impulso, le riflessioni

sono molte, dalla dedicazione degli alberi alla forma

da dare allo spazio intorno. Rene tocca un punto

importante, chiede di interrogarsi bene sulla

sacralità di un luogo perché questo potrebbe

produrre una separazione ben definita tra sacro

e profano. Io mi pongo la questione della

costruzione di un monumento, del suo compito

di testimone e del come fare per destituire la

monumentalità e la tensione al passato di una

tale funzione, ma non ne parlo in assemblea, è un

pensiero che voglio elaborare. Dopo pranzo si esce

per una passeggiata tra Castiglione e Depressa

con l’avvocato De Matteis, appassionato di storia

locale che descrive i luoghi simbolo del circondario.

Per cena si va al Bottegone, c’è anche un piccolo

spettacolo offerto da P40, mio amico e menestrello

salentino, il vino scorre a fiumi e la cena si trasforma

in un’allegrissima festa tra canti da osteria e cori

da stadio. Si tira tardi, domattina sarà dura.

prende subito una piega socio-politica interessante,

riflettendo sui fatti accaduti ieri a Roma (gli scontri

tra le forze dell’ordine e i movimenti di lotta per

il diritto all’abitare che chiedono casa e reddito)

e si quello che accade qui a Castiglione, un’utopia

che cerca la sua strada alla periferia dell’impero.

Dopo qualche ora di lavoro sui campi ci riuniamo

noi cafausici per continuare la discussione sulla

prossima Festa dei Vivi, si cerca di capire se

spostarci o meno a San Cesario nei prossimi

giorni. Si discute anche della mia proposta di micro

interventi sulla celebrazione domestica dei defunti,

Francesca Marianna racconta la sua esperienza

legata al 2 novembre e delle sue mostre rivolte

al pubblico dei morti. Nel tardo pomeriggio si svolge

un incontro col professor Salvatore Coppola, storico

locale, che ripercorre la storia delle lotte contadine

nella provincia di lecce nel corso del Novecento e si

dibatte sull’esperienza castiglionese, sottolineando

i diversi bisogn e modi di comunizzare le terre.

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Urbino percorriamo il tratto di strada del parco per

individuare dei punti dove porre le segnaletiche, ma

Giancarlo pone un dubbio, lui le segnaletiche non le

vorrebbe per niente, opterebbe per un’estetica più

naturale e selvaggia del parco.

è ormai terminata. Iniziamo a lavorare con quello

che c’è, il terreno. La cosa che notiamo subito

è che nessuno fa esclusivamente una cosa, non

ci sono compiti veramente definiti, ma tutti

aiutano qualcun altro in quello che è impegnato

a fare. Cerchiamo di capire a questo punto quali

possono essere effettivamente gli strumenti con

i quali lavorare. Gianluca ci aiuta a lavorare

la terra e la calce per ottenere il pigmento con

la quale facciamo le prime prove della nostra

segnaletica. C’è anche Rocco, che vive

a Castiglione, un uomo molto simpatico,

alla mano e sempre sorridente, che ci porta

GIOVEDÌ 17 APRILE 2014

Da Urbino sono giunti degli studenti che preparano

i pigmenti per dipingere ad affresco le eventuali

segnaletiche del parco, io e Gianluca gli diamo

dei consigli e loro provano l’effetto sulla calce–

canapa di Rocco. Karen ci coinvolge in una sessione

di disegno sulla terra, chiede di rappresentare un

rito intimo e personale. Con il piccone traccio un

cerchio aperto in un punto, con i piedi calpesto il

terreno all’interno del cerchio procedendo a spirale

verso il centro, poi faccio proseguire il solco per un

breve tratto in linea retta per poi formare un altro

cerchio aperto, ripeto l’operazione precedente.

Con Luigi Coppola, Giancarlo e gli studenti di

Il 17 aprile arriviamo a Castiglione d’Otranto,

un tipico paesino leccese, con mura bianche

e inaspettate case dai colori accesi e stridenti.

Un posto molto tranquillo, rende l’idea che tutti

si conoscano. Una cosa che non ci aspettavamo

è invece il freddo.

La mattina arriviamo al parco e subito notiamo

come tutti collaborano tra loro, lavorano la terra

e piantano alberi, discutono e riflettono, sono

una piccola comunità. Non c’è la corrente

elettrica, così realizziamo che dobbiamo iniziare

a lavorare in maniera concreta, fisica, la parte

riflessiva e concettuale del nostro progetto

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la calce, trucioli di canapa (che coltivano) e ci fa

vedere come lavorare i materiali. Tutti sono molto

disponibili e mostrano interesse in quello che

stiamo cercando di fare, ci forniscono punti

di vista e consigli.

Siamo impegnati nella realizzazione del colore

e nelle prove di affresco, quando si avvicinano

a noi Giancarlo e Luigi. Giancarlo inizia ad

esporci i suoi dubbi, lui preferirebbe una

segnaletica più invisibile, poco percettibile.

Noi non siamo molto d’accordo e cerchiamo

di spiegargli il nostro punto di vista. Rocco e altri

due abitanti di Castiglione invece apprezzano le

prime prove di landmark.

Effettivamente sta venendo fuori un giardinetto

pulito e aggraziato per signore cotonate, e mi viene

alla mente la riflessione di ieri di Rene, il sacro

che produce separazione, quello curato è il parco,

altrove potete continuare a scaricare i vostri rifiuti.

***

Alle 18 c’è un incontro presso le aule sociali.

Arriva anche Elena Gigante e andiamo a casa

di Rene a registrare la sua voce per un altro lavoro,

la voce dovrebbe venire dal ventre di un’anitra cotta,

siamo in una piccola tavernetta col camino acceso,

accanto al fuoco, la situazione è ideale. La sera si

cena al Bottegone, si leggono alcune poesie, dopo

si tenta di andar via senza destare l’attenzione,

ma Karen all’uscita del locale ci coinvolge in una

coreografia, all’una riusciamo ad essere a casa,

ci prepariamo ad andare a letto, ma ci riusciamo

solo dopo un’ultima visita di Karen nelle vesti

di Gesù.

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a lavorare. Alcuni iniziano a mettere in dubbio

l’etica di quello che vogliamo fare per il parco,

parlandoci di brand, non vogliono che il parco

venga brandizzato. Alcuni non sono d’accordo

sul fatto che si facciamo nette distinzioni di

genere tra le varie zone, o sostengono che non

ci sia bisogno di identificare, nominare,

informare. Presupponendo che noi siamo venuti

qui per questo, parte un lungo dibattito. È ovvio

che non è ancora molto chiaro il processo che

abbiamo intrapreso e che ci prestiamo ad attuare,

il modo in cui vorremmo lavorare e il nostro

obiettivo. Probabilmente è una questione di

incomprensione, che sorge da un approccio

differente — di riflessione e progettazione —

tra noi e gli artisti che operano in un determinato

contesto. Quello che emerge è che c’è

del pregiudizio nei confronti della nostra

professione, che ad oggi non viene ancora

compresa appieno. Probabilmente molti

ci ritengono parte di un sistema capitalista

e consumistico, parte del grande universo

aziendale e strettamente legati al concetto

di brand. In realtà, lavori di questo genere sono

solo una piccola porzione di quello che è il mondo

di grafica nelle aule sociali. Ci illustrano il lavoro già

avviato per il Parco Comune dei Frutti Minori e il loro

metodo, che parte da uno studio storico e sociale

(in questo caso anche botanico) della realtà

da ridurre a segno intelligibile e riproducibile.

Tornano fuori i dubbi di ieri riguardo alla segnaletica

e all’eccessiva connotazione dell’area del parco,

sulle prime il team grafico si pone sulla difensiva,

poi il confronto dialettico diventa interessante.

Nel frattempo arrivano i due Luigi, ci incontriamo nel

bar vicino con il gruppo cafausico, non ci diciamo

un gran che, ma sentiamo l’esigenza di deviare

leggermente dal percorso iniziato a dicembre per

connetterci anche all’esperienza di Castiglione.

Prima di cena c’è un altro incontro con Leonardo

Angelone che, come a dicembre, spiega i princìpi

dell’agricoltura biodinamica steineriana che

metteremo in pratica domani. Lui è sempre molto

chiaro e riesce a infondere a tutti l’entusiasmo

e l’interesse per il suo lavoro. Rocco freme dalla

voglia di cominciare. Ceniamo al bottegone

e dopo con Karen, Federica e Andrea andiamo

a fare un giro a Marina di Andrano.

Ci accompagna Michele, un ragazzo del posto.

Finalmente riusciamo ad avvicinarci al mare.

