Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi · tutta la tua bellezza? Chi t'amò su la terra...

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Gabriele D'AnnunzioLaudi

del cielo del mare della terra e degli eroi

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QUESTO E-BOOK:

TITOLO: Laudi del cielo del mare della terra e degli eroiAUTORE: D'Annunzio, GabrieleTRADUTTORE:CURATORE: Oliva, GianniNOTE: Contiene: Maia, Elettra, Alcyone, Merope, Canti della guerra latina

DIRITTI D'AUTORE: no

LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza specificata al seguente indirizzo Internet: http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/

TRATTO DA: [2]: Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi / Gabriele D'Annunzio. - Ed. integrale. - Roma : Grandi tascabili economici Newton, 1995. - XXXVI, 587 p. ; 22 cm. – (Grandi tascabili economici ; 303)Fa parte di Tutte le poesie.

CODICE ISBN: 88-7983-757-5

1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 23 febbraio 2010

INDICE DI AFFIDABILITA': 1 0: affidabilità bassa

1: affidabilità media 2: affidabilità buona 3: affidabilità ottima

ALLA EDIZIONE ELETTRONICA HANNO CONTRIBUITO:Stefano D'Urso, [email protected] Zanier, [email protected]

REVISIONE:Stefano D'Urso, [email protected]

PUBBLICAZIONE:Catia Righi, [email protected]

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GABRIELE D'ANNUNZIO

LAUDI DEL CIELO DEL MARE DELLA TERRA E DEGLI EROI

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Alle Pleiadi e ai Fati

Gloria al Latin che disse: «Navigareè necessario; non è necessariovivere». A lui sia gloria in tutto il Mare!

O Mare, accenderò sul solitariomonte che addenta e artiglia te (leonesculto da qual Ciclope statuario?)

un salso rogo estrutto col timonee la polèna della nave rotta,che ha la tortile forma del Tritone.

Il ricurvo timon per cui condottafu la nave nell'ultima procellacon la barra tra l'una e l'altra scotta,

la divina figura onde fu bellacontra il flutto la prua sotto il balenodella nube che vinto avea la Stella,

ardere voglio avverso il Mar Tirreno,l'ornamento superbo e il rude ordegno,le Pleiadi invocando al ciel sereno.

Crepiterà nel fuoco il salso legno,su la cervice del leon proteso;e taluno vedrà di lungi il segno

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insolito e dirà: «Qual mano accesoha il rogo audace? Quale iddio su l'erterupi nel cuore della fiamma è atteso?».

Non un iddio ma il figlio di Laertequal dallo scoglio il peregrin d'Infernocon le pupille di martìri esperte

vide tristo crollarsi per l'internodella fiamma cornuta che si feovoce d'eroe santissima in eterno.

«Né dolcezza di figlio...» O Galileo,men vali tu che nel dantesco fuocoil piloto re d'Itaca Odisseo.

Troppo il tuo verbo al paragone è fiocoe debile il tuo gesto. Eccita i fortiquei che forò la gola al molle proco.

L'àncora che s'affonda ne' tuoi portinon giova a noi. Disdegna la salutechi mette sé nel turbo delle sorti.

Ei naviga alle terre sconosciute,spirito insonne. Morde, àncora sola,i gorghi del suo cor la sua virtute.

Di latin sangue sorse la parola

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degna del Re pelasgo; e il sacro Dantele diede più grand'ala, onde più vola.

Re del Mediterraneo, parlantenel maggior corno della fiamma antica,parlami in questo rogo fiammeggiante!

Questo vigile fuoco ti nutricail mio vóto, e il timone e la polènadel vascel cui Fortuna fa nimica,

o tu che col tuo cor la tua carenacontra i perigli spignere fosti usodietro l'anima tua fatta Sirena,

infin che il Mar fu sopra te richiuso!

L'annunzio

Udite, udite, o figli della terra, udite il grandeannunzio ch'io vi reco sopra il vento palpitantecon la mia bocca forte!Udite, o agricoltori, alzati nei diritti solchi,e voi che contro la possa dei giovenchi, o bifolchi,tendete le corde ritortecome quelle del suono tese nelle antiche lire,e voi, femmine possenti in oprare e partorite,alzate su le porte,e voi nella luce floridi, e voi nell'ombra curvi,

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fanciulli loquaci, vecchi taciturni,o vita, o morte,

uditemi! Udite l'annunziatore di lontanoche reca l'annunzio del prodigio meridianoonde fu pieno tutto quantoil cielo nell'ora ardente! V'empirò di meraviglia;v'infiammerò di gioia; vi trarrò dalle cigliail riso e il pianto.Salirà dai profondi cuori un grido immensocome quel che improvviso tonò nel silenziodel giorno santo.

Ornate di purpuree bende il giogo oneroso,delle più fresche erbe gli alari che il fuoco ha rósonel fervido camino;sospendete alla trave arida la ghirlanda aulente,coronate la fronte del toro, il vaso lucente,la pietra del confino.La bellezza del mondo sopita si ridesta.Il mio canto vi chiama a una divina festa.Nelle vostre rene rudi, ecco, il mio canto versaun sangue divino.

Udite, udite, o figli del Mare, udite il grandeannunzio ch'io vi reco sopra il vento giubilantecon la mia bocca sonora,nudi nell'ombra cerula delle vele mentre vibracome nella selva il curvo legno per ogni fibrada poppa a prora

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e il pino dischiomato che per l'alto sal viaggiapur anco geme in lunghe lacrime la selvaggiagomma onde il cuor gli odora,uditemi! Io vi dirò quel che da voi s'attende,le vostre sorti auguste, la deità che in voi splendee il Mar che è divino ancóra.

Gittate le reti su i giardini del Mareove rose voraci s'aprono tra il fluttuaredell'erbe confuse;cogliete il ramo vivo nella selva dei coralliove fremono eretti gli ippocampi, cavalliesigui, e le medusetrapassano in torme leni come in aere nube;cogliete i fiori equorei, molli come le piume,dolci come le ciglia chiuse;

fioritene ogni albero, fioritene ogni antenna,il timoniere alla barra, il gabbiere alla penna,e il piloto che sa i cieli,e i bracci dell'àncora tenace che sa gli abissi,e le escubie, occhi della nave aperti e fissiverso i lontani veliove s'asconde l'isola felice o la tempesta!Il mio canto vi chiama a una divina festa.La bellezza del mondo sopita si ridestacome ai dì sereni.

Mentì, mentì la voce dinanzi alle dentateEchìnadi tonante nella calma d'estate

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verso la nave. Il giornospegneasi entro quell'acque, fumido; come una piraardea Paxo; Achelòo, pensoso di Deianirae del divelto cornodalla forza d'Eràcle nell'iterata lotta,respirava per la sua vasta bocca nel mare e solala sua brama era intorno.O padre fecondatore dei piani, re violento, atrocesposo, testimonio eterno sei tu. Mentì la voceche gridò: «Pan è morto!».

Ma pieno era il giorno, ma era a sommo del cerchioil Sole, il maestro dell'opre eccellenti, lo specchioinfaticabile degli umani,l'amico delle fonti, la chiara faccia, il puroocchio che vede tutte le cose (udite, udite!); e tuttoil silenzio dei pianil'adorava offerendo al suo fuoco le messialtrici delle stirpi, i mietitori genuflessidalle consacrate mani,

e le falci terribili, e i vasi d'argilla pronionde l'acqua trasuda, simili alle frontimadide nella fatica,tramandati dai padri nella forma immortale,e i rossi carri aspettanti il peso cerealefermi presso la bica,e le chiome delle femmine seguaci, e le crinieredei cavalli furibondi sotto la sferza crudelee la schiuma di quel furore, e le preghiere

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grandi su l'opra antica.

Pieno era il giorno, o figli, era il Sole imminente;e tutto il silenzio dei mari l'adorava offerendoal suo fuoco l'aromadel sale purificante, la felicità dell'onda,della rupe immobile, dell'alga vagabonda,della ferrea prora,il promontorio fulvo come leone in agguatocon proteso l'artiglio, il golfo dominatodalla città che doloranelle sue mura ansiosa, e i vitrei meandridelle correnti, e i gemmei limitari degli antriche solo il vento esplora.

Tutto era silenzio, luce, forza, desìo.L'attesa del prodigio gonfiava questo miocuore come il cuor del mondo.Era questa carne mortale impazientedi risplendere, come se d'un sangue fulgentel'astro ne rigasse il pondo.La sostanza del Sole era la mia sostanza.Erano in me i cieli infiniti, l'abondanzadei piani, il Mar profondo.

E dal culmine dei cieli alle radici del Marebalenò, risonò la parola solare:«Il gran Pan non è morto!».Tremarono le mie vene, i miei capelli, e le selve,le messi, le acque, le rupi, i fuochi, i fiori, le belve.

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«Il gran Pan non è morto!»Tutte le creature tremarono come una solafoglia, come una sola goccia, come una solafavilla, sotto il lampo e il tuono della parola.«Il gran Pan non è morto!»

E il terrore sacro si propagò ai confinidell'Universo. Ma gli uomini non tremarono, chinisotto le consuete onte.Tutte le creature udirono la vocevivente; ma non gli uomini cui l'ombra d'una croceumiliò la fronte.Ed io, che l'udii solo, stetti con le tremanticreature muto. E il dio mi disse: «O tu che canti,io son l'Eterna Fonte.Canta le mie laudi eterne». Parvemi ch'io morissie ch'io rinascessi. O Morte, o Vita, o Eternità! E dissi:«Canterò, Signore».

Dissi: «Canterò i tuoi mille nomi e le tue membrainnumerevoli, perocché la fiamma e la semenza,l'alveare ed il gregge,l'oceano e la luna, la montagna ed il pomoson le tue membra, Signore; e l'opera dell'uomoè retta dalla tua legge.Canterò l'uomo che ara, che naviga, che combatte,che trae dalla rupe il ferro, dalla mammella il latte,il suono dalle avene.

Canterò la grandezza dei mari e degli eroi,

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la guerra delle stirpi, la pazienza dei buoi,l'antichità del giogo,l'atto magnifico di colui che intride la farinae di colui che versa nel vaso l'olio d'olivae di colui che accende il fuoco;perocché i cuori umani, come per un lungo esiglio,hanno obliato queste tue glorie, Signore, e che il gigliodei campi è un gaudio eterno». E il dio mi disse:

«O figlio,canta anche il tuo alloro».

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LIBRO PRIMO

MAIA

Laus vitae

I.

O Vita, o Vita,dono terribile del dio,come una spada fedele,come una ruggente face,come la gorgóna,come la centàurea veste;o Vita, o Vita,dono d'oblìo,offerta agreste,come un'acqua chiara,come una corona,come un fiale, come il mieleche la bocca separadalla cera tenace;o Vita, o Vita,dono dell'Immortalealla mia sete crudele,alla mia fame vorace,alla mia sete e alla mia fame

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d'un giorno, non dirò iotutta la tua bellezza?Chi t'amò su la terracon questo furore?Chi ti attese in ogniattimo con ansie mai paghe?Chi riconobbe le tue oresorelle de' suoi sogni?Chi più larghe piaghes'ebbe nella tua guerra?E chi ferì con daghedi più sottili tempre?Chi di te gioì semprecome s'ei fosseper dipartirsi?Ah, tutti i suoi tirsiil mio desiderio scosseverso di te, o Vitadai mille e mille vólti,a ogni tua apparita,come un Tìaso di rosseTìadi in boschi folti,tutti i suoi tirsi!

Nessuna cosami fu aliena;nessuna mi saràmai, mentre comprendo, mondoLaudata sii, Diversitàdelle creature, sirena

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del mondo! Talor non elessiperché parvemi che eleggendoio t'escludessi,o Diversità, meravigliasempiterna, e che la rosabianca e la vermigliafosser dovute entrambealla mia brama,e tutte le pastureco' lor sapori,tutte le cose pure e impureai miei amori;però ch'io son colui che t'ama,o Diversità, sirenadel mondo, io son colui che t'ama.

Vigile a ogni soffio,intenta a ogni baleno,sempre in ascolto,sempre in attesa,pronta a ghermire,pronta a donare,pregna di velenoo di balsamo, tòrtanelle sue spirepossenti o tesacome un arco, dietro la portaangusta o sul limitaredell'immensa foresta,ovunque, giorno e notte,

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al sereno e alla tempesta,in ogni luogo, in ogni evento,la mia anima vissecome diecimila!È curva la Mira che fila,poi che d'oro e di ferro pesalo stame come quel d'Ulisse.

Tutto fu ambìtoe tutto fu tentato.Ah perché non è infinitocome il desiderio, il potereumano? Ogni gestoarmonioso e rudemi fu d'esempio;ogni arte mi piacque,mi sedusse ogni dottrina,m'attrasse ogni lavoro.Invidiai l'uomoche erige un tempioe l'uomo che aggioga un toro,e colui che trae dall'anticaforza dell'acquele forze novelle,e colui che distinguei corsi delle stelle,e colui che nei mutisegni ode sonar le linguedei regni perduti.

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Tutto fu ambìtoe tutto fu tentato.Quel che non fu fattoio lo sognai;e tanto era l'ardoreche il sogno eguagliò l'atto.Laudato sii, poteredel sogno ond'io m'incoronoimperialmentesopra le mie sortie ascendo il tronodella mia speranza,io che nacqui in una stanzadi porpora e per nutriceebbi una grande e taciturnadonna discesa da una ruperoggia! Laudato sii intanto,o tu che apri il mio pettotroppo angusto pel respirodella mia anima! E avraida me un altro canto.

II.

Io nacqui ogni mattina.Ogni mio risvegliofu come un'improvvisanascita nella luce:attoniti i miei occhi

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miravano la lucee il mondo. Chiedea l'ignaro:«Perché ti meravigli?».Attonito io rimiravala luce e il mondo. Quantifurono i miei giacigli!Giacqui su la bica flavaudendo sotto il mio pesostridere l'aride ariste.Giacqui su i fragrantifieni, su le sabbie calde,su i carri, su i navigli,nelle logge di marmo,sotto le pergole, sottole tende, sotto le querci.Dove giacqui, rinacqui.

Mi persuase i sonniil canto della trebbia,il canto dei marinai,il canto delle sartie al vento,l'odore della pece,l'odore degli otri,l'odore dei rosai,il gemitìo del sierogiù dai vimini sospesinella cascina, la vecedelle spole nei telainotturna, il ruggir cupodei forni accesi,

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il favellar leggerodell'acque pei botri,il battere della maciullanell'aia. E parvemi talorasu quei familiarisuoni farsi un alto silenzioe riudire il lontanocanto della mia culla.

Mi destò il Soleraggiandomi la faccia.Vidi per le tramedelle mie palpebre il fulgoredel mio sangue. Il mozzopendulo dal cordamegittò a me supinoil suo grido, il suo gridoannunziatore;e rise il lieve lidocome un labbro su la bonaccia.Le secchie all'alba nel pozzotraboccanti d'acqua ghiacciacon lor croscio argentinosuscitaron nel mio vigorenudo il brivido salubredel lavacro mattutino.Le allodole gloriosein alto in alto in altodalla rocca dell'Azzurromi chiamarono al grande assalto.

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I poledri violentisu la prateria molle,irsuti il pel selvaggio,coperti di rugiadecome i bruchi villosiin fondo alle corolle,m'annitrirono su i vèntiche parean recarmi il sentoredegli ippòmani favolosiforte come un beveraggio.Cantò: «Ben venga maggio!»dal colle di ginestrechiaro la teoriacoronata di canestrevotive, e per le contradee per l'anima miatrionfò Prosèrpina in vestetosca obliando Ade.Quante voci, quanti richiami,quanti inviti nell'aurorebelle! Ma ebbi altri risvegli.

Ebbi un letto vasto,sacro all'amor ciecoe al perspicaceodio; vasto sì che giacersipotessero con mecoe con la mia donnala forza e la grazia,

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la crudeltà e la froda,la voluttà e la morte.Tra l'una e l'altra colonnapendeva una cortinagrave che copria d'ombrail rito infecondoe la carne sazia,quando la concubinaseduta su la prodami guatava in silenziocon i suoi occhi instruttinella cui notte ingombraio vedea passar gli antichimostri e gli eterni lutti.

Io t'abbandonai,O mia carne, t'abbandonaicome un re imberbe abbandonail suo reame alla guerrierache s'avanza in armitremenda e bella,ond'ei teme e spera.Ella s'avanzavittoriosa,tra moltitudini in festache di tutti i lor benifan conviti al suo passare.Attonito trasaleil re dolce, e la sua speranza

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ride al suo timore;ché non sapea di tantagioia e di tanta famericchi i suoi schiavi,non sé tanto possentené di tanto feroci spinipieno il suo dolce cuore.

Io ti saziai,o mia carne, ti saziaicome l'alluvionesazia la terrache più non la riceveed è sommersa.Fiumi perigliosiprecipitarono ruggendosopra di te perduta.Fosti taloracome uva premutada fiammei piedi;talora come nevesegnata di vestigiacruente, d'impronte oscure;talora come inertegleba; e parvemi ch'io sentissiin te serpere ignoteradici e udissi lungestridere su la coteforse una scure.

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Furonvi donne serenecon chiari occhi, infinitenel lor silenziocome le contradepiane ove scorre un fiume;furonvi donne per lumed'oro emule dell'estatee dell'incendio,simili a biadelussuriantiche non toccò la falcema che divora il fuocodegli astri sotto un cielo immite;furonvi donne sì lieviche una parolale fece schiavecome una coppa riversatiene prigione un'ape;furonvi altre con mani smorteche spensero ogni pensier fortesenza romore;

altre con mani esiguee pieghevoli, il cui giocolento parea s'insinuassea dividere le venequasi fili di matassetinte in oltremarino;altre, pallide e lasse,devastate dai baci,

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riarse d'amore sinoalle midolle,perdute il cocenteviso entro le chiome,con le nari comeinquiete alette,con le labbra comeparole dette,con le palpebre comele violette.E vi furono altre ancóra;e meravigliosamenteio le conobbi.

Conobbi il corpo ignudoalla voce, al riso,al passo, al profumo. Il suonod'un passo sconosciutomi fece ansiosoquasi melodìa che s'odagiungere nella remotastanza per chiuse portea quando a quando, e il cuore anela.Risa belle, io già dissi il vostronumero, io vi lodai diversecome le sorgentidella terra, come le pioggenelle stagioni!Io dissi la vostra essenzainvisibile, profumi,

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le vostre mute effusioniche pur vincono i torrentinella rapina! Ma la voceavrà da me un cantopiù glorioso.

Furonvi città soavisu colli ermi, conclusenel lor silenziocome chi adora;furonvi palagisnelli su logge apertead accoglier l'ariacome chi respira,sacri alle Muse;furonvi orti irrigui,paradisi recinticome labirinticon una porta solae mille ambagi,ove l'aura piegaogni stelo e s'involacome chi fa ghirlandee non le lega;vi furono bevande,frutti, musiche pe' nostri agi;e le melancolie.

III.

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O notte d'estate fra l'altrememoranda per la bellezzaindicibile onde rifulsenell'ombra la mia personamortale, quasi fosse in leiespressa l'effigie divinadel Desiderio, sotto i mutibaleni che facean del cieloestremo una fucina ardente!Nessuno comprenderà maiperché nel semplice atto umanoio mi sentissi così belloper tutto l'esser mio: l'egualedei Giovini trasfiguratinei miti eterni della grandeEllade. Per un'ora fuil'eguale dei trasfiguratiGiovini alle soglie dei boschie sul margine delle fonti:nell'ombra calda e sotto i mutilampi bello indicibilmente.

La luna era trascorsa;dietro le opache cimevanito era il suo breve incanto.L'orrore medusèoparve impietrarela faccia sublimedella notte. Non canto,

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non grido s'udiva. Raregemevan l'aure. Booteguardava l'Orsa;e lacrimava il corodelle Pleiadi belleai ginocchi del Toro;ed Orione in corsaveniva armato d'orosu le tristi sorelle;ed Erigone pura,in disparte e con elle,versava anche il suo pianto.Così viveva la gran notte,qual la mirò dai monti Orfeo.

Viveva d'una vitaaltissima taciturnae sacra, come quandol'apollinea proleinvocò: «M'odi, o iddia,desiderabile, di negropeplo vestita, cintadi astri, inspiratrice degli inni,madre dei sogni, uraniae terrestre, generatricedi tutte le cose,ricchissima, oblìo delle cure,persuasiva, m'odi!».Eran nel mio petto gli inni.Ma intenti i miei occhi

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erano all'orizzonteultimo che fervea comese vi sfavillasse ignìtoe vivido su la vulcaniaincude un cuor di titanocon un palpito immenso.

«O cuore titanico» dissi«formidabile, palpitanteal confine del cielo,te anche arde e torceil desiderio onde anelocome s'io morissi?Per quale amante?Per quale dominio?Per quale morte?Che vuoi? che vuoi?Ovunque il tuo affannoapre solchi d'arsurache all'alba le rugiadenon addolciranno.Ah che anch'io questa nottesaprei morir come gli eroi,uccidere un re nel suo lettoo tra le spade,sciogliere una cintura fortecome quella che alla Terracingono gli antichi mari!»

Immobile su la soglia

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io guatava con occhi arsi,sentendo in me parole alzarsiconfuse, come chi delira.Dietro di me la casa umana,spenta e di cure ingombra,ove dormivano i servi,gemeva a quando a quando vanacome una lira senza nervi.E parve a un tratto, lontanacon la sua dogliasenza ritorno, lasciarminella solitudine solo.Il mio palpito stessoe la rapidità dei lampisi confusero allora;furono una forza concordeche lottò con la più alta ombra,toccò Galassia e i campi,agitò il sonno dell'Aurora,svegliò tutte le corde.

E io dissi: «O mondo, sei mio!Ti coglierò come un pomo,ti spremerò alla mia sete,alla mia sete perenne».E d'essere un uomopiù non mi sovvenne,poi che il mio cuor palpitavasu la terra e nel cielocon un palpito sì grande.

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E io dissi: «O figlie d'Atlante,Atlantidi, corona ardentedelle Pleiadi, o Taigete,o Elettra, o Celeno,Merope fosca, e tu, Maiadall'affocata faccia,Asterope, Alcyone,scendete ai miei giardini!».E così dicea vanamenteper tendere le braccia,per volontà di chiamare,per amor dei nomi divini.Il silenzio era vivocome un'anima sparsache ascolti e attendasenza respiro.Un'ala si mosse,una foglia cadde,un calice si schiuse,traboccò una fonte,una lingua lambì l'acqua,un'orma calcò l'erba,un balzo ruppe uno stelo,un foco vano rigò l'aria,un odor si diffuseumido nella caldura.Tutti i miei sensivigilavano, nell'attesadella gioia oscura.Una bellezza

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indicibile io sentìaspandersi per le mie membra,come chi trasfigura.

«Che vuoi? che vuoi?»Immobile stetticome i simulacri esangui;poiché ogni cosaattraeva il mio gestoma il mondo parea vanire.«Che vuoi? che vuoi?»Dalle mie stesse venepareami essere attortal'anima come da mille anguicon torride e gelide spire,«Che vuoi? che vuoi?»E un lampo discopersela vite meravigliosa,gravida di grandigrappoli, frondosadi fosche fronde,con le radici immersenelle virtù profonde.«Morire o gioire!Gioire o morire!»

Ah, poter di côrredal ciel più lontanoun pugno d'astripareami fosse

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nella mia manofatta onnipossentedal cor che in me fervea!E il grappolo più grandecolsi avidamente,che pesava d'ambrosiacome la mammellaineffabile d'una deadata all'adolescenteper gioire e morir quivi.Gli acini eran vivid'inesausto calorealle mie dita di gelo.Sentii ne' precordii l'odoredel pampino laceratocome d'un veloarcano che si fendesse.

O Vita, quel parvemi il primoe l'ultimo tuo dono,e che i miei giovini dentimai polpa d'opimofrutto avesser morsoné mai bevuto agrestesorso le mie labbra sanguigne.L'odore di tutte le vignesentii ne' precordii capacie di tutti i mosti il sapore,ebbi le vendemmie spumantidi tutti gli autunni feraci

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nel cuore, e le feste i cantil'urto dei piè danzanti il suonodei flauti frigi, e Lesborossa di faci pel nataledel vino e l'onda coralee il passo del lidio coturno,o Vita, quando la mia boccavergine di bacidiedi al tuo grappolo notturno.

Allora, come una statuadalla voluttà della Notteespressa, una formasilenziosabiancheggiò nell'ombraterribile; e trasalii.Una luce fatuasorse come una colonnatremante nell'ombrasoffocata; e trasalii.Non dissi: «O donna,chi sei tu?». Non chiesi:«D'onde venuta,di quali iddiimessaggera?». Ma la conobbisubitamente, mutaed eloquente.Per sentieri profonditratta me l'avea soladall'armonia dei mondi

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il Desiderio.

Non dissi: «Parla!».Ma mi volsi a ghermireil suo corpo discinto,che fresco sentii quasi fossebalzato da polle rupestri.Né per baciarlala bocca detersidal succo del grappolo molle;ché il divino Istinto mi volledei due beni diversicomporre una gioia infinita.O Vita, o Vita!O notte d'estate fra l'altrememoranda, in cui la mia carnecompì l'umano atto fugacesotto la specie dell'Eterno!O notte in cui viver mi parvefigurato nel violentomito che divennemi un segnosacro per le vie della terraove tolsi tutti i miei beni!

IV.

E come l'esule tornaalla cuna dei padrisu la nave leggera:

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il suo cor ferve innovatonell'onda prodiera,la sua tristezza dileguanella scìa lunga virente:io così sciolsi la vela,coi compagni molto a me fidi,in un'alba d'estateventosa, dall'àpula rivaove ancor vidi ai cielierta una romana colonna;io così navigaialfin verso l'Ellade scultadal dio nella lucesublime e nel mare profondoqual simulacroche fa visibili all'uomole leggi della Forzaperfetta. E incontrammo un Eroe.

Incontrammo coluiche i Latini chiamano Ulisse,nelle acque di Leucade, sottole rogge e bianche rupiche incombono al gorgo vorace,presso l'isola macracome corpo di rudiossa incrollabili estruttoe sol d'argentea cinturaprecinto. Lui vedemmosu la nave incavata. E reggeva

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ei nel pugno la scottaspiando i volubili vènti,silenzioso; e il pìleotèstile dei marinaicoprivagli il capo canuto,la tunica breve il ginocchioferreo, la palpebra alquantol'occhio aguzzo; e vigile in ognimuscolo era l'infaticatapossa del magnanimo cuore.

E non i tripodi massicci,non i lebeti rotondisotto i banchi del legnoluceano, i bei donid'Alcinoo re dei Feaci,né la veste né il mantodistesi ove colcarsie dormir potesse l'Eroe;ma solo ei tolto s'avea l'arcodell'allegra vendetta, l'arcodi vaste corna e di nervoduro che teso stridettecome la rondine nunziadel dì, quando ei scelse il quadrelloa fieder la strozza del proco.Sol con quell'arco e con la nerasua nave, lungi dalla casad'alto colmigno sonorad'industri telai, proseguiva

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il suo necessario travagliocontra l'implacabile Mare.

