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L’Unione eUropea

Manuale di diritto, politica e storia dell’unione europea per l’aggiornaMento professionale

dei docenti delle scuole Medie superiori

a cura di roberto Di Quirico

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Questo testo è il risultato finale del progetto Teaching european Union to italian Teachers (TeUiT) finanziato dall’Unione europea (azione Jean Monnet) Grant agreement/Decision nr 2011-4143/46.

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iSBn 978-88-8398-078-7

prima ristampa Marzo 2016

Copyright © 2014 by european press academic publishingFlorence, italy

www.e–p–a–p.comwww.europeanpress.eu

printed in italy

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soMMario

introduzione p. 11

parte i - la storia

Capitolo 1 - La storia dell’idea di europa unita 171 – Dalle prime idee d’europa alla prima guerra

mondiale 172 – Tra la prima e la seconda guerra mondiale 203 – il dibattito sul futuro dell’europa dopo la fine

della seconda guerra mondiale 29

Capitolo 2 - La storia dell’integrazione europea 371 – integrazione europea e reinserimento della

Germania nel contesto europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale 37

2 – L’avvio dell’integrazione dei mercati 413 – allargamento e trasformazione delle Comunità

europee 434 – L’Unione europea dopo Maastricht 47

Capitolo 3 - La storia dell’integrazione monetaria e dell’euro 49

1 – integrazione politica e integrazione economica 502 – La crisi degli anni Trenta e il problema della

ricostruzione di un sistema dei pagamenti internazionali 52

3 – L’Unione europea dei pagamenti 584 – il sistema di Bretton Woods 625 – alla ricerca dell’integrazione perduta 656 – Gli anni dell’euro 69

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parte ii – coMe funziona l’unione europea

Capitolo 4 - Le specificità dell’Unione europea 751 – Democrazia e antieuropeismo 762 – Un’economia senza uno Stato 793 – i limiti della politica estera europea 804 – L’europa concentrica 81

Capitolo 5 - Le istituzioni europee ed il funzionamento dell’Unione europea 85

1 – Le istituzioni maggiori 862 – Le istituzioni minori 953 – Le agenzie 96

Capitolo 6 - identità e cittadinanza europea 991 – introduzione 992 – L’identità in politica e l’identità europea 1013 – La cittadinanza europea 1064 – L’identità e la cittadinanza europee come elementi

integrativi 108

parte iii - le politiche dell’unione europea

Capitolo 7 - panoramica delle politiche dell’Unione europea 113

1 – Quali sono le politiche pubbliche europee? 1142 – risorse e importanza delle politiche pubbliche

europee 1173 – Una breve descrizione delle principali politiche

pubbliche europee 119

Capitolo 8 - La politica di coesione 1251 – il problema della coesione in europa. origini e

sviluppi 1252 – La politica di coesione: che cos’è e chi fa cosa 1273 – Chi prende cosa 134

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4 – La politica di coesione in italia: un sintetico bilancio 138

Capitolo 9 - Le regioni e l’Unione europea 1411 – Le regioni in europa 1412 – L’attivazione regionale verso Bruxelles: i canali

“collettivi” 1453 – L’attivazione regionale verso Bruxelles: i canali

“individuali” 1484 – Le regioni italiane a Bruxelles 150

Capitolo 10 - La politica agricola 1551 – premessa 1552 – nascita ed evoluzione della pac 1573 – il funzionamento della pac 1614 – Lo sviluppo rurale, l’agricoltura e l’Ue 1635 – Gli effetti politici e l’attuazione della pac 166

Capitolo 11 - La politica estera 1711 – introduzione 1712 – Quale evoluzione e quali tensioni? 1753 – Quale funzionamento? 1854 – Quali priorità geografiche? 191

parte iV - il diritto

Capitolo 12 - Fondamenti di diritto comunitario 2071 – L’ordinamento giuridico dell’Unione europea 2072 – Le caratteristiche generali del diritto dell’Unione

europea 2093 – il diritto dell’Unione europea e la posizione degli

individui 2114 – La gerarchia delle fonti del diritto dell’Unione

europea 2135 – il sistema dei Trattati 2146 – il diritto derivato 216

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Capitolo 13 - il diritto commerciale comunitario 2191 – il mercato interno 2192 – L’unione doganale e la libera circolazione delle

merci 2203 – La libera prestazione dei servizi e la libertà di

stabilimento 2234 – La libera circolazione dei capitali 2245 – La politica di concorrenza: il divieto di intese

anticoncorrenziali e di abuso di posizione dominante 225

6 – il divieto di aiuti di Stato 228

Capitolo 14 – il diritto dell’Unione europea dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona 231

1 – La natura giuridica dell’ordinamento dell’Unione europea 231

2 – i Trattati europei come fonti di diritto internazionale 234

3 – i Trattati come Costituzione 2364 – i diritti nell’ordinamento dell’Unione europea 241

parte V - le risorse per l’insegnaMento e l’aggiornaMento professionale

Capitolo 15 - Le fonti web per lo studio dell’Unione europea 247

1 – Le tappe della strategia di comunicazione e informazione dell’Unione europea 247

2 – Le reti europee d’informazione 2523 – Le fonti e le banche dati on-line europee 253

Capitolo 16 - Le fonti primarie e secondarie per lo studio dell’Unione europea 255

1 – riferimenti bibliografici 2552 – Siti consultabili 257

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Lista delle tabelle, dei prospetti, delle figure e dei grafici

Tabella 5.1 – Distribuzione dei voti per Stato membro 89Tabella 5.2 – numero di parlamentari per Stato membro 93Tabella 7.1 – Bilancio aggregato dell’Unione europea

(anno 2013; milioni di euro) 119Tabella 8.1 – Stati membri maggiormente beneficiati dai

fondi strutturali nei periodi 2000-06 e 2007-13 (percentuale di fondi ottenuti sul totale dei fondi assegnati) 138

Tabella 9.1 – Corrispondenza tra livelli nuts e unità amministrative nei diversi stati membri dell’Unione europea (2010) 143

prospetto 5.1 – elenco delle unità operative che compongono la Commissione europea 87

prospetto 5.2 – Formazioni del Consiglio dell’Unione europea 89

prospetto 5.3 – presidenze del Consiglio dell’Unione europea 90

prospetto 5.4 – Lista delle agenzie dell’Unione europea 97prospetto 7.1 – elenco delle principali politiche dell’Unione

europea classificate per area d’intervento 115prospetto 7.2 – Tematiche di Fp7, sezione Cooperazione 121prospetto 8.1 – parallelismo tra riforme dei fondi strutturali

e tappe dell’allargamento 127prospetto 8.2 – requisiti di ammissibilità per obiettivo

regionale nei primi tre periodi di programmazione 129

prospetto 15.1 – riassunto dell’informazione europea (1990-99) 250

prospetto 15.2 – riassunto dell’informazione europea (dagli anni 2000 ad oggi) 251

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Figura 3.1 – Schema semplificato di sistema di scambi internazionale 54

Figura 3.2. – Schema semplificato del sistema internazionale dei pagamenti prima del 1931 56

Figura 3.3. – Schema semplificato del sistema internazionale dei pagamenti dopo il 1931 57

Figura 3.4 – Schema semplificato di sistemi di pagamenti internazionali 60

Figura 8.1 – regioni ammissibili ai vari obiettivi dei Fondi strutturali; 2000-06 136

Figura 8.2 – regioni ammissibili ai vari obiettivi dei Fondi strutturali; 2000-06 e 2007-13 136

Grafico 8.1 – ripartizione dei Fondi strutturali dal 1994 a oggi tra le regioni italiane (in milioni di euro) 139

Grafico 8.2 – ripartizione dei Fondi strutturali 2007-2013 tra le regioni italiane. Quota pro capite (in euro) 139

Grafico 9.1 – numero di uffici regionali (o analoghi) a Bruxelles, per Stato membro (settembre 2012) 149

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Elenco dei principali acronimi utilizzati

adg autorità di gestioneapc accordi di partenariato e di cooperazioneare assemblea delle regioni d’europaasa accordi di stabilizzazione e associazioneaue atto unico europeo Bce Banca centrale europeaBei Banca europea degli investimentiBiC Business innovation CentreCalre Conferenza delle assemblee legislative

regionali europeeCarDS Community assistance for reconstruction,

Democratization and StabilizationCeca Comunità europea del carbone e

dell’acciaioCed Comunità europea di difesaCee Comunità economica europeaCpe Cooperazione politica europeaCps Comitato politico e di sicurezzaCrpm Conferenza delle regioni periferiche e

marittimeDop Denominazione di origine protetta Dps Dipartimento per lo sviluppo e la coesione

economicaenpi european neighbourhood policy

instrumenteuratom Comunità europea per l’energia atomica eurostat istituto di statistiche dell’Unione europeaFeaga Fondo europeo agricolo di garanziaFeasr Fondo europeo agricolo per lo sviluppo

ruraleFeoga Fondo europeo di orientamento e garanzia

agricola Fesr Fondo europeo di sviluppo regionaleFse Fondo sociale europeoGaTT General agreement on Trade and Tariffsigp indicazione geografica protettanu nazioni unitenuts nomenclatura delle unità territoriali

statistiche

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oece organizzazione europea per la cooperazione economica

ogm organismi geneticamente modificationg organizzazione non governativa osce organizzazione per la sicurezza e la

cooperazione in europapac politica agricola comune peCo paesi dell’europa Centrale e orientalepem partenariato euro-mediterraneopesc politica estera e di sicurezza comunepesd politica europea di sicurezza e difesapev politica europea di vicinatopHare poland and Hungary aid for

reconstructing the economypim programmi integrati mediterraneipmi piccole e medie impresepon programmi operativi nazionali por programmi operativi regionalipsa processo di stabilizzazione e associazionepsdc politica di sicurezza e di difesa comunepsr programma di sviluppo rurale Qsn Quadri strategici di riferimento nazionali reti regioni a tradizione industrialeSeae Servizio europeo per l’azione esternaSebc Sistema europeo delle banche centraliStg Specialità tradizionale garantita Ue Unione europeaUem Unione economica e monetariaUeo Unione dell’europa occidentaleUep Unione europea dei pagamenti

Nota redazionale Gli acronimi derivano dalla grafia originale dei termini. nel caso di acro-nimi di termini italiani la maiuscola è riservata alla sola prima lettera ed a quelle inerenti termini in maiuscolo (ad esempio europa) in quanto si è adottata la norma grafica di mettere in maiuscolo la sola prima parola dei nomi composti (ad esempio Unione europea). nel caso di acronimi di termini inglesi si adoprano invece le maiuscole per tutti i termini.

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introduzione

Tra gli sforzi dell’Unione europea per promuovere la diffusio-ne di una più approfondita conoscenza delle questioni comunita-rie ed il radicamento di un senso di appartenenza alla nuova eu-ropa politica ed ai suoi valori, non poteva mancare una particolare attenzione per un passaggio formativo cruciale quale quello del-le scuole secondarie. infatti, è in questo passaggio che i giovani sono maggiormente ricettivi verso i nuovi valori europei e meglio possono essere guidati verso una concezione dell’Unione europea che non sia né idealistica, né contrapposta alle realtà nazionali di cui fanno parte.

per questo motivo il parlamento europeo nel 2010 chiese alla Commissione europea di ampliare le attività dell’azione Jean Monnet che fino allora si era occupata di sostenere la diffusione di insegnamenti sull’Unione europea esclusivamente nelle uni-versità, per includervi anche le scuole superiori. Fu così creata una nuova linea progettuale nell’ambito dell’azione Jean Monnet denominata Learning eU at School che dal 2011 ha iniziato a finanziare progetti volti a sostenere l’insegnamento di temi comu-nitari nelle scuole superiori e la diffusione di conoscenze sull’Ue tra i giovani di quella fascia di scolarità.

Uno dei primi progetti finanziati fu TeUiT, acronimo di Te-aching European Union to Italian Teachers, che si proponeva di migliorare la preparazione dei docenti delle scuole superiori attraverso la realizzazione di un manuale a loro espressamente dedicato e che è poi il lavoro che stiamo introducendo. il proget-to, coordinato dal Centro interuniversitario di ricerca sull’europa del sud (Cires) di Firenze, prevedeva la realizzazione di alcuni corsi di formazione per docenti delle superiori in Sardegna da realizzarsi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università

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di Cagliari da cui sarebbero dovuti emergere i limiti delle cono-scenze disponibili e le principali necessità di formazione dei do-centi relativamente ai programmi d’insegnamento ministeriali ed ai temi comunitari che detti programmi contemplano.

Dai corsi svoltisi a Cagliari nel settembre e nel novembre 2012, dai colloqui con i partecipanti e dall’analisi accurata delle risposte da loro fornite a un lungo questionario, sono emerse le principali necessità di conoscenza da soddisfare e i temi cruciali su cui i docenti delle diverse materie devono tenersi aggiornati per esser sempre in grado d’interagire con i loro studenti sia in termini d’insegnamento dei programmi ministeriali, sia in termini di discussione in classe dei temi di maggiore attualità ricollegabili all’Unione europea ed alle interazioni tra realtà nazionali e con-testo comunitario.

ne è scaturito questo manuale che non ha la pretesa di essere esaustivo e nemmeno di coprire tutti i temi comunitari presenti nei programmi ministeriali, ma che mira a guidare ogni docente in percorsi di ricerca e di aggiornamento autonomo delle proprie co-noscenze fornendogli gli strumenti per muoversi nella gran mole di fonti e letteratura disponibile soprattutto in rete. per questo mo-tivo il manuale si articola in alcune parti di carattere generale e descrittivo in cui s’illustrano la struttura istituzionale, la storia e le politiche dell’Unione europea, si spiegano le basi del diritto comu-nitario e si forniscono vari esempi. Segue poi una sezione dedicata alle fonti ed alla letteratura in cui i docenti potranno scoprire come reperire informazioni inerenti temi più specifici che potrebbero avere particolare rilevanza per i loro insegnamenti. Si è preferito evitare d’inserire troppe citazioni bibliografiche nel testo dei ca-pitoli per rimandare invece i lettori ad una bibliografia ragionata e suddivisa per temi reperibile in tale sezione. nella stessa sezione del manuale saranno poi disponibili informazioni sui programmi comunitari che prevedono la partecipazione d’istituti d’istruzione superiore o di loro docenti e studenti in modo da fornire una chiara panoramica delle opportunità formative e partecipative che l’U-nione europea offre loro.

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per quanto questo manuale sia stato pensato e realizzato per l’aggiornamento professionale dei docenti, niente impedisce che lo si utilizzi anche come libro di testo o di supporto alla didattica nelle varie materie d’insegnamento e per i capitoli attinenti alla materia insegnata. oltretutto, il manuale potrà essere in futuro integrato con altro materiale didattico e con aggiornamenti repe-ribili sul sito del progetto TeUiT (www.teuit.eu) dove verranno anche illustrati nuovi progetti in divenire e a cui potrebbero ade-rire i docenti interessati.

Vorrei concludere questa breve introduzione con un ringra-ziamento a tutti coloro che hanno permesso la realizzazione del progetto TeUiT ed in particolare ai colleghi che hanno impartito le lezioni durante i corsi ed hanno scritto i capitoli che seguono. altro ringraziamento è giustamente dovuto ai giovani dell’asso-ciazione aegee della sezione di Cagliari che hanno gestito tutta l’attività organizzativa degli eventi. allo stesso tempo desidero ringraziare tutti i partecipanti ai corsi che con il loro entusiasmo ed i loro suggerimenti tanto hanno contribuito a quanto di buono ne è scaturito.

Cagliari, Luglio 2014

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parTe i

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Capitolo 1

la SToria DeLL’iDea Di eUropa UniTa

1 – Dalle prime idee d’Europa alla prima guerra mondiale

“ogni individuo, in qualunque paese sia nato e di qualunque Sta-to sia cittadino, attraverso l’educazione, le amicizie e gli esempi che gli vengono offerti, contrae, più o meno profondamente, l’abitudine a spingere lo sguardo oltre i limiti del proprio benessere personale e a confondere il proprio interesse con quello della società della quale è membro”.1 Con queste parole il Conte Henri de Saint-Simon voleva significare che senza un’unità di intenti, senza mettere da parte i propri interessi e tornaconti personali, non sarebbe mai esi-stito un progetto comune europeo. il conte francese si spinse oltre e, in un’europa stravolta dalle guerre napoleoniche, quando ormai il Congresso di Vienna era riunito per cercare di rimettere le cose a posto, volle fare un tentativo scrivendo un’opera con la quale pe-rorò la causa comune europea cercando di immaginare un futuro unito con delle istituzioni sovranazionali, complementari a quel-le nazionali, che potessero amministrare il Continente. il tentativo di Saint-Simon si collocava in un momento particolare, quando a Vienna un Congresso internazionale cercava di porre rimedio allo

Questo capitolo è stato scritto da Christian Rossi

1 H. de Saint Simon, Della riorganizzazione della società europea, o della necessità e dei mezzi per unire i popoli d’Europa in un solo corpo politico, pur conservando a ognuno di essi la propria indipendenza nazionale, in M.T. Bovetti pichetto, Opere di Claude-Henri de Saint-Simon, Utet, Torino, 1975, p. 168.

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sfacelo fatto da napoleone per ridare all’europa un riassetto fun-zionale. Com’è noto gli statisti riuniti nella capitale austriaca non pensavano certo all’europa unita, né avevano in mente la creazione di un’entità sovranazionale - d’altronde era ciò che in un certo qual modo napoleone aveva cercato di fare, con la Francia come perno - mentre pensarono di restaurare gli antichi sovrani.

L’idea d’europa, che nel corso dei secoli aveva saltuariamente fatto capolino tra gli scrittori europei non era riuscita in quel mo-mento a imporsi. Un’idea, per lo meno quella dell’europa geogra-ficamente unita, alquanto antica, risalente fino almeno all’epoca romana, passando per l’impero di Carlo Magno prima e il Sacro romano impero poi. Si trattò certamente di una volontà di uni-ficare sotto un unico potere intere porzioni di territorio europeo, ma non vi era la velleità, né forse la possibilità, di creare un vero e proprio impero europeo. Successivamente, come si è visto con pensatori come Saint-Simon, l’idea d’europa iniziò a fare capoli-no in modo più strutturato, più ragionato e più organico, anche se si faceva sempre riferimento alle entità statuali presenti in europa. Si trattò comunque di un inizio, un modo del tutto nuovo di pensa-re il vecchio continente. Differente dall’idea d’europa è, invece, il concetto di “costruzione europea” che cominciò a prendere forma soltanto più di cento anni dopo solo per necessità, per conseguire quella pace duratura e perfetta di cui l’europa aveva bisogno per lasciarsi alle spalle le guerre e le inimicizie del passato.

Che l’eventuale integrazione europea potesse essere soltanto il frutto di un processo per tappe era chiaro a tutti, tant’è che anche Saint-Simon teorizzò un processo graduale con il quale auspicava un’unione pacifica tra i sovrani europei, una sorta di confedera-zione di stati sovrani ma uniti da un obiettivo comune: la pace; un obiettivo perseguibile soltanto cercando di eliminare la pericolo-sa rivalità tra Francia e regno unito e avvicinando a questi due paesi una Germania non più frammentata in tanti principati, ma unita e munita di parlamento. Secondo il Conte Saint-Simon una volta attuate queste misure i paesi europei così federati sarebbero stati in grado di dotarsi di un parlamento europeo sovranazionale.

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nonostante il Congresso di Vienna, come si è detto, avesse de-ciso altrimenti approvando il sistema della restaurazione e del legittimismo le idee riguardanti l’unità europea non si fermarono, ma anzi proseguirono con rinnovato vigore. Uno dei più accesi fautori dell’unità europea si rivelò Victor Hugo secondo il qua-le un giorno “pallottole e bombe saranno rimpiazzate dai voti, da elezioni popolari generali, dall’arbitrato di un grande Sena-to sovrano, che sarà per l’europa quello che il parlamento è per l’inghilterra, l’assemblea nazionale per la Germania, e l’assem-blea costituente per la Francia. Verrà un giorno in cui questi due paesi giganti, gli Stati uniti d’america e gli Stati uniti d’europa, si confronteranno e saluteranno da un capo all’altro dell’oceano, scambiandosi i loro beni, i commerci, le industrie, le arti, il ge-nio per civilizzare il pianeta, fertilizzare i deserti, accrescere la creazione di fronte agli occhi del Creatore”2. in generale, come si vede anche dall’enfasi di Hugo, si trattò di movimenti abbastanza forti da suscitare, almeno nel mondo delle idee e della cultura, un movimento europeo di vasta portata.

Un rinnovato slancio vi fu in seguito ad un altro periodo di grande rivolgimento, dovuto ai moti del 1848, che pure non cau-sarono un’aperta rottura tra le maggiori potenze europee, sempre paladine della conservazione dello status quo. in seguito a questi moti, contrariamente a quella che era la linea delle cancellerie europee, tra gli intellettuali dell’epoca si fece avanti la propagan-da in favore degli Stati uniti d’europa, un progetto alquanto am-bizioso, che prevedeva il raggiungimento della pace per mezzo dell’arbitrato e della diplomazia aperta, la solidarietà e il progres-so per i popoli europei da raggiungere con l’unione doganale e, infine, la cooperazione economica e la colonizzazione come mez-zo di espansione dei mercati. Un progetto che morì con la stessa velocità con la quale era sorto. anche altri pensatori e filosofi dell’epoca, come pierre-Joseph proudhon, indicarono quale sa-

2 r.n. Coudenhove-Kalergi, Briand and Europe, national archives, Kew Gardens, Londra (d’ora in poi na), Prime Minister’s Office, Confidential Correspondence and Papers (d’ora in poi preM) 4/33/4.

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rebbe stato, a modo loro, il percorso che i paesi europei avrebbero dovuto attuare se avessero voluto conseguire un periodo duraturo di pace, un’epoca che sarebbe stata a portata di mano se si fossero create piccole entità federate tra loro con l’intento di perseguire il progresso economico, la sicurezza e il disarmo3.

Come si vede, tutte idee che presto o tardi sarebbero riaffiorate come mezzo per perseguire una più perfetta unione europea e la pace, che in definitiva era il fine ultimo che tutti questi progetti avrebbero dovuto garantire, una pace che nel corso del XiX se-colo e per tutta la prima metà del XX secolo tardò ad arrivare. a partire dalla seconda metà dell’ottocento, in concomitanza con la formazione di due grandi stati nazionali, italia e Germania, le idee relative all’unità europea svanirono nuovamente, per riaffio-rare nel periodo più acuto della crisi nella prima metà del nuovo secolo quando l’europa e il mondo furono sconvolti dai due con-flitti mondiali. pur in un mondo in pieno stravolgimento tra le due guerre mondiali affiorarono nuovamente idee, progetti e proposte relativamente alla sospirata unità dei popoli europei e alla pace che questa unità avrebbe potuto forse portare in dote.

2 – Tra la prima e la seconda guerra mondiale

La fine della prima guerra mondiale riaprì nuovamente il di-battito in seno ai paesi europei circa il futuro politico del Vecchio Continente, anche a seguito della convocazione della Conferenza per la pace tenuta a parigi in occasione della quale furono firmati i trattati di pace con gli stati che avevano perso la guerra. non si di-scusse certamente di europa unita, ma di come l’europa in gene-rale potesse raggiungere un periodo di pace, di come si potessero smontare le velleità dei bellicosi stati europei, di come si potesse prevenire in futuro la guerra. Della salvaguardia della pace si parlò a lungo in occasione della creazione della Società delle nazioni,

3 M.T. Bitsch, Histoire de la construction européenne, editions Complexe, Bruxelles, 1999, pp. 18-19.

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voluta dal presidente degli Stati uniti Woordow Wilson4, con il trattato di Versailles del 1919 e divenuta un’associazione di fatto europea una volta persa la sua vocazione mondiale per la mancata adesione degli Stati uniti. Un’associazione, quella della Società delle nazioni, che benché rappresentasse gli interessi degli stati (e solo dei governi rappresentati) contribuì nonostante tutto a di-vulgare l’idea d’europa perché la ricerca della pace passava per la distensione, il disarmo e l’organizzazione della sicurezza col-lettiva e, di fatto, per il superamento degli interessi nazionali par-ticolari. per un’analisi più completa della situazione europea v’è da aggiungere che se le discussioni a livello statuale si fermavano alle dichiarazioni pubbliche alla Società delle nazioni e raramente travalicavano gli interessi particolari dei governi, è pur vero che vi era a livello di movimento d’opinione un importantissimo scam-bio di idee che sarebbe servito nel futuro come punto di partenza per capire in che direzione puntare nella progettazione di una vera e propria architettura europea. il movimento d’opinione favorevo-le all’unità europea vede tra i protagonisti l’italiano Luigi einaudi, il quale, commentando la possibile nascita della Società delle na-zioni affermò che, visti gli esempi del passato, l’unica istituzione possibile sarebbe potuta essere una società di tipo sovranazionale con poteri statuali ove i vecchi stati europei venissero ridotti al rango di province. il nuovo Stato europeo, che si sarebbe dovuto denominare Stati uniti d’europa, per essere funzionante doveva avere il diritto di prelievo e d’imposizione fiscale, la possibilità di mantenere un esercito autonomo e la possibilità di avere un’am-ministrazione federale sullo stile degli Stati uniti d’america. Si trattava di idee non completamente nuove, perché proposte simili erano già circolate nel passato, seppur non in modo così organico, che avrebbero nuovamente fatto capolino in futuro quando furono effettivamente create le prime istituzioni di livello europeo5.

4 L. Saiu, Stati Uniti e Italia nella Grande Guerra 1914-1918, Leo S. olschki editore, Firenze, 2003, pp. 27-30.5 L. einaudi, La Società delle Nazioni è un ideale possibile?, Corriere della Sera, 5 gennaio 1918.

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Un ruolo alquanto importante nella diffusione dell’idea d’eu-ropa, in un periodo in cui altre erano le priorità principali del Continente, ebbero i movimenti intellettuali e politici del primo dopoguerra. Una posizione determinante la ebbero anche scrit-tori, giornalisti e parlamentari della sinistra e destra moderata tra i quali Louise Weiss, che aveva fondato nel 1918 la rivista “L’europe nouvelle”. La Weiss, figlia di un ingegnere minerario, educata come insegnante, ricevette il diploma di laurea dall’U-niversità di oxford ed ebbe un ruolo importantissimo nelle bat-taglie di primo piano dell’epoca, da quella per il suffragismo a quella per la costruzione dell’unità europea. Su questo punto in particolare fu fautrice instancabile del riavvicinamento tra Fran-cia e Germania, arrivando a definire come “pellegrini della pace” personaggi come Gustav Stresemann, aristide Briand, Thomas Mann e rudolf Breitscheid, che in vario modo credettero a quel riavvicinamento. instancabile promotrice dell’idea dell’unifica-zione europea fondò nel 1930 un altro istituto che aveva come scopo principale quello di promuovere la pace e l’unità nel con-tinente europeo “L’ecole de la paix”6. V’è da dire che oltre a co-loro i quali teorizzavano in vario modo un’unione politica vi era chi, come Joseph Caillaux, era del parere che fosse altrettanto importante, per agevolare la ricostruzione del continente europeo distrutto dalla guerra, ristabilire relazioni economiche e sociali durature e pacifiche. Secondo Caillaux solo la cooperazione tra tutti gli stati europei avrebbe potuto garantire una sicura riuscita nell’impresa di una rapida ricostruzione delle economie devastate dalla guerra. Un convinto assertore della pace, idea che pagò con il carcere a causa dell’accusa di tradire gli interessi della Francia, anche se poi fu riabilitato nel dopo guerra, anch’egli, come già la Weiss, individuava come motore di una ricostruzione europea il riavvicinamento dei due principali paesi, Francia e Germania, da promuovere a cura degli uomini d’affari e degli intellettuali. Si trattava forse di una velata critica ai politici che avevano fal-lito nel loro compito e non erano riusciti ad evitare una guerra

6 http://www.louise-weiss.org/louise_weiss.html.

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fratricida. Sempre secondo Caillaux il riavvicinamento tra i due paesi avrebbe dovuto essere seguito, incoraggiato e vigilato dalla Società delle nazioni.

Dopo la fine della prima guerra mondiale, i movimenti inneg-gianti alla costruzione di un’ipotetica unità europea fiorirono con rinnovato vigore. in particolare un nobile austriaco, il conte richard nicholas Coudenhove-Kalergi, nato a Tokio da madre giapponese, e con ascendenze che lo collegavano alla nobiltà boema e persino a quella bizantina, autore di numerosissimi libri a sfondo politico, fondò nel 1923 il Movimento pan-europa e l’Unione pan-europa. Quest’associazione, che fissò il suo quartier generale a Vienna, si diffuse rapidamente nel Continente europeo aprendo sezioni a pra-ga, Berlino, parigi e in altre capitali. il Movimento, a cui presto presero parte diversi esponenti politici europei cominciò a dibattere dei maggiori problemi che affliggevano l’europa dal punto di vista politico, industriale ed economico7. Secondo Coudenhove-Kalergi le guerre, che non sono mai soltanto militari, ma anche economiche e psicologiche, si vincono con le armi ideologiche. in particolare la prima guerra mondiale fu vinta grazie alle idee del presidente degli Stati uniti Woodrow Wilson. Fu grazie ai suoi Quattordici punti e all’idea che portavano che l’intesa poté vincere rompendo la forza di resistenza della Germania. Secondo Kalergi i generali tedeschi non riuscirono a contrapporre alcuna arma contro le proposte di Wilson e contro la visione di una Lega delle nazioni mondiale por-tatrice di un beneficio di pace, libertà, giustizia e prosperità. La portata esplosiva dell’idea di Wilson fu ancora più evidente nel caso del crollo della Monarchia austro-ungarica, disgregatasi sempre in seguito ai principi dei Quattordici punti, particolarmente grazie al principio dell’autodeterminazione e della democrazia. a detta di Coudenhove-Kalergi il mondo sembrava aver dimenticato questa lezione storica e la stretta connessione tra guerra psicologica e il traguardo dello stabilimento della pace. Si trattava forse di una di-menticanza voluta perché molti statisti erano del parere che prima si dovesse concludere la guerra in corso, poi pensare alla pace. in-

7 Twenty Years of Pan-Europa Movement, na, preM 4/33/4.

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vece le aspettative della pace erano strumenti tanto potenti quanto le armi da fuoco. Le intenzioni di pace potevano essere una leva per far sollevare le popolazioni contro i soldati e obbligarli alla ritirata8.

Come si è detto, le idee del Conte Coudenhove-Kalergi si pro-pagarono velocemente nel continente europeo martoriato dalla prima guerra mondiale e la fondazione del Movimento pan-euro-pa diede nuova linfa alle idee relative alla possibile unificazione europea. il movimento di Kalergi era dell’idea che l’europa alla fine della guerra, e per scongiurarne altre, avrebbe dovuto unirsi per continuare a salvaguardare la propria indipendenza e giocare ancora un ruolo di primo piano tenendo testa, nel contempo, alle nuove grandi potenze Stati uniti, regno unito e la nascente Unione sovietica. al termine della seconda guerra mondiale sempre Cou-denhove-Kalergi commentò amaramente che se l’europa fosse sta-ta unita tra l’esperienza della prima guerra mondiale e la seconda Hitler non avrebbe mai potuto prendere il potere in Germania e non vi sarebbe stato un altro conflitto9. Si trattava naturalmente di discorsi con poca accezione storica che però davano una misura di quale fosse il clima di sconforto creatosi dopo la fine della se-conda guerra mondiale e di come, sempre di più, i movimenti eu-ropeistici cercassero di indirizzare la ricostruzione europea perché prendesse una piega diversa rispetto al passato. Le idee che aveva il Movimento pan-europa erano molto chiare, si sarebbe pervenuti all’unificazione europea grazie a un processo di cooperazione per tappe. Vi sarebbe dovuta essere una strettissima cooperazione in-tergovernativa tra tutti i paesi, in modo da gar antire un foro ove di-scutere e risolvere i problemi comuni; vi doveva essere un accordo di arbitrato per fare in modo che non si addivenisse più allo scontro armato, ma si trovassero altre forme di risoluzione dei problemi che fossero sorti; infine, vi sarebbe dovuta essere un’unione doga-nale, per favorire i commerci e unificare i mercati. il fine ultimo di queste misure dovevano essere gli Stati uniti d’europa.

8 r. Coudenhove-Kalergi, Peace Aims as War Weapons, na, preM 4/33/4.9 r. Coudenhove-Kalergi, Postwar Europe - League or Federation?, na, preM 4/33/4.

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parlare d’europa unita soltanto nei consessi politici o nei cir-coli culturali serviva a poco, tanto meno per propagandarne l’i-dea. per questo motivo il conte austriaco decise di dotare l’U-nione paneuropea di una rivista mensile che potesse diffonderne gli ideali. inoltre fu deciso di creare dei coordinamenti locali nei diversi paesi europei e di svolgere un congresso periodico durante il quale discutere dei progressi fatti. ovviamente, visti i tempi, la diffusione non era capillare come ai giorni odierni, ma servì per lo meno a cominciare a diffondere l’idea.

il primo vero e proprio tentativo a livello politico per costru-ire un organismo sovranazionale che potesse racchiudere al pro-prio interno i differenti paesi del continente europeo fu tentato dal primo ministro francese aristide Briand, il quale nel 1929 propose alla Società delle nazioni un piano per la costruzione di un’Unione regionale europea. aristide Briand fu un uomo rispet-tato sia nel suo paese sia all’estero, un uomo del suo tempo che cercando di fare tesoro degli errori del passato aveva sposato la causa del movimento paneuropeo. Sicuramente aveva compreso che per la Francia, e di conseguenza per l’intera europa, sarebbe stato difficile conseguire la pace, nonostante le garanzie dei trat-tati di pace del dopoguerra, e le promesse di sostegno di regno unito e Stati uniti, così come una Società delle nazioni priva di poteri esecutivi. oltre a ciò vi erano altri motivi contingenti che avrebbero presto o tardi causato danni alla pace europea: il disin-teresse britannico per un’associazione diretta con la Francia, a causa dell’impegno di Londra nel teatro extraeuropeo; un’europa centrale frammentata in piccoli stati, con poche possibilità di so-pravvivenza e una difficoltà enorme a non sfaldarsi. Briand aveva compreso che vi erano quattro direttive da seguire per garantire la pace. La prima era quella di assicurare alla Francia, ogni possibile elemento di sicurezza immediata; la seconda era quella di cercare di costruire un contorno di pace europeo, base per la pace mon-diale. il metodo era la ricerca del riavvicinamento tra i due eterni nemici, Francia e Germania, indispensabile per la solida fonda-zione dell’edificio europeo sui suoi principali pilastri: Francia,

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regno unito, italia e Germania in modo da preparare uno statuto organico per l’Unione europea; la terza presupponeva di cercare di ampliare la solidarietà contro la guerra ben oltre i confini d’eu-ropa; e, infine, in caso di pericoli immediati si doveva creare un sistema che garantisse elementi di sicurezza preventivi. Di cer-to il tentativo di riavvicinamento franco-tedesco fu forse la parte più coraggiosa dell’opera di Briand, nonostante molti avessero tentato di screditarlo, soprattutto tra i ranghi militari, nonostan-te l’appoggio di facciata10. il discorso che fece alla Società delle nazioni nel settembre 1929 per lanciare la sua idea, meditata per oltre due anni, si può dire sia stata una pietra miliare nella strada della futura europa unita, egli disse: “Credo che tra nazioni legate geograficamente, come lo sono quelle europee, qualche tipo di unione debba esistere. Dovrebbero avere in ogni momento i mez-zi per contattarsi, deliberare, decidere in comune, e creare tra loro un collegamento solidale che le aiuti a superare le difficoltà che dovessero presentarsi”11. Un messaggio lanciato a tutti i popoli europei dal lontano nord fino al Mediterraneo. europei di lingue e partiti diversi avevano la possibilità di creare una federazione di nazioni libere ed eguali, pacifiche come la Svizzera, prospere come gli Stati uniti. all’epoca la proposta raccolse molti apprez-zamenti, per lo più di facciata, ma sicuramente quello maggior-mente degno di menzione fu l’appoggio di Winston Churchill, allora membro del parlamento ma privo di effettivo potere, ma che più tardi avrebbe sposato egli stesso la causa europea. i go-verni dei paesi europei ebbero modo di scardinare la proposta di Briand in modo subdolo quando il 17 maggio 1930 fu presentato alla seconda Conferenza pan-europea il documento “promemoria sull’Unione europea”. ne furono accettati i principi generali, ma respinti i dettagli rendendo in questo modo qualunque decisio-ne definitiva impossibile da prendersi. Sembravano tutti quanti pronti ad accettare l’idea di una federazione europea, ma nessuno era pronto a fare il minimo sacrificio nazionale per vederla rea- 10 a. Léger, Aristide Briand, na, preM 4/33/4.11 r.n. Coudenhove-Kalergi, Briand and Europe, na, preM 4/33/4.

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lizzata. in tutto questo è anche vero che il progetto presentato da Briand e sostenuto, come si è visto, dall’Unione pan-europea non scioglieva i dubbi circa il tipo di federazione che si voleva costru-ire, ossia sovranazionale con i poteri degli stati ridotti al minimo o federale, con i poteri di questi ultimi intatti. inoltre non era chia-ro se il nodo maggiore fosse la cooperazione economica o quella politica. Quest’ultimo in realtà una vexata questio della politica europea, che sarebbe stata ampiamente discussa anche negli anni Sessanta dietro la spinta di Charles de Gaulle. ad ogni modo, nel primo dopoguerra i tempi per pervenire ad una più stretta coope-razione tra i paesi europei non erano ancora maturi. peraltro, si trattava di un’europa ancora incerta sul suo futuro, dai contorni geografici non ben definiti perché a causa delle recenti vicende belliche molti stati erano scomparsi e se n’erano creati di nuovi, ma soprattutto insicura sul tipo di unione che si voleva creare, ammesso che si fosse arrivati a quel livello. Gli stessi promotori dell’europa Unita, per l’appunto, non chiarivano se si mirasse ad una struttura federale, confederale, o semplicemente ad una messa in comune di determinate funzioni, lasciando nel contem-po intatta la sovranità degli stati, la cosiddetta “idea funzionale”.

Come aveva notato Coudenhove-Kalergi il mancato affiata-mento tra i paesi del continente europeo e l’impossibilità, o forse dovrebbe dirsi la mancata volontà, di creare più strette forme col-laborative dal punto di vista politico, insieme alla forte crisi eco-nomica della fine degli anni venti del 1900 fu forse una delle cause più immediatamente riconoscibili a cui ascrivere, per buona parte, anche se ovviamente non fu l’unica, l’ascesa al potere di Hitler e quello che ne comportò. Una volta che quest’ultimo ebbe preso il potere vi è da dire che tra i movimenti che maggiormente contra-starono la sua politica vi furono quelli di stampo europeista, che in Germania pagarono a caro prezzo questa loro posizione. il movi-mento di resistenza tedesca più europeista fu senz’altro il Kreisau-er Kreis, il circolo di Kreisau, che faceva capo al conte Helmuth James von Moltke, secondo cui dopo la guerra si sarebbe dovuti pervenire al superamento della sovranità nazionale degli stati, con

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governi seppur con ampia autonomia amministrativa, subordinati tuttavia all’autorità federale per giungere poi alla creazione degli Stati uniti d’europa. per fare questo, però, non sarebbe bastata una pura unione degli stati, ma vi si sarebbe dovuti arrivare per il tramite del coordinamento e controllo dell’industria pesante euro-pea, con l’abbattimento delle barriere doganali, l’armonizzazione delle politiche fiscali, creditizie e dei trasporti per arrivare alla creazione di una zona di libero scambio, preludio di una moneta unica12. Come si vede idee lungimiranti che per lo più sarebbero state attuate anni dopo con il trattato di Maastricht.

allo stesso modo anche in italia, seppure a livello minore, altri movimenti che si richiamavano all’ideale europeo, tentarono di contrastare con idee e scritti il movimento fascista. in entrambi i casi l’idea che viene fatta circolare è quella che il nuovo continen-te europeo che uscirà dalla seconda guerra mondiale deve essere costruito attorno all’idea d’europa e che questa idea deve corri-spondere a quella dell’esercizio democratico dei diritti dei citta-dini. ad ogni buon conto bisognava fare attenzione, perché non tutti i movimenti che contrastavano il nazi-fascismo nati prima o durante la seconda guerra mondiale erano “europeisti”. Molti erano movimenti di resistenza che si rifacevano ad altri ideali o ad altri obiettivi. Soprattutto durante la guerra il primo obiettivo era quello di liberare i propri paesi, il resto veniva in secondo piano.

a livello italiano il gruppo europeista più conosciuto e mag-giormente celebrato è certamente quello creatosi forzosamente durante la condivisione del medesimo confino sull’isola di Vento-tene formato da ernesto rossi, eugenio Colorni e altiero Spinelli. i tre durante il soggiorno misero a punto le idee di cui erano por-tatori e scrissero un documento, che richiamava i popoli europei al comune destino, e lo intitolarono “per un’europa libera e unita. progetto di un manifesto”. in tale manifesto veniva proposta la creazione di un’europa dotata di una struttura organizzata e mi-litante, formata da stati federati, e quindi non più da stati-nazio-ne. il manifesto proponeva un nuovo patto sociale europeo, una

12 r.J. evans, The Third Reich at War, penguin, new York, 2009, pp. 632-33.

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nuova cultura politica e una nuova democrazia13. naturalmente lo scritto riprendeva le idee che nel secolo precedente e durante i primi quarant’anni del 1900 si erano succedute in materia euro-pea, e chiaramente rifletteva la situazione politico-sociale che si viveva al momento in cui fu scritto. in poche parole diventava un tentativo programmatico di ricostruzione post-bellica, e indivi-duava nella pace europea la chiave di volta per la pace mondiale14.

oltre che in italia e Germania, anche in Francia si svilupparono movimenti di espressione e fede europeiste, uno degli ispiratori in tal senso fu Leon Blum, che con il suo libro “L’echelle Humaine” cercò di chiarire che si doveva porre un limite al potere degli sta-ti-nazione, arrivare all’interdipendenza dei popoli e arrivare a cre-are una federazione europea che fosse garante di pace, democrazia e mirasse alla riforma della società. Secondo Leon Blum, inoltre, l’entità federativa europea doveva anche dotarsi di uno strumento di difesa comune. L’esercito comune doveva servire chiaramente per evitare che in futuro vi fosse di nuovo il ricorso alle armi tra paesi fratelli. L’idea era quella che se vi fosse stato un esercito co-mune vi sarebbe stato un comune obiettivo di difesa che avrebbe certamente evitato guerre fratricide. Si trattava di un’idea già cir-colata nel passato recente, che sarebbe riaffiorata pochi anni dopo come proposta di integrazione da parte di Jean Monnet.

3 – Il dibattito sul futuro dell’Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale

Come si è potuto ben vedere i movimenti che propugnavano l’integrazione europea rimasero abbastanza attivi durante tutto il secondo conflitto mondiale. in particolar modo, il movimento pan-europa, ma non fu il solo, continuò ad organizzare eventi e conferenze in modo da attirare l’attenzione sulle decisioni futu-re. Le idee del movimento di Coudenhove-Kelergi furono anche

13 http://www.altierospinelli.org/manifesto/it/manifestoit_it.html14 U. Morelli, Storia dell’integrazione europea, Guerini, Milano, 2011, pp. 15-16.

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sostenute dal primo ministro inglese Churchill che a più riprese, in particolare nel 1943 alla Camera dei Comuni, continuò a dirsi favorevole alla creazione di un’unione dei paesi europei nel do-poguerra come contraltare alla tirannia sovietica, concetto riba-dito come si vedrà anche dopo la fine delle ostilità. La posizione di Churchill fece immenso piacere al presidente di pan-europa che non ne fece mistero e ringraziò sia privatamente, sia pubbli-camente il primo ministro britannico15. Lo stesso Conte austriaco si trovava negli Stati uniti e da là propagandava la causa europea nelle università americane, compiacendosi del fatto che il presi-dente roosevelt avesse deciso di abbandonare la politica volta a creare un governo mondiale e compreso che la soluzione più realistica fosse quella basata sulla collaborazione tra i grandi e piccoli paesi per il bene della pace. L’idea iniziale era chiaramen-te basata sulla Società delle nazioni che però aveva ampiamente dimostrato di non poter funzionare. La collaborazione tra i paesi europei poteva essere attuata creando un’intesa di stati sovrani che formassero un’Unione europea. Di questo discussero i com-ponenti del movimento pan-europa a new York nel 1944 quan-do idearono e redassero, in un esercizio lungo quanto vano, una costituzione di questa unione. Lo stesso Coudenhove-Kalergi si rese poi conto che trovare un equilibro di bilanciamento dei poteri degli stati sarebbe stato difficile, come ammise che era stato dif-ficile per gli stessi convegnisti trovare una linea conciliativa tra la sovranità nazionale e le necessità continentali di cooperazione, perché era pur vero che la guerra, l’oppressione e l’odio avevano accresciuto il desiderio nazionale di tutti gli europei per l’indi-pendenza. Tuttavia, la restaurazione di una sovranità completa e illimitata in capo agli stati europei non avrebbe alla lunga garan-tito la pace e il recupero economico.

al di là di tutto, però, Coudenhove-Kalergi notava anche che vi era una fortissima resistenza, nonostante le parole di vivo ap-prezzamento, da parte di regno unito e soprattutto Stati uniti, per

15 Coudenhove-Kalergi a Churchill, lettera del 19 giugno 1944, na, preM 4/33/4

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dare appoggio reale ad una federazione europea. Un atteggiamen-to che influenzava pesantemente i governi in esilio e i loro capi, in un momento in cui con la certezza del fallimento definitivo di Hitler ci si chiedeva chi avrebbe avuto successo nella futura eu-ropa “la civilizzazione occidentale o il bolscevismo sovietico”16. Un discorso che non si limitava soltanto a questo perché ci si chiedeva anche quale assetto avrebbe preso l’europa post-bellica per la quale Kalergi vedeva quattro alternative: il ristabilimento di un’europa smembrata, con stati sovrani membri di una nuova Società delle nazioni; la creazione di un nuovo bilanciamento di poteri, limitando il numero degli stati sovrani, con cinque o sei blocchi regionali, con una sorta di “concerto europeo” di sei potenze; la separazione del Continente in due sfere d’influenza a est e ad ovest, una dominata dall’Unione sovietica, l’altra dalla Gran Bretagna, una separazione che avrebbe dato alla Germania nuova preponderanza e una posizione chiave in europa dandole la possibilità di sostenere ora una parte ora l’altra a seconda dei casi, ma in tal caso si preconizzava addirittura lo scoppio di una terza guerra mondiale; infine vi era la soluzione di una Federazio-ne europea17. i fautori della federazione si domandavano se anche il regno unito o l’Unione sovietica, o entrambe, dovessero farne parte, anche se era evidente che gli Stati uniti difficilmente avreb-bero tollerato un blocco politico, economico e militare europeo con regno unito e Unione sovietica al suo interno. Un’entità che avrebbe potuto alla lunga isolare e mettere in difficoltà gli Stati uniti. ad ogni modo vi erano problemi generalizzati ad accettare un’entità europea mastodontica perché nessuno avrebbe tollerato la presenza di una potenza o dell’altra visti i gravi danni economi-co-strategici che ne sarebbero potuti derivare. in buona sostanza l’unica formula di federazione europea accettabile sarebbe stata

16 richard Coudenhove-Kalergi, Why not the United States of europe?, in Coudenhove-Kalergi a Churchill, lettera del 15 marzo 1944, na, preM 4/33/4.17 Coudenhove-Kalergi a Churchill, lettera del 5 febbraio 1944, na, preM 4/33/4.

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quella di una piccola europa, circondata, sponsorizzata ed even-tualmente controllata dai vincitori principali della guerra senza partizioni in sfere d’influenza. Un’europa così concepita sarebbe stata circa la metà della superficie totale degli Stati uniti e sa-rebbe stata destinata a formare parte della futura organizzazione mondiale. nell’attesa di una simile organizzazione i tre vincitori avrebbero dovuto controllarne e assicurarne la neutralità.

Di certo l’organizzazione di una federazione europea avreb-be dovuto seguire uno schema con tre obiettivi: pace, tramite un sistema federale di difesa; prosperità, con un sistema economico comune; e, infine, libertà. Quest’organizzazione avrebbe comun-que dovuto rispettare e tutelare le particolarità degli stati membri, le loro tradizioni costituzionali nazionali e la sovranità sulla base del modello confederale svizzero, che secondo Coudenhove-Ka-lergi era riuscito a mettere insieme piccoli stati di tradizioni, lin-gua, leggi e costituzioni differenti. anche l’organo direttivo della federazione europea doveva essere costituito sul modello svizze-ro dove vi era un Consiglio formato da personalità provenienti dai vari cantoni, in modo da evitare prevaricazioni. nonostante l’ammirazione che il presidente di pan-europa aveva per Chur-chill e per il ruolo britannico nei confronti dell’europa nel do-poguerra, in parte simile alle idee dello stesso Churchill, bisogna notare che il Foreign office tese a mantenere una posizione di strettissima neutralità. non lo appoggiava ufficialmente, ma non pensava neppure che il suo lavoro avrebbe causato difficoltà alla politica britannica.

Subito dopo la fine delle ostilità nel regno unito si svolsero le elezioni politiche generali che videro la vittoria del partito Labu-rista di Clement attlee. Winston Churchill si ritrovò così a capo dell’opposizione e ebbe modo durante le conferenze cui venne invitato nel dopoguerra di ribadire dei concetti a lui cari in me-rito alla ricostruzione e all’assetto europei. Churchill ebbe modo sia a Fulton negli Stati uniti, sia in europa a Zurigo, di ricordare che l’intero continente europeo era a rischio a causa della for-za espansiva del comunismo sovietico. il metodo per opporsi era

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quello di creare una grande famiglia regionale chiamata Stati uni-ti d’europa con al centro il motore propulsore formato da Germa-nia e Francia. Un’europa sostenuta esternamente dal regno unito e dagli Stati uniti. più o meno, anche se con sostanziali differenze, quello che durante la guerra avevano suggerito i movimenti fede-ralisti, e Coudenhove-Kalergi in primis. Si può certamente affer-mare che Churchill avesse rimesso in moto la macchina europea, o per lo meno che ne avesse stabilito i presupposti per un nuovo inizio. Di certo, a livello politico europeo e internazionale, tutti si erano resi conto che il problema tedesco sarebbe stato risolvibile soltanto in un contesto europeo, e solo così sarebbe stato possibile sperare in un futuro di pace. Le proposte di Churchill accelerarono la convocazione di un grande congresso all’aja che condusse alla successiva creazione del Consiglio d’europa nel 1949, organizza-zione internazionale ideata per conseguire una più stretta unione e attuare azioni comuni in campo economico, culturale, sociale e scientifico. il Consiglio, nonostante l’ampiezza ideale dei compi-ti, aveva in definitiva un ruolo poco più che consultivo frutto delle scontro tra le differenti vedute tra chi voleva un’europa federale e chi prediligeva invece la messa in comune di determinate fun-zioni e niente più. il fatto è che nel 1949 i tempi non erano maturi per la creazione di un’entità sovranazionale con poteri federali su difesa, politica monetaria e unione doganale, così come si era ben lontani dall’accettare la tassazione diretta europea, un organo le-gislativo unico e la cittadinanza unica per l’unione. all’epoca del Congresso dell’aja i federalisti dovettero cedere il passo al movi-mento funzionalista che prediligeva l’unione di alcune funzioni e sicuramente il coinvolgimento degli stati come protagonisti nella costruzione dell’europa, che si sarebbe formata per piccoli passi a cominciare da una lenta integrazione economica.

Con il passare degli anni le idee del Governo britannico in merito al più generale movimento di integrazione europea non si erano modificate più di tanto e quelle di Churchill restavano pre-valenti. Si può dire che la posizione dell’allora primo Ministro fosse servita per far comprendere alla popolazione, ma soprattutto

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al partito Conservatore, che sicuramente era quello maggiormente rivolto al passato imperiale, che non vi era nulla di male nell’av-vicinarsi all’europa. Si trattava pur sempre di avvicinamento, di concordanza di vedute, di simpatia, ma non di unione. L’europa poteva anche unirsi, ma il regno unito restava un’entità a parte. il punto di vista britannico, in generale, come fece presente Harold Macmillan, in modo emblematico in occasione di un discorso a parigi, vi era fondamentalmente sfiducia nei confronti di un simile progetto. pertanto era assolutamente inutile cercare di attirare il regno unito all’interno di un’unione federale europea. La posi-zione tenuta da Londra in seno al Consiglio d’europa fu poi forte-mente criticata soprattutto dagli italiani, secondo i quali il regno unito faceva di tutto per rallentare l’integrazione europea, nono-stante a parole facesse finta di favorirla. Da più parti, soprattutto sulla stampa dell’epoca, emerse l’idea che il regno unito fosse disposto, tuttavia, a fare ulteriori passi nei confronti della coopera-zione economica utilizzando il cosiddetto “approccio funzionali-sta”, ma non erano in grado, né politicamente, né praticamente, di sostenere alcuna proposta che tendesse alla federazione europea, nel senso più stretto del termine. Secondo alcuni funzionari del Foreign office, Londra non avrebbe potuto accettare un’autorità sovranazionale che avesse il potere di decidere, magari a mag-gioranza, dei destini del popolo britannico, del Commonwealth e dell’area della Sterlina, su materie considerate vitali dal punto di vista economico e finanziario18.

Come si avvicinava la fine della guerra, o per lo meno la per-cezione di essa, vi fu un nuovo proliferare di proposte e progetti relativamente all’europa unita. anche i movimenti di resistenza che durante la guerra erano stati particolarmente attivi avevano, in definitiva, dei legami tra loro e un filo conduttore comune. in particolare i vari gruppi di resistenza nati durante la seconda guer-ra mondiale, così come i movimenti europeisti condividevano tra di loro i principi sanciti dalla Carta atlantica in particolare quelli

18 Williams a Moore, lettera del 27 gennaio 1950, na, Fo 371/88632, 16711/3/50

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relativi alla giustizia sociale e diritti umani. Tutti concordavano sul fatto che si dovesse, prima o poi, superare la sovranità assoluta degli stati, si dovesse giungere a creare un’unione federale per ricostruire l’economia, salvaguardare le istituzioni democratiche, ma soprattutto per aiutare il popolo tedesco alla partecipazione at-tiva al processo di costruzione dell’europa, unico mezzo per rag-giungere finalmente una più duratura pace europea, salvaguardia e chiave di volta della pace mondiale.

L’idea di una casa comune europea, o di un nucleo comune, non era avulsa dal pensiero di alcuni paesi europei, soprattutto di quelli che più direttamente avevano sofferto la barbarie dell’oc-cupazione nazista. alcuni governi dei paesi limitrofi della Ger-mania, difatti, dall’esilio lanciarono una campagna per creare in futuro un’unione economica e doganale preludio di un possibile maggiore impegno. Belgio, paesi bassi e Lussemburgo riflette-rono a lungo sul dopo guerra per meglio comprendere come ri-costruire l’economia disastrata e garantire la pace e la sicurezza. Ciò a cui pensarono fu il legame tra le proprie monete, e a tal fine siglarono in piena guerra, nel 1943, una convenzione monetaria, ma soprattutto decisero l’anno dopo di creare un’unione doganale con effetto immediato alla fine delle ostilità, cosa che avvenne dal 1 gennaio 1948. Si trattò, di fatto, del primissimo nucleo del-la futura Unione perché si può ragionevolmente affermare che l’esperimento fatto da questi tre piccoli paesi fu poi portato ad esempio della possibile convivenza di mercati diversi e in dote nel momento in cui gli stati del Benelux divennero membri fon-datori delle Comunità europee.