All’ora di pranzo capiamo come viene gestita

la questione vitto. Tutti alle aule sociali: pane

e pomodoro e vino rosso. Si prepara da mangiare

tutti assieme, noi all’inizio ci sentiamo un po’

fuoriluogo — topi di città — fin quando, dopo

pranzo, laviamo i piatti con gli altri, in una sorta

di catena di montaggio. La sera invece ceniamo

tutti insieme al Bottegone, un localetto che

a quanto pare in genere non serve da mangiare

come hanno fatto mentre eravamo lì noi. Capiamo

subito che il vino è una costante invariabile

del soggiorno. Quella sera un bambino della

comunità dei frutti ha voluto deliziarci con

canzoni rap. E poi c’è Karen, un artista armeno.

Si presenta spesso con turbanti colorati in testa,

è sempre l’anima della festa. La sera c’è sempre

qualcuno che improvvisa uno show. Ci sono

diversi artisti che collaborano al progetto del

Parco Comune, tra cui Rene Gabri, che vive a New

York. È il 18 aprile e il nostro docente, Bubbico,

tiene una presentazione nelle aule sociali,

è impegnato a parlare dei suoi lavori cercando

di spiegare a tutti cosa abbiamo in mente di fare,

e cosa in genere un grafico dovrebbe fare in un

contesto simile, nel quale, almeno lui, è abituato

VENERDÌ 18 APRILE 2014

Ci si sveglia a metà mattinata, piove e fa freddo,

la temperatura si è abbassata sensibilmente,

non possiamo lavorare. Ci si trascina fino

al pranzo presso le aule sociali. Dopo pranzo

approfittiamo dell’interruzione della pioggia per

andare sui campi e portare avanti un po’ di lavoro

che dovremo terminare domani. Con un piccolo

gruppo svolgiamo degli esercizi di meditazione

guidati da Karen e da Emilio che ci fanno lavorare

sul respiro, sulla ricerca di un’immagine interiore e

sulla percezione ultrasensibile della presenza degli

altri nello spazio, sono esercizi semplici, ma che

riescono a farci connettere gli uni agli altri in una

sfera che non è quella corporea e neanche quella

prettamente mentale. Nel pomeriggio abbiamo

un incontro con Mauro Bubbico e i suoi studenti

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pubblica, hanno sviluppato dei sistemi di

comunicazione rivolti al cittadino e coerenti con

la cultura visiva del luogo. Un’altra contestazione

che viene fatta riguarda il fatto che, andando noi

ad identificare solo una porzione di territorio, che

è quella iniziale — perché il Parco Comune dei

Frutti Minori è concepito come luogo in continua

via di sviluppo — la gente potrebbe finire per

rispettare solo la zona curata e segnalata e

continuare a gettare rifiuti poco più avanti,

dove non ci sono ancora coltivazioni né etichette.

Ma non è esattamente così. Se gli abitanti di un

posto vengono sensibilizzati verso determinate

tematiche, attraverso un’azione concreta sul

territorio — che è probabilmente la cosa più

significativa pensata in questo contesto —

è sotteso che dovranno rispettare anche la terra

che si trova poco più avanti, sulla quale non

si è ancora intervenuti ma che in futuro verrà

anch’essa riqualificata. Se non ci fosse alcuna

testimonianza di cura, alcuna attenzione,

alcun segno che ti faccia capire che lì, che in

quella zona dalla dimensione indefinita — perché

non ci sono barriere che ne delimitano il perimetro

— qualcuno è intervenuto e ha messo in moto un

del graphic design oggi, e soprattutto noi che

siamo lì, ne siamo estranei. Non lavoriamo per

un comittente privato che mira alla crescita del

proprio capitale. Il concetto di brand è legato alla

creazione dell’immagine di beni o servizi propri

di un’azienda, di un ente privato che ha come

obiettivo quello di differenziare il proprio

prodotto da altri e avere un rientro economico.

Noi non facciamo niente di tutto questo. Diamo

un nome e un’immagine ad un luogo che può

essere utilizzato da tutti, che non deve

concorrere con un’altra realtà e che non deve

essere venduto. Si può dire che, in un certo senso,

“vendiamo” l’immagine del prodotto, perché deve

essere accettata dal “committente” — in questo

caso la comunità — e poi applicata. Ma la nostra

posizione è quella di progettisti che si prestano

a produrre un bene funzionale al servizio del

cittadino, informazione utile per il bene della

comunità, senza la presenza di comissioni

private. L’esempio che guardiamo è quello

di alcuni grafici italiani degli anni ‘70 e ‘80,

i pionieri della Pubblica Utilità — Dolcini per

Pesaro, Balan per la Valle d’Aosta, Cresci per

Matera — i quali, sulla base di una comissione

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appropriata alle attività che vi si svolgono e alla

comunità alla quale sono rivolti. Il branding è

un’altra cosa. Noi siamo lì perché un pezzo di

strada con ai fianchi delle strisce di terra deve

essere trasformato in un parco comune con la

piantumazione di piante da frutto “minori”.

La nostra intenzione è quella di promuovere

questa iniziativa — cosa fatta prima di arrivare

lì — e di valorizzare quel luogo che altrimenti

rimarrebbe anonimo, non riconoscibile, come

tutti gli altri pezzi di terra non curati da nessuno.

Sarebbe difficile, se non impossibile, riconoscere

un parco — o qualsiasi altro tipo di zona che

si vuole arricchire e mettere in luce — lì dove

non c’è nulla che mi permetta di riconoscerlo,

di apprezzarlo, di identificarlo. Il nostro compito

è quello di informare e valorizzare tramite delle

insegne realizzate utilizzando i materiali

naturali, lì presenti, che si possano armonizzare

con il territorio ma allo stesso tempo suscitare

attenzione e curiosità: la pietra come supporto,

colori ottenuti tramite il terreno e la calce.

E alla fine lo abbiamo fatto, con le modifiche

dipese dai tempi e dal materiale a disposizione.

processo estendibile, allora probabilmente anche

quell’area finirebbe per essere nel tempo

abbandonata e sede di nuovi rifiuti. Inoltre la

segnaletica che abbiamo pensato non è statica,

i blocchi di pietra sui quali abbiamo lavorato

possono essere spostati in base alle necessità

del momento e alla crescita delle piante. Questo

sistema è partecipativo e facile da realizzare, chi

collabora al Parco Comune può tranquillamente

creare altri segni in concomitanza alla crescita

del parco. La maggior parte dei nostri lavori

è focalizzata su tematiche legate al territorio,

alla cultura dei luoghi, ai concetti di comunità,

di tradizione, di saperi e di processi — nella

creazione di valore — molto spesso partecipativi.

Creiamo informazione, comunicazione,

arricchendo visivamente delle realtà. Alcuni

sostengono la necessità di una comunicazione

“invisibile”, “eterea”, che sia così tanto in

armonia con la natura da essere percepita solo

se cercata. Ma noi abbiamo un altro modo di

pensare. La comunicazione se c’è si deve vedere,

altrimenti è meglio non farla. Certo, non deve

essere un pugno nell’occhio, non deve essere

stridente con l’ambiente circostante e deve essere

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DOMENICA 20 APRILE 2014

Sveglia tardissimo, andiamo a Diso nella campagna

di Luigi Coppola per pranzare tutti insieme.

Dopo pranzo abbiamo una riunione plenaria per

trarre delle considerazioni da quest’esperienza,

la maggior parte di noi è molto assonnata, si

parla dell’esigenza di connettere l’esperienza

castiglionese ad altre simili e si discute di come

uscire dai sistemi economici imperanti evitando

di riprodurli, ma cercando di riprodurre esperienze

ed esperimenti alternativi. Si parla dei concetti

di produzione e riproduzione. Dopo la cena ci

rechiamo alle aule sociali dove Donatella e le altre

donne del paese stanno preparando quantità

industriali di cibo per la Pasquetta di domani.

Si arriva lì a frotte, i giovanissimi di Castiglione,

Elisabetta, Gabriele e il sempre presente Graziano

portano gli strumenti per suonare e in breve si

crea un’allegra festicciola. Sul tardi arrivano Rene

e Ayreen per salutare, partiranno domattina. Dopo

i convenevoli Donatella ci fa stringere in cerchio, ci

fa tenere per mano e chiudere gli occhi. Dall’interno

del cerchio canta una struggente canzone d’amore

carezzandoci il volto uno per uno, ha una voce

melodiosa e il momento è molto forte, molti tra

noi si commuovono.

La domenica gli altri decidono di mangiare tutti

insieme a casa di Luigi, ma noi rimaniamo al

parco per proseguire il nostro lavoro. Abbiamo

molto da fare. Alcuni di noi si dedicano alla

segnaletica, altri a colorare le pietre di azzurro

e a disporle negli interstizi dei muretti a secco,

per segnalare il percorso dal paese di Castiglione

fino al Parco Comune dei Frutti Minori. L’idea

è quella di suscitare curiosità e di accompagnare

le persone al parco.