«O Laertiade» gridammo,e il cuor ci balzava nel pettocome ai Coribanti dell'Idaper una virtù furibondae il fegato acerrimo ardeva«o Re degli Uomini, eversoredi mura, piloto di tuttele sirti, ove navighi? A qualimeravigliosi perigliconduci il legno tuo nero?Liberi uomini siamoe come tu la tua scottanoi la vita nostra nel pugnotegnamo, pronti a lasciarlain bando o a tenderla ancóra.Ma, se un re volessimo avere,te solo vorremmoper re, te che sai mille vie.Prendici nella tua navetuoi fedeli insino alla morte!»Non pur degnò volgere il capo.

Come a schiamazzo di vanifanciulli, non volse egli il capocanuto; e l'aletta vermigliadel pìleo gli palpitavaal vento su l'arida gota

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che il tempo e il doloresolcato aveano di solchivenerandi. «Odimi» io gridaisul clamor dei cari compagni«odimi, o Re di tempeste!Tra costoro io sono il più forte.Mettimi alla prova. E, se tendol'arco tuo grande,qual tuo pari prendimi teco.Ma, s'io nol tendo, ignudotu configgimi alla tua prua.»Si volse egli men disdegnosoa quel giovine orgogliochiarosonante nel vento;e il fólgore degli occhi suoimi ferì per mezzo alla fronte.

Poi tese la scotta allo sforzodel vento; e la vela regalelontanar pel Ionio raggianteguardammo in silenzio adunati.Ma il cuor mio dai cari compagnipartito era per sempre;ed eglino ergevano il capoquasi dubitando che un giogofosse per scender su lorointollerabile. E io tacquiin disparte, e fui solo;per sempre fui solo sul Mare.E in me solo credetti.

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Uomo, io non credetti ad altravirtù se non a quellainesorabile d'un cuorepossente. E a me solo fedeleio fui, al mio solo disegno.O pensieri, scintilledell'Atto, faville del ferropercosso, beltà dell'incude!E contemplai, di controa Same dai foschi cipressi,Itaca petrosa,il Nèrito aspro nudato,la patria angustadi quella incoercibile Forza.E veder parvemi il tettosecuro, la soglia polita,le stanze purgate dai morbicon fumido solfo,le fanti dai cinti vermigliintente a forbir seggi e deschicon le spugne lor cavernoseo a torcere i lor fusiversatili o a scardassarele lane, e la tarda nutriceEuriclèa che valse già ventitauri, e l'economa Eurinòme,e Femio il cantore, e nell'ortocinto di pruni Laertecurvo a rincalzare l'arbusto.

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Or la figlia d'Icarioguatava la torma dell'ocheclamose beccare dal truogoil biondo fromento, e niunaaquila calata dal montefranger la cervice alle imbellicome nel sogno antico.Ma il talamo vasto,tutto di legno d'olivolavorato di man dello sposo,confitto con chiovi d'argentosaldamente al ceppo natìoche abbarbicato era con fermestirpi alla durezza terrestre,il talamo antico d'Ulisseanco una volta desertosi stava, e per sempre,sotto la pelle bovinacui rodean le vigili tarme.«Deh, un qualche iddio mi rapisca,O mi fieda Cintia d'un telo!»

Rammaricavasi acerbala moglie incorrotta. E la casadi strepitosi chieditorisonante e di danze e convitiripensava ella nel tristosuo petto. E improvviso a rancorepestifero cedeala più che ventenne costanza!

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Fatta era l'alta reinasimile a femmina ancella,poiché queste dicea parole:«Deh, avess'io scelto a maritoil più ricco e valentedei Proci, accolto avessi il figliodi Polibo Eurìmaco o il figliod'Eupite Antinòo,e seco passata io fossiad altra dimora, più tostoche attendere l'uomo cui soloè talamo grato la toldaa sciogliervi il cinto dell'onda!».

E il savio UlissìdeTelemaco dal suo seggiocoperto di velli manosigovernava i porcari.E il pallido adipe, onde un discorecato avea Melanzio ai Procicon la panca e la pellee la brace perché si scaldassee ugnesse e ammollisse il nervodell'arco nel dì della strage,l'adipe grave su l'epacresceva e pe' lombi e nel collodel savio Ulissìde.E partiva il suo lettodi belle coltrici adornocon una florida fante

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ei che, ospite imberbe, miratoavea splendere Elena a Spartae ricevuto il bel peploda Elena e bevuto il nepentedi Elena alla mensa ospitale.

«Contra i nembi, contra i fari,contra gli iddii sempiterni,contra tutte le Forzeche hanno e non hanno pupilla,che hanno e non hanno parola,combattere giovami semprecon la fronte e col pugnocon l'asta e col remocol governale e col dardoper crescere e spandere immensal'anima mia d'uom periturosu gli uomini che ne sien arsid'ardore nell'opre dei tempi.Sol una è la palma ch'io voglioda te, o vergine Nike:l'Universo! Non altra.Sol quella ricever potrebbeda te Odisseoche a sé prega la morte nell'atto.»Tali volgea pensieriil Re sul ponto oscurato.

O Itaca dura di rupi,l'ombra che tu protendesti

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nell'occaso del Soletal fu per l'anima miaqual pel figlio della dogliosanereide lo stigio lavacro!Caduto era ogni soffio.Nelle anse di Same sonoreplacavasi il rombocome nelle ritortebùccine quando il dio cessad'enfiarle col labbro salino.Simili a sarisse di bronzonel macigno confittei lacrimabili cipressi,interrotto il gemito amaro,parevano pronti a ferire.Scorgeasi la glauca Zacintolungi, e il Cillene, e la costacrassa cui nutre di moltarapina il selvaggio Achelòo.

Salir vidi un placido fumoallora, di tra gli oleastriche coronan col segnodel buon lottator la Petrosa;e dolsemi il cor dentro al petto,ché pel sangue mi corsepensier della madre lontana,pensier delle dolci sorellee del mio focolare.E m'apparve il bel fiume ove nato

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fui di stirpe sabella,Aterno di rossa correntecui cavalca il ponte construttodi carene di travid'ormeggi, spalmato di pece,in vista al monte nevosoche ha forma d'ubero pieno.E la tomba m'apparve sul poggiochiomante di pini, ove il padreriposa le sue grandi ossaond'io m'ebbi tempra sì dura.

E dissi nell'ombra: «O sorelle,tre come le porte del tempio,tre come il trifoglio dei paschi,tre come le Càriti leni,la prima dai floridi riccisalubre qual cespo di mentain docile rio, la secondaa me simigliante nel vóltoma quasi d'un velo soffusaargenteo sì ch'io mi credaspecchiarmi in sul fare dell'albaa un fonte di acque serene,la terza dagli occhi bovinirobusta qual fu giovinettala figlia di Rea, della madresostegno ridente, o mie dolcisorelle, non io vi obliaie di me voi favellate

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nel vespero forse, dal tettoarguto di nidi guardandoverso l'Adriatico Mare.

Pur, se taluna di voiimprovviso mirassel'aspetto della miaLibertà, d'orror tremerebbee di spavento, perdutocredendo il fratello suo caro,per sempre perduto;né più oserebbe toccarminé dirmi parola di pace.E bagnerebbe di piantole incolpabili manimaterne, alla misera donnapregando l'oblìo del suo nato.E lo stranier che mercae froda al publico sole,il falso mendico che ostentanel trivio l'ulcera immonda,il marinaio rissosoche batte il fanciullo e il vegliardoparrebbero a quella men empiidel caro fratello perduto!

Gèniti d'un grembo, d'un sangue,d'un atto d'amore noi siamo,sorelle. E, se penso le venesu la vostra tempia non cinta

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più cerule e tenui dell'ombrecui le frondi pie dell'ulivofan sul vello dell'agnache pasce da presso, io sorridod'una tremante dolcezzae le medesime veneguardo ne' miei pallidi polsi,che battono sì violentedi desiderio implacato.E le mie virtù, i miei vizii,i miei delitti, i miei gaudiiletiferi, i miei operositormenti, le occulte mie glorie,i sogni indicibili, tuttoil fiume rapace del mioessere tingemi i polsidi quel vostro azzurro sì lieve!

O consanguinei fiori,o pure ghirlande sospesealla fronte del focolare,s'io torni ove nacqui,in tema starò sorridentedinanzi alla vostra allegrezzacome il viandante che sostae parco è di chiare paroleché agli ospiti cela il suo stato.Ma tu, o madre mia forte,che mi generasti con tantegrida nel mese fecondo

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che da Marte si noma,entrando il Sole nel segnodell'Ariete durocozzante,mentre passavan sul nostrotetto col volubile nemboi pòllini di primavera,tu subitamente svelatom'accoglierai tutto qual sononella luce del tuo dolore.

Qual sono, per te sarò sacro,per te gloriosa in patiree resistere, o madre!E tu, che immota rimania costringer nelle tue bracciacome in ferrea zona la casafenduta dai fulmini, il soffiodell'immenso mondoin me sentirai vorticoso,senza terrore, e tuttosaprai, pur quello che ignotomi sta nel profondo, pur quelloche sta nel Futuro, inspiratadi conoscenza celeste.E mi dirai: «O figlio,t'ho fatto di vita sì brevee d'insaziabile cuore!Giusto è che tanto t'affrettia cercare a lottare a volere,lontan dalla madre

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che farti non seppe immortale».

Gloria al tuo capo, o madre!Sii tu testimone sublimedi mia verità sotto il cielo.O Solitaria,o Dolorosa,o Paziente,non sono io forse il tuo grido?Il tuo inconsapevole gridoche, riconosciuto, si spandesu gli uomini e reca ai più purila tua speranza divina.O madre, sia gloria al tuo capo!».Queste la mia tristezzadiceva parole, nell'ombrad'Itaca aspra di rupi.E parve dal mare profondosalirmi al petto una forzasilente, in cui palpitavan le amichePleiadi, quando a nottesupino, col vólto alle stelle,giacqui presso l'Occhio di prua.

V.

Dal golfo corintio,dal cuore dell'Ellade il ventosoffiò contra l'Occhio di prua,

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cangiò gli oleastrid'Itaca, piegò i cipressidi Same, fe' simile il mareall'irta di fiocchiegida cui Pallade scuote.Ed era il meriggio,l'ora di Pan, l'ora grande.Il Sole era al colmo dei cieliignudo; e tutto era chiarod'intorno, presso e lontano;e l'anima mia come l'orbedell'incorruttibile Etratutta era di cristalloe d'oro sospesa in su l'acque.E il grido sonò: «Sciogli! Allarga!Su le scotte di randa! Bordaranda! Su le drizze di fiocco!Issa fiocco!». E il legno garriva.

Il legno gemeva cricchiavarombava; la verga bicornestrideva alla trozza:la forte ralinga batteval'aere qual furia pennatadi libertà sotto pugnidi ghermitori tenaci;sinché contra l'albero a pioppoghindata fu tra fondoe testiera, ordita la scottaal paranco. E l'àurica vela

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fu gonfia d'un alito immenso,più bella di tutte le cosed'intorno apparite,più di noi che l'aprimmolibera, più pura e innocentedel cielo, una vergine forza,un desiderio pudìco,un arco acceso d'amorepel suo segno, un candido spirtotra il duplice Azzurro tutt'ala!

Egidarmata Atena,ben tu ci volesti avversoil vento perché nell'approdoalla tua terra nataleio memore fossiche sol nella lotta è la gioia.Parea che l'aspratua verginità palpitassepresente nell'ombradella gran randa solaree che tu vigilassico' tuoi occhi cesii l'alternaopra dei navigantie tu le imprimessi in silenziola tua misura divina.Obliqua la nave, inclinatasul fianco, in un solco di spumefervide, prueggiavagiugnendo l'altura del vento

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avverso qual carro la cimadi ripido monte. «Orza! Poggia!»

E la verga biforcapassava rombando fischiandosopra le nostre frontichine; e tutta la ben costruttacompagine sotto lo sforzorisonava come una cetra.percossa; e l'oppostobordo attignea quasi l'acquacome avido labbro che siaper bevere il sale. Era l'opraagevole e lieve qual gioco.Aperto era il novocammino alla rapida prua,come nel coro seguel'epòdo alla duplice strofe.Itaca Same Zacintos'inazzurravano a poppa,cangiate in elisia corona;Oxia pareva un'araancor rosea della ecatombe,l'Àraxo un trofeo di Titani.

Oh perìstrofe gioiosaverso la pampìnea Patre!Ora meridianad'inimitabile vita!Levità della carne,

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freschezza dell'anima nova,rinascimento argentino!Non rugiada al solstiziosu prato di salvie e di timifu mai sì gemmantecome l'anima mia che il Solebeveva inesausta. «O dio Sole,tu la bevi ed ella rinasce,tu l'ardi ed ella s'irrora.Antico tu sei, ella è semprerecente. Tu due e due voltetrasmuti la faccia del mondo,ma la stagione che in leicresce è diversa: non estatenon primavera, ma unafelicità più novella.»

L'aroma dei cantifuturi parea nel respiroalitarmi. E io dissi:«O Ineffabile, o Ignoto,il nome per te troverannoi miei canti futuri,il nome e la lode per sempre!».E la nave era partedi me, la vela erami alasu l'òmero, la pruaera la cima del cuoresagliente, il lungo protesobompresso era il segno

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della fecondante potenza.E come a un amplesso d'amoreio tendeva al lito ricurvo,portato dal cielo e dal mare.O Ellade, e io credettiche dal tuo grembo di marmoavuto avrei finalmenteil figlio che invoco immortale!

Torrido soffio affocantequal fiato di mille fornacisu l'acqua del porto oleosae corrotta; lezzo di tetrecloache, di putridi frutti,di torbidi fumi, di fecce,di sevi, di spezie, di vini,d'acri fermenti, d'umanisudori; terribili pietreconsunte dal traffico immondo,riarse da Sirio, insozzatedall'escremento dell'ebreciurme, dei cavalli, dei buoistupiti ancor barcollantiin lungo rullìo di tempesta;tristi anelli di nero ferro,ormeggi più tristiche vincoli di prigionieri;man tese di mendicanti,riso ambiguo di prossenèti,e frode e fame in agguato:

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tale m'apparve all'approdol'antica città degli Acheiartefice di diademie di vestimenta soavi.Per le vie bianche, sottonembi di polve una baramisera fra roche preghiererecava il cadavere esanguedal vólto scopertosimile al giallore del croco.Alzato il teologo macrosu la piazza pulverulentaa lenoni e vinai disvelavacon stridula voce il misterodel dio senza muscoli. E i pretiscaltri, nelle tuniche sparsed'untume nauseabondi,al loquace inespertosorridean d'un perfido risopettinando con l'unghiericurve le luride barbe.

Diana Lafria, scomparsoera il tuo tempio agile a specchiodel golfo. Correa per ladremani pecunia dolosa,più vile del cencio e del timo.Oh effigie di glorianel chiaro metallo battuto,

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quadriga trionfale,deità astata, spicaopima, prora invitta,terrestre e marina potenzanel fermo rilievo inconsunto,propagata bellezzadi acropoli vittoriose!Non gli Apolloniastisu le triere dipinte,né i mercatanti di Tironel segno d'Eràcle, né i Coi,né i Rodii, né gli Ateniesidi belle parole eran quivi;ma frode e fame in agguato.

E nella notte illune,quando s'accesero i farie il libico soffio si spensee i siderei fochiincoronarono i montie s'udi lontana la vocedel mare di là dai macignidei moli, noi tristi ridendoe cantando seguimmoil prossenèta per cupiangiporti graveolentiin cerca di meretrici.E disse un de' cari compagni,mentre un gabbier fulvo e nerbutoreceva il suo vin resinato

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alla soglia del lupanaretra afa d'amaro sudore:«La résina geme dai pinidell'Ida, ove Paris pascendoi buoi sogna Elena di Spartache ancóra ei non vide, promessa!».

I marinai dal colloignudo, gli stradiottibracati, i battellieridal braccio di bronzo e dal dorsoincurvo, le flosce bagascedalle guance rosse di fucovile, i bardassoni più mollidelle femmine espertiin muovere l'anca, la schiumadel porto, la melma del trivio,i nativi e i metècie gli stranieri approdatida un'ora, accesi di foia,tumultuavano al lumefumido delle lucernegrasse, tracannavano il vinomalvagio e la mastica arzente,mercavano copula e lueper mezza dramma. E gli sguardicome i getti della salivalucean sul carnaio in fermento.

Quivi, al dir del buon prossenèta,

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giunta era una donna di Pirgoformosa, nel fiore degli anni.Ma non degnava ella bearedi sua forma l'ebra ciurmaglianella fumosa tavernaaspra d'urli rauchi e di pugnipercossi. In penetraleremoto, su candido letto,ella attendea lo stranieroopulento, il navarcamagnanimo, o l'alto signoredei latifondi patrensi.Salimmo allora la scaladi putrido legno, varcammola soglia segreta; e la donnadi Pirgo ci apparve nell'ombradel letto, piccola e pingue,simile a gravida capradalle molte mammelleolente dell'irco suo sposo.

Niuno di noi appressarsiardiva alla femmina elèa.Ma uno dei cari compagnile parlò con attico accento:«O femmina elèa,non nel Minyeio d'Omero,nell'ingiocondo Anigroche scorre tra il Minthe e il Lapitha,bagnasti il fior di tue membra?».

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Ridemmo in giovine coro.Ella gustar l'attico salenon seppe, e scagliò contra noil'ingiuria e i sandali. Alloraci ritraemmo, con narioccluse giù per la scaladi putrido legno. Repentebrancolò nell'acretenebra ver noi una manoignota. Qual voce d'anticosepolcro imprecava per famenovella? Ristemmo, perplessi.

Al breve bagliorescorsero i nostri occhi mortalil'eterna tartarea facciad'Atropo che taglia lo stame,dell'inevitabile Mira?Sparvero l'inganno dell'orapresente, l'angustia del luogo,il turpe clamore degli ebri;e tutti i secoli mutiche avean travagliato quel vólto,incanutito quel crine,sfatto quella bocca vorace,smunto quel seno infecondo,curvato quel dorso di belva,scarnito quell'avida branca,sepolto nell'orbita cavaquell'occhio ancor semivivo

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senza cigli ingombro di saniee lacrimoso di sangue,i millennii d'onta e di luttooppressero il cuor mio vivente.

E l'anima mia nel mio cuoretremò d'infinita tristezza,come innanzi all'aspetto seniled'una già cognita gente,di sùbito apparsomi in fondoal funebre specchio dei tempi.Ma risero i cari compagni.E nell'artiglio protesodalla famelica lènaio posi ridendo una dramma.Mormorò ella parolebuie tra le vacue gengivecon la sua voce di tomba.La grande sua bianca crinierasi dileguò nella notte.E noi scendemmo la scaladi putrido legno. Cedetteun de' gradi all'urto del piede,s'infranse con gemito. Oh dolce,dalla soglia del lupanare,mirar le vergini stelle!

E disse un de' cari compagnitornando alla nave ancorata:«Aedo, tu désti la dramma

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a Elena figlia del Cigno,che fatta è serva millenned'una meretrice di Pirgo».Vidi il pastor frigio su l'Idapascere col flauto l'armentoall'ombra dei pini chiomosi,innanzi che in talamo eburnoei s'avesse Elena di Sparta.E disse il compagno: «L'estremoEroe cui ella soggiacquenomavasi, come l'idèorapitor suo primo, Alessandro.Su quella zona terrestreche si protende arenosatra il Mediterraneo Maree il Mareotide Lago,il giovine Eroe la premette;e fu la lor prole Alessandria».

Alessandria! Alessandria!La forza la gioia la gloriadel trionfatore d'imperie il van balbettìo faticosodel calvo grammatico! Io dissimeco: «Se ancóra l'improntadei lombi divini rimanelaggiù nella sabbia palustre,io andrò andrò adorante».Parlava la voce del sogno.«Votò l'Eroe la sua vasta

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coppa. Meditò taciturno.Votare la coppa ei solevadopo sovrumane fatiche.Da lui stanco il vino traevauna onniveggente potenza.Ei vide le Forze immortalisalir dalla terra e dal ponto.Tra il Mediterraneo e il Lagosegnò taciturno le sortidella Città nascitura.

I Continenti oscuratieran sotto l'ombra degli altipensieri. Ei vedea la ricchezzadei regni versarsi infinitasu l'Arcipelago azzurro,dalla Città nascituracome da corno inesausto.E vennegli Elena per l'acquedai lidi argivi incurvatisecondo la forma del labbroledèo; sorridendo gli venneElena di Sparta che Achillebramò; venne a lui col nepentela bianca Tindaride; vennerecando nel cinto il profumodell'Ellade caro al signoredell'Asia. E il Macedone scossela figlia di Zeus nudatasu le fondamenta fatali.

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E fu quegli l'estremoEroe cui ella soggiacque.

Poi fu polluta per nottie notti, tra il sangue e l'incendio,dai centurioni di Roma,premuta fu sotto le squammedelle loriche pesanti.Punsero l'ispide barbela sua mammella rotondache dava la forma alle copped'avorio pei convitidei re. Nel suo ventre convulsoruggire s'udì la lussuriacome rombo in conca marina.Da sola ella fu la suburraaperta all'esercito in foia.Fu manomessa dai servi,dai ladroni, dagli omicidi,dai profanatori di tombe,dai mercenarii fuggiaschi.Calpesta in polvere e in fango,lambì con la lingua lascivale calcagna dei violenti.

Soffiò dovunque il suo fiatocome insanabile peste.Accrebbe i nomi del vizio.Fece innumerevoli i nomie i modi, maestra di spintrie

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pei Cesari enfii di murenee roscidi di purulenza.Vecchia d'indicibil vecchiezza,tentò se le mille sue rugheservir potessero a qualchepiù mostruosa lascivia;ma, come in solchi di sabbiasol cresce la crambe marina,crebbevi sol la vergogna.E fu di postriboli cencio,nettò dai vòmiti i letti,gittò nel rigagno del vicole rosse urine e lo sterco,spezzò il suo ultimo denteper rodere gli ossi ed i tozzicontesi alla cagna scabbiosa.

Or tu la vedesti alla portadi quella femmina elèa,crinita di grande canizie.Fu sua sapienza la frode,sudore di opere infamine' secoli fu suo lavacro;e tuttavia biancheggiareor noi la vedemmo nell'ombra!Come neve su volutabrosta su lei la grande canizie:attonito l'occhio la mira.Ahi fior di bianchezza sublimeche alle Scee mirarono i Vegli!

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Aedo, tu désti la drammaa Elena figlia del Cigno.»Così, questo sogno sognandonell'amarissimo cuore,tornammo alla nave ancorata.E poi ci colcammo sul ponte,il sonno invocammo dall'Orse.Tal fu la notte di Patre.

VI.

Il fiato degli uomini vilifuggimmo, l'odore e il clamoredegli Efimeri imbelliche quivi apparivano comela lebbra sul sen di Afrodite,la stupidità su la frontedi Pallade, negli occhidi Febo la sanie cruenta.O vigne immense eguali,pascoli d'api, coi verdipampini illanguiditidall'aridità presso il mareceruleo dove Zacintoignuda natava in silenziocome la sirena delusache virtù non ebbe d'attrarreai carmi la nave d'Ulisse!O grappoli sparsi in su l'aie

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quadrate per cuocersi al sole,densi e violacei comeil crine sul collo di Saffo!

Cipresso, e parvemi allorasoltanto conoscer la tuameditabonda bellezza,commisto al palmite ricco,sul fianco dei colli silenti,su le correnti dell'acque,in contro al zaffiro sublimedei monti creati alle sogliedell'aria dal flauto di Pan!Oleandro, e allora t'elessiin riva ai ruscelli fioritoper inghirlandar la mia Musache ama danzare e lottare,che tratta l'incudine e il sistro,che onora la grazia e la forza,che loda il pastore e l'eroe;t'elessi, oleandro, ti colsiper redimir le mie tempiedi rose e d'alloro in un ramo.Non mai parso m'eri sì bello!E un altro da me canto avrai.

Peregrinammo da Patrealla città santa d'Olimpia,al tempio di Zeus Cronidecon chiusa l'offerta nel cuore.

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E tacita era la via;e il Sole inclinavasi all'ondaoccidua, con riaccesadivinità, Elio nomatoper noi, Elio d'Eurifaessa.Ed èramo senza parola,tacenti, ma d'una celestemelodìa pieni il pettomortale. E talora dai montiaerei venivan messaggiper l'aere; e noi rendevamol'orecchio, attoniti, ai suonidi Pan. Disse un de' caricompagni: «Nel plenilunioche segue il solstizio d'estatela Festa ha principio». S'udivadietro a noi fragore di carri.

E d'improvviso tuttala valle echeggiò di fragorecome d'un émpito d'acqueirrompenti da cataratteaperte su l'Elide. E il gridoumano e il nitrito anelantesquillavano sopra il fragore.«Per vincere vincere vincere!»E ci volgemmo. E vedemmotra nembi di splendida polveuna moltitudine immensad'uomini, di cavalli,

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di carri condotta da milleVittorie che armavano il cielod'un fremito aquìleo, nubedi penne di pepli di chiomeimpetuosa volantein aura di giovinezza.«Per vincere vincere vincere!»E tutto il Peloponnesotremò come foglia di gelso.

Era su la via santala forza dell'Ellade, mossada un ramo d'ulivo selvaggio!Era il fior della stirpequadruplice, la concordee discorde anima ellènaprotesa verso il sertoleggiere d'ulivo selvaggio!Ionii e Dorii, Eolii ed Achei,il sangue d'Atene di Spartadi Tebe d'Elice d'Ege;le genti insulari di Nassodi Sèrifo d'Andro, di tuttele Cicladi; e i potentidi terra lontana, i tirannisicelii, i re di Cirene,i grandi oligarchidelle città di Tessagliae quei di Metaponto di Veliadi Sibari di Posidonia

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ambivan l'ulivo selvaggio!

E gli alti carri dipintirecavan le offerte votive:le decime tolte al bottino,le arche di cedro e d'avorio,le tavole i tripodi i vasile lampade d'oro e d'argento,i tori e i cavalli di bronzo,i rudi colossi di pietraavvolti in lini trapunti,e le spugne il nitro la cerala pece gli aròmati gli olii.E tutti, città, re, strateghi,atleti, sacravan le offerteper vincere o per aver vintonello stadio o in pugna campale.Gli Eretrii i Sicionii i Messeniigrondavano ancóra di sangue.Le prede raccolte a Platèaeran fuse in un simulacro.La strage l'onta il servaggiofacean trionfali i metalli.

O Temistocle insonne,del gran Laertiade alunno,spada battuta a freddo,noi ti vedemmo sul carroche Atene ti diede, ben saldocome su trireme rostrata;

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e in te l'acuto sorrisoera qual tempra nel ferro.E te, Pericle, anche vedemmo,o artefice della saggezza,te nato d'occulta sirenae di colui che a Micalefu vincitore nel nomed'Ebe giovinetta ridente;te anche vedemmo, che avevinel gesto nel passo nel verbonella cesarie ornatal'ordine divino onde fulgela pura colonnanei Propilèi di Mnesìcle,nel Partenone d'Ictìno.

Ma Alcibiade, lo snellopantère versicoloreche Diòniso amicoèccita col batter del piede,l'auriga che al carro dall'assed'oro agitava i cavallipiù rapidi, chiamammoper nome. Grandissime offerteei seco recava, ricchezzeinsigni, per dareper dar grandemente. Io gli chiesi:«E alla Vita che tantoti diede, or tu che darai?».«Darò la mia statua scolpita

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dalle mie mani.» «E qual gioiati parve più fiera?» «La gioiad'abbattere il limite alzato.»«Qual fu il tuo buon dèmone?» «Il rischio,il rischio dagli occhi irretorti.»«La buona virtù?» «Il piè leggero,Ospite, il mio piè leggero!»