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Capitolo 2

la SToria DeLL’inTeGraZione eUropea

al termine delle ostilità, sia perché gli stati erano presi dalle questioni riguardanti la ricostruzione, sia perché le grandi poten-ze vincitrici non erano molto favorevoli, per i motivi più diversi, all’europa unita, l’idea stessa di unità europea cominciò ad essere vista come molto distante. nonostante questo molti statisti euro-pei si domandarono se invece non fosse il caso di ragionare in un quadro europeo, soprattutto per quanto riguardava la Germania, che andava aiutata e non oppressa, per non ripetere gli errori suc-cessivi alla prima guerra mondiale.

1 – Integrazione europea e reinserimento della Germania nel contesto europeo dopo la fine della seconda guerra mondiale

i tedeschi nel dopoguerra chiesero di abolire l’autorità interna-zionale della ruhr, voluta dalla Francia per controllarne l’econo-mia, perché avrebbero voluto dirigere da soli la loro crescita eco-nomica. Bisognava quindi comprendere se i tedeschi avessero ra-gione o meno nel porre queste rivendicazioni. per capire se le loro richieste fossero giuste il Governo francese incaricò il Commis-sario per la ricostruzione economica Jean Monnet perché studias-

Questo capitolo è stato scritto da Christian Rossi

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se la situazione. Monnet era un industriale prestato alla politica, stimato dal generale Charles de Gaulle e amico di molti esponenti di spicco statunitensi per via del suo lungo soggiorno negli Stati uniti durante la guerra quando era stato inviato dal padre a pro-muovere le industrie di cognac di famiglia. rientrato dagli Stati uniti a Jean Monnet fu offerta la posizione di Commissario per la ricostruzione economica e, in tale veste, ebbe modo di conoscere perfettamente la struttura economica e produttiva francese. egli si rese conto che, in definitiva, le richieste di adenauer non erano to-talmente senza logica e che prima o poi sarebbe stato utile cercare di fare in modo di arrivare ad una soluzione condivisa, tanto più che conosceva perfettamente quanto gli Stati uniti avevano affer-mato in merito ad una modifica della situazione tedesca soltanto entro la cornice di un accordo europeo. Certamente era giusto che la Germania federale avesse nuovamente il controllo delle proprie risorse, ma era anche necessario che la Francia potesse effettuare un controllo. per questo motivo l’idea principale che gli venne in mente fu quella di allineare la posizione di controllore e di control-lato mettendo in comune la fonte principale dell’industria pesante del periodo: il carbone e l’acciaio. non più risorse francesi o tede-sche, ma risorse europee. Si sarebbe partiti da un settore strategico, per poi estendere ad altri ugualmente importanti nel campo indu-striale ed economico. il piano ideato da Jean Monnet era alquan-to ragionevole, e ricevette subito l’apprezzamento di adenauer, tuttavia la difficoltà maggiore sarebbe stata proprio quella di con-vincere i francesi che trovavano difficile accettare di abbandonare il controllo delle acciaierie e delle miniere di carbone della ruhr rimettendo nel contempo alla Germania il controllo della propria economia. Dopo diverse trattative interne Jean Monnet riuscì a convincere il ministro degli esteri robert Schuman a prendere in mano l’iniziativa e proporre un piano organico alla repubblica federale di Germania e agli altri paesi europei che avessero voluto partecipare. il piano, che prese il nome proprio dal ministro degli esteri, fu annunciato il 9 maggio 1950 nella Sala dell’orologio del Quai d’orsay a parigi e prevedeva l’abolizione dell’autorità

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internazionale della ruhr; la creazione di una Comunità, aperta anche ad altri aderenti, per amministrare carbone e acciaio non più nazionali, ma che avrebbero assunto l’aggettivo “europeo”. a parte la Germania Federale che accettò la soluzione immediata-mente, condivisero la soluzione i paesi del Benelux e l’italia, pur con qualche riserva, mentre il regno unito, pur trovando il piano ragionevole, decise di rimanere per il momento a guardare119. Una volta che il piano Schuman fu accettato in linea di massima biso-gnava a questo punto negoziare termini e condizioni. Di questo fu incaricato lo stesso Jean Monnet, il quale condusse un “negoziato obbligato” che doveva portare ad un obiettivo già deciso: la crea-zione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio che vide la luce il 18 aprile 1951 con l’accordo istitutivo. il trattato previ-de la creazione della Comunità e delle sue istituzioni di governo: l’alta autorità con funzioni di gestione; un’assemblea parlamenta-re con funzioni di controllo; un Consiglio dei ministri con funzioni di coordinamento dell’alta autorità e una Corte di giustizia che doveva dirimere le controversie che fossero sorte in seguito all’ap-plicazione dei trattati. il trattato istitutivo della Ceca fu ratificato da tutti i paesi europei coinvolti ed entrò in vigore nel 1952. a questo punto si può affermare con ragionevole certezza, che dopo il primo tentativo fatto dai paesi del Benelux nel creare un’unione doganale, la Ceca fosse il vero primo tassello in direzione della costruzione europea come la si conosce al giorno d’oggi. riflet-tendoci si può affermare anche che la creazione della Comunità per il carbone e l’acciaio fu dovuto alla necessità di reinserire la Germania nel tessuto economico-politico europeo, e non fu certo il frutto di un volontario afflato d’amore per l’europa unita.

nel corso dei primi anni cinquanta la situazione in europa, così come in altre parti del mondo, dal punto di vista strategi-co era alquanto instabile. in europa, precisamente lungo il fiu-me elba, si trovava la linea di demarcazione tra i due blocchi, così come similmente accadeva in Corea e in indocina. L’europa

19 K. Adenauer, Memorie 1945-1953, Milano, Mondadori, 1966, pp. 375-381 e 385-386.

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non sembrava correre pericoli immediati, ma i tuoni di guerra che arrivavano da oriente non facevano diminuire la tensione, soprattutto psicologica, in cui i paesi e i popoli europei si trova-vano. Vi era una certezza, l’europa doveva essere dotata di un sistema di difesa adeguato e anche in questo caso il problema fondamentale era la Germania. Difendere l’europa senza che la Germania federale potesse difendersi adeguatamente sarebbe sta-to impossibile. anche in questa occasione la soluzione fu trovata da Jean Monnet, il quale pensò che ciò che era stato applicato al carbone e all’acciaio poteva essere applicato agli eserciti nazio-nali creando una Comunità europea di difesa. La soluzione della difesa europea, così come ideata da Monnet, era però di difficile attuazione sulla carta perché di sicuro era necessario avere dei comandi unificati e, in un esercito, il problema della mancanza di una lingua comune sembrava insormontabile. Monnet pensò quindi al modello in uso per austria e Ungheria nel periodo della Duplice Monarchia, con comandi unificati internazionali e reparti nazionali con un unico ministro della Difesa contemporaneamen-te membro di tutti i governi europei partecipanti. naturalmente era una soluzione farraginosa che non era in grado di funziona-re e vi furono molteplici resistenze da parte di tutti i paesi in-terpellati. Dopo un breve periodo di stallo i negoziati ripresero, grazie all’apporto del presidente del Consiglio italiano alcide De Gasperi, il quale propose la creazione di un’autorità con poteri sovranazionali e un parlamento responsabile della difesa e del bilancio ad essa collegato. Si trattava del famoso articolo 38 del Trattato della Comunità europea di difesa, firmato alla fine nel 1952 e definitivamente respinto dopo alcune mozioni procedurali dall’assemblea nazionale francese due anni dopo.

La bocciatura del Trattato sulla difesa comune portò ad uno stallo nell’avanzamento dell’idea della costruzione di un’europa comune e seminò un notevole sconcerto tra i fautori del movi-mento europeista. La questione riguardante la difesa europea fu risolta soltanto sul finire del 1954 grazie all’intervento del regno unito, il quale propose l’ampliamento del Trattato di Bruxelles

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del 1948 a italia e Germania, la creazione dell’Unione europea occidentale, organizzazione sciolta definitivamente nel 2011, e l’autorizzazione per la Germania federale di dotarsi di un eserci-to, seppur limitato, da integrare nell’alleanza atlantica, cosa che puntualmente avvenne l’anno seguente.

2 – L’avvio dell’integrazione dei mercati

a metà degli anni Cinquanta, dopo la creazione della Comu-nità europea del carbone e dell’acciaio, la situazione generale dell’economia europea era decisamente migliorata e in via di espansione sempre maggiore. pur nella situazione politica carat-terizzata dalla cortina di ferro, la ricostruzione post-bellica poteva ormai dirsi archiviata, l’economia dei paesi membri della Ceca cresceva sensibilmente e l’europa cominciava a riprendere un posto di primo piano nei mercati internazionali. Vi era un unico neo: i mercati interni europei erano ancora separati. nuovamente il rilancio dei temi europeistici partì da Jean Monnet, ormai pre-sidente dell’alta autorità della Ceca, secondo il quale l’europa doveva ormai prendere la decisione di abolire le separazioni che ancora coinvolgevano il mercato interno dal momento che un’eu-ropa così divisa risultava comunque, ancora poco competitiva no-nostante la forte spinta economica.

oltre a quello dei mercati interni l’obiettivo di Monnet era quello di giungere ad estendere la collaborazione anche ad altri settori quali per esempio trasporti ed energia, in particolar modo quella atomica. L’iniziativa per un simile rilancio non poteva par-tire dalla Francia, la quale aveva di fatto affossato la Comunità europea di difesa. L’iniziativa quindi partì questa volta dal poli-tico belga paul-Henri Spaak, il quale si fece promotore dell’idea di una nuova azione politica per la messa in comune dei mercati e del settore dell’energia atomica. Una proposta accolta con mol-ta freddezza dai partner europei eccetto che dai paesi bassi, che invece presentarono una proposta alternativa, la proposta Beyen, dal nome del ministro degli esteri Johan Willem Beyen, che mi-

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rava all’integrazione generale con un’unione doganale, seguita dall’unione economica. Le idee risultarono alquanto confuse e Monnet tentò a quel punto di fare una sintesi proponendo un’in-tegrazione per settori e un’integrazione economica generale, da utilizzare come base per una conferenza di lavoro che si svolse a Messina nel 1955. La Conferenza di Messina decise, a dispetto delle proposte di Monnet, che fosse preferibile la creazione di altre due comunità, una competente per la collaborazione nell’u-tilizzo pacifico dell’energia atomica, l’altra competente per porre le basi di un mercato generale comune europeo. non vi era co-munque unità di vedute sui poteri delle due nuove comunità, so-prattutto per quanto concerneva eventuali poteri sovranazionali.

Le discussioni a Messina furono lunghe e talvolta contrastanti, ma su un punto tutti i paesi convenuti erano decisi: bisognava ri-lanciare il processo europeo. nonostante questo, a causa dei trop-pi particolarismi che emersero, di fatto non fu possibile prendere alcuna decisione se non una dichiarazione di principio circa la creazione di un’europa unita, la fusione graduale delle economie nazionali, la creazione di un mercato comune e l’armonizzazione delle politiche sociali20. Dal momento che i paesi membri della Ceca non si mettevano d’accordo paul-Henri Spaak fu incaricato di provare a fare un’ulteriore sintesi e delle proposte, che furono presentate alla Conferenza di Venezia nel 1956 ove infine si de-cise di creare un Mercato Comune europeo e una Comunità di gestione dell’energia atomica. Si poté così arrivare al 25 marzo 1957 quando, a roma, furono infine firmati dagli stessi membri della Ceca i Trattati di roma che istituivano la Comunità eco-nomica europea e la Comunità europea per l’energia atomica (l’euratom), nella quale, è importante notarlo, non esisteva una separazione netta tra usi civili e militari. La Comunità economi-ca europea, che doveva essere istituita con un processo a tappe

20 a. Villani, Un liberale sulla scena internazionale. Gaetano Martino e la politica estera italiana, 1954-1967, Trisform, Messina, 2008, pp. 49-59; Ministero degli affari esteri; Gaetano Martino e l’Europa. Dalla Conferenza di Messina al Parlamento Europeo, ipZS, roma, 1995, pp. 66-78.

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progressive, puntava all’unione doganale, all’eliminazione degli ostacoli alla libera circolazione di beni, persone, capitali e servizi; all’elaborazione di una politica agricola comune; alla libera con-correnza; al coordinamento delle politiche economiche. prevede-va inoltre la creazione di una Banca europea per gli investimenti e di un Fondo sociale europeo.

3 – Allargamento e trasformazione delle Comunità europee

Le Comunità europee, una volta create, dovettero affrontare nel corso degli anni numerosi problemi, una rapida crescita e an-che battute d’arresto che ne plasmarono la configurazione o la modificarono perché potesse adattarsi al mutamento imposto dai tempi e dalle necessità. il primo grande banco di prova può essere considerato quello della politica del presidente della repubblica francese Charles de Gaulle, il quale impose un suo modo di vede-re ai partner europei. il presidente francese non era contrario ad un’europa integrata, ma era contrario all’idea di europa sovran-nazionale guidata da burocrati. Serviva quindi un ripensamento del modello delle istituzioni europee e non una spinta alla crea-zione di un potere sovraordinato. Le Comunità, quindi, dovevano essere collegate alla volontà degli stati e non viceversa, e l’euro-pa, realtà politica, economica e culturale, doveva diventare il ter-zo polo dopo Stati uniti e Unione sovietica. Fu in quest’ottica che il presidente de Gaulle propose l’istituzionalizzazione dei vertici periodici tra i capi di Stato e di Governo, oggi divenuto un organo dell’Unione come Consiglio europeo, con il compito di dettare la linea d’azione alla Commissione europea e alle Comunità. Dal punto di vista prettamente politico il 1979 è l’anno in cui si svol-sero per la prima volta le elezioni a suffragio universale e diretto del parlamento europeo. Si trattava di una grande innovazione per un parlamento che era dotato di poteri più virtuali che effet-tivi e che riusciva difficilmente incidere sul bilancio comunitario e sulle decisioni prese dalla Commissione, sollecitate dagli stati. Certamente la decisione di permetterne l’elezione a suffragio uni-

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versale diede un notevole impulso alla modifica di una situazio-ne ormai inaccettabile per la maggior parte dei cittadini europei. L’occasione per un ripensamento dell’architettura istituzionale fu colta grazie al secondo e terzo allargamento della Comunità av-venuto con gli ingressi di Grecia, nel 1981, Spagna e portogallo nel 1985 che si aggiunsero ai membri fondatori e a Danimarca, irlanda e regno unito entrati nel 1973.

L’avvio della riforma istituzionale della Comunità europea fu sancito con l’adozione dell’atto unico europeo nel 1986, entrato in vigore nel 1987. Le novità principali che questo atto recava erano date dall’estensione delle materie sulle quali negli organi europei si poteva deliberare a maggioranza, dai nuovi ambiti di cooperazione che venivano posti sotto la competenza esclusiva della Comunità, quali tecnologia, ambiente, politica economica e monetaria. e, infine, si cominciò a pensare di spostare alcune competenze in materia di politica estera e sicurezza in ambito co-munitario, materie sulle quali la competenza degli stati membri restava esclusiva, ma sulle quali Consiglio dei ministri e Com-missione avrebbero espresso dei pareri.

in parallelo la politica internazionale vedeva avviato il pro-cesso di distensione tra Stati uniti e Unione sovietica condotto, dopo un’iniziale innalzamento del livello di scontro da parte sta-tunitense agli inizi degli anni ottanta, dal presidente ronald re-agan e dal Segretario generale del partito comunista dell’Unio-ne sovietica Michail Gorbaciov. Muovendosi in questo contesto il presidente della Commissione europea Jacques Delors cercò di attuare le disposizioni stabilite nell’atto unico, in particolar modo tentando di segnare la strada di una maggiore integrazione economica e monetaria, per arrivare all’irreversibilità dei tassi di conversione delle monete, e rendere effettiva la liberalizzazione dei movimenti di capitale, nonostante i tempi non sembrassero ancora maturi.

inaspettatamente, un’improvvisa accelerazione verso la crea-zione della moneta unica europea fu resa possibile dalla caduta del muro di Berlino e dalla conseguente riunificazione della Germa-

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nia. Furono proprio i retroscena dell’aspetto politico che portò alla riunificazione che spianò la strada all’eventualità che i paesi euro-pei si dotassero di una moneta unica. Quando le autorità tedesche, all’indomani della caduta del muro, cominciarono a sondare il ter-reno nelle varie cancellerie, a partire dai vecchi alleati, per capire se vi fosse una disponibilità a concedere il via libera per l’unifica-zione, l’allora Cancelliere federale Helmut Kohl si trovò dinanzi a un muro apparentemente insuperabile. a parole si dissero tutti favorevoli alla riunificazione, ma nei fatti vi erano molte riserve mentali. per superare l’impasse ci volle tutta l’abilità diplomati-ca del Cancelliere Kohl e una buona dose di denaro, sottoforma di aiuti per l’Unione sovietica, perché quest’ultima acconsentisse alla chiusura delle vicende della Seconda guerra mondiale e per-ché desse il via libera alla riunificazione. per quanto riguardava invece i partner europei, grazie a un negoziato estenuante con-dotto con il presidente francese François Mitterrand, la Germania acconsentì a mettere nel piatto della Comunità europea il Marco tedesco perché fosse il cuore della futura moneta unica europea.

in questo clima di euforia collettiva ripartì il dialogo sull’unifi-cazione politica e monetaria che nel giro di due anni avrebbe porta-to i paesi europei a firmare il Trattato di Maastricht. a dire la verità i lavori preparatori erano cominciati già dal 1989 con il Consiglio europeo di roma che aveva stabilito due linee di intervento che dovevano portare all’unione economica e all’unione politica. Le discussioni in merito andarono avanti per due anni, e si discusse soprattutto di unione monetaria, politica estera e difesa, queste ul-time due materie restarono alquanto defilate, per chiudere la partita alla fine del 1991, una volta superate le fortissime resistenze del primo ministro britannico John Major, grazie alla concessione del-la clausola dell’opting out che offriva la possibilità al regno unito di non adottare la moneta unica. Sul finire del negoziato che portò al Trattato di Maastricht le posizioni si definirono con il rafforza-mento dell’asse tra Francia e Germania, con la rinnovata garanzia per la libera circolazione di capitali, merci e servizi, e con l’impe-gno di favorire sempre di più la libera circolazione delle persone,

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il cui trattato relativo, quello di Schengen, firmato nel 1990 era rimasto per il momento disatteso. il 7 febbraio 1992, terminati i negoziati, fu firmato nella città olandese di Maastricht l’omonimo trattato, base giuridica della futura unione economica e moneta-ria che sarebbe dovuta nascere entro il 1999. il trattato cambiava anche la denominazione della Comunità europea che assumeva il nome di Unione europea. Un’unione con tre pilastri: le vecchie Comunità europee, e le nuove strategie della politica estera e sicu-rezza comune, e la Cooperazione per la giustizia e gli affari interni, queste ultime due rimaste per lo più sulla carta.

per quanto concerneva l’Unione economica e monetaria fu ideata una strategia per fasi, ossia: liberalizzazione dei capitali; fissazione dei tassi di cambio definitivi tra le monete comunitarie; infine, entrata in vigore della moneta unica, denominata euro. Com’è ormai noto per accedere alla moneta unica bisognava ri-spettare dei parametri ben precisi e alcuni dei paesi europei can-didati a far parte della moneta unica dovettero faticare non poco per riuscire a rispettare le imposizioni del Trattato di Maastricht.

Gli altri aspetti del Trattato sull’Unione europea, nome ufficia-le del trattato firmato a Maastricht, riguardavano la politica e la sicurezza comune, dal momento che la Cooperazione per la giu-stizia e gli affari interni, se si eccettua alcune norme sull’interpol e il mandato di cattura europeo ebbero scarsa attuazione. non che sorte diversa sia toccata alla pesc, ma qualche tassello in più venne per lo meno fissato. per quest’ultimo pilastro l’idea era quella della difesa dei valori comuni, degli interessi fondamentali e dell’indi-pendenza che dovevano andare di pari passo con il rafforzamento della sicurezza dell’Unione. La sicurezza europea s’inquadrava, però nel più ampio quadro generale internazionale e, per questo motivo, vi era un forte richiamo alla Carta delle nazioni unite e ai principi della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in europa. L’Unione europea, in generale, si faceva promotrice dei valori dello stato di diritto e della democrazia che diventavano par-te integrante del cosiddetto “aquis communautaire”.

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4 – L’Unione europea dopo Maastricht

L’Unione europea, dopo la fine della guerra fredda, ma so-prattutto grazie al suo enorme successo economico, era ormai diventata un polo di attrazione per tutti i paesi che ancora non ne facevano parte e dal 1995 con l’ingresso di austria, Svezia e Finlandia, si è sentita sempre di più la necessità di adeguarne l’architettura istituzionale alle mutate dimensioni, conformazione e interessi politici derivanti dalla presenza di nuovi stati membri.

Un primo tentativo di modernizzarne l’architettura istituziona-le si ebbe con il trattato di amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997 e con il quale l’Unione si prefisse di consolidare i tre pilastri di Ma-astricht, di rafforzare alcune tutele nell’ambito lavorativo, sociale e dei diritti dei cittadini europei e di eliminare, parimenti, gli ulti-mi ostacoli ancora esistenti al diritto di libera circolazione. inoltre il trattato incrementava diversi settori di competenza dell’Unione come quello dell’ambiente o della sicurezza esterna. il Trattato, infine, innovava in parte il settore delle relazioni esterne dell’U-nione europea istituendo la figura dell’alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza comune che avrebbe agito interfac-ciandosi direttamente con la presidenza semestrale dell’Unione europea e con il Consiglio europeo.

nonostante tutto le riforme introdotte dal Trattato di amster-dam si rivelarono inefficaci e insufficienti a rendere più dinami-ca l’Unione e pronta alle sfide del nuovo millennio tanto che fu necessario intervenire agli inizi del 2000 con nuovi ritocchi alla macchina istituzionale con il Trattato di nizza, siglato il 26 feb-braio 2001, anche e soprattutto in previsione dell’allargamento nei confronti dei paesi dell’europa dell’est. Questo nuovo trattato cercava di abbozzare una riforma istituzionale della nuova europa in base alle nuove esigenze e soprattutto alla rappresentanza degli stati in seguito all’allargamento. Le discussioni sul nuovo asset-to istituzionale si rivelarono alquanto difficili soprattutto perché alcuni dei paesi membri avevano difficoltà nell’acconsentire alla modifica di equilibri ormai consolidati negli anni, in particolare

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per quanto riguardava la composizione del parlamento europeo e della Commissione, questioni risolte con il criterio del voto pon-derato e l’estensione a nuovi settori del voto a maggioranza, ma lasciava d’altro canto insolute altre questioni, la principale delle quali era una riforma istituzionale che rendesse l’europa più de-mocratica ed efficiente..

Dal momento che le riforme da compiere erano ancora tante fu deciso, in occasione del Consiglio europeo di Laeken a dicembre 2001, di autorizzare la convocazione di una commissione che re-digesse un nuovo e completo trattato costituzionale europeo, fir-mato infine a roma il 29 ottobre 2004. La cosiddetta Costituzione europea non era altro che un lungo trattato internazionale che non soltanto non istituiva una “sovranità europea”, ma non risolveva neppure il problema dell’unione politica e della sopranazionalità nei settori chiave dell’integrazione. La “Costituzione europea”, che sostituiva integralmente tutti i trattati precedenti modificava profondamente la struttura dell’Unione senza tuttavia, come si è detto, risolvere i problemi per i quali era stata inizialmente creata la commissione che l’aveva scritta. ad ogni modo la strada verso l’adozione della Costituzione europea incontrò notevoli difficoltà e si arenò in seguito alla bocciatura di Francia e paesi bassi in occasione di un referendum popolare. Dopo questo episodio fu deciso di risolvere la questione relativa alla nuova architettura europea con un trattato più snello, il Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007.

il nuovo trattato, che salvava per buona parte i principi della “Costituzione”, seppur epurandoli dagli aspetti più controversi relativi alla sovranità, modificava e innovava profondamente le istituzioni europee rendendole più confacenti alla strutture allar-gata dell’Unione, anche se non risolveva totalmente i problemi relativi alla maggiore coesione e integrazione funzionale dei pa-esi europei.

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Capitolo 3

la storia dell’integrazione Monetaria e dell’euro

Uno dei principali passaggi del processo d’integrazione euro-pea è stato certamente l’unificazione monetaria e l’introduzione dell’euro, tanto che questo evento e il percorso storico che l’ha ge-nerato meritano una trattazione specifica, non fosse altro che per gli aspetti “tecnici” che lo caratterizzano. Un secondo elemento da tenere bene a mente è che l’integrazione monetaria europea e più in generale la storia monetaria di quell’area che ha costituito il nucleo dell’Unione europea è in gran parte sconosciuta o poco nota anche agli accademici che si occupano di storia contempora-nea, così come agli appassionati e ai docenti di storia delle scuole superiori.altra ragione che rende necessaria un’approfondita trat-tazione dell’integrazione monetaria, riguarda il rapporto tra inte-grazione monetaria e le altre forme d’integrazione sperimentate in europa, in particolare l’integrazione politica e l’integrazione economica. in ultimo, ma non certo per importanza, le vicende monetarie europee sono il proseguo naturale di quelle degli anni Trenta, anni in cui la profonda crisi economica generata dal col-lasso del sistema monetario internazionale nel 1931 generò le condizioni per il rafforzamento dei regimi fascisti e avviò parte dei processi che portarono alla seconda guerra mondiale. infatti,

Questo capitolo è stato scritto da Roberto Di Quirico

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come ha scritto alan Steel Milward in The Reconstruction of We-stern Europe “L’europa occidentale fu ricostruita non solo dalle distruzioni della seconda guerra mondiale, ma anche da quelle del catastrofico collasso economico del 1929-32”21 e questa parte della ricostruzione, forse ancor più di quella delle infrastrutture e delle relazioni tra paesi europei, ha plasmato l’intero processo d’integrazione europea.

1 – Integrazione politica e integrazione economica.

Quanto ho appena sostenuto apre la strada alla discussione di uno dei principali dilemmi scaturiti dallo studio dell’integrazione europea e cioè se sia stata più importante l’integrazione politica o quella economica e monetaria. in altre parole, ci si dovrebbe chiedere se l’Unione europea come la conosciamo oggi sia più il prodotto degli sforzi di unificazione politica portati avanti fin dall’immediato secondo dopoguerra, oppure se sia stata l’integra-zione economica e monetaria a guidare e stimolare l’integrazione politica che, dunque, ne sarebbe al traino.

Questo dilemma al momento non sembra aver soluzione e di-vide sia gli storici, sia i politologi. Gli storici affrontano in modo diverso la questione delle varie forme d’integrazione a seconda della loro formazione. Storici della politica e delle relazioni inter-nazionali tendono a enfatizzare il ruolo della dimensione politica e dei cosiddetti “padri fondatori”, a tutto discapito della compo-nente economica dell’integrazione, mentre gli storici economici tendono a dare una maggiore importanza al processo d’integra-zione economica e monetaria arrivando talvolta a ritenerla il vero motore dell’integrazione europea.

L’approccio dei politologi è in parte diverso e più sfumato, nel senso che le principali teorie proposte per spiegare l’integrazione europea si basano su meccanismi e su modelli d’interazione tra attori che solo incidentalmente prefigurano la prevalenza di un

21 a.S. Milward, The Reconstruction of Western Europe, Londra, routledge, 1987 (2° ed.), p. 463.

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processo sull’altro. i funzionalisti e i neofunzionalisti hanno insi-stito molto sul fatto che l’integrazione in alcuni settori economici avrebbe reso necessaria una maggiore cooperazione politica tra gli stati nazionali, poiché l’integrazione in un settore si sareb-be necessariamente estesa ad altri settori rendendo indispensabi-le una sempre maggiore coordinazione delle politiche naziona-li, fino ad arrivare alla piena integrazione. in questo modo, pur stabilendo implicitamente una gerarchia tra integrazioni in cui quella economica è meno importante e più facile da raggiungere di quella politica, hanno comunque individuato nell’integrazio-ne economica il motore dell’intero processo che dovrebbe porta-re all’unificazione europea. a funzionalisti e neofunzionalisti si sono contrapposti prima i cosiddetti realisti e poi gli intergover-nativisti che ne hanno ereditate le basi teoriche. per questi stu-diosi, ciò che muove le relazioni internazionali sono gli interessi degli stati nazionali e quindi anche nel caso dell’integrazione eu-ropea l’aspetto principale da considerare sono le negoziazioni e gli interessi contrapposti degli stati europei. per questi studiosi i principali passaggi dell’integrazione dipendono dalle necessità contingenti dei paesi membri dell’Unione, qualunque esse siano, anche se i passaggi storici che utilizzano per sostenere le loro tesi sono principalmente di natura economica. ne potremmo dedurre che per loro l’integrazione economica e monetaria, più che il pro-cesso che ha determinato l’integrazione politica, è stata l’arena in cui si sono confrontati i paesi membri e in cui hanno costruito tutto il processo d’integrazione. ne consegue che l’integrazione economica e quella politica sono procedute di pari passo perché dovevano rispondere alle necessità che gli stati membri tentavano di risolvere collettivamente a prescindere dal fatto che queste fos-sero di natura economica o di altra natura.

Gli approcci storici e quelli politologici non sono completa-mente indipendenti tra di loro. infatti, l’approccio intergoverna-tivo, soprattutto nella sua formulazione più focalizzata sull’in-tegrazione europea, deve molto al lavoro di Milward ed alla sua teoria del salvataggio europeo dello stato nazionale. Milward ri-

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tiene, infatti, che lo scopo principale dell’integrazione europea, soprattutto nelle sue prime fasi, non sia stato veramente quello di creare l’europa unita. al contrario, gli stati nazionali tentarono di salvaguardare la loro esistenza mettendo in comune la gestione di quei settori che non riuscivano a gestire singolarmente, come le politiche commerciali e le questioni inerenti i pagamenti interna-zionali, questioni da cui scaturì in seguito l’integrazione econo-mica e monetaria. in altre parole, Milward ritiene che l’integra-zione europea sia stata avviata allo scopo di evitare l’unificazione europea e non di favorirla. Questo spiegherebbe il fallimento dei tentativi attuati o nemmeno avviati finora di creare forme d’inte-grazione in settori quali la difesa, la politica estera e le politiche di welfare dove i singoli stati nazionali potevano operare da soli o tramite altre organizzazioni di cooperazione già esistenti quali la naTo.

2 – La crisi degli anni Trenta e il problema della ricostruzione di un sistema dei pagamenti internazionali

risalire agli anni Trenta o addirittura a quelli precedenti può sembrare eccessivo se si vuole spiegare un processo come l’integrazione monetaria che si tende a far risalire al trattato di Maastricht e cioè ai primi anni novanta. in realtà, il problema dell’europa occidentale nel novecento non è stato tanto quello dell’integrazione monetaria quanto quello della re-integrazione monetaria, cioè del ritorno a un sistema dei pagamenti internazio-nali in grado di favorire il commercio internazionale soprattutto tra gli stati europei, sistema che esisteva già prima della crisi del 1931 e che con essa si sfaldò.

Tale sistema dei pagamenti si basava sul cosiddetto Gold stan-dard e cioè su un sistema di cambi fissi basato sul valore in oro delle monete nazionali.

Facciamo alcuni semplici esempi per chiarire, pur in modo molto approssimativo cos’era il Gold standard e come funziona-va. ammettiamo che Germania, Francia e regno unito dichia-

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rassero con apposita legge, come in effetti avveniva, che le loro monete nazionali avevano un valore fisso in oro e che chiunque portasse una banconota alla banca centrale del paese che l’aveva emessa avesse diritto al rimborso in oro. in questo caso il cambio tra le varie monete sarebbe facilissimo da calcolare e non sogget-to all’andamento del mercato dei cambi come accade oggi. infat-ti, se gli inglesi avessero stabilito che una sterlina equivaleva a 10 grammi d’oro, i francesi che un franco francese equivaleva a 5 grammi d’oro e i tedeschi che un marco corrispondeva a 1 gram-mo d’oro, automaticamente una sterlina avrebbe avuto un valore di 2 franchi e 10 marchi così come un franco sarebbe equivalso a 2 marchi e solo mezza sterlina, mentre un marco sarebbe stato scambiato per 10 centesimi di sterlina e 20 centesimi di franco. in un sistema di questo tipo sarebbe sempre possibile sapere quanto vale una moneta diversa da quella che utilizziamo e sarebbe mol-to semplice fare pagamenti internazionali in quanto ci sarebbe un unico riferimento comune e cioè l’oro. Molto approssimativa-mente questo era quanto accadde fino al 1914 e cioè nel periodo in cui il Gold standard funzionò al meglio.

La crescita del commercio internazionale e degli scambi di beni e servizi che caratterizzò il periodo fino alla prima guerra mondiale fu resa possibile dal sorgere di un sistema internaziona-le dei pagamenti basato su tre particolari fattori:

1. l’espansione delle banche internazionali, in particolare in-glesi, che cominciarono a connettere i mercati mondiali e a facili-tare pagamenti tra le varie regioni del mondo, prevalentemente at-traverso la piazza di Londra dove loro avevano la sede principale e le altre maggiori banche non inglesi aprivano appena possibile una filiale;

2. l’affermarsi della sterlina come valuta chiave con la qua-le effettuare pagamenti internazionali senza rischi di cambio (il valore della sterlina era sempre lo stesso da molti anni) e senza dover convertire tutte le volte le valute in oro, visto che la sterlina era considerata buona come l’oro;

3. la creazione a Londra di un mercato finanziario complesso

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in grado di soddisfare tutte le esigenze del commercio internazio-nale e in grado di attirare capitali dal resto del mondo.

Facciamo un semplice esempio. ammettiamo che 3 commer-cianti si scambino tra loro alcuni prodotti, ma per valori diversi. Un tedesco vende a un francese merci per un valore equivalente a 100 grammi d’oro, il francese vende ad un inglese merci per 80 grammi d’oro e l’inglese vende al tedesco merci per 40 grammi d’oro. in questo caso si configura una situazione del tipo indicato in figura.

Figura 3.1 - Schema semplificato di sistema di scambi internazionale

in mancanza di una valuta internazionale e di un sistema di pa-gamenti più raffinato, l’unico modo per pagare è quello di versare i corrispettivi in oro ai propri creditori e quindi di trasportare per lunghe distanze e con grossi rischi il metallo. inoltre, una situa-zione così sbilanciata non potrebbe reggere a lungo e alla fine chi compra più di quanto vende finirebbe con il dover ridurre il suo volume di acquisti. Ma se esiste una valuta accettata da tutti e tre i commercianti perché sicura e non a rischio di svalutazioni si può evitare di usare l’oro e pagare tutti nella stessa valuta (ad esempio la sterlina) e magari tramite semplici operazioni bancarie e non con lo spostamento vero e proprio dell’oro. in questo modo l’uni-co a trasformare valuta in oro sarebbe il tedesco che vende 100 e

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compra 40 e si trova alla fine del giro con un surplus di 60. resta però il problema di come fanno gli altri a procurarsi i soldi per pagare il loro deficit (40 l’inglese e 20 il francese). il problema possono risolverlo le banche inglesi prestando 40 al loro cliente inglese e 20 al francese. Ma le banche inglesi dove prendono i 60 necessari per aprire questi crediti? Semplicemente raccolgono il credito di 60 del tedesco che è ben felice di depositare i suoi guadagni in una solida banca inglese che gli garantisce sicurezza, nessun rischio di svalutazione e un interesse.

per quanto questo esempio sia estremamente semplificato, questo era più o meno quanto avveniva grazie al ruolo assunto dalla sterlina, dalle banche inglesi e dalla piazza di Londra nel fi-nanziamento del commercio internazionale. ecco dunque che l’e-sistenza concomitante di una valuta nazionale accettata a livello internazionale (a quel tempo la sterlina e oggi il dollaro e in minor misura l’euro), di un centro finanziario internazionale in grado di fare da centro di compensazione tra debiti e crediti (Londra un tempo e vari mercati finanziari oggi) e di un sistema bancario internazionale in grado di raggiungere tutti i paesi del mondo, permisero di creare un sistema dei pagamenti internazionale che sostenne lo sviluppo economico e la circolazione dei capitali fino al 1914 ed ancora, pur se in modo meno efficiente, dopo la guerra e fino al 1931.

Londra divenne il principale centro finanziario internazionale soprattutto grazie alla sua posizione di raccordo tra europa con-tinentale, continente americano e impero britannico. Londra era al centro del sistema degli scambi e dei pagamenti internazionali. Molti altri paesi, soprattutto quelli dell’europa continentale era-no legati a questo sistema attraverso Londra. Quando nel 1931 il Gold Standard crollò e la sterlina divenne non più convertibile in oro, alcuni paesi si ritrovarono automaticamente inseriti in una qualche area commerciale, mentre altri come quelli dell’europa continentale, si ritrovarono isolati e separati dai loro tradizionali mercati di rifornimento e di smercio.

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Figura 3.2 - Schema semplificato del sistema internazionale dei pagamenti prima del 1931

La frammentazione del sistema mondiale degli scambi in grandi aree chiuse fu una delle conseguenze principali della cri-si finanziaria del 1931 che culminò con la svalutazione della sterlina e l’abbandono del Gold standard da parte della Gran Bretagna. Fu allora che si gettarono le basi per la creazione di grandi aree commerciali incentrate su una valuta chiave e quindi su un paese chiave con una struttura economica tale da creare complementarità con una serie di paesi satelliti con cui commerciare utilizzando la moneta chiave come mezzo di pa-gamento. Tali aree possono essere approssimativamente indivi-duate nel blocco della sterlina costituito dall’impero britannico e dai suoi Dominions escluso il Canada, dal blocco del dollaro con al centro gli Stati uniti e di cui faceva parte anche il Ca-nada e in minor misura il Sudamerica e dal blocco del marco incentrato sulla Germania e basato su un complesso sistema di accordi di pagamento in regime di compensazione denominati clearing, che erano una specie di baratto. Questo sistema coin-volgeva vari paesi dell’europa centro-orientale e finì per attrar-

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re la stessa italia a partire dal 1936 quando i legami tra italia fascista e Germania nazista divennero più stretti.

Figura 3.3 - Schema semplificato del sistema internazionale dei pagamenti dopo il 1931

infatti, per i paesi esclusi dal mercato di Londra e in assenza di altre valute internazionali che non fossero la sterlina (prezio-sa anche se non più convertibile perché permetteva di comprare dall’impero britannico), il dollaro (che rimase sempre converti-bile in oro) o l’oro, l’unica soluzione per continuare almeno a commerciare tra loro fu quella dei clearing con tutti i limiti che questi comportavano in quanto trasformavano il commercio mul-tilaterale (e cioè tra vari paesi in cui il paese a poteva importare dal paese B senza vendergli niente in quanto il pagamento pote-va avvenire grazie alle vendite ai paesi C, D, e) in commercio bilaterale (e cioè dove a doveva trovare le risorse per pagare B

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attraverso vendite allo stesso B o riduzioni degli acquisti fino ad ottenere il pareggio tra vendite e acquisti). il problema è che in un sistema di commercio basato sul clearing, proprio perché si tratta di una specie di baratto, il valore del commercio totale si riduce. infatti, un paese che potrebbe vendere ad un altro paese più di quanto deve comprare deve invece vendere meno perché il paese acquirente non ha abbastanza merci da scambiare. Se in-vece di un sistema di clearing, fosse possibile adottare un siste-ma di pagamenti internazionale, o almeno un sistema di clearing multilaterale, cioè un sistema in cui si compensano gli scambi tra più di due paesi, anche solamente esteso ad un numero limitato di paesi, il commercio aumenterebbe in quanto un paese potrebbe ottenere i mezzi con cui pagare agli altri paesi la differenza tra merci esportate e merci importate.

il problema dell’isolamento dal sistema degli scambi mondiale e dei clearings negli anni Trenta fu drammatico per molti paesi dell’europa continentale e influenzò la loro futura positiva attitu-dine a cercare soluzioni a livello europeo per le questioni moneta-rie, soluzioni che si prospettarono solo dopo la guerra poiché per trovarne negli anni Trenta sarebbe stato indispensabile trovare accordi con la Germania di Hitler.

3 – L’Unione europea dei pagamenti

La fine della guerra non significò la fine dell’isolamento eco-nomico internazionale di cui avevano sofferto i paesi dell’europa continentale nel corso degli anni Trenta. il reinserimento delle economie europee nel sistema internazionale degli scambi diven-ne ancor più complesso dopo il fallimento del ritorno alla con-vertibilità della sterlina nel 1947. Tale fallimento privò i paesi dell’europa occidentale della possibilità di esportare in Gran Bretagna e procurarsi sterline da convertire in dollari con cui pagare le importazioni essenziali di materie prime e macchinari. infatti, i paesi europei avevano bisogno di dollari o oro per com-prare merci dall’estero perché le loro valute non erano accettate.

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per ottenere oro o dollari i paesi europei avevano bisogno di po-ter commerciare con gli Usa che erano i soli ad averne in gran quantità, ma gli europei non avevano niente da esportare a causa delle distruzioni del tempo di guerra e invece avevano bisogno di acquistare molti prodotti.

L’unica soluzione era di ridurre al minimo le importazioni dai paesi che volevano essere pagati in oro o dollari e commerciare di più con i paesi che erano disposti ad accettare merci, cioè gli altri paesi dell’europa continentale. Fu dunque indispensabile re-cuperare le esperienze di gestione del commercio intra-europeo tramite sistemi di compensazione maturate negli anni Trenta, affi-nando gli strumenti di compensazione e trasformandoli da sistemi bilaterali a un sistema centralizzato di scambi multilaterali cor-redato di un fondo di compensazione. Questo sistema altro non fu se non l’Unione europea dei pagamenti (Uep) che dal 1950 al 1958 favorì la ripresa e lo sviluppo degli scambi tra i paesi dell’europa occidentale, ma anche l’integrazione tra le economie di detti paesi, integrazione che avrebbe poi favorito il processo d’integrazione europea nel suo complesso.

L’Unione europea dei pagamenti rappresentò il vero motore d’avviamento dell’integrazione economica europea. infatti, fu grazie all’Uep e ai finanziamenti messi a disposizione dagli ame-ricani con una parte del piano Marshall che in europa fu possibile ricostruire un sistema di scambi. L’Unione europea dei pagamen-ti funzionava come un centro di compensazione che finanziava temporaneamente i deficit dei paesi che ne facevano parte. invece di scambiarsi merci tra loro, i paesi membri dell’Uep segnala-vano debiti e crediti alla stessa Uep indicando il valore di tali somme in dollari americani in base ai tassi di cambio stabiliti a Bretton Woods nel 1944. L’Uep provvedeva allora a compensare tra loro i debiti e i crediti di tutti i paesi (clearing multilaterale) e non più quelli tra ogni coppia di paesi (clearing bilaterale) come accadeva negli anni Trenta. in questo modo si tornava ad opera-re in un sistema internazionale (regionale) di pagamenti, ma nel caso dell’Uep il centro di compensazione non era più un merca-

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to finanziario, ma un’istituzione. La differenza tra un sistema di scambi multilaterali tradizionale e quello costituito dall’Uep può essere rappresentato come appare nella seguente figura.

Figura 3.4 - Schema semplificato di sistemi di pagamenti internazionali

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Se poi un paese non riusciva a vendere abbastanza agli altri paesi nel loro complesso, l’Uep poteva usare un fondo in dollari di cui disponeva grazie ad un finanziamento del piano Marshall e che poteva prestare per un certo tempo ai paesi in debito per pagare quelli in credito. in questo modo il sistema di clearing multilaterale dell’Uep era ancora più efficiente di un semplice sistema di clearing multilaterale perché non solo permetteva di aumentare il commercio della quota che invece doveva essere ta-gliata nel caso dei clearing bilaterali, ma permetteva un ulteriore incremento equivalente al finanziamento erogato dal suo fondo.

il sistema di scambi gestito dall’Uep aveva anche una speci-fica caratteristica che risultò cruciale per l’integrazione europea. infatti, se è vero che l’Uep permise ai paesi europei di riavviare il commercio internazionale, questo sistema funzionava solo tra i paesi che ne facevano parte e cioè quelli membri dell’Uep. Questo indusse i paesi europei, soprattutto quelli dell’europa continenta-le occidentale, a scambiarsi più merci tra loro di quanto facesse-ro prima della guerra. S’ipotizza, infatti, che i paesi in questione prima della crisi degli anni Trenta scambiassero tra loro un terzo delle merci mentre i restanti due terzi li scambiavano con paesi d’oltremare. alla fine degli anni Cinquanta la situazione era rove-sciata e i paesi dell’europa continentale occidentale scambiavano tra loro due terzi delle merci che commerciavano. Grazie anche o soprattutto all’Unione europea dei pagamenti l’europa si stava integrando economicamente.

Fu dunque agli inizi degli anni Cinquanta ed in concomitanza con altri passi significativi nell’integrazione europea, che si pose-ro le basi per intraprendere il cammino che avrebbe portato mezzo secolo dopo all’adozione di una comune valuta europea. Questo significa che la creazione della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (Ceca), comunemente ritenuta il primo passo del processo d’integrazione europea, fu invece solo la prima istitu-zione a raccogliere quel limitato numero di paesi che formarono in seguito la Comunità economica europea (Cee) e cioè l’ante-signana dell’Unione europea. L’Uep comprendeva invece molti

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altri paesi oltre ai sei membri fondatori della Ceca e poi della Cee. Gran parte di questi paesi non partecipò inizialmente alle prime istituzioni europee, ma è significativo notare che oggi gran parte dei paesi che costituivano l’Unione europea dei pagamenti fanno parte dell’Unione europea.

possiamo così lecitamente chiederci quando è iniziata davve-ro l’integrazione europea: nel 1950 con l’Uep o nel 1951 con la Ceca? probabilmente potremmo individuare in questo passaggio l’inizio della dualità tra integrazione politica, riconducibile alla creazione delle istituzioni della Ceca, e integrazione economica e monetaria chiaramente avviatasi con l’Uep.

4 – Il sistema di Bretton Woods

L’Unione europea dei pagamenti rappresenta in un certo senso una parentesi nel processo d’integrazione europea, in particolar modo dell’integrazione monetaria. infatti, dal 1958 i paesi euro-pei occidentali riuscirono a reintegrarsi nel rinato sistema mon-diale dei pagamenti grazie all’adesione al cosiddetto sistema di Bretton Woods che altro non era se non un nuovo tipo di Gold standard (infatti era chiamato Gold exchange standard) in cui la convertibilità era fatta in dollari invece che in oro.

Questo nuovo sistema monetario internazionale fu creato nel 1944 quando, in vista dell’ormai prossima sconfitta delle forze te-desche e giapponesi, i rappresentanti di molti paesi si riunirono in un’amena località negli Usa, Bretton Woods appunto, e decisero tra le altre cose di creare un sistema per tornare alla convertibilità delle valute nazionali. La scarsità di oro a disposizione di gran parte di questi paesi ad eccezione degli Stati uniti non permetteva però il mantenimento di riserve sufficienti per garantire la conver-tibilità. Solo gli Stati uniti, che avevano accumulato sempre più oro grazie ai surplus commerciali verificatisi fin dalla fine della prima guerra mondiale, potevano permettersi la convertibilità. a Bretton Woods si decise così di ricreare il Gold standard, ma di basarlo non più sulla convertibilità in oro, ma su quella in dollari

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e sterline. il fallimento del ritorno alla convertibilità della sterli-na nel 1947 si risolse con l’utilizzo del solo dollaro come valuta internazionale. i dollari necessari a far funzionare il sistema arri-varono da prestiti americani, ma anche dalle loro spese all’estero che aumentarono molto negli anni Cinquanta come conseguenza della guerra di Corea, del riarmo e del mantenimento all’estero di contingenti militari. Questo sistema garantì agli americani un po-tere enorme per il semplice motivo che, perlomeno fino al crollo del Gold exchange standard, gli americani si poterono permettere grandi spese all’estero semplicemente stampando dollari.

il sistema di Bretton Woods, pur se creato nel 1944, impiegò diversi anni prima di entrare a regime in tutti i paesi. in partico-lare in europa, fu necessario del tempo prima che i vari paesi riuscissero ad accumulare abbastanza dollari e tornare alla con-vertibilità. Fu solo nel 1958 che i paesi dell’Unione europea dei pagamenti tornarono alla convertibilità, liquidando dunque l’Uep.

La fine dell’Uep costituiva però un grave pericolo per le economie dei paesi membri ad eccezione della Gran Bretagna. infatti, il meccanismo di funzionamento dell’Uep con il suo si-stema di compensazione tra i soli paesi membri aveva funzio-nato come una barriera doganale permettendo la ripresa delle economie europee grazie ad una specie di protezionismo mone-tario. i paesi che facevano parte dell’Uep potevano sfruttarne i vantaggi solo comprando e vendendo merci tra loro e questo li aveva protetti dalla concorrenza esterna su molti prodotti per-ché i non-membri dell’Uep non potevano farsi pagare da clienti che non avevano valuta pregiata od oro e nemmeno accettare valute non ancora convertibili, mentre i paesi membri dell’Uep ci riuscivano. Una volta smantellata l’Unione europea dei paga-menti questa protezione sarebbe venuta meno, con gravi riper-cussioni sulle economie di molti paesi, in particolare Francia e Germania. Questo indusse questi paesi, che già collaboravano nell’ambito della Ceca, a cercare una soluzione alternativa per garantirsi ancora una certa protezione e questa soluzione fu la Comunità economica europea e la conseguente unione dogana-

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le entrata in vigore il 1 gennaio 1958 e cioè il giorno dopo la chiusura dell’Unione europea dei pagamenti.

il periodo che va dal 1958 al 1971, pur se problematico nei suoi ultimi anni, rappresenta una sorta di periodo ottimale per l’integrazione economica europea, nonostante sia quello in cui ben pochi passi rilevanti furono compiuti nel campo dell’integra-zione politica dopo i trattati di roma che istituirono appunto Cee ed euratom. infatti, in quegli anni i paesi della Cee beneficiarono contemporaneamente dei vantaggi del sistema di Bretton Woods che garantiva loro l’inserimento nel sistema internazionale dei pagamenti e di una relativa protezione delle produzioni interne, soprattutto quelle agricole. Sul finire degli anni Sessanta, però, questa situazione cominciò a deteriorarsi e a dimostrarsi insoste-nibile. Con la guerra del Vietnam ed il progressivo peggioramen-to della bilancia commerciale americana, la quantità di dollari in circolazione aumentò notevolmente mentre le riserve auree statu-nitensi diminuirono in modo preoccupante, tanto da far dubitare dell’effettiva capacità americana di garantire la convertibilità del dollaro. Tali dubbi si dimostrarono fondati quando, nell’agosto 1971, l’allora presidente nixon sospese la convertibilità e, di fat-to, pose fine al sistema di Bretton Woods.

Dopo la fine del sistema di Bretton Woods, gli sforzi europei si concentrarono non tanto sull’integrazione monetaria, ma sul-la reintegrazione monetaria in quanto fino al 1971 l’integrazio-ne monetaria esisteva già. in questo senso, gli eventi che hanno portato all’introduzione dell’euro possono essere considerati la fine di un processo di reintegrazione monetaria più che l’inizio dell’integrazione monetaria vera e propria.

a dire il vero, i paesi della Cee avevano cercato di anticipare l’ormai imminente crollo del Gold exchange standard pianifican-do un’unione monetaria prospettata con il piano Werner del 1969. Quest’unione, che avrebbe dovuto realizzarsi in tre fasi, sarebbe dovuta sfociare nel 1980 nell’adozione di una moneta unica. pur-troppo, prima la crisi del dollaro del 1971 che portò alla fine del sistema di Bretton Woods e poi la crisi petrolifera del 1973 im-

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pedirono di realizzare il piano Werner. infatti, per procedere con l’unificazione monetaria era necessario che le monete dei diversi paesi mantenessero cambi stabili tra loro come appunto avveniva nel sistema di Bretton Woods. inoltre, era necessaria una certa convergenza tra le economie dei paesi che volevano raggiungere l’unificazione monetaria, ma la crisi petrolifera del 1973 colpì duramente le economie di alcuni paesi, in primis l’italia, e rese necessaria la svalutazione delle loro monete e quindi la fine della stabilità dei cambi tra valute della Cee.

5 – Alla ricerca dell’integrazione perduta

Con la fine del Gold exchange standard i paesi della Cee tenta-rono di ricreare una qualche forma di coordinamento monetario, sia collaborando con gli americani, sia agendo autonomamente. nel dicembre 1971 fu raggiunto un accordo per mantenere legate al dollaro le valute che prima facevano parte del Gold exchange standard. i vari governi s’impegnarono a mantenere i cambi delle loro monete rispetto al dollaro entro dei margini di oscillazione di più o meno 2,25%. in questo modo anche i cambi delle valute europee sarebbero rimasti abbastanza stabili tra loro, anche se si ritenne che il 2,25% in più o in meno fosse troppo. Fu così che i paesi della Cee decisero di autoimporsi dei margini di oscillazio-ne più limitati dando vita a quello che fu poi chiamato il serpen-te monetario. Tale nome derivava dalla rappresentazione grafica dell’andamento dei cambi dove il gruppo delle valute europee sembrava muoversi come un serpente che striscia in un tunnel. Questo sistema durò ben poco e la crisi petrolifera del 1973 spaz-zò via le residue speranze di ricostituire una certa stabilità dei cambi tra le valute dei paesi della Cee.

La fine della stabilità monetaria nei paesi della Cee, creò dei serissimi rischi di de-integrazione se non addirittura di disintegra-zione della Comunità. avere cambi che fluttuavano e cambiavano ogni giorno, con una marcata tendenza di alcune valute alla svalu-tazione nei confronti delle valute più forti quali il marco tedesco,

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metteva in difficoltà il sistema di calcolo dei sussidi da pagarsi ai coltivatori nell’ambito della politica agricola. inoltre, a secon-da di come variavano i cambi variavano anche le quantità delle merci scambiate tra i paesi Cee perché a seconda del valore delle monete il prezzo dello stesso prodotto poteva essere concorren-ziale o non concorrenziale sui mercati dei paesi diversi da quello dove il bene veniva prodotto. Questo limitava di molto l’incenti-vo per le imprese più efficienti ad ampliare impianti e produzioni, proprio perché non c’era certezza che lo stesso prodotto che in un momento era molto richiesto sul mercato comunitario lo sa-rebbe stato a lungo. in pratica, così come la stabilità dei cambi in qualche modo garantita dall’Unione europea dei pagamenti e poi resa effettiva dalla piena entrata a regime del sistema di Bretton Woods aveva creato le condizioni per la convergenza economica e l’integrazione, il venir meno di questa condizione rischiava di bloccarle e farle recedere.