SABATO 19 APRILE 2014

Per fortuna c’è un bel sole pieno e siamo tutti

alla curteddha. I ragazzi del paese terminano

la seduta in pietra a secco e il mattonato intorno

all’orto sinergico, noi continuiamo a spietrare il lato

sinistro della strada e a piantumare i fichi, sul lato

destro Rene, Federica e Laura stanno realizzando

dei microinterventi al limite della visibilità volti

più a instaurare un rapporto di cura dell’esistente

che a trasformarlo in maniera invasiva seppur

sempre amorevole. Leonardo ha ossigenato

una trentina di litri d’acqua per un’ora e abbiamo

iniziato a dinamizzarla col preparato 500.

Nel frattempo si pranza nel pagliaio e sull’aia,

al sole. Una volta pronta la soluzione ci rechiamo

con Leonardo sul campo di Rocco e lui, come

uno sciamano, comincia a percorrere il terreno

a grandi passi e ad aspergere la sua pozione con

un movimento ritmato e armonioso. Dopo anche

noi, in maniera simbolica aspergiamo tutti i terreni

intorno. Con Laura “benediciamo” anche l’uliveto

dietro i campi, dove sogliamo svolgere gli esercizi

di meditazione. Proprio lì ci rechiamo con Emilio

e Karen, Mattia, Luca, Alessandra e Valeria

a svolgere degli esercizi col suono e con la voce.

***

Un agricoltore locale ci parla dell’agricoltura

biodinamica, ce ne spiega i principi base.

Il 19 aprile, al parco, ci dimostra come utilizzare

il preparato 500, un concime naturale.

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LUNEDÌ 21 APRILE 2014

Pasquetta, ultimo giorno, inaugurazione del Parco

Comune dei Frutti Minori. Luigi Coppola, Rocco e

Donato sono emozionati e soddisfatti, tutti si danno

da fare per organizzare la giornata, si allestiscono

tavoli per la distribuzione del cibo e teli sui prati

nell’uliveto, i ragazzi preparano un dj-set all’ingresso

della campagna. Luigi si commuove quando gli

tocca presentare ufficialmente l’apertura del parco.

Dopo comincia il valzer dei saluti infiniti, nessuno

vuole andar via finchè gli altri sono lì e così si tira

tardi ancora una volta. Donatella al momento

di andarsene scoppia in un pianto dirotto e ci fa

commuovere ancora una volta. Trovato il momento

adatto prendiamo la macchina, le valige e torniamo

a casa. Con un pezzo di Castiglione nel cuore

e la certezza di rivedere tutti.

L’ultimo giorno a Castiglione ci impegnamo

a disporre i landmark nei pressi delle piante

segnalate e a fare interviste agli abitanti del

posto. La partecipazione degli abitanti di

Castiglione è infatti molto forte, entusiaste

dell’evento hanno collaborato alla pulizia,

alla piantumazione, alla cucina, hanno voluto

condividere le loro esperienze, i loro sogni

e le loro paure. È un tema molto sentito, quello

dell’agricoltura, della terra e della propria

cultura. Alcuni anziani ci raccontano la storia

della loro vita da contadini, a volte da “schiavi”

di padroni di terre durante la guerra, della fortuna

trovata all’estero e dell’acquisto, con quei soldi,

di un terreno da coltivare nel loro paese di

origine. È un peccato che oggi le stesse terre

vengono via via sempre più abbandonate.

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Frutti dimenticati(157—172)

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BotanicaCespuglio di 2 m d'altezza, è coperto da foglie persistentie coriacee di 7-12 cm, con margine dentellato. Da settembre in poi la pianta regala fiori e frutti: i primi sono riuniti in pannocchie pendule di campanelline bianco-giallastre;i secondi sono rotondi, granulosi e coloratissimi (da verdi a gialli-arancio-rossi) con 20-25 semi, hanno polpa gialla e sapore dolce con retrogusto acidulo.

ColtivazioneVa piantato in posizioni riparate dai venti e, nel Nord, in punti esposti a sud. Preferisce un terreno acido, povero di sostanza organica e ricco di scheletro. I frutti attirano numerosi uccelli, tra cui merli, tordi, gazze, ghiandaie, colombi e tortore.

CucinaI frutti, raccolti quando assumono il colore rosso,si consumano freschi al naturale, in macedonia, oppure si usano per marmellate, gelatine, sciroppi e canditi. Rendono bene anche sotto spirito e, in Sardegna e Corsica, se ne ricava un vino particolare o, per distillazione, una tipica acquavite.

ErboristeriaUsato per curare la cistite: infondere per 15 minuti 15 g di frutti schiacciati in 1 litro d’acqua bollente, filtrare e bere 3-4 tazze al giorno, dolcificando con miele di timo o di castagno.

Arbutus unedoFamiglia Ericacee

Corbezzolo

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BotanicaL’albero del fico può diventare anche di grandi dimensioni (7-8 m d’altezza e 10 m di diametro) e ha foglie grandi lobate color verde scuro. I fiori sono monoici, non visibili all’esterno, piccoli. Quelli maschili hanno il compito di fecondare quelli femminili dando luogo ai veri frutti (acheni), erratamente definiti semi.

ColtivazioneNon sopporta gli inverni troppo rigidi, vegeta al meglio nella zona mediterranea e nelle zone soleggiate, non dovrebbe mai superare i 600 m d’altitudine. Non ha bisogno di trattamenti antiparassitari e non necessario concimarlo, perché resiste bene e fruttifica anche su terreni molto poveri, e non ha bisogno neppure di potature, se non per l’eliminazione deirami spezzati.

CucinaTra i frutti più versatili, i fichi freschi si consumano tal quali, o in macedonie, torte o per fare confetture. Si sposano anche con cibi salati.

ErboristeriaSono ottimi remineralizzanti, tonificanti ed energetici; inoltre, in virtù degli enzimi sono digestivi e combattono la gastrite. Usato per curare il mal di gola: bollitene 100 g in 1 litro d’acqua per 20 minuti, fate gargarismi almeno 4 volte al giorno e bevetene 2 tazze. Come lassativo: mettetene 6-7 interi a bagno in acqua tiepida alla sera, mangiateli la mattina dopoa digiuno.

Ficus caricaFamiglia Moraceae

Fico

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BotanicaÈ un arbusto dell’altezza massima di 8 m. Le foglie, caduche, sono opposte, semplici, ovali, di colore verde; i fiori, piccolie gialli, appaiono tra febbraio e aprile. I frutti ovali sonodrupe carnose, lisce, rosso scarlatto lucente; contengonoun seme osseo durissimo e maturano in modo scalare tra agosto e ottobre.

ColtivazionePianta spontanea che ben si adatta a quasi tutti i terrenipurché non aridi, preferisce comunque il suolo calcareo, anche sassoso. Non soffre il freddo e non richiede potature, amail sole. In settembre-ottobre si tagliano con un paio di cesoiei gambi dei frutti.

CucinaPer la loro ricchezza in vitamina C, sali minerali e tannini, le corniole hanno proprietà astringenti, toniche e rinvigorenti. I frutti hanno un sapore acidulo ma gradevole e si mangiano al naturale. Si utilizzano anche per gelatine e sciroppi e per spremerne il succo.

ErboristeriaUsate per curare la colite: bollire per 10 minuti 30 g di frutti secchi in 1 litro d’acqua, filtrare e bere 3-4 tazze al giorno.Per la febbre: infondere per 10 minuti 15 g di frutti secchi in una tazza di acqua bollente, filtrare, bere 3 tazze al giorno.

Cornus masFamiglia Corniacee

Corniolo

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BotanicaLe due specie presenti in Italia sono Morus alba e Morus nigra, rispettivamente gelso bianco e gelso nero, dal colore dei frutti.Entrambi diventano alberi imponenti, alti fino a 10 m il primoe 15 m il secondo, con chioma rotondeggiante ed espansae foglie da ovate a cordate (a volte trilobate), lunghe fino a 15 cm, di colore verde brillante. La fioritura passa inosservata, mentre i frutti maturano da maggio a luglio per il gelso bianco e da giugno ad agosto per quello nero: assomigliano visivamente alle more, ma botanicamente si chiamano “sorosio”, di colore bianco rosato o viola-nero a maturità.