E gli strateghi i navarchigli arconti passavano in carridall'aureo timone, e i cantorii sapienti gli alunnidi Clio gli artefici espertidi tutte le forme, coloroche foggiavan la sorted'un popolo vivo, coloroche animavan l'umida argillacol pollice nudo, coloroche trasfiguravan gli aspettidell'Essere con l'eloquenza.E vedemmo Erodòtodagli occhi d'intento fanciullo,che seco recava al consessodell'Ellade i rotoli gravidi gloria come i fiarison pregni di miele. VedemmoIppia e Gorgia, vedemmoDemòstene Isòcrate Lisia;invocammo Pindaro invano.

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Ma splendean come astri nell'etra,come le Pleiadi e l'Orsa,nella moltitudine immensaquattordici atleti. Il fulgoredei sette e sette epiniciiardea nell'eroico sangue.Perpetuavasi il ritmodell'olimpica Odenei polsi del pùgile. L'aladella triade saglientearmava i mallèoli certial corritore del lungostadio. Ecco il bello Efarmostod'Opunte, Ergotèle d'Imera,Psaumida di Camarina.Ecco Agesia Siracusanodella profetica genteiamide, di Sòstrate prole.Ecco Alcimedonte egineta,d'Egina dai grandi navigli,della blepsiade gente.

E d'improvviso apparvefiammeo di porpora coa,pari a inestinguibile vampa,nella moltitudine solo,più solo dell'aquila a sommodel monte, il monarca degli Inni.«Aquila, aquila» io dissi«onde torni sì radiante?

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M'odi! Rispondi! Per gli astri,pei vulcani, pei lampi,per le meteore, per tuttociò che arde, per la setedel Deserto e il sale del Mare,odimi, volgiti all'ansiapedestre. Ch'io senta il tuo sguardoe il tuo grido fendermi il petto!Aquila, onde vieni?» «Dal Sole.Battei l'ali su la cervicedel suo corsiere più biancoper affrettar la sua corsaall'ultimo Vertice azzurro.»

VII.

Non templi non are non tombenon statue votive, non greggidi vittime, non teoriesolenni lungh'esso il Pecile,né il coro dei bronzei fanciullisacrato al Dio da Messanané l'opra di Càlami offertada Agrigento, né il torodegli Eretrii, né la Vittoriadi Naupatto ammirammogiungendo ai piedi del Croniopinifero; ma una bellezzavirginea come un canto

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partènio, diffusanella placida sera,c'indusse una sùbita pacenel cuore, e il tumulto si tacque.E sol riudimmo vegnentedai gioghi d'Arcadia il messaggiodi Pan che conducene' tempi il Ritorno eternale.

Arcadi monti, alpe d'Acaia,messenie cime, o chiostradella valle sacra,vivere mi sembrastevoi contenendo la vocedella placida sera,vivere come i senidelle vergini intatteche cantano il canto partènio!Un melodioso respiroparea muovere i grandilineamenti all'intornoe, come per una boccadischiusa, il visibile suonovolgersi al ciparissio golfoin figura di fiumedeclive e l'Alfeo violentoinebriato d'amorecon Aretusa giacersiquivi in sul medesimo lettoobliando il corso rapace.

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Eternità del Canto!Concava tutta la vallecome la testudine d'Erme,d'innumerabili cordefatta immensa, cantavaancóra il callinico innoai Giovini vittoriosi.La lotta dell'invide stirpiplacavasi nella bellezza.Nell'armonia numerosaposava la rapida forza.L'orma dei cursoriavea la forma del plettro.Il disco lanciatocangiavasi in ala robusta.Il pentatlo e il pancrazioerano i fulcri dell'Ode,come il tripode solido reggelo spirto prenuncio dei fati.«O Ellade» io dissi «il tuo Coroè più delle stelle perenne!»

E, poi che al Cronio la nottegemmò di stelle la fronte,solo discesi là doveil Clàdeo breve si mesceall'Alfeo tortuoso,verso le pietre infranteche mute dormivan sul suolo

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augusto, simili a tormedi atleti dalle biancheclamidi nella vigiliadei Giuochi sotto il pleniluniod'ecatombeone giacenti.Quasi un baglior d'occhi insonniparea palpitar nelle molidissepolte; e d'orroretremavami l'anima in petto,andando, ché toccar temeacol piede incauto la vitaeroica meditanteal conspetto degli astrilo sforzo per l'alba ventura.

Tra le mozze colonnedel tempio di Era m'apparvela tavola d'oro e d'avorioopra del sottile Colòte,ove gli Ellanodiciponean le corone d'ulivoselvaggio. Alle narimi giunse l'odor delle caldeceneri sacrificaliche faceano un tumulo ingente.Vestito di lino era il miosilenzio. Giammai nei periglil'anima mia s'era armatadi sì vigile ardirecome in quell'ora di sogni

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tra quelle notturne ruine;ma quasi un marmoreo rigoreparea m'occupasse la carnemortale. Guardai le mie maniignude e di pallido marmole conobbi al lume del cielo.

E l'ambiguità della mortee della vita, fra i templiabbattuti, fra i dubiialiti, fra i sogni creatie distrutti, fra le parvenzeintermesse, mi feceimmobile innanzi alle accolteceneri delle ecatombiche insanguinato aveano l'aradi Zeus nelle remoreolimpiadi e nudritoil suo inesplebile fuoco.«O Zeus, Tiranno più grande,sei dunque caduto per sempre?Te sire di tutte le vociterribili il grido iteratodalla scitica rupesconvolse? Lo scaltro ti vinse,che il muscolo e l'adipe ascosiavea nella pelle del toroper sottrarre l'ostia al Potente?

Gli Efimeri onorano il càuto

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Ribelle, obliosi del tuoOrdine puro che sologenerò l'Universo!La piaga che sanguina e putenell'egro fegato, sottoil rostro del vùlture adunco,ai lamentevoli figlidel Rimorso e della Paurala piaga la piaga stridenteahi più venerabile sembrache la solitaria tua fronteonde balzò l'unica nataPallade Atena dagli occhichiari vergine prodeartefice meditabondapatrona dei vertici fortinemica del cieco tumultolucida regolatricedel combattimento ordinatoche reca al sicuro trionfo!

L'odor della carne corrotta,del sudore anèlo,della febbre, dell'agonia,della putredine ha vintol'ambrosia della tua chiomasu' tuoi grandi pensieriondeggiante, o Generatoreincorruttibile. E i servi,i liberati servi

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inclini al sentier consuetodel fango, che ne' lor cuoriignavi agognan pur sempreil servaggio, scagliano controa te la saliva e l'ingiuria.E il lor fiato perversoappesta fin l'aer montanointorno alla scitica rupeonde il tuo Nemico furacenauseato vomiscesu loro. E l'Oceano lavala graveolente lordura.

O Zeus, padre del Giornosereno, quanto più bellodel vincolato ululanteGiapètide parveti il montesilenzioso, di vastevertebre, fresco di polleinvisibili, aulented'inespugnabili fiori!Numerava il piagatocon rauca voce i tuoi moltidelitti; e tu sorridevi,nella tua superbia, più purodell'aerea rugiadaperò che ciascun tuo desìosi mirasse perfettonell'atto e ciascuna tua stilladi sangue fosse un'eterna

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volontà protesa a un supremoOrdine e sol d'armoniasi nudrisse la creatricetua gioia, d'aurora in aurora.

Zeus, se più bella ti parvedell'Uom vincolato la rupealta silente nell'etra,più bella dell'Uom crocifissoè la croce, segno del Fuocoprimiero ch'espressero gli Ariidal ramo duplice attrito.Deposto il cadavere mollefu di sul segno infamato;ma i cinerei servimoltiplicarono il tristosimulacro in tutte le viedella Terra ove i carrifalcìferi della Potenzaprofondato aveano le rotesonore e le falci coruschenel carname dei vinti.O Zeus, o Zeus, t'invoco.Risvégliati, afferra il domani!La fiamma urania ti siavomere a solcare la Notte.

Travaglia travaglia la Notte,o Re folgorante! Sovvertila tenebra! Fendi il pallore!

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Tu solo mondare la Terradal cumulato escrementopuoi, come la noce dal mallose per la tua grandezzaè come la stilla di latteespressa dal fico immaturoGalassia che immensa biancheggia.O Zeus, Tiranno più grande,tu carico di delittie d'oltraggi, ingombro di prede,tu solo sei l'alta Innocenza.Risolleva l'Olimpoe poi risorridi alla Terra.E, come a sua donna l'amatooffre una cintura più bella,rinnova per lei l'orizzontecui volgere io possa la prorascolpita cantando il mio canto!»

Così pregai nel mio cuorenotturno, fra i dischidelle colonne atterrateche un dì avean chiuso il portentofidiaco. «FIDIA FIGLIUOLODI CARMIDE ATENIESEMI FECE.» E, come il tremanteartefice innanzi al compiutosimulacro, attesi nel tuonoil consentimento divino.Ma silenzioso fu il cenno

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del dio che vivea nel mio pettoe nella olimpica notte.E della notte remotasovvennemi, del giovinettodeliro che s'ebbe i due donida Libero e da Citerea,il tumido grappolo e il senofemineo, quandolaggiù su l'incude celestesfavillava il cuor del titano.

E dissi: «O Zeus, tu anchetu anche mandami un segnosu le vie della Terra.Per togliere tutti i miei beni,per cogliere tutti i miei pomi,improbe fatiche sopporto,mostri multiformi combattoche mi precludono i varchi,ma più terribili quelli,ahi, ch'entro me di repenteinsorgono dalle profondeoscurità dove torpeil fango delle geniture!».E, movendo i passi per l'Alti,scorgere parvemi l'ombradell'indovino di Zeus,il responso udire improvviso«Combattere e vincere i mostrinon ti varrà su la Terra

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se trasfigurarli non sai,Aedo, in fanciulli divini».

E i campani d'un greggesonavan tra i marmi abbattuti.Subitamente si tacquein me l'audace tumulto,come se la preghieraaccolta mi fosse e compiutoil desiderio e mutatogià l'orizzonte in cinturapiù bella e mondata la Terrae disvelata la facciadi Pan che conducenei tempi il Ritorno eternale.E un fanciullo pastorem'apparve, il pastore del gregge:simile a riflesso di stellain tremule acque m'apparveil puerile sorriso.Al lume dei cielibiancheggiar vidi i suoi dentipuri nel saluto venusto:sentii la rugiada cadere.

Volto avea Boote l'obliquotimon del plaustro fra i Trioni.Sì lucida era la notteche gli arbori su le collineleggere di là dall'Alfeo

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segnavano l'ombrevisibili. Tanto era dolceil lineamento dei gioghiche parea, come il fiume,continuamente fluire.Giaceva sul dorico tempioil gregge lanoso;gli umili velli ed i marmiaugusti in tepore spiranteparean convivere. Tuttoera plenitudine e pace:non morte, non ruina:armonia di forme perfette,concordia del Coro infinito.Necessità, come l'urtodel piè nella danza tu eri!

Su l'erba colcato il pastorepoggiava il florido capoal tronco d'un platano. E quiviio vigile stetti al suo fiancoin silenzio. Ed èramo voltiai monti d'Arcadia, all'indiziodel di nascituro. E il fanciullomordeva mentastro odoroso,scendendogli il fiore del sonnosu' cigli virginei. Caddegliil ramicello selvaggiodalla bocca aulente che al fiatoeguale si schiuse. La valle

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parve tutta allora una cunadivina per quella innocenza.Vidi su i vertici l'Albaavvolgere al piè della Notteil lembo del suo primo velo.D'amore tremai come s'ellaver me si piegasse e dicesse:«O tu che m'attendi, io ti cerco!».

VIII.

Alba apparita dal sacroCillene, il mio canto novellosalire a te non si ardisce;ma tu risplendi per sempresu le mie sorti guerrierefreschissima confortatrice!Da te beve come da un fontel'arsura della battaglia.Stendere tu suoli il tuo velosu la mia febbre animosa.Ti guardo allor che il periglioè presente, ti guardoallor che mi stringe il dolore,ti guardo allor che m'accingoa scuotere l'anima miacome arbore troppo gravatodi frutti maturi,e dico: «Il mio giorno incomincia»

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con ineffabile gaudioentro me udendo il respirolene del divino fanciullo.

Lui sotto il platano, ancóradormente, lasciai tra il suo greggenell'Alti. E come dal cavocòrtice sgorga la copiadel miele e liquida colagiù pel tronco insino alla ceppa:la flava ricchezza adunatadall'api sembra una gommapingue che gema dal cuoredell'arbore, dono agli umani:così la sua grazia facearicco il platano sterilee quasi apparia stirpe d'oroprodotta co' i rami e le frondinaturalmente alla luce.Tacito partìimi, nudatoi piedi, per mezzo la biancastrage dei marmi, scendendoa riva. E la veste di linoerami grave. Mi scinsi.Palpitai nell'aere chiaro.

Con qual grido in me riconobbil'antica natura dell'acquascagliandomi nella correntedel mitico Alfeo!

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Correva quel fiume in gran lettoghiaioso ardente consparsodi platani di tamericid'oleandri selvaggi;e le cicale col cantoe col susurro le frondiaccompagnavano il crosciorobusto del rapitore.«Io Arethusa, io Arethusa!»Agili guizzavan nel geloi muscoli all'impeto avversoresistendo; ma d'improvvisoper tutta la carne un'azzurrafluidità mi ricorsee i muscoli furon su l'ossacome i fili dell'acquaturgidi contra le selci.

E non più lottar volle il corpoa nuoto ma cedere tuttoalla rapina sonora,ma essere quella rapina,ma perdere il limite umano,espandersi fino all'alpestreorigine, correre a valledal monte, ritorcersi in lunghimeandri, polire le rupi,l'erbe inclinare, i campirodere, scalzar le radici,detergere il gregge, di schiume

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fervere, tingersi di cielo,splendere di raggi, gonfiarsidi tributi limosi,il limo deporre, chiarirsicom'aere gelido, in ognigoccia crescere impeto e brama,contro il Mar che agguaglia afforzarsidi rapidità, fiume eternopersistere nell'amarezza.

«O Alfeo d'Aretusa, più vastecorrenti solcan le valliterrestri, il Tànai estremodirime innumere stirpi,termine d'imperi è il profondoIstro, il settemplice Nilotrasmuta le arene in immensebiade e specchia ardui sepolcri.Ma sol tu sei regnatorenel mito, bel re cristallino!I più grandi beve per semprel'inevitabile ponto.Morte informe in pèlaghi estinguetanta forza irrigua. Tu solo,rena d'amore immortalepalpitante nell'amarezza,tu solo persisti e trascorri,puro qual nascesti dal fonte,al segno del tuo desideriolontano. O Alfeo d'Aretusa,

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ch'io sia come te nel mio mare!»

Mi mossi allora, tempratodal limpido gelo, mi mossiai dissepolti simulacriche il triste ricovero chiude.Pio pellegrino, le rosedel laurigero oleandroe il fior violetto dell'agno-casto io colsi tra le ruine.Tutta la valle ardevadi fiamma cerula, e il cantodelle cicale era comeil suono del foco celeste,talor come il crèpito chiarodegli arbusti arsi, dei fumantiaròmati. La magra terrafumava ed auliva d'incensicome il sommo dell'ara.La cenere delle ecatombisvegliarsi pareva in faville.Tintinno di tetracordiera il vento etesio nei pini.

O Ippodàmia, nel rottofronte del Tempio giacente,io vidi te solatra Pelope e i quattro cavalli,orrendo virgineo silenziochiuso nella gravezza

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del dorico peplo. Constrettanelle pieghe rigide comenelle ferree dita del Fatoeri, o figlia d'Enomào.Ma il pensier tuo, sotto i foltiriccioli simili alle uvedella bimare Corintomèta alla corsa fatale,immobile viveanel fiammeo soffio dei quattrocorsieri già pronti col carro.E non ebbe il Cillenenon il Taigeto un abissoterribile come il tuo grembointatto che Pelope amava.

Perché di sùbito amoreanch'io t'amai, genitriced'Atreo? Perché nella memoriami giganteggia il tuo peplosimile alla scorza d'un mondo?L'imagine in te ritrovaidella perigliosa Bellezzache di sé m'accese e m'accende,virginea nel rigoredel suo vestimento ordinato,urna di tutti i mali,profondità di doloree di colpa, remotacagione di lutti infiniti,

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funesto silenzio ove ruggeebro di lussuria e di stragel'umano mostro nudritod'inganni pel labirintodei tempi. L'aspetto sublimedell'Ombra cui l'arte m'è fisain te raffiguro, Ippodàmia.

Tra l'eroe preparatoe la fremente quadrigatu stai, piena il fianco regaledi fertilità spaventosa,guatando la via dove spenticaddero sotto le ruotedei carri i tuoi chieditori.E il tuo padre in segreto ha famedi te; e il Tantalide è certodi premerti, al tramontodel sole, nudata e superbasopra le sue pelli di belve.E tu sei vergine ancóra;la tua cintura ti cingedi sopra il ventre velato,come il cerchio tacito giraa sommo del gorgo.Ma Tieste e Atreo nasciturie la cruenta progeniee il peso carnal dei delittigià t'affaticano il grembo.

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E dalla tua bianchezzaimmobile, o Statua scultapel fronte sereno del Tempio,erompe il furor degli Atridi,propagansi l'odio fraternoe la libidine incestae l'ebrietà dell'eccidioe i singulti e gli ululi e i lagniche trae dalle fauci umanela cieca percossa del Fato.O Ippodàmia, e lungialla tempesta dei malinella dolce luce un divinocigno canta il suo giovenileinno verso la Morte.«Recate i canestri! Versatesul fuoco l'orzo lustrale!Conducete vittima all'arame trionfatrice dell'altaIlio! Coronatemi il capo!All'Ellade io do la mia vita.»

Chi dunque canta? La stirpedi Pelope, Ifigenìa,l'Atride cara ad Achille,ebra di gloria, futuraluce dell'Ellade, innanzialla moltitudine in arme,andando pel florido pratoverso il bosco sacro

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d'Artèmide. «Per la mia patriae per tutta l'Ellade io muoio!Ma degli Argivi alcun non mi tocchi.Tenderò la gola in silenzio.»Ed Achille, preso il canestro,tolta l'acqua, circa l'altarecorre invocando la deaper le navi e per l'aste.Rapisce la dea, sotto il ferrodel sacrificatore,la vergine intatta. Prodigio!Su l'altare palpita occisala grande cerva montana.

In alto, per l'incolpato Etra,per la via de' vènti e degli astri,la suora d'Apolline recanelle candide bracciala nata del sangue d'Atreo,o Ippodàmia, lei dormienteadagia su i gradi del tempiotàurico fatta più bella!Tal, figlia d'Enomao, che staitra l'eroe preparatoe i quattro corsieri anelanti,videro i miei occhi novelliilluminarsi l'anticomistero cui veste il tuo peplo.Un'armonia inauditacongiunse allora nel sogno

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la rigidità del tuo marmoalla flessibile forzain me viva; e sorsero accordisenza numero bellitra i miei spini e i miti divini.

Ma la parola dell'uomoè tarda in seguir dagli abissiai vertici l'avvolgimentodell'anima alata.Espressa in ardore di suoninon ho la figura che nutrodella mia midolla più forte,o Statua scura pel frontesereno del Tempio,né detto perché la tua freddapietra si muti ai miei occhinella sostanza infiammatacui l'arte mia teme e travaglia.Chi mai dunque sotto il velamescoprirà l'imagine ascosa?Forse colui che, espertoe vigile, ode in un soffiodel vento rivivere i morti,rigiugnersi le parenteleobliate, sotto l'incautaprole ansare il sen della Terra.

IX.

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E l'Erme prassitelèosul fulcro quadrato mi parvemen virile, quasi fior molledi grazia feminea, quasidesiderabile amàsio,andrògina forma venusta,poi che saziato mi fuidi grandezza e di lutto.Il torace il ventre ed il pubenon marmo erano ma carnecedevole. Il nitido capodai riccioli corti, reclineverso Diòniso infante,nella levità del sorrisoe dell'ombre era ambiguotra il sogno e la vita, siccomequel del pastor duplice alatoche guida le anime all'Orcoe il rapito armento al suo antro.Dai ginocchi agli òmeri in ritmileggeri saliva la forza.

Ma, poi che da banda mi trassie riguardai, la forzasi palesò nella guisache l'arco allentato si tende.I lombi gagliardi, le coscenervose, le reni falcatee salde, la cervice

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robusta eran degni del dioenagònio. Gravandosul piè manco il peso del corpodivino, ei reggeva col braccioinflesso il pargolo ignudo.Ei giovine assunto alla formaperfetta portava il nascentegerme inteso a spandersi in gioia,a sorgere nella pienezzadell'essere e della potenza.Così per visibili segniraffigurata mi parvenel Divenire Eternol'immortalità della Vita.

«O figlio di Maia» pregai«figlio dell'Atlantide Maiadall'affocata faccia,che onoro notturna fra gli astriPleiade dai sandali bellidal crin di giacinto, che invocofra le sue sorelle celesti,odimi, o Criseotarso,Amico degli uomini. Scendidal fulcro quadrato,àrmati del pètaso il capo,allaccia gli aurei talariai mallèoli, teco toglila verga di tre rampolli,la lunga clamide, l'arpe

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lunata, la borsa capace,e vieni tra gli uomini. Seipur sempre il lor nume operoso,il dio dal gran cuore, l'artiereinfallibile. Vieni!Udrai e vedrai maraviglie.

O Agorèo, cui piacquetrattar con vólto benignoi mercatori in piazzasolleciti intorno alle biadedell'Attica magra, la Terraè oggi un'àgora immensaove non si tendono retidi belle parole ma guerrasi guerreggia furenteper la ricchezza e l'impero.Duci di genti son fattii tuoi mercatori ingegnosi,duci inesorabili e insonnidal breve motto che scrollacumuli enormi di forza.Sul flutto dell'oroondeggian le sorti dei regni.Come l'aere l'acqua ed il fuoco,fatto è l'oro un perigliosoelemento che ha i suoi nembi,i suoi vortici, le sue vampe.

O Infaticabile, e sonvi

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terre novelle, agitatedall'alito aspro dell'anticoOcèano, dove l'umanaopera è qual rabida febbre.Il vento è qual bronzo che squilli,il vento è qual riso che ridaqual gioia che cantisu la magnificenza e l'ontadegli atti. Il verbo è una lamaaguzzata a duplice taglio.La gara, che tu proteggevinelle fulve palestre,divora le vie strepitose.Gli uomini dalla mascellabelluina e dal mentodi selce màsticano l'ansiaqual foglia amara d'alloro.La Volontà reca intrecciatia sé il Dominio e il Piacerecome i serpi al tuo caducèo.

L'Istinto è un impeto sagliente,un ariete calorosodalle inesauste reni,che si precipita soprala vita e l'assalee la copre e sì la fecondareluttante o sommessa.Passan talora su le rossecittà nuvole di speranze,

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quasi tempesta di ali;e s'empion d'un rombo gli orecchidegli uomini maraviglioso,ch'è il rombo degli inni futuri.Le mammelle irrìguedella Terra moltiplicarsipaiono alla cresciutaavidità della prole.Il Destino toglie da tuttigli spazii i suoi limiti, vintoe respinto per sempredalla libertà degli eroi.

O Macchinatore, e una stirpedi ferro, una sorta di schiavifoggiata nella sostanzalucente de' clìpei dell'astedegli schinieri, una servamoltitudine di Gigantiimpigri obbedisce ai fanciullie alle femmine, meglioche su triere veloceal celeùste la ciurmaunta di olio d'oliva.E non il flauto né il cantoregola il moto con ritmoeguale; ma una potenzache non falla, simile al sanocuore nel petto dell'uomo,pulsa in quelle ossature

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polite e circola in ognimembro con giro iteratoaccelerando il lavoro.Gran fremito scuote le case.

M'odi. Il gesto del pazienteilota, che trita la speltao il latte agita nel secchioo scardassa le lane,s'immilla ne' ferrei braccinelle ruote dentatene' lunghi cuoi serpentiniche per girevoli dischitrascorrono propagandol'impulso ai congegni sottilionde l'informe sostanzaesce trasfiguratacome da industria sagaced'innumerevoli dita.O Erme, i telai della lidiaAracne diurni e notturni,ove come rondini argutevolavan le spole,travagliano senza canzonedi vergine e senza lucerna,soli in ordin lungo strependo.

Il sudore d'Efèstosu la piastra imposta all'incudeprofuso, è ormai vano

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o Erme, ché nelle fucine,come la man puerileincide la tenera cannao divide le fibredel cortice lieve, l'ordignofacile taglia distendeassottiglia fóra contorceper mille guise il metalloammassato in solidi pani.Odimi, o Inventore.E i magli, i magli più vastidelle rupi che il lacertosoCiclope scagliò contra Ulissetuo caro, invisibile pugnosolleva e precipita in ritmoagevolmente comeil fanciullo manda e ribattevolubile palla per gioco.

Gioco di fanciullo era a poppadel nautico pino il chenisco,l'anitrella scolpitanella curva trave spalmataperché galleggiasse in eterno.O Erme, nave catafrattaor galleggia e naviga senzavele né remi. Discendepel pendìo dello scalonel mare compagine eccelsacome cittadella munita,

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corbame e fasciame di ferrotestudinato di piastraa martello più saldache orbe di settemplice scudo.Gran torri soperchiano il vallo.La carena ha un cuore di fuocoonde creasi la propulsantevirtù dell'ali marineche tùrbinan sotto la poppatra ruota e timone sommerse.

Atto alla guerra e alla pace,minaccioso d'armi tonantio dei doni onusto che all'uomofa la veneranda Demetra,il colosso equoreo solcapèlaghi ed ocèani, varcagli eurìpi i bòsfori i sacriistmi che l'uom frale recisecome tu dio con l'arpeil collo d'Argo tutt'occhi.Oltre le Caspie Porte,oltre l'Atlante ove il corodelle Esperidi per sempresi tace, oltre la piaggiadel Cinnamomo trapassa.Lascia l'iperbòreo litoove non più danza e cantaApolline dall'equinoziodi primavera insino

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al levar delle Pleiadire dei conviti soavi.

Di Taprobane a Iernedi Cerne all'Ocèano Eoola sua scìa grande orla i lembidi quel mondo che t'apparivanel volo, o Alipede, qualemacedone clamide stesa.Ma di là dalla piaggia d'Eea,di là dall'estremo Occidente,ove Elio sommerge i cavalli,trapassa ad attingere un altromondo che sotto altre stellesi giace in duplice forma,simile a un'ala d'uccelloe simile a un'orsa poggiatale zampe nell'artico gelo.E il certo pilotodisegna nell'acque un camminoben cognito a tutte le prore,sì che traccia su tracciapersistevi qual nelle viefrequenti il solco dei carri.