Gli anni Settanta del secolo scorso furono probabilmente i più difficili per l’integrazione economica europea con una sequenza micidiale di eventi iniziata con la fine del sistema di Bretton Wo-ods, continuata con la crisi petrolifera del 1973 e culminata nella crisi petrolifera del 1979 generata dalla rivoluzione iraniana. Tali difficoltà non fermarono gli sforzi dei paesi della Cee per ritrova-re stabilità monetaria e ravvivare il processo d’integrazione. nel 1979 fu creato il Sistema monetario europeo (Sme), un sistema relativamente simile al Serpente monetario e che mirava a ricrea-re un sistema di cambi manovrati tra le valute dei paesi della Cee. a differenza dei sistemi di Gold standard dove i cambi erano fissi e quindi il valore di una moneta espresso in un’altra moneta era costante, nel Sistema monetario europeo i cambi variavano, ma lo facevano entro certi limiti e cioè in una banda di oscillazione rispetto ad ognuna delle altre monete che era molto ristretta. Se una valuta si svalutava o si rivalutava troppo rispetto ad un’altra le banche centrali dovevano intervenire vendendo o comprando la loro moneta per farne rientrare il valore (cioè il tasso di cambio rispetto alla moneta o alle monete degli altri paesi della Cee) nei

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limiti imposti dal Sistema monetario europeo. proprio questa mo-dalità d’intervento rappresentava il maggior problema dello Sme. infatti, in una situazione come quella descritta sopra a chi tocca-va intervenire? Quale banca centrale avrebbe dovuto vendere o comprare valuta? Quella del paese con la moneta che si svalutava troppo o quella del paese con la moneta che si rivalutava troppo (che spesso era il marco tedesco)?

per tutti gli anni ottanta l’efficacia dello Sme risentì di que-sto dilemma irrisolto e della tendenza della Germania a scari-care l’onere dei raggiustamenti sulle banche centrali degli altri paesi, finché verso la fine del decennio questi ultimi cercarono di risolvere il problema riformando lo Sme. a tale riforma si sarebbe dovuti arrivare tranne negoziazioni che invece, sotto la spinta degli eventi internazionali e della riunificazione tedesca, portarono al trattato di Maastricht ed all’avvio del processo di unificazione monetaria.

Sull’ineluttabilità di questa scelta, e cioè la creazione di una moneta unica, si è molto dibattuto. Già nel 1948 era stata pro-spettata l’introduzione di una moneta unica europea che avrebbe dovuto chiamarsi euro oppure europa. Questo progetto fu subito abbandonato, ma la questione tornò alla ribalta alla fine degli anni Sessanta con il piano Werner e la crisi del sistema di Bretton Wo-ods. La difficile situazione degli anni Settanta fece fallire il pro-getto d’integrazione monetaria, sostituito da una soluzione molto più flessibile quale lo Sme. però, negli anni ottanta la necessità di stabilità monetaria riemerse a causa della manifesta arretratezza e della scarsa competitività delle economie europee nei confronti di Stati uniti e Giappone. i paesi comunitari, proprio a causa della frammentazione del mercato comunitario dovuta anche (ma non solo) all’esistenza di tante valute nazionali con cambi che varia-vano continuamente, non potevano competere con americani e giapponesi. i primi disponevano di un enorme mercato interno che potevano sfruttare per avere economie di scala. Le grandi case automobilistiche o delle costruzioni aeronautiche sapevano che, comunque andasse il cambio del dollaro avrebbero potuto contare

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sul mercato interno e quindi potevano permettersi di espandere le loro produzioni a livelli che gli europei, proprio perché potevano contare su mercati interni molto più piccoli, non potevano fare. i giapponesi invece, avevano basato la loro espansione economi-ca sull’alta tecnologia e competere con loro richiedeva notevoli investimenti per la ricerca e l’ammodernamento degli impianti. anche in questo caso la limitatezza del mercato interno rendeva molto rischiosi questi investimenti per le aziende europee. La so-luzione più semplice per ovviare a questi svantaggi era quella di creare un grande mercato comunitario che permettesse economie di scala e investimenti sufficienti per recuperare il divario che divideva i paesi della Cee dai concorrenti americani e giapponesi.

a questo scopo fin dai primi anni ottanta i paesi della Cee ri-cominciarono a negoziare ulteriori passi verso l’integrazione, so-prattutto quella economica e monetaria. per ridurre la frammen-tazione del mercato europeo si puntò alla creazione del cosiddetto “mercato unico” nel quale non solo non esistessero barriere doga-nali, ormai abolite fin dalla fine degli anni Sessanta, ma nemme-no barriere non tariffarie quali diverse normative sulle tipologie di prodotto che impedissero od ostacolassero la vendita di prodot-ti non nazionali, aiuti di stato che distorcessero la concorrenza o, infine, ostacoli dovuti alla fluttuazione dei cambi. Questi sforzi culminarono nell’atto unico europeo del 1986 che fu un passag-gio cruciale e sancì il rilancio del processo d’integrazione. L’atto unico europeo aveva tra i suoi principali propositi la creazione del mercato unico entro il 1992 e introdusse una serie di norme e di principi volti a garantire la libera circolazione delle merci e la concorrenza. Queste, unite alla stabilità dei cambi, avrebbero ga-rantito una ben più profonda integrazione economica che, ancora una volta, avrebbe permesso di superare i limiti strutturali delle economie degli stati nazionali europei senza limitarne eccessiva-mente la sovranità nazionale.

Così come l’unificazione tedesca produsse una forte accele-razione del processo d’integrazione economica e monetaria, allo stesso tempo creò le condizioni per la crisi di alcune sue com-

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ponenti essenziali, primo tra tutti il Sistema monetario europeo. Come abbiamo detto, il problema principale dello Sme era l’at-tribuzione degli oneri dell’intervento. a questo si aggiungeva una costante tensione tra le monete dei paesi economicamente più forti e affidabili (soprattutto il marco tedesco) e quelle dei paesi più deboli e propensi a svalutazioni per recuperare competitività quali la lira italiana. Quando la Germania si riunificò, il governo tedesco dovette investire grandi somme e attrarre capitali per fi-nanziare la ricostruzione dell’est. Questo fece aumentare i tassi d’interesse sui mercati internazionali costringendo gli altri paesi dello Sme a pagare tassi sempre più alti sul debito pubblico visto che gli investitori internazionali a parità di tassi d’interesse prefe-rivano prestare o investire nella più affidabile Germania. Questo causò una situazione insostenibile per diversi paesi tra cui l’italia che, per uscire da questo circolo vizioso tra 1992 e 1993 furono costretti ad uscire dallo Sme e a svalutare le loro monete.

6 – Gli anni dell’euro

nonostante la profonda crisi che colpì quella che potremmo chiamare l’europa di Maastricht, il cammino verso l’integrazione monetaria non s’interruppe. Tra 1993 e 1997 ci furono molti con-trasti tra coloro che propendevano per un’interpretazione rigida del trattato di Maastricht nelle sue parti inerenti i criteri che i paesi membri dovevano rispettare per aderire alla moneta unica e coloro che invece avrebbero preferito un’interpretazione più fles-sibile tale da permettere l’adozione dell’euro al maggior numero possibile di paesi.

Questi criteri su cui verteva il dibattito erano i cosiddetti pa-rametri di convergenza del patto di stabilità incluso nel trattato di Maastricht (più semplicemente detti parametri di Maastricht). Questi parametri imponevano ai paesi che volevano entrare nell’euro di avere un deficit non superiore al 3% del prodotto interno lordo (pil), un debito pubblico non superiore al 60% del pil, inflazione non superiore dell’1,5% alla media dei tassi d’in-

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flazione dei tre paesi dell’Unione europea con l’inflazione più bassa, tassi d’interesse a lungo termine non superiori al 2% rispet-to alla media degli stessi tassi dei tre paesi dell’Unione europea con l’inflazione più bassa e di essere rimasti con la loro valuta nazionale entro la cosiddetta banda ristretta dello Sme senza sva-lutare per almeno i due anni precedenti all’adozione dell’euro. Ben pochi dei paesi candidati all’adozione dell’euro rispettavano questi parametri, in particolare quello inerente l’entità del debito pubblico che in paesi come l’italia e il Belgio superava il 100% del pil. Si cominciò a parlare allora di “europa a due velocità” avanzando l’ipotesi che ad adottare l’euro fossero inizialmente solo quei paesi che rispettavano i parametri di Maastricht, salvo poi ampliare progressivamente l’area euro ammettendovi i paesi che, pur essendone stati inizialmente esclusi, fossero riusciti a ri-entrare nei limiti imposti dai parametri. Tale ipotesi si scontrava con la logica stessa dell’integrazione monetaria e rischiava di fare dell’euro una moneta franco-tedesca invece che europea.

nonostante le forti resistenze di alcuni settori del governo te-desco, si decise infine di adottare un’interpretazione più flessibile dei parametri decidendo di ammettere anche quei paesi che dimo-strassero la volontà e la capacità di ridurre significativamente il debito pubblico per farlo convergere verso il parametro del 60%. alla fine quasi tutti i paesi firmatari del trattato di Maastricht fu-rono ammessi nell’Unione monetaria, ad eccezione della Grecia a cui fu concesso un anno in più per allinearsi ai parametri applicati agli altri paesi, della Gran Bretagna che decise di utilizzare la clausola dell’opting out concessagli a Maastricht e di non entrare nell’euro, e della Danimarca a cui era stata concessa una preroga-tiva simile per ovviare ai problemi sorti dopo che il referendum nazionale aveva bocciato l’adozione del trattato di Maastricht. La Svezia che non rispettava deliberatamente i criteri di ammissibili-tà restò fuori dalla moneta unica. il 31 dicembre del 1998 furono rivelati ufficialmente i cambi fissi ed irreversibili tra le varie mo-nete, cambi che entrarono in vigore il seguente 1 gennaio 1999 e che rimasero in vigore fino all’introduzione della moneta unica

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che avvenne il 1 gennaio del 2002. nel frattempo, per la precisio-ne il 1 gennaio 2001, anche la Grecia entrò nel novero dei paesi in procinto di adottare l’euro. altri paesi si aggiunsero in seguito, anche in conseguenza dell’allargamento dell’Unione europea del 2004. nel 2007 la Slovenia adottò l’euro, seguita nel 2008 da Cipro e Malta, nel 2009 dalla Slovacchia ed infine da estonia e Lettonia rispettivamente nel 2011 e 2014.

L’introduzione dell’euro segnò un passaggio storico cruciale per l’integrazione europea, ma allo stesso tempo generò polemi-che e tensioni destinate ad amplificarsi negli anni, soprattutto di fronte alla difficoltà di coordinare le politiche nazionali con i vin-coli europei, primo tra tutti il rispetto dei parametri di Maastricht. Già nel 2004 era risultato evidente che il patto di stabilità non funzionava perché le norme che regolavano l’adozione di san-zioni contro i paesi che non lo rispettavano erano troppo difficili da far applicare. Si decise così di rendere il patto più flessibile adottando nel 2005 una riforma che permetteva ai paesi con debi-to pubblico inferiore al 60% del pil di sforare temporaneamente il limite al deficit del 3% del pil. Questa norma andò soprattut-to a vantaggio di Germania e Francia ma anche dei nuovi paesi dell’est appena ammessi nell’Unione (ma non nell’euro) e che pure dovevano rispettare i criteri di Maastricht.

L’avvio della crisi del 2007 e la sua progressiva ma rapida estensione all’Unione europea amplificarono i problemi legati alla gestione della moneta unica. Gran parte dei paesi dell’Unio-ne non riuscì a rispettare i parametri del patto di stabilità proprio a causa delle ripercussioni della crisi, della necessità d’interventi finanziati dallo Stato per salvare banche e imprese e per la dimi-nuzione del pil causata dalla riduzione delle attività economiche. Questa situazione e la generale crisi di fiducia che toccò i mercati finanziari internazionali provocarono delle gravi ripercussioni sui paesi più deboli dell’area dell’euro, soprattutto quelli del Sud eu-ropa e in particolare la Grecia la cui fragilità economica richiese interventi di supporto finanziario da parte degli altri paesi dell’eu-ro, preoccupati che la crisi greca si potesse estendere ad altri paesi

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quali italia, Spagna e portogallo che pure erano in gravi difficoltà nel sostenere il loro debito pubblico.

Le istituzioni europee e gli stati membri dell’area euro reagiro-no a queste difficoltà principalmente in due modi. in primo luogo tra 2011 e 2013 furono istituiti degli enti che aiutassero i paesi in difficoltà a fronteggiare la crisi finanziaria e del debito pubbli-co (la cosiddetta crisi dei debiti sovrani). Questo processo sfociò nell’istituzione del Meccanismo europeo di stabilità (il cosiddetto fondo salva stati) che ha il compito di operare sul mercato per sostenere i titoli pubblici dei paesi dell’euro in difficoltà. in se-condo luogo, l’Unione europea, soprattutto per iniziativa dei suoi principali stati membri, avviò un’opera di rafforzamento di quella che è chiamata la governance economica europea introducendo nuove e più stringenti norme per la gestione delle economie na-zionali, per la riduzione del debito pubblico e per semplificare l’applicazione di sanzioni ai paesi che non rispettano le regole ed i parametri stabiliti. Questo avvenne sia tramite nuove norme, sia tramite trattati tra paesi membri il più noto dei quali è il cosiddet-to Fiscal compact.

il più stringente controllo esercitato dall’Unione europea, i sa-crifici e le politiche di austerità imposte ai paesi in crisi, ma anche la loro incapacità di realizzare riforme significative in grado di risolvere problemi strutturali in campo economico e politico, ali-mentano ormai da tempo il dibattito sull’integrazione e il montan-te antieuropeismo. Questo rende l’integrazione monetaria e l’eu-ro, allo stesso tempo simbolo dell’europa che si unisce ma anche del superamento della sovranità nazionale degli stati membri, il vero spartiacque che deciderà il futuro dell’integrazione europea.

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parTe ii

coMe funziona l’unione europea

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Capitolo 4

le specificità dell’unione europea

Uno dei principali problemi che sorgono quando si tenta di spiegare cos’è l’Unione europea è quello di definirne la natura in termini politici. L’Unione europea non è uno Stato e non è equi-valente a nessun tipo di Stato, nemmeno ad una confederazione. L’Unione europea non è nemmeno un’istituzione internazionale come l’onu o il Fondo monetario internazionale, ma al limite un complesso d’istituzioni internazionali di rilevanza regionale, cioè che hanno legittimazione ad agire in una specifica area del pianeta ed in specifici campi.Gli studiosi hanno solo parzialmente risol-to il problema della definizione della natura dell’Unione europea utilizzando il concetto di Regional Integration Agreement (ria) e definendola così come un accordo d’integrazione regionale come altri ne esistono al mondo, ma a uno stadio molto avanzato. Questa definizione, per quanto tecnicamente corretta, lascia però piuttosto a desiderare in quanto a concretezza.

Dato che l’Unione europea non è uno Stato, non ci si può certo meravigliare del fatto che non funzioni come uno Stato, per quan-to siano molti gli sforzi fatti dall’Ue e dalle istituzioni europee per sembrarlo. Le differenze tra il funzionamento dell’Unione europea e quelle di uno Stato nazionale sono molto marcate soprattutto in

Questo capitolo è stato scritto da Roberto Di Quirico

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alcuni campi come quello della politica economica e fiscale, quel-lo della politica estera e più in generale nel campo della rappresen-tanza. proprio riguardo a quest’ultimo campo si è molto dibattuto mettendo in dubbio l’effettiva democraticità dell’Unione europea.

1 – Democrazia e antieuropeismo

Come vedremo, e a differenza degli stati nazionali, l’Unione europea è governata da un complesso sistema di equilibri tra le sue istituzioni e in cui l’unica istituzione di rappresentanza diretta, e cioè il parlamento, ha un peso limitato o comunque non sempre determinante. Questo ha fatto parlare di gap democratico dell’U-nione europea, anche se bisogna riconoscere che le altre istituzio-ni europee che sottraggono poteri al parlamento sono pur sempre consessi costituiti da figure istituzionali e di governo (capi di sta-to e di governo, ministri) espresse dai paesi membri e selezionate tramite meccanismi democratici a livello nazionale. infatti, sono i parlamenti nazionali e i cittadini degli stati membri che eleggono i loro capi di stato e di governo e legittimano le cariche dei loro mi-nistri. Quindi, parlare di gap democratico dell’Unione europea non significa necessariamente sostenere che l’Unione europea non sia un’entità democratica, ma al massimo che non gode di sufficiente legittimazione democratica diretta. resta il fatto che nelle pieghe che si formano tra politica nazionale e politica europea, si creano spesso margini di discrezionalità sfruttati dai politici per scaricare sull’Unione europea scelte impopolari e di cui, invece, dovrebbero essere loro a render di conto ai cittadini che rappresentano.

La questione del gap democratico è di grande importanza per-ché attorno ai dubbi sulla democraticità dell’Unione europea or-bita una parte rilevante del dibattito sull’antieuropeismo e cioè sull’opposizione al processo d’integrazione europea. Questo dibattito è sia accademico, sia politico. il dibattito accademico non mira necessariamente a dimostrare l’inutilità o la pericolosità dell’integrazione europea, ma semplicemente a capire le ragio-ni che generano ostilità nei confronti di tale processo. il dibatti-

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to politico mira invece a contestare l’opportunità di proseguire sul cammino dell’integrazione europea. Le principali forme di antieuropeismo si basano sulla contestazione di specifici aspet-ti del processo integrativo. Uno di questi aspetti, anche se non il più importante, è la natura laica del processo d’integrazione e la negazione delle radici cristiane dell’europa e della cultura europea. Questo tipo di argomentazione, peraltro condivisa dalle formazioni cattoliche che sostengono l’integrazione e dall’estre-ma destra che invece la osteggia, si è manifestata con forza agli inizi degli anni Duemila, quando si tentò di stilare una sorta di costituzione europea.

altro elemento caratteristico degli antieuropeisti di destra è il rifiuto della società multiculturale che deriva dall’apertura dei confini tra gli stati membri e dalla libera circolazione delle persone. Questo elemento si collega alla più generale questione della salva-guardia delle identità nazionali e delle tradizioni locali che si è manifestata nei più svariati modi (questione della difesa dei prodot-ti tipici nazionali, riconoscimento da parte di alcuni stati membri dei matrimoni omosessuali, diversità dei codici penali e di cioè che è lecito o illecito nei vari paesi) e che rappresenta comunque una questione importante anche nei rapporti politici tra stati membri.

esistono poi forme di antieuropeismo di sinistra che sono pre-valentemente centrate sulla natura spiccatamente liberista dell’U-nione europea che mette in pericolo le politiche sociali e di re-distribuzione della ricchezza particolarmente sviluppate in certi paesi. Un esempio molto attuale di tale filosofia liberista è il so-stegno alle politiche di rigore e al taglio della spesa pubblica so-stenute dall’Unione europea per fronteggiare la crisi economica e del debito sovrano cioè del debito pubblico degli stati membri. in particolare, le critiche e l’ostilità nei confronti dell’Unione economica e monetaria europea e dell’euro rappresentano una forma di antieuropeismo che ha una forte presa sia sulle forma-zioni di estrema destra, sia su quelle di estrema sinistra e che pure trova ampio riscontro, pur se per diverse ragioni, tra i cittadini eu-ropei. Le ragioni dell’antieuropeismo saranno talvolta accennate

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nei capitoli che seguono, ma è importante sottolineare subito al-cuni aspetti. in primo luogo, l’antieuropeismo non è solo il frutto d’ideologie estremiste o populiste come spesso si crede o si vor-rebbe far credere. Molte posizioni critiche verso il processo d’in-tegrazione sono fondate o comunque degne di considerazione. il problema dell’identità cristiana dell’europa è un problema reale e strettamente connesso al tipo di valori che dovrebbero ispirare il processo d’integrazione. anche la diffidenza verso la stabilità e le prospettive di sopravvivenza dell’Unione monetaria hanno un fondamento reale tanto che ormai sono condivise da molti econo-misti stranieri che, proprio perché stranieri, non hanno ragione di osteggiare l’integrazione europea per motivi di convinzione poli-tica e per le ripercussioni sulla loro esistenza.

altra cosa dall’antieuropeismo è l’euroscetticismo o le sem-plici posizioni critiche verso certi aspetti dell’integrazione eu-ropea. euroscetticismo non significa necessariamente ostilità all’integrazione. Spesso gli euroscettici sono convinti sostenitori dell’unificazione politica ed economica dell’europa, ma ritengo-no sbagliati o inefficaci i modi con cui è portata avanti o anche insinceri i propositi europeisti di molti politici.

per studiare in modo approfondito l’integrazione europea e i modi con cui detto processo avanza o stagna è dunque molto importante affrontare in modo equilibrato la contrapposizione tra europeismo e antieuropeismo, non fosse altro che per la crescente disaffezione dei cittadini nei confronti dell’Ue testimoniata dai bassissimi tassi di partecipazione alle elezioni europee. porre l’accento sull’impor-tanza di questa contrapposizione è molto importante perché in molti ambienti, anche in quelli accademici e più in generale tra le persone più colte, l’europeismo entusiastico ha fatto molta presa, creando però una visione idilliaca dell’integrazione europea che poco ha a che vedere con la realtà. Questo è stato possibile grazie al grande impegno dell’Unione europea e degli stati nazionali nell’enfatizzare i lati positivi dell’integrazione collocandoli in un’aura di ottimismo e d’ineluttabilità ampiamente smentita dai fatti.

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2 – Un’economia senza uno Stato

altro elemento caratteristico dell’Unione europea è lo squili-brio tra i livelli d’integrazione. Mentre nel campo dell’integrazio-ne economica e monetaria si è raggiunto un livello molto avan-zato se non quasi la completa integrazione, nel campo politico il processo di creazione di uno Stato europeo stenta a decollare e talvolta sembra addirittura recedere.

L’assenza di uno Stato europeo comporta dei gravi problemi anche per la gestione dell’economia comunitaria e della moneta unica, com’è più volte emerso negli ultimi anni. infatti, l’assenza di uno Stato europeo costringe i paesi membri a intavolare trat-tative e siglare nuovi trattati ogni qual volta si presentano situa-zioni di emergenza oppure quando si vogliono attuare misure che in uno Stato sono prerogativa del governo o del parlamento. Un esempio è costituito dall’assenza a livello comunitario di una po-litica fiscale che permetterebbe di attuare direttamente misure di redistribuzione del reddito a favore delle aree più disagiate. Que-sto accade a livello comunitario tramite la politica di coesione, ma con procedure e meccanismi che non sono adatti ad affrontare crisi repentine oppure a sostenere linee generali di una politica economica che non esiste a livello comunitario.

Le ragioni per cui si è proceduto abbastanza speditamente nel campo dell’integrazione economica e monetaria mentre l’integra-zione politica stentava a decollare sono molteplici. Bisogna però ricordare che il dualismo tra integrazione economica e integra-zione politica non è l’unico che condiziona l’evoluzione dell’U-nione europea e le prospettive di creazione di uno Stato europeo. Un altro importante dualismo è quello tra approfondimento e allargamento dell’Unione europea, dove per approfondimento s’intende l’aumento delle competenze delle istituzioni comuni-tarie e l’ampliamento dei settori in cui l’Unione svolge un ruolo preponderante, mentre per allargamento s’intende l’ammissione nell’Unione europea di nuovi stati e quindi l’ampliamento delle sue dimensioni territoriali e l’estensione dei suoi confini. Mentre

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l’allargamento dell’Unione europea equivale anche all’allarga-mento delle dimensioni del mercato comunitario ed è comunque un passo in avanti nel campo dell’integrazione economica, in ter-mini d’integrazione politica è evidente che l’aumento degli stati membri rende sempre più difficile il raggiungimento di decisioni condivise e allontana la possibilità di una fusione degli stati nazio-nali in un unico Stato europeo. in un certo senso, l’allargamento dell’Unione europea costituisce una sorta di annacquamento che ne amplia le dimensioni, ma ne diluisce la componente politica.

La netta prevalenza del processo d’integrazione economica su quello d’integrazione politica è stata talvolta spiegata con il carat-tere prevalentemente economico dell’integrazione. in altre paro-le, lo scopo dell’integrazione sarebbe stato soprattutto quello di creare un grande mercato europeo che permettesse alle economie degli stati nazionali di svilupparsi e di competere a livello inter-nazionale. in questa prospettiva l’integrazione politica, più che servire a costruire i cosiddetti Stati uniti d’Europa, servirebbe a gestire il processo d’integrazione economica e quindi gli sareb-be funzionale. Fondata o infondata che sia questa interpretazione, essa ha ispirato l’idea di un’Europa dei banchieri, cioè di un’U-nione europea come struttura tecnocratica funzionale alla gestione dell’economia e relativamente indifferente alle aspettative di uni-ficazione politica di molti cittadini e degli europeisti più convinti.

3 – I limiti della politica estera europea

Un terzo elemento che differenzia l’Unione europea da uno stato tradizionale è la pochezza, se non addirittura l’assenza, di una politica estera comune. nonostante la recente creazione di un Servizio esterno europeo che somiglia a un servizio diploma-tico, le principali iniziative di politica estera restano prerogativa degli stessi stati membri. L’Unione europea svolge sempre più un ruolo di appoggio all’attività esterna dei paesi che la com-pongono e funzioni di rappresentanza collettiva quando c’è con-cordanza di vedute da parte della maggioranza dei paesi mem-

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bri. Questi limiti, al pari della natura non statale dell’Unione europea e dell’assenza di un esercito europeo capace di svolgere quantomeno un’opera di pacificazione internazionale indipen-dente dalla nato, sminuiscono il ruolo internazionale dell’Unio-ne europea e la rendono impotente e totalmente dipendente dalle forze armate dei singoli paesi membri di fronte a conflitti armati anche alle porte dell’Unione come accadde negli anni novanta per la ex - Jugoslavia.

La limitata capacità dell’Ue di sviluppare una politica estera propria comporta anche una limitata capacità di sviluppare una politica economica esterna, in particolare una politica valutaria data anche la totale indipendenza della Banca centrale europea dalle istituzioni comunitarie e quindi l’impossibilità di queste ul-time di influenzare le scelte dell’istituto di emissione. L’assenza di una vera e propria politica estera esclusivamente europea tro-va eco nell’assenza di una politica militare ed ancor più di un esercito europeo. a parte alcune forme di collaborazione finaliz-zate soprattutto a fronteggiare situazioni di emergenza, la difesa del territorio dell’Ue resta ancora affidata agli eserciti degli stati membri ed alla nato. Questo impedisce all’Unione europea di sviluppare una politica di potenza alternativa a quella degli al-leati occidentali e soprattutto a quella della russia e della Cina, ma limita anche la capacità d’intervento dell’Unione per fron-teggiare crisi o per pacificare aree coinvolte in conflitti interni o internazionali. oltretutto, in molte occasioni i paesi membri si sono trovati in contrasto tra loro sull’opportunità di partecipare o non partecipare a coalizioni internazionali, come nel caso della seconda guerra in iraq, o addirittura schierati su fronti diversi nel sostenere l’uno o l’altro dei contendenti.

4 – L’Europa concentrica

Considerare l’Unione europea un’entità coesa anche dal solo punto di vista territoriale ed istituzionale è un errore molto co-mune, ma non meno grave. in realtà, l’Unione europea potrebbe

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essere rappresentata come una serie di cerchi concentrici. il più ampio di questi cerchi racchiude quello che viene chiamato spa-zio economico europeo, cioè non solo l’Unione europea vera e propria ma anche quei paesi che hanno legami economici stret-ti e regolati da trattati con l’Ue. Questi paesi, pur non essendo formalmente parte dell’Unione europea e non necessariamente candidati all’ammissione nell’Unione europea, condividono con essa parte dei loro destini economici ed i loro regimi politici spesso s’ispirano a quelli dei paesi dell’Unione. Far parte dello spazio economico europeo non significa necessariamente essere in procinto di entrare nell’Unione o anche solo avere la possibi-lità di farlo prima o poi. al contrario, l’inserimento di alcuni pa-esi nello spazio economico europeo ha avuto proprio lo scopo di rendergli maggiormente accettabile la non ammissione secondo il principio del “condividere tutto tranne le istituzioni”.

in un cerchio appena più interno potremmo collocare assieme ai paesi membri dell’Unione i paesi in via di ammissione, cioè quei paesi che hanno ottenuto la possibilità di diventare membri dell’Unione, ma che ancora non hanno completato il percorso di riforme e di adattamento delle loro strutture istituzionali e norma-tive a quelle richieste dai trattati di ammissione.

all’interno di questo cerchio troviamo quello che costitui-sce la vera e propria Unione europea e cioè l’insieme dei pa-esi membri a pieno titolo dell’Ue. Questo non è la partizione più piccola dell’Unione in quanto essa può essere ulteriormente suddivisa tra paesi che fanno parte dell’Unione economica e monetaria detta talvolta, ma impropriamente, area dell’euro (sarebbe più corretto chiamarla area euro come talvolta si fa) e quelli che invece non ne fanno parte. Quest’ulteriore distinzione ha da tempo assunto la natura di principale cesura all’interno dell’Unione europea vera e propria, sia in termini di profondi-tà dell’integrazione, sia in termini di vincoli che vengono alle politiche degli stati membri dall’appartenenza all’Unione eco-nomica e monetaria. possiamo, infatti, ritenere che i paesi che fanno parte dell’Unione economica e monetaria siano il grup-

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po di paesi che ha raggiunto il massimo livello d’integrazione finora conseguito e che maggiormente risente della cosiddetta europeizzazione delle loro politiche nazionali di cui parleremo più avanti in questo volume.

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Capitolo 5

le istituzioni europee e il loro funzionaMento

nonostante l’Unione europea non sia uno stato, il suo funzio-namento e le sue attività dipendono da istituzioni che interagisco-no tra loro e legano le strutture di governo dei paesi membri con quelle dell’Unione europea. anche se l’Unione europea funziona grazie a molteplici enti ed istituzioni, si è soliti distinguere queste ultime tra istituzioni maggiori ed istituzioni minori. per semplifi-care potremmo dire che le istituzioni maggiori sono quelle indi-spensabili al funzionamento dell’Unione europea mentre quelle minori servono a migliorarne l’efficienza. Tra le principali istitu-zioni dell’Unione europea troviamo la Commissione europea, il Consiglio dell’Unione europea (un tempo noto come Consiglio dei ministri europei), il Consiglio europeo (talvolta denominato Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo), il Parlamento europeo e la Corte di Giustizia. a queste si deve aggiungere an-che la Banca centrale europea (Bce) che è a tutti gli effetti l’isti-tuzione principale ed indispensabile per la gestione dell’Unione economica e monetaria.Tra le istituzioni minori figurano invece il Comitato delle regioni, il Comitato economico e sociale eu-ropeo, la Banca europea degli investimenti (Bei), la Corte dei conti europea. a queste dovremmo aggiungere anche altri attori

Questo capitolo è stato scritto da Roberto Di Quirico

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istituzionali ed agenzie che svolgono ruoli specifici o che sono strettamente collegate ad altre istituzioni quali, ad esempio, il Si-stema europeo delle banche centrali (Sebc) che rappresenta in un certo senso il braccio operativo della Bce.

1 – Le istituzioni maggiori

Tra le istituzioni maggiori quella sicuramente più nota ai citta-dini è la Commissione europea.

Questa viene spesso considerata una sorta di governo dell’U-nione europea, anche se solo allo scopo di trovare un paralle-lismo tra le tradizionali istituzioni degli stati nazionali e quel-le europee che possa dare un’idea seppur approssimativa delle funzioni di queste ultime. in realtà equiparare Commissione e governo, così come parlamento europeo e parlamenti nazionali può essere fuorviante.

La Commissione svolge funzioni gestionali e di regolamen-tazione, oltre a partecipare al processo legislativo dell’Unione europea. Spetta, infatti, alla Commissione avviare il processo di decisione riguardo alle norme che dovranno poi essere ap-provate dal parlamento e dal Consiglio dell’Unione europea. inoltre, la Commissione può ritirare le sue proposte qualora ritenga che gli emendamenti approvati durante la procedura di approvazione da parte delle altre istituzioni stravolgano la na-tura del provvedimento.

La Commissione è composta da 27 Commissari e dal presiden-te della Commissione europea, ognuno con competenze su uno specifico settore (vedi prospetto 5.1). ogni paese membro dell’U-nione europea esprime un commissario ad eccezione del paese di provenienza del presidente della Commissione. ogni commissa-rio è di fatto a capo di un dipartimento (o direzione generale da cui il nome DG) che si occupa della materia in cui il commissario ha competenza. anche in questo caso e con le dovute cautele potrem-mo paragonare il ruolo di commissario a quello di un ministro e la DG ad un ministero. Data la necessità di rappresentare tutti i paesi

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dell’Unione europea assegnando per ogni paese un commissario, le DG sono aumentate e le competenze si sono frammentate man mano che l’Unione si è allargata ammettendo nuovi stati membri. inoltre la Commissione si avvale di alcuni servizi talvolta sotto il controllo del presidente della Commissione.

Prospetto 5.1 – Elenco delle unità operative che compongono la Commissione europea

Direzioni generali (DG) Acronimiaffari economici e finanziari eCFinaffari interni HoMeaffari marittimi e pesca Mareagricoltura e sviluppo rurale aGriaiuti umanitari e protezione civile eCHoallargamento eLarGambiente enVazione per il clima CLiMaBilancio BUDGCentro comune di ricerca JrCCommercio TraDeComunicazione CoMMConcorrenza CoMpenergia enereuropeaid - Sviluppo e cooperazione DeVCoFiscalità e unione doganale TaXUDGiustizia JUSTimprese e industria enTrinformatica DiGiTinterpretazione SCiCistituto statistico - eurostat eSTaTistruzione e cultura eaCMercato interno e servizi MarKTMobilità e trasporti MoVeoccupazione, affari sociali e integrazione eMpLpolitica regionale reGioreti di comunicazione, contenuti e tecnologie CneCTricerca e innovazione rTDrisorse umane e sicurezza HrSalute e consumatori SanCoSegretariato generale SGServizio degli strumenti di politica estera FpiTraduzione DGT

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Servizi Acronimiarchivi storici Biblioteca centraleinfrastrutture e logistica - Bruxelles oiBinfrastrutture e logistica - Lussemburgo oiLresponsabile per la protezione dei dati della Commissione europea Servizio di audit interno iaSServizio giuridico SJ Ufficio dei consiglieri per le politiche europee BepaUfficio delle pubblicazioni opUfficio europeo per la lotta antifrode oLaFUfficio gestione e liquidazione dei diritti individuali pMo

Meno noto e spesso confuso con il Consiglio europeo (cono-sciuto anche come Consiglio europeo dei capi di stato e di gover-no) è il Consiglio dell’Unione europea, un tempo detto Consiglio dei Ministri europei o Consiglio dei ministri. Questo è composto dai ministri dei paesi membri che si riuniscono in diverse forma-zioni a seconda delle materie trattate (vedi prospetto 5.2). Se, per esempio, i temi trattati riguardano l’agricoltura a riunirsi saranno i ministri dell’agricoltura e solo loro e cioè la formazione agri-coltura e pesca del Consiglio europeo. Se invece si dovrà parlare di economia o questioni finanziarie a riunirsi sarà la formazione economia e finanze e cioè il famoso ecofin che riunisce i ministri dell’economia e delle finanze degli stati membri.

il Consiglio dell’Unione europea è dunque un’istituzione che svolge i suoi compiti con una composizione mutevole e che richie-de il supporto di altri enti per potersi coordinare efficacemente. Tale supporto arriva soprattutto dal Comitato dei rappresentanti per-manenti (Coreper) dove alcuni rappresentanti dei paesi membri cui è riconosciuto il rango di ambasciatori coordinano le posizioni dei ministri dei loro paesi di appartenenza e negoziano accordi con i rappresentanti permanenti degli altri paesi membri. in questo modo quando i ministri dei paesi membri si riuniscono in una delle forma-zioni del Consiglio molto del lavoro di negoziazione e di definizio-ne degli accordi è già stato svolto e ci si può limitare a finalizzarlo.

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Prospetto 5.2 – Formazioni del Consiglio dell’Unione europea

affari generaliaffari esterieconomia e finanza (ecofin)Giustizia e affari interni (Gai)occupazione, politica sociale, salute e consumatoriCompetitività (mercato interno, industria, ricerca e spazio)Trasporti, telecomunicazioni ed energiaagricoltura e pescaambienteistruzione, gioventù, cultura e sport

il Consiglio dell’Unione europea partecipa al processo le-gislativo votando l’approvazione dei provvedimenti così come fa il parlamento europeo (ma non la Commissione). i voti non sono per Stato, ma sono ponderati ed attribuiti a ciascun paese membro in base alla popolazione anche se non in modo com-pletamente proporzionale permettendo così ai paesi più picco-li di avere un peso in voti di una qualche significatività, pur contando su una modestissima percentuale della popolazione dell’Unione europea.

Tabella 5.1 – Distribuzione dei voti per Stato membro

Germania, Francia, italia, regno unito 29

Spagna, polonia 27romania 14paesi bassi 13Belgio, repubblica ceca, Grecia, Ungheria, portogallo

12

austria, Bulgaria, Svezia 10Croazia, Danimarca, irlanda, Lituania, repubblica slovacca, Finlandia

7

Cipro, estonia, Lettonia, Lussemburgo, Slovenia

4

Malta 3ToTaLe 352

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a parte pochi casi in cui l’approvazione di una misura richiede l’unanimità degli stati membri (sicurezza, affari esteri e imposi-zione fiscale) le votazioni del Consiglio dell’Unione europea si basano sul concetto di maggioranza qualificata, e cioè per appro-vare una misura sono necessari 260 voti su 352 e la maggioranza dei paesi (relativa o di due terzi).

Prospetto 5.3 – Presidenze del Consiglio dell’Unione europea

Ungheria gennaio-giugno 2011polonia luglio-dicembre 2011Danimarca gennaio-giugno 2012Cipro luglio-dicembre 2012irlanda gennaio-giugno 2013Lituania luglio-dicembre 2013Grecia gennaio-giugno 2014italia luglio-dicembre 2014Lettonia gennaio-giugno 2015Lussemburgo luglio-dicembre 2015paesi bassi gennaio-giugno 2016Slovacchia luglio-dicembre 2016Malta gennaio-giugno 2017regno unito luglio-dicembre 2017estonia gennaio-giugno 2018Bulgaria luglio-dicembre 2018austria gennaio-giugno 2019romania luglio-dicembre 2019Finlandia gennaio-giugno 2020

eventualmente uno stato può chiedere che sia anche rispet-tato il criterio di popolazione e cioè che i paesi a favore della misura rappresentino almeno il 62% della popolazione dell’U-nione. Dal 2014 vale la cosiddetta doppia maggioranza e cioè le misure sono approvate se sostenute almeno da 15 paesi su 28 a patto che questi paesi rappresentino almeno il 65% della popo-lazione dell’Unione. il Consiglio dell’Unione europea è presie-duto da uno Stato membro diverso ogni semestre in quello che è noto come Semestre di presidenza europea durante il quale il ministro dello Stato che detiene la presidenza presiede ognuna delle formazioni del Consiglio.

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Un’istituzione cruciale dell’Unione europea, pur se nata in modo informale ed elevata a tutti gli effetti ad istituzione euro-pea solo nel 2009 con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è il Consiglio europeo detto anche Consiglio europeo dei capi di Stato e di governo. il Consiglio europeo nacque in via informale nel 1974 quando si decise di tenere regolarmente dei vertici dei capi dell’esecutivo (capi di Stato per i paesi a regime presiden-ziale e capi di governo per quelli a regime parlamentare) per discutere di questioni generali inerenti l’integrazione europea.

Da allora il Consiglio europeo ha assunto un ruolo propulsi-vo determinante per l’integrazione europea in quanto è divenuto la sede istituzionale in cui sono stati decisi i principali passi per l’allargamento delle competenze e delle dimensioni dell’Unio-ne europea. Tocca, infatti, al Consiglio europeo decidere l’aper-tura di nuove politiche comunitarie e la cessione di sovranità da parte dei paesi membri in quei settori tramite la firma di nuovi trattati. inoltre, è il Consiglio europeo che approva l’ammissio-ne di nuovi paesi membri nell’Unione europea. Con il trattato di Lisbona è stata introdotta la figura del Presidente del Con-siglio europeo, e cioè una figura istituzionale che permane in carica per un periodo predeterminato con un mandato di due anni e mezzo rinnovabile per una volta. il primo presidente, il belga Herman Van rompuy, è stato eletto nel 2009 dai membri del Consiglio europeo.

istituzione decisiva in diversi passaggi dell’integrazione eu-ropea è stata la Corte di giustizia dell’Unione europea, più semplicemente detta Corte di giustizia. La Corte ha la funzione di garantire la corretta applicazione dei trattati e delle norme comunitarie nei diversi paesi membri. ad essa possono ricorrere gli stati membri che contestino l’applicazione delle norme e dei principi comunitari in uno o più degli altri stati membri oppure da parte delle istituzioni europee. inoltre, può dirimere conten-ziosi tra istituzioni dell’Unione europea e privati cittadini, im-prese od organizzazioni qualora queste ritengano di essere state danneggiate nei loro diritti da dette istituzioni. La Corte è co-

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stituita da un giudice per ogni stato membro e da nove avvocati generali che presentano alla Corte i vari casi ed il loro parere.

per affiancare la Corte nei suoi compiti divenuti sempre più onerosi a causa del costante aumento dei casi ad essa sottoposti, sono stati istituiti il Tribunale (un tempo denominato Tribunale di prima istanza) che si occupa principalmente delle cause pro-mosse da privati cittadini, imprese od organizzazioni ed il Tribu-nale della funzione pubblica che invece interviene nelle contro-versie tra l’Unione europea ed i suoi dipendenti.

Tra le istituzioni europee più importanti, l’unica composta da rappresentanti direttamente eletti dai cittadini è il Parlamento eu-ropeo che ha sede a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo. nelle prime due città si tengono le sessioni plenarie e quindi la vera e propria attività politica del parlamento mentre a Lussemburgo hanno sede gli uffici amministrativi. il parlamento europeo è co-stituito da rappresentanti eletti nei vari paesi membri in numero differente e approssimativamente proporzionale alla popolazione dello Stato.

il numero totale dei parlamentari è cambiato spesso a causa dell’ammissione nell’Ue di nuovi stati membri. Con il trattato di Lisbona tale numero è stato fissato in 751 membri a partire dalle elezioni del 2014.

i deputati nel parlamento europeo sono raggruppati in gruppi parlamentari a seconda dell’orientamento politico e delle affilia-zioni internazionali dei partiti nazionali a cui appartengono. in questo momento i gruppi parlamentari sono sette tra cui i più im-portanti sono il gruppo del partito popolare europeo e il gruppo dell’alleanza progressista di socialisti e democratici al parlamen-to europeo comunemente denominato partito socialista europeo.

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Tabella 5.2 – Numero di deputati per Stato membro

2004 2007 2009 2014austria 18 18 17 18Belgio 24 24 22 21Bulgaria 18 17 17Cipro 6 6 6 6Croazia 11Danimarca 14 14 13 13estonia 6 6 6 6Finlandia 14 14 13 13Francia 78 78 72 74Germania 99 99 99 96Grecia 24 24 22 21irlanda 13 13 12 11italia 78 78 72 73Lettonia 9 9 8 8Lituania 13 13 12 11Lussemburgo 6 6 6 6Malta 5 5 5 6paesi bassi 27 27 25 26polonia 54 54 50 51portogallo 24 24 22 21regno unito 78 78 72 73repubblica Ceca 24 24 22 21romania 35 33 32Slovacchia 14 14 13 13Slovenia 7 7 7 8Spagna 54 54 50 54Svezia 19 19 18 20Ungheria 24 24 22 21Totale 732 785 736 751

Le principali funzioni del parlamento europeo sono quella di partecipare al processo legislativo comunitario ormai prevalente-mente tramite la procedura di codecisione che lo pone allo stesso

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livello del Consiglio dell’Unione europea e gli garantisce poteri di veto, e l’approvazione del bilancio. inoltre il parlamento euro-peo partecipa con potere di veto alla nomina della Commissione europea e svolge attività di controllo democratico e vigilanza in varie occasioni e su vari organismi comunitari, anche se spesso queste attività si limitano ad audizioni o inchieste.

infine, ma non certo per importanza, tra le istituzioni principali dell’Unione europea figura la Banca centrale europea (Bce) e cioè l’istituto che emette l’euro e gestisce la politica monetaria dell’Unione economica e monetaria. La Bce ha sede a Francoforte e assieme alle banche centrali dei paesi dell’Unione europea co-stituisce il Sistema europeo delle banche centrali (Sebc). oltre a partecipare alla definizione della politica economica e moneta-ria dell’Unione europea ed a gestire aspetti cruciali della politica monetaria quali la fissazione dei tassi d’interesse di riferimento, la Bce gestisce le riserve valutarie dell’area dell’euro e svolge varie attività di vigilanza destinate ad aumentare con l’avvio della più volte prospettata Unione bancaria europea.

a differenza di molte banche centrali tradizionali, il mandato della Bce stabilito dal suo statuto è piuttosto rigido ed è concentra-to soprattutto sull’obiettivo della stabilità dei prezzi e quindi del controllo dell’inflazione. alla Bce è invece preclusa la possibilità di acquistare i titoli di stato dei paesi membri anche se a seguito della recente crisi del debito sovrano sono state attuate soluzioni e creati strumenti per garantire forme d’intervento indiretto.

La struttura decisionale della Bce è costituita da tre comitati: esecutivo, direttivo e generale. il Comitato esecutivo è costituito da presidente, vicepresidente e altri 4 membri tutti nominati dai governi dei paesi euro con un mandato di 8 anni e si occupa della gestione quotidiana della Bce. il Comitato direttivo è invece com-posto dai membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali dei paesi dell’euro. Questo comitato definisce la politica monetaria e stabilisce i tassi d’interesse di riferimento. infine, il Comitato generale comprende presidente, vicepresiden-te e i governatori delle banche centrali di tutti i paesi dell’Unione

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europea ed ha soprattutto funzioni consultive e di coordinamento. La Bce è completamente indipendente dalle altre istituzioni eu-ropee ed a sua volta non ha poteri su di esse che le permettano d’influenzarne le attività.

2 – Le istituzioni minori

Quelle che vengono solitamente definite istituzioni minori sono istituzioni che svolgono un ruolo di sostegno tecnico o con-sultivo a favore delle istituzioni maggiori, ma che non sono de-terminanti per il processo decisionale, pur svolgendo talvolta un ruolo d’indirizzo molto importante.

Tra le istituzioni minori, una che ha acquisito progressivamente maggiore importanza è il Comitato delle regioni. Costituito da 353 membri ed altrettanti supplenti in rappresentanza di tutti i pa-esi dell’Unione, emette pareri sulle proposte della Commissione su temi che toccano le competenze delle autorità locali e regionali.

altra istituzione consultiva molto importante per mantenere il collegamento tra istituzioni europee e paesi membri è il Comita-to economico e sociale europeo. riunisce i rappresentanti (353 come nel caso del Comitato delle regioni) dei datori di lavoro, lavoratori e altri gruppi d’interesse e formula pareri sulle que-stioni che gli competono e che trasmette agli organi decisionali dell’Unione europea.

La Corte dei conti europea è una di quelle istituzioni che po-tremmo definire tecniche in quanto le sue funzioni sono di suppor-to al funzionamento delle istituzioni europee nel loro complesso. Svolge funzioni di audit su persone ed organizzazioni che utiliz-zano fondi europei. inoltre presenta al parlamento e al Consiglio dell’Unione europea una relazione annuale sull’esercizio finanzia-rio dell’anno precedente svolgendo così un ruolo di supporto della decisione di approvare o rigettare il bilancio di dette istituzioni.

anche la Banca europea per gli investimenti svolge un im-portante ruolo di supporto, in questo caso a favore di progetti per la realizzazione o il miglioramento delle infrastrutture, l’approv-

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vigionamento energetico e la sostenibilità ambientale. infatti, essa raccoglie fondi sui mercati finanziari internazionali e li mette a disposizione di paesi membri o in procinto di divenirlo e paesi par-tner dell’Unione europea a tassi di favore.

infine, pur se difficilmente identificabili con vere e proprie isti-tuzioni anche minori, l’Unione europea ha ritenuto necessario do-tarsi di due istituti di garanzia e cioè del Mediatore europeo e del Garante europeo della protezione dei dati. il primo raccoglie denunce e indaga sulle violazioni di vario genere commesse da istituzioni o enti dell’Unione europea. il secondo, invece, vigila sul rispetto della privacy nel trattamento dei dati personali da parte delle istituzioni europee.

3 – Le agenzie

La messa in opera delle politiche dell’Unione europea e delle sue attività di regolamentazione ha reso necessaria la creazione di un considerevole numero di agenzie atte ad espletare funzioni spe-cifiche, spesso di natura tecnica. Queste agenzie possono essere suddivise in tre gruppi: decentrate, esecutive e agenzie euratom.

Le agenzie decentrate hanno sede nei diversi paesi membri e svolgono funzioni tecniche, scientifiche e regolative. Un esempio abbastanza noto è quello dell’agenzia per la sicurezza alimentare che ha sede a parma. proprio questo esempio suggerisce che l’allo-cazione di un’agenzia in un paese membro abbia talvolta anche un valore simbolico legato alla rilevanza che una certa attività ricopre nell’economia o nella tradizione del paese dove ha sede l’agenzia.

Le agenzie esecutive, situate tutte nella sede della Commissio-ne, gestiscono specifici programmi comunitari e restano operative fintanto che è necessaria tale attività di gestione.

infine le agenzie di Euratom servono a coordinare le attività di ricerca degli stati membri nel campo dell’energia nucleare e ad assicurare l’approvvigionamento di energia nucleare e la sicurezza della sua produzione.

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Prospetto 5.4 – Lista delle agenzie dell’Unione europea

Agenzie decentrate Acronimiaccademia europea di polizia CepoLagenzia del GnSS europeo GSaagenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali Fraagenzia europea delle sostanze chimiche eCHaagenzia europea dell’ambiente eeaagenzia europea di controllo della pesca eFCaagenzia europea per i medicinali eMaagenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne FronTeXagenzia europea per la gestione operativa dei sistemi iT su larga scala nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia eu-LiSaagenzia europea per la sicurezza aerea eaSaagenzia europea per la sicurezza delle reti e dell’informazione eniSaagenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro eU-oSHaagenzia europea per la sicurezza marittima eMSaagenzia ferroviaria europea aFeagenzia per la cooperazione fra i regolatori nazionali dell’energia aCerautorità bancaria europea aBeautorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati eSMaautorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali aeapautorità europea per la sicurezza alimentare eFSaCentro di traduzione degli organismidell’Unione europea CdTCentro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie eCDCCentro europeo per lo sviluppo della formazione professionale CedefopFondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro eUroFoUnDFondazione europea per la formazione eTFistituto europeo per l’uguaglianza di genere eiGeorganismo dei regolatori europei delle comunicazioni elettroniche BereCosservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze eMCDDaUfficio comunitario delle varietà vegetali CpVo

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Ufficio europeo di polizia eUropoLUfficio europeo di sostegno per l’asilo eaSo Ufficio per l’armonizzazione nel mercato interno oHiMUnità di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea eUroJUSTagenzia europea per la difesa eDaagenzie per la politica di sicurezza e di difesa comuneCentro satellitare dell’Unione europea eUSCistituto dell’Unione europea per gli studi sulla sicurezza eUiSS

Agenzie esecutiveagenzia esecutiva del Consiglio europeo della ricerca Ceragenzia esecutiva per la competitività e l’innovazione eaCiagenzia esecutiva per la rete transeuropea di trasporto Ten-T eaagenzia esecutiva per la ricerca reaagenzia esecutiva per la salute e i consumatori eaHCagenzia esecutiva per l’istruzione, gli audiovisivi e la cultura eaCea

Agenzie di EURATOMagenzia di approvvigionamento di eUraToM eSaimpresa comune europea per il progetto iTer e lo sviluppo dell’energia da fusione Fusion for energy

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Capitolo 6

iDenTiTÀ e CiTTaDinanZa eUropea

1 – Introduzione

i termini identità e cittadinanza possiedono molteplici signifi-cati, in relazione ai diversi contesti nei quali vengono adoperati. essi hanno certamente un senso di tipo colloquiale (soprattutto l’identità, declinata nelle varie sue accezioni: antropologica, ca-ratteriale, sessuale, sportiva ecc..), sebbene la portata delle due parole annoveri la complessità delle diverse accezioni possibili. e, come è noto, anche il termine Europa non si sottrae a questa valutazione. Certamente in questa sede si intende declinarla nella conoscenza e trattazione dell’europa come struttura politico-isti-tuzionale, ma, anche da un punto di vista storico, geografico e quant’altro, la parola europa può evocare diversi significati. Dun-que, le parole che costituiranno oggetto di questo capitolo con-temperano il problema di essere usate, e quindi confuse, molto facilmente.

Compito preliminare in questa sede, diviene la spiegazione e l’eliminazione di tutte le possibili accezioni potenzialmente in grado di confondere il lettore. infatti, qui per identità intendiamo la capacità dell’individuo, in forma singola o associata, di sentire

Questo capitolo è stato scritto da Carlo Pala

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e di fare riferimento a caratteristiche specifiche possedute, per ve-rificare se queste costituiscano un fondamento comune che viene avanzato anche in ambito politico. per cittadinanza invece, inten-diamo la possibilità da parte di un cittadino di esercitare un diritto o di sottostare a un dovere, per la stessa condizione di sovranità che viene esercitata all’interno di una comunità politico-istituzio-nale ben definita. pensando ai due sostantivi precedenti con l’ag-gettivo “europea” a fianco, la questione finisce inevitabilmente per complicarsi. Se l’identità europea attiene ad un concetto più “dinamico”, perché le sfumature sono le più disparate e, una volta intesi sull’aspetto specifico da chiarire, si può affrontare quell’a-spetto, la cittadinanza europea riguarda un settore più “statico”; infatti, essa è un ambito normato dai legislatori europei, cosa che invece, lo si capisce molto bene, è ben più difficile, quanto pro-babilmente non auspicabile, per il termine identità. Questo non significa che l’identità sia impossibile da determinare e la cittadi-nanza, al contrario, sia già un concetto preconfezionato da usare senza alcun margine di interpretazione. al contrario, la cittadi-nanza è ancora oggi uno degli aspetti più controversi della stessa costruzione europea e dell’identità europea. Le due parole si lega-no proprio perché l’una (identità) teoricamente dovrebbe costitui-re una precondizione per l’altra (cittadinanza). ovvero, una volta soddisfatti i principi teorici contenuti nell’identità, la cittadinanza dovrebbe metterli in pratica. ed è qui che, almeno in linea di mas-sima, i due termini arrivano, o dovrebbero arrivare, a completarsi.

il discorso si complica leggermente perché l’asse portante, la dimensione concettuale più ampia, che usiamo nel racchiudere i due sostantivi con l’aggettivo “europea”, appartiene principal-mente all’ambito politico. Tale categoria rende più difficile il di-scorso, e non perché vi sia una possibile interpretazione di carat-tere eminentemente politico, seppur ovviamente da evitare, che ne possa scaturire, ma quanto per l’esatto opposto, ovvero per l’esigenza di usare indicatori specifici valevoli per un campo così vasto. inoltre, anche l’aggettivo europea sarebbe certamente pre-gno di diverse interpretazioni (già la prima, se ci si debba riferire

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all’intero Continente oppure no). in questo caso risolviamo subito il punto, definendo per europea una dimensione riferita all’Unio-ne europea come soggetto politico sovranazionale.

L’identità, prima, e la cittadinanza, poi, europee, costituiranno oggetto specifico dei prossimi due paragrafi, seguiti da uno con-clusivo che tenterà di spiegare come sia possibile oggi sentire e pretendere un’identità e cittadinanza.