ColtivazioneOriginaria della Cina, la pianta fu introdotta in Europa verso il XV secolo principalmente per la bachicoltura. Il gelso si adatta a qualunque tipo di terreno, argilloso, sassoso, marginale o collinare. La sua resistenza alle malattie fasì che non richieda l’impiego di fitofarmaci. Entrambe le specie vivono bene sia al Nord sia al Sud. L’allevamento del baco da seta si concentra tra la fine di aprile, quando il gelso schiudele gemme, e l’inizio di giugno, per l’impossibilità di ottenereun secondo raccolto di foglie del gelso. In soli 40 giorni dall’uovo si ottiene il bozzolo di seta, passando attraverso le quattro successive mute dell’insetto. Durante questo periodo, l’unico impegno consiste nel rifornire di fogliame gli insaziabili bruchi e nel ripulire i resti di quanto avanzato.

CucinaI frutti si possono consumare allo stato fresco, in macedonia, in torte e crostate di frutta o per preparare marmellate biologiche. Il gelso nero è da preferirsi poiché i frutti sonopiù saporiti.

Morus alba, M. nigraFamiglia Moraceae

Gelso

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BotanicaÉ un piccolo albero deciduo, che raggiunge gli 8 m d’altezza.Le foglie alterne, semplici, sono lunghe 6- 11 cm. I fiori sono bianchi o rosati, con cinque petali. I frutti possono essere maliformi (a forma di mela) oppure piriformi (a forma di pera). La buccia è ricoperta di peluria bruna che scomparea maturazione, ed è di colore giallo oro intenso. La polpaè consistente, facilmente ossidabile e ricca di sclereidi. I semi sono numerosi.

ColtivazioneÈ una pianta robusta che cresce bene in ogni tipo di terreno. Predilige l’ambiente mediterraneo perché le gelate tardive possono danneggiare la produzione, ma resiste fino a 1.000 m di quota, purché in posizione riparata e ben soleggiata. Teme la siccità estiva. Non necessita di concimazione. La pianta può essere colpita dal colpo di fuoco batterico (Erwinia amilovora). La raccolta si esegue a maturazione, in settembre-ottobre, quando il colore vira dal verde al giallo chiaro e la peluria si elimina facilmente.

CucinaLe cotogne non si prestano al consumo allo stato fresco a causa della polpa troppo dura e astringente; vengono cotte per preparare confetture, gelatine e mostarde, o utilizzate per aromatizzare distillati e liquori.

ErboristeriaUsata per curare la bronchite: macerare per 5 giorni in 1 litro di vino rosso una mela cotogna affettata e 10 g di scorza di cannella; bere una tazzina di vino caldo dopo cena.

Cydonia communis e C. lusitanica, Famiglia Rosacee

Cotogno

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BotanicaTutti i sorbi hanno crescita lenta, compensata dalla longevità (fino a 120 anni di vita). Sono alberi di massimo 10 m d’altezza, con rami giovani pelosi. Fiorisce verso maggio-giugno, con fiori piccoli color crema riuniti in corimbi, dai quali si sviluppa un numero limitato di frutti (4-6). Questi hanno un diametro di 2-4 cm, e sono di colore giallo-rossastro.

ColtivazioneIl sorbo non teme il freddo, anche intenso, ma non sopporta il caldo afoso estivo. Desidera un terreno fresco e ricco d’humus, anche moderatamente umido ma senza eccessivo ristagno; una posizione soleggiata ma ventilata soprattutto d’estate; irrigazioni di soccorso in caso di temperature elevate e prolungate nei primi anni dopo l’impianto. Tutti i frutti dei sorbi si raccolgono in settembre, recidendo il peduncolo dell’intero corimbo.

CucinaIl sorbus domestica si può consumare tal quali, previo ammezzimento. I frutti degli altri due sorbi si impiegano per confezionare liquori dal potere digestivo, marmellate e gelatine, salse che accompagnano la cacciagione,o per aromatizzare l’aceto o la grappa.

ErboristeriaIl sorbo viene usato per curare la diarrea: mangiare nell’arco della giornata 10 sorbole mature fino a scomparsa dei sintomi.Per la tosse: schiacciare 10 g di frutti freschi di sorbo degli uccellatori in modo da toglierne i semi, porre la polpa in una tazza d’acqua bollente e lasciarla per 15 minuti, filtrare e bere 2-3 tazze al giorno.

Sorbus domestica, S. aria, S. aucuparia Famiglia Rosacee

Sorbo

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BotanicaÈ un arbusto o piccolo albero di 2-5 m d’altezza, dal tronco sinuoso, con numerosi rami spinosissimi e penduli. Le foglie, caduche, sono piccole, alterne, lucide, ovali. I fiori, minuti e gialloverdastri, appaiono in maggio-giugno. I frutti sono drupe di colore prima rosso violaceo poi nocciola. La polpa bianca è dolce-acidula, prima croccante e poi farinosa, e racchiude un seme allungato, duro e pungente.

ColtivazionePianta rustica, preferisce un clima temperato in zone prive di geli persistenti; resiste a temperature sotto lo zero se sporadiche. Predilige posizioni soleggiate e riparate dai venti invernali. Si adatta a ogni terreno, dando il meglio su suoli leggeri. Resiste a estati calde e siccitose. Le varietà si differenziano per le dimensioni dei frutti, grossi come un dattero o un uovo di gallina, e per la forma più o meno allungata. Le migliori varietà sono Lì, Lang, Sui Men, Mu-Shing-Hong. Le giuggiole maturano gradualmente dalla metà di agosto fino a ottobre; si raccolgono recidendo il picciolo e si conservano per circa un mese in cassette al buio e al fresco.

CucinaSi consumano fresche tal quali, in marmellata, sciroppo, gelatina o sotto spirito. Possono anche essere essiccatee candite. In Cina sono un ingrediente del pane e di variesalse e bevande.

ErboristeriaHa proprietà diuretiche: bollire per 15 minuti in 1 litro d’acqua 60 g di frutti freschi snocciolati; filtrare; bere tiepido in dose di 3-4 tazze al giorno.

Zizyphus jujubaFamiglia Ramnacee

Giuggiolo

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BEGIN FORWARDED MESSAGECome vogliamo vivere

Forse la parola in se stessa può essere il legame più forte alla tua spiritualità

Forse la parola in se stessa può essere il legame più forte alla tua spiritualità

Lo vedo come un incipit, come un'esperienza legata a questa contingenza.

Lo vedo come un incipit, come un'esperienza legata a questa contingenza.

L'idea di qualcosa che ho trovatoe poi ho nascosto.

L'idea di qualcosa che ho trovatoe poi ho nascosto.

Ho raccolto delle pietre e del grano al centro,mi sono concentrata sulla materialità.

Ho raccolto delle pietre e del grano al centro,mi sono concentrata sulla materialità.

La prima domanda era trovare un posto sicuro per il mio rituale.

La prima domanda era trovare un posto sicuro per il mio rituale.

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Inizio messaggio inoltrato:

>>Da: <[email protected]>Oggetto: After CastiglioneData: 22 Aprile 2014 16:15A: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

Cari Tutti,scrivo fresca dalla bellissima esperienza di Castiglione per condivi-dere con voi alcune riflessioni e proposte per il futuro. Mi sembra davvero importante creare una continuità con la comunità di Casti-glione per non rendere questa sinergia solo un episodio.Anche a Castiglione la Biodinamica ha suscitato entusiasmo e spero questo interesse cresca e diventi una pratica. Anche perché, come dice Emilio, la Biodinamica è la porta attraverso la quale passare anche sui temi che interessano i Cafausici, per arrivare così ad un terreno comune per tutta l'esperienza delle fhu.

Mi è sembrata interessante la proposta di Angelone, figura stra-ordinaria, di creare attorno all'orto un luogo sociale con sedute, tet-toie e quant'altro sia utile ai fini di abitare il luogo, utilizzando come materiali le pietre raccolte nel campo. Ci invitava ad usare le nostra creatività per progettare appunto questo luogo che possa restare per possibili nostri nuovi incontri o da lasciare alla Comunità. Una sorta di meeting point in cui riflessioni e pratiche possano convive-re, pensando anche di allestire una cucina per preparare pasti con cibi direttamente raccolti nell'orto attiguo.

Anche l'idea di organizzare in autunno, si parlava delle prime settimane di Ottobre, un vero seminario di Biodinamica mi sembra una proposta da prendere in considerazione, affinché questa pra-tica possa essere più incisiva in quella terra ed in quelle limitrofe. Ho pensato che, se davvero riuscissimo a creare questo luogo socia-le attorno all'orto, sarebbe bello organizzare anche un workshop di autocostruzione di dispositivi che funzionano con le energie rinno-vabili, fotovoltaico, eolico, biomasse, ecc…

Durante i giorni a Castiglione ho cercato di far progredire an-che il progetto sul dialogo con tre figure spirituali, provenienti da tradizioni differenti, sul tema della morte. Sono stata, per questo motivo, a San Pietro in Lama dove ho partecipato ad una sessione di meditazione con un Monaco Zen. Venerdì proverò a rincontrare il Maestro per capire se lui possa essere interessato ad una condi-visione con noi.