O Egemonio, m'odi.Nel mare è il certame dei regni.Il mare implacabile prendee scevera, senza fallire,le virtù delle stirpi

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nel tempo. Più della terraantico, nudrito di mortima di nascimenti fecondo,più della terra è bello,più della terra è sicuro.I morti non rende, ma rendel'amore a chi l'ama tenace.La Speranza che stetteal fianco dell'uomo animosocurva su la rate pelasga,la selvaggia compagnacui contra l'occhio aguzzatola palpebra rossaarrovesciavano i vènti,or fatta è donna imperialeThalassia nomata su i vènti.

Nel trono ella sta d'Amfitrite.Catenata sembra la Gloriatra le sue tempie. Il suo senoè una primavera anelante.Il suo palpito si ripercuotedai golfi e dai bòsfori azzurridel Mediterraneo Maresino ai promontorii nimbosidella barbarica Ierne.Bùccine di mille Tritoninon vincono il chiaro clangoredella sua tromba di bronzo.L'odono i popoli forti:

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cantando l'inno dei Padri,spingon rivali nel fluttoruggente le navi di ferro;ché necessario è navigare,vivere non è necessario.Polèna a ogni prora novellaè il cuore vermiglio dell'uomoinalzato sopra la Morte.

Odimi, o Enagonio.Il Taigeto ha i segugipiù ardenti; ha Sciro le capredalle mamme irrigue di lattepiù pingue; Argo, le armi;Tebe, i carri; ma la Siciliaferace dà le quadrighemagnifiche, i bene bardaticorsieri dal piè di tempesta.Ne' tuoi stadii l'asse tutt'oroguizza come folgore in nube.La Rapidità dalle naridi fiamma par su le tue metelasciar vestigia d'incendio.Ierone di Siracusa,Senòcrate di Agrigento,Cromio d'Etna, fior di Sicilia,contendon la palma agli Elleni.Pindaro diadematooffre agli eroi trionfalila grande coppa dell'inno.

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Non l'ebrietà della strofené fronda di quercia d'olivodi pino s'attendono, o Erme,i conduttori dei carriigniti cui circo e vittoriaè l'Orbe terrestre! Nel pugnonon reggon le redini anguste,non figgono alle cervicidei cavalli lo sguardo.Governano ordigni più snelliche il tèndine equinoma possenti più ch'epitagmascagliato nella battaglia.Scrutano lo spazio ventoso,i piani i fiumi i montiche valicheranno. Obbedisceil pulsante metalloal tocco infallibile. Foschison gli intenti vólti, notturnicome il vólto di Ade re d'Ombreche trae Persefóne piangente.

Traggono il pianto e l'affannodegli uomini i lor negri carri,il male degli uomini strettie misti nell'alito impuro,il dolore e tutti i suoi fruttisopportano, o Erme, il piaceree i suoi fiori senza radici,

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e l'avida gioiae il desiderio ferocee gli inestricabili nodidelle anime chiuse nei corpiignavi, e gli intorpiditicrimini dall'unghie rattratte,e le volontà rilucentinei sogni come in guainediàfane, e l'opere nateda ieri, e i messaggi dei cuorifraterni, e la copia dei benigiocondi trasportano, o Erme:le rose dei liti solarial gelo dell'Isole Scàndie.Tonando passano, in lungoordin su cento e cento ruoteconcordi, con nubi e favilleper traccia, passano a vespronei piani onde fuma sommossadal diurno travagliola fecondità delle glebe.Sùbita s'aderge in orgogliola stanchezza dell'uomoe guata la porpora immensadel cielo, ove come in sanguignapromessa di vita più bellapar che s'addentri col pesola creatura dell'uomo.Cade la notte. O perla,o lacrima d'Espero ardente!

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S'accendono i fari. Nei portile ciurme si scagliano all'orgia.Le città splendono di febbricome un astro è cinto di aloni.Col rombo il tràino amplia la notte.

Odimi, precipite Nunzio,alto Messaggero celeste.L'aere notturno e diurnopalpita di umani messaggi.Commessa al silenzio dell'Etrala parola attinge i confiniremoti. Serpeggia silentepei bàratri equorei, sottoi nettunii pascoli; emergelungi perfetta nei segni,narra gli eventi, conducele imprese, congiunge le stirpi,infèrvora i forti alla gara.La voce, la voce sonora,formata dal labbro spirante,in cavo artificio s'ingolfa,di sillaba in sillaba vibratacitamente lontana,ravvivasi come in profondabùccina e favellarel'ascolta l'orecchio inclinato.

O Viale, come le veneper entro ai marmi di Sparta

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e del Tènaro folteson le vie frequenti e insueteond'è variegata la Terra.Ma la mobile fiamma,che tu eccitavi nel pettodel viatore, divampae grandeggia in cuor dell'eroenovello che vede la Gloriaaccosciata come la Sfingenell'immensità dei desertio presso le occulte sorgentidei fiumi o su i mari di gelo.Non di parole tebanoenigma propone la belvama chiede, o Erme, la chiavesacra che vedesti nel pugnodell'antichissima Gea!D'ossa lùcono i milliaridegli spaventosi cammini.

O Citaredo primo,tu il bene che supera tuttidésti all'uomo quando la cavatestudine nata nei montifacesti sonora, le cannetrasverse inserendo nei fóritra l'un margine e l'altro,poi sul graticcio spandendola pelle di bue, configgendoa sommo del guscio i due bracci,

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questi poi giugnendo col giogo.Tra l'osseo giogo e l'estremolabbro della scaglia montana,come il nervo tra i cornidell'arco, tendesti minugedi agnelli bene attorte.Sette ne tendesti, o figliuolodi Maia, per onorarele Pleiadi belle nell'Etra.E la tua cheli selvaggiafu compagna al canto dell'uomo.Or l'uomo, emulando gli audacituoi spiriti, seppe di legnidi nervi di crini di pellid'avorii di metalliuna multiforme crearsie multànime gentecanora che popola e gonfiala profonda orchestra occultata,ove non più la thymélesanta òccupa il centro del cerchioné più presso l'ara l'auletedalla phorbéia di cuoiocol duplice flauto accompagnale strofe e la danza corale.E non il cristallo del cieloné il sinuoso velarioacceso dai raggi s'allargasu la moltitudine intenta;ma simile ad alto sepolcro

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è il notturno teatroconcluso e in sé stesso rimbomba.

Come nei mari le primeonde squammose all'urtodell'euro inarcan le schiene,s'ergono e spumano, il rugghioe il tuono avvicendano a corsa,di procella tumide in vasticumuli precipitandocon un rapimento improvviso;come nei boschi le primefaville accendono i coniaridi, le morte frondi,crescono in pallide fiamme,serpeggian pe' vepri, gli arbustimordono, il cuor selvaggioattingono carco d'aromi,conflagrano subitamentefragorose verso la nube,irraggian per tutta la valleil fulgore e il terrore;così dall'orchestra prorompel'impeto sinfoniale.

O Maestro dei Sogni,m'odi. E i Sogni inani, i tuoi lievisimulacri della quiete,le tue mute imagini erranti,giganteggiano a un tratto

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con vólti di bragia,s'armano d'una ossaturaerculea, grande hanno il fiatoe polsi hanno violentiper stringere l'anima umanae scuoterla dalle radicie svèllerla e darla al ludibriodei desiderii! E l'Amore,o Erme, il giovinetto cnidiotriste come un rogo consuntoascolta per entro a' capegliche sono un unguento stillante;languisce in un freddo sudore;poi vuota la tazza che gli offrela Morte, ove tutti i piacerispremuti fanno un sol tòsco.

Padre d'Ermafrodito,non tu creasti l'oscuroAndrògino al far della notte,ebro di melodìain un torrente di suonipremendo l'amata da tuttiAnadiomene d'oro?Noi anche, ahi sì brevi, sul litod'Eternità sognammole mescolanze vietate,sdegnando di saziarcipur sempre con la dolcezzadei consueti giacigli.

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L'opera attendemmo diversa,nata da un'incognita febbre,fatta di dolore e di gioia,pallida di ricordanzema di presagi animosa,recante in sé la promessae il compimento, sorelladelle Stagioni divine.

O Psicagogo, se all'Adesquallido condurre dovessitu l'anima mia, se condurredovessi tu l'Ombra del miocanto su l'asfòdelo pratoincontro a Saffo sublimedal crin di viola che forsem'attende, alla riva del Letet'indugeresti, io penso,vedendo in me trasparirequeste tante ignote ricchezze.E direbbemi alateparole la tua maraviglia:«Ombra, per la luce soaveonde vieni, sosta, ch'io mirida presso la tua opulenza.Come arbore sei, che curvatoabbia lungamente i suoi raminel lidio Pattòlo e gravatone sorga e si mesca il metalloregale alla polpa dei frutti.

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Tanto adunque sopra la Terradeserta d'iddii può la vitaanco esser ricca, Ombra d'aedo?Parte alcuna in te riconoscodi ciò che fu nostro, se indago;ed è la tua parte di gioia,la tua purità sorridente.Ma innumerevoli sonole cose novelle che ignoro,e le geniture dei mostriche pur non sembran pesarealla levità del tuo passo.Ombra, non sarà che tu gettiquesta abondanza all'oblìo.Non varcherai la riviera.Qui farai sosta con meco.Proteggerti vuole il Parentedella Cetra; ché forsetalor ti sovvenne del dioIntercessore ed alcunadottrina apprendesti da lui.

Di congiugnimenti maestrofui, di concordie divinecompositore sagace,perito d'innesti immortali,per moltiplicar la mia forza,aedo, e la mia conoscenza.Penetrabile fui e fecondo.

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Come nella mia dolce Arcadia,dopo il verno, ai tepidi giorniquando muovon le gemme,il colono fende la scorzadell'arbore e v'incastra la marzaacciocché in essa si alligni:la pianta inframmessa le venesparge nell'altra e s'appiglia;vigoreggia il succhio, il saporedel frutto si fa generoso:così, con arte inserendonella mia sostanza diversedeità, m'accrebbi di variapotenza, molteplice ed uno.

La verginità cruda e invittadi Pallade a me collegatami fece più destro in trar prede,e nella tetràgona pietraio fui pe' mortali Ermatena.Al Cintio lungescaglianteond'ebbi la verga trifoglia,cui diedi la cheli soave,mi strinsi con patto fraterno;e quindi Ermapòlline fui.Infondermi il sangue ferocedell'uccisore di mostri,dell'eroe muscolosodalla fronte angusta, volli ioArgicida; e fui Ermeràcle.

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E con altri iddii mi confusi;né sdegnai gli iddii bestiali,dalla testa di cane, dal beccodi sparviere, dalle mascelledi leone, estrani, onde fuiErmanubi, Ermitra, Ermosiri.

Ma da due comunanzem'ebbi più gran copia di forzesegrete e di gioie profondee di visioni sublimi,Ombra d'aedo che ascolti.M'accomunai con l'Amore,col nume che fu nel principio,che sarà nella fine.Con Eros confusi il mio sangue,col bellissimo fiorecui era devota la schierasacra degli efebi tebani;e fui pe' mortali Ermeròte.M'accomunai col Silenzioio signor del discorsoornato, dell'insidiosafacondia. Ermarpòcrate fui,col dito premuto sul labbroeloquente; ma tenniai miei piedi il vigile galloche col grido annunzia l'aurora.

Così tutto attrassi e composi

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in me, tutto abbracciai,di congiugnimenti maestro,perito d'innesti immortali.Or io mi penso, Ombra d'aedo,che ben conoscesti quest'artetra gli uomini se cumulatahai tanta ricchezzanell'anima tua giovenile.Per ciò ti concedo che sostisul lito del fiume torpentee d'umane cose favellicol dio. Non bevere l'ondaobliosa, ma, se la seteti arda, io voglio offerirtiil pomo granato che aperseCore, di Demetra la figliapura, con le chiare sue dita.Ne prese tre soli granelli:Aidòneo re sorridea.Bella era la bocca di Core».

E io ti direi rispondendo:«O Intercessore benigno,poiché tu concedi ch'io tecofavelli alla riva del Leteio tutte le cose dell'uomoti svelerò, esule dio.Ma soffri che un'Ombra d'aedointerroghi l'alto Parentedella Cetra! Ermerote

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io ti chiamerò, Ermerote,bel sangue commisto d'Amore.Tu conducevi Euridiceper mano su i violettiasfodilli, e Orfeo t'era innanzicoronato di cipressoe di mirto il capo suo d'oro.E intorno era sacro silenzioma ad ogni passo silentegemere s'udia la gran cetrasospesa al fianco d'Orfeo...Non così fu, Ermerote?

Sentisti tu tremarela man di colei che traevidall'Ade su i cari vestigi?E obliato non hai ogni altrotremito di carne mortaletu che i miseri uomini ignudiavvincevi ai supplizii?Intorno era sacro silenzio,ma s'udia nel Tartaro lungirombare la ruota aspra d'anguicui tu avvincesti Issione.Ed ei si volse, ei si volse,Orfeo si volse! La donnaperduta fu, dallo sguardoperduta! Ritrarla dovevinelle inesorabili fauci.Mirasti i due vólti, e quegli occhi?

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Euridice! Orfeo! Notte eterna.Ah parlami di quel dolore,di quella bellezza, Ermerote!E poi fa ch'io beva l'oblìo.»

X.

Tornammo alla nave ancorata.La salutammo nel portocon ilare grido vedendoil candido fianco apparire.Tra le Onerarie ventrosepiù snella ci parve, leggeracome fasèlo o liburna.L'albero la verga le sàrtiela gran randa i piccoli fiocchiil bompresso trincatole commessure del pontele boccaporte e le cùbiee le caviglie e i bozzellie tutti gli attrezzi minuti,canape legno metallo,amammo di vigile amorecome vena per venae nervo per nervo le membraviventi di fragile amica.Più che l'odor del mentastroci piacque l'odor della nave.Or un de' cari compagni

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recato avea prigionierain una gabbia intestadi giunco una bella cicaladel regno di Pelope Eburno.E cautamente sospesoavea quella nassa terrestrea poppa, e sópravi stesoun ramoscello di pinoreciso nell'Alti; e si stavain ascolto avendo nel cuorel'anacreontica lode.Ma la regina del Canto,l'ebra di rugiada e di luce,su l'acqua oleosa del portotacevasi attonita all'ombradell'ingannevole fronda;ché il suo luogo è la cimadell'arbore o l'asta di Atena.E noi ridevamo il deluso.«Or téntala dunque col dito!»

Salpammo l'àncora all'alba.Patre era avvolta di sonnotorbido; ma l'alpi d'Etoliasorgevano in veste di croco,quasi Grazie pronte a danzaresul fiore del Ionio, fasciatedalla stephàne d'oro.«Forse, a piè del letto ove giacela meretrice di Pirgo

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invano aspettando il navarca,Elena figlia del Cignos'accoscia e ronfia, nascostale mille sue rughe per entrola grande sua bianca criniera»pensava taluno di noisciogliendo la randa solareche ben da noi stessi tramataci parve, col filo dei sogni.E vidi il fanciullo nell'Alti,in mezzo alla strage dei marmi,ignaro di quella vecchiezza.

Il mattutino spiroci volse alla porta del golfocorintio, tra i due promontoriiaffrontati come molossiche senza latrare protesigià fossero all'impeto ostilema d'improvviso irretitiin non so qual divinaambage di rosei veli.E un amore dei montiindicibile era nei nostripetti, e riconoscerne i vóltiignudi e chiamarli per nomedesiderammo. Ogni lumeogni ombra ogni solco ogni asprezzaci parve il segno d'un dio,l'orma d'un eroe, la fatica

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d'un uomo, lo sforzo d'un mostro.E dicevamo: «È il Coràceforse? è l'Aracinto? il Timfresto?o il Bomi onde sgorga l'Eveno?».

Il vento gonfiava la randa;e tanto la vela era bellad'armoniale virtudeche parea la scotta sua fortedovesse, pulsata da un plettro,rendere un suono di lira.E ad ogni istante gli aspettidei monti eran nuovi, più dolcio più aspri. E se un'argentinaconca appariva o un anfrattoceruleo, l'anima nostravi si profondava per gli occhibramosa d'attingerne l'imocome il natatore si scagliadall'alto nell'onda ch'egli amae sommerso tocca la sabbiao la radice dell'alga.Tuttavia perché, nella gioiae nell'avidità, ci salivaai precordii un'ansia intermessapiegando al cammino ritroso?

O amore, amore mai saziodi conoscere e d'adorare!Taluno de' cari compagni

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dicea: «Non vedremo la boccadell'Eveno, e non il suo guado;non il regno di Deianira,non in Calidóne la cacciané la tomba ove corsedelle Meleàgridi il pianto».Volgevansi a poppa gli sguardiper la scìa lunga virente.E l'odore dell'ecatombesentimmo, vedemmo l'Etoliaaccesa di fùnebri roghi,la forza di Meleagroavvinta al tizzo dal Fato,e Deianira nel fiumetorcersi abbrancata da Nesso,Eràcle con la saettaintrisa nel fiele dell'Idrapassare il polmone ferino.

E dicemmo: «O Ellade, tuttoin te vige, splende e s'eterna.Come le barbe degli oliviper le tue piagge e i tuoi colli,come i filoni della pietrane' tuoi monti, le genituredei Miti ancor tengono presal'antica virtù del tuo suolo.La gente che sega le magretue messi, o abita le casevili a piè delle deserte

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acropoli, ti disconosce;e t'è più strània di quellache tolse i tuoi numi alle frontide' tuoi templi in ruinaper trarli mùtili e freddinella sua caligine sorda.Ma i Miti, foggiati di terrad'aria d'acqua di fuocoe di passione furente,sono il tuo popolo vivo.

Vivi palpitar li sentimmosul nostro cuore umanostringendoli; e ancóra in segretoci dissero qualche inattesaparola e ci diedero un'armeper meglio combattere o un ritmoci appresero novoper meglio gioire. Verremodi gleba in gleba, di selcein selce noi pellegriniinchinando il cuor nostro umanosu la deità che l'assempra?Ahi, l'ora è breve e il ventovolubile, ed è necessariocompiere altri perìplifinché la carena sia salda;e a consumabile tizzola nostra sorte anco è avvinta.Ma ad ogni approdo intera

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tu sarai nel nostro fervorequal sei nel tuo triplice mare!».

E, come già il Sole era pressoall'ultimo vertice azzurro,scomparsa a ponente Naupattodei Locri, a ostro Egio achea,ci apparve su l'acqueil promontorio Andromàchesimile a un leone sopitonel fulvo oro della sua giuba.Il vento languiva. Bonacciagrande era intorno. Udivamoa quando a quando la velafloscia battere e trepidarecome un cuor moribondo,il legno per tutte le fibrealide dell'alidoreceleste risponder con lungogemito, guizzare i delfinisotto la poppa, i falchistridere per entro i foramidella rupe aurata. E la vocedi prua mise un grido: «Il Parnasso!».

E tutti balzammo a guatarela faccia d'Apollo apparita;però che sul tacito specchioil Monte Castalio, sublimee roseo, dominatore

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d'ogni altra grandezza e pur lenecome se l'onda perennedel canto spetrata ne avessela mole terrestre, assempravaai nostri occhi attoniti e puril'apparizione diurnadel dio musagète viventenon qual nella vena del pariomarmo dagli artefici è scultoa similitudine d'uomoma qual forse il videro un temposul verde limite dei paschii primi pastoriproteggere i tauri e i cavallimisteriosa bellezzalevata in sostanza serena.

Cadde il vento. Noi tuttièramo senza parolafissi alla gran maraviglia.Sospeso era il Giorno sul nostrocapo. Tutte le cosetacevano con un aspettodi eternità. L'occhio soloera vivo e veggente.O tregua apollinea, Meriggio!Qual coro avea chiuso il suo cantoremoto negli echi del mare?Qual coro traeva il respiroper dare principio al suo canto?

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Coro di Sirene o di Parche?di Tiadi o di Muse? Il silenzioera come il silenzioche segue o precede le vocidelle volontà sovrumane.Tutta la vita era a noiquasi tempio lieve senz'ombra,ch'entrammo non più morituri.

O soffio etèsio, respiromeridiano del grandeMediterraneo contrail violento Cane,sùbito bàttito chioccantedella vela, balzi d'un cuoreche un flutto di sangue riempia,arco teso un'altra voltaverso inarcati seni,alacrità delle forze,fame e sete carnali,sapore del pane e del vino,allegrezza dei corpi,dopo la pausa infinita!Oltrepassammo Andromàche,volgendoci al seno crisèo.Come dietro la negranave dei Cretesi di Gnossoeletti dal Pitio al suo culto,un delfino agile balzavanel nostro solco veloce.

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Disse il Pitio lungescaglianteai navigatori cretesi:«Non prèndevi brama del ciboi precordii, come agli stanchiuomini suole avvenirequando negra nave s'ormeggi?».Seduti a poppa in coronanoi avemmo ulive addolcite,pesci pescati col giacchiospiranti salsedine, cacimolli che serbavano ancóral'impronta dei vimini, fichidegni d'aver patria in Eginacon l'ombelico melatodi gomma, bionde uve sugose,vini chiari aulenti di pinorinfrescati in vasi d'argillaappesi alle sàrtie, e la caldamàstica che dentro una gocciaha tutte le estati di Chioricca in dolci donne e in lentischi.

All'ombra della gran randagiocondamente mangiammoe bevemmo, in conspettodel gèmino Monte che il mutosplendor del meriggio velava.Non era visibile a noil'altra cima: quella ch'è sacra

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al Semelèio effrenato,alla deità delirante:Nisa, la cima notturna.Ma l'allegrezza nel sanguefervere sentimmo sì forteche per le nostre membrapieghevoli corse improvvisainquietudine, quasidesiderio di danzafurente e d'insano clamore.E due dei cari compagnisorsero e balzaron sul bordoco' piedi nudi a garadi destrezza in giochi rischiosi.

Ed io pensai nel mio cuoregli antichi portenti apparitiai corsali tirreniquando per la còncava navegorgogliò vino odoratoe per la vela si sparsealta racemìfera vitee l'edera l'albero avvolsedi corimbi e s'ebbe coronaogni scalmo. «O Cirra, o Nisa,vertici dell'anima umana,sommità del canto sereno,culmine dell'acre delirio,in breve ora noi v'attingemmo!Il chiaro silenzio adorammo

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ove l'ultima notatremava del coro febèo.L'impeto selvaggio, che rendeimmemori l'Evie nell'orgia,or ecco sentiamo in confusorompere dal torbido sangue.»

E, la mia frenesianel petto profondo constretta,io stava pensoso dell'unoe dell'altro mistero;quando udii stridor lieve l'ariafendere. Tesi l'orecchioin ascolto; e vennemi al labbroil sorriso, ché noto il suonom'era. «O Apollo, nel giornotu vinci!» E la stridula voceoscillò qual canna fendutanel vento; poi prese più forza,palpitò, si fece canora,da poppa a prua chiaramentes'udì sopra il croscio dell'acque.«La cicala! Udite, compagni,la cicala che canta!»gridai divenuto fanciullonell'allegrezza. E tuttiaccorsero i cari compagniintorno alla gabbia di giunco.

E, senza strepito, quivi

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stemmo intenti come dinanzia famoso aedo; sì novaci parve sul mare la voceagreste e sì novo l'aspettodella creatura vocaleche non ha carne e non sanguee ignora i mali e il dolore,simigliante quasi ai Superni.Negra ma d'una cinerinalanugine ell'era coperta,che lucea qual serica veste;e grand'occhi avea due, protesi,ma tre più piccoli, rossicome le bacche cruented'autunno, in esiguo corimboa sommo del capo; e lunghe alidi tenue vetro nervutedi foschi rilievi, il toracesparso di màcule, fattodi anella il mirabile addòme.

Ognuno guatar la silvanaospite della naveparendo com'àugure incerto,facea più fraternipiù giovani e vividi i vóltil'ingenuità del sorrisoinclinato. Io l'àugure finsi.«Compiremo il periplonel segno e nel nome d'Apollo;

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e guiderà la Cicalasacra, dal golfo crisèoinsino alle acque di Delo,gli Apolloniasti d'Italia.Si nutrirà di glaucasalsedine, appesa alla prora,in cella di giunco marino.»E sul lido ricurvola Fòcide piena del numeera vaporata d'olivicome di tripodi mille,dinanzi alla nostra allegrezza.

XI.

Con un alberetto volantee sue sartiette arridatea mano, il palischermoattrezzammo a vela latina.Ciascun de' compagni a vicendagovernò la scotta o il timone.Le baie le conche i recessidel parnassio mare esplorammo,or chini su l'acqua ove l'ombranostra era un miracolo verde,or sottovento sedutifuori banda sopra gli scalmicoi piedi immersi nel sale,or tratti per la gomenetta

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dell'àncora dietro la poppanella scìa che ci levigavala carne con una carezzainnumerevole, or al fondosopra le stuoie supiniin un sonno ch'era ogni voltauna voluttà sconosciuta.

Acqua marina, mollezzadi cinti insolubili, sguardovenereo della segretaprofondità, riso d'abisso,lasciva sorella dell'aria,madre della nuvola, cometi loderò? Ogni baiaogni conca ogni recessoci parve più bello. Dicemmo:«Ah chi mai vide ne' giorniuna maraviglia più lieta?».E desiderammo ancorareper quivi obliar nostri amoriscrutando le mille figuredell'acqua. Ma l'ancoraggiocontiguo ebbe più dilettosefigure, colori più novi,odori più freschi. Dicemmo:«Ecco il limite. I sensinon gioiranno più oltre».E il limite fu superato.

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Arene gemmee cometritume di gemme, ceppaied'alghe, chiari coralli,fuchi di porpora, negreulve, tra fango e sabbiaflessibili intrichi di lungheerbe ove abbonda la greggiadei pesci, io compresi quel nomeche i pescatori tirreniusan per lode alla valledel mare onde traggono predepiù ricche: Armonia!Noi non gittammo le reti,non adoprammo le nasse;non prendemmo il grongo di carnesoave, né lo scombrotondo di cerula pellesospendemmo con le sue branchieal vimine, pei delicatisacerdoti di Delfo.Ma di voi gioimmo, Armonie!

Chi mi consolerà, mentrevivo sotto cieli pur dolci,chi mi consolerà dei solispenti, dei giorni caduti?Poggi di Fiesole, chiarisono i vostri ulivi e foschii vostri cipressi, e i ciriegii mandorli i meli son bianchi

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son rosei negli orti di Verde-spina e di Laudòmia murati,oggi che la Primaveraimprovvisa coglie alle spalleil lanoso Febbraioe con la sua tepida forzarivèrsagli il capo e gli chiudele palpebre con le sue ditache auliscono di rosmarino,per baciarlo in bocca e fuggire.Bellosguardo, io certo dimaneverrò ne' rosai che tu porticarichi di rose ancor chiuse.

Ben so che i bocciuoli sarannocome i capézzoli gonfiidella pubescente. Ma forsebianca sarà la tua primarosa fiorita su pel ferroonde pende nel pozzola secchia loquace. O collinadell'Incontro, per la finestrati veggo tutta rosatanon come le rose ma comei fiori dell'erica, tantosono leggere le selvede' tuoi querciuoli vestiteancor della fronda autunnaleche un poco rosseggia e per entrovi si scorge il tenero verde!