2 – L’identità in politica e l’identità europea

L’identità in politica può assumere una dimensione cosiddet-ta macro e una micro. La prima tiene conto essenzialmente dello spazio, fisico e politico, all’interno del quale un gruppo di citta-dini, più o meno vasto, è tenuto assieme da una serie di elementi comuni espressi nella scelta di alcuni caratteri politici di base. Quindi, la dimensione “macro” fa riferimento ai concetti, spesso conflittuali, di Stato e Nazione. in questo senso, l’identità statale (o, meglio, statuale) corrisponde al sentimento di appartenenza ad uno Stato, con le sue leggi, le sue istituzioni e spesso il tipo di regime politico, sia esso democratico o meno. al contrario, l’identità (politica) nazionale si fonda su una serie di fattori de-finibili para/proto-politici, i quali spesso sono basilari e fonda-mentali per lo sviluppo dello Stato, ma al contempo possono diventare la causa principale per un suo non riconoscimento, da parte di cittadini che ritengono di possedere un’altra identità. in linea generale, l’identità nazionale attribuisce notevole impor-tanza ad elementi come una lingua e una religione comuni, una storia passata che costituisce e cementa una medesima identità, un insieme di usi, costumi, modi di fare e di essere dei cittadini, i quali realizzano, più o meno consapevolmente, un medesimo ambito di riferimento “nazionale”. nella dimensione “micro”, invece, possiamo far riferimento al comportamento politico dell’individuo come singolo o come gruppo limitato e definibile di persone. per cui, l’identità politica a questo livello si declina nel voto per un medesimo partito, o nell’appartenenza alle ca-

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tegorie concettuali di “destra, centro e sinistra”, alle preferenze di ambito politico e all’espressione (nelle diverse modalità), di queste preferenze: la partecipazione politica e le tipologie nelle quali essa si pratica; l’iscrizione a un partito, o meno; la discus-sione e la manifestazione agli altri del proprio pensiero politico; le idee o le ideologie più vicine al singolo cittadino; e, non meno importante, l’assoluto disinteresse per la politica. inoltre, inter-viene in tal discorso il concetto di cultura politica, fortemente legato a quello di identità e in un certo senso propedeutico: ov-vero, l’insieme di quegli elementi di natura culturale che co-struiscono una identità politica e poi la sostengono. Certe zone dell’italia, ma non solo ovviamente, hanno una chiara identità politica definita, anche se con risvolti diversi rispetto al passato. in quel caso, le culture politiche di quei cittadini si basano su strutture di tipo culturale pregresse. ecco che il tipo di istruzione avuta, il grado di sviluppo dei media, il tipo di socializzazione e la presenza, in una determinata società, di forme associative più o meno diffuse, sono solo alcuni degli esempi che si possono fare per definire il tipo di cultura politica e quindi di identità.

Come abbiamo visto, il concetto di identità non è univoco, ma dipende dal grado di osservazione che si decide di utilizzare. in questo caso, il problema che ci interessa da vicino è: esiste una identità politica europea? essa riguarda solo i cittadini dell’Ue o è assimilabile a tutti i cittadini del Continente? Come si esprime? Le identità singole nazionali sono superiori a quella europea? e le diverse identità sub-statali? Come si può facilmente immaginare, una risposta univoca a queste domande è impossibile. il proble-ma dell’identità europea è usato, a più riprese, sia dai detratto-ri dell’Ue, i quali ovviamente negano l’esistenza di una identità che assimili tutti gli stati membri; sia dagli entusiasti, convinti al contrario che un’identità europea sia possibile e presente. il pun-to comune tra queste due categorie di cittadini è che l’identità è spesso un concetto in costruzione, o un concetto che si può anche negare e destrutturare. agli occhi degli entusiasti e degli scetti-ci, insomma, l’identità, per motivi ovviamente contrapposti, può

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essere costruita artatamente come altrettanto può essere attacca-ta. Si dice talvolta che un’identità è presente senza che ancora i cittadini ne siano consapevoli; ed è il ragionamento che fanno coloro i quali invocano la formazione di un’identità politica eu-ropea. al contrario, vi sono anche quelli che pensano ad una im-possibile convivenza di realtà identitarie nazionali (quando non anche sub-statali e regionali) forti inconciliabili con quella euro-pea. L’identità, inoltre, si esprime anche con segni e simboli che richiamano alla mente un sentire comune: nel caso in questione la bandiera ufficiale blu con le stelle gialle, drappo ufficiale dell’Ue, e l’Inno alla gioia nella nona sinfonia di Beethoven. nemmeno l’adozione di una moneta comune, altro simbolo importante per quanto sotteso a ben altre ragioni, può rispondere a un’identità europea perché non è diffusa in tutti i paesi membri, finendo per disorientare ancora di più il cosiddetto cittadino di strada ovvia-mente questo non basta, senza che vi sia un’accettazione e una “pratica” dell’identità europea.

abbiamo visto sopra che la cultura politica è alla base, spesso, della presenza di un’identità politica. nel caso europeo, potrem-mo dire oggi che gli sforzi fatti a livello politico per creare un’i-dentità europea, sono direttamente proporzionali alla mancanza di un’unica identità culturale. in una prima e sommaria osserva-zione, l’identità politica europea più importante potrebbe essere quella di vivere in liberal-democrazie, sebbene diversificate, che accomunano una medesima identità, improntata a livello sociale dallo sviluppo, anche questo abbastanza differenziato, di un certo welfare state: differenza non di poco conto se si pensa agli USa. non possiamo non negare che l’identità politica europea è ancora (dai cittadini ai quali, in diversi sondaggi di opinione, sia stato loro domandato) subordinata, e di molto, alle identità nazionali o regionali e locali. per poter verificare questo, esiste la cosiddetta question Moreno, dal nome del politologo spagnolo che l’ha co-struita. non si tratta altro che di chiedere, in una scala di preferen-za, quanto sia importante per un cittadino “sentirsi di più di…”. Creata in modo particolare per misurare le identità sub-nazionali

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in regioni che avevano, appunto, un’identità nazionale diversa ri-spetto a quella della madrepatria (paesi baschi, Scozia, Catalogna e l’elenco potrebbe dilungarsi molto), è stata applicata anche a livello europeo. alla domanda, “Lei si sente più europeo, più ita-liano, solo europeo, o solo italiano” (con le declinazioni anche di livello regionale e locale), al massimo l’appartenenza, sintomo importantissimo dell’identità politica percepita, più indicata tra quelli favorevoli a quella europea era, nel caso italiano, “italiano, ma anche europeo”. Statisticamente ininfluenti i dichiaranti un’i-dentità solo europea o più europea che italiana.

Questo non deve sorprendere. Le istituzioni politiche europee sono create dagli stati membri e non si sono mai davvero emanci-pate da questi ultimi. rispondono ancora ad interessi nazionali; e le politiche pubbliche europee tradiscono un’impronta nazionale. il parlamento, unico vero organo di quei cittadini a cui vengo-no poste le domande di cui sopra, viene eletto da votanti sempre più distratti, al massimo interessati a quelle elezioni come a una sorta di “controllo” dell’operato del Governo nazionale in carica in un dato paese. e questo, malgrado il parlamento europeo, pro-prio per rispondere di più ad esigenze crescenti di partecipazione, abbia aumentato i suoi poteri. anzi, si dice spesso che gli euro-parlamentari vadano a Bruxelles e Strasburgo per portare buoni risultati per il proprio paese o addirittura per la propria regione (circoscrizione) di elezione, non per fare gli interessi dell’europa in quanto tale e nella sua complessità. L’identità europea, quindi, non trova terreno fertile dal punto di vista istituzionale e, come visto, non contempla aspetti di tipo culturale comuni.

ad ogni modo, non vi sono solo ostacoli alla formazione di un’identità europea; e, in particolare, non vi è nemmeno una preclusione a che essa si possa formare e cementare, visto che la stessa Ue non giudica questo aspetto irrilevante o figlio solo delle elucubrazioni di studiosi e filosofi. Vi è una corrente di pensiero che, seppur con diverse interpretazioni, sostiene la ne-cessità di riferirsi a una sorta di “valori primordiali” europei per (ri)costruire l’identità dell’Ue e dell’europa in generale; il pen-

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siero politico democratico dell’antica Grecia, il diritto romano ispirazione del diritto moderno e, aspetto più controverso come era logico attendersi, la comune fede cristiana. L’identità politi-ca europea dovrebbe potersi generare da questi aspetti comuni a buona parte della popolazione. alcuni di questi elementi sono effettivamente presenti nell’art. 2 del Trattato di Lisbona, quan-do si elencano i valori e i princìpi a cui si sottende l’appartenen-za all’Ue: la libertà, la democrazia, i diritti dell’uomo, lo Stato di diritto ecc.. per cui, i diritti civili e politici, ma integrati da quelli sociali che, come si è detto in precedenza, possono contribui-re a far sentire una medesima identità politica europea, perché ispirati ai principi della solidarietà e dello stato sociale. il rife-rimento alla matrice cristiana, al contrario, è stato cassato nelle varie discussioni sulla (ex) Costituzione europea. infatti, se resta vero che la religione cristiana è quella in assoluto maggiormente praticata dai cittadini europei, questa avrebbe finito per limitare il carattere di inclusività non solo nei confronti dei cittadini di fede differente, ma anche di quegli stati, ipotetici futuri membri, come la Turchia o la Bosnia, che non praticano (solo, come i bosniaci) la religione cristiana.

L’identità politica europea necessita di un percorso ancora lungo. Le responsabilità degli stati membri sono numerose, lo abbiamo visto. Ma c’è un elemento su cui non si discute abba-stanza, ovvero l’impossibilità, in tempi brevi, di far sentire ai cit-tadini un’appartenenza e un’identità che ancora non avvertono pienamente. occorre a tal riguardo un ragionamento e un appro-fondimento da parte di tutti gli stati membri, spogliati delle loro appartenenze nazionali. Senza una complicata, lunga e difficile trattativa, non è possibile trasformare i cittadini europei in citta-dini che abbiano almeno un’identità complementare a quella già posseduta, e non in discussione. Bisogna far comprendere che la coesistenza di diverse identità non è sintomo di confusione o di esclusività, ma un arricchimento per la costruzione di un progetto politico comune.

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3 – La cittadinanza europea

Se un italiano, un francese, un maltese, un cipriota, un polac-co guardassero la loro carta d’identità e si soffermassero sulla voce cittadinanza, troverebbero una sola parola: italiana, france-se, maltese, cipriota, polacca. nei documenti di identità emessi dagli stati membri, infatti, non è contemplata la voce europea. inoltre, ognuno degli stati dell’Ue adotta norme e regolamenti abbastanza differenti tra loro in materia di cittadinanza; diverse sono infatti le modalità per conseguirla (si pensi solo al problema dello ius soli o ius sanguinis), per perderla, per rinnovarla. al contempo, il possesso della cittadinanza permette l’esercizio di alcuni diritti in un paese, diritti che in un altro Stato possono non essere attribuiti oppure lo sono a prescindere dalla cittadinanza. e parliamo di diritti che poi incidono in maniera sostanziale nella vita quotidiana di ognuno di noi, in quanto attengono ad aspetti legati al lavoro, alla sanità, ai diritti civili e politici e così via. Quindi, l’aspetto della cittadinanza riassume le “sembianze” che un cittadino di un determinato Stato possiede e diventa un aspet-to fondamentale delle persone.

proprio per questi motivi, già dalla costituzione della Cee, ci si era interrogati sulla necessità ed esigenza di dotare tutti i cittadini degli stati membri di una cittadinanza (anche) europea. il discorso si è fatto più incessante con il passaggio dalla Cee all’Ue, ovvero con la trasformazione di una comunità di stati con un impianto quasi esclusivamente economico, a una che aspira al contrario a realizzare una comunità politica. ad ogni modo, è possibile for-nire alcuni riferimenti di carattere giuridico utili a comprendere cosa oggi sia la cittadinanza europea. intanto, banalmente, essa esiste e si ottiene nel momento in cui un cittadino possiede già la cittadinanza di uno Stato membro. potremmo dire, dunque, che la cittadinanza europea è subordinata a quella del paese cui ci si riferisce, completando questa ultima. il carattere accessorio del-la cittadinanza europea deve essere letto evidentemente, anche al contrario: ovvero, chi perde la cittadinanza nazionale automati-

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camente perde quella europea. Dopo che è stata individuata nel Trattato di Maastricht, la cittadinanza entra a far parte della Co-stituzione europea, nella quale viene detto che può prevalere sulla cittadinanza nazionale in alcuni, pochi e ben circostanziati, casi. pur essendo infatti una acquisizione automatica e pur non attri-buendo un ventaglio di possibilità che sono negate da un paese membro, la cittadinanza europea sancisce diversi diritti inaliena-bili proprio a un livello (anche eventuale, di giudizio) europeo. Tra gli stati membri, i soggetti in possesso di una cittadinanza europea possono circolare in libertà e soggiornare per periodi imprecisati di tempo, in tutti gli altri paesi dell’Ue. inoltre, si può, se abitanti in altro Stato ma non possedendo la cittadinanza di quello stesso, votare alle elezioni comunali ed europee, con esclusione di quelle politiche. Vi sono poi diritti di carattere “istituzionale” che la cit-tadinanza europea consente: scrivere alle istituzioni europee nella propria lingua, esercitare una petizione al parlamento europeo, ri-volgersi al mediatore europeo; in più, nei paesi extra-europei privi di una rappresentanza diplomatica del cittadino di uno Stato mem-bro, esso può richiedere aiuto e assistenza anche in un’ambasciata o consolato di altro paese membro presente in quel determinato Stato extra-europeo. Se, come si diceva prima, nella carta d’iden-tità dei cittadini la cittadinanza europea non è contemplata, nei passaporti dei cittadini degli stati membri è riportata la dizione “Unione europea” nella lingua nazionale.

anche ad un’osservazione superficiale, non può sfuggire a nessuno che evidentemente i diritti connessi con il possesso della cittadinanza europea non incidono particolarmente nella vita dei cittadini. Si tratta di disposizioni che riguardano tutto sommato aspetti residuali dell’esercizio di un diritto individuale. L’aspetto più importante riguarda sicuramente la libertà di circolazione e di soggiorno, legato con l’abbattimento delle barriere tra gli stati voluto dal Trattato di Schengen. Comunque, non vi è la garanzia di un possesso di un diritto, magari negato o concepito in modo differente (pensiamo, come si accennava prima, ai paesi che at-tribuiscono la cittadinanza nazionale con lo ius sanguinis/soli).

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il motivo di fondo della situazione attuale risiede nel fatto che sono ancora gli stati membri a possedere il quasi esclusivo potere di decidere sui significati empirici attribuiti al concetto di citta-dinanza. e difatti, le materie residuali attribuite alla cittadinanza europea paiono essere quelle competenze “di comodo” a un cit-tadino di uno Stato che non avrebbe potuto esercitare senza avere (anche) la cittadinanza europea. insomma, i diversi paesi hanno costruito la cittadinanza europea come un aspetto residuale dei di-ritti che essi stessi non avrebbero potuto esercitare da soli, come il diritto, introdotto a seguito di diverse sentenze della Corte di giu-stizia europea, quindi non contemplato tra i diritti essenziali della cittadinanza dell’Ue, relativo al rimborso delle cure mediche da parte dello Stato di un cittadino che si trovi a dover aver bisogno di trattamenti sanitari, anche temporanei, in altro Stato dell’Ue, per il solo possesso della cittadinanza europea.

4 – L’identità e la cittadinanza europee come elementi integrativi

Come abbiamo avuto modo di vedere, laddove l’identità poli-tica appare come un aspetto dinamico, a volte sfuggente, adatto a essere costruito contemplando diversi elementi, la cittadinanza è invece un concetto statico, perché poi tradotto in norme. an-che se ovviamente le norme sono figlie di un’elaborazione di tipo politico, ideale, culturale e storica, come socio-economica, la cit-tadinanza è fissata da un insieme di norme che la regolano e la sostanziano di fatto. in apparenza, così presentati, i due aspetti parrebbero inconciliabili o comunque appartenenti a due dimen-sioni decisamente diverse tra loro. e questo sembrerebbe ancora più vero nel momento in cui tutto ciò viene declinato a livello europeo, per tutti i problemi che questo capitolo ha tentato di mo-strare. eppure, i due termini, anche storicamente, hanno finito per incontrarsi, completandosi vicendevolmente. anche in contesti molto difficili e diversi dal nostro.

L’identità politica di un cittadino esprime quelle preferenze che poi dovranno trovare forma e sostanza in una serie di op-

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portunità date da diritti certi subordinati al possesso di una cit-tadinanza che consenta loro di rivendicarli ed esigerli. La circo-larità di questa affermazione non intacca il principio basilare e forse fa incontrare due dimensioni che marciavano, si potrebbe dire, su binari paralleli per buona parte della storia dell’umani-tà. e ancora oggi, in diverse realtà, ancora marciano. al livello europeo, l’identità è una costruzione a cui non può contribuire solamente il cittadino singolo. La presenza di molteplici identità nell’individuo, anche a carattere politico-istituzionale, coincide con un’apertura e non con una chiusura. L’appartenenza territo-riale presuppone un sentimento identitario non per forza di cose escludente. il fatto di sentirsi di un luogo, di sentirne e amarne le radici, non soggiace alla possibilità di avere altri luoghi cui aspi-rare. Questo è la ragione, ad esempio, per cui, al di là del para-dosso, le cosiddette “nazioni senza Stato” in europa, sono le più euro-entusiaste, quando ci si sarebbe potuti attendere il contrario. L’identità è un percorso in perenne mutazione; ciò che oggi non si sente, non si “prova”, può invece arrivare domani. Quelli che costruiscono l’Unione europea sanno perfettamente che l’identità è una precondizione necessaria per rafforzare il processo di for-mazione di una coscienza e autoconsapevolezza europee. Così come la cittadinanza non può non tenere conto delle relazioni tra gli stati membri e l’Ue. L’armonia di una legislatura in materia di cittadinanza sostanzialmente non basterebbe a garantire una cittadinanza europea, oggi limitata da diversi modelli nazionali. La cittadinanza europea, con la base dell’identità e del “sentirsi europei” va al di là delle mere applicazioni legislative, ma deriva da un processo civico di educazione dei cittadini europei ad un destino comune. Forse solo con tale ampia prospettiva, i giovani, magari quelli che con erasmus costruiscono per primi un’identità che i loro padri non possiedono ancora, si impegneranno in fun-zione del binomio identità-cittadinanza.

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parTe iii

le politiche dell’unione europea

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Capitolo 7

panoraMica delle politiche europee

nonostante l’Unione europea non sia uno Stato, una delle sue principali attività consiste nella messa in opera di politiche pub-bliche che hanno effetto sugli stati membri sia influenzandone le condizioni interne, sia modificandone le strutture politiche, le relazioni tra cittadini e governanti e di conseguenza le forme della democrazia. Le politiche pubbliche realizzate dall’Unione europea sono molteplici e non sempre facilmente individuabili. Se adottiamo il più semplice dei sistemi di classificazione, cioè quello per aree di attività, vediamo che solo alcune politiche pub-bliche europee possono essere identificate con chiarezza. Tra queste le più famose e le più rilevanti in termini di risorse di bi-lancio impegnate sono la politica agricola e la politica regionale europea al cui interno troviamo la cosiddetta politica di coesione, spesso identificata con i fondi strutturali. Ci sono comunque altre politiche che, pur muovendo meno risorse, possono essere identi-ficate con chiarezza proprio perché caratterizzate da omogeneità di scopi e da norme ed azioni coerenti e ben connesse tra loro. Un esempio è costituito dalla politica di sostegno alla ricerca. in altri casi la natura della politica e le azioni che ad essa possono essere ricondotte sono meno chiare, tanto che alcune azioni, iniziative o

Questo capitolo è stato scritto da Roberto Di Quirico

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norme possono essere classificate a seconda dei casi come parte di politiche diverse. inoltre, molte delle politiche pubbliche europee sono connesse alle politiche nazionali e le completano, le indi-rizzano o invece le limitano rendendo difficile definire i confini tra le azioni direttamente classificabili come parte di una politica europea e quelle invece che sono prevalentemente il frutto delle politiche pubbliche nazionali.Le politiche europee più note, si-gnificative e più facilmente comprensibili a lettori non specia-listi saranno oggetto dei capitoli che seguono. invece, in questo capitolo forniremo un breve resoconto di altre politiche europee importanti, ma meno definite o conosciute.

1 – Quali sono le politiche pubbliche europee?

per inquadrare bene l’attività dell’Unione europea è necessa-rio studiarne le politiche che, assieme alle normative, rappresen-tano il principale prodotto dell’Unione.

per studiare le politiche pubbliche è necessario capire cos’è una politica pubblica e come individuarla. esistono molteplici definizioni di politica pubblica, ognuna focalizzata su uno o più aspetti particolari che ne definiscono l’essenza. rifacendosi ad alcune delle più famose definizioni di politica pubblica, possia-mo definire una politica pubblica come un insieme di decisioni in qualche modo correlate, prese da un attore politico o da un gruppo di attori, sulla selezione degli obiettivi e dei mezzi atti al loro rag-giungimento all’interno di una situazione specifica in cui gli attori hanno, in linea di principio, il potere di prendere tali decisioni allo scopo di risolvere un problema ritenuto d’interesse collettivo. in termini più semplici, possiamo pensare a una politica pubblica come una serie di decisioni prese nel corso del tempo da decisori politici di vario livello e che mirano ad affrontare uno specifico problema la cui soluzione è importante per la collettività. Que-sta definizione ci permette di considerare una politica pubblica il semplice insieme di decisioni per affrontare un’epidemia oppure tutte le decisioni inerenti l’intera questione della salute pubblica. in altre parole, se vogliamo identificare in modo sufficientemente

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preciso una politica la sola definizione di politica pubblica serve a poco se non stabiliamo anche un criterio di classificazione.

esistono diversi modi per classificare le politiche pubbliche. Tra questi il più approssimativo, ma anche il più diffuso e sempli-ce da capire è quello della classificazione per aree.

Prospetto 7.1 – Elenco delle principali politiche dell’Unione europea classificate per area d’intervento

Area Politiche pubbliche principaliagricoltura, pesca e prodotti alimentari

politica agricola comune

imprese politica mercato unicopolitica concorrenza

azione per il clima politica ambientaleCultura, istruzione e gioventù politica audiovisivi e media,

politica istruzione e formazione, economia, finanze e fiscalità politica bilancio

politica concorrenzapolitica monetaria

occupazione e diritti sociali politica occupazione politica pari opportunità

energia e risorse naturali politica energia ambiente, consumatori e salute

politica ambiente, politica sicurezza alimentare, politica sviluppo sostenibile

relazioni esterne e affari esteri politica estera e di sicurezza comune allargamento aiuti e cooperazione allo sviluppo

Giustizia e diritti dei cittadini politica della giustiziaregioni e sviluppo locale politica regionale,

politica di coesioneScienza e tecnologia audiovisivi e media

ricercapolitica delle telecomunicazioni

altre aree politica dei trasporti

adottando questo sistema potremo individuare una lista di aree d’intervento dell’Unione europea che corrispondono più o

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meno ad aree di politica pubblica (aree di policy). La stessa Unio-ne europea nei suoi siti istituzionali ci fornisce una lista di queste aree, anche se alcune delle sottoaree indicate sono abitualmente esse stesse considerate politiche europee.

ognuna di queste politiche ha seguito un suo percorso e si è arricchita di nuovi provvedimenti man mano che l’integrazione europea si è approfondita e che nuovi trattati sono stati siglati per assegnare alle istituzioni comunitarie nuovi compiti e nuove aree d’intervento. infatti, a differenza dei governi nazionali, l’U-nione europea non può avviare autonomamente nuove politiche pubbliche in aree in cui non ha competenze attribuite dai trattati. per questo motivo, l’apertura di nuove aree di policy europee ha sempre seguito nuovi trattati che ne hanno legittimato l’avvio.

Un modo un po’ più complesso, ma utile per classificare le politiche pubbliche consiste nell’utilizzo della tipologia di Lowi (o di Lowi-pollack quando applicata alle politiche dell’Unione europea). Questa tipologia si basa su quattro categorie di policy: distributive, redistributive, regolative e costituenti. Le politiche distributive si basano sulla “distribuzione” di risorse, cioè sono politiche di spesa che trasferiscono risorse da fonti difficilmente definibili (soprattutto il bilancio dello Stato o dell’ente che decide di attuare la politica) a dei beneficiari facilmente individuabili. in altre parole si capisce bene chi ne è avvantaggiato, ma non chi ne è svantaggiato in quanto le risorse provengono dal bilancio pubblico e quindi sono cedute da tutti. L’esempio classico di po-litica distributiva è una politica basata sul pagamento di sussidi. invece, nel caso di una politica redistributiva è ben chiaro non solo chi ci guadagna, ma anche chi ci perde. Se per pagare i sus-sidi ai disoccupati si aumentano le tasse sulle proprietà immobi-liari è chiaro che chi ci rimette sono i proprietari di case. Quando invece una politica pubblica si basa soprattutto sull’emanazione di regole che stabiliscano modalità di comportamento e sanzioni per la violazione delle norme, si è in presenza di una politica regolativa. infine, Lowi individua un quarto gruppo di politiche, le politiche costituenti, volte a creare enti ed assetti istituzionali entro i quali definire le politiche pubbliche. Un esempio ben noto

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è quello della creazione di autorità garanti (o authority) indipen-denti quali l’antitrust a cui viene delegato il compito di definire le regole da applicarsi in un determinato settore.

Così, alla semplice classificazione per “aree d’intervento” che abbiamo proposto sopra possiamo affiancare una classificazione per “natura dell’intervento” come quella suggerita da Lowi. Que-sto significa che non c’è corrispondenza tra le due classificazioni, ma che possono essere usate contemporaneamente definendo una politica sia in base all’area d’intervento, sia in base alla natura dell’intervento. per esempio una politica per il sostegno ai disoc-cupati può basarsi sul pagamento di indennità di disoccupazione tratte dal bilancio statale (in quel caso la politica è di natura di-stributiva) oppure ottenute aumentando le tasse sugli straordinari pagati dai datori di lavoro. in questo secondo caso siamo di fronte ad una politica redistributiva perché è chiaro non solo chi ci gua-dagna (i disoccupati che ottengono sussidi), ma anche chi ci perde (i datori di lavoro se fanno fare straordinari invece di assumere nuovi lavoratori). Dunque, una stessa politica può essere distribu-tiva o redistributiva a seconda degli strumenti adottati. Se la stes-sa politica fosse consistita solo in norme per favorire l’assunzione dei disoccupati senza che fossero previsti esborsi di alcun genere, la politica sarebbe stata di natura regolativa.

2 – Risorse e importanza delle politiche pubbliche europee

La classificazione delle politiche pubbliche europee secondo la tipologia di Lowi ci permette di individuarne alcune importanti caratteristiche, prime tra tutti i costi e la portata. alcune politi-che (coesione, politica agricola, sostegno alla ricerca) sono mol-to costose e comportano flussi di denaro molto rilevanti, anche se toccano solo parti dell’Unione europea quali le regioni meno sviluppate o quelle agricole. altre, pur dai costi molto limitati perché prevalentemente regolative (concorrenza, telecomunica-zioni), hanno una portata molto vasta e toccano tutto il territorio dell’Unione europea. inoltre, ci sono politiche che con il tempo hanno perso d’importanza (anche in termini di ripartizione dei

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fondi) come nel caso della politica agricola e altre che invece sono diventate più importanti assorbendo più fondi, oppure arri-vando a toccare un numero maggiore di cittadini.

nella tabella 7.1 è riportato il bilancio aggregato dell’Unione europea per il 2013 da cui risulta evidente che gran parte del-le risorse vengono utilizzate per le voci “sviluppo sostenibile” e “Conservazione e gestione delle risorse naturali”. in queste voci ricadono rispettivamente la politica di coesione e la politica agri-cola e della pesca che notoriamente sono le politiche più costose tra quelle messe in atto dall’Unione europea e che nel complesso assorbono tra il 70 e 80% del bilancio.

Tra le altre politiche spiccano per ragioni diverse la politi-ca della ricerca rappresentata soprattutto dal Framework plan 7 (Fp7) cui è succeduto il programma Horizon 2020 e la politi-ca delle infrastrutture legate al cosiddetto Ten (Trans europe-an networks) che riguarda le reti ferroviarie, energetiche e delle telecomunicazioni. infatti, Fp7 assorbe una fetta di tutto rispetto del bilancio comunitario del 2013 (7,1%), mentre una voce che dovrebbe essere enormemente costosa come il Ten ne assorbe solo lo 0,95%. Quest’apparente anomalia si spiega con il fatto che la politica delle infrastrutture consiste soprattutto nella piani-ficazione e regolazione della gestione e sviluppo delle reti, cioè si tratta di una politica prevalentemente regolativa. in questo caso l’Unione europea mette dei fondi che però non sono pensati per finanziare il costo della costruzione o della gestione delle reti che invece è lasciato a carico dei paesi membri o finanziato al di fuori del bilancio comunitario, per esempio tramite la Banca europea degli investimenti. La politica della ricerca va invece a integrare i fondi messi a disposizione dagli stati nazionali, fondi che talvolta sono molto modesti come nel caso dell’italia o che comunque sono utilizzati in modo dispersivo e non orientati a favorire la collaborazione tra università di paesi membri diversi.

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Tabella 7.1 – Bilancio aggregato dell’Unione europea (anno 2013; milioni di euro)

Importo Sviluppo sostenibile 70.147

di cui Competitività per lo sviluppo e l’occupazione

15.623

Coesione per lo sviluppo e l’occupazione 54.524Conservazione e gestione delle risorse naturali

61.289

di cui spese sul mercato e pagamenti diretti

48.574

Cittadinanza, libertà, sicurezza e giustizia 2.376di cui libertà, sicurezza e giustizia 1.661

cittadinanza 715Unione europea come attore globale 9.595Amministrazione 9.095totale 152.502

Fonte: european Commission, General budget of the European Union for the financial year 2013: The figures, Luxembourg, Publications Office of the european Union, 2013, p. 7.

3 – Una breve descrizione delle principali politiche pubbliche europee

Come anticipato sopra, le politiche più importanti dell’Unione europea sia perché sono le più costose, sia perché hanno una mag-gior rilevanza per la posizione internazionale dell’Ue, saranno di-scusse approfonditamente nei capitoli seguenti. Dobbiamo comun-que ricordare che l’attività dell’Unione europea non si esaurisce nel sostegno all’agricoltura, alla pesca e alle regioni dei paesi membri meno sviluppate e nemmeno nello svolgimento di attività interna-zionali che vanno dal sostegno allo sviluppo nei paesi extra-europei fino al controllo delle frontiere o alle negoziazioni per l’allarga-mento. Ci sono vari altri campi in cui l’Unione europea svolge at-tività e attua politiche pubbliche che incidono profondamente sulla vita dei cittadini europei e sulla politica dei paesi membri.

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abbiamo già accennato alla politica di sostegno alla ricerca. L’Unione europea già da molti anni ha sviluppato una serie di attività volte al sostegno della ricerca applicata e alla creazione di collaborazioni tra università dei diversi paesi membri che si è av-valsa come strumento principale di quelli che erano chiamati Fra-mework plan (Fp, detti anche pq acronimo di programma quadro) che servivano a pianificare per un determinato periodo di anni i finanziamenti e le tematiche della ricerca supportata dall’Unio-ne europea (da cui la numerazione successiva Fp6, Fp7 ecc. a seconda del periodo di programmazione). nei Framework plan venivano individuati un certo numero di temi all’interno dei quali erano indicate delle sottotematiche su cui la Commissione deci-deva d’investire per sostenere lo sviluppo sociale ed economico dei paesi dell’Unione europea. per l’ultimo di questi Framework plan, Fp7, conclusosi nel 2013 e che ha lasciato il posto ad un programma molto simile e basato praticamente sugli stessi prin-cipi denominato Horizon 2020, c’era l’obbiettivo dichiarato di sostenere i cosiddetti obiettivi di Lisbona e cioè di fare dell’Unio-ne europea la più competitiva e dinamica economia della cono-scenza entro il 2010. ogni anno la Commissione faceva uscire dei bandi in cui per ogni tematica e sottotematica venivano proposti dei temi ben definiti e ritenuti rilevanti per il programma di svi-luppo e sui cui singoli studiosi riuniti in consorzi internazionali di università e centri di ricerca e che spesso includevano anche piccole e medie industrie proponevano un progetto di ricerca che poteva essere finanziato con i fondi europei.

a queste attività di finanziamento diretto della ricerca si ag-giungevano anche fondi per la mobilità degli studiosi, per la cre-azione d’infrastrutture di ricerca, per il finanziamento di gruppi di ricerca formati e diretti da giovani ricercatori anche attraverso nuovi enti quali lo european research Council.

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Prospetto 7.2 – Tematiche di FP7, sezione Cooperazione

Saluteprodotti alimentari, agricoltura e pesca, e biotecnologieTecnologie dell’informazione e della comunicazionenanoscienze, nanotecnologie, tecnologie dei materiali e processi di produzioneenergiaambiente (incl. cambiamenti climatici)Trasporto (incl. aeronautica)Scienze socioeconomiche e umanisticheSpazioSicurezzaCoordinamento delle attività di ricercainiziative tecnologiche congiunte

Una politica che ha una forte valenza strategica è quella dell’ener-gia e delle reti di trasporto di gas ed elettricità, che per semplicità chiameremo politica energetica europea. Uno dei principali pro-blemi dell’Unione europea intesa come area geografica ed econo-mica è la sua ampia dipendenza dall’estero per i rifornimenti ener-getici. i paesi dell’Unione importano gas dall’area ex-sovietica e dal nord africa, petrolio dall’area del golfo ed hanno una politica energetica con attitudini molto diverse relativamente alla produ-zione dell’energia nucleare che comporta flussi di energia dai pa-esi ex-comunisti e dai paesi occidentali che dispongono di centra-li nucleari verso i paesi come l’italia in forte deficit energetico. Questa situazione comporta una serie di necessità cui l’Unione europea tenta di far fronte con la sua politica energetica. in primo luogo, c’è il problema del trasporto dei prodotti energetici. infat-ti, è necessario connettere e razionalizzare la rete di gasdotti ed elettrodotti che coprono l’area comunitaria in modo da garantire una distribuzione efficiente tra i paesi membri. in secondo luogo, l’Unione europea ha bisogno di garantire l’approvvigionamento energetico sviluppando una sorta di diplomazia energetica, talvol-ta chiamata politica energetica esterna, per fronteggiare crisi di approvvigionamento come accaduto in passato quando i contrasti tra russia e Ucraina portarono all’interruzione del flusso di gas dall’area ex-sovietica a quella europea. inoltre, L’Unione europea

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deve integrare questi due aspetti della sua politica energetica af-frontando il problema energetico europeo alla radice e quindi cer-cando soluzioni per ovviare alla dipendenza dall’esterno. per far questo la strategia principale intrapresa si basa sul sostegno allo sviluppo di tecnologie per il risparmio energetico e lo sfruttamen-to delle energie rinnovabili. Com’è intuitivo questa scelta, pur se scaturita nell’ambito della politica energetica è anche parte della politica della ricerca europea che finanzia lo studio sulle energie rinnovabili e della politica ambientale europea.il caso della politica ambientale europea è a suo modo emblema-tico. Questo tipo di politica, inizialmente marginale e forse istitui-ta più per venire incontro alla crescente sensibilità verso l’ambien-te sviluppatasi negli anni ottanta del secolo scorso che per reali necessità d’integrazione, ha col tempo assunto un’importanza più marcata proprio perché si è sovrapposta e integrata con altre po-litiche quali quella energetica oppure perché si sono con il tempo manifestati i serissimi limiti delle politiche nazionali nella gestio-ne e smaltimento dei rifiuti. La politica ambientale europea ha in parte natura costituente visto che nel suo ambito è stata creata l’agenzia europea per l’ambiente che svolge funzioni di supporto ai decisori nazionali nella definizione delle politiche ambientali degli stati membri. inoltre questa politica ha assunto una certa im-portanza anche per il sostegno all’attività economica attraverso le sue azioni per l’uso efficiente delle risorse e più in generale nella promozione di quella che è oggi nota come green economy.altra importante politica, non fosse altro che per l’importanza del tema, è la politica per l’occupazione. Questo tipo di politica ha una natura che allo stesso tempo è regolativa e distributiva dati gli strumenti che l’Unione europea adopra per metterla in atto. La natura regolativa consiste nell’imposizione di norme e principi comuni a tutta l’area dell’Unione e che ispira e indirizza anche le legislazioni nazionali. Tra queste la libera circolazione dei lavora-tori, il divieto di discriminazioni salariali sia tra cittadini di diversi paesi membri, sia tra uomini e donne, la possibilità di usufruire di prestazioni previdenziali nei paesi dove il cittadino svolge le pro-prie attività lavorative. a queste attività se ne aggiungono altre di

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carattere distributivo finanziate prevalentemente tramite il fondo sociale europeo (Fse) volte a favorire l’apprendimento permanente e la riqualificazione dei lavoratori, il sostegno ai giovani disoccu-pati e l’inserimento nel mondo del lavoro delle persone con han-dicap o comunque in situazione di marginalizzazione (ad esempio i rom). Ci sono poi attività finanziate dal Fondo europeo di ade-guamento alla globalizzazione (Feag) che servono a fronteggiare situazioni in cui un numero rilevante di lavoratori (almeno 500) perdono il lavoro a causa di processi legati alla globalizzazione.Un ultimo accenno è dovuto ad una politica molto importante at-tuata dall’Unione europea qual è la politica monetaria. in realtà questa politica può essere definita europea nel senso tradizionale, cioè quello adottato per le altre politiche di cui abbiamo parlato, solo dopo l’entrata in vigore del trattato di Lisbona. infatti, fino ad allora la Banca centrale europea che gestisce gran parte della politica monetaria europea, non risultava inclusa tra le istituzioni europee e comunque l’incidenza che le istituzioni europee ave-vano nella definizione di detta politica era marginale. anche con l’entrata in vigore del suddetto trattato, le cose non sono cambiate di molto. infatti, i passaggi cruciali della politica monetaria euro-pea, primi tra tutti la definizione del tasso di sconto e dell’offerta di moneta, continuano ad essere decisi dalla Bce formalmente in piena autonomia dalle altre istituzioni comunitarie la cui attività fino ad un paio di anni fa è rimasta confinata alla sorveglianza sul rispetto dei parametri del patto di stabilità e sviluppo che i singoli paesi membri dovevano osservare. recentemente, con l’introdu-zione di strumenti quali il Meccanismo europeo di stabilità e più in generale con l’accresciuto ruolo della cosiddetta Troika di cui fa parte anche un rappresentante della Commissione, quest’ulti-ma ha incrementato leggermente il suo ruolo nella gestione delle questioni monetarie europee, pur se limitatamente a casi specifici quali quello greco e comunque sempre in funzione di supervisione e d’intervento straordinario a supporto dell’attuazione delle deci-sioni di politica monetaria della Banca centrale europea.

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Capitolo 8

la politica di coesione e i fondi strutturali

1 – Il problema della coesione in Europa. Origini e sviluppi

il problema della coesione economica e sociale in europa, ovvero della riduzione del divario di sviluppo socioeconomico tra i suoi territori, è stato presente nel dibattito sull’Unione fin dal Trattato di roma del 1957, il cui preambolo faceva esplicito riferimento alla necessità di promuovere uno sviluppo armonio-so delle aree che componevano l’allora Comunità europea, pog-giando su un’idea di solidarietà tra gli stati e le regioni coinvolti nel processo di integrazione.

Tuttavia, un intervento diretto delle istituzioni europee per la promozione di tale principio comincia a prendere forma solo a partire dalla metà degli anni Settanta, con la creazione del Fondo europeo di sviluppo regionale (FeSr), appositamente destina-to a “correggere i principali squilibri regionali nella Comunità risultanti, in particolare, dalla predominanza agricola, dalle mo-difiche industriali e dalla sottoccupazione strutturale”. esistono varie interpretazioni riguardo a questa inversione di rotta: da un lato, è innegabile che l’avvento della recessione economica in seguito all’embargo petrolifero del 1973 avesse reso ancora più pressante la questione delle disparità di sviluppo interregionali in

Questo capitolo è stato scritto da Stefania Profeti

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seno alla Comunità; dall’altro lato, non si può ignorare il ruolo giocato dall’ingresso nella Comunità di Gran Bretagna, irlanda e Danimarca avvenuto nel 1973. proprio la Gran Bretagna, che sarebbe divenuta uno dei maggiori contribuenti netti, è infatti lo Stato che premette maggiormente per l’introduzione del FeSr, al fine di recuperare parte delle risorse del bilancio comunitario altrimenti destinate alla politica agricola Comune, settore che avrebbe fatto tornare ben poche risorse nelle casse del governo.

Da allora, la “logica dell’armonioso sviluppo” dei territori co-munitari e la “logica compensatoria” per gli stati di volta in volta aderenti al processo d’integrazione sembrano coesistere accom-pagnando le varie riforme della politica di coesione, i cui snodi temporali sono scanditi, di fatto, dalle varie tappe dell’allarga-mento (prospetto 8.1): negli anni ottanta, a seguito dell’ingresso di Spagna, Grecia e portogallo, e in concomitanza della ratifica dell’atto unico europeo, l’intervento comunitario in materia di co-esione trova una sua organicità, dapprima coi programmi integrati mediterranei (pim) e, nel 1988, con l’introduzione di una vera e propria politica regionale, così detta perché orientata a sanare le disparità di sviluppo tra regioni e non solo tra gli stati, dotata di principi generali di funzionamento e di risorse proprie, i cosiddetti fondi strutturali. anche le tre riforme che seguono (1993, 1999 e 2006) sono ratificate in concomitanza con le ulteriori fasi di am-pliamento territoriale dell’Unione, segnando non solo una crescita dell’importanza della coesione in seno ai trattati – un apposito Ti-tolo è introdotto a partire dal Trattato di Maastricht – ma anche un progressivo e costante incremento delle risorse finanziarie ad essa destinate, che da 68 miliardi di eCU del 1989-93 passano a 195 miliardi di euro per il periodo 2000-2006. nella fase di program-mazione 2007-2013 appena conclusa, estesa ai 27 paesi dell’Ue, la dotazione finanziaria assegnata alla politica regionale è quasi raddoppiata fino a raggiungere 354 miliardi di euro, equivalenti al 35% del bilancio comunitario. Dal 2009 è stato infine avviato il dibattito attorno ad un’ulteriore riforma della politica di coesione per il settennio 2014-2020, allo scopo di adeguare regole, principi e risorse al quadro di priorità delineate dalla strategia comunitaria

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Europa 2020 in materia di occupazione, innovazione, istruzione, integrazione sociale e clima/energia.

Prospetto 8.1 – Parallelismo tra riforme dei fondi strutturali e tappe dell’allargamento

Allargamenti e trattati Cambiamenti nella politica regionale

1973: ingresso di regno unito, Danimarca e irlanda

1975: Creazione del Fondo euro-peo di sviluppo sociale (Fesr)

1981-86: ingresso di Grecia Spa-gna e portogallo

1985-86: programmi integrati mediterranei (pim)

1987: atto unico europeo 1988: prima riforma organica dei fondi strutturali

1992: Trattato di Maastricht 1993: Seconda riforma dei fondi strutturali; introduzione del fon-do di coesione

1997-98: agenda 2000 e prepa-razione dell’allargamento a est

1999: Terza riforma dei fondi strutturali

2004 e 2007: allargamenti 2006: Quarta riforma dei fondi strutturali

2 – La politica di coesione: che cos’è e chi fa cosa

più in dettaglio, la politica di coesione dell’Unione europea consta di una serie di programmi-intervento volti a ridurre gli squilibri di sviluppo interregionali, concordati tra Commissione europea, stati membri e regioni, e cofinanziati da risorse comuni-tarie meglio note come “fondi strutturali”: il già menzionato Fon-do europeo di sviluppo regionale (Fesr), il Fondo sociale europeo (Fse) e, dal 1994, il Fondo di coesione. Si tratta di finanziamenti a fondo perduto che l’Ue assegna alle varie regioni sulla base di alcuni principi guida:

a) Concentrazione delle risorse. Gli interventi finanziati dai fondi strutturali devono andare ad agire su situazioni di reale ne-cessità, privilegiando le aree in cui gli squilibri socioeconomici si rivelino più problematici. a tale scopo sono distinti alcuni obiet-

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tivi, differenziati per ordine di gravità dei problemi e conseguente intensità degli aiuti comunitari, e l’attribuzione dei fondi avviene sulla base di precisi parametri che i territori devono presentare per poter accedere a un obiettivo o all’altro. in passato tali obietti-vi erano molteplici (prospetto 8.2); dal 2000 essi sono stati ridotti a tre, e dal periodo 2007-2013 hanno cambiato denominazione:

• l’obiettivo “Convergenza” (ex obiettivo 1), fina-lizzato ad accelerare la convergenza degli stati membri e delle regioni in ritardo di sviluppo migliorandone le condi-zioni di crescita e d’occupazione, in cui ricadono le regioni il cui pil pro capite è inferiore al 75% della media europea; ad esso è destinato circa l’82% delle risorse disponibili, e il cofinanziamento dell’Ue può oscillare tra il 75% e l’80% del costo totale degli interventi. i campi finanziabili vanno dalla qualità degli investimenti in capitale fisico e umano allo sviluppo dell’innovazione e della società basata sulla conoscenza, passando per la tutela dell’ambiente e i miglio-ramenti dell’efficienza amministrativa.

• l’obiettivo “Competitività regionale e occupazio-ne” (ex obiettivi 2 e 3) mira a rafforzare la competitività, l’occupazione e il potenziale di attrazione di tutte quelle re-gioni che, in assenza dei parametri prestabiliti, non rientrano nell’obiettivo convergenza. Gli interventi finanziabili pos-sono riguardare l’adattamento ai cambiamenti socioecono-mici, la promozione dell’innovazione, l’imprenditorialità, la tutela dell’ambiente, l’accessibilità, l’adattabilità dei lavora-tori e lo sviluppo di mercati che favoriscano la creazione di nuovi posti di lavoro. a questo obiettivo è destinato circa il 16% dei fondi strutturali, e il cofinanziamento dell’Ue non può eccedere di norma il 50% del costo dei programmi.

• l’obiettivo “Cooperazione territoriale europea”, infine, raccoglie l’eredità della precedente iniziativa comu-nitaria interreg, anch’essa finanziata dai fondi strutturali fino al 2006, finalizzata a rafforzare la cooperazione tran-sfrontaliera, transnazionale e interregionale sulla base di progetti di intervento che coinvolgono più territori, promuo-

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vendo la ricerca di soluzioni congiunte a problemi comuni tra le autorità confinanti. Gli interventi finanziabili riguar-dano in questo caso ricerca e sviluppo, società dell’informa-zione, ambiente, prevenzione dei rischi e gestione integrata delle acque. Le risorse dedicate a questo obiettivo coprono poco più del 2% dei fondi disponibili, e il cofinanziamento può arrivare al massimo al 75% del costo complessivo degli interventi.

b) Addizionalità. Gli aiuti dell’Ue non devono costituire un mero rimborso delle spese nazionali per lo sviluppo regionale (come in-vece era ampiamente successo in passato), ma piuttosto una loro integrazione. in linea di massima, lo Stato membro beneficiario dei finanziamenti dovrebbe garantire un incremento generale dei propri investimenti almeno pari alla quota comunitaria ricevuta.

Prospetto 8.2 – Requisiti di ammissibilità per obiettivo regionale nei primi tre periodi di programmazione

Obiettivi 1989-93 1994-99 2000-06obiettivo 1 regioni in ritar-do di sviluppo

pil pro-capite in-feriore al 75% della media co-munitaria (in base ai dati degli ultimi tre anni)

invariato pil pro-capite in-feriore al 75% della media co-munitaria (in base ai dati degli ultimi tre anni)regioni spopola-te comprese nel vecchio ob.6regioni ultraperi-feriche (diparti-menti francesi di oltremare, isole Canarie, azzorre, Madeira)

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obiettivo 2regioni o parti di regioni gra-vemente colpi-te dal declino industriale

Tasso medio di disoccupazione superiore alla me-dia comunitaria negli ultimi tre anni; tasso di im-piego nel settore industriale supe-riore alla media comunitaria negli anni dopo il 1975; livello di occupa-zione in continuo regresso.

invariato Zone industriali: i tre criteri restano invariatiZone rurali: cri-terio della scarsa densità di popo-lazione o dell’e-levato tasso di oc-cupati in agricol-tura, abbinati ad un elevato tasso di disoccupazione o alla diminuzione della popolazione.Zone urbane che soddisfano al-meno uno dei seguenti criteri: elevato tasso di disoccupazione di lunga durata; elevato livello di povertà; ambiente degradato; crimi-nalità e delinquen-za; basso livello di istruzione.Zone dipendenti dalla pesca: quo-ta significativa di occupati nel set-tore della pesca e diminuzione di posti di lavoro in questo settore.

obiettivo 3Lotta contro la disoccupazione di lunga durata

Tutto il territorio comunitario

invariato invariato. assor-be l’ex ob. 4

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obiettivo 4i n s e r i m e n t o professionale dei giovani

Tutto il territorio comunitario

invariato Confluito nel nuovo ob. 3

obiettivo 5bSviluppo delle zone rurali

alta % di impiego nell’agricoltura; basso livello di reddito agricolo; basso pil pro ca-pite

invariato Confluito nel nuovo ob.2

obiettivo 6aree scarsa-mente popolate

non presente Densità di popolazione pari o in-feriore a 8 abitanti per Km²

Confluito nel nuovo ob.1

c) Programmazione. il cofinanziamento europeo non è desti-nato a singoli e specifici progetti, ma a programmi pluriennali formulati in base a una strategia complessiva di sviluppo di un certo territorio: ciò implica che si tenga conto della capacità di un intervento non tanto di fungere da palliativo ad una situazione contingente, quanto piuttosto di produrre effetti duraturi e risolu-tivi di vere e proprie criticità strutturali di una determinata zona.

d) Partenariato; partendo dall’assunto che i bisogni dei terri-tori sono meglio conosciuti da chi più da vicino li amministra e vi opera, le varie fasi della politica di coesione, e in particolare la programmazione e la messa in atto degli interventi, devono coinvolgere attivamente non solo le istituzioni europee e gli stati membri, ma anche le autorità regionali e locali (il c.d. “partena-riato verticale”). Dal 1993 tale coinvolgimento viene esteso an-che alle parti economiche e sociali e, dal 1999, alle associazioni e ai gruppi attivi negli ambiti su cui i fondi vanno ad agire (es. associazioni ambientaliste, ong ecc.).

oltre a dover rispettare questi principi, gli interventi cofinanzia-ti dai fondi strutturali devono anche rispondere a sistemi di moni-

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toraggio e valutazione messi in atto congiuntamente da Commis-sione europea, stati membri e realtà regionali interessate. Si tratta di strumenti su cui le istituzioni comunitarie hanno riposto molta enfasi, perché concepiti come essenziali a garantire politiche più efficienti ed efficaci, oltre a consentire un effettivo controllo da parte dell’Ue sulla quantità di fondi spesi dalle amministrazioni e sull’andamento della realizzazione dei programmi approvati. a partire dai regolamenti per il 2000-2006 il versante valutativo è stato arricchito con un sistema di incentivi e sanzioni volto a pre-miare le gestioni più efficienti e i programmi più efficaci, e a sco-raggiare i ritardi nell’attuazione troppo spesso riscontrati nei perio-di precedenti. Sul versante degli incentivi, si prevede che all’inizio di ciascun periodo di programmazione il 4% delle risorse destinate ad ogni Stato membro sia da accantonare come riserva di efficacia ed efficienza, da distribuire a metà percorso tra i programmi che avranno raggiunto risultati migliori; per quanto riguarda le sanzio-ni, invece, viene introdotta la clausola del disimpegno automatico dei fondi, in base alla quale la parte di risorse impegnate che non è stata ancora spesa entro la fine del secondo anno successivo all’im-pegno è revocata d’ufficio dalla Commissione.

Già dall’illustrazione dei suoi principi di funzionamento si comprende come la politica di coesione dell’Ue sia caratterizzata da una certa complessità; una complessità che risiede, oltre che nel fitto quadro di regole stabilite a livello comunitario, nella va-rietà dei soggetti coinvolti nella programmazione e nella messa in opera degli interventi. Se infatti la fase “a monte” di definizione del quadro normativo e regolamentare e di individuazione delle aree ammissibili ai diversi obiettivi è appannaggio quasi esclu-sivo della Commissione europea (con successiva e necessaria approvazione del Consiglio) e degli stati membri, in base al prin-cipio del partenariato le fasi più operative di programmazione, messa in opera e valutazione degli interventi vedono la presenza di numerosi livelli di governo e, potenzialmente, delle forze eco-nomiche e sociali presenti sui territori interessati. più in dettaglio:

a) La programmazione. in base ai regolamenti approvati a li-vello europeo, e tenuto conto delle risorse assegnate a ciascun pa-

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ese a titolo dei vari obiettivi, gli stati membri preparano i propri Quadri strategici di riferimento nazionali (Qsn), ovvero dei docu-menti di orientamento strategico che dovrebbero essere il frutto di un processo di discussione fra amministrazioni centrali e regiona-li, esponenti del partenariato istituzionale e di quello economico e sociale. Tali documenti sono poi presentati alla Commissione europea, che li approva prima dell’inizio effettivo del ciclo di pro-grammazione. Successivamente, nel quadro delle previsioni dei Qsn, per ciascun obiettivo sono elaborati i programmi operativi nazionali (pon) e regionali (por), che definiscono operativamente gli ambiti di intervento, le azioni previste e i relativi costi. i pon-sono elaborati dalle amministrazioni centrali coinvolte (normal-mente i ministeri competenti per materia), mentre la stesura dei por è a carico delle amministrazioni regionali. in entrambi i casi, sempre in nome del partenariato, è richiesto un coinvolgimento attivo delle parti sociali potenzialmente interessate.

b) La messa in opera. Fin dagli esordi della politica di coesio-ne, la fase di messa in opera è quella in cui più pienamente trova spazio l’intervento delle realtà territoriali: la gestione dei fondi è infatti fin dall’inizio decentrata, in quanto le azioni incluse nei piani operativi hanno nella maggior parte dei casi dimensione re-gionale o sub-regionale. a partire dal periodo 2000-06 gli stati sono chiamati a identificare e designare chiaramente un’unica autorità di gestione (adg) per ciascun programma operativo, sia esso nazionale o regionale, che sia responsabile dell’attuazione e dell’efficacia degli interventi. Solitamente, almeno per quan-to riguarda le regioni, il ruolo di adg è ricoperto dai dirigenti a capo delle aree o dei servizi che coordinano l’azione regionale in materia di fondi strutturali. più precisamente, l’adg si occupa di raccogliere i dati statistici e finanziari per la sorveglianza del pro-gramma, di mettere a punto un sistema informatizzato di gestione e valutazione, di apportare eventuali modifiche in corso d’opera, di elaborare le relazioni annuali e finali di esecuzione da trasmet-tere alla Commissione e di organizzare la valutazione intermedia. La Commissione europea si riserva invece di formulare osserva-zioni o raccomandazioni per migliorare l’attuazione.

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c) La valutazione. Mentre fino al 1999 era prevista una gene-rica condivisione delle responsabilità tra Stato membro e Com-missione in ogni fase della valutazione dei programmi, a partire dal ciclo di programmazione 2000-06 le responsabilità sono me-glio distinte: la valutazione ex ante, ovvero quella che si effettua prima della scrittura dei programmi per giudicarne la fattibilità (e prevederne i potenziali impatti, ivi compreso quello ambien-tale), spetta alle autorità nazionali o regionali incaricate dell’e-laborazione dei piani; la valutazione in itinere, in corso d’opera, spetta all’adg in collaborazione con la Commissione europea; e la valutazione ex post, debitamente redatta da valutatori indi-pendenti, alla Commissione europea, in collaborazione con lo Stato membro e l’adg. a garanzia del principio di trasparenza, si prevede poi che le relazioni di valutazione siano messe a di-sposizione del pubblico, solitamente tramite il portale web delle amministrazioni coinvolte. per il periodo di programmazione 2007-2013 le attività di valutazione sono tuttavia state rese più flessibili e meno “ingessate”: ai compiti valutativi predefiniti, che dovevano essere uniformi e simultanei per ciascun tipo di programma (come ad es. la valutazione intermedia), si sostitui-scono compiti valutativi differenziati nei tempi e nei contenuti, da adattare alle esigenze di ciascuna amministrazione. L’obiet-tivo delle istituzioni comunitarie, tramite questa innovazione, è quello di rendere la valutazione un vero e proprio strumento per il miglioramento degli interventi da parte delle amministrazioni titolari dei programmi, anziché una “scadenza rituale” da rispet-tare per evitare di incorrere in sanzioni.