Con Emilio abbiamo pensato che avrebbe senso che queste tre (ma potrebbero essere anche due o anche quattro) figure portatrici di saperi diversi, potessero condividere con il gruppo alcuni giorni assieme, per dare continuità alla pratica essenziale che stiamo por-

tando avanti ovvero: stare assieme fisicamente, condividere intere giornate assieme. In queste tre ipotetiche giornate avere poi degli appuntamenti in cui gli ospiti possano impartirci degli insegnamen-ti sui temi di cui ci stiamo occupando. Questi incontri potrebbero essere filmati o servire come base per raccogliere materiale utile a costruire in seguito dei dialoghi da utilizzare in un progetto video. E' tutto in progress!

Una cosa che mi preme chiarire è questa: abbiamo stabilito che ognuno si rende responsabile di portare a compimento i progetti di cui si è fatto promotore. Siccome qui si tratta di prendere delle re-sponsabilità nei confronti del gruppo e nei confronti delle persone che si vogliono invitare, vorrei chiedere se si potesse al più presto definire il luogo del prossimo incontro della FHU. Devo fare i conti anche con il tempo e l'energia che posso dedicare a questo progetto prima di coinvolgere persone e trovarmi poi nella spiacevole situa-zione di aver preso impegni che non riesco a gestire al meglio.

Ho sentito che qualcuno ipotizzava che il prossimo appunta-mento avverrà ancora a Castiglione. Se così fosse, temo di non es-sere in grado di seguire la logistica di questi inviti. Cercherò di invi-tare persone che vivono già a Lecce perché il budget ipotizzato per questi inviti è davvero limitato. Vorrei iniziare ad incontrare possi-bili ospiti nei prossimi giorni ed è per questo che scrivo fin da ora. Proporrei dunque San Cesario come base per il prossimo appunta-mento. Se questo non fosse possibile dovrei adattare il progetto alla location che si sceglierà.

Grazie a tutti!

Sarah

>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 22 Aprile 2014 17:30A: <[email protected]>Cc: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

rispondo con degli url.a me tutto ciò interessa, come pure i dogecoin, gli atm, in criptovalu-te, fare la birra, il sapone con gli ulivi, l'olivello spinoso, il self-publi-shing, le isole.ricordiamoci però che dobbiamo pure lavorare alla Festa dei Vivi, ha una data certa che è il 2 Novembre.g

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http://interspire.e-flux.com/display.php?M=207709&C=73ee2fbd-d98251e090a01c883ed16ba7&S=8727&L=5&N=8541

http://we-make-money-not-art.com/archives/bioart/

http://en.wikipedia.org/wiki/Dogecoin

http://www.coindesk.com/welcome-bitcoin-island/

http://www.coindesk.com/new-colorado-marijuana-vending-machi-nes-accept-bitcoin/

http://freebeer.org/blog/

>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 23 Aprile 2014 20:50A: <[email protected]>Cc: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, [email protected]

Ciao Giancarlo,ho guardato i link e ci sono cose divertenti e belle. la mostra pub-blicizzata da e–flux sulla questione della morte mi sembra la meno interessante a dire il vero.

Ho anche letto la email di Sarah. La mia breve esperienza a Castiglione, con Rosa, e' stata bella, perché personalmente sono interessata al superamento delle separazioni disciplinari tra arte e altre ricerche, e poi politicamente sono interessata alla questione del cibo e dei saperi agricoli da riscoprire o da scoprire, e questo mi interessa a prescindere dalla questione dell'arte.

Se problema c'è, mi pare risieda (da quel poco che ho visto) nella strana aggregazione tra fhu e {cafauso/Adrian Paci[che comunque non ho visto]/Rene+Ayreen} e anche nell'identità stessa di fhu che non ho ben capito. Il piccolo cafauso sperduto tra le automobili, e autogestito senza fondi e senza doveri e obblighi, era leggero, e piuttosto libero (senza e–flux).

un caro saluto,

Carolyn

>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 23 Aprile 2014 22:27

A: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

«Dopo tanti tentativi inutili di migliorare l’ordine sociale, alla fi-losofia (dalla metafisica alla politica) non rimane che confusione e scoraggiamento. [...] Il solo spettacolo dei miserabili che riem-piono le città non dimostra forse che i torrenti di lumi [...] non sono che torrenti di tenebre? [...] La civiltà è abisso di miseria e di assurdità».– C. Fourier

- -

«[...]s'incontrarono dopo la morte. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Ta-cevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cie-lo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per porta-re alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: "Tu hai ucciso me, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima". "Ora so che mi hai perdonato davvero" disse Caino "perché dimenticare è perdonare. Anch'io cercherò di scordare". Abele disse lentamente: "È così. Finché dura il rimorso dura la colpa"– J. L. Borges

>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 24 aprile 2014 21:36A: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

Ciao a tutti, ho scritto di getto una riflessione mentre rientravo in treno.

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C’È UN TEMPO PER PERDERE, UN TEMPO PER CERCARE

Ore 14.00, Lecce

Sto rientrando in treno dal Salento e anche se mi ero promesso di scrivere su questa esperienza con un po’ di distanza emotiva, e lucidità maggiore, sento il bisogno di farlo e, di conseguenza, lo voglio fare.

A marzo stavo raccogliendo pezzi incandescenti della mia esistenza, prima di arrivare non ero sicuro che sarei riuscito a stare più di una settimana lì, a tu per tu con i miei demoni. Le cause per cui molti di noi sono in eterna messa in discussone di sé sono molto più profonde della semplice, seppur distruttiva, totale precarietà economica e sociale. I 28 anni poi sono particolari, Emilio mi raccontava del modificarsi della coscienza ogni sette anni secondo le riflessioni staineriane ma anche la medicina ha constatato che le nostre cellule si rigenerano completamente ogni sette anni, e forse non è un caso che molte rock star (le tre J) non ci siano arrivate al ventottesimo anno o che Debord abbia scritto le sue memorie a quell’età e Matarrese attuato il suo rifiuto. Questa però è un’altra storia. Torno al Salento.

Arrivato a San Cesario, invece, è successo qualcosa di meraviglioso: ho incontrato Caino e Abele, sono stato a raccogliere ortiche con una donna dalla forza sciamanica, mi sono perso nelle riflessioni sul fallimento e il Don Chisciotte con Luigi Negro, ho bevuto con un intero paese. Sono stato con Luigi a incontrare Francesco Matarrese a Bari, abbiamo parlato di operaismo, Robert Morris, Giotto e la complessità del rifiuto. Come sempre

è stato un momento denso di senso e amicizia. La speranza di poterlo incontrare tutti insieme è sempre grande, ci sono cesure nella storia, e anche nella storia dell’arte, su cui credo tutti noi dobbiamo confrontarci. Sono convinto che il rifiuto di Matarrese è una di quella cesure, una delle più profonde. Nessun artista credo possa non confrontarsi con quella presa di posizione, con l’estensione del rifiuto.

Vivendo la casa a San Cesario in breve tempo ho cominciato a ri-percepire il mio tempo. Roland Barthes parla dell’eteroritmia come una delle cause maggiori della sofferenza umana, ecco, dopo aver sperimentato l’idioritmia non posso che confermare la sua tesi.

Le letture e le discussioni nella casa andavano avanti, tra Borges, Matarrese e Sanguineti si rifletteva molto e in maniere eterogenea lo proiettavamo sui momenti che stavamo vivendo ma il libro Walkscapes. Camminare come pratica estetica di Francesco Careri, ha segnato un sentiero e mi ha spinto verso l’idea di attraversamento e la pastorizia. Ho pensato che si stava riflettendo molto alle Free Home sull’agricoltura ma il mio spirito in quel momento mi voleva portare altrove: dall’altra parte delle prime attività umane (i non-lavori) dei primi esseri umani.

Ho conosciuto un signore, un pastore con un passato complicato, in cui ho visto la forza ancestrale che si scontrava nella sue esistenza, nella quotidianità del suo pascolare. Le migrazioni intercontinentali del paleolitico si concretizzavano nel mio immaginario proprio davanti a me. Migliaia di anni caratterizzati dal muoversi tra animali umani e non, li potevo vedere nel viso di quest’uomo,

Sono tre pagine che assomigliano a un naufragio, tante cose fatte e apprese in così poco tempo che volevo raccontarvi.Un abbraccio a tutti

Mattia Pellegrini

nella tenerezza verso sua madre e nella cura degli animali; ma anche nella malvagità potenzialmente immanente e millenaria che si percepiva nei suoi gesti. Ho pensato, una parte dell’animale umano è questo: amore e malvagità che coesistono nel rapporto con sé e l’altro. Lo so è tutto più complesso, interconnesso, rizomatico; la dialettica, dicono, è morta. La sensazione, però, è stata quella.