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O Poggio Gherardo, le vecchietue mura gialleggiano comesu i nodi delle vitiil lichene. E sta Vincigliatamorta in un negrore di lance.Odo i colpi iteratidei ronchetti, odo le cesoiedei potatori. Uomini veggopoggiar le scale ai tronchi,salire, attendere all'opra.Tanta è la bontà della terrache forse i sermenti recisia piè degli arbori mondinon periranno ma forsefaranno radici. Pur fendela terra ancor qualche aratro,e splendono i buoi tra gli olivie tra gli oppi: chiuse han le frogenelle gabbie di giuncoperché ghiotti son di germoglie cimare osano i ramettise passan rasente, bramosifors'anco di quelle vermeneche sorgon per nesto in coronadalle piaghe dei tronchispalmate di màstice roggio.

Il bifolco gli incìta;e certo egli è roco, già vecchio.Ma oggi la voce dell'uomo

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è d'una dolcezza infinitain questo silenzio: ogni suonoha una risonanza infinitaquasi che non tanto nell'aerevibri ma e nelle glebee in tutte le specie dei corpi.Odo talor stridorecome di lima sottileche ferro morda. È coleidai piedi azzurrigni? coleiche su ciascuna sua tempiaha un candido segno, una nerazona a mezzo il petto pugnace?la cingallegra selvaggia?Nel cavo dell'arbore adunagià le lanugini mollima par che in aerea fucinal'amor suo duri aspro travaglio.

San Miniato, ora il Solesi piega verso la tua facciagraziosa e abbaglia il dolentetuo dio che non l'ama. Si levadall'Arno un vapore di perlae si diffonde pe' campiove rilucono i fossicolmi dell'acqua piovana;ma il fumo dei tetti campestriceruleo par tuttavia.L'Incontro s'indora e invermiglia:

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cangia le sue querci in coralli;ma la Vallombrosa remotaè tutta di violettedivina, apparita in un valcoche tra due colli s'insenaah sì dolce alla vistache tepido pare e segretocome l'inguine della Donnaterrestra qui forse dormente,onde quest'anelito esala.

E odo, se ascolto, veniredi Rovezzano il rombodelle mulina che il vecchiofromento convertono in frescafarina, ma pe' solchitremano i fili del novofromento e con lor treman l'ombre,e non si distingue il fil verdedall'ombra sua cerula, e tuttoè un tremolio verdazzurroche parmi aver quasi ai precordii.E certo la noce bronzinache nel cipressetto rilucem'è cara, e l'orma essiccatanella redola verdeche ieri fu molle di pioggia,e la pendula chiaveche più non mi chiude il verzieredal dì che nel suo rugginoso

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cannello mellificò l'apecome in celletta di bugno.

Molto al mio cuore son carele cose che odo, che veggo;e forse tutti i rosetitralascerò per quel soloanèmone aperto sul cigliodel campo! E le campanedella preghiera servile,il suono che vien di Rimaggiodi Candeli di Monteloro,anche amerò per una novaimagine, o Primavera,che or mi nasce guardandote sopra le file degli oppi.Simili a concave manidi nodose dita son gli oppi,che reggono tenui sferecristalline; e tu vi trascorrisopra e le tocchi traendoda ciascuna fila un accordosì dolce che dal ciel sgorgar faEspero, la lacrima prima.O Primavera, o Poesia,in questa dolcezza m'indugioper consolarmi e sorrido.E certo laggiù, nella casache biancheggia a mezzo del colle,gli infermi sorridono anch'elli

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beati con povere veneal davanzale che il Soleriscalda, e dietro hanno i lettiove si giacquero in dogliae l'odor dei farmachi amari.Ma la ricordanza immortaled'una bellezza più maschia,d'una voluttà più possente,mi brucia, mi crucia. E il rinatopane che trema ne' rettisolchi non mi vale quel lembodi suol rossastro fra crudisassi, ove struggemmo col fuocola stoppia e gli aròmati fortiper profumar nostra sera.

Biancheggiano gli escrementidei falchi su pe' macignidi quella caverna montanaricovero ai greggi e agli uccellirapaci, dove sitibondiscoprimmo la vena dell'acqua?Sì chiara che n'ebbi certezzasol quando v'immersi le mani,si fredda che quando la bevvimi dolse la nuca pel gelo.O Fedriadi ardenticome due scaglie caduteda Sirio, la vostra sublimearidità nel meriggio

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m'accecò gli occhi del vóltoma tutti i miei spirti agitati,come sul vaporantespiracolo i capri dell'ansioCoreta, balzarono in fierotumulto e qual sangue d'aurorevidero il vermiglio avvenire.

Fumano ancor sul Cirfii roghi? La sfinge di Nassodecapitata ma alataprotende le branche sul sacrocammino? Le tre danzatricidalle mammelle corrosedanzano ancóra intornoalla colonna fogliutadi acanti? Filano ancórasotto i due platani vastile donne focesi, dinanzial Fonte Castalio, vestited'azzurro? Non la pietraumbilicale dell'Orbema invano cercai nella polvela tomba del figlio d'Achille!E non volli altro lettoper la mia delfica nottese non la terra presàgatra i due platani vastichiomati di fronde e di stelle.

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Vedute io le avea, nella serapurpurea, silenzioseemergere dalla durezzadell'antro. Miste alla roccia,come le imagini scultenelle metòpi dei templi,si tacevano in cerchiole Castàlidi; e gli occhilor grandi eran fisi, il Passatoil Presente il Futurocon un solo sguardo abbracciando.Prigioni del sasso per sempreeran elle? I piedi leggeriche tessuto aveano in figuredi danza la fresca bellezzadel mondo, i bei piedi leggeridi Terpsicòre constrettieran nell'inerzia rupestre?Dal nudo macigno agguagliatemi sparvero. Ma le rividilibere nel sogno ch'io m'ebbi.

Venivan per le vie de' vènticom'aquile senza nidonell'alba a volo, nell'albacrepitante di millee mille fiaccole acceseche i Distruttori e i Creatorisquassavano in pugno gridandodi gioia coi lordi capelli

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coperti di bianca rugiada,con le calcagna gravid'umida zolla e di foglie.Come stuol d'aquile senzanido, venivan le noveCastàlidi a volo nell'alba,lacere i pepli, sconvoltele chiome, odorate di sanguee d'incendio, ebre di risae di pianti, tumultuosedi forze atroci e d'amoriineffabili, pienei polsi di ritmi discordi.

Venivano dai portiinferni ove tutte le lingueumane suonan fra tuttii gemiti e i rùgghii del ferrodomato; venivano dallecittà di lucro ove la vitacupida senza schiumae senza sudore s'affrettasu le rotaie corusche,stride su la gèmina lamache non ha guaina né punta.Visitato aveano le foltemoltitudini, uditoaveano i canti ferocidella fame e della vendetta,bevuto aveano gli inni

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di libertà, gli epiniciidell'Uomo non coronatoche con salde rèdini intornoall'Orbe conduce in trionfola quadriga degli Elementi.

E nella rossa fornaceove struggevasi un fiumedi bronzo pel simulacrod'un eroe senza clavaliberatore del Mondo,nella fornace di gloriagittato avea Calliòpele tavolette ceratee lo stilo, Melpomènela maschera dalla gran bocca,Urania la sfera celeste,Euterpe i due flauti eburni,Terpsicòre il chiaro eptacordo,Tàlia l'ellera, Èrato il mirto,l'annunziatrice Clioil breve infinito volume,Polinnia una foglia d'allorogià morduta nella sua corsaper temprar con l'aonioaroma il lezzo febbrosodelle moltitudini folte.

E venivano a stormole Vergini figlie di Zeus

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com'aquile senza nido,affaticate dal pesodelle bellezze raccoltene' lor vasti seni, agitatedalle forze novelleche facean tremar come l'altecolonne d'un tempio crollantei lineamenti solennidel Passato nel lor pensiereverecondo. Ed erano ardentidi fecondità, agognantidi generare una gioiauna potenza e un amoresovrumani per l'Uomo,di trarre una vita divinadalla faticosa materiache gorgogliava nell'Orbecome quel fiume di bronzoin quella fornace di gloria.

E su la cima d'un'alpe,che non era Libètroné Parnasso né Elicona,si posarono ansantinell'imminenza dell'opra.Non intonarono l'inno.Il Coro d'Apolline stettesilenzioso nell'alba,fiso allo spettacolo immenso.Passavano senz'ombre

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su le inviolabili frontile nubi in cui la certezzadel Sol nascituroera già luce, era già fiamma.Pel grembo intatto dell'alpe,che chiudea le moli profondedel marmo, sacre ai colossiai templi ai teatri novelli,crosciavan le sorgenti,aulivano i cèspiti, i covii favi i nidi parlavano.

«Euplete! Eurètria!» S'udivasul grido dei Portatoridi fuoco irrompere a quandoa quando un nome invocatocome il benefico nomed'una deità imminente.«Energèia!» Fuggitodagli occhi umani era il sonnobestiale della stanchezza.Libere eran tutte le bracciadal travaglio servile,libere per l'ornamentodel mondo. La cieca materia,animata dal ritmoesatto, operava indefessasu la cieca materia;l'ordegno tenea su l'ordegnola vece dell'uomo. Il supplizio

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carnale era banditoper sempre, il Dolore assumendol'aspetto d'un re soggiogato.L'ebrietà della forzachiedea di placarsi nei ritidell'Arte, nelle preghiereunanimi verso le Formeperfette, nell'innocenzadel rivelato Universo,nel giovenile fontedei Miti innovati. Un immensodesiderio di festatraeva gli uomini, franchidalla notte e dalle fatiche,alle pianure ove i mortieran sepolti, lungh'essii fiumi paterni che al mareportano su l'onda perennel'immortalità delle stirpiferaci. Tutte le braccia,pronte a crear la bellezza,volsero le fiaccole al suolospegnendole innanzi alla Luceraggiante per tutte le cime.

E un rombo confuso di cantiinauditi sonavanelle moltitudini aspersedi rugiada. E l'attesadella Poesia palpitava

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nelle moltitudini comel'innumerevole risodel desìo marino che s'alzacon le mille labbra dell'ondaverso il Sole per divenireaere, altezza, via di luce,luce egli stesso infinita.E le nove antiche Sorellenon intonarono l'inno!Sotto le nubi infiammatedall'aurora, non con argillama con la sostanza sublimeche nata era in elle dall'urtodel conoscimento vitale,crearon per l'uomo una Vocepiù bella del Coro castalio.

Aquile senza nidoripresero il volo, dall'alpebalzarono a sommo del cielo,un attimo stettero immotesimili a costellazionevermiglia; poi contra il fulgoredel Sol nascente, verso il Marevirgineo come la primafoglia del giovinetto salce(oh soavità dell'eternagrandezza!) si volsero avvinteper le flessibili maniin quell'atto lor consueto

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che usavan danzando al cospettodi Apolline. E niuno videse risero o piansero. Vidiben io ma tacere m'è caro.Inclinate il fianco sul vento,alte melodie non udite,senza traccia sparvero in corole nove antiche Sorelle.

E la nomata nel gridoEuplete Eurètria Energèia,la nomata nel gridoumano coi nomi divinidelle plenitudini e dellevirtù, l'invocata da tuttinell'alba, la decima Musaapparì, discese dal montein mezzo agli uomini. E da primanon tutti la videro quivi;ma credetter forse che il fiatod'una primavera improvvisali soffocasse d'amore,e ne tremarono. Iola vidi. E mi parve che il sanguem'abbandonasse e corressefumido sotto i piedidella vegnente a invermigliarnei vestigi, e che spogliadell'ossa quest'anima mias'ergesse qual candida fiamma.

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Dissi: «Euplete, decima Musa,piena come l'onda che giungedopo l'onda nona sul lido,gagliarda come il fluttodecumano, o Antica, o Novella,m'odi per i giorni e per l'opre,m'odi per le mie notti insonnigià calde di te non creata!Per la mia febbre, per gli astri,pei vulcani, pei lampi,per le meteore, per tuttociò che arde, per la setedel Deserto e il sale del Mare,odimi, Eurètria, Energèia!Io son teco il supplice, senzapianto e senza ramo d'ulivo.Toccarti i ginocchi non oso.Chiederti non oso che m'abbiper l'aedo tuo primoma sol per il tuo messaggero.Io sarò colui che t'annunzia».E, com'ella un poco inclinavala fronte accennando, sì fortefu nel mio petto il sussultodel cuore, ch'io trasaliicome quei che sente la vitapartirsi con sùbito balzoverso il mistero dell'ombra.E da me partito era il sogno;

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ché mormorare il ventodell'alba nei platani vastiintesi, le pallide stellescorsi tramontare nel cielodella Fòcide, dietrole bianche Fedrìadi. Oh prontorisveglio! M'alzai dalla terraleggero, con limpidi occhi.Lavai la mia fronte nell'acquacastalia, ne bevvi nel cavodelle mie mani; alacre e purosalii pel cammino solenneverso le ruine del Tempio.

E i galli cantarono. Pressoe lungi, nelle casedi Delfo e nei porti lontani,su i pianori dei monti,lungh'esse le vie lapidose,per tutte le rive del golfoi galli cantarono l'alba.Oh canti, fratelli dei raggi,ond'era accresciuta la lucenel cielo continuamente!Voci di virtù mattutina,che attendevate ogni voltale risposte ai vostri richiamiper chiamare talunoancor più distante! Fragranzadel mar taciturno! Ombra e polve

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dell'arcana chiostra ove inertepietra è oggi l'Ònfalo santo!Se una Volontà si solleviarmata d'un grande disegno,solo in essa è il centro dell'Orbe.

XII.

Chi mi consolerà, mentrevivo sotto cieli pur dolci,chi mi consolerà di tantoorgoglio e di tanta allegrezzache il vento salmastro disperse,con la polve delle ruinecon la cenere dei sepolcri,ne' borri de' monti famosi?Certo su altre rive,su altre alture altre pianure,nei deserti di Libia, sul pettodei colossi di Memfi,nel nomo d'Arsìnoe riccod'antìlopi e di melagrani,altrove, altrove, nelle acquedell'Ànapo, nelle latòmiedi Siracusa, nelle sabbiedi Selinunte ove una vastadi colonne dorica stirpevive di luce, e altrove, altrovemi conobbi figlio del Sole.

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Ma nessun cielo, nessun mare,nessun deserto, nessunaarsura, nessuna abondanzamoltiplicò la vitalevirtù della mia giovinezzacosì fieramente. O Corinto,bagno d'Afrodite, roccadi Sisifo duro, fecondadi bei tiranni, che giugnestialle rèdini del cavalloil morso e al frontone del tempiola duplice aquila d'oro,Efira, nudità di marmi,sapienza di meretrici,ozio armonioso, o Morentecui il ruvido console diedeil Fuoco per ultimo drudoonde generasti il Metalloinimitabile, quandorivedrò i tuoi sterpi riarsie la tua taverna nel tempio?

Scorre ancóra sul fiancodell'Acrocorinto quel mieleselvaggio ch'io discopersi?o salsero le Oceanineal tramontar della luna,poi ch'ebber finito il lor piantoamaro sopra i tuoi lutti,

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Amphithalassia, e ingordese ne saziarono? Ancórasiede la giovinettasul margine della cisternae canta? «Papavero folto»cantava «prestami i fior tuoie il tuo rossore ch'i' mi vestascenda al lido e strugga d'amore!»Siede tra le sette colonnela madre dal nero grembiule?«Come sono squallidi i monti!»cantava. «O vento li combatte,o pioggia. Né vento né pioggia.Li passa Caronte co' morti»Rombava talora nel ventosu l'Acrocorinto spogliatoun'ala fùnebre. E io vidiThànatos, il fosco fanciulloche soffiò per entro alle naridelicate e sopra le tardepàlpebre de' tuoi goditori,o Doriese, premendole guaste ghirlande cadutesu' tuoi marmi aspersi di vino.Portato dalla tua Notteanche lo vidi, comenell'arca di Cìpselo; e semprepoi l'ebbi al mio fianco, velato.E, da poi ch'io l'ho meco, ei sembrarendere più rosse le rose

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del mio piacere, più profondoil suon del mio riso, più fortii miei denti. Estinta è la facech'ei porta, ma sotto il suo sguardopiù fervidi ardono i miei fuochi.

A te debbo questo compagnoche senza parlare m'incìta,o ghirlandata di mirtoe di papavero Efirache fosti vermiglia di sanguelussurioso e di dolcevino sentendo continuoscendere dal vertice il fiatodella dea su te troppo ignitoonde si sciogliean gli unguentine' tuoi nerazzurri capellie ti colavan per le tempiepulsanti di cupidigiamentre le strisce del fulvocorame, in guisa di frenoimposte alle guance de' tuoiauleti, nell'ansia de' suonisi laceravano e i nervidegli eptacordi sotto il morsoviolento dei plettrisi spezzavano sibilando.

Meco era il compagno velatoquando rinvenni tra selci

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e sterpi lo specchio votivodi Lais offerto alla dea.«Poiché vedermi non voglioqual sono e vedermi qual fuinon posso, a Te sacro il mio disco,dea di non caduca bellezza.»E sotto i venerandicipressi l'etèra dormiva;le cui bianche braccia avean cintotutta l'Ellade amante,come la cintura marinache spazia dal Ionio all'Egeo.E il sepolcro auliva pur sempre,quasi nave giunta dai portisirii di aròmati carca.«Bel fanciullo» dissi «a Te solosacrerò l'acciaio politoove miro l'anima mia,se mai sarà ch'ella s'incurvi.»

E penetrammo con lievepasso nell'adito occultoche al fonte di Pireneconduce e su l'ombra mia lieveera l'ombra del fratricidaIpponòo recando la briglia.Sostammo, in ascolto. Il cavallos'abbeverava al fonte.Sìbilo s'udiva di lunghisorsi, fremito di froge,

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e l'ondeggiar della codalento; e talora il sussultodelle grandi penne, che moltoaere movea sino a noicelati nell'adito. Osammoappressarci, senza respiro.E vedemmo un fuoco argentino,un'alacrità palpitante,non so qual serico ardorediffuso intorno a una possaindomita: Pègaso, il volo!

Arte, Arte mia bella, nudritacon l'ima midolla e col sanguepiù puro, guarda il nepotedi Sisifo come s'accostaalla fiera alata stringendocauto nella mano il fren d'oroe subitamente la imbrigliacon fulminea destrezzae serra le rèdini in pugnosenza lentarle e resiste:s'impenna, recalcitra, battel'ali ventose il cavallomagnifico: la vergine boccaoffesa dal valido ordegnosbuffa schiumeggia annitrisce:l'uomo imperterrito balza,inforca la schiena tremendafra l'una e l'altra ala, conduce

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l'Impeto nel libero cielo.Così, Arte, accòstati ai grandipensieri che son presso i fonti.Pur dato mi fosse oggi, mentrela primavera m'affanna,dato mi fosse varcarel'aere e su l'Acrocorintofermare il volo (forse oggitutta la roccia si vestedi fiori efimeri, comeLais della tunica tiriabrevemente, sapendoche la nudità è più bella)quivi fermare il voloe in uno sguardo abbracciarei due golfi, la sitibondaArgolide, gli arcadi gioghi,i vertici sacri alla Danzae al Canto, l'isole guerrieree agresti, il Monte dell'apie il Sunio e il Laurio e quella,anima mia, ch'è la tua sposadiletta, che non canteraiperché troppo a dentro ne tremi.

O Tebe, di te mi sovviene,grande oplite del Teumesso,fàuce della Strage latranteda sette bocche nel piano,di te mi sovviene, Cadmèa;

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non per Tìdeo che giacesquarciato il fegato, alla portaProètide, e rode le tempiea Melanippo; non pel gridodi Capanèo contra il Cieloche l'ode, né pel duolod'Antìgone eretta nel Corocome il cipresso tra i salci;ma per le tue belle fonti,o d'acque abondante e di sangueCadmèa, per la fonte di Dirceche sparsa è ne' dolci verziericome fu nelle rupila dilacerata bellezza,onde bevemmo il saporedel supplizio all'ombra dei meli.

Vario sapore hanno l'acqueche corrono d'orienteo corron di settentrione,e quale è più grave e qualepiù lieve se passi per limo,per vene d'alcuno metallo,per rossa creta, per pietrenette o per sabbia, e più o menodi terrestritade è in ciascunasecondo il suo nascimento.Sapide di fati son l'acquetebane. Baciammo le donnealla fonte di Ares, ove Cadmo

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si lavò pria ch'ei seminassei denti onde nacque la stirpefuribonda. All'Edipodèiaalternammo i sorsi col sucodelle persiche molli,ove l'uccisore di Laiosi purificò poi che mortafu la sua madre polluta.

E il Citerone, senzastrepito di Mènadi, senzafaci di pino, lungamentesul cielo australe stendeacon leggerezza e palloredi linfe e silenziidelle sue cime. E tu erinascosta a oriente, o Tanagradal collo di cigno, dal crineintesto come canestrodi vimine, all'ombra del largocappello tessalico, chiusanelle innumerevoli pieghedell'imàtio come in un fioredi mille pètali. O forsecon un gesto di grazia or discoprila mammella piccola comecotogna, i mallèoli svèltiinanellati d'elettro,e mordi un anèmone, chinaal combattimento dei galli?

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S'aprono gli anèmoni al ventoe gli asfodèli nel pianod'Argo tra la cittadelladi Palamede e lo stagnodi Lerna, in vista alle bianchevette del Partènio? Tirinto,città di rupi adunate,ventosa del soffio d'Eràcleche triturava co' vastimolari i tuoi bovi ancor lordidi bragia e crudigni, se maiio torni, cercar voglio quelletue pietre che soffregatedai dorsi lanosi di tantepecore nei secoli lentisi polirono come l'avoriodell'else consunto nel pugnodei tuoi re! Poi per la profondaferitoia guardar voglio il marepiù cerulo del feniciovetro che t'ornava il palagio.Ma te, o Micene, s'io torni,guarderò di lontano.Ahi troppo vivesti tu meconel sogno coi truci tesoride' tuoi sepolcri e agitastile mie vigilie, quandoal fulvo usignuolo nomatoCassandra io diedi una pura

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sorella; che forse nomarsidovea col tenue nomedi Ebe giovinetta celeste!Spoglia tu sei del metallofùnebre, ma io ti profusila sua grande chioma tutt'oro.Ella ne ammanta e irraggiala Fonte Perseia ove bevvela morte: vi tremola e piangela polla per entro in eterno.Così la vede il mio sogno.Giova, o Atride, che ne sien certequeste mie pupille mortali?

Tu sei netta e cruda nell'aerearido, ma io ti ricoprod'un velo. A Mègara bianca,a Mègara vestitadi lino, che sferza i cavallisu l'aia abbagliante di spiche,a Mègara voglio tornarecon una sete più fortee bevere all'orcio di Egina,all'orcio di terra eginètache appeso per l'ansa a un ulivorefrigera l'acqua nel vento.Egina tricoste, deliziadel golfo, pe' tuoi freschi orciuoliti loderò, pe' tuoi fichidensi, pe' tuoi mandorli ch'io

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non vedo fiorire? o pel bronzoche Onàta fondeva sì ricco?o pel marmoreo sorrisoche incurva le labbra agli oplìtimorenti in fronte al tuo tempio?

Salamina, isola di AiaceTelamonio, falce di lunapetrosa che mai non tramontasul mare né mai nel ricordodegli uomini, gloria di rostri,vittoria volante con triploremeggio sul sangue salmastro,penso alla tua ora divinaquando i trierèti in silenziopoggiarono i remi agli scalmiassicurati col cappiodi corda e ciascuno credetteudire Pallade armatascendere sopra la prua,e Serse era in trono sul monte,e di repente dai pettiellèni proruppe il peàna,squillarono tutte le trombe,rimbombò per tutte le rupiil grido dell'Ellade: «Questoè il combattimento supremo!».

Luoghi di luce, le rosefluttuanti al vento del mare

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bianche e fino agli orli ricolmenon di rugiada ma di caldomosto, son le Cicladi belle.Simile allo strepito primodella pioggia sopra la fronda,quando la campagna si tacesoffocata guatando la nube,m'è il suon de' lor nomi divinisopra l'anima ardente:Sifno, Citno, Sèrifo, Nasso!A Ceo, che imita in sua formal'ovo della colomba,a Ceo dalle leggi eccellenticome gli inni delle sue lire,l'ombra di Simonide ancórainsegna la musica ai figlidei marinai pileatisul càrabo curvo che portala scorza e la ghianda del cerro.

A Paro vagammo per viechiare sotto pergole verdi.E tanto leggere eran l'ombreche vi si parevano i nervidei pampini con una tracciapiù cupa, e i raggi per entrovi piovevano in guisadi torqui di anelli di armille;sì che vestiti d'azzurroe di monili vagammo

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quivi ascoltando i cantaridelle donne ionie che nudele braccia lavavano i liniin trògoli tutti di marmo.Vedendo bagnare un bel velo,non dell'irto euforbio archilòchionoi ricordammo i cruentiaculei ma l'unico fiorenato di due pètali soli:«Alcibìe dopo le nozzeoffre a Era il velo crinale».

Andro ci apparve su l'acquetutt'avvolta dal repentinoscroscio della nube d'agosto,come tessitrice odoratadietro telaio d'anticafoggia intenta a tessere argentopur con alcun filo commistodi porpora forse venutaa lei dalle pésche di Giaro:spirava per quell'erte trameolezzo d'aranci e di cedri.Ma l'odore di Sirofu più forte. Siro, nutricedi cordari e di calafati,tra pescatori di spugnee conciatori di pelliartiera di vele e d'ormeggi,bianca a piè di fulve montagne,

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odor di fasciame unto a caldocon pégola sevo e cerussa,cara ai marinai dell'Egeo!

Ah belle da presso le Cicladiintorno a Delo coronagemmante, scolpite con artecome calcedònie e iacinti.Belle più anco di lungi;ché di lungi assemprano un corod'aulètridi alto su l'acque,un coro d'aulètridi ioniedai lunghi chitóni cadentisu l'unghia del pollice, nudeperò le gole venatedi cìano, dorate dal soleattraverso la pelle e le veneinsino ai precordii, dorateinsino alla conca segretadel pube. E il miel delle vignefamose indolcisce ogni puntadelle lor mammelle protese.E la melodìa de' lor flautirallenta il venir della Notte,trattiene l'Estate su i mari.

Voluttà, voluttàd'Ariadne e di Dionìsocommisti sul carro che aggiogala maculosa pantera

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cui l'Amore diè per sorellauna nudità constellatadai segni del bacio crudele!Tra il Cretico Mare e il Mirtòomollizie insulare, lascivosale che ancor bolle e schiumeggiadella sua figlia Afrodite,amaritudine d'ulvee di veneficii e di pianti,ove Pasifàe morta ondeggiariversa con le sue palmecalde tuttavia del sudoremalvagio, non spenta per anchela carne che giunta fu all'ossacome il fuoco al legno del pino!Ah belle da presso e di lungile Cicladi, e molto a me dolci.

Ma a te tornerò col mio cuore,isola di Aiace, a te forzadelle triere rostrate,potenza adunca del ràffio,gloria delle glorie navali,per compier con soli i miei remiil perìplo delle tue rupisante, poiché non poteicombattere nelle tue acquecom'Eschilo al fianco d'Aminiache diè primo il colpo di rostro,né come il giovinetto

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Sofocle condurre la danzadegli efebi intorno al trofeo,né com'Euripide (l'immensoclamor del peana coprivagli urli della partoriente)nascere nel dì della pugna.A te tornerò pel mio vóto.Dal colle d'Elèusi desertonon mi saziai di guardarti.