3 – Chi prende cosa

Una volta illustrato per sommi capi il funzionamento della politica di coesione, passiamo ad esaminare chi, dalla fine degli anni ottanta ad oggi, ha maggiormente beneficiato degli aiuti co-munitari. Come si è detto, in base al principio di concentrazione delle risorse, la maggior parte dei fondi è stata da sempre dedica-ta alle regioni classificate come in ritardo di sviluppo, ricadenti

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nell’obiettivo 1 fino al 2006, e oggi nel nuovo obiettivo conver-genza. Le mappe riportate nelle figure 8.1 e 8.2, raffiguranti le aree ammissibili ai diversi obiettivi “regionalizzati” nei due pe-riodi 2000-06 e 2007-13, mostrano chiaramente che, a seguito dell’allargamento a est dell’Unione, le regioni che possono es-sere considerate in ritardo di sviluppo tendono a concentrarsi nei nuovi paesi membri, mentre un buon numero di regioni del sud europa (per l’italia, ad esempio, Sardegna, Molise e Basilicata) sta abbandonando questo regime di aiuti per transitare nell’obiet-tivo competitività. Come si può immaginare, nonostante l’uscita dalla categoria “in ritardo di sviluppo” possa essere interpretata come frutto di un miglioramento relativo delle condizioni di una regione nel contesto europeo, il fatto di abbandonare un regime di aiuti particolarmente generoso è stato visto in molti casi con estrema preoccupazione e non pochi contrasti. allo scopo di ren-dere meno traumatico e repentino il passaggio, la Commissione europea ha dunque distinto due diversi regimi transitori per le regioni in uscita: il regime di phasing out, applicabile a quelle regioni che sarebbero state ancora ammissibili all’obiettivo con-vergenza se la soglia fosse rimasta al 75% del pil medio della Ue a 15 Membri e non a 25 Membri – poi 27 (e che ne sono escluse, quindi, per un mero “effetto statistico”), e il regime di phasing in, dedicato invece ai territori che sarebbero comunque usciti dall’ex obiettivo 1 in virtù di un miglioramento dei propri parametri.

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Un ulteriore cambiamento introdotto con il periodo di pro-grammazione 2007-2013, visibile anch’esso dal confronto tra le mappe riportate nelle figure 8.1 e 8.2, è il differente criterio di zonizzazione con cui sono individuate le aree oggi ammesse all’obiettivo competitività, rispetto a quello utilizzato per la de-finizione delle aree ricadenti nell’ex obiettivo 2: infatti, mentre in precedenza la Commissione europea, sulla base di proposte pervenute dagli stati membri, giudicava ammissibile ai finanzia-menti un elenco di aree sub-regionali in possesso di specifici pa-rametri (indicatori di declino industriale, scarsa densità di popola-zione, degrado ambientale ecc.), dal 2007 tutte le regioni che non ricadono nell’obiettivo convergenza, e il loro territorio per intero, rientrano automaticamente tra i possibili beneficiari, e tocca sta-volta allo Stato di concerto con le regioni interessate stabilire poi le zone dove concentrare gli aiuti. Si assiste quindi ad una minore ingerenza delle istituzioni comunitarie nell’allocazione degli aiu-ti per l’incremento della competitività regionale, fermo restando invece lo stretto controllo operato dalla Commissione sulle aree ammissibili all’obiettivo convergenza.

Se dall’ammissibilità ai diversi obiettivi passiamo a esaminare chi, tra gli stati membri, ha maggiormente beneficiato degli aiuti strutturali, vediamo che – come si era in parte anticipato – dal 2007 un’ingente percentuale delle risorse disponibili è stata “tra-sferita” verso gli stati di più recente adesione, considerato che è lì che adesso si concentra la maggior parte delle regioni in regime di convergenza. La tabella 8.1, che mette a confronto la testa della classifica degli stati aggiudicatari delle quote più consistenti di fondi nel 2000-2006 e nel 2007-2013, mostra infatti come polo-nia, repubblica Ceca, Ungheria e romania abbiano “scalzato” paesi come irlanda, Grecia e portogallo, in passato destinatari di ampie fette di aiuti. anche Spagna e italia, così come la Germania (grazie alla presenza dei Länder orientali), pur rimanendo nella parte alta della classifica, vedono ridursi non poco la percentuale di fondi ad essi assegnata. e in effetti proprio il braccio di ferro tra vecchi e nuovi beneficiari della politica di coesione, sommandosi a quello “classico” tra contribuenti e beneficiari netti, ha caratte-

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rizzato il negoziato sul Quadro finanziario pluriennale dell’Unio-ne europea (Qfp), che copre il periodo 2014-2020 e che include le previsioni di bilancio anche per il futuro ciclo di programmazione dei fondi strutturali. L’allocazione totale proposta dalla Commis-sione è di 336 miliardi di euro, rispetto ai 354 miliardi dedicati alla coesione nel ciclo 2007-2013, con una riduzione complessiva di 18 miliardi.

Tabella 8.1 – Stati membri maggiormente beneficiati dai Fondi strutturali nei periodi 2000-06 e 2007-13 (percentuale di fondi

ottenuti sul totale dei fondi assegnati)

2000-2006(totale fondi: 195 miliardi di euro)

2007-2013(totale fondi: 354 miliardi di

euro)Spagna 23,60% polonia 19,40%italia 12,40% Spagna 10,20%Germania 12,40% italia 8,30%Grecia 10,70% rep. ceca 7,70%portogallo 9,70% Germania 7,60%UK 7,60% Ungheria 7,30%Francia 7,00% portogallo 6,20%polonia 4,80% Grecia 5,90%irlanda 1,80% romania 5,70%

4 – La politica di coesione in Italia: un sintetico bilancio

in tutti i cicli di programmazione dei fondi strutturali l’italia è sempre risultata uno dei principali recettori di aiuti europei, grazie alla presenza del Sud e delle isole tra le aree ammissibili all’obiettivo 1, prima, e al regime di convergenza oggi (sebbene con le “fuoriuscite” prima ricordate). i grafici 8.1 e 8.2, che illustrano rispettivamente la ripartizione dei fondi tra le regioni italiane nei diversi periodi di programmazione e le virtuali quote pro capite per il 2007-2013, mostrano infatti chiaramente

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che la maggior parte dei contributi europei si concentra nel Mezzogiorno, con un distacco vistoso rispetto alle regioni del centro e del nord.

Grafico 8.1 – Ripartizione dei Fondi strutturali dal 1994 a oggi tra le regioni italiane (in milioni di euro)

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È tuttavia proprio nel Mezzogiorno che, nelle varie fasi, si sono concentrati i principali problemi relativi alla spesa e all’utilizzo dei fondi. La questione della gestione poco efficiente degli aiuti europei nelle regioni del Sud è stata messa in luce a più riprese sia nella pubblicistica che da varie ricerche condotte in ambito accademico, a cui si rinvia per un’analisi di dettaglio. in questa sede ci limitiamo a sottolineare come, pur con alcuni distinguo (in particolare la regione Basilicata, che in media presenta un rendimento migliore delle altre regioni del Sud), anche in relazione alla politica di coesione si riproponga il tradizionale dualismo tra le regioni del centro-nord e quelle del Mezzogiorno, con le seconde meno capaci di sfruttare in maniera adeguata le occasioni di sviluppo territoriale fornite dall’arrivo nelle casse regionali di un ammontare cospicuo di risorse, siano esse nazionali o comunitarie.

Le stesse azioni di supporto messe in atto dal governo nazionale, e in particolare dal Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica (Dps) dalla metà degli anni novanta in poi, sono state rivolte principalmente alle regioni del Sud, vuoi per la maggiore quantità di risorse ad esse destinate, vuoi per l’effettiva maggiore necessità di assistenza tecnica. L’intervento del livello centrale si è rivelato in questo senso fondamentale anche nel periodo di programmazione 2007-2013: a seguito della nomina di Fabrizio Barca (già dirigente generale del Dps) a Ministro per la coesione territoriale alla fine del 2011, in un anno la spesa dei fondi strutturali è infatti passata in media dal 22% al 37% delle risorse impegnate, superando così il limite minimo previsto dall’Ue (31,5%) e scongiurando il rischio di perdere ingenti quantità di aiuti1. Ciò detto, resta naturalmente da vedere se e come, in una prospettiva di contributi comunitari che sempre più si delinea “magra” rispetto al passato, l’esperienza ormai più che ventennale in materia di gestione dei fondi strutturali sia riuscita a innescare nuove pratiche e nuovi stili nella programmazione delle politiche di sviluppo per il 2014-2020.

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Capitolo 9

Le reGioni e L’Unione eUropea

1 – Le regioni in Europa

negli ultimi venti anni il panorama degli studi sull’integrazio-ne europea si è arricchito di una nuova categoria di protagonisti, le regioni, che erano state a lungo trascurate nel dibattito sull’ar-chitettura istituzionale dell’Unione e sui processi di produzione delle politiche pubbliche su scala sovranazionale. Questo rinno-vato interesse verso i “livelli intermedi” di governo in seno all’Ue è principalmente dovuto alla maturazione, nel corso degli anni novanta, di una serie di eventi che, in maniera diretta o indiret-ta, sono destinati ad incidere sull’assetto istituzionale dell’intero “apparato” comunitario: la creazione di una vera e propria politi-ca regionale europea (la politica di coesione), l’ampliamento con-sistente delle risorse ad essa destinate, l’introduzione del princi-pio del partenariato, il riconoscimento del ruolo delle regioni nel Trattato di Maastricht e la conseguente istituzione, nel 1994, del Comitato delle regioni, sono tutte novità che stimolano studiosi e cultori della materia ad indagare quali nuove prospettive si schiu-dano per i livelli di governo subnazionali.

Se questo è vero, occorre però ricordare che al termine “regione”, in europa, non può essere attribuita una valenza univoca: non tutti gli stati, infatti, prevedono un livello di governo

Questo capitolo è stato scritto da Stefania Profeti

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intermedio tra quello centrale e quelli locali né, anche laddove tale livello esista, le competenze e i poteri ad esso attribuiti dall’ordinamento di un paese corrispondono necessariamente a quelli assegnati negli altri casi. Questa disomogeneità negli assetti istituzionali dei diversi stati membri ha rallentato non poco lo sviluppo di una strategia complessiva di attivazione delle regioni verso Bruxelles; al tempo stesso, essa ha richiesto da parte della Commissione europea l’elaborazione di una strategia che rendesse comparabili i diversi territori e le loro caratteristiche, anche e soprattutto in vista del lancio di una vera e propria politica di coesione comunitaria.

È per questa ragione che nel corso degli anni ottanta l’eurostat, ovvero l’istituto di statistiche dell’Unione europea, ha elaborato una nomenclatura delle unità territoriali statistiche (nuts), fornendo uno schema unico di ripartizione geografica che prescinde dalle dimensioni amministrative degli enti nei diversi stati e si basa invece sull’entità della popolazione residente in ciascuna area. i livelli nuts attualmente previsti e utilizzati, ad esempio, per l’attribuzione dei fondi strutturali, sono tre (tabella 9.1):

a) Territori di livello nuts 1, come le regioni del Belgio, la Danimarca, la Svezia, la Finlandia continentale, l’irlanda, il Galles, la Scozia e altre grandi entità regionali. per l’italia la suddivisione richiama la classica distinzione per aree sovra regionali (nord-ovest, nord-est, Centro, Sud, isole) utilizzata anche dall’istat;

b) Territori di livello nuts 2, tra cui rientrano le regioni italiane, le Comunità autonome spagnole, le regioni e i Dipartimenti d’oltremare francesi, le province belghe e olandesi, i Länder austriaci, le regierungsbezirke tedesche, ecc.;

c) Territori di livello nuts 3, tra cui troviamo le province italiane, le nomoi in Grecia, le Maakunnat in Finlandia, i Län in Svezia, le Kreise tedesche, i Dipartimenti francesi, le province spagnole, ecc.

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La nascita e lo sviluppo della politica di coesione dell’Ue non hanno comunque comportato solamente un’opera di omogeneizza-zione sul piano statistico-territoriale, ma hanno avuto effetti di un certo rilievo anche nel ridisegnare l’ossatura istituzionale interna agli stati membri; in diversi paesi dove non esisteva un livello di governo corrispondente al livello nuts 2 (quello individuato come base per l’attribuzione dei fondi strutturali), infatti, sono state cre-ate apposite strutture amministrative con compiti prevalentemente gestionali, in modo da creare un parallelismo tra ricezione dei fondi e area in cui questi vengono spesi e utilizzati; è il caso, ad esempio, dell’irlanda, del portogallo e di vari paesi dell’est di recente ade-sione. allo stesso tempo, anche negli stati dove già le regioni erano presenti, ma non disponevano di competenze tali da consentir loro un rapporto diretto con le istituzioni comunitarie (come l’italia, ad esempio), le procedure previste per la programmazione e la gestione dei fondi strutturali, centrate sulla collaborazione tra i vari livelli di governo, e in particolare il principio del partenariato che prevede la partecipazione delle regioni all’elaborazione dei programmi e nella gestione degli interventi, hanno senza dubbio favorito un rafforza-mento del livello intermedio di governo, e un potenziamento anche sul fronte delle relazioni con l’Ue. a quest’ultimo aspetto sarà de-dicata l’analisi che segue, centrata sui canali di attivazione di cui le regioni dispongono per far arrivare la propria voce a Bruxelles.

2 – L’attivazione regionale verso Bruxelles: i canali “collettivi”

negli ultimi due decenni, man mano che i margini d’azione dei governi subnazionali in seno all’Ue si stavano ampliando, nel di-battito accademico e tra gli “addetti ai lavori” è cresciuta l’atten-zione verso il fenomeno dell’attivazione regionale verso Bruxelles. in molti casi oggi le regioni possono infatti cercare un contatto con l’europa e con le amministrazioni locali di altri stati, senza necessariamente passare dal tramite del governo nazionale. per far questo possono utilizzare canali “collettivi” a cui partecipano altre regioni, oppure strategie individuali, basate sulla ricerca di contatti diretti tra singole amministrazioni regionali e istituzioni dell’Ue.

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Tra i canali collettivi troviamo senz’altro il Comitato delle re-gioni (Cdr): previsto nel Trattato di Maastricht, e operativo dal 1994, il Cdr è il canale istituzionale per la rappresentanza regio-nale nel processo legislativo europeo. Ha funzioni consultive, e la richiesta del suo parere è obbligatoria – anche se mai vincolante – ogniqualvolta le decisioni prese in ambito comunitario interes-sino direttamente i livelli regionali e le tematiche territoriali (ad esempio nel caso dei fondi strutturali). oggi il Comitato conta 344 membri effettivi che rappresentano i governi subnazionali dei vari stati membri, più 344 membri supplenti. L’italia dispone di 24 membri titolari (e altrettanti supplenti), che rappresentano non solo i governi regionali ma anche le autonomie locali.

Sia per questo suo offrire una rappresentanza di tipo misto re-gionale-locale, sia per il fatto di disporre di mere funzioni consul-tive e non vincolanti, il Cdr è spesso considerato da molte regioni come un canale debole e poco influente. esso può essere tuttavia visto come una sede utile per costruire occasioni di futura coope-razione con regioni di altri stati e per accrescere la propria “repu-tazione” al di fuori dei confini nazionali. Si tratta, in entrambi i casi, di aspetti certamente non secondari per poter sfruttare altri due tipi di canali di attivazione collettiva, certo meno “istituzio-nali” ma senz’altro più efficaci sul piano concreto: i progetti di partenariato interregionale finanziati nell’ambito della politica di coesione, e le associazioni interregionali che raggruppano territo-ri che hanno simili caratteristiche geografiche e produttive.

i partenariati interregionali nascono e si sviluppano principal-mente grazie all’iniziativa comunitaria interreg, uno specifico programma ideato dalla Commissione europea e finanziato trami-te i Fondi strutturali allo scopo di incentivare la cooperazione tra territori appartenenti a paesi diversi ma accomunati da medesimi problemi. L’esempio più classico a questo proposito è fornito dal-la cooperazione transfrontaliera di regioni situate al confine dei diversi stati, spesso caratterizzate da comuni condizioni geofisi-che (ad es. la montuosità e il conseguente sottopopolamento) e culturali (ad es. il bilinguismo delle comunità locali e la presenza di dialetti da salvaguardare); ma anche dalle isole, che condivi-

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dono appunto una condizione di relativo isolamento dal resto dei territori nazionali, o dalle regioni che appartengono a una me-desima area geografica contraddistinta da proprie peculiarità (ad es. l’area mediterranea, l’area balcanica ecc.). i progetti attivati in questo ambito consentono alle regioni di creare reti di colla-borazione su tematiche disparate (sviluppo sostenibile, ambiente, qualità della vita, cultura, aiuti alle imprese ecc.), favorendo così dinamiche di mutuo apprendimento e percorsi di individuazione di soluzioni comuni. nel corso degli anni questo tipo di canale è cresciuto di importanza sia in termini strategici (si ricordi infatti che l’iniziativa interreg è stata trasformata, nel 2007-2013, in un vero e proprio obiettivo strategico della politica di coesione, quel-lo della Cooperazione territoriale europea) che finanziari, dive-nendo uno degli ambiti di politica regionale cui la Commissione europea dedica particolare enfasi.

altro canale di attivazione collettiva che, seppur non riceven-do finanziamenti diretti dall’Ue, può costituire un’ottima base per l’elaborazione di strategie congiunte di pressione e per la creazio-ne di partenariati da attivare successivamente su specifici progetti, sono le associazioni interregionali. esse possono essere “genera-liste”, ovvero dedite all’obiettivo generale di rafforzare il ruolo delle autorità sub-statali nell’ambito delle relazioni con l’Ue e nei connessi processi decisionali, oppure “tematiche”, vale a dire orientate a influenzare le istituzioni europee in specifici ambiti di intervento o a salvaguardare specifici interessi che accomunano territori appartenenti a paesi differenti. rientrano nella prima cate-goria, ad esempio, la “storica” assemblea delle regioni d’europa (are), creata nel 1985, o la più recente Conferenza delle assem-blee legislative regionali europee (Calre), mentre nella seconda figurano numerose reti createsi attorno a tematiche ad hoc, come l’associazione delle regioni a tradizione industriale (reti), quelle a salvaguardia degli interessi marittimi (amrie) o dei prodotti d’ori-gine controllata (arepo), o ancora quelle che raggruppano regioni frontaliere o accomunate da una speciale condizione geografica (ad es. arge alp, Cotrao e alpe adria per l’arco alpino; o la Con-ferenza delle regioni periferiche e marittime – Crpm). La gamma

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delle associazioni esistenti, così come l’adesione di numerosi ter-ritori ad alcune di esse, sono in costante aumento, a testimonianza di un crescente interesse delle regioni verso questo tipo di attività “paradiplomatica”.

3 – L’attivazione regionale verso Bruxelles: i canali “individuali”

oltre a sfruttare le opportunità di accesso ai canali collettivi ap-pena illustrati, le regioni possono anche cercare occasioni di inter-locuzione diretta e individuale con le istituzioni dell’Ue, e in parti-colare con la Commissione e il parlamento, considerati più ricettivi delle istanze regionali di quanto lo siano gli organismi di natura intergovernativa. Tali contatti sono in genere stabiliti dagli uffici regionali competenti in materia di politiche comunitarie o dagli uf-fici di presidenza, e hanno normalmente a che fare con le questioni legate alla programmazione e alla gestione dei fondi strutturali.

Tuttavia, tra le amministrazioni regionali è sempre più diffusa la pratica di dotarsi di vere e proprie “antenne” localizzate vicino alle sedi in cui prendono vita e si snodano i processi decisionali europei che possono riguardarle. Si tratta degli uffici regionali a Bruxelles, un canale che dalla metà degli anni novanta ha cono-sciuto un incremento esponenziale e che può vantare oggi una presenza numerica assolutamente consistente nella capitale co-munitaria. il grafico 9.1 mostra come, a settembre 2012, fossero presenti a Bruxelles oltre 250 uffici di rappresentanza di regioni o altri enti subnazionali di vari stati membri. Se si considera che nel 1990 gli stessi uffici erano solamente 20, e nel 2000 poco più di 150, si ha un’idea immediata dell’evoluzione del fenomeno.

nonostante la loro costante e continua diffusione, il panorama degli uffici regionali a Bruxelles è tuttavia estremamente variega-to: non solo esistono differenze di un certo rilievo tra uno Stato e l’altro, ma anche la mission e la struttura organizzativa delle sedi possono essere molto diverse. Una prima importante distinzione può essere tracciata tra rappresentanze regionali “istituzionali”, in cui gli uffici a Bruxelles sono da considerare come vere e proprie sedi distaccate dell’ente regionale, e le rappresentanze regionali

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“non istituzionali”, nel caso in cui i governi regionali si appoggi-no alle sedi di rappresentanza di agenzie regionali o delle camere di commercio grazie ad appositi accordi o convenzioni. Le sedi possono poi essere individuali (quando rappresentano una sola regione) o condivise tra più regioni; in genere la forma dell’uf-ficio condiviso viene scelta per una questione di ripartizione dei costi, ma può accadere anche che la coabitazione sia finalizzata a tutelare interessi e priorità politiche comuni. Gli uffici variano inoltre per dimensione: ci sono casi come la Catalogna o la mag-gior parte dei Länder tedeschi, le cui sedi si configurano come vere e proprie mini-ambasciate e, all’opposto, mini-uffici con una o due persone ospitate in locali piuttosto ristretti (come la regio-ne greca dell’epiro, o lo stesso Molise per il caso italiano).

Grafico 9.1 – Numero di uffici regionali (o analoghi) a Bruxelles, per Stato membro (settembre 2012)

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ovviamente le dimensioni degli uffici dipendono non solo dal-le risorse finanziarie a disposizione delle singole regioni, ma an-che dalla gamma di compiti che ad essi sono assegnati: per le più basilari delle funzioni, ovvero quella informativa, in cui gli uffici servono da “postazione di sorveglianza preventiva” per seguire gli sviluppi della legislazione comunitaria e delle opportunità ad

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essa collegate, o quella di supporto logistico al personale regio-nale in visita a Bruxelles, un ufficio di dimensioni modeste può essere sufficiente. La necessità di strutture organizzative più arti-colate si presenta invece quando agli uffici sono affidate attività più complesse come quelle di networking o di vera e propria rap-presentanza degli interessi del territorio regionale: può accadere, infatti, che i responsabili delle sedi a Bruxelles siano incaricati di accompagnare e “facilitare” l’approvazione dei progetti regionali, sfruttando la rete di contatti creatasi nel tempo con alcuni funzio-nari della Commissione, con i membri delle rappresentanze per-manenti presso il Consiglio o con gli europarlamentari eletti nel territorio di appartenenza; o anche di presentare alla Commissione le strategie della regione su alcuni specifici settori di intervento, per verificarne la fattibilità o incidere in prima persona sulla for-mulazione delle politiche.

È chiaro però che la decisione di dotare gli uffici di funzioni di questo tipo così come, più in generale, il livello di impegno dedi-cato nelle attività di proiezione nella sfera comunitaria, dipendono strettamente dalla volontà politica espressa dall’amministrazio-ne regionale, e che quindi variabili di natura personale, relative all’attenzione dedicata alla dimensione europea dai governanti e all’investimento che essi intendono dedicarvi, possono fortemente condizionare il tipo di attivazione verso Bruxelles sia tramite gli uffici che attraverso gli altri canali fin qui presentati.

Se la presenza a Bruxelles può quindi essere ormai considerata un dato comune alla quasi totalità delle regioni europee, la gam-ma di esperienze registrate assume sfumature decisamente non omogenee, che non riguardano solo le regioni appartenenti a stati differenti, ma in alcuni casi si spingono fino al livello infranazio-nale. È questo il caso dell’italia, che affronteremo nella prossima e ultima sezione di questo saggio.

4 – Le regioni italiane a Bruxelles

oggi tutte le regioni italiane dispongono di un proprio ufficio a Bruxelles, e tutte – tranne Basilicata e Molise – hanno ricoperto

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almeno una volta, dal 1994 ad oggi, il ruolo di membro titolare nel Comitato delle regioni. La loro presenza è inoltre un dato consoli-dato nelle due principali associazioni generaliste, la are e la Calre, così come nei principali progetti di partenariato transnazionale fi-nanziati dalla Commissione europea.

Tuttavia, fino al 1996, e più precisamente fino all’emanazione della Legge 52/96, il governo italiano non aveva consentito alle regioni di intrattenere rapporti diretti con le istituzioni europee e con le regioni di altri stati, assimilando questo tipo di relazioni alle attività di carattere internazionale, riservate al Ministero de-gli esteri. Ciò ha chiaramente determinato un certo ritardo nella loro attivazione verso Bruxelles rispetto alle regioni di altri paesi, come ad esempio la Germania, ma tale ritardo ha colpito alcune regioni più delle altre.

riguardo ad esempio all’istituzione di un ufficio di collega-mento a Bruxelles, alcune regioni si sono mosse prima ancora che la Legge 52 del 1996 rimuovesse il divieto: la prima è stata l’emi-lia-romagna, nel 1994, usufruendo della sede di rappresentanza dell’aster (agenzia per lo sviluppo tecnologico dell’emilia-ro-magna), presente a Bruxelles già dal 1985, seguita dalla regione Toscana nel 1995, grazie alla sede della propria finanziaria (Fidi Toscana s.p.a.), così come da piemonte, Lombardia e Veneto agli inizi del 1996, presso le rispettive sedi regionali di Unioncamere. anche la regione Lazio già dai primi anni novanta si era dota-ta di un proprio collegamento, l’antenna Lazio, creata tramite il Business innovation Centre (BiC). Una volta eliminato il vincolo normativo, invece, le prime regioni ad attivarsi sono state la Ba-silicata e la Sardegna (1996), seguite da Liguria (1997), abruzzo, Calabria, Marche e Umbria (1999), Molise e puglia (2000), Friu-li-Venezia Giulia (2001) e, da ultimo, Campania (maggio 2002). Fatta eccezione per la Basilicata e per la Sardegna, le regioni del Mezzogiorno si sono dimostrate quindi più lente rispetto a quelle del Centro-nord nel rendersi conto dell’utilità di predisporre canali di contatto con le istituzioni europee o con le regioni di altri stati.

Questa osservazione è confermata se guardiamo al versante delle associazioni interregionali, dove solo dieci regioni italiane

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risultano tra i membri fondatori di almeno una di esse. Tra queste, spiccano nettamente le regioni centrosettentrionali; Lombardia, Veneto e piemonte si sono, infatti, impegnate fin dagli anni Set-tanta nella costruzione di legami stabili con le autorità locali di ol-tralpe, dando vita alle associazioni alpe adria, arge alp e Cotrao; mentre la Toscana e la Liguria hanno privilegiato i rapporti con le regioni dell’area mediterranea, contribuendo a far nascere, rispetti-vamente, la Crpm e l’alleanza degli interessi marittimi regionali in europa. per quanto riguarda le regioni del Sud e le isole, il numero di regioni impegnate nella creazione di questo canale invece risulta piuttosto basso, fatta eccezione ancora una volta per la Sardegna, che ha partecipato attivamente alla creazione della Crpm nel 1973. anche la partecipazione odierna alle associazioni mostra un netto divario tra nord e Sud: nel 2008, mentre il Molise non era coinvol-to in nessuna associazione tematica, la Toscana e l’emilia-roma-gna partecipavano, rispettivamente, a 8 e 9 tra associazioni e reti permanenti di regioni. nel «gruppo di testa» rientravano poi quasi tutte le altre regioni del Centro-nord: Lombardia e Liguria con 6 associazioni, piemonte e Veneto con 5. Marche e Friuli-Venezia Giulia, con 4 associazioni a testa, si posizionavano a un livello intermedio di questa ideale classifica, mentre il resto delle regioni, ovvero tutto il Mezzogiorno più il Lazio e l’Umbria, appariva poco interessato a questo tipo di partecipazione.

La situazione non differisce di molto se guardiamo infine alla partecipazione delle regioni a interreg iiiB, il principale program-ma d’iniziativa comunitaria per la cooperazione interregionale transnazionale, ideato e coordinato dalla Commissione europea e in vigore fino al 2006. Sebbene tutte le regioni italiane vi abbiano preso parte nel periodo 2000-2006, il numero di progetti a cui esse hanno partecipato varia da un minimo di 4 per il Molise a un mas-simo di 41 per l’emilia-romagna. anche in questo caso, nel grup-po di testa – assieme all’emilia-romagna – troviamo il Veneto, la Toscana e la Lombardia, rispettivamente con 37, 35 e 34 progetti all’attivo. Toscana, Veneto, Lombardia ed emilia romagna sono anche le regioni con un maggior numero di progetti in cui figu-rano come “capofila”, ossia coordinano le attività di gestione dei

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progetti e hanno il compito di trasmettere dati e informazioni alla Commissione, con cui instaurano un rapporto diretto di scambio di informazioni. Le regioni del Mezzogiorno si attestano invece tutte attorno o al di sotto di 20 progetti (fatta eccezione per la Ca-labria che, in questo ambito, si distingue con la partecipazione a 31 iniziative) e molto raramente ne assumono la leadership.

per concludere possiamo dunque dire che, nella maggior parte dei casi, le regioni che si sono mosse prima verso Bruxelles hanno poi esteso maggiormente la gamma di canali utilizzati, riversan-dovi maggiore impegno. Tra queste spiccano senz’altro Toscana, Lombardia, Veneto ed emilia-romagna, che erano state infatti tra le prime a stabilire una sede a Bruxelles e ad agganciare reti di rapporti con altre regioni europee. La maggior parte delle regio-ni del Sud mostra invece un’attenzione piuttosto tardiva e poco sistematica verso tutti i canali di attivazione, con la parziale ecce-zione della Sardegna. Certo, occorre considerare che proprio que-ste regioni, che fino ad oggi hanno potuto contare su un afflusso abbondante di risorse grazie al fatto di ricadere nell’obiettivo 1 (poi convergenza) della politica di coesione, hanno probabilmente sentito una minore esigenza di ricercare contatti diretti con Bru-xelles e con le altre regioni europee per sfruttare ulteriori occasio-ni progettuali e di finanziamento per i propri territori. Considera-to tuttavia che in futuro i Fondi strutturali riservati all’italia – e anche al Sud – sono destinati a diminuire drasticamente, si può ragionevolmente ipotizzare che la predisposizione di iniziative di attivazione verso Bruxelles più incisive ed efficaci diventerà un imperativo anche per le regioni del Mezzogiorno, richiedendo un cambiamento strategico rispetto alle azioni portate avanti finora.

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Capitolo 10

La poLiTiCa aGriCoLa

1 – Premessa

anche per il cittadino comune, magari meno attento alla realtà e alle problematiche dell’europa, l’Ue fa spesso rima con agri-coltura e politica agricola. il campo dell’agricoltura costituisce quindi un settore molto importante all’interno delle “cose che fa” l’Unione europea. non solo, ma l’agricoltura, sebbene non arrivi a costituire il 3% del pil dell’Unione europea, continua a rimane-re una politica centrale per le attività della Commissione verso i paesi membri. L’elemento più importante della politica agricola nell’Ue risiede nella capacità di determinare, forse più di altre po-litiche pubbliche, i suoi effetti per le singole politiche nazionali. ovvero, quanto viene deciso a Bruxelles in materia di agricoltura, avrà sicuramente delle conseguenze immediate negli altri paesi membri. Dunque, da quella considerata da alcuni stati come po-litica “residuale” (ovvero, tradotto in termini politici, il relativo poco appeal per i partiti ad ottenere l’incarico di Ministro dell’a-gricoltura, considerato non così redditizio in termini di visibilità), al livello europeo diventa, al contrario, centrale. il Commissario europeo all’agricoltura dispone oggi di una Direzione generale

Questo capitolo è stato scritto da Carlo Pala

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che, per numero di componenti, è seconda solo a quella del perso-nale, quindi superiore ad altre come l’ambiente, la Coesione, o il Bilancio. L’agricoltura è diventata l’unica vera politica pubblica europea, con decisioni che diventano obbligatorie, nel bene e nel male, per i vari paesi (e per gli operatori del settore). inoltre, all’a-gricoltura sono connesse tante attività, le quali rendono la politica comunitaria ancora più importante: i settori connessi con l’agri-coltura, l’alimentazione, lo sviluppo rurale, sono solo alcuni dei settori cui vengono dedicati specifici ambiti di intervento, ben-ché questi rientrino comunque in una fase progettuale elaborata dalla Dg agricoltura. evidentemente, l’altro aspetto che mostra l’importanza dell’agricoltura è dato dagli impegni di bilancio ad essa dedicati: infatti, quasi la metà del bilancio dell’Ue, con più di 50 miliardi di euro all’anno, vengono dedicati a questo setto-re. inoltre, il bilancio europeo per l’agricoltura cresce in maniera inversamente proporzionale a quanto decresce il corrispettivo nei singoli stati membri. Questi sono solo alcuni dei motivi che ci spiegano come mai le vere attività dei ministri dell’agricoltura non siano più, tanto e solo, a roma, Madrid, parigi, Varsavia e così via, ma a Bruxelles, dove i vari ministri s’incontrano molto più spesso dei loro rispettivi colleghi di altri settori.

Questo non significa, però, che la politica agricola sia una sorta di “isola felice” delle attività dell’Ue. al contrario, proprio per la sua valenza, è sottoposta costantemente a critiche e oppo-sizioni da parte di stati, finanziatori e agricoltori stessi, i quali, per ragioni differenti, accusano l’Ue di voler creare una politica considerata eccessivamente omogenea in un settore che non lo è per definizione. per questo motivo, le maggiori critiche vengo-no rivolte alle misure, ritenute troppo rigide (dalle quote latte al fermo biologico della pesca; dai programmi di protezione delle foreste alle metodologie della produzione dei beni alimentari) e spesso non in linea con le diverse realtà europee. Difatti, il terri-torio geografico del Continente europeo, tutto, è ancora essenzial-mente agricolo e rurale, sebbene gli addetti al settore siano meno di quanto non fossero decenni fa e certamente meno, a tutt’oggi,

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di altri settori dell’Ue. eppure, allorquando si creano dei contrasti in questo ambito, l’attività della politica dell’Unione è come se si paralizzasse. Le categorie che si recano quotidianamente a Bru-xelles da ogni paese sono proprio quelle legate all’agricoltura; e le prime rappresentanze delle regioni a livello europeo sono nate proprio con l’obbiettivo di osservare e intervenire più da vicino su decisioni prese in ambito agricolo.

L’importanza di quanto detto finora si trasforma in quell’acroni-mo, pac, cioè la politica agricola comune. ed è proprio nell’analisi della pac che si soffermerà questo capitolo, per mostrare com’è nata, come si è evoluta, quali ne sono gli aspetti essenziali, come essa funzioni e quali effetti e modalità di attuazione le sono propri.

2 – Nascita ed evoluzione della Pac

Già dal Trattato di roma, nell’art. 3, la politica agricola as-sumeva un’importanza centrale. Si potrebbe quasi affermare che l’Unione europea sia nata anche per promuovere l’agricoltura. nei primi anni Cinquanta, infatti, il principale motivo di preoccu-pazione per le classi dirigenti era quello di garantire il soddisfaci-mento del bisogno primario del nutrirsi. Lo sviluppo delle istitu-zioni europee ha posto dunque l’agricoltura come uno dei grandi obbiettivi e delle profonde ragioni, per riavvicinare e armonizzare le politiche economiche dei vari stati aderenti. i motivi e i presup-posti che hanno caratterizzato lo sviluppo e la protezione dell’a-gricoltura europea sono certamente mutati negli anni, in relazione con il variare delle dinamiche stesse della popolazione. eppure, vi sono comunque dei capisaldi che non sono mai cambiati e che costituiscono allo stesso tempo le motivazioni originarie e quelle contemporanee. La pac, ieri come oggi, infatti, si prefigge(va) di incrementare la produzione dei prodotti agricoli e di intervenire così nella filiera alimentare, tentando quanto più possibile di sal-vaguardare i prezzi.

La peculiarità dell’agricoltura deriva dall’oscillazione e dal cambiamento di variabili specifiche (clima, siccità, alluvioni, piogge ecc..) che possono garantire il successo, o meno, di tale

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attività umana. La pac ha avuto il grande merito di interveni-re nella “calmierazione” dei prezzi, altrimenti ancora sottoposti alle decisioni dei singoli stati. Le sovvenzioni agli agricoltori erano quindi il modo per invitarli a proseguire nella loro attività, garantendogli quegli aiuti finanziari in grado di modernizzare e migliorare il processo produttivo dell’intera filiera. L’idea era quella, fin dalle origini, di migliorare l’agricoltura, trasforman-dola da mera attività di sussistenza ad attività in grado di com-petere con quella dei due blocchi americano e sovietico, trasfor-mando così l’europa in esportatrice di prodotti agricoli, vista la profonda varietà di suoli e territori che assicuravano la più ampia diversificazione produttiva.

in un ventennio, dalla fine degli anni Cinquanta a tutti gli anni Settanta, si può affermare che l’obbiettivo sia stato conseguito. Sia l’aspetto dei prezzi che quello di implementare una maggio-re capacità produttiva sono state due finalità rese possibili anche grazie alla creazione del Feoga (Fondo europeo di orientamento e garanzia agricola), vero e proprio braccio operativo della DG agricoltura, fino al recentissimo passato, per risolvere i vari pro-blemi. Tuttavia, è proprio a partire dagli anni ottanta che tale si-stema entrò in crisi. Se l’obbiettivo dell’autosufficienza, primo problema da risolvere, fu relativamente raggiunto in maniera ra-pida, ci si trovò di fronte al suo contrario, problema anch’esso: l’eccedenza dei prodotti. per mantenere stabili i prezzi occorreva acquistare le eccedenze che diventavano sempre più numerose e rischiavano dunque di ribaltare totalmente i risultati conseguiti. i prodotti venivano quindi acquistati dalla Feoga a prezzi legger-mente inferiori a quelli stabiliti più o meno rigidamente, con l’ob-biettivo di rivenderli a paesi terzi, magari quelli in via di sviluppo negli anni ’80. non tutti i prodotti venivano comunque venduti, quindi si arrivò al paradosso di distruggere beni alimentari pro-dotti con così grande fatica negli anni precedenti. per limitare tale effetto distorsivo, si scelse di vendere i prodotti a paesi non ancora all’interno dell’allora Cee, tramite sovvenzioni ai produttori che potevano così aggirare il prezzo più alto dello spazio comunitario

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con quello meno alto degli altri paesi, riuscendo a compensare la differenza dei prezzi e limitando la distruzione delle eccedenze.

Tuttavia, questa operazione lasciò profondi malcontenti nel mondo agricolo europeo. inoltre, proprio in quegli anni, si an-dava acquisendo sempre più una coscienza ambientale, legata al cambiamento del clima sul pianeta, la quale incise sulle scelte future. per eliminare le eccedenze all’origine, si scelse di intro-durre il sistema delle quote. Si obbligavano le varie regioni eu-ropee, soprattutto quelle agricole e periferiche, non ancora dota-te di un’infrastrutturazione industriale adeguata, a non produrre quantitativi di prodotto superiore a quello fissato a tavolino dalla burocrazia europea. Settori in particolare come quello lattiero-ca-seario, quello vitivinicolo e altri, cominciarono a protestare con-tro la politica agricola europea che, secondo un’opinione diffusa, andava danneggiando completamente le produzioni. Se da un lato venivano effettivamente ridotte le eccedenze, dall’altro si finiva per soccombere di fronte a stati, come gli USa, che intendevano esportare in un mercato, allo stesso tempo ricco e bloccato, come quello europeo. Le proteste diventavano sempre più diffuse ed assursero a livello mediatico con la figura di José Bové in Fran-cia, emblema, agli inizi degli anni ’90, degli agricoltori non solo francesi, ma europei in generale.

in relazione alle richieste di difesa dell’ambiente e di sviluppo della ruralità, nel 1992, con il piano McSharry, oltre a ridurre l’impatto in termini di bilancio della pac, si cercò di dare sov-venzioni agli agricoltori, sebbene questi ultimi dovessero prestare attenzione al mercato e rispondere alle nuove esigenze dei consu-matori, in un certo senso dovendo stare in equilibrio tra un modo di produrre moderno e un’attenzione alla tradizione e alla ruralità. Con l’avvio di queste riforme furono creati dei nuovi tetti mas-simi di bilancio per fare sì che i costi della pac per i contribuen-ti non divenissero insostenibili. il sistema delle quote, però, non funzionò in alcuni paesi, tra cui l’italia, perché le quote ad essa destinate (attribuite tramite calcoli specifici ad ogni paese per ogni bene prodotto), erano molto più basse della capacità produt-

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tiva e dell’effettivo fabbisogno interno; assieme alle specifiche produzioni italiane, finirono per penalizzare il settore agricolo del paese e innescarono un’ondata di proteste senza precedenti con-tro la pac.

Dalla fine degli anni ’90 all’inizio del nuovo secolo, la pac ha tentato e tenta di eliminare alcune criticità del precedente pe-riodo. pur tenendo conto delle esigenze dei consumatori, la pac permette agli agricoltori, rivedendo in parte il sistema delle quote, di produrre ciò che il mercato esige. Si introduce l’esigenza di non fornire più i sussidi in base a quanto e a cosa effettivamente viene prodotto nel molteplice mondo agricolo (nel quale, dobbia-mo ricordarlo, dobbiamo inserire anche la pesca, la silvicoltura ecc..), eliminando il nesso-vincolo con la produzione (il cosiddet-to disaccoppiamento); in cambio, la produzione dovrà essere fat-ta con maggiore attenzione alla salvaguardia dell’ambiente, degli animali e della sicurezza alimentare. il sussidio potrà garantire, secondo le intenzione dell’Ue, un reddito stabile agli agricoltori, i quali, maggiormente attenti alle esigenze del mercato, potranno decidere cosa effettivamente produrre.

Visti i recenti cambiamenti e la multiforme realtà del settore agricolo europeo, dopo anni di contrapposizioni, anche violen-te, tra l’Ue e il mondo agricolo del vecchio continente, l’attua-le Commissario all’agricoltura e allo sviluppo rurale, il rumeno Dacian Cioloş, ha promosso una prima grande indagine sulla Pac tra i cittadini. Convinto assertore della necessità di recuperare il dialogo che prima era mancato, durante la primavera e l’estate del 2010 Cioloş promosse un dibattito rivolto non solo agli operatori del mondo agricolo, ma a tutti i cittadini. Dando così seguito a quella sorta di democrazia partecipativa, oramai sempre più in voga, propose 4 semplici domande22, tramite un pubblico dibattito su internet. L’eccezionale tasso di rispondenti, circa 6000 rispo-ste, per ogni singola domanda, in forma aperta, hanno fatto di

22 perché avere una pac europea? Quali finalità la società assegna all’agricoltura pur nella sua diversità? perché riformare la pac attuale e in che modo farla aderire ai bisogni della società? Quali sono gli strumenti della pac di domani?

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quell’esperimento il più grande esempio di partecipazione sulle politiche dell’Ue mai prodotto; e il fatto che a farlo sia l’agricol-tura, ci riporta alle considerazioni fatte all’inizio sull’importanza di questo settore. inoltre, la consultazione è stata fatta durante l’attuale crisi economica che ha interrotto le speranze aperte dalla pac per il post-2000. Le attività agricole europee hanno risentito profondamente della crisi economico-finanziaria, e al Commis-sario europeo è sembrato il momento più adatto per interrogare i cittadini sulla nuova politica agricola. La consultazione promossa ricostruisce i concetti chiave e i problemi che la pac dovrà affron-tare: dall’alimentazione al territorio; dall’ambiente alla globaliz-zazione dei prodotti, fino alla diversificazione dell’agricoltura e la semplificazione della politica (e soprattutto, della burocrazia) europea in materia agricola.

i risultati di quell’indagine costituiranno una base di partenza per la nuova pac che partirà dal 2014, in sintonia con una legisla-zione desunta dai risultati di questa indagine. ad oggi, i risultati non sono ancora stati rielaborati in termini legislativi; comunque, il Commissario Cioloş ha deciso che per la prima volta, attraverso il processo della codecisione, il parlamento europeo e il Consiglio europeo decideranno sulle future linee che dovrà avere l’agricol-tura, dando per la prima volta la possibilità all’unica istituzione europea eletta dai cittadini, il parlamento appunto, di legiferare in base ad indicazioni avute dal basso.

3 – Il funzionamento della Pac

il passaggio della pac da mero sostegno ai prezzi dei prodotti in agricoltura all’organizzazione di vere e proprie politiche agricole valevoli nei paesi dell’Ue, è un po’ la cartina di tornasole del modo in cui concretamente funziona la politica agricola. il Trattato di Lisbona, nei suoi articoli 32-38, sancisce gli scopi che l’Ue intende perseguire in ambito agricolo, ittico e forestale, alimentare, non-ché, come elemento di novità rispetto al passato, di sviluppo rurale. nelle intenzioni dei legislatori europei vi era dunque la necessità di non vedere i comparti precedenti come a se stanti, ma al contrario

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in interdipendenza reciproca. infatti, il caposaldo principale della pac è stato ed è quello di consentire, nei limiti del possibile, una libera circolazione e un libero scambio dei prodotti agricoli all’in-terno dell’Ue; questo è ottenuto con l’eliminazione di tutti quegli strumenti, presenti nei singoli stati, che possono essere percepi-ti come ostacoli alla commercializzazione dei prodotti. Tuttavia, però, se è vero che non si tratta di un commercio vincolato dalle varie legislazioni nazionali, è altrettanto vero che comunque esi-stono strumenti di sostegno ai prezzi e alle attività degli agricoltori.

Come si è visto sopra con il termine disaccoppiamento, la pac arriva a separare le misure per il sostegno agli agricoltori per le produzioni e i livelli delle produzioni stesse. ovvero, non si dan-no più finanziamenti quanto più si produce (per eliminare l’effet-to paradossale degli agricoltori che producevano non tanto per il prodotto finale quanto perché più remunerativo per loro il com-penso derivante), ma in base alla tipologia, alle tecniche e all’in-cremento delle produzioni stesse. Conseguenza di questo sistema è il pagamento che l’Ue attribuisce agli agricoltori in un’unica soluzione, con un conteggio che tiene presenti i trasferimenti di finanziamenti passati, l’estensione del terreno (o del bosco; per le attività ittiche gli indicatori sono ovviamente diversi) effetti-vamente utilizzato per le produzioni e l’utilizzo finale. Si crea dunque una sorta di “rapporto fiduciario” tra l’istituzione europea e l’impresa agricola: quella che viene conosciuta come condizio-nalità incrociata, ovvero il sostegno al reddito dell’agricoltore è reale nella misura in cui lo stesso si impegna a rispettare diversi parametri (dalla salute animale, al rispetto di norme igieniche, alle tecniche agricole).

Le varie riforme della pac, compresa quella che partirà vero-similmente nel 2014, non sono, e né potrebbero essere, finanziate dal solo bilancio dell’Ue. per quanto la voce “agricoltura”, con tutte le sue diramazioni, costituisca una voce fondamentale del bilancio europeo, la portata delle varie modificazioni non potreb-be avvenire senza il concorso degli stati membri. Fino al 2007 il già citato Feoga era il canale privilegiato per la spesa dei fondi

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europei in agricoltura. a tal proposito l’Ue si è resa conto che tale strumento finiva per soffocare le spese in investimenti e ricerca e in sviluppo rurale (ovvero, la creazione delle condizioni basilari perché un determinato territorio potesse ancora avere uno sfrutta-mento di tipo agricolo), a tutto vantaggio dei pagamenti diretti al sostegno dei prezzi e al mercato agricolo. Dopo il 2007, le moda-lità di funzionamento della pac cambiano radicalmente, per una necessità maggiore di poter garantire un controllo finanziario più efficiente assieme a pratiche di gestione delle politiche agricole al passo coi tempi. Da tali presupposti nasce il nuovo funziona-mento della pac basato su due principi: 1) il sostegno finanziario diretto agli agricoltori, ai prodotti e alle tecnologie agrarie; 2) le misure per lo sviluppo rurale. più o meno corrispondenti con i due punti precedenti, l’Ue e la pac sono organizzate in due nuovi tipi di fondi di sostegno e di sviluppo: il Feaga (Fondo europeo agricolo di garanzia) e il Feasr (Fondo europeo agricolo per lo svi-luppo rurale). Tale distinzione è nata anche per la consapevolezza che, soprattutto dopo l’allargamento dell’Ue ai paesi dell’est, le condizioni dell’agricoltura non sarebbero state le stesse, per una molteplicità di ragioni (storiche, economiche, socio-culturali, an-tropiche). ecco che la pac, quindi, non appare più come un mono-lite uguale in tutti gli stati nei quali viene applicata; al contrario, la sfida del funzionamento della pac si giocherà sempre più sulle differenze dei e tra i paesi, senza per questo essere destrutturata a piacimento dalle singole realtà. a tale proposito, le risposte più adeguate l’Ue le ricerca nel concetto di sviluppo rurale al fianco dell’agricoltura più comunemente intesa.

4 – Lo sviluppo rurale, l’agricoltura e l’Ue

in che modo il concetto di sviluppo rurale, di ruralità, è inti-mamente legato con quello di agricoltura e della pac? Si tratta di un ragionamento circolare (in ambito rurale è più scontato vi sia l’agricoltura, per cui difendere la ruralità è un altro modo di sviluppare l’agricoltura) oppure i due aspetti, benché non per forza coincidenti, possono e devono trovare una certa corrispon-

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denza? Come abbiamo visto prima, la risposta a questa domanda non è scontata e, soprattutto, è una nuova dimensione che l’Ue ha (ri)scoperto di recente. Lo sviluppo della pac, come visto, non poteva solo mettere in atto sistemi complessi di sostegno alle at-tività agricole senza pensare (anche) a salvaguardare il contesto naturale nel quale tali attività trovavano piena realizzazione. La pac recupera quindi la collocazione “naturale” dell’agricoltura dopo che, per svariati anni, con la spinta alla modernizzazione tecnologica e produttiva, quell’aspetto era stato decisamente tra-scurato. La pac sancisce quindi che la natura e l’ambiente sono le precondizioni, non solo fisiche ma umane e sociali, a partire dalle quali deve poter essere costruita la cosiddetta “agricoltura sostenibile”.

La metà, circa, del territorio comunitario è coltivata. L’agricol-tura ha concorso a salvaguardare un insieme di bio-sistemi antropi-ci e naturali, oramai divenuti una ricchezza che le politiche dell’Ue tendono a valorizzare sempre più. i legami tra natura e agricoltura sono, così, sempre più stretti, anche in senso negativo, allorquando la coltivazione intensiva produce dei danni all’ambiente, compro-messo irreparabilmente per la coltivazione medesima. La pac dedi-ca un ampio intervento settoriale allo sviluppo rurale, inteso come la conservazione dell’ambiente naturale a cui, soprattutto, gli agri-coltori devono e possono contribuire. L’attenzione agli ambienti e agli spazi rurali comincia già negli anni ’80, ma è soprattutto in questi ultimi due decenni (e ora, più che mai) che l’Ue intende aiu-tare l’agricoltura attraverso la produzione di alimenti sempre più sani e sicuri, assieme allo sviluppo delle zone rurali.

La pac riunisce due aspetti che andavano separandosi sempre più, come se costituissero due mondi paralleli. ecco che l’Ue, attraverso la pac, tutela diverse misure agroambientali, incorag-giando gli operatori agricoli a sottoscrivere impegni di carattere agroambientale per almeno 5 anni, con l’obbiettivo di aiutarli a sostenere in parte i costi della produzione agricola potenzialmen-te in contrasto con l’ambiente e assicurando loro il supporto per la conservazione del terreno dal punto di vista ambientale, precondi-

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zione indispensabile per poter ottenere i finanziamenti. in relazio-ne a ciò, vi sono tutte le misure che l’Ue e la pac hanno preso, non senza forti contrasti, sul capitolo degli organismi geneticamente modificati (ogm) e le biotecnologie in ambito agrario. Malgrado la normativa sugli ogm sia una delle più complete, è stata istituita una commissione di studio per tenere in considerazione le diverse tecniche produttive e per decidere in anticipo sull’immissione di un determinato prodotto agroalimentare.

Lo sviluppo rurale diventa importante, inoltre, a partire da una semplice constatazione: oltre la metà della popolazione dell’Ue vive in zone di campagna (che costituiscono oltre il 90% del territorio europeo) e quindi la ruralità assume oramai un’im-portanza centrale per l’Ue, non essendo diretta solo al mondo agricolo, che comunque ne costituisce ancora l’ossatura essen-ziale, ma alla popolazione nel suo complesso, la quale decide di vivere e lavorare in zone non urbane. La pac gestisce, così, direttamente o indirettamente diverse misure di politica rurale destinate alle popolazioni che vivono in tali contesti. Lo stru-mento privilegiato è il psr (programma di sviluppo rurale) che a livello europeo si prefigge di valorizzare l’ambiente e lo spazio rurale, aumentare la competitività del settore agroforestale e mi-gliorare la qualità della vita nelle zone rurali, diversificandone le attività economiche. Come strumento operativo di quest’ulti-mo aspetto, l’Ue e la pac hanno individuato le misure LeaDer (con i Gal, Gruppi di azione locale), progetti locali di sviluppo rurale che hanno una partnership mista pubblico-privata. nel pe-riodo 2007-2013 la spesa prevista del psr è di 225,7 miliardi di euro nel suo totale, di cui 90,8 direttamente erogati dal bilancio dell’Ue. per il periodo 2014-2020 il psr resterà sostanzialmente lo stesso, dividendosi, a differenza delle precedenti esperienze, in 6 diverse aree di intervento (che includono anche il cambia-mento climatico e l’inclusione sociale nelle zone rurali, agevo-lando quindi quel percorso di integrazione tra aspetti prettamen-te agricoli con altri di carattere sociale).

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5 – Gli effetti politici e l’attuazione della Pac

L’adozione della pac, con tutte le modifiche intervenute du-rante gli anni, ha comportato effetti di natura politica agricola (e di natura politica, tout court) positivi e negativi. Gli osservatori si trovano tendenzialmente in accordo nell’individuare tali effet-ti sia a partire dagli obbiettivi che ci si proponeva nell’art. 33 del Trattato, sia nell’analisi degli effetti indiretti e difficilmente presumibili in fase di elaborazione del Trattato medesimo. pos-siamo dire che i primi, quelli concernenti l’art. 33, sono quelli positivi. infatti l’adozione della pac ha garantito l’efficienza agri-cola e l’adozione di tecnologie produttive sempre più sofisticate e moderne. pur con le debite differenze (in modo particolare, di carattere geografico), la pac ha ottenuto l’effetto di far diminuire gli addetti al settore agricolo del 60% dall’istituzione della stes-sa, aumentando al contrario del 1,3% in media all’anno il volu-me della produzione agricola; cosa resa possibile solo a fronte di grandi investimenti tecnologici. Se il piano di sostegno al reddito degli agricoltori ha finito per avvantaggiare i grandi produttori, le riforme del 1992 hanno teso a sostenere i piccoli produttori, seppure con ampi margini di miglioramento. Legato strettamente a questo aspetto, vi è l’effetto del controllo dei mercati agricoli: se da altre parti del mondo i prodotti agrari risentivano delle for-ti fluttuazioni dei prezzi, nell’Ue questo non si è verificato gra-zie alla produzione di tutti i prodotti che il Vecchio Continente consente di produrre. e con questo, l’approvvigionamento delle merci si è reso sempre costante, grazie a una programmazione tra Ue e stati membri generalmente coerente. in più, l’Ue, attraverso la pac, ha puntato maggiormente sui prodotti di qualità. Vista la grande varietà di culture presenti nel territorio europeo, comprese quelle gastronomiche, l’Ue ha inteso valorizzare i propri prodotti di eccellenza attraverso il riconoscimento della loro qualità, an-che produttiva; da qui il riconoscimento delle 4 eccellenze: Dop (Denominazione di origine protetta), igp (indicazione geografica protetta), Stg (Specialità tradizionale garantita) e ab (agricoltura biologica). Tuttavia, i prezzi ragionevoli per i consumatori sono

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stati garantiti solo in parte, avvertendosi ancora un disequilibrio tra grandi produttori, molto più avvantaggiati, e piccoli, ancora non pienamente beneficiati dalle norme.