Siamo Caino e Abele, mi ripete Luigi in questi giorni. Questo mi fa pensare al mio continuo riflettere sulla molteplicità identitaria che mi abita, sulla presenza di diversi noi in me; rispetto a ciò vorrei lasciarvi la conclusione di questa splendida poesia, così a metà del mio racconto, dal titolo Vorrei di Evgenij A. Evtusenko:

E quando moriròsensazionale Villon siberianonon deponetemi in terra inglese o italiana -ma nella nostra terra russa,su quella verde, serena collina,dover per la prima voltaio mi sono sentito tutti.

Anche in questa poesia troviamo legati assieme i temi della morte, della terra, del divenire singolarità e comunità altra. Con Luca ci siamo spostati da San Cesario a Castiglione ed è così cominciata una nuova avventura, ancora più carica di senso, che riguarda una comunità totalmente diversa da quella di San Cesario e la riflessione sull’agricoltura. Tanti nuovi e vecchi amici da cercare. Di nuovo il rapporto ancestrale tra Caino e Abele. Caino l’agricoltore, il sedentario che crea la proprietà; Abele l’errante, il nomade, il senza casa. Per la genesi, il colpevole e la vittima; ma noi, vi prego, non diamolo per scontato.

I giorni successivi a un'avventura come quella vissuta con le Free Home a Castiglione sono una contaminazione tra nostalgia, ricordi e comprensione di ciò che è accaduto. Il primo elemento che mi viene da trattare è la questione del tempo. Durante questi incontri il tempo è paradossalmente compatto e dilatato. Se da un lato l’esperienza

sembra passata in un attimo, dall’altro le persone con cui abbiamo attuato queste pratiche sembrano far già parte della nostra vita.

Certo, avendo già vissuti in altre occasioni tali sentimenti, sappiamo che non è tutto così «reale» ma è giusto godersi questo momento e tentare di abitarlo. È in questi momenti di vita in comune che dobbiamo cercare i meccanismi per un possibile vivere bene.

Quando dei gruppi «freddi» si trasformano in brevissimo tempo in «gruppi caldi» le relazioni tra singolarità esplodono in un caos dionisiaco, quasi orgiastico, potenzialmente riproduttivo di senso. Le endorfine si sprigionano e si collegano al senso di stare facendo qualcosa per– Credo sia grazie a tutto questo che, mentre lavoravamo la terra, ci siamo proiettati anche altrove. In molti inizialmente volevamo capire che cosa stavamo facendo lì. Sostituiamo chi dovrebbe pulire, lo Stato? Diamo manovalanza a un progetto creato dalla comunità di Castiglione? Cosa può fare chi si occupa di arte in tutto questo?

Quello che è accaduto è ciò che forse solo Luigi Coppola sperava di sapere, ovvero, la frantumazione delle categorie e la volontà di riflettere assieme prendendosi «cura» della Terra. Non in maniera moralista, ambientalista e neanche civile, dal mio punto di vista. Per me il nostro è stato un atto di resistenza, ovvero, ciò che per Deleuze ha un’affinità fondamentale con quello che definiamo arte. Riflettere sulla possibilità di una comunità fuori dai meccanismi distopici di devastazione del territorio e di conseguenza delle nostre vite. Ma è stata anche l’occasione per guardare il nostro abisso, per cercare quella patria dello spirito a cui tutti tendiamo (anche questo figlio della discussione con Matarrese e poi percepito mentre le mie mani sprofondavano nella Terra). È da qui che dobbiamo ripartire, sono questi, per me, i luoghi in cui dobbiamo essere in quanto persone che tentano di pensare in maniera critica. Credo

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>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 24 aprile 2014 22:02A: <[email protected]>Cc: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

E pensare che proprio ora con Luca scrivevamo di naufragi (lui mi «accusava» di essere un suscitatore, un suscitatore di naufragi, gli ho risposto io).

che Carolyn ci ha mostrato questo nostro limite arte–agricoltura quando guardando l’orto sinergico ha detto: «Probabilmente è così che è nata la forma.» Eravamo dentro.

Ritorno in maniera un po’ schizofrenica a Caino (forma sedentaria) e Abele il primo a creare forma camminando (forma costruita attraversando lo spazio, senza lasciare traccia). Le tematiche della morte, del come vogliamo vivere erano tutte lì nelle relazioni che in poco tempo si facevano amore, nella trasformazione di un luogo, nella terra. Tutto questo credo sia accaduto anche nelle persone che hanno preferito rimanere invisibili, senza lasciare traccia.

In quei giorni mi sono innamorato del «tutto»: uomini, paesaggi, vino, silenzi, donne, bambini e cani. Tutto questo avviene tramite l’amore per la vita in sé o è la forza del comune vivere per qualcosa d’altro e il sentirsi per un attimo contrapposti al quotidiano, a quello che la società finanziaria impone? Forse entrambi, probabilmente non è così importante scoprirlo, quello che posso dire è che sono andato in profondità, dentro il mio abisso, grazie a questa esperienza. Le riflessioni di Emilio sull’esoterismo,

sulla spiritualità mi hanno proiettato verso un nuovo viaggio da intraprendere e tutto questo legato alle riflessioni di Rene e Ayreen sul Comune, e la possibilità di un vivere insieme in maniera diversa, hanno creato una fusione, una forma di equilibrio, un concatenamento straordinario da cui credo tutti hanno preso e dato molto. Non sono sciocco e comprendo le problematiche che possono nascere da interventi come questi dove si utilizza, attraverso la comunicazione mediatica, la carta «artisti internazionali» e dove vi sono sicuramente contraddizioni su cui dobbiamo confrontarci seriamente magari a Giugno. La comunicazione, il non diventare possibilità di sfruttamento culturale di un luogo, come rapportarsi con l’esterno, l’idea stessa di comunità, sono tutte questioni aperte e complesse che bisogna affrontare. Quello che resta, però, è la sensazione dell’inizio di un viaggio, di un naufragio come direbbe qualcuno di noi, dove non c’è fine ma solo mezzi da scoprire e un orizzonte a cui tendere.

Ore 21.23, Bologna

Mattia

Grazie Mattia, prima stavo per cercare poche parole per ringra-ziare Carolyn, ma ora tu mi susciti di sovrapporre i miei abbracci, te l'ho detto tante volte almeno quanto ti ho nominato Caino in Abele, tu sei «la cometa» in questo momento (senza alcuna retorica, ma letteralmente) e sai quanto possano essere importanti durante un naufragio o durante una nascita…

Ti abbraccio amico mio

Lu

>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 25 aprile 2014 11:06A: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

Ciao a tuttinella storia le comete erano viste come segni non positivi.Nel simbolismo cristiano la cometa della natività voleva indicare che quella nascita sarebbe stata accompagnata da disavventure.

Nel vangelo secondo Matteo viene raccontata la strage degli innocenti. I Re magi informarono Erode della nascita di Gesù e lui ordinò di uccidere tutti i bambini al di sotto dei due anni nel tenta-tivo di liberarsene.

Per i naufraghi non mi viene in mente nulla… Nella navigazione marittima notturna anticamente ma anche quotidianamente posso-no essere usate le stelle fisse non comete per orientarsi.

Forse le tue parole, Luigi, mi saranno più chiare in futuroCome sapete, io e Sara A. siamo stati in giro nel paese a inter-

vistare gli abitanti. Senza una pianificazione (cafausico dna) siamo entrati nelle case dei castiglionesi che ci hanno accolto con molto interesse. Eccovi i link delle interviste (solo audio) per chi non aves-se accesso a dropbox fhu:https://www.dropbox.com/s/459e7s4m0ndx6s8/interviste%20castiglione%202014%20solo%20audio.zipPresto caricherò anche i video.

Sono stato molto felice della esperienza a Castiglione, era da tempo che avevo l’esigenza di avvicinarmi ad un paese di provincia e tutti i castiglionesi sono stati incredibili

Ora che i lavori della fhu si sono interrotti ho fatto le valige e mi sono trasferito in paese anche io, a qualche km da Castiglione, maga-ri domani sera vado al Bottegone a farmi una Bicicletta con gli altri.

Un abbraccio a tutti,f

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>>Da: <[email protected]>Oggetto: Re: After CastiglioneData: 25 Aprile 2014 12:56A: <[email protected]>Cc: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

Riferito a Caino in Abele la cometa è vettore, a me interessa in que-sto momento il suo aspetto precristiano, prefilosofico, in buone parole arcaico… (La navigazione era riferita a quella dei Re Magi quindi all'era del «dopo sangue»).