I monti di Mègara, i cupiGerànei folti di pini,il Coridallo ondulato,le gole di File, il notturnoCiterone, gli aridi gioghielicònii, tutte le vettelontane cui l'aria e la luceintessono vesti più belleche la veste del crocodello smìlace e del narcisso,impallidivano incontroall'aspro tuo lineamentoch'era come il guataredi Pallade quando ella indagadi sotto al suo casco corintiole schiere ordinate nel campoe pesa il coraggio dei petti,sì che al vile trema lo stinconello schiniere di bronzoma la virtù si rischiara

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nel forte che pugna con arte.

XIII.

Papaveri, sangue fulgentequal sangue d'eroi e d'amantiinnanzi a periglio mortale,soli ardevate con meconella mistica chiostrapoi che giammai riaccesevedrà il pellegrino le facidel Dadùco nel tempiod'Ecàte. Ma i grandi triglifidorici splendevano bianchilà dove Demètra si assisecrucciosa, il cor piena d'angoscia,e isterilì la terra.Tutto era doglia e misterosu le fondamenta solenni.L'ombra d'una nube curvataera sul Callicoro, comel'ombra del mietitoreindicibile che innanziagli epopti mietevala spiga di grano in silenzio.

«Vivi della Vita universa!»mi significò la grandezzadella solitudine sacra.

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Ma l'anima umana non vivese non del suo sforzo incessanteper effigiarsi su tuttele cose come sigilloimperiale. «O Uomo,aduna tutte le cosesotto l'adamàntina moladella tua volontà pura,e della sostanza premurafa pe' tuoi giorni il tuo pane.»Guardai le pietre come glebe,le colonne come covoni.Poi gli occhi pregni di lucechiusi e la dea, ch'era informeper entro alla massa terrestre,sorgere perfetta nel peplocerulo vidi, chiomatanella corona murale.

E fra le sue braccia divinetenea, sul suo seno odorosoDemofoonte, il figliomortale di Cèleo, natopiù tardi. E nudrirlo volead'una terribile forzaperché crescesse oltre l'umanamisura e non più ritenessenel petto cresciuto il respiromisero, l'ansia faticosadel gregge. Per ciò nottetempo

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ella l'occultava nel fuoco,nelle stridule fasce del fuocostringevalo senza timore;ed or lo volgeva sul fiancoor su l'altro in quella vermigliacuna, ora internavagli il capolà dov'era più voracela verginità della fiamma,come il fabro fa d'una sprangache battere debba all'incude.

Ma Metanira spiavacon l'occhio obliquo. Spiavala femminetta reginadalla fronte bassa quell'oprad'amor duro; e non comprendeva,la stolta! Con cruccio e spaventosi percosse ella ambo le cosce;gridò, schiamazzò come l'ocadei pantani. «Figlio» ululava«figlio Demofoonte,ti occulta nel foco voracela straniera e a me ti sottrae!»E subitamente la gioiaignìta di Demofoontecessò, come torcia riversache spengasi in putrido fango.La dea lo rimosse dal fuocoe lo depose a terra;con disdegno uscì dalle case.

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E la femminetta al fanciullopiangente diè tepida pappa.

Ah, Metanira, Metanira,imbóccalo, ingózzalo dunquecol tuo buon cucchiaio di bosso,gónfialo d'orzo e di sierofinché vomiti. Se d'ambrosial'ungea la straniera, tu stillaper lui la sanie succulentadalle più crasse carogne.E pàlpalo con le tue manisudaticce, fiutalo quandoil suo ventre fluisce,lecca la sua pallida pellecon la tua lingua viscosadi gozzoviglia indigesta.Ben ti conosco. Quandospingesti tu contro la deala bocca imbavata di bilee d'ingiuria, ti precedettel'ignobilità del tuo mento.Regina, conosco l'anticotuo ceffo e il tuo nome novello.Gli occhi riapersi alla luce,come l'Iniziatoreduce dal tenebroreprofondo ov'eragli apparsa,in una pausa infinitatra i gridi del lutto materno

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e il rombo dei bronzi percossi,la spiga mietuta in silenzio.E le innumerevoli vampedei fiori, che Persefoneianon avea cinti al suo caponotturno, ondeggiavano al ventodi contro al zaffìro marino,sì forte che di talunosparivano i petali comeestinti dal soffio e apparivala regia corona sul gambosolinga. «O bei fiori paràlii,dominazioni letèe»dissi «io so dov'ardono i vostrièmuli in foco ed in sangue!»

E del laziale desertomi sovvenne, dell'Agrocavalcato dagli acquedottiroggi e dai centauri villosiche guidano il gregge con l'asta;della Latina Viasovvennemi e della Flaminiae dell'Appia grave di tombe.E mi levai, al conspettodi Salamina, pensosodel Crèmera. E tra la muragliadel perìbolo santoe il portico dorico io, pienodell'altra mia patria, cercai

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sul suolo il vestigio dell'ampiabase onde sorgeva la statuadel Tempo, che Quinto Pompeiofiglio d'Aulo e i suoi due fratelliconsacrarono quivialla Potenza di Romae all'Eternità dei Misteri.

XIV.

Poi scendemmo verso i due laghisalsi ove i novizii giungendosi purificavano. Ed oltrepassammo, lungh'essa la rivadel golfo bianca di ghiaie.Pel valico dell'Egalèo,tra i pini i leandri i mentastrii mirti i ginepri i lentischi,pellegrinammo a un'alturapiù del Callìcoro santaper noi pellegrini già ebridi tanta vita sublime.E suscitava ogni nostropasso una nube di aromiche ci empieva il petto ansiosod'una voluttà troppo ardente.E più d'una volta l'angosciadell'amore mi vinse;e mi soffermai senza forza,

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credendo che il velo degli occhifosse un albeggiare d'olivi.

«Figlia del cieco vegliardo,Anfigone, dove siam giunti?in quale città di mortali?»L'Ombra di Edìpo, dall'atreocchiaie per entro a' capeglicui le piogge i vènti le arsuredato aveano un tristo lucorecome alle paglie marine,parlò. La sua faccia rugosaera come clamide attortada man che la lavi sul sasso.«Padre miserabile Edìpo,torri di città sono lungi,quanto veggo.» La vocevirginale, nudritadi amare radici, pareache pel veglio in sé ritenutaavesse la sola dolcezzadella fonte, omai già lontana,dal dio conceduta alla sostadel mattino sotto grand'elce.

E tutta la mia forzafu pallida, tutta la vitadell'anima mia fu vissutaperché quell'ora splendesse.Grido la mia bocca non ebbe.

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Non fu nominato quel nome.Il coro di Sofocle puros'alzò dagli olivi pallàdii.«All'ottima delle contradeterrestri, Ospite, sei giunto,di bei cavalli feconda,al biancheggiante Colònoove plora in conche virentiil melodioso usignuolopiacendosi della vinataedera e della sacra selvamolto fruttifera, immunedal sole e dai vènti iemali,che Dionìso effrenatoama trascorrere, e intornogli sono le iddie sue nutrici.»

Modi della strofe perfettaapparvero i culmini i lidii templi gli arbori. Il velodelle Càriti effusoera in cerchio a guisa di bendalieve sul crinale dei monti.E come l'Imetto che guardail Parnète fu l'antistròfe.«Sotto l'urania rugiadaquivi continuo fioriscedi bei corimbi il narcisso,delle Magne Dee molto anticaghirlanda, e il croco aureo splendente;

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né mai languono le insonnifonti del Cefìso errabonde,ma continue rigano l'acquelimpide fecondatricila terra dal sen spazioso;né mai si dipartono i coridelle Muse, e non Afroditeche tratta le rèdini d'oro.»

Nell'inviolabile selvasacra alle Eumènidi entrammo,come supplici. «Arbore è quivicui non pose man d'uomo, germeda sé medesimo nato,che grandemente fiorisce,di glauca fronda l'Olivo...»Anima mia, non tremare.La nostra gioia più fierala nostra conquista più grandenoi non le canteremo.Quel che ci disse coleiche coronata è di violenon ridiremo ai vènti.Serberemo il miel dell'Imettoe il vin del Parnete, odoratocon la bionda ragia del pinopentèlico, per i convitiocculti ove sia nostro lumee nostra allegrezza lo sguardodi quelli occhi cesii che sai.

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Lascia la sua fronte nell'altoEtere, e inclìnati su i lembidella sua tunica ornatidi belle ghirlande marine.Forse non sapremo giammaiil nome del fiore paràlioche vedemmo sopra le sabbiedi Fàlero, e coglierlo noinon ci ardimmo, ah di sì lievebellezza che parveci entrassein noi non pel varco dei sensima com'entra un puro pensiero.Fàlero, tutto l'azzurrodell'Attica scende alla tuabaia, si versa in te comein un lebète d'argentoe ci fa sitibondidel tuo sale! Anche Munichiaha la sua coppa rotondascavata nell'ònice schietto;anche Zea, nel fianco dell'Acte.

Ma tu fosti fatto di manod'inimitabile artiere.In contro al faro di Psittàliail mare si frange in ruinedi sepolcri; e forse coluiche in pugno alla dea Poliàdepose il remo in vece dell'asta,

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forse Temistocle quividormì su lo scoglio rugosofinché l'acque di Salaminanon si ripresero l'ossadell'eroe che tinte le aveacol sangue dell'Asia. Pur quantoè più dolce al pilotoin calde arene colcarsi!«A Fàlero voglio approdare.All'àncora mia date fondo.E poi seppellitemi all'orlodel lido, nella rena giù.Quivi marinai sbarcheranno,ch'i' oda lor voci da giù.»

Canta tuttavia le canzonisue roche quel pescatore,che non si nomava Fintìloe non Ermonàce, nerignocome il guscio della carrubagrata ai giumenti, ma grigiointorno al collo la barbacome intorno a scalmo consuntosfilaccia di stroppo? Pensammoche offerto egli avesse al diodei promontorii gli avanzidella rete i sugheri e i piombi,o le nasse e l'amo ricurvolegato al suo crin di cavallocon la lunga canna, o una triglia

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pavonazza, la squammad'un gambero, un fin laberinto.Ma forse veduto egli aveasul Mare Mirtòo Saffo mortae virato in prua paventandola fosca sirena dormente.

O Cefìsia, delle tue polleche aveano il colore dell'ombrami sovviene, e de' tuoi bianchisarcòfaghi e del clamoredelle tue rondini. O Spata,mi sovviene delle me tombevenerande. Padre di templifulvi come il grano maturo,Pentèlico, de' tuoi pastorimi sovviene selvaggine' chiusi di creta e di giunchio sotto le tende di cupacànape simili a quelleche vidi nel muto Deserto.Nel tuo teatro, o Torìco,dinanzi all'isola lungacui diè la Tindaride il nome,tra moltitudini d'erbevedemmo l'Aurora inclinataa rapire il bel cacciatoree udimmo il lamento di Procri.

Laurio, lungi a' tuoi pozzi oscuri,

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alle tue fornaci, alle scoriedel tuo metallo, scoprimmouna roccia rosea comeil corpo d'un'Evia bagnatodi mosto; ed era sì bellache per toccarla scendemmotra gli scogli ardui del lidoperdendo il cammino; ma, quandoritrovammo il camminoe ci volgemmo a guardarla,di lungi ell'era anche più bella;e ne favellammo nel vespro,tornati alla nave, colcatisul ponte, prima che il sonnoci prendesse, parlammodi lei come d'una divinacarne che fosse viventelaggiù senza letto d'amore.E viveano tutte le coste,dal Sunio al Pirèo, nella sera.

Sunio, un mercatore feniciofui guardandoti, un montanarod'Ircania portato alla guerrasu nave di Medi, un Bitiniodella Propòntide in commerciod'acònito, un frumentieredel Chersoneso, un vinaiodi Chio fui guardandoti, ed ebbitant'occhi per istupirmi

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di te con sempre nuovepupille; e per venerartipiloto di Fàlero fuireduce da Panticapèo,rivarcato alfin l'Ellespontoe alfine il Geresto d'Eubeadopo traffico lungo;ed anche l'oplìte devotofui della Republica, a guardiadell'argentifero lido,del metallo sacro all'impressoconio dell'epònima dea.

Promontorio fra tuttivenerando, altèra cervicedella Paràlia rupestra,il tuo tempio par che si sciolgacome lentissima nevealle primavere del mare.Il sale mordace cancelladalla colonna il solcodorico, nel masso fendutodell'architrave consumale groppe ai Centauri e le cornaal maratonio Torodomato dall'attica forza.Maratona, Maratona,aquila precipitosadall'ali irsute di lance,ben ti venne Tèseo sul fronte

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degli opliti a fianco d'Echètlo,dell'eroe rurale che uccisegran turbe di Medi col suomànico d'aratro e poi sparve.

Io sul tuo tumulo grandecolsi una rama d'alloroche dure avea foglie di bronzoma bacche tra nere e azzurrignerilucenti come la testadella rondinella cecròpia.Poi, su la spiaggia arenosaquasi palestra solenne,raccolsi una selce che aveaforma di man chiusa. Ed alloravidi Cinegìro figliuolod'Euforione aggrapparsialla protome della pruabarbarica, sotto la scuredel Medo; il combattimentomaraviglioso dell'Uomoe della Nave, nel sanguenell'incendio e nell'orodi Serse, vidi anelando;e chinarsi Eschilo armatosopra il rosso tronco fraterno.

XV.

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«Borda randa! Issa flocco!Sciogliamo le vele del tristeritorno, miei dolci compagni.Il nostro perìplo è compiuto.»E Delo fu l'ultimo approdo;ma la cicala d'Apollonella sua gabbia di giuncomarino era muta, era morta.«Salve, fondamento d'iddii,ramoscel soave alla proledi Leto dal fulgido crine,figlia del ponto, prodigioimmobile dell'ampiaterra; cui chiamano Deloi mortali, ma nell'Olimpoi beati astro della cupaterra lungi apparito!»L'infranta strofe dell'odetebana, come un'altraruina sublime, era innanzialla nostra tristezza.

Nell'inno dell'Omerìde,come in lontananza insulare,sonavan gli ululi di Letoper nove giorni e per novenotti travagliata dal partodel dio (gittò ella le bracciaintorno alla palma, i ginocchisul prato pontò nello sforzo:

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alfine Apolline irruppedal lacerato gremboalla luce: intorno le deeconfortatrici, anche Ilifìala tardi venuta d'Olimpo,conclamarono); e i cantie le danze e i giochi e le garede' Ionii dai lunghi chitóniadunati a' piedi del Cintosonavano. E stava sedutoquivi incontro al Sole orienteil cieco Omerìde, in un cerchiodi vergini dèlie ascoltanti.

Io dissi: «Adoriamo nel sassosterile angusto e dogliosola fecondità degli Ellèni».Morta era Delo su l'acque,deserta, nuda, affocatadal meridiano furore.Ogni sua pietra ardevacome già nei forni i frammentidelle sue statue divineincotti dai mercatantidi calce a murare le casedegli uomini immondi. La vettadel Cinto nel cielo era comela sommità di una mitradisadorna. Bollivail mare tra Delo e Micòno

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più cupo, come allor quandogittovvi Aristide il Giustole masse roventi del ferropoi che giurato ebbero il pattofederale i capi de' Ionii.

Non diversa apparve nell'albadei tempi l'isola al nàutapelasgo che senza approdareveleggiava in vista del Cinto.«Niuno giammai le tue rivetoccherà, niuno giammait'onorerà; né credoche tu sii per esser fecondadi pecore molte o di buoiné di vendemmie riccané d'arbori verde» le disseLeto affaticata dal pesodel nascituro. Desertae nuda l'isola ardeva,come oggi, al meriggio d'estate.E venne l'Ellèno e le disse:«Perché tu sei sterile, o figliadel ponto, io t'eleggo e ti sposo.Trarre saprà dal tuo gremboaspro le abondanze e le gioieil fecondatore di rupi».

E, intorno all'ara construttacoi corni dei capri abbattuti

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dagli strali del Lungescagliante,sorsero i templi le stoele esedre i granai le apotèche.Santuario ed emporiodell'Ellade, l'isola ortìgiaattrasse da tutte le rivedel Mediterraneo Marele teorie dei devoti,le compagnie dei mercanti,la triere adorna di fioricon uomini liberi ai remi,la strongile onusta di granocon ciurma di schiavi oleosi.Da Alessandria a Bisanzio,da Rodi a Creta, da Ostiaa Làmpsaco, da Siracusaa Laodicèa, da Miletoa Sìbari tutte le gentirecavano l'inno e il tributo.

Nella vicenda sanguignadell'armi, ogni Egèmone armatodel Mediterraneo Marealzar volle quivi, tra il Cintoe l'occidental lido, in gloriail monumento superboalla sua potenza navale.Da Ulisse ad Antioco Epifàne,i re v'approdarono. Il quintoFilippo Macèdone v'ebbe

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la stoa tetràgona, insignedi seggi e di statue. Niciav'entrò sopra un ponte splendentedi ori, con un popolo biancodi musici. I Tolomeidall'immensità sepolcralevennero, offerte recandoismisurate. La rosadella Republica ròdiavi fiorì di porpora. In pacevi stette la Lupa di Roma.

E nessuno vi nacqueda utero umano, e nessunovi morì in carne corrotta.L'isola mondata fu d'ogniputredine. Il dio luminosovi diffondea col respiroun'armonia sempre eguale.Le sue corone i suoi vasile sue vesti eran di tantolume che il perìbolo sacromai non conobbe la notte.Il disco del lago specchiavala faccia indicibile. Intornoall'ara dei Corni la danzafingea con ambagi infiniteil Laberinto cretese.L'efebo e la vergine i riccirecisi avvolgeano ai virgulti

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e ai fusi per quelli deporresopra le tombe nel tempiod'Artèmide nata gemella.

«Delo» io pregai nel mio cuore«sterilità più bellache tutta la fronda di Tempe,la forza dell'anima ellènain ogni tua pietra m'apparechiusa qual seme in gleba,sì che alcuna delle perfetteforme contemplate con gioiane' luoghi famosi, o febèa,non mi ammaestra comela tua solitudine inulta.Deh fa che sempre io ti veda,con gli occhi dell'anima invitta,fa che io ti veda qual sei,immobile ignuda e fatalesu le quattro ardue colonnesorte dagli abissi del pontoper sostenerti, e ch'io vedaLeto abbracciare la palmapontare i ginocchi sul pratoper partorirti il bel dio!

Ecco, noi sciogliamo le velea dipartirci. Il periploè compiuto. Navigheremoverso Messàna falcata,

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verso la vorace Caribdi.Da questa patria a un'altrapatria ch'è pur sacra agli iddiiveleggeremo, colmidi vita i precordii, spumantie traboccanti d'ebrezza,pronti a combattere, certidi vincere, poi che apprendemmoa cantare il peananelle acque di Salamina,nei piani di Maratona,e a correre dando l'assalto.Vivemmo, divinamentevivemmo! All'antica mammellaci abbeverammo, ancor piena.La bestia inferma uccidemmonel nostro fango penoso.

Come per osservarel'oracolo gli Ateniesipurgarono tutto il tuo suolo,noi anche disseppellimmoi nostri cadaveri informie li scagliammo all'abisso,e dietro di loro gittammopietre pesanti ed obbrobrioper consegnarli all'abisso.Or tu, nella mia dipartita,o Rupe, da tutta la tuanudità cui più non fa velo

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il fumo delle ecatombi,ripeti a me l'unica leggecui voglio obbedire: SII PURO.T'obbedirò nella lucet'obbedirò nell'ombra,Delìaca Legge, che splendisu l'Ellade come il suo cielopudico. In segreto e in palese,per sempre sarò tuo fedele.Vertice del Cinto, e soventeio ti manderò sacri doni.Narravano i Delii che a quandoa quando sacri doni,involti in paglia di grano,giungessero dal paesedegli Iperborei in Iscizia;e che dalla Scizia, trasmessidi popolo in popolo, versooccidente, fosser recatisul Golfo Adriatico e poiad austro, primieramenteraccolti in Dodona da Ellèni,scendessero nell'Eubeae quindi sino a Caristo;e che dai Caristii, lasciatada banda l'isola di Andro,recati fossero a Tenoe ultimamente dai Teniiconsegnati fossero a Delo,involti in paglia di grano.

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Ovunque io mi sia, nelle terredistanti, in liete sorti o in dure,in guerra o in pace, miei doniti manderò similmenteinvolti in paglia di grano,ché non so custodia più monda.Ma il mio primo donoti verrà forse dal luogoche ti successe in potenzaquando passato fu soprai tuoi granai e le tue stoeil turbine di Mitridate:da Ostia romana, ov'Eneadel sangue di Dàrdano presela terra (accolto l'avevigià tu su le concave naviconstrutte coi pini dell'Ida)e sotto l'arbore assisocol bel Iulo e coi primi ducimangiò per fame le adòreemense e disse: «Qui è la patria!».

Ivi trovar voglio il fasciocereale dei culmi biondiper chiudere il dono mio primo.Conosco il luogo; e, s'io pensoche lo rivedrò, mi s'alleviala tristezza del dipartireperché già riodo il Ponente

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che su la via de' Sepolcri,sul tempio della Magna Madre,verso la selva laurèntiasoffia traendo la mortee la vita, la memoriae la speranza. Ivi un giorno,dalla soglia d'africo marmodinanzi alla cella di rossomattone spogliata ma grande,vidi tra gli stìpiti erettidella Porta Marinamirabili spiche ondeggiarenon certo nate da semicui sparsi avesse man d'uomo.

Non lungi era il Tevere torvofra deserti argini; e le negrenavi dalle cùbie dipintedi minio, cariche di moltebotti, navigavano controcorrente per ormeggiarsiall'ombra del Sasso Aventino;e venìa sul soffio il cantaredei marinai di Siciliae dei garzonetti campànidal crin di viola, che bellison forse come i fanciullidanzanti il gèrano intornoai tuoi turìferi altari.O Delo, forse le spiche

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di sé medesime natetra que' due stipiti erettidella Porta Marinaritroverò, per mandartiinvolto in quel misteriosofrumento il mio primo dono.»

Così pregai nel mio cuore;e ciascun dei dolci compagniforse anche pregò nel suo cuoresegreto, perché non s'udivaparola. Ed èramo tuttia poppa raccolti, in silenzio.Ed uno di noi, che tacevacon fronte ostinata, era sacroa morte precoce, più carod'ogni altro agli iddii come elettoa perir giovine e in attodi compier l'impresa cui s'eradevoto con anima salda.Or quegli nella memoriapiù fortemente mi vive;e lui vedo presso la ruotadel timone in quel punto,fitto su le gambe sue snellee nervose di corritoredel lungo stadio, guatarecon gli occhi chiarissimi il solco.In verità, fra i compagniegli era il più pallido. Quasi

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esangue appariva il suo vólto;ma i suoi biondi capellisorgevano senza mollezzasu la robusta ossaturadella fronte nata a cozzarecontra l'impedimento;e di virtuoso rilievosu' chiarissimi occhi era l'arcodei sopraccigli, sobriala bocca e di netto discorso,agile il collo se benela nuca sì ferma paressech'io le comparai la cerviced'Eràcle che l'Etra sostienetra la bella Espèride e Atlantenella metòpe d'Olimpia.Ei ne sorrise. Ma certogli sovrastava continual'imagine immensa d'un cielo.

Veduto avea splendere nuovestelle in un cielo incurvatosu selve più vaste che tuttal'Ellade, su fiumi più larghiche gli ellesponti e gli euripi,nel Continente australe,tra fosche incognite stirpidall'anima ancóra constrettanell'inviluppo terrestrecome gli iddii primitivi

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dell'Ellade erano ancor mistiagli elementi del Cosmo.Condotto avea su le notturnecorrentie la spaziosarate carica di tronchicentenni e mirato il volumeinfinito dell'acquepalpitar d'astri qual cieloirriguo e l'alba levarsidai silenzii possentecome per un giorno eternale.

Un Ulisside egli era.Perpetuo desìo della terraincognita l'avido cuoregli affaticava, desìod'errare in sempre più grandespazio, di compiere nuovaesperienza di gentie di perigli e di odoriterrestri. Come le schiavedi Bitinia o di Frigiarecavano in letto corintiol'indelebile aromanatale, così le sue patrieremore nell'anima suavoluttuosamenteodoravano. Ei sorrideadinanzi all'olivo d'Atenapensando la smisurata

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fronda opulenta di fioridi frutti di piume che tuttivincono i monili di Serse.

L'Ilisso e il Cefìso ruscellisassosi pareangli, che varcail salto d'un uomo; l'Imetto,un alveare declive;il Pentèlico, un tempiodal lungo tìmpano, senzaintercolunnii; tuttal'Attica pareagli dal cintoaureo di Afrodite conclusa.O dolce compagno, ebro e folled'immensità, ti rivedoàlacre all'alba sul ponte,il primo ai risvegli e ai lavacrimattutini, vigile comeil gallo, sempre operoso,Ulissìde! Il tuo piede scalzorivedo sul nitido ponte,il piè dalla pianta ampia e certa,dal maschio e divergentepollice, il piè corritoredel lungo stadio, o Ulissìde.

Tu eri il più sobrio e il più casto;e, se il compagno avea sete,perché quegli bevessetu non bevevi, contento.

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E nei polverosi cammini,per l'erte difficili, amaviportare l'ingombro dei pesi,né per ciò mutavi il tuo passoespedito; ché il tuo bel corpoera immune d'adipe ignavo,come l'ottime spichearente sotto il mai curvotuo capo d'oro, Ulissìde.Intento a disciplinartieri sempre, anco ne' piacerifugaci, e ad apprendere molto,ad essere industre tu solocome uomini molti; e sapeviapprestarti il tuo ciboe rimendar la tua vestecome la tua vela, Ulissìde.

Compagno diletto, che maimi fosti grave e mai con l'ombratua mi togliesti il mio sole,non più dunque presso il timoneseduto su fascio di cordeio ti leggerò l'avventuradel Re di tempeste Odisseoche dopo le nove giornateventose approdò nella terradei mangiatori di loto,che mangiano il fiore del lotoche fa obliare il ritorno

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a chi la dolcezza ne prova?Ahimè, ti scordasti il ritornotu anche, ma non per quel fioresoave, e mai più torneraicol tuo passo certo e leggeroverso di noi che t'attendemmosì lungamente e sperammodi udir la tua limpida vocenarrar la conquista lontana!

Sotto la clava del selvaggiopredone cadesti, senzavìndici, nell'umida ombra;mentre tu, svelto odiatoredi salmerìe e di scortecon silenzioso ardimentot'addentravi nella forestaletale, obbedendo al tuo fatoche ti spingea senza treguapiù oltre più oltre nel nuovo.Prono cadesti, e il tuo sangueottimo, il sangue del capo,bagnò l'erbe e i fiori dell'umodi là dall'ultima ormache stampata avevi col piedeveloce; sicché procombendoandasti pur sempre più oltre:il tuo corpo, ove spegneasiil pronto vigore latino,occupar valse anco un tratto

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di terra ignota, o Ulissìde.

Gloria a te! Ricordatosarai se non muoia il mio cantofra l'itala gente. A te gloria!E ti rivedo, sul MareMirtòo, presso la ruotadel timone in quel punto,ritto su le gambe tue snellee nervose di corritoredel lungo stadio, guatarecon gli occhi chiarissimi il solco.E t'era non molto discostoun altro compagno di stirpemigrante, dei vizii umaniesperto e del valore,e degli odii, duro in opraree combattere, aspro in trattarela pelle infetta dei greggi,occhio aguzzo, collo taurino,fermo pugno, pensier destroa ogni lotta come compiutoatleta al pancrazio e al pentàtlo.