Di converso, vi sono stati elementi di criticità nell’adozione della pac, anche di carattere politico. Molte sono state infatti le frizioni tra i diversi paesi membri e tra questi e altri paesi. Così, la Francia e l’italia si sono viste spesso scontrarsi con la Gran Bretagna e la Germania, proprio perché le prime due venivano accusate di essere eccessivamente protezionistiche. Da qui la na-scita di misure che potessero mettere d’accordo i vari paesi (a volte a detrimento della qualità di alcuni prodotti e della moda-lità di produrre), spesso culminate in dispute accese tra gli stati membri. inoltre, in modo particolare per il controllo del mercato e dei prezzi, possiamo ricordare le controversie tra l’Ue e gli USa, con il “boicottaggio” da parte di questi ultimi di prodotti euro-pei. Come abbiamo detto in precedenza, la protezione dell’am-biente agricolo, aspetto prima tralasciato, si è posto con tutta la sua importanza in seguito alle coltivazioni fortemente intensive che hanno impoverito i terreni. La nuova pac sta tentando di ri-mediare ai problemi ereditati negli anni, ma ancora, seppur tanti passi in avanti siano stati compiuti, restano da adottare misure maggiormente restrittive ed efficaci, spesso collocate nei proget-ti di sviluppo rurale. altro effetto negativo deriva dalla volontà di impedire nell’Ue l’ingresso di prodotti a prezzi molto bassi, mentre si è andati a sussidiare i prodotti europei, spesso figli delle eccedenze produttive, per poter essere immessi nei mercati ester-ni; questo ha provocato un’irrazionale utilizzazione delle risorse di produzione, spesso “obbligando” a sostentare determinati pro-dotti solo al fine di essere esportati. La pac è poi stata oggetto di critiche sempre più radicali dai sostenitori dell’agricoltura soste-nibile e attenta all’ambiente, assieme alle categorie settoriali dei diversi produttori europei. e lo stesso destino sembra in un certo qual modo ripetersi per la formulazione della nuova pac 2014-20.

Un punto fermo dell’attuazione della pac nell’Ue è l’inter-vento diretto della Dg agricoltura e del Commissario medesimo.

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Questa affermazione può sembrare banale, perché ci si attende lo stesso per gli altri commissari. al contrario, in alcuni settori di politiche pubbliche, la Commissione si limita a istruire delle pra-tiche, al massimo a sentire i vari governi nazionali ed elaborare con essi la politica settoriale specifica. Questo non avviene con l’agricoltura. Tuttavia, è dal ruolo esercitato dal Commissario in persona e dalla Commissione tutta, che si comprende meglio la capacità di influenza dell’Ue in tema di agricoltura. L’iniziativa politica nel settore spetta quasi esclusivamente al Commissario, uno dei pochissimi in grado di influenzare profondamente l’ado-zione di politiche negli specifici segmenti della politica agricola. nonostante oggi, in relazione a diversi aspetti legati alla pac, il Commissario all’agricoltura non sia più l’unico a decidere (si pensi ai risvolti legati all’ambiente, alla sanità e al commercio, deleghe specifiche attribuite ad altri componenti della Commis-sione), da esso dipende pur sempre una capacità di condiziona-re la politica agricola europea più di quanto possano fare tutti i diversi ministri nazionali. L’agricoltura è quindi uno dei pochi settori nelle funzioni dell’Ue ad essere fortemente condizionato dalla Commissione stessa.

Con questo, il ruolo del Consiglio europeo è limitato ad alcuni processi di consultazione, ma è proprio in questo ultimo organo che scoppiano i maggiori contrasti tra gli stati membri. infatti, se le consultazioni appaiono tutto sommato semplici e definite, è la prassi politica che al contrario rende più difficili le decisioni, vista la portata del problema. nel Consiglio si definiscono infatti i più disparati aspetti, dai prezzi dei prodotti agricoli alla formula-zione del bilancio dell’Ue dedicato all’agricoltura. Molto spesso, alcuni aspetti che possono essere trattati in Commissione, vengo-no invece portati all’attenzione del Consiglio per una necessità di condivisione tra i diversi stati membri. Sotto questo aspetto il parlamento europeo, malgrado abbia visto accrescere i suoi poteri ultimamente, non esercita ancora un ruolo influente. La politica agricola è un aspetto dell’Ue che rientra, in sede di formulazione di bilancio, tra le “spese obbligatorie” e il parlamento può emen-

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dare solo le “spese non obbligatorie”. Dunque, l’assemblea eletti-va può solo, al momento, esercitare un ruolo consultivo. occorre ancora valutare se, con l’adozione di una pac più aperta ai citta-dini e ai poteri di un parlamento in continua progressione, i par-lamentari europei possano effettivamente incidere con proposte e con modifiche ai testi presentati dalla Commissione.

Certamente, una considerazione valevole anche per il futuro attiene al fatto che la politica agricola europea costituirà un’area di politica pubblica incisiva non solo per gli stati, ma anche per i singoli cittadini. non sembra che la volontà degli stati, seppur spesso critici con la pac, vada nella direzione di invertire tale ten-denza. Gli europei, in generale, e gli operatori agricoli, in partico-lare, desiderano essere più partecipi nel contribuire a definire una pac più vicina ai loro interessi. Forse lo spiraglio che si muove in quel senso lo si sta costruendo con la nuova pac 2014-2020.

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Capitolo 11

la politica estera

1 – Introduzione

La politica estera viene tradizionalmente considerata come una prerogativa principale di ogni stato sovrano, attraverso la quale essi definiscono le relazioni reciproche, difendono la pro-pria integrità territoriale, e promuovono i propri interessi na-zionali. Questa definizione tradizionale è influenzata dal cosid-detto hard security context del novecento, caratterizzato nella prima metà dalla contrapposizione militare con la Germania e nella seconda parte dalla guerra fredda. Questo contesto favo-riva un’immagine della politica estera centrata sul ruolo degli stati più forti, sull’esistenza di minacce militari provenienti da altri stati e sulla conseguente necessità di mantenere consisten-ti strumenti militari che costituivano la risorsa più importante della politica estera. negli ultimi anni alcuni autori, partendo dal presupposto che il contesto internazionale è mutato hanno sostenuto la necessità di una concettualizzazione più ampia di politica estera, non più centrata sullo Stato e sull’uso della for-za militare per salvaguardare i propri interessi. Secondo Hill (2003, 3 e 5) la politica estera può essere definita brevemente

Questo capitolo è stato scritto da Elena Baracani

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come l’insieme delle relazioni esterne ufficiali condotte da un attore indipendente (solitamente uno stato, ma anche una più ampia comunità) nelle relazioni internazionali. Hill (2003, 3-5) sottolinea poi che la nozione di politica (policy) presuppone un certo grado di coerenza verso l’ambiente esterno. essa deve essere considerata infatti come un tentativo di tenere insieme o dar senso alle varie attività in cui l’attore è impegnato a livello internazionale. Questo significa che la politica estera cerca di coordinare ed è il modo in cui, almeno in principio, vengo-no stabilite delle priorità tra i diversi interessi esterni. Si tratta quindi anche del modo in cui una società si definisce rispetto al mondo esterno, e proietta i valori che essa rappresenta. Keu-keleire e Macnaughtan (2008, 19) definiscono infatti la poli-tica estera come quell’area della politica diretta all’ambiente esterno con l’obiettivo di influenzarlo e di influenzare il com-portamento di altri attori al suo interno, in modo da perseguire i propri interessi, valori e obiettivi. essi ritengono che la poli-tica estera sia costituita da una serie di dimensioni tradizional-mente dominanti e da altre dimensioni sempre più importanti ma meno considerate. Questa distinzione è alla base della loro concettualizzazione di una politica estera convenzionale e di una politica estera strutturale, entrambe rilevanti nel sistema internazionale contemporaneo. La prima è orientata verso gli stati, la sicurezza militare, le crisi e i conflitti, mentre la secon-da si riferisce ad una politica estera che, condotta nel lungo periodo, cerca di influenzare in modo duraturo le strutture po-litiche, giuridiche, socio-economiche (relative alla sicurezza) e mentali (a più livelli, individuale, statuale, della società, dei rapporti tra stati, dei rapporti tra regioni, globale). nel caso degli Stati uniti, esempi di politica estera non convenzionale o strutturale possono essere il piano Marshall del 1947 che pro-muoveva la creazione di nuove strutture in europa occidentale in modo tale da risolvere definitivamente il problema dell’osti-lità franco-tedesca, così come la politica americana all’inizio del secolo con l’obiettivo di diffondere libertà e democrazia nel Medio oriente.

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nel caso dell’Unione europea, gli esempi più importanti di politica estera non convenzionale sembrano essere la politica della Comunità/Unione europea verso i paesi dell’europa Cen-trale e orientale (peCo) che ha portato alla loro integrazione nell’Unione, il processo di stabilizzazione e associazione nei confronti dei paesi dei Balcani occidentali, che si poneva l’o-biettivo di stabilizzare e ristrutturare questi paesi a seguito dei conflitti degli anni ’90, ed anche la più recente politica europea di vicinato nei confronti dei paesi vicini del sud del Mediter-raneo e dell’europa orientale. entrambe queste concettualizza-zioni di politica estera, convenzionale e non, sono importanti per comprendere il ruolo dell’Unione europea nel sistema in-ternazionale contemporaneo, in quanto sottolineano la necessità per un attore internazionale sia di dotarsi di strumenti militari efficaci per rispondere alle sfide che provengono da un mondo sempre più imprevedibile e pericoloso, sia di essere in grado di strutturare l’ambiente globale, a più livelli, e quindi influenzare positivamente gli sviluppi di lungo periodo.

occorre anche specificare che la politica estera dell’Unione europea non corrisponde né alla politica estera e di sicurezza comune (pesc), né alla politica estera europea, o all’insieme del-le politiche estere degli stati membri dell’Unione. La politica estera dell’Unione europea è infatti una politica multipilastro (o trasversale) e multilivello. La natura multipilastro della politica estera dell’Unione si riferisce al fatto che essa può fare politica estera utilizzando i diversi pilastri/aree di policy, e quindi di-versi metodi decisionali. Questo significa che la politica estera dell’Unione europea non si limita alla pesc, ma comprende an-che le politiche esterne del cosiddetto primo pilastro (commer-cio internazionale, accordi di cooperazione e associazione, san-zioni economiche, cooperazione allo sviluppo, diritto di asilo, immigrazione, ecc.).

Dal punto di vista dei metodi decisionali, la strutturazione della politica estera dell’Unione europea su più pilastri compor-ta che vi siano diversi metodi attraverso i quali vengono prese le decisioni di politica estera. infatti, laddove nelle aree di policy

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del secondo e terzo pilastro si applica il metodo intergovernati-vo, attraverso il quale gli stati membri mantengono il completo controllo delle decisioni di politica estera attraverso la posizio-ne dominante del Consiglio dei ministri e il voto all’unanimità, nelle aree di policy del primo pilastro si applica il metodo co-munitario, basato sull’equilibrio istituzionale tra Consiglio dei ministri, Commissione europea, parlamento europeo, e Corte di giustizia, e il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio.

L’altra caratteristica della politica estera dell’Unione euro-pea è quello di essere una politica multilivello, ovvero che in-teragisce con le politiche estere dei suoi stati membri, ed anche con gli altri contesti internazionali in cui la politica estera viene elaborata come la naTo, l’organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in europa (oece), il Consiglio d’europa, e le nazioni Unite (nu). Tale interazione è ovviamente diversa a se-conda delle questioni di politica estera di cui trattasi.

Le principali fonti di finanziamento della politica estera dell’Unione europea sono il bilancio dell’Unione, i bilanci na-zionali, le disposizioni comuni al di fuori del bilancio comuni-tario (come quelle relative al Fondo europeo per lo sviluppo per i paesi aCp, o il meccanismo athena per le operazioni pcsd con una dimensione militare), i finanziamenti provenienti da altre organizzazioni internazionali. prendendo come esempio il bilan-cio dell’Unione del 2010, che ammontava a circa 141 miliardi di euro, possiamo osservare che le risorse destinate all’Unione come partner globale ammontano soltanto al 6% (ovvero 8,46 miliardi di euro), lo stesso ammontare destinato alle spese am-ministrative. Ma al di là delle scarsissime risorse per la politi-ca estera è interessante osservare come vengono distribuiti tali finanziamenti. nel caso del bilancio dell’Unione per il 2013 i finanziamenti destinati come partner globale ammontavano a 9 miliardi di euro di cui: 2 miliardi venivano destinati allo Stru-mento per la pre-adesione e quindi ai paesi candidati e poten-ziali candidati all’adesione, altri 2 miliardi erano previsti per lo Strumento europeo di vicinato e partenariato (enpi) e quindi per i partner della politica europea di vicinato, altri 2 miliardi di

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euro venivano riservati per lo strumento per la cooperazione allo sviluppo (di cui non fa parte la cooperazione con i paesi aCp finanziata come già detto dal Fondo europeo per lo Sviluppo), mentre alla pesc venivano destinati soltanto 400 milioni di euro (per coprire per esempio le spese relative alle missioni civili). Da questa suddivisione del budget emerge chiaramente la forte componente non convenzionale della politica estera dell’Ue che viene attuata essenzialmente con strumenti economici – l’assi-stenza economica (e non la pesc) – di cui beneficiano soprattutto i paesi candidati e potenziali candidati all’adesione, seguiti dai vicini europei e dai paesi in via di sviluppo.

nei paragrafi che seguono ci soffermeremo sull’evoluzione della politica estera dell’Unione, sul suo funzionamento, sul-le aree geografiche prioritarie nelle sue relazioni esterne, e sui principali aspetti teorici cercando di far comprendere il livello di integrazione raggiunto in questa policy.

2 – Quale evoluzione e quali tensioni?

La ricostruzione, nei paragrafi che seguono, dei momen-ti principali attraverso i quali si è sviluppata la politica estera dell’Unione europea mette in luce alcune aree di tensione ri-correnti: quella tra integrazione europea e solidarietà atlantica, quella tra potenza civile e militare, e quella tra approcci inter-governativi e comunitari. per quanto riguarda la prima tensione occorre osservare che i primi tentativi che sono stati fatti per sviluppare una politica estera comune – come per esempio la Cooperazione politica europea (Cpe) – apparivano di seconda-ria importanza rispetto alla naTo, responsabile della sicurezza dell’europa durante la guerra fredda. Questo spiega anche per quale motivo gli stati membri abbiano concepito e sviluppato la politica estera dell’Unione come quella di un attore civile. il concetto di potenza civile, versus potenza militare, risale a Duchêne (1972) ed è uno dei primi e più importanti tentativi di concettualizzare lo status e il ruolo di questo attore negli affari internazionali. il concetto di potenza civile, sviluppato da que-

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sto autore, si concentra sulla possibilità che un attore interna-zionale ha di essere una potenza, pur non avendo a disposizione strumenti militari. per quanto riguarda la tensione tra approcci intergovernativi e comunitari occorre osservare che, se da un lato la politica estera dell’Unione si è sviluppata e continua an-cora oggi ad essere una policy in cui si applica il metodo inter-governativo, e quindi separata dalle politiche esterne di natura comunitaria, dall’altro lato è costretta a far ricorso agli strumen-ti comunitari per attuare le sue decisioni, e conseguentemente le politiche esterne comunitarie hanno gradualmente sviluppato dinamiche impreviste di politica estera.

nel 1947, nel suo discorso all’Università di Harvard, l’allora segretario di stato americano, il generale George Marshall, deli-neò gli aspetti più importanti di un programma di lungo periodo di assistenza economica per l’europa. Washington temeva che le difficili condizioni economiche potessero favorire la diffusio-ne dell’ideologia comunista nei paesi europei. attraverso que-sto piano gli Stati uniti donarono venti miliardi di dollari per la ripresa economica, tredici dei quali furono già trasferiti entro il 1953. il piano Marshall non fu soltanto un vasto programma di assistenza economica. il suo obiettivo era anche quello di in-fluenzare i valori che avrebbero dovuto guidare la ricostruzio-ne europea (democrazia, stato di diritto, economia di mercato). Uno degli aspetti principali del piano era la condizione posta da Washington che gli stati avrebbero dovuto cooperare nella rico-struzione economica ed accettarsi reciprocamente come mem-bri dell’organizzazione europea per la cooperazione economica (oece). Questa condizione fu di fondamentale importanza per l’avvio del processo d’integrazione europea, in quanto favorì la collaborazione tra leader politici, diplomatici e funzionari dei paesi dell’europa occidentale, quindi portò pochi anni dopo all’inizio del processo di integrazione europea. Sembra, infatti, non essere un caso il fatto che sia stato Jean Monnet, l’attore più importante per la realizzazione del piano Marshall in Francia, a diventare il padre intellettuale della nuova politica francesce nei confronti della Germania occidentale, la prima politica francese

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positiva nei confronti del paese che veniva percepito come ne-mico. Dietro alla proposta del ministro degli affari esteri france-se, robert Schuman, di porre la produzione francese e tedesca di carbone e acciaio sotto il controllo di un’entità sovranazionale – l’alta autorità – vi erano, infatti, i lavori preparatori di Monnet. Sebbene questa proposta avesse una componente principale di natura economica, essa era di importanza fondamentale anche per la politica estera. infatti, veniva affermato che la solidarietà nella produzione di carbone ed acciaio così realizzata avrebbe reso non soltanto impensabile ma anche impossibile qualsiasi guerra tra la Francia e la Germania.

Due anni prima dell’inizio del processo d’integrazione eu-ropea con la firma nel 1951 del Trattato di parigi, che istituì la Ceca, su richiesta degli europei (francesi inclusi) e di fronte alla crescente minaccia da parte dell’Unione sovietica, gli Stati uniti si impegnarono, nell’aprile del 1949 con la firma del Trat-tato del nord atlantico, a garantire la sicurezza dei propri alleati dell’europa occidentale. Tuttavia in quegli anni non era chiaro quali strutture militari sarebbero state create per organizzare la difesa collettiva dell’europa occidentale e quale sarebbe stata la posizione della Germania occidentale. inizialmente gli Stati uniti considerarono la nuova alleanza atlantica come una sorta di piano Marshall militare, intendendo con questo che i paesi dell’europa occidentale si sarebbero dovuti assumere la respon-sabilità della gestione della difesa dell’europa, ma nel giro di un anno e mezzo tale trattato diventò l’organizzazione del Trattato dell’atlantico del nord, nell’ambito della quale, al vertice di un’allenza militare integrata, un comandante americano dirige-va la difesa territoriale dell’europa occidentale.

il riarmo della Germania era tra i problemi principali che gli europei (in particolare i francesi) dovevano affrontare sin dalla fine della seconda guerra mondiale. Dal loro punto di vista, gli Stati uniti invece erano disposti a rafforzare la presenza delle pro-prie forze sul suolo europeo, ma chiedevano ai paesi europei di in-tensificare i loro sforzi per la difesa, ed in particolare di utilizzare il potenziale militare della Germania occidentale per difendersi da

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un possibile attacco proveniente da est. pertanto, su pressione de-gli Stati uniti, e utilizzando come modello la Dichiarazione Schu-man, nell’ottobre del 1950 i francesi presentarono il piano pleven (dal nome del primo ministro francese) in base al quale unità mili-tari degli stati membri sarebbero state integrate in un esercito eu-ropeo, composto da 100.000 uomini, e controllato da un ministro europeo della difesa, che avrebbe operato sotto la direzione di un Consiglio dei ministri degli stati membri. pertanto, attraverso la creazione di una Comunità europea di difesa (Ced), i soldati tede-schi avrebbero potuto operare nell’ambito di un esercito europeo, senza la necessità di creare un nuovo esercito tedesco. nel maggio del 1952 il Trattato Ced venne firmato dai sei paesi Ceca (Francia, Germania occidentale, italia, Belgio, olanda, e Lussemburgo), e successivamente inviato ai parlamenti nazionali per la ratifica. Laddove i cinque partner europei della Francia erano prossimi alla ratifica parlamentare del trattato, l’assemblea nazionale francese, nell’agosto del 1954, si rifiutò di ratificarlo, ponendo così fine al progetto di esercito comune europeo. a seguito del fallimento della Ced gli europei persero l’opportunità di utilizzare le proprie capacità militari per perseguire le proprie scelte di politica este-ra. Quaranta anni più tardi, l’impotenza militare europea di fronte alla guerra in Yugoslavia sarà la dolorosa conseguenza della scelta fatta in questi primi anni.

La questione del riarmo della Germania occidentale fu risolta, su proposta della Gran Bretagna, attraverso la creazione di un’isti-tuzione europea, nell’ambito della naTo. L’Unione dell’europa occidentale (Ueo) venne creata, infatti, nel 1954, attraverso una revisione del Trattato di Bruxelles del 1948 per includere la Ger-mania occidentale e l’italia. in base all’art. 4 del Trattato, vista la necessità di evitare di duplicare lo staff militare della naTo, l’Ueo avrebbe potuto utilizzare le autorità militari della naTo per informazioni e consiglio sulle questioni militari. pertanto, si può affermare che attraverso la creazione dell’Ueo la Germania occidentale venne militarmente integrata nella naTo, e la respon-sabilità per le questioni militari venne di fatto passata alla naTo.

Con la firma dei Trattati di roma del 1957 il processo di

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integrazione europea assumeva connotati principalmente eco-nomici. Tuttavia, alla Comunità economica europea (Cee) veni-vano concesse delle competenze relative al commercio esterno ed alla conclusione di accordi con i paesi terzi, competenze che, nel corso del tempo, consentirono alla Cee di diventare un attore internazionale. per esempio, nel 1963 la Cee aveva già stabilito le proprie relazioni con le ex colonie africane degli stati membri attraverso il Trattato di Yaoundé,23 e nel 1967 la Commissione europea agiva per conto dei sei stati membri ai negoziati del Kennedy round del General agreement on Trade and Tariffs (GaTT). L’atto unico europeo (aue) del 1986 è importante per la politica estera dell’Unione europea in quanto con il suo obiet-tivo di completare il mercato interno, aumentava notevolmente l’attrattività della Comunità europea per i paesi terzi, sempre più interessati ad ottenere accordi che prevedano un accesso privi-legiato a tale mercato. L’importanza di tale accesso privilegiato non deve essere sottovalutata. Si tratta, infatti, di uno degli in-centivi più importanti che l’Unione europea può utilizzare per influenzare il comportamento di paesi terzi.

proposta dal presidente francese pompidou al summit dell’aja del 1969, l’anno successivo prese avvio la Cooperazione politica europea (Cpe) con l’adozione da parte dei ministri degli affari esteri dei sei del rapporto del Lussemburgo. Gli obiettivi della Cpe consistevano nel cercare di assicurare una migliore com-prensione dei principali problemi internazionali, e di rafforzare la solidarietà dei sei promuovendo l’armonizzazione dei loro punti di vista, il coordinamento delle loro posizioni, e quando possi-bile e auspicabile, anche un’azione comune. i nuovi meccanismi introdotti per realizzare questi obiettivi si limitavano a incontri biannuali dei ministri degli esteri dei sei, e incontri trimestrali di un Comitato politico, composto da funzionari degli stati membri. Da questa breve descrizione emerge, innanzitutto, che si tratta-

23 Questa convenzione fu firmata dalla Comunità europea e dai 18 stati associati dell’africa. essa stabiliva aree di libero commercio tra l’Unione europea ed ogni stato africano ed aumentava il volume degli aiuti economici concessi a partire dall’entrata in vigore del Trattato Cee.

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va di strumenti puramente intergovernativi, il consenso era ri-chiesto per qualsiasi decisione, non vi era alcun trasferimento di competenze a livello europeo, e non era previsto alcun ruolo for-male per le istituzioni comunitarie. inizialmente la Commissione era esclusa dagli incontri dei ministri degli esteri che avevano luogo nell’ambito della Cpe. Tuttavia, visto il legame stretto che vi era tra politica commerciale esterna e relazioni politiche ester-ne, fu deciso di ‘associare pienamente’ la Commissione a tutti i livelli della Cpe, in pratica veniva consentito ai funzionari della Commissione di assistere a tutti gli incontri relativi alla Cpe. per una questione di legittimità democratica iniziarono anche ad es-sere presentati rapporti sulla Cpe al parlamento. inoltre, la Cpe mancava di tutti quegli strumenti civili e militari necessari per la gestione delle crisi, rendendo così impossibile per i paesi europei di realizzare le decisioni prese. Gli unici strumenti che avevano a disposizione per dare sostanza alle proprie decisioni erano gli strumenti economici (sanzioni, e supporto economico) della Co-munità europea. nonostante questi elementi di debolezza la Cpe ottenne alcuni successi, come l’alto grado di voto unificato in sede di nazioni unite, l’adozione di una posizione specifica eu-ropea sul conflitto in Medio oriente (la Dichiarazione di Venezia del 1980), e il lancio della conferenza sulla sicurezza e sulla co-operazione in europa.

Durante la conferenza intergovernativa sull’Unione politica europea, nell’ambito della quale vennero negoziati i contenuti della pesc, si scontrarono due posizioni, quella dei francesi e dei tedeschi che proponevano la comunitarizzazione (incluso il voto a maggioranza) della Cpe e l’inclusione nel trattato di aspetti relativi alla sicurezza e alla difesa, e la posizione della Gran Bretagna che sottolineava la natura intergovernativa della Cpe e il ruolo centrale svolto dalla naTo nelle questioni relative alla difesa. La posizione che prevalse fu quella degli inglesi. il Trattato sull’Unione europea (Tue), firmato a Maastricht nel 1992, creò, infatti, la pesc come un pilastro distinto (il secon-do pilastro) dell’Unione europea, in modo tale da evitare che il metodo comunitario venisse applicato a questa nuova politica.

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inoltre, venne distinta la direzione politica della politica este-ra, ambito di competenza della pesc, dagli strumenti economici della Comunità (primo pilastro), come la politica commerciale, gli accordi di cooperazione, e la cooperazione allo sviluppo, che facevano parte del primo pilastro. in aggiunta, il secondo pila-stro non veniva dotato di propri strumenti di policy o di risorse finanziarie proprie con cui dare un contenuto concreto alle even-tuali decisioni prese. per quanto riguarda la difesa, venne stabi-lito che la pesc doveva includere ‘tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, inclusa l’eventuale elaborazione di una politica di difesa comune, che avrebbe potuto portare nel corso del tempo ad una difesa comune’ (art. J.a(1) Tue). in realtà, si trattava soltanto di frasi e simboli importanti (‘difesa comune’), ma privi di alcuna sostanza concreta.

il Trattato di amsterdam del 1997 introdusse alcune innova-zioni per quanto riguarda la pesc. innanzitutto esso introdusse la funzione di Segretario generale/alto rappresentante della pesc, con il compito di assistere il Consiglio e la presidenza nella formulazione, preparazione e implementazione delle de-cisioni di policy. Si trattava di un cambiamento importante, in quanto, per la prima volta, la pesc avrebbe avuto un attore per-manente, ed anche un volto. Diversi stati membri ritenevano che una figura di basso profilo avrebbe potuto occupare questa nuova posizione. Tuttavia a seguito del fallimento dell’Unione europea in Kosovo, il Consiglio europeo di Colonia del 1999 decise di nominare una figura di alto profilo, Javier Solana, che come Segretario generale aveva appena portato avanti le operazioni militari della naTo contro la Serbia. in secondo luogo, il Trattato di amsterdam rafforzò anche la relazione tra l’Unione europea e l’Ueo, nel senso che la prima otten-ne accesso alle capacità operative della seconda per missio-ni umanitarie e di soccorso, per le missioni di mantenimento della pace e per le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace, ovvero dei cosiddetti compiti di petersberg. Tut-tavia queste nuove disposizioni sulle relazioni Unione-Ueo

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saranno superate dagli sviluppi relativi alla politica europea di sicurezza e difesa (pesd).

La Dichiarazione di San Malò del 1998 è importante per la politica estera dell’Unione europea in quanto lanciò quel pro-cesso che ha portato alla creazione della pesd, superando così le due aree di tensione che avevano caratterizzato fin dai primi momenti la politica estera dell’Unione, ovvero la tensione tra integrazione europea e alleanza atlantica, e la tensione tra po-tenza civile e militare. Venne, infatti, dichiarato, nel dicembre del 1998, dal presidente francese Chirac e dal primo ministro inglese Blair, che l’Unione doveva essere in grado di intrapren-dere un’azione autonoma, supportata da mezzi militari credibili, in modo da poter rispondere alle crisi internazionali. Si trattava del riconoscimento da parte di questi due paesi della necessità di assumersi maggiori responsabilità per la sicurezza dell’europa, e che, quindi, l’Unione doveva diventare qualcosa di più di una potenza civile. Sembra che questa dichiarazione sia stata forte-mente influenzata dalla crisi del Kosovo, dall’incapacità dell’U-nione europea di intervenire in questo contesto, e dalle pressioni di Washington a favore di una minore dipendenza militare dagli Stati uniti. L’obiettivo di creare la pesd fu formalmente stabilito dal Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999, e sei mesi più tardi il Consiglio europeo di Helsinki prese altre due deci-sioni importanti. primo, i capi di stato e di governo si impegna-rono, entro il 2003, ad essere in grado di deporre entro sessanta giorni e per la durata di almeno un anno 50.000-60.000 militari capaci di svolgere tutti i compiti previsti a petersberg (si trattava del cosiddetto Helsinki Headline Goal). Questo comportava che le capacità militari dell’Unione europea non venivano realizzate attraverso la creazione di un esercito permanente europeo, ma grazie ai contributi volontari e temporanei degli stati membri alle operazioni pesd. in secondo luogo, il Consiglio europeo di Helsinki stabilì la creazione di un Comitato politico e di sicurez-za (Cps) (composto da ambasciatori degli stati membri) con il compito di definire e seguire la risposta dell’Unione ad una cri-si, di un Comitato militare (Cm) dell’Unione europea (composto

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dai capi della difesa degli stati membri), diretto dal Cps, e con la funzione di consigliare quest ultimo, e di uno staff militare dell’Unione europea (composto da esperti militari e civili dei paesi membri), subordinato al Cm e che si occupasse della con-dotta degli aspetti militari. Tutte queste tre nuove entità furono create nell’ambito del Consiglio.

Lo stesso anno, su iniziativa della Svezia e della Finlandia, l’Unione europea decise di dotarsi di capacità civili per la ge-stione delle crisi, tali da consentire di intraprendere, non soltan-to missioni militari, ma anche civili, come missioni di polizia oppure missioni per migliorare lo stato di diritto. nel dicembre del 2002, grazie all’accordo Berlin plus, venne risolta la que-stione dell’accesso dell’Unione europea agli assetti militari ed alle strutture di comando della naTo. in particolare, venne de-ciso che l’Unione poteva sia condurre un’operazione autonoma-mente utilizzando le risorse degli stati membri, sia utilizzare le risorse della naTo. Tre mesi più tardi in Macedonia, l’Unione europea sostituì la naTo, iniziando la sua prima operazione militare, l’operazione Concordia. Questa prima operazione fu seguita nel giro di pochi anni da altre 21 missioni che potremmo definire ‘di pace’, 5 di natura militare, e 16 di natura civile, 7 in europa (principalmente nei Balcani), 9 in africa, e 5 nel Medio oriente e in asia. Si tratta di operazioni molto diverse fra loro anche dal punto di vista delle risorse umane impiegate, basti confrontare la missione di assistenza ai confini nei territori pa-lestinesi (con uno staff di 20 persone) con la missione eUFor althea in Bosnia-erzegovina (con 2200 soldati), oppure la mis-sione eULeX in Kosovo (con una staff internazionale e locale composta da circa 2500 persone). La pesd ha indubbiamente cambiato la natura della pesc, trasformandola da una politica estera dichiaratoria, centrata sulla diplomazia, in una politica estera più orientata all’azione, e soprattutto centrata sulla ge-stione delle crisi.

il Trattato costituzionale, firmato a roma nell’ottobre del 2004 da venticinque stati membri, sebbene non sia entrato in vi-gore, conteneva tre elementi di innovazione per quanto riguarda

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la politica estera, che saranno ripresi dal successivo Trattato di Lisbona. La prima innovazione riguardava la fine del sistema a pilastri dell’Unione europea. Tutte le dimensioni dell’azione esterna dell’Unione venivano raccolte, infatti, in un unico titolo del trattato (il titolo V intitolato ‘L’azione esterna dell’Unione’). inoltre, veniva concessa personalità giuridica all’Unione.24 Tut-tavia, nonostante l’abolizione del sistema a pilastri, il Trattato costituzionale manteneva la divisione tra il regime decisionale che si applicava alla pesc/pesd e quello che si applicava alle altre attività esterne. Una seconda, e più importante, innovazio-ne era quella relativa alla creazione della funzione di Ministro dell’Unione per gli affari esteri, di un presidente del Consiglio europeo, e di un Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). il nuovo ministro europeo avrebbe svolto il ruolo, allo stesso tempo, di alto rappresentante della pesc e Commissario per le relazioni esterne, ed avrebbe presieduto il Consiglio affari esterni. il Ministro sarebbe stato coadiuvato dal Seae, composto da funzionari provenienti dal Segretariato del Consiglio, dalla Commissione, e dai ministeri degli esteri degli stati membri. il nuovo presidente del Consiglio europeo non avrebbe soltan-to presieduto e guidato gli incontri del Consiglio, ma avrebbe dovuto anche assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione per le questioni relative alla pesc. La terza novità riguardava la pesd. il Trattato costituzionale introduceva, per la prima vol-ta,‘la prevenzione dei conflitti’ tra gli obiettivi della politica estera dell’Unione, ampliava i compiti di petersberg, introduce-va diverse disposizioni che consentivano una maggiore flessi-bilità nell’implementazione di questa politica, introduceva una clausola di solidarietà e nuovi sviluppi istituzionali nella forma di un’agenzia europea per la difesa.

il Trattato di Lisbona, firmato nel dicembre del 2007, man-tiene le principali innovazioni previste dal Trattato Costituzio-nale, sebbene venga abbandonata quella terminologia che aveva creato preoccupazioni in diversi stati membri. pertanto, il titolo

24 precedentemente soltanto la Comunità europea godeva di personalità giuridica.

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di ‘Ministro dell’Unione per gli affari esteri’ viene abbandonato in favore del titolo di ‘alto rappresentante dell’Unione per la politica estera e di sicurezza’. Ma la sua funzione resta identica a quella anticipata dal Trattato costituzionale. alcune dichiara-zioni annesse al trattato, sottolineano poi che, sebbene il sistema a pilastri sia stato abbandonato, la pesc e la pesd manterranno il proprio distinto regime di policy-making, e che non viene lesa la capacità degli stati membri di condurre le proprie politiche este-re nazionali. per quanto riguarda specificatamente i conflitti, ri-prendendo quanto introdotto dal Trattato costituzionale, viene per la prima volta inserito in un trattato il concetto di ‘preven-zione dei conflitti’, come uno degli obiettivi dell’azione esterna dell’Unione e vengono estesi i compiti di petersberg che con l’entrata in vigore del Trattato riguardano ‘le azioni congiunte in materia di disarmo, le missioni umanitarie e di soccorso, le missioni di consulenza e assistenza in materia militare, le mis-sioni di prevenzione dei conflitti e di mantenimento della pace e le missioni di unità di combattimento per la gestione delle crisi, comprese le missioni tese al ristabilimento della pace e le opera-zioni di stabilizzazione al termine dei conflitti’ (art. 43(1) Tue).

3 – Quale funzionamento?

Come abbiamo già brevemente accennato il sistema di po-litica estera dell’Unione è governato da due distinti regimi di policy-making: il metodo intergovernativo che si applica alla pesc, ed il metodo comunitario che si applica alla politica com-merciale, alla cooperazione con i paesi terzi, e all’aiuto umani-tario. il principio su cui si basa il metodo intergovernativo è che i governi mantengono il proprio controllo sul processo decisio-nale. Questo avviene in due modi: attraverso la cooperazione intergovernativa e attraverso l’integrazione intergovernativa. nel primo caso i governi non trasferiscono competenze all’U-nione europea, ma nell’ambito dell’Unione cooperano nell’e-laborazione della politica estera, coordinando le loro politiche estere nazionali. Mentre nel secondo caso gli stati membri tra-

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sferiscono competenze di politica estera all’Unione europea, ma i governi mantengono uno stretto controllo sul processo decisionale attraverso la posizione dominante del Consiglio e la regola dell’unanimità. il metodo comunitario si basa, invece, sul principio di un interesse comune, che gli attori definiscono, promuovono e rappresentano. Questo metodo viene operazio-nalizzato attraverso un sistema che cerca di mantenere un equi-librio istituzionale tra una Commissione sovranazionale che ha un ruolo chiave nel definire e difendere gli interessi comuni, un Consiglio dei ministri che decide solitamente a maggioranza qualificata, un parlamento europeo eletto direttamente che nella maggior parte dei casi co-decide con il Consiglio, ed una Corte di giustizia sovranazionale. nel seguito di questo paragrafo vie-ne brevemente ricostruito per alcuni attori chiave – Consiglio europeo, presidente del Consiglio europeo, alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, Servi-zio europeo per l’azione esterna, Consiglio affari esteri, e Com-missione europea – le competenze ed il ruolo che ognuno di essi svolge nel processo decisionale relativo alla politica estera. Ci soffermeremo infine sulle risorse del bilancio dell’Unione che vengono destinate alla politica estera.

il Consiglio europeo è composto dai capi di stato e di go-verno degli stati membri, dal suo presidente, e dal presidente della Commissione europea. L’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza partecipa ai lavori (art. 15(2) Tue). Come già detto, a seguito dell’entrata in vi-gore del Trattato di Lisbona, il Consiglio europeo è presiedu-to dal presidente del Consiglio europeo. al Consiglio europeo spetta l’individuazione degli interessi e degli obiettivi strategici dell’azione esterna dell’Unione in base ai principi ed agli obiet-tivi enunciati dall’art. 21 del Tue25 (art. 22 Tue). per ‘azione

25 Si tratta di quei principi che ‘hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento [dell’Unione] e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle nazioni

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esterna dell’Unione’ si deve intendere non soltanto la pesc ma anche gli altri settori dell’azione esterna dell’Unione (come la politica commerciale, la cooperazione con i paesi terzi, l’aiu-to umanitario, le misure restrittive, gli accordi internazionali, e le relazioni dell’Unione con le organizzazioni internazionali, i paesi terzi, e le delegazioni dell’Unione). il Consiglio europeo delibera all’unanimità su raccomandazione del Consiglio. per quanto riguarda la pesc, il Consiglio europeo individua gli in-teressi strategici dell’Unione, fissa gli obiettivi e definisce gli orientamenti generali di questa politica, ivi comprese le que-stioni che hanno implicazioni in materia di difesa, e adotta le decisioni necessarie (art. 26 Tue). a proposito della politica di sicurezza e di difesa comune (psdc, così come viene rinominata la pesd dal Trattato di Lisbona), visto che essa comprende ‘la graduale definizione di una politica di difesa comune dell’U-nione’, quest’ultima dovrà essere deliberata dal Consiglio eu-ropeo all’unanimità (art. 42 Tue).

Come già detto, il Trattato di Lisbona ha introdotto la figura di un presidente permanente del Consiglio europeo in modo da evitare la mancanza di continuità nell’attività di questa istituzio-ne, causata dal meccanismo della presidenza semestrale. esso viene eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due anni e mezzo, rinnovabile una volta. Queste Unite e del diritto internazionale’. Questi sono gli obiettivi: ‘a) salvaguardare i suoi valori, i suoi interessi fondamentali, la sua sicurezza, la sua indipendenza e la sua integrità; b) consolidare e sostenere la democrazia, lo stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale; c) preservare la pace, prevenire i conflitti e rafforzare la sicurezza internazionale, conformemente agli obiettivi e ai principi della Carta delle nazioni Unite …; d) favorire lo sviluppo sostenibile dei paesi in via di sviluppo sul piano economico, sociale e ambientale, con l’obiettivo primo di eliminare la povertà; e) incoraggiare l’integrazione di tutti i paesi nell’economia mondiale, anche attraverso la pro-gressiva abolizione delle restrizioni agli scambi internazionali; f) contribuire all’elaborazione di misure internazionali volte a preservare e migliorare la qua-lità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali, al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile; g) aiutare le popolazioni, i paesi e le regioni colpiti da calamità naturali o provocate dall’uomo; h) promuovere un sistema internazionale basato su una cooperazione multilaterale rafforzata e il buon governo mondiale’.

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le sue funzioni: presiedere e animare i lavori del Consiglio eu-ropeo; b) assicurare la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio europeo; c) facilitare la coesione e il consenso in seno al Consiglio europeo; d) presentare al parlamento eu-ropeo una relazione dopo ciascuna delle riunioni del Consiglio europeo; e) assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla pesc; f) qualora giustificato dagli svi-luppi internazionali, convocare una riunione straordinaria del Consiglio europeo per definire le linee strategiche della politica dell’Unione dinanzi a tali sviluppi (si vedano gli artt. 15 e 26 del Tue).26 Come è stato opportunamente osservato, le potenzialità di questa nuova figura per la politica estera dell’Unione dipen-dono, così come per l’alto rappresentante, dalla personalità di chi occupa questa posizione e da quanto gli stati membri gli/le consentano di muoversi autonomamente.

il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della Commissione, nomina l’alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Come già detto la creazione di questa nuova figura da parte prima del Trattato costituzionale e poi del Trattato di Lisbona mirava ad ottenere una maggiore coerenza tra il pri-mo ed il secondo pilastro dell’Unione, combinando le funzioni dell’ex Sg/ar e del Commissario per le relazioni esterne. Queste le funzioni principali dell’ar: a) condurre la pesc in linea con il mandato ricevuto dal Consiglio; b) contribuire, con le proprie proposte, all’elaborazione della pesc; c) proporre al Consiglio la nomina di un rappresentante speciale con un mandato per pro-blemi politici specifici; d) presiedere il Consiglio affari esteri; e) essere uno dei vicepresidenti della Commissione; f) essere responsabile dell’armonizzazione e del coordinamento dei vari settori dell’azione esterna dell’Unione; g) rappresentare l’Unio-ne per le materie che rientrano nella pesc; h) condurre, a nome dell’Unione, il dialogo politico con i paesi terzi ed esprimere la posizione dell’Unione nelle organizzazioni internazionali e in

26 in quanto rappresentante dell’Ue, il presidente del Consiglio europeo non può esercitare un mandato nazionale.

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seno alle conferenze internazionali; i) nei casi che richiedono una decisione rapida, convocare una riunione straordinaria del Consiglio entro un termine di quarantotto ore o, in caso di emer-genza, entro un termine più breve; j) nelle organizzazioni in-ternazionali e in occasione di conferenze internazionali assicu-rare l’organizzazione del coordinamento dell’azione degli stati membri, k) nei casi in cui l’Unione ha definito una posizione su un tema all’ordine del giorno del Consiglio di sicurezza delle nazioni unite, presentare tale posizione; l) consultare regolar-mente il parlamento europeo sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della pesc, informarlo dell’evoluzione di tale po-litica, e provvedere affinché le opinioni del parlamento europeo siano debitamente prese in considerazione. per quanto riguar-da specificatamente la psdc, le funzioni principali dell’ar sono quelle di proporre al Consiglio le decisioni relative a tale poli-tica, comprese quelle inerenti all’avvio di una missione civile o militare e coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni (si vedano gli artt. 42, 43 del Tue). infine, occorre menziona-re brevemente le funzioni dell’ar negli altri settori dell’azione esterna dell’Unione europea. a proposito delle misure restritti-ve previste dall’art. 215 del TfUe spetta all’ar, congiuntamente con la Commissione, proporre al Consiglio l’interruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni economiche e finan-ziarie con uno o più paesi terzi, e/o l’adozione di misure restrit-tive nei confronti di persone fisiche o giuridiche, di gruppi o di entità non statali. per quanto riguarda gli accordi internazionali relativi alla pesc, spetta all’ar, in base all’art. 218 del TfUe, presentare delle raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa il ne-goziatore dell’Unione. relativamente alle relazioni dell’Unione con le organizzazioni internazionali, spetta all’ar, insieme alla Commissione, attuare ogni utile forma di cooperazione con gli organi delle nU, il Consiglio d’europa, l’organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in europa, e l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (si veda l’art. 220 del TfUe). Spetta, inoltre all’ar controllare le delegazioni dell’U-

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nione (si veda l’art. 221 del TfUe). Spetta, infine, all’ar, con-giuntamente con la Commissione, ed a seguito di una richiesta da parte delle autorità politiche dello stato colpito da un attac-co terroristico o vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo, proporre al Consiglio le modalità di attuazione della clausola di solidarietà in modo tale che gli altri stati gli possano prestare assistenza (si veda l’art. 222 del TfUe).

Tra le novità del Trattato di Lisbona vi è anche la creazione del nuovo Servizio europeo per l’azione esterna (Seae) che coadiuva l’ar nell’esecuzione delle sue funzioni (si veda l’art. 27 del Tue). Tale servizio è composto da funzionari dei servizi competenti del segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da per-sonale distaccato dei servizi diplomatici nazionali, in modo da riunire in un’unica entità tutti i funzionari che, da punti di vista diversi, si occupano di politica estera dell’Unione.

il Consiglio affari esteri è indubbiamente l’attore più impor-tante nel processo decisionale relativo alla politica estera. esso si occupa di tutte le aree della politica estera dell’Unione: com-mercio estero, cooperazione allo sviluppo, aiuto umanitario, accordi internazionali, e pesc (psdc inclusa). È composto dai ministri degli esteri degli stati membri e dall’ar, quest’ultimo con il compito di presiedere il Consiglio. i ministri discutono ed adottano decisioni relative alle relazioni esterne ed alla poli-tica estera, utilizzando sia il metodo intergovernativo che quello comunitario. per quanto riguarda la pesc, psdc inclusa, il Con-siglio è l’attore decisionale principale nelle diverse fasi del poli-cy-making: definizione, decisione, implementazione, e control-lo. insieme al Consiglio europeo assicura che la pesc resti sotto uno stretto controllo dei governi degli stati membri. per quanto riguarda, invece, le cosiddette competenze comunitarie, il Con-siglio continua ad essere il principale attore decisionale, ma in un processo più ampio che coinvolge anche la Commissione, il parlamento e la Corte di giustizia. in questi ambiti, solo la Com-missione ha il diritto di presentare delle proposte. il Consiglio svolge un ruolo importante nell’adozione di tutte le decisioni, ma in alcuni ambiti importanti, come il bilancio o gli accordi di

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associazione, il Consiglio può decidere soltanto insieme, o con il consenso, del parlamento europeo.

La Commissione europea svolge un ruolo importante nelle cosiddette politiche esterne comunitarizzate, grazie al suo dirit-to esclusivo di iniziativa legislativa, anche per quanto riguarda il bilancio, ma non ha alcun ruolo nella pesc. La Commissione non è un attore unitario per quanto riguarda la politica estera: ci sono più teste (tre commissari: il Commissario per il commercio estero, il Commissario per la cooperazione allo sviluppo e l’aiuto umani-tario, e il Commissario per l’allargamento), e diverse altre entità (le varie Dg, agenzie, e le delegazioni sparse in tutto il mondo).

4 – Quali priorità geografiche?

in questo paragrafo ci soffermeremo sulla politica estera dell’Unione europea verso due categorie di paesi terzi: 1) i paesi dell’europa Centrale e orientale (peCo), i paesi balcanici e la Turchia, verso i quali la politica estera dell’Unione si è svilup-pata/si sviluppa nel contesto della loro (potenziale) adesione, e quindi di un beneficio che non può essere offerto ad altre cate-gorie di paesi terzi; e 2) i cosiddetti vicini dell’Unione europea, ovvero le ex repubbliche sovietiche ed i paesi del Mediterraneo e del Medio oriente, le cui relazioni con l’Unione sono state inqua-drate sin dal 2004 nella politica europea di vicinato (pev).

Le relazioni tra i peCo e l’Unione possono essere ricostruite suddividendole in tre fasi principali in base all’intensità delle re-lazioni bilaterali. La prima fase iniziò già prima della caduta del muro di Berlino, nel momento in cui alcuni peCo iniziarono a mettere in discussione le proprie strutture comuniste e adottare alcune riforme.

Tra il 1988 e il 1989 la Comunità europea concluse i primi accordi di cooperazione con i governi riformatori di Varsavia e di Budapest, mentre la conservatrice Cecoslovacchia si dovette accontentare di un accordo meno vantaggioso dal punto di vista commerciale, e nel caso della romania i negoziati furono interrot-ti a causa del mancato rispetto dei diritti umani. inoltre, a partire

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dalla metà del 1989, la Commissione iniziò a coordinare gli aiuti occidentali alla polonia e all’Ungheria attraverso il suo program-ma pHare (poland and Hungary aid for reconstructing the eco-nomy). negli anni che seguirono la caduta dei regimi comunisti continuò a rafforzare le relazioni a gli aiuti per i paesi più ambi-ziosi (polonia, Ungheria e Cecoslovacchia) ed a ridurre gli aiuti per quei governi che si muovevano in direzione autoritaria (come la romania, e successivamente la Slovacchia). nel 1991 Varsavia, praga e Budapest firmarono i primi accordi di associazione (co-nosciuti anche come accordi europei) seguiti a breve dagli altri peCo. L’obiettivo di tali accordi consisteva nel fornire un quadro per il dialogo politico, la promozione del commercio e delle rela-zioni economiche, l’assistenza finanziaria e tecnica, la graduale integrazione dei peCo in diverse politiche comunitarie, e pro-muovere la cooperazione culturale. Tuttavia, sebbene tali accordi riconoscessero il desiderio dei paesi associati di diventare membri della Comunità, essi erano percepiti dalla stessa Comunità come alternative, piuttosto che strumenti preparatori per l’adesione.

La seconda fase ebbe inizio con il Consiglio europeo di Cope-naghen del 1993, in occasione del quale i capi di stato e di governo dei 15 paesi membri dell’Unione decisero di offrire ai peCo la prospettiva dell’adesione. Tuttavia, in base alle conclusioni dello stesso Consiglio, l’adesione poteva aver luogo soltanto quando i candidati sarebbero stati in grado di rispettare alcune condizioni formali relative al rispetto per la democrazia e lo stato di diritto, alla protezione dei diritti umani e delle minoranze, ad un’econo-mia di mercato funzionante, e all’implementazione dell’acquis communautaire (i cosiddetti criteri o condizioni di Copenaghen). Successivamente, il Consiglio europeo di essen aggiunse a queste tre condizioni un’altra, relativa alle buone relazioni di vicinato, che comportava non soltanto la necessità di cooperare con i vicini ma anche quella di risolvere pacificamente le eventuali dispute internazionali. a seguito del Consiglio europeo di Copenaghen, tra il 1994 e il 1996 tutti i paesi associati dell’europa centrale ed orientale e le tre repubbliche baltiche presentarono domanda di adesione all’Unione. Seguendo la procedura prevista dall’ex ar-

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ticolo o del Trattato sull’Unione, nel luglio del 1997 la Commis-sione europea presentò dieci opinioni individuali sulle domande di adesione. per cinque paesi (polonia, repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia ed estonia) essa raccomandò l’apertura dei negoziati di adesione nel marzo del 1998, lo stesso non accade però per roma-nia, Bulgaria, Lettonia e Lituania per motivi economici, e per la Slovacchia per motivi politici. i negoziati di adesione con questo gruppo di paesi si aprirono comunque un anno più tardi.

La terza fase iniziò con il Consiglio europeo di Lussembur-go del dicembre 1997, che confermò la selezione effettuata dalla Commissione europea e decise di applicare una strategia di pre-a-desione rafforzata a tutti i peCo che avevano presentato doman-da di adesione. È in quest’ultima fase che si passa dall’influen-za indiretta (o passiva) a quella diretta (o attiva). La strategia di pre-adesione rafforzata si basava su tre nuovi strumenti chiave che consentivano all’Unione di guidare e controllare il processo di riforma dei peCo in diversi ambiti di policy. Tali strumen-ti erano: i partenariati di adesione, le valutazioni annuali della Commissione europea relative al progresso effettuato dai paesi candidati nel rispettare le condizioni dell’Unione, e l’assistenza finanziaria finalizzata all’adesione. L’idea principale che stava dietro il partenariato di adesione era che le priorità relative ai criteri di Copenaghen venivano esplicitamente indicate in que-sto documento per ogni singolo paese candidato. Vale la pena di osservare che sebbene i partenariati di adesione fossero il risul-tato di intense consultazioni con i paesi candidati, non si trattava di accordi bensì di atti unilaterali. i primi partenariati di adesio-ne per i peCo furono adottati nel marzo del 1998 e successi-vamente aggiornati. L’altro aspetto importante della strategia di pre-adesione rafforzata era il monitoraggio annuale da parte della Commissione europea del progresso effettuato dal paese candi-dato in vista dell’adesione. in particolare, in queste relazioni la Commissione evidenziava quanto era stato fatto per soddisfare le priorità (politiche, economiche e relative all’acquis) elencate nel partenariato di adesione. infine, la strategia di adesione rafforzata prevedeva che tutte le forme di assistenza finanziaria dell’Unio-

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ne fossero finalizzate all’adesione; ciò significava che i finanzia-menti venivano stanziati appositamente per aiutare i paesi candi-dati a soddisfare le priorità indicate dall’Unione nei partenariati di adesione. Dopo un lungo processo di adattamento, nel maggio del 2004, otto peCo (Ungheria, estonia, polonia, Slovenia, re-pubblica Ceca, Slovacchia, Lettonia, Lituania), insieme a Cipro e Malta, diventarono membri dell’Unione, seguiti dalla romania e dalla Bulgaria nel gennaio del 2007.

La maggior parte della letteratura ritiene che la strategia dell’Unione europea di pre-adesione, i cui aspetti principali sono la condizionalità politica, il monitoraggio delle riforme effettuate e la promozione di un tipo di democrazia non soltanto formale ma anche sostanziale, abbia contribuito alla transizione e al consoli-damento democratico dei peCo riferendosi al fatto che si offre ai paesi la prospettiva di una maggiore inclusione nella comunità regionale a condizione che essi trasformino le loro istituzioni e politiche interne in linea con le pratiche liberali e democratiche richieste dalla comunità regionale. Ciononostante, alcuni autori hanno messo in luce alcuni rischi e limiti di questa strategia con-statando che la strategia dell’Unione di promozione della demo-crazia attraverso l’allargamento, pone in primo piano i processi esterni, mettendo così in discussione l’autorità delle istituzioni nazionali chiave come i parlamenti.

a partire dalla metà del 1991, è nei Balcani27 che la politica estera europea mostrò la più grande inefficacia, in quanto né la Cpe né la pesc furono in grado di fermare le guerre ai confini dell’Unione che causarono la morte di più di 100.000 persone e la dispersione di 2 milioni di individui. È stato proprio questo falli-mento a condizionare gli sviluppi del secondo pilastro dell’Unio-ne. Si spiega in questi termini, per esempio, la scelta di nominare come alto rappresentante per la pesc l’allora Segretario generale della naTo, Javier Solana, con una considerevole esperienza dei Balcani e che aveva guidato la naTo durante la guerra del Ko-sovo. anche la creazione della pesd, a seguito dell’incontro di

27 Con questa espressione si fa riferimento ai seguenti paesi: albania, Bosnia erzegovina, Croazia, Kosovo, Macedonia, Montenegro, e Serbia.