Le comete anche solo sul piano astrofisico sono portartici di elementi primordiali in forma ghiacciata, sono residui rimasti dalla condensazione della nebulosa da cui probabilmente si formò indi-rettamente l'universo, e sicuramente il Sistema Solare: le zone peri-feriche di tale nebulosa sarebbero state abbastanza fredde da per-mettere all'acqua di trovarsi in forma solida… Sono fuochi fatui…In-consapevoli …

Inizio messaggio inoltrato:

>>Da: <[email protected]>Oggetto: CastiglioneData: 12 Maggio 2014 19:51A: <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>, <[email protected]>

ciao ragazzi, vi mando un collage di testi preparato da Sara Alberani, e il mio Ca-stglione afterthoughts che non so o se vi avevo mandato già.

Free Home UniversityCOME VOGLIAMO VIVERE

La classe 2013-2014

Durante il 2013-2014, la questione proposta alla Prima Classe è Come vogliamo vivere. Il gruppo di studio indagherà questa nozione cruciale

attraverso il rapporto con la spiritualità, il vivere in comune e la rappresentazione.

La prima tappa della ricerca si è svolta dal 5 al 15 dicembre a San Cesario (LE) e ha visto i partecipanti impegnati in tre diversi moduli di ricerca: Attraverso l’immagine, oltre l’immagine con Adrian Paci, Un corso

(in) comune: tempi e città in comune con Ayreen Anastas e Rene Gabri,La festa dei vivi (che riflettono sulla morte) con il gruppo artistico Lu Cafauso.

Il secondo appuntamento si è da poco svolto a Castiglione d’Otranto dall'11 al 21 aprile 2014 e ha coinvolto gli artisti Ayreen Anastas, Rene Gabri, Adrian Paci e il collettivo Lu Cafauso (Emilio Fantin, Luigi Negro, Giancarlo Norese, Cesare Pietroiusti, Luigi Presicce) insieme ai partecipanti che sono locali, nazionali e internazionali con esperienza di arte e altre discipline, motivati a partecipare e a contribuire all’oggetto della ricerca.Alcuni di loro si sono aggiunti al gruppo di ricerca iniziale, attraverso un effetto di condivisione, circolazione dei contenuti e interessi di ricerca comuni. Uno dei principi della FHU è per questo effetto, di aggregazione spontanea, stato raggiunto.

Per il suo secondo appuntamento Free Home ha scelto come territorio di indagine sul Come vogliamo vivere una piccola comunità come quella di Castiglione d’Otranto perché da diversi anni si sta interrogando su questa tematica, ed è stato naturale avviare la ricerca in questo luogo. In particolare, a Castiglione, sta maturando un cambiamento sostenuto da associazioni come la Casa delle Agricolture, coltivatori radicali e consapevoli delle proprie pratiche che rivendicano suolo pubblico, associazioni di giovani e anziani che si sono uniti per ridare dignità a un paese che vive di agricoltura e che non voleva più pagare il prezzo dell’abbandono delle terre, la loro incuria, la disoccupazione, lo sfruttamento da parte di un sistema economico, politico e sociale che non riconosce la terra come fonte vitale e indipendente. La comunità di Castiglione lavora su questi temi con iniziative come quella della Notte Verde, della semina collettiva Chi semina utopia raccoglie realtà e l’utilizzo di cereali antichi e della canapa.

Questa lotta attraverso la pratica è stata affiancata da quella teorica della comunità nomade della Free Home,

in una sinergia che ha visto entrambe le realtà mescolarsi, confondersi e ragionare e fare insieme.Il frutto di questa esperienza ha dato vita il 21 aprile 2014 all’inaugurazione del Parco Comune dei Frutti Minori: un’area che accompagna l’ingresso alle campagne, meta di discariche abusive e incuria. La zona è stata ripulita, bonificata e coltivata tramite la creazione di un orto sinergico, un campo biodinamico e l’inserimento di alberi da frutto a disposizione della collettività.

Il suolo, la terra, sono stati intesi come bene comune e responsabilità collettiva; semplicemente era impensabile riflettere sulla propria dignità in mezzo a luoghi violentati, andava fatto un lavoro di pulizia sulla terra che partiva e ritornava all’uomo.La costruzione collettiva del Parco Comune dei Frutti Minori è stato un esercizio di ascolto profondo, una scoperta reciproca tra la piccola comunità di Castiglione e il gruppo di artisti della FHU, interessati a sperimentare l'arte al di fuori del sistema dell'arte, negli sconfinamenti tra discipline, dentro le relazioni, la vita (e la morte), i cicli della natura, che interrogano la dimensione del tempo, del corpo (e del corpo sociale) e dell’anima.

L’importanza della biodiversità, il complesso funzionamento di un suolo fertile, le relazioni di reciproco soccorso attivate dalle piante nell'orto sinergico o i principi della biodinamica che ci riconnettono alle forze cosmiche, questi concetti, osservati nella pratica dell’agricoltura, si sono rivelati metafore potenti per la nostra indagine su come vogliamo vivere, mostrandone ancor di più l’urgenza, ma anche delineando possibili percorsi. Abbiamo sentito con chiarezza il nostro essere organicamente parte di un sistema di reciprocità, sia materiale che immateriale, fisico quanto spirituale, che richiede uno sforzo individuale e collettivo. In questa continua tensione si è fatto il nostro apprendere. Attraverso il contatto con la terra, con forme e materie primordiali, in

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questa natura resiliente e accogliente al tempo stesso, che riesce a propagarsi tra le pietre e mostra i segni di una fatica antica. Così, la nostra riflessione su questioni come lavoro, dignità, sostenibilità, bene comune, responsabilità, memoria, rifiuto – come strumento di lotta e come pratica di affermazione – linguaggio, e strategie di r-esistenza, si sono tinte di una portata e un respiro diversi. C'è stato un ritmo, dettato dal lavoro in questa striscia di terra a margine di una strada pubblica di campagna, ieri discarica a cielo aperto e oggi frutteto comune in fieri. C’è stato un «prendersi cura» che è diventato modus operandi. Ci sono stati i canti e le danze, e nuovi rituali a partire da forme e bisogni antichi. Ci sono stati i pranzi nel fienile e le cene al centro del paese, e cucinare e consumare insieme un cibo di cui conoscevamo l'origine, che nel sapore rivelava il valore della cura, dell’amore e del lavoro. Eravamo tutti sempre insieme e tutti mischiati, locali con stranieri, pensionati e bambini, e il gruppo di ragazzi e adolescenti che nessuno si aspettava si unissero con tanta dedizione al progetto. Abbiamo imparato l’apprendere insieme e da tutti, in un processo poco ortodosso ma pieno di scoperte e sorprese, in un graduale superamento delle differenze e delle resistenze iniziali, fino a un abbandono, euforico, generoso, contagioso, rigenerante, verso una traccia di possibili orizzonti comuni. La fatica fisica, il lavoro sulla terra, sono stati accompagnati da momenti di riflessione di gruppo, in cui i partecipanti di Free Home hanno cercato di esternare le proprie emozioni (anche attraverso la meditazione, il silenzio, il respiro) in merito al rapporto con la natura, la terra, la propria individualità e le dinamiche di gruppo, considerando il proprio lavoro ancorato al contesto e in relazione alla comunità circostante.

Tramite l’apporto culturale, filosofico, artistico, sono nati tavoli di confronto su cosa significa bene

comune, come può lavorare una comunità tutelandosi, ma essendo in relazione con un sistema esterno, quali pratiche di resistenza, sensibilizzazione e lotta possono essere attuate contro un sistema che tende a schiacciare e omogeneizzare i più piccoli, privandoli di identità e dignità, come regolare i rapporti quotidiani al di là dello scambio di denaro e capire come attivare i processi di sostenibilità delle proprie scelte contro corrente.Si è parlato anche e soprattutto di legame con la natura, di autenticità, spiritualità, rapporto ciclico tra vita e morte in una riflessione che ha inaugurato un Viviterium all’interno del Parco Comune dei Frutti Minori: alberi piantati come simboli di vita all’interno di un’area prima offesa dai rifiuti.

Tutti i temi trattati sono presi in carico dal collettivo di ricerca della Free Home University che li sta sviluppando sia in gruppo che a livello personale, anche tramite una casa–residenza a disposizione per le proprie ricerche a San Cesario, come un viaggio che dura tutta l’estate, per poi ritrovarsi in autunno con il terzo e ultimo incontro.I contributi prodotti dalle classi saranno messi a disposizione su una licenza Creative Commons per il download gratuito dal sito della Free Home University e condivisi attraverso i social media.