E questi avea seco, qual pegnod'amore, la sferza untuosatagliata nel cuoio ferrignodel pachidermo fiumale,fatta untuosa dai dorsinegri stillanti di sevo

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fetido. E amava d'amoreanch'egli una terra lontana,la terra ignìta ove la Sfingeall'urto dell'uomo ritrattas'è dalle sabbie del Niload altre piagge crudelie in silenzio attende l'audaceper farsi alla gola una torquedi candidi ossi novella.E certo anch'egli in quel puntotravagliato era dal suogrande amor periglioso;ché tutti avevamo una febbredi sogni nel sangue e donatal'anima a grandezze lontane.

Il Sol declinando, cadutoera ogni soffio cometra Itaca aspra di rupie Same irta di cipressilà sul Ionio Mare nel giornomemorabile. In cerchiosorgeano dall'acque serenele belle Cicladi, d'oroe d'avorio come le ricchestatue foggiate col fioredella preda di guerra.Più d'ogni altro monte splendevail Marpesso, onde gli Ellènitratto avean la candida carne

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de' loro iddii. Lungi, l'Eubeal'Attica il Peloponnesotutta l'Ellade santaera invisibile ai nostriocchi ma presente in eterno.Anche una volta ascoltammol'ora della vita sublime.E dai campi delle battaglieterribili, da Mantinèada Platèa da Cheronèada Potidèa da Leuctra,da tutti i campi sacrialle grandi stragi di genti,sorse per entro quell'aeremelodioso un clamorediscorde: il lagno dei vinti,lo scherno dei vincitori,il canto amebèo della guerra.Ebri d'antiche bellezzee di nuove, dalle sogliedel venerabile Olimpoardentemente protesiverso primavere ed estatifuture, avidi di dominioe di gloria, pel nostro amorepronti ad ogni più disperatocombattimento, ascoltammocon intimo fremito il canto.

Diceano i vinti: «O iddii,

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o iddii, proteggete la nostraterra se mai v'offerimmoin sacrificio il biancoe nero fiore dei greggi,le primizie degli orti!Spavento, sciagura, vergognasi precipitano soprala stirpe che amaste, cui fosteper sì lungo tempo benigni.Ah! Ah! Udite, uditelo scalpito dei cavallidietro la polve messaggeradi morte, lo stridor degli assinei mozzi, l'urto dei clìpeie delle gambiere di bronzo.L'etere è tutto irto di lance.Le catenelle dei freniinduriti col fuoco, ecco, ecco,tintinnano nelle boccheschiumanti. Ecco l'ultima strage!».

I vincitori: «Gli iddiison coi vittoriosi!Pascere Ares noi vogliamocon la vostra carne cruenta.Zeus non v'ode, non v'odel'ippico Re, non Apollo.La spada a due tagli l'estremaluce fa su gli occhi del vinto.La Necessità vi tien presa

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la strozza come noi l'elsad'argento tegnamo nel pugnoe la coróne dell'arcoe della frombola il cappioper forarvi il cuore tremante,per fendervi il cranio curvato,per frangervi ambo i ginocchi.A terra! A terra! Gli iddiinon v'odono. La città vostra,con l'oro la porpora i vasidi vino i bei letti e le donne,alla nostra fame è promessa».

Diceano i vinti: «Sciagura!Gli iddii disertano i templi!Pur quegli che sorse dal suoloonde noi nascemmo, ci lascia!Ah per questo nascemmo,per esser calpesti, premuticome il grano sotto la molacome nel frantoio l'olivacome l'uva nel tino,per esser pan d'ossa trite,olio di midolle, vin rossodi vene al banchetto feroce!Gli iddii son co' vittoriosianche vili. Il cielo è su noicome clipeo nemicoche porti nell'ònfalo il capogorgóneo per impietrarci.

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E quante ecatombi v'offrimmo,o Zeus, o figlia di Leto,o Cipride madre di nostragente, per quest'onta nefanda!».

I vincitori: «Molestoè agli iddii l'odore fumosodelle ecatombi offerteda femmine imbelli. Tacete!Vociferar contra gli iddiinon vi giova. Le lingueloquaci vi strapperemonoi dalle fauci per darlein pasto alle cagne e alle scrofe.Voliamo, voliamo, cavallidi belle criniere, voliamo,carri dall'aureo timone,su i petti e su i dorsi dei vinti!La polvere, la sitibondasorella del fango, ha bevutoun fiume di sangue ed è nera.Meglio è segnar nuovi solchidi ruote sul tramite umano,su i vivi e su i morti prostesi.A terra! A terra! Voi sietela via su cui passano i carri».

Diceano i vinti: «Eccoci a terra,eccoci proni, prostesidavanti all'unghie dei vostri

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cavalli. Se gli iddiinon odono, udite la nostrapreghiera voi, uomini, natidell'uman seme come noine nascemmo in giorno nefasto!».E i vincitori: «Non sietevoi uomini, sì siete coseda noi possedute, men buonedei vestimenti, dei vasi,dei letti. Noi dalle vostreviscere trarremo le cordeadatte alle frombole e agli archi;e le serberemo pel giornoin cui ci bisogni domarenovamente insania di schiavise qualche rampollo risorgadal tronco che abbiamo reciso.Ma non lasceremo radici».

«Ecco, ecco, siamo la viapalpitante sotto il galoppodi ferro. Ma il cuore vi tocchipianto di vergini, vagitodi pargoli, ululo di madri!Ardete le case, abbattetele torri, struggete dall'imola città, le ceneri ai vèntidate e i nostri corpi agli uccellivoraci, ma fate che il greggemisero lasci le mura

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e lungi nasconda il suo lutto!»«Le vostre vergini mollile soffocheremo nel nostroamplesso robusto. Sul marmodei ginecei violatisbatteremo i pargoli vostricome cuccioli. Il grembodelle madri noi scruteremocol fuoco, e non rimarrannogermi nelle piaghe fumanti.»

«Ah, non avete sorelleche a' telai vi tessano vestisoavi aspettando il ritorno?»«Già corse il Messo. Ora annunziache vincemmo. Ed elle infiammategittano le spole e «Sien grandi»sclàmano «la strage e le prede!»«Non mogli avete che appesorèchino alla mammella un dolcefigliuolo e gli càntino il sonno?»«Elle ne' lor seni hanno lattedi leonessa e al figliuolodicono: «Se il germe rinascamalvagio, tu crescimi fortee schiantalo ancóra e per sempre!.»«Non madri avete al focolare?»«L'arme pesarono ammonendo:«Non ti stancar mai di ferire.Sia l'ultimo colpo il più crudo».

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Voliamo voliamo, cavallidi fuoco, sul fango dei vinti!»

XVI.

O Vita, o Vitadono terribile del dio,come una spada fedele,come una ruggente face,come la gorgóna,come la centàurea veste,o Vita, assai più crudeleè il canto che nella pacedelle città funestes'ode, quando arde il bitumeo splende la selcesotto il Cane voracenelle vie diritte ove passail carro che non ha timonené giogo, e non corsierisplendenti di sangue e di schiumecui prostesa l'onta soggiace,ma rapidità senz'acumeche bassa scivola, immunetra la ferrea fune sospesae il duplice ferro seguace.

Conosco la feritache nella via necessaria

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fa la rotaia lucenteagli occhi della tristezzasmarrita per quell'aria atroce,quando non ha più vocela bocca convulsa che occludela cenere dei sognimasticata nel fielerigurgitante, e dalle nudemani pare avulsal'ugna che sapea ghermire,e sola nel collola caròtide pulsacome la sbigottitarondine cui l'infantilecarnefice strappa le piumedi nascosto, e il cuore è frollocome la carogna vileche sul bitumesi matura al sole d'agosto.Ben vi so, torridi giorni,meriggi funerei,incontri spaventosidi cerei vólti disfatti,via chiusa tra mura di forni,tacita piazza combusta,sordo asfalto, lastre roventisu cui l'ombra angustadell'uomo è come bestiadi corte gambe laida e obliquache il tacco gli addenti ove il cuoio

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rossigno si torce sformatodall'ignobile passoconsueto. Ombra, ombra del vintosi trista su le sporche mura,trista come la menzognacallosa ond'ei campa e lucra,trista come il suo viziosegreto, come il suo rimorso,come la sua paura,come la sua vergogna!

Manìe, Manìe silenziose,erranti nell'infernodella città canicolare,col passo degli sciacallifamelici, tra le buccelùbriche dei frutti e lo stercodei cavalli copertod'insetti che hanno il lucoredell'acciaio azzurrato,io vi guardai nelle pupillecontratte dal doloredella luce, vi guardainegli occhi gialli di saniee di cruore vermigli,su cui palpitavano i ciglicol palpito disperatoche non ha tregua nel sonnopoi che il sonno fu ucciso;vi guardai fiso aspettando

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che vi scagliaste come doghia mordermi i pugni e la gola.

Imagini del delittomostruose intravidi,torcimenti d'angosceinumane ma senza gridi,anime come sacchi flosce,altre come logori lettidi puttane marce di lue,altre come piaghe orrende,fatte informi e nanedal gran taglio diritto,simili al combattentech'ebbe le due coscerecise fino all'anguinaiae tuttavia rimanemezz'uomo sul suo tronco e cercacon le dita ancor vivetra il rosso flutto la radicedi virilità ricacciatain fondo al ventre, là dov'eraprima ch'egli escisse compiutomaschio dalla matrice.

Ma quelle miserie e quei morbie quelle follie,insanabili, al mio malenon eran fraternise non per il silenzio

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e per la sete,perché taceano e avean le labbradella sete mortale.E cessai di guardare.Tenni gli occhi inclinatial riverbero biancodelle selci, solocon la mia febbre errabonda.E quando il ginocchio stancosentii flettere e pesarmiil cuore così che mi parvequasi dolce cader senz'armisu l'immonda via qual giumentoche più non vuol trarre le some,mi fermai nel trivio desertoe dissi al mio cuore il mio nome.

E, in quella guisa che il rudecacciator nella selvasonora col sibilo chiamala muta dei veltri dispersa,radunai con lo squillodell'orgoglio tutte le forzee le vendette del gentilemio sangue sul trivio deserto.E nel vólto febrilelo sguardo mi ridivennegelido e chiaro; l'ossodella mascella fu saldoe armato per mordere; in tutti

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i tèndini il certo vigoresi contrasse, pronto all'assalto.Guardai il nemico Dolorecon stridor di dentiper scagliarmigli addossoe stampargli segni cruentisu la gota pallida. Il cuoresonò come bronzo percosso.

O lastrico accecante,spigoli crudi dei muricoperti di rabida lebbra;consunta pietra di scale,innanzi le porte sacreal dio della cenere, doveil mendicante ostental'ulcera e la man tesa;cupa finestra ove in attesadi preda sta la bagasciaspandendo sul davanzalele sue mammelle comepasta che lièviti; lentadiscesa dell'ombragiù dalla statua deformeche glorifica il demagogobrutale; o lastrico senz'orme,oscenità del luogopublico, lordume del trivio,per voi conobbi un'ebrezzaamara che non ha l'eguale.

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Sentii l'odore d'un abissoinvisibile e onnipresente,il pestifero fiatod'un gran mare torpentema pieno di occultaferocia, di vita vorace,ove la tristezza dell'uomoera come la navedalla prua bene scultache con l'elica guastaè perduta nel polipaioimmenso, nell'immensotedio dell'Oceano ardentesotto il Tropico, e non camminama sussulta, ancor pulsandol'infermo suo cuore d'acciaionella vasta carena,sinché lentamentemuore nel fetoredella sua sentinatetro che l'avvelena.

Vesperi di primavera,crepuscoli d'estate,prime piogge d'autunnocroscianti su l'immondiziapolverosa che nerafermenta sotto le suolafendute onde si mostra

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il miserevole piedeumano come tòrtaradice di doloredivelta; rigùrgito crassodelle cloache nell'ombradella divina Sera,tumulto della strada ingombraove tutte le famie le seti irrompono a garad'avidità belluinaper la forza che imperae partisce i beni col ferro,da voi sorgere io vidinon so quale orrida gloria.

Gloria delle cittàterribili, quando a vespros'arrestano le miriadipossenti dei cavalliche per tutto il giornofremettero nelle vastemacchine mai stanchi,e s'accendono i bianchiglobi come pendule lunetra le attonite filedei platani lungh'essele case mostruosedalle cento e cento occhiaie,e i carri su le rotaiestridono carichi di scòria

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umana scintillandod'una luce più bellache la luce degli astri,e ne' cieli rossastrigrandeggiano solitariele cupole e le torri!

Orrore delle cittàterribili, quando su le viearse cadono i larghi lembiviolacei della Seracon un odor molle di morte,e s'accendono su le portedelle taverne i fanalirossi che versano il sangueluminoso al limitareove scoppierà la furenterissa dopo l'ingiuria,e i fuochi della lussuriabrillano negli occhi senilidella grigia larva che insegueper l'ombra la vergine impubecon nel passo malfermol'indizio del morbo dorsale,e il bardassa trae per le scalegià buie il soldato che ride,e la libidine incidel'enorme priàpo sul muro!

Febbre delle città

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terribili, quando il Solecome un mostro colpitodal tridente marinopalpita ai limiti delle acquein una immensità di sanguee di bile moribondo,e nel duolo del ciel profondola gran piaga persistelivida di cancrena,e s'ode la sirenadel vascello che giungecaldo di più caldi mari,e s'accendono i farisu l'alte scogliere,e le ciurme stranieresi precipitano all'orgiafrenetiche come baccanti,e il porto suona di cantidi schemi di sfide di colpidi crapula e d'oro!

Sonno delle cittàterribili, quando dal fiumeaccidioso (ove si stempratra la melma e il pattumela polpa dei suicidifosforescente comesu i salsi lidi il viscidumedelle meduse morte)sorgono le larve diffuse

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della caligine tacentecon mille tentacoli molliche sfiorano tutte le portee palpano i miseri e i folli,il ladro e la venere vaga,l'ebro dalla bocca amaral'orfano dall'ossa contorteassopiti sopra la fogna,mentre s'amplia e s'arrossanei fumi la chiara finestradel sapiente che indagae del poeta che sogna!

Alba delle cittàterribili, aurora che squillacon mille trombe di ramesul silenzio opaco dei tettichiamando i dormenti a battaglia,primo dardo che il Sole scagliaa fiedere le sfere d'orosu le cupole ancor notturnee le cime ardue dei caminiemuli delle torri e le bianchestatue degli archi trionfali,Speranza volante su alirecenti come i fiori natisotto le rugiade celesti,passo degli artefici dèstiall'opere sonoro comescalpitìo d'esercito grande,

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rombo che si spande dai mossicongegni pel vitreo duomo,oh Alba, oh risveglio dell'Uomoeletto al dominio del Mondo!

XVII.

Chi fu che mangiò gli escrementisu la piazza publica, in pani?Ezechiele, il profetabelluino, figliuol d'uomo,il vate dei carmi ruggenti.E dalle sue labbra immaniirte di pél selvaggio e lordeproruppe un divinofiume di poesiache scrosciò su le nazionisorde, travolse i re vani,sommerse i popoli spenti.O città di sangue e di lucro,di magnificenze e d'obbrobrio,di sacrificii e d'amore,mangerà gli escrementisu le vostre piazze sonorecolui che vorrà far giudiciiper esaltarvi nell'inno,per abominarvi nell'ira,per stringervi in patto di pace?

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Egli sarà segnatodella profonda ruga,ma avrà nella carne un cuor novo.Foggerà egli il fango?Smoverà il letame?Metterà in fuga i sognid'infermo e i delirii palustri?Caccerà la famee chiamerà il frumentoe lo cernerà nel suo vaglio?Aprirà gli antichi sepolcriintorno a cui danzareai solstizii d'estatepotranno sotto lo sguardomaterno i fanciulli robusti?Il Presente è in travaglio.Afflitto io non dissi a me stesso:«I giorni saran prolungatie ogni visione è perita».Ma sì bene: «I giorni e la fiammad'ogni libertà son da presso».E non Ezechiele, il Caldeodal capo bendato, che stringeil rotolo ond'ei pascer deveil suo ventre e le interiorasue riempire, e si volgeimpetuosamentenel fuoco dell'alito eternocol petto già gonfio di canto;né la Sibilla di Persia,

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decrepita in suo chiuso manto,che leva le mani rugosee china la fronte longevaa deciferare con gli occhivelati da secolo tantol'angusto quaderno ov'è strettala somma di tutte le cose;non quegli non questa risposea me dalla volta profondanell'ora mia quando supinosul pavimento mi giacquicon l'anima mia furibonda.

Ma ritrovai vénti fratelli,m'ebbi uno stuolo gagliardodi vénti fratelli nell'alto,che mi risposero in coroe in disparte, col gridoe col silenzio, con lo sguardoe col gesto, nel grandesacrario sonoro. O Sistina,rifugio più solitarioche le vette eccelse dei montiove l'aquile hanno lor nido,altitudine senza fontiper la sete di chi sale,dominio di violenzae di dolore immortale,sublimità del Male,rapimento carnale

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degli spiriti verso novellicieli di potenza e di gloria,in te ritrovai miei fratellidisperato della vittoria.

Per venire a te primamente,passai sopra il sangue ferino.Persiste ancor nella selcedell'Aurelia Via la vermigliamacchia e al sole è splendentecome nella mia rimembranza?Oh meriggio di primavera!Le taverne eran pienedi carradori feroci,di rauche voci, di bestemmiecrude, di oscene canzoni.E un odor maligno di vino,di timo, d'ànace, d'aglio,di sudori, d'olio fortignooccupava la via romana.Ma dalla campagna lontanavenìa sul vento a quando a quandoil profumo dell'asfodèloe l'aroma del pino.In un silenzio anèlodolorava il cielo latino.

Aurelia Via, l'erma è bifronte,mistica e bestiale,che ti guarda e a me t'apre.

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La tua selce rintronaalle ruote e s'assordaallo scalpiccìo delle capre.Fra la turpe cauponae la mole papale,fra crete e fornaci, urli e tacilorda di lordure e di sangue.Gialla tu sei sotto il solee lucida di festuche,or bianca or cerula a lunache cresce o che langue;mentre il carrador nello stramede' suoi giumenti, ne' vellide' suoi castrati ronfia o cantad'amor canto infamee l'urto del carro sciabordail vin nei barili cerchiati,il latte nei vasi di rame.

Stanco dei sorridentiuomini vestiti di frodecon labbra dipinte su falsidenti, mellìflui e grassicome le meretrici,stanco di scoprir ne' lor passil'ernie nascoste e le varicie le inconfessabili piaghee le vèrtebre fiacche,stanco di lor colpi bassie di lor ferite vigliacche,

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io cercai nell'anticavia la stirpe sanguinariache maneggia il coltellodal mànico di cornoe dalla lama fissa.Vagai d'intorno aspettandoil primo clamor della rissa,l'ingiuria arrochita dal vino.Fiutai negli odori dell'arial'odore del sangue ferino.

Una forza selvaggia e sacra,come quella che indurala fronte ed affoca la cogliadell'arìete pugnace,pareva addensarsi nei torvibovari, nei bùtteri armatid'un'asta ch'è un tirso cui toltafu la bassarica foglia.Sì fulva ebber certo la barba,sì ebber villoso il toracegli antichi predoni del Lazio.E le lor femmine (Romane impresse l'effigie nell'oroimperiale) dal collopesante, dal ventre mai sazio,dalla chioma lucida e foltacome la lana dei nericapretti, le femmine bellee lente ai copiosi pasti

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infuriavano i maschicol fortore delle ascelle.

Quivi l'animale umanoamai, che divora, s'accoppia,urla, combatte, uccide,inconsapevole e vero.Quivi divinai la divinabestialità che faceasì resistente la forzadi Roma dal tardo pensiero.Meglio che tra gli spadonie le spìntrie, il mio doloree il mio desiderio inespressiquivi respirarono, fattipiù forti perché più carnali.Il pregio e il mistero del sanguesentii mirando su le lastre,nel solco dei carri, brillareil fiotto vermiglio sgorgatodalle ferite mortali.O selva d'arbori eguali,pronao d'un tempio senz'inni,teco all'ombra io vidi l'Erinni.

Tutti eguali in ordine i pini,quasi eletti a un rito solenne,sorgevan dall'erba infinita.Ogni traccia era disparitadella belva e dell'uomo:

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sol v'era il silenzio del cielo.E vi fiorìa l'asfodèloa piè dei tronchi scagliosi,e l'anèmone violettoch'è il rapido fiore del vento.E come un palagio d'argentodi là dai tronchi, multiformee tacito, era il Vaticano;un ermo candore lontanoera il Soratte solitario;i cipressi del Monte Marioerano un fùnebre sertoper non so qual lutto sereno.E un profumo di fienoe di libertà, quasi un fiatopànico, venia dal deserto.

O selva d'arbori eguali,tra l'Urbe e l'Agro ordinata,ove dormii sonni veggentie meditai le mie sortie favellai con l'Erinni,tu m'appari nella memoriacome il vestibolo vivodella formidabile cella;perché pieno de' tuoi fatalimurmuri l'anima, gli occhipieno dei movimentifieri che su l'antica viaagitavan gli uomini forti,

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ebro dell'amore di Romae sitibondo di gloria,io v'entrai seguendo mia stella.E, come su l'erba novellache inazzurravano l'ombrede' tuoi colonnati, io vi giacquisupino per contemplare.E là dove giacqui, rinacqui.

Che son mai le ambasce supremedel combattente cadutonella vertigine immensadella morte, col visorivolto al ciel muto ed eterno,quand'ei più non sente il nemicoche senza riscatto gli premecon le ginocchia lo sternoma sol sente l'anima forteche l'abbandona e nell'attodi partirsi infinitacol peso di tutta la vitagli pesa e di tutta la morte?Che è mai la sua visionesolitaria in mezzo al desertoruggente della guerra,quand'ei non sa la cagionema vede che certo è soltantoil dolore e giusta è la terrapoiché foglie e pianto e ogni carnepiù sanguinosa raccoglie?

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Le grida le risa gli oltraggiumani duravano in me;e i dardi della luceancor mi dolevano; e i raggie il tumulto erano in meuna sola vertigine truce;e parevami esser dementee ardere fino alla midollacome tra vampe di fenileche ribolla in afa di nemboimminente; e nel tenebrorefebrile scintille io vedevacome di selci percosse,ché gli occhi m'eran nelle fossedell'orbite veracementecome a urto di focileselci nell'ordigno d'acciaioche le attanaglia. E io eracome colui che muoredi sùbita morte solare,al limite della battaglia.

O ruota d'Issione!Rivolgeasi tutta la voltacome ruota sopra di me,e il dolor mio n'era l'assestridente e risfavillante.Tutto quel ciel disperatodi bellezza sopra di me

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era come ruota di ferrotrattata da un'ira gigante.E come le festuche e le scorzee il timo e la polve e la melmad'intorno alle ruote dei plàustrilà nella carraia romana,così d'intorno a quell'unaamore odio eccidio spaventosacrifizio suppliziodelirio dell'anima umanatutti i mali e tutte le colpee tutte le cieche speranzetrascinati erano e frantinell'inesorabile giro.

E io dissi morendo:«Anima mia, vedo te?vedo le tue speranzele tue colpe i tuoi malinell'inesorabile giro?Anima mia, vedo in tele larve delle parole,i sogni pulverulenti,le credenze inferme o morte,i giorni senza bellezza,le tracce dei crudi flagelli,le reliquie del mio martìro?».Supino giacente il mio corponon avea più ombra nel mondo.L'immobilità del dolore

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era la mia sola grandezza.Come in nero marmo, sepoltonell'orrore de' miei pensieri,io sentii venire di lunge,sorgere sentii dal profondoil pianto che agli occhi non giunge.

E quel pianto era pianto,entro di me, sopra di me,da creature che forsevivevano oltre la vitama non beverate nel Letené di papaveri cinte,anzi chiuse in un vestimentod'impenetrabile ardoreche allo stillar dell'ondaamara qual rogo alla piovacrepitava senza perire.Ed elle cantavano un canto,entro di me, sopra di me,più forte che tuono di lire,forte di sì alto lamentoche toccava le più segretestelle nel cuore del Cieloe tremar facea di novapietade il cuor della Terrae discolorava la facciadell'Ocèano anèlo.

«Luce del dolore» io dissi

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«ti bevo! Luce del dolore,a cui si precipita ignarodalla notte bruta l'infanteche sforza la porta sanguignadel grembo materno col capoproteso, con chiuse le pugna;Luce del dolore,a cui si volge l'estremobattito della palpèbrasenile priva di cigliove all'acredine del salela pupilla s'è fattapiù opaca e dura dell'ugna;Luce del dolore, ti bevoa gran sorsi come bevvidalla mammella il latte,la voluttà dalla boccaamata, la melodìadalla sera d'aprile,l'odio dalla ferrea pugna.

Di te m'inebrio. Tu m'inondi.Non v'è ombra in me se non quantapuò coprirne con agioil calice riversod'un giglio! E di questa io faròun solitario zaffìro;con quest'ombra che restauna gemma io sublimeròpiù cerula che il cielo

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d'Agrigento, per la frontedella mia compagna diletta.»E la ruota s'arrestòdi sùbito nel suo giro,come il supplizio s'arrestaper il comandamentodel tiranno malvagiocui tediano i grididelle vittime attorteinfrante nelle sue pressure.E io vidi le creaturetra la vita e la morte.

Vidi i fanciulli i giovinettii vegliardi le madrile vergini i guerrierii sacerdoti i patriarchigli utensìli e gli armenti,tutte le carni dolentie tutti gli strumentidella colpa e del castigo,i letti i libri i roghi le are,e l'inerzia della terrae la furia delle acquee l'impeto dei vèntie l'ingombro delle nubi,la spada la mensa il fardello,il teschio dell'arìete,il festone di quercia,la medaglia superba;

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e quegli sguardi e quei gesti,anima mia, quelle pupilleche ti guatavano dal fondodell'infinito terrore!

E quivi tutto era più grandee più grave, e senza patria,e d'immemorabile etade,e sotto il flagellod'inconoscibili numi.Colei che avea generatostanca era d'una immensamaternità, comese dal suo ventre escito fosseil peso delle nazionimaledette, con un travaglioorrendo; e le sue mammelleeran come l'urne dei fiumi.Profondato nell'oscurosonno era il dormiente,come un monte sotto i silenziidei mari primordialionde sorgerà in un giornodel più remoto Futuro,come nessun corpo giammaiprofondato fu nella morte.

E tutta la gioia ferocedegli uccisori natidi donna, da che il primo sangue

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umano abbeverò la terraancor del diluvio melmosa,tutta gravava nel pugnodi colui ch'era in attodi recidere il capoal vinto nemico; e quel ferrotagliente pareva levatodall'eterna minacciad'un dio su l'orizzonteimmobile della pauraterrena; e in quell'abbattuto,che invano pontava la palmail cùbito e il ginocchiosul suolo ch'ei doveadi sé far vermiglio, penavail lamentabile sforzodi tutti gli uomini vintida che l'uomo è lupo per l'uomo.