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San Malò del 1998, fu influenzata dall’incapacità dell’Unione di intervenire nelle crisi in ex Jugoslava, nonché dalle conseguenti pressioni di Washington a favore di una minore dipendenza mi-litare dagli Stati uniti. negli anni più recenti i Balcani sono stati anche l’area che ha maggiormente beneficiato di tali sviluppi, ov-vero delle missioni civili e militari nell’ambito della pesd.

Con gli accordi di pace che posero fine alle guerre in Bosnia e in Kosovo, ci si rese conto che la presenza di forze militari non era da sola sufficiente al raggiungimento di una pace duratura che richiedeva invece una fondamentale trasformazione della regione in modo da demilitarizzare le relazioni tra stati e tra gruppi so-ciali. È in questo contesto che nell’auspicio di replicare i buoni risultati ottenuti dai peCo, nel maggio del 1999 l’Unione iniziò il processo di stabilizzazione e associazione (psa) per aiutare i paesi di quest’area a consolidare le istituzione democratiche, assicurare la supremazia del diritto e sostenere un’economia prospera e libe-ra. Tale processo si basava su tre elementi principali: gli accordi di stabilizzazione e associazione (asa), accordi internazionali bi-laterali giuridicamente vincolanti che fornivano il quadro entro cui sostenere la graduale integrazione di questi paesi nell’Unione; un programma di assistenza finanziaria, CarDS (Community As-sistance for Reconstruction, Democratization and Stabilization), sostituito nel 2007 dallo Strumento per la pre-adesione, e la coo-perazione regionale. Ma al di là di concessioni commerciali e di ingenti somme di assistenza economica, l’Ue decise di offrire an-che a questi paesi il suo incentivo più importante per promuovere il cambiamento interno, ovvero la possibilità di diventare membri dell’Unione. poco dopo l’inizio del pSa, già nel giugno del 2000, il Consiglio europeo di Feira riconobbe infatti a questi paesi lo status di potenziali candidati all’adesione, e nel giugno 2003, con l’adozione dell’agenda di Salonicco, iniziò di fatto una sorta di processo di pre-adesione per i paesi di questa area. L’agenda de-finiva infatti i Balcani come parte dell’europa unita e invitava i paesi di questa area a seguire lo stesso cammino verso l’adesione dei paesi candidati. Questo cammino è già stato percorso dalla Croazia che nel luglio del 2013 è diventata il ventottesimo stato

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membro dell’Unione. anche tutti gli altri paesi dell’area stanno seguendo con tempi diversi questo percorso: tre hanno già otte-nuto lo status di candidati all’adesione (Macedonia, Montenegro, e Serbia), e due di questi hanno aperto i negoziati (Macedonia e Montenegro); l’albania ha presentato domanda di adesione nell’aprile del 2009 nel momento in cui è entrato in vigore l’a-sa; la Bosnia erzegovina ha firmato l’asa nel 2008; ed anche al Kosovo è stata riconosciuta nel giugno del 2008 una prospettiva europea, sebbene non ci sia accordo tra gli stati membri sullo sta-tus internazionale di questo territorio.

Sin dalla fine della seconda guerra mondiale la Turchia è stata membro di diverse organizzazioni occidentali28. Le sue relazioni con la Comunità risalgono al 1963 quando fu firmato un accordo di associazione, il cosiddetto accordo di ankara. L’aspetto prin-cipale di questo accordo era l’istituzione di un’unione doganale in tre fasi, tuttavia esso conteneva già una prospettiva di adesione alla Comunità. Le relazioni bilaterali peggiorarono a seguito del colpo di stato del 1980, al quale la Comunità reagì con la deci-sione di bloccare gli aiuti finanziari verso il paese. Tali relazioni iniziarono gradualmente a normalizzarsi a seguito della restaura-zione di un governo civile nel 1983. incoraggiata dall’adesione alla Comunità di Spagna e portogallo, il 14 aprile 1987 la Turchia presentò domanda di adesione. L’opinione espressa dalla Com-missione europea nel 1989 suggerì però che “non sarebbe stato utile aprire in questo momento i negoziati di adesione con la Tur-chia”, per motivi sia politici che economici, osservando tra l’altro gli effetti negativi del contenzioso tra la Grecia e la Turchia e la situazione di Cipro. nel frattempo, nel 1995 si realizzò un’unione doganale con l’Unione europea, che copre tuttora essenzialmente i prodotti industriali. a proposito dell’Unione doganale vale la pena osservare la particolarità del caso turco rispetto agli altri paesi coinvolti nell’allargamento. infatti, attraverso l’Unione doganale, la Turchia diventa parte del mercato interno per quanto riguarda le merci e deve adottare gran parte dell’acquis indipendentemen-te dalla prospettiva di adesione. È importante soffermarsi anche

28 oeeC/eoCD nel 1948, il Consiglio d’europa (1949), e la naTo (1952).

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sulla diversa percezione da parte della Turchia e dell’Unione eu-ropea dell’unione doganale. infatti, mentre essa veniva percepita dalle autorità turche come un primo passo di un cammino irrever-sibile che avrebbe portato all’adesione, per l’europa si trattava di uno strumento per approfondire le relazioni economiche con la Turchia, ma del tutto scollegato alla questione dell’adesione. anche per questo motivo, nonostante la realizzazione dell’Unio-ne doganale, il Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997 espresse un’opinione negativa a proposito dell’adesione di ankara. in un primo momento la Turchia reagì negativamente ai risultati del Consiglio europeo, ma già nel luglio del 1998 le au-torità turche accettarono le proposte operative della Commissione europea per una “strategia europea per la Turchia”, ed in ottobre la Commissione adottava una comunicazione sul sostegno finan-ziario per tale strategia. Sempre nell’ottobre 1998 la Commissione presentava anche la prima relazione periodica sul progresso della Turchia verso l’adesione. il Consiglio europeo di Helsinki del 10-11 dicembre 1999 rappresenta l’inizio di una nuova era per quanto riguarda le relazioni tra Turchia e Unione. Viene infatti deciso che “la Turchia è un paese candidato destinato ad unirsi all’Unione sulla base degli stessi criteri degli altri paesi candidati”. Diversi autori concordano nel ritenere che questa decisione abbia svolto un ruolo importante nel favorire i principali cambiamenti politici che si sarebbero realizzati negli anni successivi. La prospettiva dell’adesione viene infatti solitamente considerata come lo stru-mento di politica estera dell’Unione di maggior successo nel fa-vorire dinamiche interne di trasformazione, come per esempio il processo di democratizzazione dei paesi candidati. a questo pro-posito, nel caso della Turchia è possibile osservare che gli incenti-vi offerti – in termini soprattutto di adesione, ma anche assistenza economica – condizionati al rispetto di specifiche condizioni po-litiche, favorirono nel periodo tra il 2001 e il 2005 l’adozione da parte di ankara di un numero considerevole di riforme politiche.

il processo di avvicinamento della Turchia all’Unione rallen-tò ancora una volta nel dicembre del 2002, quando il Consiglio europeo di Copenaghen – in occasione del quale i leader europei

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decisero di allargare l’Unione a 10 nuovi paesi membri – decise di rimandare la decisione di aprire i negoziati di adesione con la Turchia alla fine del 2004. La motivazione ufficiale consisteva nel fatto che, sebbene la Turchia avesse fatto molto per soddisfare i criteri di Copenaghen e il nuovo governo turco avesse mostrato la sua determinatezza nel portare avanti il processo di riforma, do-vevano ancora essere risolti alcuni problemi relativi ai criteri po-litici, non soltanto a livello di legislazione, ma anche e soprattutto per quanto riguarda l’implementazione. nel dicembre del 2004 il Consiglio europeo stabilì che i negoziati di adesione con la Tur-chia si sarebbero aperti nell’ottobre del 2005. a questo proposito è utile soffermarsi sul punto 2 dell’accordo quadro raggiunto tra la Turchia e l’Unione sui principi che avrebbero dovuto guidare tali negoziati. al punto 2, relativo all’obiettivo dei negoziati, in-fatti, se da un lato veniva affermato che “l’obiettivo comune dei negoziati è l’adesione”, dall’altro veniva chiarito che “i negoziati sono un processo aperto, il cui risultato non può essere garantito a priori”. inoltre, veniva affermato che: “tenendo presenti tutti i criteri di Copenaghen, se la Turchia non sarà pronta ad assumersi tutti gli obblighi per poter diventare membro, dovrà esserle assi-curato un forte ancoraggio a tutte le strutture europee attraverso un legame il più forte possibile”. per la prima volta veniva quindi stabilito che i negoziati di adesione avrebbero potuto portare ad un esito diverso da quello naturale. nello stesso accordo venivano anche riaffermati i requisiti in base ai quali si sarebbe misurato il progresso della Turchia nel prepararsi per l’adesione, ovvero: (1) i criteri di Copenaghen, (2) l’impegno ad avere buone relazioni di vicinato e nel risolvere pacificamente le dispute di confine, (3) il continuo sostegno agli sforzi per giungere ad una risoluzione del problema di Cipro; e (4) l’adempimento il soddisfacimento de-gli obblighi per la Turchia derivanti dall’accordo di ankara e dal suo protocollo aggiuntivo che estende l’accordo di associazione a tutti i nuovi stati membri dell’Unione, compresa la repubbli-ca di Cipro. È stato proprio il mancato rispetto di quest’ultima condizione, che implica di fatto il riconoscimento da parte della Turchia della repubblica di Cipro, a portare l’Unione nel 2006

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alla decisione di sospendere parzialmente i negoziati di adesio-ne, ovvero di non aprire quei capitoli rilevanti dal punto di vista delle restrizioni turche relative alla repubblica di Cipro, e di non chiudere tutti gli altri capitoli fintantoché la Turchia non avrà data piena implementazione al protocollo aggiuntivo all’accordo di ankara. al momento il processo di screening sta andando avanti, sono stati aperti i negoziati su altri capitoli, sebbene non ci sia-no stati sviluppi nell’implementazione del protocollo aggiuntivo all’accordo di ankara, così come nella risoluzione del conflitto di Cipro. nel complesso questa situazione di stallo nel processo di avvicinamento della Turchia all’Unione ha contribuito a ridurre il sostegno dell’opinione pubblica turca all’adesione, ed ha scorag-giato le autorità turche nel portare avanti riforme costose dal punto di vista interno in assenza di una prospettiva certa di adesione.

a seguito dell’allargamento del 2004 le relazioni con i nuovi vicini ad est e con i paesi della sponda meridionale del Mediter-raneo furono raggruppate in un’unica e nuova politica regionale – la politica europea di vicinato (pev) – laddove in precedenza erano state sviluppate due approcci regionali specifici per le di-verse aree geografiche.

Verso la metà degli anni ’90, nel tentativo di bilanciare le sue relazioni esterne dominate dalle relazioni con i peCo, l’Unio-ne decise di proiettare il Mediterraneo al centro della sua politica estera attraverso una nuova ed ambiziosa politica – il partenariato euro-mediterraneo (pem), conosciuto anche come processo di Bar-cellona – verso i paesi di quest’area (algeria, egitto, israele, Gior-dania, Libano, Libia, Marocco, palestina, Siria, Tunisia). il pem, inaugurato dalla conferenza di Barcellona del novembre 1995, rap-presenta la più recente evoluzione della politica mediterranea della Comunità degli anni ’70 e ’80 e del partenariato euro-magrebino dei primi anni novanta. inizialmente la politica mediterranea della Comunità si limitava ad un sostegno economico e finanziario sotto forma di protocolli bilaterali. negli anni ’80 tale politica fu rinno-vata per consentire al parlamento europeo di congelare i protocolli finanziari nel caso in cui si verificassero delle gravi violazioni dei diritti umani. all’inizio degli anni ’90, attraverso l’elaborazione del

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partenariato euro-magrebino, si iniziò a parlare di partenariato piut-tosto che di semplice cooperazione allo sviluppo per sottolineare la maggiore attenzione data al dialogo politico, sebbene in realtà que-sto si limitasse a scambi regolari di informazioni ed una maggiore consultazione sugli aspetti politici e relativi alla sicurezza.

Tale politica fu incoraggiata anche dal nuovo contesto me-dio-orientale, caratterizzato dall’accordo di oslo del 1993 tra israele e i palestinesi, che apriva delle finestre di opportunità per cambiamenti strutturali nei paesi dell’area. L’idea dell’Unione era quella di applicare alle sue relazioni con i paesi del Medi-terraneo gli stessi obiettivi e la stessa metodologia che si stava dimostrando efficace per i peCo. L’Unione si poneva l’obiettivo di favorire cambiamenti importanti nelle strutture politiche, giu-ridiche, economiche e sociali dei paesi mediterranei, nelle loro relazioni reciproche, e nelle relazioni con l’Unione. La Conferen-za euro-Mediterranea del novembre 1995 a Barcellona riunì per la prima volta i ministri degli esteri degli stati membri con i loro colleghi del Magreb, del Medio oriente, e di Cipro, Malta, e della Turchia. La conferenza istituì il pem che iniziava un processo – il processo di Barcellona – mirato a creare una cornice multilaterale per il dialogo e la cooperazione nelle tre dimensioni del parte-nariato: la dimensione politica e della sicurezza, la dimensione economica e finanziaria, e quella sociale e culturale. il pem sta-bilì un programma dettagliato di lavoro; meccanismi istituzionali per consentire incontri regolari a livello di ministri, funzionari, parlamentari, autorità locali, organizzazioni della società civile; e mise a disposizione ingenti risorse finanziarie attraverso un ap-posito strumento regionale di assistenza finanziaria (il program-ma MeDa). a questo approccio multilaterale si affiancavano una serie di nuovi accordi bilaterali (i cosiddetti accordi di associa-zione euro-mediterranei), che avrebbero consentito all’Unione di differenziare la sua politica nei confronti dei diversi partner. Tali accordi gradualmente sostituirono i precedenti accordi di coope-razione. a circa dieci anni di distanza, rendendosi conto che gli obiettivi posti non erano stati raggiunti, l’Unione cercò di rinno-vare questo processo attraverso la pev.

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prima di soffermarsi su questa politica, occorre descrivere bre-vemente le caratteristiche principali dell’approccio dell’Unione verso le ex repubbliche sovietiche, prima dell’introduzione della pev. Con la caduta del muro di Berlino e la dissoluzione dell’U-nione sovietica l’Unione iniziò ad approfondire le relazioni con l’Unione sovietica e con i peCo, lasciando in secondo piano i nuovi stati indipendenti dell’europa orientale (Ucraina, Bielorus-sia, e Moldavia), del Caucaso meridionale (Georgia, armenia, e azerbaijan), e dell’asia centrale (Kazakhstan, Kyrgizstan, Uz-bekistan, Tajikistan e Turkmenistan). il primo strumento di politi-ca estera che la Comunità introdusse nel 1990 verso questi paesi fu di natura economica. Si trattava di un programma di assistenza tecnica – TaCiS – a favore delle riforme economiche e della ri-costruzione dell’ex repubbliche dell’Unione sovietica. Verso la fine degli anni novanta le ex repubbliche sovietiche iniziarono a sottoscrivere degli accordi di partenariato e di cooperazione (apc) con l’Ue, che diventarono la base per tutte le relazioni con questo gruppo di paesi, compresa l’assistenza finanziaria attra-verso TaCiS29. Questi accordi definivano gli obiettivi, gli ambiti della cooperazione ed i meccanismi istituzionali per le relazio-ni bilaterali. Gli obiettivi riguardavano lo sviluppo di un dialogo politico più stretto, il sostegno al consolidamento democratico e alla transizione ad un’economia di libero mercato, la promozione del commercio e degli investimenti, e la cooperazione culturale, scientifica, tecnologia, legislativa e di altri tipi. La pev non sosti-tuisce gli apc, bensì essa integra tali accordi con altri strumenti, come per esempio i piani di azione che vengono redatti per ogni paese partner della pev.

nel 2003 l’Unione iniziò ad elaborare la politica europea di vi-cinato con l’obiettivo principale di rafforzare la stabilità e la sicu-rezza ai nuovi confini dell’Unione, attraverso la promozione dello sviluppo politico ed economico e della cooperazione regionale tra

29 in vigore per armenia (1.07.99), azerbaijan (1.07.99), Georgia (1.07.99), Kazakstan (1.07.99), Kyrgystan (1.07.99), Moldavia (1.07.98), russia (1.12.97), Ucraina (1.03.98) e Uzbekistan (1.07.99). non sono invece ancora in vigore con la Bielorussia, e il Turkmenistan.

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i nuovi vicini del Mediterraneo meridionale (algeria, egitto, isra-ele, Giordania, Libano, Libia, Marocco, autorità palestinese, Siria e Tunisia), dell’europa orientale (Bielorussia, Moldavia e Ucraina) e del Caucaso meridionale (armenia, azerbaijan e Georgia). L’U-nione europea chiarì, sin dalle fasi iniziali, che diversamente dai candidati e dai potenziali candidati all’adesione, ai partner della pev non potrà essere offerto l’incentivo dell’adesione all’Unio-ne. infatti tali paesi beneficeranno nel breve periodo del sostegno dell’Unione nel rispettare norme e standard europei, di alcune po-litiche e programmi interni dell’Unione, ed infine avranno la pos-sibilità di essere integrati nel mercato comune europeo. Tuttavia, sebbene non venga offerto loro la prospettiva di diventare membri, viene richiesto, almeno formalmente, lo stesso impegno dei paesi che hanno una prospettiva di adesione per quanto riguarda i valori comuni, in particolare la democrazia, lo stato di diritto, il rispetto per i diritti umani, compresi quelli delle minoranze, le buone rela-zioni di vicinato, i principi dell’economia di mercato e dello svi-luppo sostenibile, e alcuni aspetti dell’azione esterna dell’Unione, come la lotta al terrorismo e alla proliferazione della armi di distru-zione di massa, così come il rispetto del diritto internazionale e la risoluzione dei conflitti. Gli strumenti principali per realizzare que-sta politica sono i piani di azione, e l’assistenza finanziaria tramite l’enpi (european neighbourhood policy instrument) che a partire dal 2007 ha sostituito i programmi regionali MeDa e TaCiS. i piani di azione hanno una struttura molto simile a quella dei par-tenariati di adesione e dei partenariati europei, in quanto anch’essi elencano le priorità che il paese deve soddisfare per rispettare i va-lori comuni e quindi per avvicinarsi all’Unione. inoltre così come accade per i paesi candidati e per i potenziali candidati all’adesio-ne, queste priorità di azione costituiscono degli obiettivi che ven-gono monitorati dagli organi istituiti in base agli apc oppure agli aaem e attraverso le relazioni annuali della Commissione europea sul progresso raggiunto. È evidente, oltre che esplicitamente di-chiarato dalla stessa Unione, che nel disegnare questa nuova politi-ca la Commissione si è ispirata all’esperienza dei peCo, sperando di ripetere il successo della politica di pre-adesione.

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al di là delle somiglianze occorre sottolineare una differenza fondamentale tra i piani di azione e i partenariati di adesione ed i partenariati europei, che potrebbe avere delle conseguenze impor-tanti per quanto riguarda l’impatto di questa politica sui processi interni di cambiamento. infatti, diversamente dai partenariati di adesione e dai partenariati europei, i piani di azione non sono atti unilaterali decisi dal Consiglio su proposta della Commissione, bensì trattasi di accordi negoziati con ogni singolo partner della pev. Questo significa che l’Unione non può obbligare i partner riluttanti, ad inserire nei piani di azione priorità che comportereb-bero alti costi di adattamento per il paese partner.

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parTe iV

il diritto

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Capitolo 12

fondaMenti di diritto coMunitario

1 – L’ordinamento giuridico dell’Unione europea.

per lungo tempo negli studi giuridici è stato utilizzato il concetto di «diritto comunitario», inteso come sistema giuri-dico facente capo alle tre Comunità europee; dopo che, con il Trattato di Lisbona, il sistema comunitario è stato superato, tale concetto è stato rimpiazzato con quello di «diritto dell’Unione europea». Quest’ultima nozione identifica pertanto l’insieme delle norme giuridiche che fanno parte dell’ordinamento pro-prio dell’Unione europea. infatti, l’Unione europea, nata come un’organizzazione internazionale fondata su un accordo tra stati, ha progressivamente sviluppato un proprio ordinamento giuridico, che trova oggi il suo fondamento, quali fonti prima-rie, nel Trattato sull’Unione europea e nel Trattato sul funzio-namento dell’Unione europea. La natura autonoma e separata dell’ordinamento dell’Unione europea è stata ormai da tempo riconosciuta e dunque esso non deve essere confuso né con l’or-dinamento internazionale né con gli ordinamenti interni dei 28 stati membri.

per comprendere esattamente i rapporti che intercorrono tra questi sistemi giuridici, occorre anzitutto dire che tra essi esi-stono importanti punti di contatto. per quanto riguarda i rap-

Questo capitolo è stato scritto da Giacomo Biagioni

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porti col diritto internazionale, si deve considerare, da un lato, che il diritto dell’Unione europea deve ad esso la sua origine, in quanto affonda le radici in trattati conclusi tra gli stati membri, e, dall’altro, non si può non tener conto della capacità dell’U-nione di intrattenere relazioni con stati non membri o con al-tre organizzazioni internazionali. Sotto altro profilo, il diritto dell’Unione europea, per dispiegare pienamente i suoi effetti, ha necessità di operare anche in stretta integrazione col dirit-to nazionale dei singoli stati membri: infatti, le norme euro-pee debbono, laddove non contengano una disciplina completa, combinarsi con le norme interne, anche per il fatto che esse sono per lo più chiamate ad applicarsi dinanzi ai giudici nazio-nali degli stati membri.

nonostante ciò, il diritto dell’Unione europea presenta una sua specifica identità in ragione di alcuni chiari elementi distintivi.

1) Gli organi dotati del potere normativo sono naturalmen-te costituiti dalle istituzioni dell’Unione europea, dal momento che la Commissione europea detiene un sostanziale monopolio dell’iniziativa legislativa mentre il Consiglio dell’Unione euro-pea e il parlamento europeo condividono, almeno nell’ambito della procedura ordinaria, il potere di adozione degli atti norma-tivi. Tale quadro istituzionale non è direttamente assimilabile ai modelli nazionali, poiché sia la composizione delle istituzioni sia le reciproche relazioni tra queste ultime differiscono in maniera rilevante rispetto agli schemi tradizionali della forma democra-tica di governo.

2) anche quanto ai destinatari delle sue norme l’ordinamento dell’Unione europea presenta caratteristiche eclettiche rispetto agli ordinamenti nazionali e all’ordinamento internazionale: in-fatti, tra i destinatari rientrano non solo gli stati membri e le stesse istituzioni europee ma anche i singoli individui.

3) infine, la tipologia di fonti del diritto che caratterizza l’or-dinamento dell’Unione europea non è immediatamente ricondu-cibile, sia quanto alla natura sia quanto agli effetti, né al diritto internazionale né al diritto interno di origine statale.

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2 – Le caratteristiche generali del diritto dell’Unione europea

all’interno dell’Unione europea il ruolo delle norme giuridiche è peraltro particolarmente rilevante, poiché costituisce un principio fondamentale quello secondo cui l’Unione è una «Comunità di di-ritto», nel senso che sia gli stati sia le istituzioni europee sono sem-pre tenuti a rispettare le norme dei Trattati e del diritto derivato.

prima di esaminare nel dettaglio le fonti del diritto dell’Unio-ne europea, occorre delineare alcune caratteristiche generali di tale diritto, che sono naturalmente la conseguenza della struttura dell’organizzazione nel suo complesso.

il carattere sopranazionale del diritto dell’Unione europea, che è dunque destinato ad applicarsi nel territorio dei vari stati mem-bri, rende anzitutto indispensabile la sua interpretazione uniforme. infatti, laddove ogni singolo Stato membro potesse interpretare in maniera diversa il diritto dell’Unione, magari adeguandolo alle pe-culiarità del suo sistema giuridico nazionale, l’applicazione effetti-va di tale diritto ne verrebbe pregiudicata. pertanto, viene imposta ai giudici dei singoli stati membri un obbligo di interpretazione uniforme del diritto dell’Unione al fine di evitare la frammentazio-ne di quest’ultimo all’interno degli ordinamenti nazionali.

per garantire che tale obiettivo possa realizzarsi, il Trattato sull’Unione europea attribuisce un ruolo centrale alla Corte di giu-stizia, la quale “assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati” (art. 19 Tue). in particolare, oltre a controllare la legittimità degli atti delle istituzioni dell’Unione e ad accertare l’inadempimento degli stati membri al diritto dell’U-nione, essa può utilizzare un importante strumento di cooperazio-ne con i giudici nazionali, costituito dal rinvio pregiudiziale.

attraverso tale strumento ogni giudice nazionale che nutra dub-bi rispetto all’interpretazione di una norma del diritto dell’Unione europea oppure alla sua validità può sottoporre tale questione alla Corte di giustizia. il ricorso al rinvio pregiudiziale è normalmente facoltativo, ma diviene obbligatorio quando il giudice nazionale adotta una decisione in ultima istanza, non più soggetta a impugna-zione, oppure quando ritiene che la norma dell’Unione sia invalida.

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in questa maniera le questioni pregiudiziali vengono sollevate nell’ambito dei giudizi nazionali e sono destinate a consentire ai giudici degli stati membri di pervenire a soluzioni univoche lad-dove siano chiamati a dare applicazione alle norme dell’Unione. Tuttavia, questo costituisce anche il principale limite del rinvio pregiudiziale, dal momento che la ricostruzione del diritto dell’U-nione europea e l’interpretazione delle sue norme avviene tenen-do conto delle sollecitazioni derivanti dai singoli casi sottoposti ai giudici nazionali, e ciò rende più difficile elaborare principi e regole di carattere generale e sistematico.

Un’altra caratteristica del diritto dell’Unione europea riguarda i suoi rapporti col diritto nazionale. infatti, già nei primi anni di vita della Comunità economica europea si pose il problema della soluzione di eventuali contrasti tra norme comunitarie e norme nazionali: in un caso molto celebre, sollevato dal Giudice Con-ciliatore di Milano, Flaminio Costa c. enel (1964), si poneva il problema della compatibilità della legge italiana che aveva na-zionalizzato la produzione e distribuzione di energia elettrica col Trattato istitutivo Cee. Secondo il Governo italiano e secondo la Corte costituzionale italiana, essendo la legge successiva al Trat-tato, essa avrebbe dovuto prevalere; al contrario, la Corte di giu-stizia affermò il principio del primato del diritto comunitario (ed oggi del diritto dell’Unione europea) sul diritto nazionale.

Quindi, in caso di contrasto tra una norma dell’Unione europea e una norma nazionale deve essere data prevalenza alla prima, in quanto la “…integrazione nel diritto di ciascuno Stato membro di norme che promanano da fonti comunitarie, e più in generale, lo spirito e i termini del Trattato, hanno per corollario l’impossibi-lita per gli stati di far prevalere, contro un ordinamento giuridico da essi accettato a condizione di reciprocità, un provvedimento unilaterale ulteriore, il quale pertanto non potrà essere opponibile all’ ordine comune”.

La particolare rilevanza del principio del primato si evince an-che dalla circostanza che il giudice interno, di qualunque grado, può direttamente disapplicare una norma nazionale contrastante con una norma comunitaria. pertanto, il controllo sulla compati-

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bilità tra norme nazionali e norme dell’Unione europea è di tipo diffuso e il giudice di grado inferiore non è tenuto, a tal fine, ad attendere una pronuncia di organi giurisdizionali supremi, come le Corti costituzionali. in tal senso la Corte di giustizia si pronunciò nel celebre caso Simmenthal (1977), rispondendo a una questione pregiudiziale sollevata dal pretore di Susa, ove fu esplicitamente affermato che “il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario, ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedi-mento costituzionale”.

3 – Il diritto dell’Unione europea e la posizione degli individui.

Come già sottolineato, una delle peculiarità principali del di-ritto dell’Unione europea è il fatto che esso si rivolge anche di-rettamente agli individui (persone fisiche e persone giuridiche), oltre che agli stati membri. ne consegue che le norme giuridi-che dell’Unione europea possono creare diritti soggettivi anche a favore degli individui e possono imporre veri e propri obblighi anche a carico degli individui.

La differenza con il diritto internazionale – che riguarda in linea di principio i soli rapporti tra gli stati – e la novità del diritto comu-nitario è stata da tempo rimarcata dalla Corte di giustizia. infatti, in una delle prime decisioni relative al Trattato Cee, nel caso Van Gend en Loos (1963), fu affermato che “la Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro poteri sovrani, ordinamento che rico-nosce come soggetti, non soltanto gli stati membri ma anche i loro cittadini. pertanto il diritto comunitario, indipendentemente dalle norme emananti dagli stati membri, nello stesso modo in cui impo-ne ai singoli degli obblighi, attribuisce loro dei diritti soggettivi”.

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a partire da tale decisione è stato affermato che molte norme di diritto dell’Unione europea godono della c.d. efficacia diretta, nel senso che i singoli individui possono invocare direttamente tali norme nel corso di un giudizio davanti ai giudici nazionali. Ciò è possibile ogni qual volta la norma europea presenti certi requisiti, ed in particolare sia: 1) chiara e precisa nel suo contenuto e 2) abbia carattere incondizionato, in quanto non è necessario istituire nuovi organi o nuove procedure per ottenere l’applicazione della norma.

peraltro, l’efficacia diretta è disciplinata diversamente in rela-zione a due categorie di rapporti, e precisamente i rapporti verticali e orizzontali. Si definiscono verticali i rapporti giuridici che inter-corrono tra un privato e lo Stato o altro ente pubblico (ad esempio, tra un pubblico dipendente e l’ente datore di lavoro); si definiscono orizzontali i rapporti giuridici che intercorrono tra due privati (ad esempio, un rapporto contrattuale tra due società commerciali).

nelle controversie riguardanti rapporti verticali le norme di diritto dell’Unione europea – purché presentino i requisiti sopra descritti – possono sempre essere invocate dagli individui contro lo Stato o altro ente pubblico, soprattutto per la ragione che lo Stato è il soggetto tenuto in via principale all’attuazione di tali norme. al contrario, quando la controversia riguarda rapporti di tipo orizzontale e quindi contrappone soggetti privati, l’efficacia diretta delle norme europee è soggetta a limiti più restrittivi.peral-tro, anche quando le norme dell’Unione europea non siano dotate di efficacia diretta, il sistema giuridico europeo prevede ulteriori meccanismi per consentire l’effettiva applicazione di tali norme.

Un primo strumento è costituito dalla c.d. procedura di infra-zione, che può essere avviata dinanzi alla Corte di giustizia dalla Commissione europea (o da un altro Stato membro) quando si sia verificata una violazione del diritto dell’Unione europea da parte di uno Stato membro. La procedura si conclude con una sentenza della Corte di giustizia che può accertare l’inadempimento dello Stato; qualora a tale inadempimento non sia posto rimedio entro un termine ragionevole, la Commissione può chiedere alla Corte di giustizia di condannare lo Stato inadempiente al pagamento di una sanzione pecuniaria.

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peraltro, tale strumento non garantisce una tutela diretta agli individui, i quali beneficiano solo indirettamente del fatto che lo Stato ponga rimedio alla violazione della norma europea. Tut-tavia, a determinate condizioni i singoli individui, che abbiano subito un pregiudizio dalla mancata attuazione del diritto dell’U-nione europea da parte di uno Stato membro, possono agire nei confronti di quest’ultimo per ottenere il risarcimento del danno.

nonostante che tale possibilità non fosse espressamente pre-vista dai Trattati istitutivi, con la sentenza Francovich (1991) la Corte di giustizia, risolvendo questioni pregiudiziali sollevate da alcuni pretori italiani, ritenne che la previsione di un simile ri-medio fosse necessaria per garantire l’effettiva applicazione del diritto comunitario. Tale rimedio, subordinato comunque all’esi-stenza di precise condizioni, è stato utilizzato soprattutto in caso di mancata attuazione delle direttive comunitarie da parte degli stati membri.

4 – La gerarchia delle fonti del diritto dell’Unione europea

Come accade in ogni sistema giuridico, anche il diritto dell’U-nione europea si fonda su varie fonti, tra le quali esiste una pre-cisa gerarchia.

al vertice di tale gerarchia si colloca il diritto primario, costitu-ito dal sistema dei Trattati istitutivi, oggi formato principalmente dal Trattato sull’Unione europea, dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’U-nione europea. Su un gradino appena inferiore si collocano le c.d. fonti intermedie, costituite dai principi generali del diritto e dagli accordi internazionali conclusi dall’Unione europea con altre or-ganizzazioni internazionali o con stati terzi. infine, il sistema delle fonti europee è completato dal diritto derivato, che comprende tutti gli atti – vincolanti (regolamenti, direttive, decisioni) e non vinco-lanti (raccomandazioni e pareri) – adottati dalle istituzioni europee.

Di seguito, si analizzeranno brevemente le caratteristiche prin-cipali delle fonti di diritto primario e di diritto derivato.

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5 – Il sistema dei Trattati

il sistema dei Trattati, o diritto primario, è costituito dall’in-sieme degli accordi internazionali istitutivi dell’organizzazione; nel tempo, tuttavia, tali accordi hanno subito significative modi-fiche in corrispondenza con l’evoluzione della struttura dell’or-ganizzazione stessa.

nel quadro successivo all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona tale sistema comprende: 1) il Trattato sull’Unione eu-ropea, che contiene norme-quadro sull’organizzazione e sulle istituzioni che la compongono; 2) il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, che comprende norme di dettaglio sulle politiche dell’Unione europea e sul funzionamento delle istitu-zioni; 3) la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; 4) numerosi protocolli ed allegati.

più in particolare, il Trattato sull’Unione europea indica: a) gli obiettivi generali dell’Unione europea; b) i principi generali da seguire nell’attuazione di tali obiettivi (la tutela dei diritti umani fondamentali, il principio di democrazia, il principio di non discriminazione, ecc.); c) le caratteristiche generali delle istituzioni dell’Unione europea; d) la disciplina della politica estera e di sicurezza comune. a sua volta, il Trattato sul funzio-namento dell’Unione europea disciplina: a) le singole politiche e competenze dell’Unione europea (mercato interno con le col-legate libertà di circolazione, concorrenza, politica sociale, po-litica ambientale, ecc.); b) il funzionamento delle singole istitu-zioni e le procedure di adozione del diritto derivato; c) le regole sulla formazione e sull’approvazione del bilancio dell’Unione europea; d) le regole sull’azione dell’Unione europea nelle re-lazioni internazionali con stati terzi o con altre organizzazioni internazionali.

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, redatta da uno specifico organo, che riuniva rappresentanti dei governi e dei parlamenti nazionali nonché della Commissione europea e del parlamento europeo, fu inizialmente proclamata a nizza nel 2000 come testo non vincolante ed avrebbe poi dovuto entrare a far

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parte della cosiddetta Costituzione per l’europa. Con il Trattato di Lisbona essa è stata sostanzialmente incorporata nel sistema dei Trattati.

La Carta costituisce, secondo il modello delle Carte costituzio-nali nazionali e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, un catalogo di diritti fondamentali degli individui (anche se non cittadini europei), che devono essere rispettati dagli stati membri e dalla stessa Unione europea nel campo di applicazione del di-ritto dell’Unione. Tali diritti fondamentali, in gran parte analoghi a quelli già previsti dalle costituzioni nazionali e da altre con-venzioni internazionali, sono distinti per macrosettori, dedicati, rispettivamente, alla dignità, alla libertà, all’eguaglianza, alla so-lidarietà, alla cittadinanza e alla giustizia.

il sistema dei Trattati ha una duplice natura: infatti, sul piano strettamente formale esso costituisce un accordo internazionale tra gli stati membri, come dimostra la presenza di alcuni mecca-nismi tipici di tale tipologia di fonte (ad esempio, le regole che attribuiscono una posizione differenziata ad alcuni stati, come la Danimarca nel campo della libera circolazione delle persone, o le norme sulla revisione dei Trattati).

Tuttavia, nella sostanza al diritto primario è riconosciuto un valore costituzionale per l’ordinamento dell’Unione europea, poiché esso racchiude le norme principali del sistema – che ne as-sicurano il funzionamento – e non può essere derogato dalle fonti di rango inferiore. pertanto, mentre i singoli testi che compongo-no i Trattati hanno un analogo valore giuridico, essi si trovano in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto alle altre fonti del diritto dell’Unione europea. D’altra parte, il valore costitu-zionale delle norme del diritto primario è dimostrato anche dalla circostanza che molte di esse sono dotate dell’efficacia diretta: pertanto, esse sono idonee a creare direttamente diritti e obblighi in capo ai singoli individui e concorrono così a modellare lo sta-tus dei cittadini europei.

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6 – Il diritto derivato

Come si è detto, il diritto derivato è costituito dall’insieme de-gli atti che sono adottati dalle istituzioni europee in attuazione delle disposizioni dei Trattati: in realtà, non tutti questi atti hanno un valore legislativo e contengono norme generali e astratte, ma alcuni di essi sono piuttosto assimilabili ad atti amministrativi. in ogni caso, tali atti sono gerarchicamente subordinati al diritto primario e alle fonti intermedie e dunque, per essere validi, non debbono porsi in contrasto con tali fonti sovraordinate.

L’adozione di tali atti deve peraltro avvenire secondo tre prin-cipi, stabiliti dall’art. 5 del Trattato sull’Unione europea. Secondo il principio delle competenze di attribuzione l’Unione può agi-re e adottare atti normativi esclusivamente nei limiti delle com-petenze che le sono attribuite dai Trattati; secondo il principio di sussidiarietà essa, quando condivide con gli stati membri la competenza in un determinato settore, può intervenire soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli stati membri, ma possono essere conseguiti meglio a livello di Unione; secondo il principio di proporzionalità l’azione dell’Unione si limita a quanto neces-sario per il conseguimento degli obiettivi dei Trattati.

Limitando l’esame agli atti di diritto derivato che posseggono natura vincolante, vanno anzitutto ricordati i regolamenti, i quali hanno carattere generale, in quanto si rivolgono a tutti i soggetti dell’ordinamento dell’Unione europea (stati membri e istituzioni europee ma anche privati); sono integralmente obbligatori in tutti i loro elementi; sono anche direttamente applicabili, in quanto, per la loro applicazione, non sono necessarie misure di attuazione da parte degli stati membri (che sono anzi in linea di principio vietate).

Hanno caratteristiche molto diverse le direttive, le quali non hanno carattere generale (normalmente si rivolgono solo agli sta-ti) e presentano natura vincolante soltanto nel fine da perseguire, ma lasciano liberi gli stati membri di scegliere le forme e i mezzi che essi ritengono più adeguati. pertanto, le direttive non pos-sono essere immediatamente applicate ma necessitano di misu-

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re di attuazione e recepimento da parte degli stati membri entro un termine previsto dalle direttive stesse. peraltro, è sempre più comune il fenomeno delle direttive c.d. dettagliate, che lasciano pochissimo spazio alla libertà di scelta delle forme e dei mezzi di attuazione da parte degli stati.

Qualora uno Stato membro non dia attuazione a una direttiva entro il termine, tale omissione costituisce una violazione del dirit-to dell’Unione europea e può dar luogo a una procedura di infra-zione o, se ne sussistono le condizioni, anche a un’azione di risar-cimento del danno da parte dei singoli individui che abbiano subito un pregiudizio a causa della mancata attuazione. inoltre, qualora le norme della direttiva siano chiare, precise e incondizionate, esse saranno dotate di efficacia diretta nei soli rapporti verticali, cioè nelle controversie tra i privati e lo Stato o altro ente pubblico.

Da ultimo, vanno ricordate le decisioni, che hanno perlopiù carattere individuale (sono dirette, cioè, a singoli stati o individui) e natura non legislativa, ma sono obbligatorie in tutti gli elementi per i loro destinatari.

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Capitolo 13il diritto coMMerciale coMunitario

1 – Il mercato interno

Fin dalla nascita della Comunità economica europea nel 1957 uno degli obiettivi principali dell’integrazione degli stati membri era costituito dalla creazione di uno spazio senza frontiere inter-ne, che consentisse la libera circolazione dei c.d. fattori produttivi (merci, lavoratori, servizi e capitali), all’epoca definito Mercato comune europeo. al concetto di mercato comune si è aggiunto nel 1986, con l’atto unico europeo, quello di mercato interno, che ha da ultimo sostituito la definizione precedente nel testo dei Trattati.

Gli elementi principali del mercato interno consistono nella creazione di un’unione doganale; nella libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali; nell’istituzione di una politica di concorrenza, anche se naturalmente molte altre politiche ed azioni di competenza dell’Unione europea contribui-scono ad una realizzazione del mercato interno.

nei paragrafi che seguono saranno esaminati i sopra menzio-nati elementi costitutivi del mercato interno, con la sola eccezio-ne della libera circolazione delle persone. infatti, essa ha ormai assunto, specialmente dopo i Trattati di amsterdam e di Lisbona, una dimensione più ampia, poiché non è più limitata ad assicurare una mobilità di carattere puramente economico, incentrata sulla

Questo capitolo è stato scritto da Giacomo Biagioni

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posizione del lavoratore, ma si ricollega alla posizione di cittadi-no europeo in quanto tale e coinvolge in parte anche cittadini di stati non membri dell’Unione europea.

2 – L’unione doganale e la libera circolazione delle merci

Fin dalla creazione della Comunità economica europea il pro-getto di integrazione si è fondato sull’istituzione di una unione doganale. il concetto di unione doganale – che preesiste stori-camente al Trattato Cee, come dimostra, nel XiX secolo, la nota esperienza dello Zollverein prima dell’unificazione tedesca – im-plica l’eliminazione delle barriere interne allo scambio delle mer-ci tra i vari stati membri e l’unificazione dei dazi doganali per gli scambi di merci con stati non membri.

in pratica, l’Unione europea costituisce ormai un territorio doganale unico, i cui confini coincidono coi confini esterni del territorio dell’Unione; esso si pone verso l’esterno (cioè verso gli stati non membri dell’Unione) in maniera unitaria, poiché tutti gli stati membri applicano le stesse regole doganali, contenute nel c.d. Codice doganale comunitario, e impongono alle merci pro-venienti dagli stati non membri gli stessi dazi doganali, stabiliti nella Tariffa doganale comune.

a tale unificazione doganale sul piano esterno fa riscontro, a livello interno e nei rapporti tra gli stati membri dell’Unione eu-ropea, l’abolizione degli ostacoli e delle barriere allo scambio di merci, di cui viene quindi garantita la libera circolazione. Tale li-bera circolazione riguarda sia le merci prodotte negli stati membri sia le merci importate dall’esterno, che, una volta entrate nel mer-cato interno dell’Unione, si definiscono in libera pratica e possono circolare al pari delle merci prodotte all’interno dell’Unione.

L’eliminazione delle barriere interne riguarda le barriere di ca-rattere tariffario e non tariffario. L’abolizione delle barriere tarif-farie all’interno dell’Unione europea porta con sé, in primo luo-go, un divieto di dazi doganali e tasse di effetto equivalente. i dazi doganali sono tasse riscosse sui prodotti importati in occasione (e a causa) della loro importazione, in proporzione al loro valore

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ovvero, più raramente, alla loro quantità; pertanto, l’abolizione dei dazi doganali sulle merci scambiate tra tali stati favorisce la libera circolazione (riducendo il costo di tali merci).

Ma soprattutto in anni meno recenti la Corte di giustizia ha dovuto occuparsi di tasse, che, pur non essendo formalmente de-nominate “dazi doganali”, producevano analoghi effetti restrittivi sulla circolazione delle merci. in particolare, sono state conside-rate ugualmente vietate tutte quelle misure che imponevano su un prodotto importato da un altro Stato membro oneri pecuniari determinati unilateralmente dallo Stato, a meno che essi non co-stituiscano corrispettivo di un servizio richiesto dall’importatore. È evidente, infatti, che tali oneri, aumentando i costi di importa-zione dei prodotti provenienti da altri stati membri, ne scoragge-rebbero la circolazione e dunque ben si giustifica il loro divieto. nella sentenza 25 gennaio 1977, Bauhuis, ad esempio, la Corte ha ritenuto contrari al divieto i contributi richiesti da uno Stato mem-bro per i controlli sanitari obbligatori sugli animali vivi importa-ti; nella sentenza 9 settembre 2004, Carbonati apuani, la stessa conclusione è stata raggiunta rispetto a una tassa sul trasporto dei marmi al di fuori del territorio comunale di estrazione.

Ulteriori ostacoli di carattere tariffario alla circolazione delle merci potevano peraltro derivare anche dai meccanismi di fissa-zione di imposte interne, che colpiscono anche i prodotti impor-tati una volta che questi siano entrati nel territorio dello Stato. per questo motivo il Trattato sul funzionamento dell’Unione eu-ropea stabilisce un divieto di imposizioni interne discriminatorie e protezionistiche. La prima ipotesi si realizza allorché ai prodotti provenienti da altri stati membri siano applicabili imposte interne superiori rispetto ai prodotti simili di origine nazionale: ad esem-pio, nella sentenza 10 ottobre 1978, Hansen, la Corte di giustizia ha ritenuto che le agevolazioni fiscali previste dalla legislazione tedesca per gli alcool a base di frutta di produzione nazionale do-vessero essere estese anche agli stessi prodotti provenienti da altri stati membri. La seconda si verifica quando le imposte interne ap-plicate ai prodotti provenienti da altri stati membri siano dirette a proteggere la produzione nazionale in concorrenza con essi: così,

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nella sentenza 27 febbraio 1980, Commissione c. regno unito, la Corte di giustizia ha ritenuto protezionistica la tassazione del vino da parte del regno unito, in quanto la tassazione della birra era inferiore di una percentuale che poteva arrivare sino al 77%.

infine, la libera circolazione delle merci è garantita dal diritto dell’Unione europea attraverso il divieto di restrizioni quantita-tive e misure ad effetto equivalente. La restrizione quantitativa è costituita dal divieto di importazione di prodotti provenienti da altri stati membri (o di esportazione di prodotti verso altri sta-ti membri), oppure la fissazione di un quantitativo massimo per l’importazione (o l’esportazione) di determinati prodotti.

al contrario, la nozione di misura ad effetto equivalente è più ampia perché comprende, secondo la Corte di giustizia (fin dalla sentenza 11 luglio 1974, Dassonville), tutte le misure che deter-minino un ostacolo, anche potenziale, agli scambi tra le merci; inizialmente, si riteneva che vi fossero comprese solo le misure applicabili ai soli prodotti importati. Successivamente, la Corte di giustizia ha ritenuto suscettibili di essere considerate misure ad effetto equivalente a restrizioni quantitative anche misure appli-cabili sia ai prodotti importati che ai prodotti nazionali. La prima affermazione in tal senso si è avuta nell’importantissima sentenza 20 febbraio 1979, Cassis de Dijon: il caso riguardava il divieto di vendita in Germania di un liquore francese, che non rispettava le specifiche sul tasso alcoolico minimo previste dalla legislazione tedesca. La Corte ritenne tale divieto di vendita non compatibile col Trattato Cee, poiché lo Stato tedesco pretendeva di applicare la sua normativa tecnica a un prodotto importato da altro Stato membro. a partire da tale sentenza è stato sviluppato il principio del mutuo riconoscimento delle legislazioni nazionali tra gli sta-ti membri, nel senso che uno Stato membro non può ostacolare l’importazione di un prodotto conforme alla normativa tecnica applicabile nello Stato di origine, salvo che in casi ecceziona-li in cui ciò sia imposto da esigenze imperative (come la tutela dei consumatori) e nei limiti in cui l’ostacolo così imposto non vada oltre quanto necessario per lo scopo perseguito (principio di proporzionalità). Tale regola generale trova ormai applicazione

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generale in materia di libera circolazione delle merci, sicché le normative interne degli stati membri sono soggette a un controllo molto rigoroso al fine di determinare se esse possano costituire un ostacolo agli scambi commerciali tra gli stati membri.

peraltro, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea prevede talune deroghe al divieto di restrizioni quantitative o mi-sure ad effetto equivalente (ad esempio, per motivi di moralità pubblica, ordine pubblico, tutela della salute, ecc.), ma esse ven-gono normalmente interpretate in senso restrittivo e non possono fondarsi su ragioni di carattere puramente economico.

3 – La libera prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento

accanto alla libera circolazione delle merci il Trattato sul fun-zionamento dell’Unione europea prevede un’analoga libertà ri-spetto ai servizi, intesi come qualunque attività economica di ca-rattere autonomo (cioè non riconducibile al lavoro subordinato). in pratica, viene consentito ai prestatori di servizi (ad esempio, un’impresa di costruzioni o un avvocato) di svolgere la loro atti-vità anche in uno Stato membro diverso dal loro Stato membro di origine e, allo stesso tempo, ai destinatari dei servizi (ad esempio, chi richieda cure mediche) di fruirne anche in uno Stato membro diverso dal loro Stato di origine.

ai prestatori di servizi il diritto dell’Unione europea offre tre distinte libertà:

- la libertà di stabilimento, che consente ad un prestatore di trasferirsi in uno Stato membro diverso dal suo Stato di origine per svolgervi stabilmente la sua attività economica; il godimento della libertà di stabilimento si verifica quando il soggetto decide di svolgere in maniera continuativa la sua attività in altro Stato membro, ad esempio istituendovi una sede e prestandovi l’attività in maniera quantitativamente significativa;

- la libertà di stabilimento secondario, che consente ad un pre-statore già stabilito in uno Stato membro di istituire un centro di attività in un altro Stato membro, senza rinunciare a svolgere la sua attività nel primo Stato; ciò è quanto avviene in particolare

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nel caso di società che hanno sede in uno Stato membro e creano una succursale, una filiale, ecc. in altro Stato membro;

- la libera prestazione dei servizi, che consente ad un prestatore stabilito in uno Stato membro di svolgere temporaneamente e in maniera saltuaria la sua attività anche in altro Stato membro.

La principale differenza tra le varie libertà consiste nel mag-gior potere di controllo che lo Stato membro ospitante conserva, rispetto al prestatore di servizi, in caso di libertà di stabilimento. in tutti e tre i casi, peraltro, il Trattato sul funzionamento dell’U-nione europea impone allo Stato membro ospitante di garantire ai prestatori di servizi provenienti da altri stati membri l’accesso al mercato e un trattamento non identico a quello riservato ai presta-tori nazionali. inoltre, la Corte di giustizia ha espressamente af-fermato che lo Stato membro ospitante può imporre ai prestatori di servizi di altri stati membri di rispettare regole di carattere non discriminatorio solo se esse sono giustificate da motivi imperiosi di interesse pubblico, sono idonee a conseguire lo scopo perse-guito e non vanno oltre quanto necessario a tal fine.

Le norme del Trattato hanno poi trovato più specifica attua-zione con le direttive adottate nel tempo dalle istituzioni euro-pee: da questo punto di vista ha una particolare importanza la direttiva 2006/123/Ce (c.d. direttiva Bolkenstein), che ha tentato di addivenire a una generale liberalizzazione della prestazione di servizi negli stati membri dell’Unione europea. altre direttive settoriali, che hanno avuto significative ricadute negli ordina-menti nazionali, riguardano il riconoscimento dei diplomi e delle qualifiche professionali oppure contengono regole in materia di costituzione e funzionamento delle società; in materia di servizi bancari, finanziari e assicurativi; in materia di appalti pubblici di lavori, servizi e forniture.

4 – La libera circolazione dei capitali

L’ulteriore libertà di circolazione prevista dal Trattato sul fun-zionamento dell’Unione europea riguarda i capitali e i pagamen-ti. Da un lato, dunque, è consentito di trasferire somme di denaro

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in altri stati membri a titolo di mera collocazione o investimento delle stesse (movimenti di capitali); dall’altro, è pure ammessa la possibilità che il trasferimento di somme di denaro costituisca la controprestazione all’interno di un rapporto giuridico (pagamenti).

Tale libertà di circolazione ha conosciuto una significativa evoluzione in tempi recenti, a seguito della direttiva 88/361/Cee prima e del Trattato di Maastricht poi. Da quel momento la li-bertà di circolazione dei capitali comporta un divieto assoluto di restrizioni ai pagamenti e ai movimenti di capitali, quando essi siano compiuti in uno Stato membro diverso da quello di residen-za (ad esempio, l’acquisto di un immobile in altro Stato membro o l’acquisto di quote di capitale di società straniere, ma anche l’applicazione di aliquote ridotte ai soli soggetti residenti o per investimenti effettuati nello Stato membro di residenza).

più di recente, la Corte di giustizia, analogamente a quanto affermato in materia di prestazione dei servizi, ha ritenuto che un ostacolo alla libera circolazione dei capitali possa derivare anche da norme non discriminatorie, quando esse non siano giustificate da ragioni di pubblico interesse ovvero siano inidonee a conse-guire lo scopo perseguito o vadano oltre quanto necessario a tal fine. il principale esempio è costituito dalle norme che istitui-scono le c.d. golden shares (ossia diritti privilegiati di voto e di controllo) in favore dello Stato o delle autorità pubbliche nelle società privatizzate.

5 – La politica di concorrenza: il divieto di intese anticoncorren-ziali e di abuso di posizione dominante

Un contributo decisivo alla realizzazione e al funzionamento del mercato interno dell’Unione europea è peraltro fornito dalla politica di concorrenza, disciplinata dal Trattato sul funzionamen-to dell’Unione europea e in parte dal diritto derivato. Tale politi-ca mira a garantire, con strumenti diversi, che non si verifichino distorsioni o pregiudizi alla concorrenza tra imprese, favorendo così il corretto funzionamento del sistema economico all’interno dell’Unione, anche nell’interesse dei consumatori.

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per comprendere l’esatta portata delle norme sulla politica di concorrenza, occorre fin d’ora precisare che nel diritto dell’Unione europea la nozione stessa di impresa è molto più ampia rispetto agli ordinamenti nazionali, poiché comprende qualunque attività econo-mica diretta a fornire beni o servizi sul mercato, anche se svolta da liberi professionisti, enti pubblici o enti senza fine di lucro.

per consentire il libero svolgimento della concorrenza tra le imprese, il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea pre-vede anzitutto un divieto di intese restrittive della concorrenza: sono dunque proibiti gli accordi tra imprese, (ma anche le pra-tiche concordate, ovvero le decisioni delle associazioni di cate-goria delle imprese) che si propongano l’obiettivo o producano comunque l’effetto di falsare la concorrenza nel mercato interno e di pregiudicare il commercio tra gli stati membri. Ciò può ac-cadere, ad esempio, quando produttori in concorrenza tra loro fissano i prezzi di vendita o si dividono le quote di mercato; ma anche quando vengono conclusi accordi di distribuzione esclu-siva di un medesimo prodotto, ripartendo le aree di rivendita tra i diversi distributori. normalmente simili intese sono vie-tate soltanto se abbracciano una porzione del mercato interno dell’Unione che comprenda il territorio di più stati membri; ma anche le intese che riguardino il territorio di un solo Stato pos-sono essere vietate, se creano una barriera nazionale rispetto a produttori di altri stati membri. in ogni caso, il pregiudizio alla concorrenza e al commercio deve essere di entità significativa, poiché, in caso contrario, si applica la regola de minimis, nel senso che le intese che hanno un impatto molto limitato sul mer-cato non sono considerate vietate.