N.B. Questo documento è il frutto delle chiacchierate, interviste, momenti pubblici, condivisi con il gruppo di ricerca della Free Home University. Sono stati volutamente tolti i nomi personali per la volontà di trasmettere un contributo collettivo. All’interno di Free Home le individualità si stanno mescolando per un apporto spontaneo, senza tempi, né guide, attivato unicamente dalle responsabilità personali che intendo creare un coro di voci, più che di interventi solisti.

CASTIGLIONE'S AFTERTHOUGHTS

L’incontro primaverile che ci ha visto impegnati nel progetto di costruzione collettiva del Parco Comune dei Frutti Minori è stato un esercizio di ascolto profondo, una scoperta reciproca tra la piccola comunità di Castiglione – coltivatori radicali e consapevoli delle proprie pratiche che rivendicano suolo pubblico – e il nostro gruppo di artisti interessati a sperimentare l'arte al di fuori del sistema dell'arte, negli sconfinamenti tra discipline, dentro le relazioni, la vita (e la morte), i cicli della natura, che interrogano la dimensione del tempo, del corpo (e del corpo sociale) e dell’anima, in un rapporto – come ci ricordava suggestivamente Rene – più di «riproduzione» che di «produzione». L’importanza della biodiversità, il complesso funzionamento di un suolo fertile, le relazioni di reciproco soccorso attivate dalle piante nell'orto sinergico o i principi della biodinamica che ci riconnettono alle forze cosmiche. Questi concetti, osservati nella pratica dell’agricoltura, si sono rivelati metafore potenti per la nostra indagine su come vogliamo vivere, mostrandone ancor di più l’urgenza, ma anche delineando possibili percorsi. Abbiamo sentito con chiarezza il nostro essere organicamente parte di un sistema di reciprocità, sia materiale che immateriale, fisico quanto spirituale, che richiede uno sforzo individuale e collettivo. In questa continua tensione si è fatto il nostro apprendere. Qui, all'estremo sud di un'Italia stremata, attraverso il contatto con la terra, con forme e materie primordiali, in questa

natura resiliente e accogliente al tempo stesso, che riesce a propagarsi tra le pietre e mostra i segni di una fatica antica...

Così, la nostra riflessione su questioni come lavoro, dignità, lotte, passate e presenti, memoria, rifiuto – come strumento di lotta e come pratica di affermazione – linguaggio, e strategie di r-esistenza, si sono tinte di una portata e un respiro diversi. C'è stato un ritmo, dettato dal lavoro in questa striscia di terra a margine di una strada pubblica di campagna, ieri discarica a cielo aperto e oggi frutteto comune in fieri. C’è stato un «prendersi cura» che è diventato modus operandi. Ci sono stati i canti e le danze, e nuovi rituali a partire da forme e bisogni eterni. Ci sono stati i pranzi nel fienile e le cene al centro del paese, e cucinare e consumare insieme un cibo di cui conoscevamo l'origine, che nel sapore rivelava il valore della cura, dell’amore e del lavoro ci ha reso più uniti e consapevoli; eravamo tutti sempre insieme e tutti mischiati, locali con stranieri, pensionati e bambini, e il gruppo di ragazzi e adolescenti che nessuno si aspettava si unissero con tanta dedizione al progetto. Abbiamo imparato l’apprendere insieme e da tutti, in un processo poco ortodosso ma pieno di scoperte e sorprese, in un graduale superamento delle differenze e delle resistenze iniziali, fino ad un abbandono, euforico, generoso, contagioso, rigenerante, verso una traccia di possibili orizzonti comuni. Insomma è stato un po’ come risvegliarsi, a Castiglione, o come innamorarsi, e sentire la forza, l’energia la promessa di un nuovo amore.

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>>Da: <[email protected]>Oggetto: After CastiglioneData: 22 Aprile 2014 16:15A: <[email protected]>

Ciao Alessandra,

come va? C'è voluto un po' di tempo perché quello che volevamo scrivere prendesse forma.Quest'immagine è legata con uno degli appunti che troverai nel testo.Speriamo di essere ancora in tempo.

Un abbraccio

ToniaEnkli

Parco Comune dei Frutti Minori - Castiglione d'Otranto 11-22 aprile 2014

Di fronte al già fattoUna cosa è costruire una forma

e altra cosa è contemplarla già fatta. Ciò che è fatto (il mondo come pre-esistenza) necessita di essere ri-fatto. Ogni cosa fatta occulta il gesto che l'ha compiuta.

Poetica del Muro a secco i

Immaginazione: indovinare degli incastri, questo andrà perfettamente qui! E questo?

ii

Dipendenze libere: ogni sasso ha una conformazione totalmente autistica ma in contatto con un altro sasso mostra all'improvviso dei punti di convergenza.

iii

Parte a sé e parte del tutto. La domanda che ci si pone è: lo sa questo sasso che oltre ad avere una propria forma è nello stesso tempo parte della forma di questo muro?

iv

Reggenza: quando la mano esperta estrae il sasso dall'indistinto, all'improvviso, pur rimanendo un quasi niente, il sasso diviene indispensabile per occupare quella posizione che subito gli si assegna nel raggruppamento con altri sassi. Si dirà che esso fa sistema.

InnervazioneUn'azione che coinvolge il corpo,

qualsiasi essa sia – costruire un muro, raccogliere i rifiuti, piantare, annaffiare, smuovere la terra ecc. – estende il sistema nervoso al di fuori del corpo. I nostri nervi si radicano nella pelle delle cose. In seno alle cose nasce la comunanza dei sensi.

Cosa fare?Inventiamo un nuovo verbo:

farenonfare.

DiramazioneSradicare una pianta cercando di

seguirne le diramazioni.

Cibo«Il pane di canapa e i pomodorini

invernali con un po' di olio stanno molto bene insieme nel piatto.»

Culture del rifiutoAprire buche nella terra per raccogliere

i rifiuti sedimentati può avere una ricaduta positiva sull'immaginazione, questa associa ogni rifiuto trovato con il galleggiare nella coscienza di esperienze rimosse. Viene il dubbio che il rimosso non riguardi soltanto l'individuo singolo ma tutta intera la sua specie.

DinamizzatoreQui la parola vorrebbe diventare gesto

senza altro aggiungere: per ossigenare l'acqua bisogna girare la mano in senso orario, e poi fare il caos girando in senso anti-orario.

OsteriaFare un brindisi è una pratica in

estinzione. Si tratta di costruire una frase facendo ricorso alle rime ed altri giochi di parole che prendono di mira il soggetto interlocutore a cui il brindisi è rivolto. Il venir meno di questa forma espressiva mette in evidenza che il terreno comune del linguaggio non si può mai dare come presupposto ma sempre come un che da costruire nel qui ed ora.

Cestini di canneDove avete imparato a fare i cestini

di canne? Guardando in internet.

Scuole elementariSarebbe ancor più istruttivo andare

da adulti a seguire una lezione nella propria scuola elementare, magari anche nella stessa aula.

Orto biodinamicoPrima di fare un orto biodinamico

bisognerebbe saper guardare i rapporti biodinamici. Per praticare basta rivolgere lo sguardo in un terreno abbandonato.

La casa sembra piccola da fuoriCome le case di Wright inserite

nella natura non prevalgono sul resto dell'ambiente, così anche le persone inserite in un paesaggio, quasi invisibili. Il colore dei loro vestiti si comporta come il colore dei papaveri: una leggera e ritmica stimolazione cromatica.

CastiglioneBastano pochi passi per vedere

dileguare la sua forma urbana in un paesaggio campagnolo. Lo spostamento obbedisce alla velocità del desiderio: andiamo al bar - dice qualcuno - e siamo già lì.

Comunanza dei sensiI nostri corpi sono totalmente

abbandonati alla tensione del fare, bisogna trovare un'occupazione! questo si rende ancora più evidente quando si è posti, come qui, di fronte all'eventualità di non fare, il tempo viene vissuto come una lacuna, come ciò che manca alla chiamata, ne conseguono tantissimi sbalzi in cui per inerzia si pensa a colmare il vuoto convogliando i sensi verso una qualche occupazione specifica. Ma ecco che sopraggiunge una distrazione e all'improvviso ci si trova a parlare con qualcuno, o a cercare un bicchiere d'acqua, o a seguire il colore del cane che scappa. Ciò che prima veniva vissuto sotto l'ottica del fare, in negativo, come una mancanza d'essere, è sotto l'ottica del non fare una pienezza e co-appartenenza percettiva a tutti gli esseri nella loro ritmica di apparizione. Per fondare una nuova estetica dell'essere, bisogna cambiare l'etica del lavoro, che non è altro che un modo di articolare la temporalità e il modo di sentire. La comunanza dei sensi è l'avvento di questa diversa temporalità.

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finito di stamparegiugno 2014