Le intese restrittive della concorrenza, se concluse, sono da considerarsi nulle di pieno diritto e dunque non producono alcun effetto tra le parti; inoltre, la Commissione europea può adottare decisioni inibitorie, per far cessare gli effetti di un’intesa vietata, e comminare ammende o penalità di mora alle imprese che abbiano concluso tali intese. a talune condizioni, tuttavia, le intese vietate possono essere esentate, sulla base di una decisione individuale della Commissione, dal divieto sopra descritto; sono stati anche

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adottati regolamenti di esenzione per talune categorie di intese, che sono considerate non pregiudizievoli per il mercato interno.

il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea vieta poi, da parte delle imprese, il c.d. abuso di posizione dominante. per-tanto, qualora una singola impresa ovvero più imprese colletti-vamente abbiano una posizione di predominio su un determinato mercato, esse non possono sfruttare tale posizione in modo da fal-sare o restringere il gioco della concorrenza (mentre non è vietata in sé l’acquisizione di una posizione dominante, anche se il diritto dell’Unione europea prevede forme di controllo, ad esempio, sul-la formazione di concentrazioni tra imprese).

Un’impresa (o un gruppo di imprese) può considerarsi in po-sizione dominante sulla base della quota dalla stessa detenuta sul mercato di riferimento: tale mercato di riferimento va determi-nato tenendo conto sia della dimensione territoriale dello stesso (che deve comprendere una parte sostanziale del mercato interno, ma potrebbe corrispondere anche al territorio di un singolo Stato membro) sia della tipologia di prodotti o servizi presenti su tale mercato (che comprendono tutti i prodotti identici tra loro o alme-no sostituibili dal punto di vista dei consumatori). rispetto al mer-cato di riferimento un’impresa detiene una posizione dominante se essa, secondo la definizione fornita dalla Corte di giustizia, è in grado di ostacolare il libero svolgimento della concorrenza in quanto può tenere comportamenti indipendenti rispetto ai concor-renti, ai clienti e ai consumatori; ciò può dipendere sia dalla quota di mercato che spetta alla singola impresa sia dalla struttura del mercato stesso (numero di concorrenti, ecc.).

Una volta che sia stato accertato che un’impresa o un gruppo di imprese riveste una posizione dominante, ad essa è vietato lo sfruttamento abusivo di tale posizione. nella giurisprudenza della Corte di giustizia sono emersi diversi esempi di abuso di posizio-ne dominante e dunque di comportamento vietato da parte delle imprese: l’imposizione di prezzi troppo elevati o, al contrario, dei c.d. prezzi predatori (con cui l’impresa mira ad accaparrarsi un gran numero di quote di mercato), ovvero di prezzi differenziati; il rifiuto di vendita a determinati soggetti; ecc.

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Qualora si verifichi un abuso di posizione dominante, la Com-missione ha il potere di inibire determinati comportamenti, di comminare ammende e di infliggere penalità di mora; al contra-rio di quanto accade per le intese, non possono essere, invece, adottate decisioni di esenzione, che facciano venir meno il divieto rispetto a singole imprese.

il ruolo centrale della Commissione in materia di politica di concorrenza trova oggi un parallelo, all’interno degli ordinamenti degli stati membri, nel ruolo delle autorità garanti della concor-renza; per una più efficace applicazione delle norme in materia di concorrenza è stata istituita una rete di cooperazione tra la Com-missione e tali autorità garanti (european Competition network), nell’ambito della quale la trattazione dei singoli casi è ripartita in relazione alla dimensione comunitaria o puramente nazionali del-le infrazioni anticoncorrenziali.

6 – Il divieto di aiuti di Stato

La disciplina della politica di concorrenza è completata dal divieto di aiuti di Stato, che mira ad evitare che attraverso l’in-tervento statale talune imprese possano essere collocate in una posizione più favorevole rispetto ad altre, così falsando il libero svolgimento della concorrenza.

Secondo il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea la nozione di aiuto di Stato si compone di quattro elementi: 1) l’a-iuto deve essere diretto a talune imprese o produzioni, e non a tutte le imprese indistintamente (selettività dell’aiuto); 2) l’aiuto deve essere concesso da uno Stato membro o da altra autorità pubblica (enti locali, ecc.) o comunque utilizzando risorse statali, anche ove l’ente erogatore sia un soggetto privato; 3) l’aiuto deve fornire un vantaggio economico all’impresa, che può assumere forme molto diverse, dal semplice trasferimento delle risorse alla mancata riscossione di crediti da parte dello Stato (sgravi fiscali, ad esempio) oppure all’acquisto o alla vendita di beni o servizi a condizioni più vantaggiose rispetto al mercato (ad esempio, la concessione di un finanziamento a tassi agevolati, l’acquisto di

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quote del capitale sociale a condizioni diverse da quelle che ri-chiederebbe un investitore privato, ecc.); 4) l’aiuto deve arrecare pregiudizio alla concorrenza e al commercio tra gli stati membri.

in presenza di questi quattro requisiti una misura statale può essere qualificata come aiuto, ma non è solo per questo vietata. infatti, uno Stato membro che intenda concedere un aiuto deve notificare il progetto di aiuto alla Commissione europea, che svolge un procedimento di controllo per valutare se l’aiuto pos-sa considerarsi compatibile col mercato comune. il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea individua le ipotesi in cui l’aiuto può considerarsi compatibile; peraltro, nella prassi della Commissione europea sono stati formulati specifici orientamenti per i vari settori in cui possono essere concessi aiuti, in modo da fornire indicazioni agli stati membri sui criteri di valutazione uti-lizzati dalla Commissione.

Gli aiuti possono essere erogati soltanto una volta che la Com-missione abbia emesso una decisione che ne dichiara la compati-bilità col mercato comune; ove la decisione sia negativa, il proget-to di aiuto dovrà essere modificato tenendo conto delle indicazioni della Commissione. Qualora l’aiuto sia erogato alle imprese be-neficiarie senza attendere la decisione della Commissione o addi-rittura senza procedere alla previa notifica, l’aiuto viene definito illegale. anche in questo caso, peraltro, la Commissione è tenuta a esaminare la compatibilità dell’aiuto col mercato comune: se essa perviene a una decisione negativa, lo Stato membro dovrà recu-perare l’aiuto erogato presso i beneficiari; qualora la decisione sia invece positiva, lo Stato dovrà limitarsi a recuperare gli interessi sull’aiuto erogato per tutto il periodo antecedente alla decisione della Commissione (poiché l’indebito vantaggio consiste, in tale ipotesi, nell’aver percepito anticipatamente l’importo dell’aiuto).

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Capitolo 14

il diritto dell’unione europea dopo l’entrata in Vigore del trattato di lisbona

1 – La natura giuridica dell’ordinamento dell’Unione europea

il processo di integrazione europea è iniziato con la firma di tre Trattati internazionali negli anni Cinquanta: il Trattato Ceca (1951), istitutivo la Comunità europea carbone e acciaio; il Trat-tato Cee (1957), istitutivo la Comunità economica europea; il Trattato Ceea, istitutivo la Comunità europea dell’energia atomi-ca (1957). il più importante di questi fu senza dubbio il secondo, con il quale si è inteso istituire un mercato comune europeo. Fal-lita la prospettiva di perseguire il federalismo europeo in tempi relativamente brevi, la strategia perseguita dalle classi dirigenti di Germania, Francia, italia, olanda, Belgio e Lussemburgo fu quella del funzionalismo economico: si ritenne che la creazione di un mercato comune avrebbe alimentato l’interdipendenza tra i popoli e gli stati, creando le premesse per un’unione politica e costituzionale. La Comunità economica europea è divenuta Co-munità europea con il Trattato di Maastricht (1993). Quest’ultimo Trattato ha altresì istituito l’Unione europea, soggetto di diritto internazionale allora privo di personalità giuridica, nel cui ambito

Questo capitolo è stato scritto da Roberto Cherchi

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gli stati perseguivano la politica estera e di sicurezza comune e la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, ha soppresso il dualismo tra Comunità europea e Unione europea, ha attribuito all’Unione europea le competenze che erano proprie della Comunità, le ha conferito la personalità giuridica e ha sostituito i previgenti Trat-tati Ce e Ue con due nuovi Trattati: il Trattato sull’Unione eu-ropea (Tue) e il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TfUe). nel Tue sono racchiuse tutte le disposizioni considerate più importanti, in confronto a quelle contenute nel secondo Trat-tato. Volendo ricostruire la gerarchia delle fonti di diritto euro-peo, le fonti di più alto grado sono i Trattati, attualmente il Tue e il TfUe. allo stesso livello dei Trattati si collocano i principi generali elaborati dalla Corte di giustizia in base ai Trattati vi-genti, e altresì in base alle tradizioni costituzionali comuni degli stati membri e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Tra questi principi ricordiamo, in particolare, il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo; il principio della certezza del diritto; la tutela del legittimo affidamento; il rispetto dei diritti quesiti; il principio dell’effetto utile; il principio di buona fede; il principio dell’arricchimento senza causa; il principio di equità.

Subordinate ai trattati (e ai principi generali) sono gli atti di diritto derivato dell’Unione: regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri (art. 288 TfUe). Vengono in evidenza, in particolare, i regolamenti e le direttive. i regolamenti sono atti aventi portata generale, obbligatori in tutti i loro elementi e di-rettamente applicabili in ciascuno degli stati membri. il requisito della portata generale implica che i destinatari dei regolamenti debbono essere indeterminati. L’obbligatorietà in tutti gli elemen-ti significa che il regolamento reca un contenuto precettivo com-pleto. Dalla caratteristica della diretta applicabilità deriva che non solo non è necessario (ma è anzi illegittimo) un atto interno che recepisca il regolamento, ma altresì che, in caso di contrasto tra regolamento europeo e norme interne, queste ultime non devono essere applicate. La direttiva vincola gli stati membri per ciò che concerne il risultato da raggiungere, ma li lascia liberi per ciò che

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concerne la scelta delle forme e dei mezzi. Le direttive compor-tano, quindi, una menomazione minore della sovranità degli stati membri rispetto a quella che discende dai regolamenti, in quanto con l’atto di recepimento – in italia di regola un decreto legi-slativo – lo Stato può introdurre discipline interne conformi alla direttiva ma parzialmente differenziate rispetto a quelle introdotte da altri stati. Tra i Trattati (e i principi generali), da una parte, e il diritto derivato, dall’altra, esiste una relazione gerarchica nel sen-so che le fonti di diritto derivato non possono derogare al diritto dei Trattati (e ai principi generali). non esiste, invece, gerarchia tra regolamenti e direttive, per cui un regolamento successivo è idoneo ad abrogare una direttiva antecedente, e viceversa.

il dibattito sulla natura giuridica dell’ordinamento dell’Unione europea è un dibattito di lungo corso. Da un punto di vista giu-ridico formale, è indubbio che l’Unione europea sia un’organiz-zazione internazionale fondata su Trattati stipulati, in condizione di parità, da una pluralità di stati. Come è noto, mentre le fonti di diritto interno (a cominciare dalle Costituzioni) producono effetti sul territorio nazionale nei confronti di tutti i soggetti di dirit-to, di regola le fonti del diritto internazionale (le consuetudini, i Trattati, le fonti di diritto derivato prodotte dalle organizzazioni internazionali) producono effetti esclusivamente nell’ordinamen-to internazionale e i loro obblighi gravano sugli stati. Una norma di diritto internazionale diviene vincolante per tutti i soggetti di diritto sul territorio nazionale solo se il suo contenuto precettivo viene “immesso” nell’ordinamento interno da un atto di diritto interno. i Trattati sono “immessi” nell’ordinamento interno me-diante una legge recante l’ordine di esecuzione, ossia recante la seguente formula: “piena e completa esecuzione è data al Tratta-to…”, cui segue il testo del Trattato. Questa rigida distinzione tra fonti di diritto internazionale e fonti di diritto interno viene meno con riferimento all’ordinamento dell’Unione europea, in quanto i Trattati (e gli atti di diritto derivato), una volta “immessi” nell’or-dinamento interno con una legge recante un ordine di esecuzione, recano norme direttamente applicabili ai soggetti di diritto in-terno. Da ciò discende che la natura dell’ordinamento europeo è

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discussa: come ha avuto modo di affermare Jacques Delors, l’U-nione europea è un Upo, Unidentified Political Object: nessuno sa cosa sia, eppure vola. Taluni autori ne affermano la matrice internazionalistica, valorizzando il dato che sul piano giuridi-co-formale i documenti normativi su cui poggia la casa comune europea sono denominati Trattati, e non Costituzioni, e il dato per cui, in base a tali Trattati, gli stati devono essere considerati come soggetti sovrani, “signori” dei Trattati; altri autori pongono in evidenza elementi da cui si desumerebbe la natura costituzionale dell’ordinamento europeo, in quanto da lungo tempo sarebbe in corso un federalizing process; altri ancora, infine, hanno parlato di tertium genus tra Trattati e Costituzioni, in quanto il Trattato europeo sarebbe da considerarsi un traitè Constitution.

2 – I Trattati europei come fonti di diritto internazionale

i sostenitori della tesi della matrice internazionalistica dei Trattati europei hanno posto in evidenza che tali Trattati sareb-bero stati stipulati da stati sovrani che, in condizioni di parità e reciprocità, avrebbero dato vita a limitazioni di sovranità al fine di perseguire fini condivisi. essi sarebbero, quindi, fonte di ob-blighi internazionali il cui contenuto – come quello di qualsiasi trattato – è divenuto vincolante sul territorio nazionale solo me-diante l’adozione di una legge recante l’ordine di esecuzione. in secondo luogo, non sarebbe possibile parlare di Costituzione in quanto i Trattati non sono stati posti da un potere costituente, as-soluto e limitato nel tempo. in terzo luogo, è stata definitivamente superata la tesi secondo cui il processo di integrazione europea sarebbe un processo federale irreversibile: il Trattato di Lisbo-na ha infatti espressamente regolato il procedimento di recesso, che presuppone che gli stati debbano essere ancora considerati soggetti sovrani nel contesto europeo. in quarto luogo, le proce-dure di revisione dei Trattati, per quanto siano caratterizzate dalla previsione di competenze della Commissione e del parlamento europeo, affidano un ruolo centrale agli stati nel Consiglio e nel Consiglio europeo (art. 48 Tue). in quinto luogo, deve essere po-

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sto in evidenza che i Trattati non hanno determinato l’estinzione delle Costituzioni nazionali, e che quindi la pretesa “Costituzione europea” coesisterebbe con le costituzioni nazionali. inoltre, alla persistente sovranità degli stati corrisponderebbe l’assenza di so-vranità dell’Unione europea, la quale agisce solo nei limiti degli obiettivi e delle misure previste dai Trattati. infine, last but not least, l’ordinamento dell’Unione europea è privo di quei caratte-ri che, secondo la tradizione costituzionalistica, sarebbero propri delle costituzioni a partire da quanto previsto dall’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: la se-parazione dei poteri e la garanzia dei diritti fondamentali. Da una parte mancherebbe, infatti, una chiara separazione di poteri tra un parlamento europeo titolare esclusivo della funzione legislativa, un Governo europeo titolare della funzione esecutiva e un potere giudiziario europeo. al contrario, la funzione legislativa europea è esercitata da una pluralità di istituzioni: l’iniziativa legislativa è propria della Commissione, che è un organo tecnocratico, an-che se collegato al parlamento europeo da elementi di rapporto fiduciario; la deliberazione degli atti legislativi è propria sia del Consiglio - organo collegiale di stati, in cui siedono i ministri competenti per materia - che del parlamento europeo. non esiste un potere esecutivo analogo a quelli ravvisabili negli ordinamenti federali: la funzione esecutiva è assolta solo limitatamente dalla Commissione, mentre è in larga misura affidata alle amministra-zioni nazionali, che hanno il dovere di applicare il diritto dell’U-nione europea. anche la funzione giurisdizionale è affidata alle giurisdizioni nazionali, e le decisioni assunte non sono impugna-bili innanzi a un organo giurisdizionale europeo. i giudici nazio-nali, tuttavia, attraverso l’istituto del rinvio pregiudiziale (art. 267 TfUe), possono chiedere, nel corso del giudizio, lumi alla Corte di giustizia sull’interpretazione dei Trattati o del diritto derivato da applicarsi nel giudizio: quest’ultima Corte, quindi, ha di re-gola l’ultima parola sull’interpretazione del diritto europeo. per ciò che concerne il secondo elemento che contrassegna un ordi-namento come “costituzionale” – il riconoscimento e la garanzia dei diritti fondamentali - occorre evidenziare che non era dato

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rilevare nei Trattati europei, fino all’entrata in vigore del Tratta-to di Lisbona, l’esistenza di un catalogo di diritti fondamentali dell’uomo europeo.

3 – I Trattati come Costituzione

Da alcune caratteristiche dell’ordinamento europeo taluni au-tori hanno desunto la natura costituzionale del processo d’integra-zione europea.

in primo luogo, occorre porre in evidenza che in numerosi pro-cedimenti è prevista l’applicazione della regola della maggioran-za qualificata, laddove, a partire dall’elaborazione di Sieyès, è sempre stato chiaro che la regola decisionale nelle organizzazioni internazionali è quella dell’unanimità.

in secondo luogo, un rilevante contributo alla “costituzionaliz-zazione” dei Trattati è giunto dalle decisioni della Corte europea di giustizia. Secondo la Corte “il trattato Cee, benché sia stato concluso in forma di accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto” (parere 1/91 del 14 di-cembre 1991). non è un caso che tale opinione sia stata formulata proprio da tale istituzione. nella propria giurisprudenza la Corte europea di giustizia a partire dalla metà degli anni sessanta ha “co-stituzionalizzato” i Trattati affermando: a) il principio del primato del diritto europeo sul diritto interno; b) il principio della diretta applicabilità dei regolamenti europei; c) il principio dell’efficacia diretta di alcune norme dei Trattati (o di direttive europee) dirette agli stati; d) la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo europeo, pur in assenza di un catalogo dei diritti nei Trattati.

L’affermazione del primato del diritto europeo sul diritto interno è un primo elemento da cui si può desumere la natura costituzionale dei Trattati. nell’ordinamento italiano, di regola, l’adattamento del diritto interno ad un Trattato avviene median-te l’adozione di una legge recante l’ordine di esecuzione (“piena e completa esecuzione è data al Trattato…”): all’ordine di ese-cuzione segue il testo del Trattato. Con l’adattamento mediante l’ordine di esecuzione, quindi, una fonte di diritto internazionale

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viene “immessa” nell’ordinamento interno, e la sua posizione nel sistema delle fonti è quella che è propria dell’atto recante l’ordine di esecuzione. avendo i Trattati europei avuto esecuzione in italia mediante legge, le norme da essi derivanti dovrebbero avere for-za di legge. Le norme europee dovrebbero quindi prevalere sulle norme primarie interne (come la legge) antecedenti, ma dovreb-bero essere abrogate dalle norme primarie successive. La Corte europea di giustizia ha tuttavia affermato che le norme europee prevalgono, sempre e comunque, sulle norme interne (anche se queste ultime sono successive), perché mediante la ratifica dei Trattati gli stati europei hanno inteso dare vita a un ordinamento di tipo nuovo: se le norme europee non prevalessero sulle norme interne, sarebbe infatti vanificato il fine sin dalle origini perse-guito dagli stati, che è quello della costituzione di un mercato eu-ropeo comune con regole comuni, applicabili in modo uniforme sul territorio di tutti i paesi aderenti (Costa-enel, sentenza del 15 luglio 1964, causa 6/64).

Secondo elemento è la diretta applicabilità dei regolamenti eu-ropei. La Corte di giustizia ha affermato che le norme europee non consentono la valida formazione di norme interne con esse in contrasto e che, pertanto, le norme di diritto europeo direttamente applicabili (in particolare, i regolamenti) devono essere applicate da giudici e pubbliche amministrazioni, mentre le eventuali nor-me interne in contrasto, quale che sia la loro forza formale, devo-no essere disapplicate (sentenza del 9 marzo 1978, causa 106/77, Simmenthal c. amministrazione italiana delle finanze). il prin-cipio affermato è dirompente: secondo la Costituzione italiana, il giudice (e la pubblica amministrazione, in virtù del principio di legalità) è soggetto alla legge (art. 101 Cost.), e se ravvisa una contrarietà tra una norma di legge (o di atto avente forza di leg-ge) e la Costituzione deve sospendere il giudizio e sollevare una questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale; stando alla giurisprudenza della Corte di giustizia, invece, se la norma interna è in contrasto con la norma europea direttamente applicabile (di regola, il regolamento), il giudice deve applicare direttamente la norma europea e disapplicare contestualmente la

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norma interna. La Corte costituzionale ha criticato questo impo-stazione dalla sentenza 232/1975 alla sentenza 170/1984. Con quest’ultima decisione, infine, la Consulta ha sostanzialmente ac-cettato l’impostazione della Corte di giustizia, anche se seguendo un percorso argomentativo differente. Secondo la Corte costitu-zionale, i rapporti tra ordinamento europeo e ordinamento interno sono regolati in base a un riparto di competenza tra Unione e stati rigidamente stabilito e garantito dai Trattati; pertanto, nelle materie di competenza europea, la norma interna “non viene in rilievo” e può essere non applicata. in ultima analisi, quindi, sia la Corte di giustizia che la Corte costituzionale affermano che tra re-golamento europeo e legge interna, il primo prevale e deve essere immediatamente applicato. La Corte di giustizia ha argomentato applicando il principio di gerarchia (le norme europee sono di ran-go superiore, le norme interne in contrasto sono invalide), mentre la Corte costituzionale ha utilizzato il criterio di competenza (le norme interne in conflitto con norme europee direttamente appli-cabili - adottate nei limiti della competenza dell’Unione - sono incompetenti e non devono essere applicate).

Terzo elemento da considerare è l’efficacia diretta delle norme europee. Si è già evidenziato che un elemento da cui si desume la natura costituzionale o quanto meno “ibrida” dei Trattati è che essi recano norme applicabili non solo agli stati, ma a tutti i sog-getti di diritto. Si pensi, in particolare, alle norme di cui agli artt. 101 ss. TfUe, che regolano la concorrenza e gli aiuti di Stato alle imprese. Questa caratteristica genetica di alcune norme europee, riconducibile alla funzione assolta dai Trattati (la costituzione di un mercato comune europeo), è stata ulteriormente accentuata dalla giurisprudenza della Corte di giustizia secondo la quale an-che quando le norme europee – norme dei Trattati o di direttive – sono dirette agli stati (e non, quindi, a individui o enti che si tro-vino sul territorio degli stessi), esse possono essere invocate dai singoli soggetti di diritto come fonte di diritti soggettivi se recano un obbligo per lo Stato di non facere, o un obbligo altrimenti chia-ro e preciso. il primo precedente è particolarmente significativo. il Trattato istitutivo la Comunità europea nel 1957 prevedeva l’i-

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stituzione di una tariffa doganale esterna comune; in attesa della realizzazione della Unione doganale, si prevedeva un obbligo per gli stati di stand still (divieto di modificare la tariffa doganale na-zionale previgente). i paesi bassi non rispettarono questo obbligo. ritenendosi danneggiata, un’impresa si rivolse a un giudice la-mentando la contrarietà al trattato della norma interna che aveva innalzato un dazio doganale. Lo Stato si difese affermando che si era in presenza di una norma di diritto internazionale, diretta allo Stato e non agli altri soggetti di diritto: non invocabile in giudizio, quindi, come fonte di un diritto per l’impresa. La Cor-te di giustizia, adita in via pregiudiziale affinché interpretasse la disposizione del Trattato, riconobbe alla stessa efficacia diretta rispetto al soggetto di diritto, in quando la disposizione, anche se diretta allo Stato, recava comunque un obbligo di non facere. nella giurisprudenza successiva, la Corte di giustizia ha ricono-sciuto l’efficacia diretta “verticale” (ossia nei rapporti tra soggetti di diritto e Stato) anche alle norme delle direttive le quali, dopo essere entrate in vigore senza essere state recepite, recassero un obbligo di non facere o comunque una prescrizione sufficiente-mente chiara e precisa, da cui si potesse ricavare l’esistenza di un diritto soggettivo. Si pensi alla recente sentenza el Dridi, in cui la Corte di giustizia ha affermato l’efficacia diretta di alcune norme relative al trattenimento nei centri di identificazione e di espulsio-ne degli stranieri irregolarmente soggiornanti, come per esempio la norma che consente il trattenimento dello straniero per non più di diciotto mesi, con la conseguenza che le norme della legge ita-liana in contrasto – come quelle che prevedevano una limitazione della libertà personale per tempi più lunghi – hanno potuto essere non applicate dai giudici (Corte di giustizia U.e. 28.4.2011, causa C.61/11 ppU).

Quarto elemento, ma non meno importante, la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo europeo. Si è detto che il Trattato istitu-tivo la Comunità economica europea del 1957 non recava un ca-talogo di diritti fondamentali. L’esigenza del riconoscimento dei diritti fondamentali dell’uomo europeo è stata avvertita, però, so-prattutto dopo il venire in essere della giurisprudenza europea sul

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primato del diritto europeo. Le norme europee prevalgono sulle norme nazionali, anche di rango costituzionale e, in molti casi (regolamenti o direttive aventi efficacia diretta), possono essere applicate direttamente dai giudici e dalle amministrazioni pubbli-che. Le norme dei regolamenti e delle direttive apparivano poten-tissime e prive di limiti: i limiti non erano posti dai Trattati, che non recavano un catalogo di diritti fondamentali, e neppure erano posti dalle costituzioni, perché le norme europee – secondo l’in-terpretazione data dalla Corte di giustizia – prevalevano su tutte le norme interne, anche sulle norme costituzionali. Una dinamica normativa come questa minava alle fondamenta i principi del co-stituzionalismo. Le costituzioni, prevedendo cataloghi di diritti fondamentali di prima generazione (libertà, proprietà, diritti po-litici), di seconda generazione (diritti sociali, come l’istruzione e la salute), di terza generazione (diritto alla pace, all’ambiente), in alcuni ordinamenti anche di quarta generazione (i diritti della società postindustriale, come il diritto alla privacy) pongono un limite alla regola di maggioranza, applicata nel procedimento le-gislativo in parlamento, a garanzia di individui o minoranze. Le Corti costituzionali vigilano sulla non difformità delle leggi ri-spetto alle costituzioni; assicurano che la maggioranza non leda i diritti dell’individuo e delle minoranze. nulla di tutto ciò era dato rinvenire nell’ordinamento europeo.

La risposta all’esigenza di protezione “costituzionale” dei di-ritti fondamentali nel contesto europeo è giunta dalla stessa Corte europea di giustizia, la quale a partire dal 1969 ha affermato che le norme europee di diritto derivato (segnatamente, regolamen-ti e direttive), devono comunque rispettare i diritti della persona che sono parte del diritto europeo. Dove ricavare tali diritti, se il Trattato ne era privo? per la Corte di giustizia, i diritti nell’ordi-namento europeo sono parte del diritto non scritto, essi sono parte dei principi generali del diritto europeo desumibili dalle tradizio-ni costituzionali comuni degli stati membri e dalla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo.

Se si accetta la tesi della natura costituzionale dei Trattati, oc-corre comunque precisare che la “Costituzione europea” non ha

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fatto venir meno la natura propriamente costituzionale delle costi-tuzioni nazionali. in quest’ottica vi sono autori i quali sostengono che, perché di Costituzione europea si possa parlare, è necessario fare riferimento a una pluralità di Costituzioni reciprocamente le-gate: le costituzioni dei paesi membri, e i Trattati che legano tali costituzioni. Saremmo quindi innanzi a una Costituzione multili-vello (o Costituzione integrata), con una pluralità di norme sulla produzione del diritto, di sistemi di fonti del diritto, di cataloghi di diritti fondamentali e di Corti costituzionali che assicurano, a seconda delle rispettive competenze, il primato delle costituzioni nazionali o dei trattati.

4 – I diritti nell’ordinamento dell’Unione europea

Si è già posto in evidenza che, in assenza di un catalogo dei diritti dell’uomo europeo, il riconoscimento e la tutela dei diritti fondamentali è iniziato nel 1969 con la giurisprudenza della Cor-te di giustizia.

il primo precedente cui fare riferimento è la sentenza Stauder del 1969. Stauder era un cittadino tedesco che aveva subito mu-tilazioni nel corso della seconda guerra mondiale. La Commis-sione aveva riconosciuto alcuni benefici ai mutilati di guerra: al fine di poter porre in essere acquisti a condizioni speciali, gli appartenenti a tale categoria dovevano essere muniti di una tessera. Secondo quando previsto dalle norme interne della re-pubblica federale tedesca, tale tessera avrebbe dovuto indicare le generalità del suo titolare. il signor Stauder, ritenendo che l’applicazione amministrativa della misura europea avrebbe leso il suo diritto fondamentale alla dignità umana, protetto dall’art. 1 della legge fondamentale tedesca, si rivolse ad un giudice na-zionale. il tribunale tedesco adì in via pregiudiziale la Corte di giustizia, la quale sostenne che il diritto alla dignità umana è un diritto che è parte dei principi generali del diritto europeo, così come desumibili dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e dalla Cedu.

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in parallelo alla Corte di giustizia, anche le corti costituzio-nali hanno mosso alcuni passi a tutela dei diritti fondamentali eventualmente lesi da norme interne. in particolare, la Corte co-stituzionale italiana ha elaborato la dottrina dei “controlimiti”, in virtù della quale le norme europee prevalgono anche sulle norme costituzionali, ma non possono prevalere sui principi fondamen-tali (es. il principio democratico, il principio di uguaglianza) e sui diritti inviolabili della persona umana (es. il diritto alla li-bertà personale) (Corte cost. sentt. 183/1973 e 170/1984). ana-logamente il Tribunale costituzionale tedesco, con la sentenza Solange i, ha evocato la possibilità di un controllo di legittimità sugli atti comunitari lesivi dei principi fondamentali e dei diritti inviolabili (1974).

Questa prospettiva – il sindacato da parte delle corti costituzio-nali nazionali degli atti comunitari lesivi di diritti fondamentali previsti dalle Costituzioni – avrebbe intaccato le prerogative della Corte europea di giustizia e, soprattutto, l’unitarietà nell’interpre-tazione e applicazione del diritto europeo sul territorio degli stati membri. La Corte europea di giustizia non ha quindi mancato di evidenziare il proprio disappunto con la sentenza Hauer (1979), in cui affermò che “la questione relativa ad un eventuale atten-tato ai diritti fondamentali da parte di un atto istituzionale della comunità non può valutarsi in altra maniera che nel quadro dello stesso diritto comunitario. L’introduzione di criteri di valutazione particolari, derivanti dalla legislazione o dall’ordinamento costi-tuzionale di un determinato Stato membro, nella misura in cui minacciasse l’unità materiale e l’efficacia del diritto comunita-rio, avrebbe ineluttabilmente l’effetto di rompere l’unità del mer-cato comune e di porre in pericolo la coesione della comunità”. L’allarme suscitato nella Corte europea di giustizia dalle senten-ze italiane e tedesche è stato successivamente ridimensionato, in quanto la tutela dei diritti fondamentali lesi da atti europei è stata assicurata dalla Corte di giustizia.

in ultima analisi, quindi, possiamo dire che la Corte europea di giustizia, a partire dal 1969, si è fatta carico dell’esigenza di garantire i diritti nell’ordinamento europeo, pur in assenza di

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un catalogo dei diritti nel Trattato. L’esigenza di un momento di scrittura dei diritti era, tuttavia, comunemente avvertita. e’ stato così che una Convenzione, convocata dal Consiglio europeo di Tampere del 15-16 ottobre 1999 e composta da quindici rappre-sentanti dei Capi di Stato e di Governo, da un rappresentante della Commissione, da sedici componenti del parlamento europeo e da trenta membri dei parlamenti nazionali, ha scritto una Carta dei diritti dell’Unione europea, utilizzando vari materiali di par-tenza come la Cedu, le tradizioni costituzionali comuni e la giu-risprudenza della Corte di giustizia. Tale Carta dei diritti è stata approvata dal Consiglio europeo di Biarritz dell’ottobre 2000 ed è stata proclamata in occasione del Consiglio europeo di nizza del dicembre 2000. La proclamazione ha assunto un importante significato simbolico e politico, anche se – in assenza di una re-visione dei Trattati – la Carta rimaneva un documento giuridica-mente non vincolante. Dalla proclamazione nel 2000 all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (2008), tuttavia, la Carta ha as-solto una funzione importante, in quanto è stata utilizzata da parte dei giuristi come strumento interpretativo per la ricostruzione dei diritti fondamentali.

in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Carta di nizza ha assunto lo stesso valore giuridico dei Trattati. Se-condo quanto prevede l’art 51 della stessa Carta, la lesione di un diritto può essere invocata, nei giudizi innanzi alla Corte di giu-stizia: a) quando la lesione deriva da un atto di organi e istituzioni Ue; b) quando deriva da un atto statale, sempre che questo sia stato adottato in applicazione di un atto comunitario (è il caso, ad esempio, dell’atto interno che recepisce una direttiva); c) nel caso in cui l’atto interno graviti nella competenza comunitaria (princi-pio della incorporation).

La Carta dei diritti è divenuta, quindi, uno dei tre pilastri nel-la garanzia dei diritti fondamentali nell’ordinamento dell’Unione europea. il secondo pilastro è costituito, secondo quanto prevede l’art. 6 Tue, ancora dai diritti facenti parte dei principi generali del diritto, ossia quei diritti ricostruiti dalla Corte di giustizia, a par-tire dal 1969, in base alle tradizioni costituzionali comuni e alla

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Cedu. La ragione di questa duplicazione deriva dal fatto che la Carta dei diritti offre solo uno standard minimo di protezione, ben potendo essere superiore lo standard di protezione desumibile, per lo stesso diritto, dalle tradizioni costituzionali comuni e dalla Cedu. infine, last but not least – il terzo pilastro è costituito dalla Cedu, a cui il nuovo art. 6 Tue ha facoltizzato l’adesione da parte dell’Unione europea. Qualora ciò accadesse, il cittadino europeo potrebbe adire la Corte europea dei diritti dell’uomo, lamentando la lesione di un proprio diritto da parte di un atto dell’Unione, e la Corte potrebbe condannare l’Unione, ravvisata la fondatezza della pretesa, per la violazione perpetrata.

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parTe V

le risorse per l’insegnaMento e l’aggiornaMento professionale

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Capitolo 15

le fonti sul web per lo studio dell’unione europea

1 – Le tappe della strategia di comunicazione e informazione dell’Unione europea

La comunicazione e l’informazione rappresentano un elemen-to essenziale di ogni nazione democratica e l’Unione europea non fa certo un eccezione. i cittadini infatti hanno il diritto di sa-pere cosa fa l’Ue e perché, e in che modo, le attività, le politiche e i finanziamenti dell’Unione europea influiscono sulla loro vita quotidiana. i cittadini, inoltre, hanno il diritto di partecipare al processo decisionale europeo attraverso una molteplicità di ca-nali di discussione, dialogo e dibattito con le istituzioni europee. in tal senso l’Unione europea ha cercato progressivamente di rendere le istituzioni sempre più aperte e trasparenti, facilitan-do la comprensione e assicurando un’informazione sempre più puntuale, multilingua, generalista e di settore, in relazione alle tematiche trattate.

Tuttavia, questo percorso teso a garantire il c.d. “diritto di ac-cesso ai cittadini” non è stato sempre lineare sotto il profilo del successo e dell’efficacia e come sempre è capitato nella storia di questi lunghi cinquant’anni, accelerazioni e brusche frenate

Questo capitolo è stato scritto da Salvatore Boeddu

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hanno condizionato la politica dell’informazione e della comu-nicazione nella Ue.

oggi possiamo affermare senza tema di smentita che l’infor-mazione e la comunicazione sono ritenute dal legislatore comuni-tario, azioni strategiche fondamentali a sostegno del processo di consolidamento e integrazione dell’Unione europea.

Cronologicamente possiamo ricordare che già nel 1950 con l’approvazione della Convenzione europea per la tutela dei di-ritti dell’uomo e delle libertà fondamentali si sancì il “diritto ad essere informati” ma solo alla fine degli anni novanta la stra-tegia dell’informazione e della comunicazione verso i cittadini fu riconosciuta dal legislatore comunitario quale “strumento per promuovere il principio della trasparenza e della semplificazione amministrativa”, trovando espresso riconoscimento nel Trattato di Maastricht sull’Unione europea. indirizzo poi rafforzato con l’approvazione della “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, nella riunione del Consiglio europeo di nizza del 2000.

Con la nuova strategia d’informazione e comunicazione dell’Unione europea, approvata, così come definito nella comu-nicazione della Commissione del 2 luglio 2002 (CoM(2002)350 def. , integrata e modificata dalla CoM def. n° 196 del 20.04.2004, si afferma che l’obiettivo principale consiste nel “migliorare la percezione dell’Unione europea e delle sue istituzioni non-ché della loro legittimità facendone conoscere e comprendere a fondo i compiti, la struttura e le realizzazioni, e stabilendo un dialogo con i cittadini”. Questo importante obiettivo si può raggiungere attivando la cooperazione interistituzionale fra le istituzioni europee e gli stati membri e dando avvio a campagne d’informazione prioritarie definite a livello comunitario su temi chiave, ma adattate alle diversità culturali e linguistiche di cia-scun Stato membro. per la prima volta si parla di “informazione destinata al grande pubblico”.

a seguito della mancata approvazione del progetto di nuova Costituzione europea da parte dei cittadini francesi e olandesi (che bocciarono sonoramente la revisione dei Trattati fondativi della Ue nei referendum consultivi del 2005), fu necessaria una

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pausa di riflessione nella costruzione del processo d’integrazione e ampliamento della Ue. La Commissione europea facendo tesoro degli errori e prendendo atto del risultato dei referendum appro-vò la comunicazione dal titolo “il contributo della Commissione al periodo di riflessione e oltre: Un piano D per la democrazia, il dialogo e il dibattito”. in sintesi il piano D avviò un processo volto a stimolare un più ampio dibattito tra le istituzioni dell’Ue e i cittadini sul futuro dell’Ue. Un dibattito sul futuro dell’europa che doveva rispondere alle necessità e alle attese dei cittadini, in modo che la democrazia rappresentativa continuasse a coin-volgere i cittadini europei e a raccoglierne la fiducia, stimolando la comunicazione sulle attività dell’Ue e rivolgendosi a target di pubblico specifici (ad esempio i giovani, le imprese, i ricercato-ri, etc.) utilizzando tutte le forme di comunicazione disponibili nell’era della rivoluzione tecnologica e dando nuovo impulso alle forme avanzate di partecipazione democratica quali forum, son-daggi, social media.

La Commissione europea utilizzando lo strumento del sondag-gio eurobarometro si attivò per conoscere l’opinione dei cittadini europei in merito al futuro dell’europa (autunno 2005) ottenen-do preziose informazioni che confermarono come una migliore comunicazione e informazione fosse indispensabile per superare il crescente livello di indifferenza e scetticismo dei cittadini nei confronti dell’Unione europea.

per questo motivo nel 2006 la Commissione europea adotta ufficialmente il Libro bianco sulla politica europa di comunica-zione, quale risposta organica alle sfide dell’europa che verrà, ritenendo l’informazione una “politica a pieno titolo” e promuo-vendo una comunicazione che si basa su i seguenti principi: l’in-clusione, la diversità, la partecipazione.

La trasformazione e l’innovazione nell’ambito della comuni-cazione e dell’informazione è quindi evidente. Dando seguito alla nuova strategia la vecchia generazione delle reti europee d’informa-zione (infopoint per le grandi città, Carrefour rurali per i territori periferici) viene sostituita dalla nuova rete d’informazione europe Direct, vere e proprie antenne locali presenti su tutto il territorio

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della Ue, attivate presso “strutture ospitanti” pubbliche e/o private, tramite bando di gara pubblico esperito in tutti gli stati membri.

Prospetto 15.1 – Riassunto dell’informazione europea (1990-99).

Sportelli informativi

Carrefour rurali – infopoint – CDe

Banche dati Celex (riservata e a pagamento)Gazzetta ufficiale europea

Cartacea

Media / Web europa by Satellite (conferenze stampa Commissari; documentari a tema, biblioteca audiovisiva);Sito web europa (lanciato in occasione del G7 del 1995 dei Ministri per la Società dell’informazione)

Questa nuova stagione è accompagnata da un potenziamento e implementazione delle banche dati d’informazione europee che diventano di facile e gratuito accesso ai milioni di cittadini euro-pei. L’Unione europea consapevole dell’importanza dei mezzi di comunicazione e d’informazione, investendo in tecnologia infor-mativa, rende disponibile a beneficio dei cittadini una molteplicità d’informazioni e dati, mediante l’uso di svariati mezzi di comuni-cazione che vanno dallo sportello informativo “di prossimità” al social media 2.0 (eutube, Facebook, Twitter).

L’evoluzione normativa e politica della comunicazione dell’Ue va quindi direttamente ad integrarsi con il ruolo di supporto alla gestione tecnico-amministrativa, volta a garantire parità di accesso ai cittadini, alle parti sociali e alle istituzioni nazionali e regionali, fruitori delle politiche attive di sviluppo e coesione, quali Fondi strutturali, programmi, azioni ed interventi che veicolano i pro-grammi strategici e le relative risorse finanziarie dell’Unione. Ma mentre molto si è potuto fare nel facilitare l’accesso ai finanzia-menti da parte dei potenziali beneficiari, ancora non perfettamente efficace ed efficiente risulta essere l’azione di pubblicità e di diffu-sione dei risultati in fase di valutazione ex-post della spesa.

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Prospetto 15.2 –Riassunto dell’informazione europea (dagli anni 2000 ad oggi)

Sportelli informativi

europe Direct (antenne di prossimità per i cit-tadini)Cde (Centri di documentazione europea)enterprise europe (Supporto alle imprese)eures (rete europea servizi pubblici per l’im-piego)eurodesk (rete d’informazione per i giovani)euroaxess (Sportello unico per i ricercatori)* elenco non esaustivo

portali web europa.eu (portale web ufficiale dell’Unione eu-ropea nelle 24 lingue ufficiali europee)eurlex (banca dati integrata che comprende la Gazzetta Ue, la legislazione e la giurisprudenza Ue)portali web dedicati a tema (eures, giovani, etc.)

Media (news, Tv, Social media)

europa by Satellite (completamente ristrutturato e adesso anche su applicativi on mobile);euronews (canale televisivo d’informazione che copre gli avvenimenti del mondo da una pro-spettiva europea, irradiato in dodici lingue)press-europe (il meglio della stampa europea)eutube (canale di YouTube gestito dall’Unione europea con lo scopo di diffondere i contenuti audiovisivi prodotti dai suoi vari organismi)eU-Bookshop (punto di accesso alle pubblica-zioni di istituzioni, agenzie e altri organi dell’U-nione europea, pubblicate dal 1952)

Così come ancora insufficiente sembra essere il ritorno, in termini di feedback strutturato da parte degli stakeholders, sulla qualità del risultato ottenuto dai finanziamenti europei utilizzati nelle diverse realtà territoriali europee, nonostante le significative risorse finanziarie spese per realizzare una serie di portali per la comunicazione online attivi da tempo.

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Sulla base dell’esperienza maturata in qualità di informatore comunitario rilevo che mentre alla fine degli anni novanta, il pro-blema era quello della scarsa informazione del cittadino diretta-mente collegato alla insufficiente disponibilità delle informazio-ni, oggi nell’era della comunicazione digitale avanzata il pericolo oggettivo è la ridondanza dei dati e l’enorme disponibilità delle “fonti informative” che crea difficoltà di approccio e di ricerca nelle categorie e fasce d’età prive di adeguate competenze cultu-rali e informatiche (digital-divide di ritorno).

2 – Le reti europee d’informazione

normalmente il cittadino ha la possibilità di ottenere infor-mazioni o far sentire la propria opinione contattando le istituzio-ni locali e regionali che utilizzano i finanziamenti europei, così come se presente, possono scrivere o telefonare al parlamenta-re europeo eletto nel collegio territoriale di competenza. Ma le istituzioni europee hanno nel concreto realizzato un sistema in-tegrato che partendo dal centro direzionale politico (Bruxelles) raggiunge tutte le periferie europee con i centri di contatto locali attivi in tutte le regioni europee.

Lo slogan è quello di affermare che con una telefonata gratuita ad un numero unico europeo l’europa è davvero vicina!.

il Centro di contatto europe Direct 008 0067891011 è rag-giungibile da qualsiasi località della Ue, tutti i giorni dalle ore 9.00 alle ore 18.00, in tutte le lingue europee. il servizio centrale europe Direct può essere raggiunto anche per mail. nell’eventua-lità che il cittadino abbia bisogno di consigli o di aiuto a livello lo-cale c’è la possibilità di contattare il centro locale europe Direct per una risposta personalizzata.

La rete europea di sportelli locali europe Direct conta 500 cen-tri che coprono tutte le regioni europee. Compito degli europe Direct è quello di: a) aiutare il cittadino ad ottenere informazioni, assistenza e risposte a domande sull’Unione europea (attività, fi-nanziamenti, ricerca partner per progetti europei; b) promuovere il dibattito locale e regionale su temi di interesse comunitario, or-

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ganizzando giornate di informazione e formazione o eventi rivolti al grande pubblico, in occasione di importanti ricorrenze quali il 9 maggio – Festa dell’europa.

insieme agli europe Direct operano reti d’informazione aventi una missione più specifica quali: Cde – Centri di docu-mentazione europea, operanti generalmente presso le università e le biblioteche pubbliche per la promozione dell’istruzione; entreprise europe - rete di servizi di assistenza gratuita a so-stegno della competitività e dell’innovazione delle piccole e medie imprese (pmi) che conta in europa e nel Mondo più di 600 organizzazioni; eurodesk che è la struttura del program-ma comunitario Gioventù in azione dedicata all’informazione e all’orientamento sui programmi in favore dei giovani pro-mossi dall’Unione europea e dal Consiglio d’europa. Ci sono poi eures per trovare informazioni sulle offerte di lavoro e di studio in europa; euraxess ideato per contribuire a sviluppare un ambiente favorevole alla mobilità dei ricercatori in europa e per diffondere le opportunità di carriera offerte dallo Spazio europeo della ricerca; ecc-net Centro europeo per i consumato-ri per assicurare l’informazione e l’assistenza del consumatore nel diritto e nel consumo transfrontaliero; Solvit che è una rete per la risoluzione di problemi on line, in cui gli stati membri collaborano per risolvere concretamente i problemi derivanti dall’applicazione scorretta delle norme sul mercato interno da parte delle amministrazioni pubbliche. infine dobbiamo ricor-dare gli Sportelli per la promozione e la mobilità nell’ambi-to dell’azione erasmus (istruzione Superiore) del programma LLp (Lifelong Learning programme).

3 – Le fonti e le banche dati on-line europee

il portale web “europa.eu” è il sito ufficiale dell’Unione eu-ropea. europa.eu è un portale web strutturato che contiene mi-gliaia e migliaia di dati e informazioni sulle istituzioni europee, l’organizzazione burocratica, la legislazione, la giurisprudenza, le politiche, centinaia di pubblicazioni a disposizione del cittadino.

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Disponibile nelle ventiquattro lingue ufficiali europee il por-tale è strutturato nella sua homepage in sette grandi contenitori tematici: 1) Funzionamento della Ue; 2) L’Ue per tema; 3) La tua vita nella Ue; 4) Fare impresa; 5) Diritto della Ue; 6) pubblica-zioni; 7) informazioni sull’Ue per i più giovani e gli insegnan-ti. Sono presenti sempre nella home page la sezione informativa Sala Stampa e la sezione per Contattarci, una guida pluriaccesso per l’utilizzo degli strumenti Social Media (Youtube, Facebook, Twitter, Flickr, Blog) e un motore di ricerca con l’indice “dalla a alla Z”.

L’Unione europea sul web si arricchisce anche di altri stru-menti e fonti informative non gestite direttamente dall’Unione europea ma da essa sponsorizzate: euro news; presseurope.

Un approfondimento viene riservato a due strumenti online molto utili: la banca dati rapid e il catalogo delle pubblicazioni Ue Bookshop. La prima offre l’opportunità di consultare in tempo rea-le tutte le news provenienti dall’Unione europea. il secondo rende disponibile, secondo le modalità del negozio online, un enorme quantità di pubblicazioni europee, moltissime gratis, che possono essere richieste con un solo click e spedite all’indirizzo voluto.

per quanto attiene alla gestione diretta dei finanziamenti co-munitari il portale web europa consente di accedere all’organiz-zazione amministrativa della Commissione europea. nelle pagine del sito ogni Dg è classificata in base alle politiche di sua com-petenza.

per quanto attiene alla gestione indiretta dei finanziamenti – i c.d. fondi strutturali – ogni Stato membro ed ogni singola regio-ne d’europa hanno strutturato da tempo un canale web dedicato dopo poter reperire notizie e utili indicazioni sulle linee di finan-ziamento dei programmi operativi, sui bandi in pubblicazione, sui contatti dei funzionari responsabili. per lo Stato italiano la com-petenza afferisce al Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica.

per la regione autonoma della Sardegna si segnalano nella home-page la sezione Bandi e il canale tematico dedicato “Sarde-gna programmazione”.

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Capitolo 16

le fonti priMarie e secondarie

1 – Riferimenti bibliografici

a) Testi generali

attinà, F. e natalicchi, G., L’Unione europea. Governo, istituzioni e politiche, Bologna, il Mulino, 2010

Fabbrini, S. e Morata, F., L’Unione europea. Le politiche pubbliche, roma-Bari, Laterza, 2002

nugent, n., Organizzazione politica europea. Istituzioni e attori, Bologna, il Mulino, 2011

b) Storia dell’integrazione e dell’Unione europea

Di Quirico, r., L’Euro, ma non l’Europa. Integrazione monetaria e integrazione politica, Bologna, il Mulino, 2007

Mammarella, G. e Cacace, p., Storia e politica dell’Unione europea (1926-2005), roma-Bari, Laterza, 2013

Morelli, U., Storia dell’integrazione europea, Milano, Guerini, 2011

olivi, B. e Santaniello, r., Storia dell’integrazione europea, Bologna, il Mulino, 2010

c) L’identità europea

Balibar, e., Cittadinanza, Milano, Bollati Boringhieri, 2012

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Cerutti, F., Identità e politica, roma-Bari, Laterza, 1996.Cerutti, F. e enno, r.. (a cura di), Un’anima per l’Europa. Lessico

di un’identità politica, pisa, eTS, 2002 Della porta, D. e Caiani, M., Quale Europa? Europeizzazione,

identità e conflitti, Bologna, il Mulino, 2006Grifoni Baglione, L., Sociologia della cittadinanza. Prospettive

teoriche e percorsi inclusivi nello spazio sociale europeo, Soveria Mannelli, rubbettino, 2009

Triggiani, e. (a cura di), Le nuove frontiere della cittadinanza europea, Bari, Cacucci, 2011

d) Le politiche europee

Lizzi, r., La politica agricola, Bologna, il Mulino, 2002Massot, a., “La politica agricola”, in S. Fabbrini e F. Morata 8a

cura di), L’Unione europea. Le politiche pubbliche, roma-Bari, Laterza, 2002.

nugent, n., “politica agricola”, in n. nugent, Governo e politiche dell’Unione europea, Bologna, il Mulino, 2008, ii volume, pp. 109-136.

Vieri, S., Politica agraria comunitaria, nazionale e regionale, Bologna, edagricole, 2001

Manzella G.p., Una politica influente. Vicende, dinamiche e prospettive dell’intervento regionale europeo, Bologna, il Mulino, 2011

profeti, S., “L’accesso ai fondi comunitari e il loro uso”, in S. Vassallo (a cura di), Il divario incolmabile. Rappresentanza politica e rendimento istituzionale nelle regioni italiane, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 223-248

putnam, r., La tradizione civica nelle regioni italiane, Milano, Mondadori, 1993

e) Unione europea e regioni italiane

profeti, S., “La sfida europea delle regioni italiane”, in Rivista Italiana di Politiche Pubbliche, n.1, 2006, pp. 39-69

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Bolgherini, S., Come le regioni diventano europee, Bologna, il Mulino, 2006

Caciagli, M., Regioni d’Europa, Bologna, il Mulino, 2006De Micheli, C., “il Comitato delle regioni e il caso italiano”, in V.

Fargion, L. Morlino e S. profeti (a cura di), Europeizzazione e rappresentanza territoriale. Il caso italiano, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 333-358

profeti, S., “Le regioni italiane a Bruxelles. Canali e strategie di attivazione”, in V. Fargion, L. Morlino e S. profeti (a cura di), Europeizzazione e rappresentanza territoriale. Il caso italiano, Bologna, il Mulino, 2006, pp. 287-331

Fargion, V., Morlino, L. e profeti, S. (a cura di), Europeizzazione e rappresentanza territoriale. Il caso italiano, Bologna, il Mulino, 2006

2 – Siti consultabili

a) Le istituzioni dell’Unione europeaCommissione:

http://ec.europa.eu/index_it.htmConsiglio dell’Unione europea:

http://www.consilium.europa.eu/Consiglio europeo:

http://www.european-council.europa.eu/the-institution.aspx?lang=it

parlamento: http://www.europarl.europa.eu/news/public/default_it.htm

Corte di giustizia: http://curia.europa.eu/jcms/jcms/j_6/

Banca centrale europea: http://www.ecb.europa.eu/home/html/index.en.html

Comitato economico e sociale: http://www.eesc.europa.eu/index_it.asp

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Comitato delle regioni: http://www.cor.europa.eu/

b) Le politiche dell’Unione europeahttp://europa.eu/pol/index_it.htm

c) L’Ue e la politica agricola:http://ec.europa.eu/agriculture/index_it.htmhttp://europa.eu/pol/agr/index_it.htmhttp://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLoB.php/L/iT/iDpagina/287http://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLoB.php/L/iT/iDpagina/4277http://www.politicheagricole.it/flex/cm/pages/ServeBLoB.php/L/iT/iDpagina/379

d) L’Ue e la politica regionalehttp://ec.europa.eu/regional_policy/index_it.cfm http://ec.europa.eu/regional_policy/what/future/index_it.cfm http://ec.europa.eu/europe2020/index_it.htm

Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica (Dps): http://www.dps.tesoro.it/

assemblea delle regioni d’europa: http://www.aer.eu/

Conferenza delle assemblee legislative regionali europee: http://www.calrenet.eu/

eurostat: http://epp.eurostat.ec.europa.eu

e) Il diritto dell’Ue

http://europa.eu/eu-law/index_it.htmhttp://europa.eu/eu-law/legislation/index_it.htm

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f) Altri siti d’interesse generale

portale europa: http://europa.eu/index_it.htm

europe Direct: http://europa.eu/europedirect/index_it.htm

Contatta la Ue: http://europa.eu/contact/index_it.htm

rapiD press releases: http://europa.eu/rapid/search.htm

eU Book shop: http://bookshop.europa.eu/it/home/

euronews: http://it.euronews.com/

press europe: http://www.presseurop.eu/it

eUTUBe: http://www.youtube.com/user/eutube

eures: https://ec.europa.eu/eures/page/homepage?lang=it

eurodesk: www.eurodesk.it/

euroaxess: ec.europa.eu/euraxess/

erasmus +: www.erasmusplus.it/

Long-Life programme (LLp): eacea.ec.europa.eu/llp/ oppure www.programmallp.it/

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