E fatalità spaventosesi propagavano pel mondo,mosse da un gesto, dal lampod'uno sguardo, dal reclinared'un vólto, dal lembo agitatod'un manto, dal volgersi rattod'un pargolo verso la poppa,dal ripiegarsi d'un corposenile nell'ultima sosta.E sventure senza nome,desolazioni senza voce

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e senza pianto, luttiaccecati dall'amaroredelle lacrime esauste,tormenti non conosciutidagli antichi tiranniné dagli esuli iddii,enormità di dogliae di follìa smisuratepesavano nella stanchezzad'una pallida mano.

E tutte le membra, comela mano, erano carchedi patimento mortalee s'accasciavano al suolocon ossature di piombo;o, risvegliate dal rombodella morte improvviso,balzavano nel terroreprotese verso lo scampo,erette contra il periglio,contratte sotto la minaccia;e i muscoli nelle bracciale vèrtebre nelle schienele còstole nel toracele arterie nel colloi tendini alle calcagnaerano come le bestemmiele implorazioni e le gridaopposte ai fati avversi,

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eran come le bocche urlanti,gli irti crini, gli occhi riversi.

E, come su mare notturnos'ode talor clamoredi naufragio lontano,venìa dallo spazio incurvoda quel gorgo sopranola voce di tanto doloreconfusamente, e fioca e forte.E talor si faceadi repente un silenziopiù crudo che tutte le grida;ma durava nel vano,come il bronzo che vibra,il rombo eternal della morte.E alcuna delle creatureaccosciate nell'ombra,sotto l'invisibile molaond'era premutacontinuamente, con vocerimasta per secoli mutadisse l'antica parola:«Perché siamo nati?».

E io sussultai di paurasul pavimento che freddoera come pietra di tomba,sentendomi l'ossa corrose.Con pallidi occhi, vacillanti

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nell'orbite fatte più larghe,cercai per la volta profondagli eroi fra le genti dogliose.Dominavano la sventurae la colpa, chiarosonanticome squilli di tromba,le Volontà meravigliose.«Perché siamo nati?» diceala creatura del fangocon la bocca sua piena d'ombracome la fàuce del boveè piena di strame.«Simile al bove che rumina,simile al capro che copulaè l'uomo, con la lussuriala strage il servaggio e la fame.»

E una Volontà risplendente«Taci» gridò «taci, bestiada macello e da soma!Porta su le tue schiene il pesodi colui che ti domae poi senza gemito spirasotto il coltello tagliente.Silenzio! Silenzio! Sol degnoè che parli innanzi alla nottechi sforza il Mondoa esistere e magnificatol'afferma nelle sue lottee l'esalta su la sua lira.

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Taci tu, cosa da mercato,ingombro gemebondo!»E ogni lagno si tacque,ogni vil bocca ebbe il bavaglio.E come croscio d'acquepossenti era la forzadei Giovini, gravedi bellezze in travaglio.

E, dalla fronte nudaal pollice del piè contratto,fremito di sùbiti cantimi corse. Correre sentiinelle mie vene i corsierianelanti dell'Atto,scosso dai miei spiriti il pesodelle ore infruttuose.E, ridivenuti guerrieri,gli spiriti verso gli eroigridarono: «O nostri fratelli,soli fra le genti dogliosericchi d'opre per la dimanecome gli arbori novellidi gemme, noi su la terramescere vorremmo la vostraimmortalità con la nostramorte per vincere il Fato!».E il coro inerme ed armato«Sursum corda!» rispose,traendoli all'alta sua guerra.

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E allora io cercai le Sibilleper desìo d'un'alta compagna.E dissi alla Libica: «I piedituoi son come le alidella colomba, poggiàtisul pollice fiero, e tu seiper chiudere il vasto volumee per librarti a volo uscendodal tuo vestimento, o Sibilla,come da un vincolo duroaffinché l'oro e l'azzurrosoli ti cingano comel'orbita cinge la pupillaumida di visioniinfinite e la tua bellezzafatidica pàlpitidi libertà sopra il vento.Ignuda le spalle e le bracciae la nuca, luoghi di gaudio,ecco, dalla tua cinturat'involi e dal tuo vestimento.

Ma il tuo seno, che tu mi celi,non è forse profondocome un fior numeroso?E la treccia che sfuggealla benda delle tue tempienon ha forse il misteriosopotere del corno sul fronte

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di Pan che conduce nei cielile melodìe del Mondo?E il tuo fianco fecondonon è fatto pel semedel vincitore? Ah chi maisaprà il colore degli occhituoi sotto le pàlpebre chine?Quando mi guarderai?Orfeo sono, senza ghirlande,che più non attende alle portedell'Ade quella che due volteperdette! E tu sei troppo grande,o Libica: sul cor tuo fortesoffocar puoi anche la Morte».

All'Eritrèa dissi: «Non m'odi,se parlo. Sei anche più grande!La Saggezza e la Forzalavarono i tuoi piedi scalzi.Tu sdegni i troni. Se t'alzi,tu mi sembri una torre munita.Signora della Vitatu sdegni le chiuse corone.Pallade ha l'elmo corintiocol duplice occhio e il nasale.Intorno al tuo capo regaletu serri il pìleo dei nàuticon treccia che gira due voltesimile a ceràste diveltadalla chioma della Gorgóne.

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Pallade ha il suono dei flautie il canto delle mille testepei giuochi della nazione.Tu nelle tue vaste orchestrehai tutte le voci, dal rombodell'ape al fragor del ciclone.

Che mai raccoglie il tuo bracciocon la man cava (che resseforse per una notte i chiostridel Cielo tolti al sostegnod'Atlante e forse la clavabrandì ad uccidere mostri)che mai raccoglie il tuo bracciodall'ombra di quella gran piegache ti fa nel manto il ginocchiosovrapposto all'altro in riposo?Le pieghe del tuo spaziosovestimento son piened'invisibili tesorie di mistero infinito.E, se tu volgi col ditoil foglio del libro veraceor che il Genio con la sua facet'accende la lucerna,qual tirannide crolla,nasce qual novo mito,qual puro eroe s'eterna?».

Ma dissi alla Delfica: «Te

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amerò, tra due vènti avversinata dall'onda marinaesule Oceànide, teche i lombi non anche detersihai dall'amarezza salina.Chiusa nella tunica graveor sei, nella lana cui mordela fibula sotto l'ascella;ma ti gonfia il vento del maredall'òmero al pòplite il mantoampio quasi trevo in procella.Tu svolgi dalla sinistramano il tuo ròtolo santoche come vela quadras'inarca alla banda contraria;e così vigile assisami pari su cassero fortedi nave che navighi i tempi,sicura tra i due vènti avversi,fresca Virtù solitaria.Io ben so che l'onda natalecrea questa tua giovinezzae il cristallo de' tuoi grandi occhi.Tuo latte fu il fiore del sale,e il cerulo gorgo tua cuna.Fra le mammelle e i ginocchi,a traverso il tuo vestimento,io vedo raggiar la bianchezzadel grembo tuo, virginalecome la più labile spuma.

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E sento, a traverso la bendache dalla fronte alla nucati copre, l'odore dell'ulvae dell'alga, l'odored'un vascello che portinardo e mirra nella sua stiva,l'odore d'un'isola australe.O bendata, e ben ti so fulvacome il fuco tratto alla riva.So che nella destra ti durail segno del tuo governale.

Navigatrice sei,Thalassia nomata per me!I rematori adustidalle cinture di spartoe dai lanuti galèri,curvi su gli scalmi nel cantodisteso che gonfie faceale vene dei colli robusti,disser le tue lodi con me.Sul litorale i trevierimisurando e tagliandole vele in canape aspra,le lor donne i lunghi aghi acutinell'ordito spignendocon la palma armata di piastra,per giugner vivagni di ferziacconciar guaine a ralinghee rinforzi e ritrosi e suppunti

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ben saldi contro fortuna,via via di costura in costuradisser le tue lodi con me.

I costruttori di navisegnando a rigore di frascai garbi dei fianchi e dei pontiper vincer con lor misuratearmonie la cieca burrasca,i mastri d'ascia segandoa fil di sinopia il legnamesquadrando chiodando impernandodallo scafo alla tuga il fasciame,i calafati la scussacarena con maglio e scalpellostoppando per l'ugner di pecee di sevo a fuoco di stipae spalmar di bianca cerussa,i cordai filando dai mazzila canape splendida ai solinovi o torcendo nei trastii fili e alla pigna i legnuoli,tutte in alterno cantarele maestranze del maredisser le tue lodi con me.

O Thalassia, Sibilladi grandi oceaniche sorti,divinatrice serenadi turbini e di naufragi,

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Euploia, esulata in ambagiove impera il dio molleche dalla bellissima argillaseparò gli spirti e li volleinfermi di nera vergogna,odimi. Io ti chiedo: Che guardi?L'occhio tuo fisso non sognané pensa, ma vedecome nessun altro mai vide.Non lacrima né sorride:vede meravigliosamente.Che guardi? Una cosa fuggente,o una che giunge dai marionde tu stessa venisti?Scendere su i popoli tristile ceneri crepuscolari,o sorgere l'albe cruente?

Che guardi? Un Liberatoreinchiodato a una querciaalta mille volte cinquantacùbiti, come l'AgageoHaman figliuol di Hammedatache laggiù grandeggia in aspettodi Titano più grandedel Galileo crocifisso?Una gente nata del suolosacro all'Olivo e a Minerva,che alfin ritrovò la sua gioiaperduta e goder sa nei giorni

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la beltà senza fastoil piacere senza mollezzae comporre sa le sue festedivine con lievi corone?Ma forse l'occhio tuo fissocontempla l'Ombra di Romache regge l'antico timone,quale effigiata ancor regnanella medaglia di Nerva.

Andiamo, andiamo! Se ancórasonvi nel mondo azionida compiere bellecome le più belle promessedei sogni virili, se ancorasonvi da vincere mostri,da sciogliere enigmi,da purificare carnai,da costringere pettiumani a gridi d'amoree d'orgoglio verso la Vita,andiamo, andiamo! Se ancórasonvi giardini profondiove favellare si possaco' i saggi e gli aedi, se fontivi sono per tergersi dopole lotte, colline silentiche sostengano anfiteatridi marmo sacri ai tragèdi,se inni, se musiche pure,

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se ancor vi son lauri, andiamo!

Per udire il grido d'un maschio,per vedere un braccio levatoa percuoter forte il rivale,per sentir l'odore del sanguesparso e dell'ebrezza brutale,per ingannar la mia setedi vivere in atti ed in opre,o fresca Oceànide, innanzich'io venissi a te, disperatovagai per l'anticavia strepitosa di carrilorda d'escrementi e d'avanziaccecante di luce dura.E su quella lordural'anima mia ne' miei sensicrudeli perdutamenteaspirò il divino fiatoche venìa dagli immensideserti dell'Agro fiorented'anèmoni e d'asfodèli;trascorse al confino de' cieli.

Cammino senza impedimento,fatto dai balzi impetuosi,quello cui l'anima miaè pronta se tu l'accompagni!Disgusto dei rigagniputridi la tiene; disgusto

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dei lascivi amori mendaciche non sanno che sial'innocenza nel desiderio,la profonda innocenzacui non giova altro guancialepel sonno d'un'alba ignotase non il sopposto alla gotasuo braccio robusto.La tiene disgusto mortaledei giacigli acri ove il sudoredel combattimento carnalefa insana la cóltrice comela materia libidinosache serpentina s'ammassae luccica, e attossica l'ombra.

Una venefica polpafu data ai miei denti per pane.Assaporai una schiumapiù salsa che quella del mare.Congiunto fui alla colpacome la vèrtebra è congiuntaalla vèrtebra nella schienache rabbrividisce di gelofùnebre alla carezza acuta.Non lasciai la bocca mordutasinché la salivanon ebbe il sapor della vena.Bevvi a una a una le stillesu la bianchezza del petto

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che i rovi avean flagellato.Vidi nelle aperte pupilleuno sguardo più fisoche il ferreo sguardo del Fato.E le labbra nel mio visonon potean più ridere e gli occhinon potean più piangere, o Amore!

E conobbi l'attesanella stanza che s'oscuraal giorno che declina;quando la lama tagliente,tratta dalla guainasilenziosamente,è posta nella piegaimpura del lenzuolo,per la vana vendetta;e sul cuor solo che aspettasfacendosi in ascolto,e su le mani e sul vólto,su tutte le misere carni,passan gli uomini e i carri,scroscia l'onta della via;e la melancolìadelle cose ha l'odoredella veglia notturnatra il cadavere e i ceri;e quel che fu ierinon sarà più, per sempre.

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Ahimè, non la bianca pruina,non la rugiada tremante,né la scaturigine chiara,né il bosco con l'umido sguardodell'ombra sotto le verdisue pàlpebre, né il giovinettovento con gli anèmoni in bocca,né il fiato dei gelsominiquando a vespro piove su gli orti,né alcuna gelida cosapoteva guarire il mio male;perché maculato io erapiù profondamente che il natodella pantera. E la freddae santa corona, ond'io cintoaveva il mio spinopromettendolo alla Bellezza,inaridita s'era a fogliaa foglia. E l'oscuro giacintodel mio desiderio fiorivaai piedi del Crimine irto.

Ma un dio nudrito di fuocoe d'amarezza era in me,che divinamente sentivai preludii della Notte,e il dolore delle lunein travaglio, e il piantodelle Pleiadi, e il piantodelle Iadi, e il lutto figliale

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d'Erigone, e in dune desertela disperanza del mare;e tutte le cose di fiammain travaglio, ch'erran pei cielidel silenzio dolentemente,e quelle che sono già spentee sembran arder tuttavia;e la melancolìadelle fiumane tortuoseove scorre l'acqua che stilladalle clessidre del Tempo,cui venenò l'Amoree appesantì la Morte.

Ahimè, tra due vènti avversinata dall'onda marinaesule Oceànide, frescaVirtù solitaria, che saitu del mio male? Non m'odi,se chiamo. Non torci lo sguardodalla visione che vedi,e ch'io non veggo né maivedrò. La tua bocca socchiusaè da me più lontanache la perlìfera concain fondo all'Oceano australe.Eterna sei là, simulandocol rotolo tuo dispiegatol'imagine nautica, Euploia,per acerbare la pena

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del naufrago che ti si volge,per eccitare l'ardoredel buon piloto che t'ama;ché necessario è navigare,vivere non è necessario».

E stetti quivi giacentene' miei pensieri a guatarla,in me medesmo sepolto.E più e più biancheggiareil teschio d'arìete vidi,risplendere più di quel vólto.E vidi lì presso nell'ombrala madre affannata col figliostretto al seno, e l'uomo abbattutoin un sonno cupo d'angoscia;e dall'altra banda lì pressol'ucciso guerriero sul letto,levato ancor la gran coscianel violento sussulto;e carca del crimine occultoe ancor bagnata dal semedel maschio la femmina in attodi ricuoprire il mozzocapo, sanguinante nel piattocon tal pondo di alto valoreche l'ancella èrane curva.

E, come il mio sguardo sgomentosalì a cercare la coppia

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degli eroi pùberi, scorsiche l'effigie dell'unoera distrutta dal Tempoirreparabile e l'altrobello era e triste di bellezzae di tristezza gorgóneequasi nato fosse del sanguedi Medusa anguicrinitaper un destino funesto.Ma tutte quelle erròneeforze tra la Morte e la Vitapenanti per entro quel turbo,tutte parean cieche al confrontodel gesto con cui quell'eroepensoso reggeva la zonaa sostener la medagliadi conio titanico, prontoper conquistar la coronaa scagliarsi nella battaglia.

E io gli dissi: «Fra tuttii tuoi fratelli sei solo,sei senza il compagno a riscontro,o figlio di Medusache forse porti per semprenel centro dell'anima chiusacome in un'ègida ardenteil fatale vólto materno.E, se pure discernol'ombra del tuo pari, ell'è infusa

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di leteo làtice e oblìale sue fiere speranzeche avean già rostro ed artigliocome aquilette bienni.Ond'io, che divennisolo come te presso un'ombraferale, vorrei ne' giornie nell'opre averti compagno;ché troppo è talor cosa duranon poter la man fida porresu l'òmero dell'eguale».

E così parlò la pauradella solitudine in meper la mia fiacchezza. L'eroefisso era in ben altra rancura.«Sii solo» rispose egli a me«sii solo della tua specie,e nel tuo cammino sii solo,sii solo nell'ultima altura.Il cuore è il compagno più forte.Tre volte i guerrieri son pari:liberi davanti al dolore,liberi davanti al periglio,liberi davanti alla morte.E ciascuno è pronto a sé stesso,ciascuno a sé stesso è fedele:un arco che ama il suo dardo,un dardo che brama il suo segno,un segno che è sempre lontano.

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E la libertà è lo squillod'oro, il clangore che incendiail cielo antelucano.»

«Ben so, ben so questo che insegni»,io dissi. «Udii già tal sentenzafendermi come spadagli orecchi, nel vento del mare;e il cuor mi balzava nel pettocome ai Coribanti dell'Idaper una virtù furibondae il fegato acerrimo ardeva.Ma oggi il cuore m'aggrevafattura di Circe omicida,di Circe dalle molt'erbeche inganna con voce soave.Battermi tentò con la vergaella e spogliato dell'arminel solido stabbio serrarmi.Tu l'erba salùbre mi dài,ed eccomi sano alla lotta.»Rividi la concava navenelle acque di Leucade, il grandepiloto eversore di muratenére nel pugno la scotta.

E, in verità, fu quellal'ultima volta che il cuoremi vacillò di fiacchezzae d'ebrezza torbida; quello

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fu l'ultimo mio smarrimento,e l'ultimo affannodella solitudine versol'amore; e fu l'ultimo indugio,e l'insegnamento supremo.Onde il mio poter, fatto scemodalla frode dal dubbioe dal disgusto, risorsein plenitudine novasu l'orlo dei baratri cupi.Oleastri d'Itaca, rupidi Delo divina,cielo della Sistina,luci della mia conoscenza,da voi mi venne sentenzadura per vivere in terrae voi siete i miei luoghi santi.

Tutte le colpe e i castighie le minacce e i vaticiniisi oscurarono alloraai miei occhi; e la immanelatèbra si fece sonoradi quel peane che uditoavea nell'isola d'Aiace.E vidi in carne veracele gioventù sovrumane(non tale era Achille sul puntodi partirsi da Sciroe Patroclo Actòride prima

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che agli òmeri suoi rivestissel'armi funeste?) irraggiarelo spazio con lo splendored'una nudità che, construttadi ossa di nervi di venedi muscoli e di tuttala potenza carnale,splendeva su l'anima comespirital bellezza grande.

Tra la luce d'Omeroe l'ombra di Dantepareano vivere e sognarein concordia discordequei giovini eroi del Pensiero,fra la certezza e il misterolibrati, fra l'atto presentee la parola futura.Ciascuno la sua ossaturacreato avea dall'internodel suo spirto, artefice ardentedel suo simulacro vitale;e dal tarso allo sterno,dal cùbito al ginocchio,dall'occìpite al tallone,dalle vèrtebre alle falangila compagine era eloquentecome uno spirto che parlidi sé con un fremito d'ale;sì che il triste pondo animale

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in verbo mutavasi eterno.

Quale fra tutti il migliore?Poggiato la palma sul dadomarmoreo, l'uno era assortoin un pensiero sì belloche volgevagli in suso i capeglia guisa di diademaper occupar solo la frontee farne a sé luogo di luce.Inclito come Polluce,l'altro piegavasi in dietrogridando, quasi a lanciaredi là da ogni fine raggiuntoun disco di ferro in cui fosseinciso un decreto del Fato.In fiera allegrezza, agitatopareva da pirrica danzal'altro; e col levar delle bracciacon l'alterno urto dei piedicon la brevità degli accentisegnava i ritmi veementidell'anima sua predatrice.

E chi, flesso il pòplite, lievesedea su la gamba sopposta;e chi raccolto, in una sostadell'ardore, co' piè giunti,con la zona sul capoa guisa di benda, sognava

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un suo sogno severo;e chi reclinavasi altieroa trar con la destra la zonache fermata area col calcagnomentre incoronarsi del lemboestremo parea con la manca;e chi, piegato su l'anca,col capo riverso nel triploavvolgimento d'un drappofremebondo, avea la sembianzadel vento Vulturno;e chi, quasi genio notturno,nascosto le mani profusedi soporiferi semi,tenera le pàlpebre chiuse.

Ed altri guatava dirittoall'ombra del braccio levatoin atto d'opporre difesaa erculeo colpo di clava;altri dall'alto guatavaobliquo con crude pupillecome avverso ricca rapina,contratto i muscoli al balzo,quasi leopardo che siaper frangere tergo di toro.E tutto pareva sonorodell'alto peane lo spazio,però che in ogni atto dei corpisi rivelasse una fiamma

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di volontà e d'ardirequal sola proruppe, toccandoa sommo dell'etra gli dèi,dalle battaglie sacrech'eran primavere cruented'un popolo nato a fiorireil fiore de' suoi Propilèi.

Ma qual fra gli eroi fu l'elettodella tua speranza, o rinataanima mia? Qual più ti piacque?Qual tu volesti assemprarenel vittorioso avvenire?Quello che ti parve fra tuttiil più libero, cintodi libertà come d'un sertodiàfano, per aver vinto.Quello che ti parve fra tuttiil più sereno, sospesoin serenità d'oro, certoqual dio, per avere compreso.Instrutto ma non lesodalla vita, bello e gagliardo,poggiato il cùbito destrosul festone silvestroe sul ginocchio la mano,ei guarda con limpido sguardoil compagno oppresso dal peso,il forte che ancor non s'affranca.Sotto di lui sta, quasi mole

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di granito e d'umo fecondo,con le gambe conserteassiso il titanico veglioche sembra l'antico parentedi quella forza novella.Quali comprime parolenella vasta mascellabarbata il veglio con essala sua mano venatadi duro aratore che seppeentrar profondo col dentenel grembo d'una terra inertee strapparle sacra promessad'abondanza per la sua prole?E le due donne sole,che stannogli quivi alle spalle,perché sono tristi? Rimpiantole tiene dell'esule proleche nudrirono alternamentenella cuna della sua valle?

Io vidi in quel veglio lo spirtodel mio suolo natale,il generator venerandodella mia sostanza più forte,il testimone solennedella mia fatica vitale,il giudice e il custodefuturo della mia morte.«Uomo» dissi a me «la melode

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che ti pregò buona la sortenella cuna di roveretu non obliare giammai;ché in ella è un indomito nerbo.Forse su quelle poverenote un giorno tu comporrail'inno tuo più superbo;quando, sopra il vinto doloreassiso come il serenoeroe che nell'alto contempli,cantar tu potrai dal tuo pienopetto i tuoi dii ne' tuoi templi.»

XVIII.

Or giunto è quel giorno per l'uomoaudace e paziente,che vinse il dolore e il disgustoe la stanchezza e sé stesso.È giunto il giorno promesso.O solstizio d'estate!La man ritrovò, come nidonel cavo del tronco vetusto,le ricchezze della sua gente;e come le uova lasciatesi raccolgono, ella raccolseil retaggio della sua gente;e non s'udì muovere alané pigolare nel nido

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ma tutto era luce caloreodor di glebe odor d'erbefragranza di miele selvaggioe fremito di biadegià fulvide nella pianura.O solstizio d'estate,annunzio della mietitura!

Per vincere il dolore,io lo cercai dovunque,senza tregua; e spezzatome l'ebbi a frusto a frusto.Per vincere il disgusto,respirai l'aria infetta,il fetore del fiatoplebeo, l'afa della carogna,il lezzo della fogna,la peste della cloaca,il rutto della mala ebrezza.Per vincere la stanchezza,volli cose più pesantida portare in sentieripiù difficili e costrinsile mie pàlpebre e i miei pensieria più lunga vigilia.Per esser solo a me davanti,come chi sogna o s'esilia,camminai nel desertodelle moltitudini ansanti.

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Camminai per entro la foltamateria delle agoniee delle resurrezioni,misurandola in silenziocol battito del mio sangueaumentato come nell'estrofuriale dei ditirambi.Credetti vedere tra lampil'aspetto terrestrodi Dionìso effrenato,la mostruosa facciad'un dio pandèmio agitatoda una innumerevole danzaper un rito impuro e cruento.Sentii tornare nel ventol'antico delirio d'Astartenel dì d'Adonài germogliantequando i quadrivii e le piazzesanguinavan di stuprisacri e la città era tuttauna prostituta schiumante.O Strada, adito orrendoove apparir deve il dioIgnoto, ampia sì che con quattroquadrighe di frontevi possa procedere un novoTrionfo latino,angusta tòrtile e sozzacome budello bovino,ardente qual fiume di lava,

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umida qual catacomba,frequente qual molo d'approdo,deserta qual vacua tomba,piena di silenzii e di gridi,tetra e folle, fùnebre e vana,non mai così bella io ti vidicome allor che udendo la vocedella rivolta lontanaguardai fiso il tuo sboccoirto di baionette,l'occlusa tua tragica foceall'émpito delle vendette.Io ho portati i tuoi furori,caricato mi sonodelle tue doglie, ingombratodei tuoi lutti e dei tuoi misfatti.Intera nel cor tu mi fosticon le moltitudini ciechecon l'enormità dei clamoricon la veemenza degli atti.Lo spirito del tumultopassava sferzando la facciacome la raffica pregnadi fortore salino.Occhi bianchi in teste riversee dentature mordacibrillavano come le schiumenascenti del maricino.Un che d'aspro, un che di ferinoe di primaverile

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e di volubile era nell'aria.D'acuto lucea riso ostilel'ilarità sanguinaria.

Con òmero pugno e ginocchioinnanzi spignea la carcassadella sua fame allegra,più forte, sempre più forte,come la ciurma che varala barca giù per la sabbiadel lido e spignendo la negracarena dà grido concorde.Dalie gole rauche un selvaggiocanto rompea tra i palagisenZa echi, e le ingiuriegli eran compagnia di strumenticon sibilo di rotte corde,gli eran segnal di ripresail precipitar dei cristalliargentino al colpo del sasso,il rimbombar dei battentiurtati su le chiuse porte;e il canto avea fatto legacol sepolcro, avea fatto pattodi fèlicità con la morte.

E io vidi allor sul crocicchiol'edificator di bordelli,figliuolo di non marzia lupa,satollo di vituperio,

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che s'era estrutto alto luogoquivi a tener sue concioni;vidi il gran demagogo,nomato con nomi di gloriaPrevaricator sin dal ventree Sacco di saggezzaescrementizia e Frogiamocciosa della vacca Onta,sedare il clamore col gestoper iscagliar suo verbocontro a chiunque s'inalzie contro a tutti gli alti montie contro a tutti i colli ingentie contro a ogni torre eccelsae contro a ogni muro fortee contro a tutti i bei disegnie contro a tutti i buoni odori.

Ed errava nelle parolecome l'ubriaco di notteva nel suo vomito errando.In luogo di buoni odorivi sarà la sanie concreta,e in luogo di bella cinturacordella di sparto,e vittuaglia spartitain luogo di vana bellezza.E una ventrosa menzognasarà posta in luogo di questevesciche che abbiamo fendute,

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per nostro ricetto.E tu, sterile Plebeche non partorivi,concepirai pulae partorirai loppa.E i cieli si ripiegherannocome non più letto volumesu la terra beatadi fecondità strapossente.

O quanto era bellosu la bigoncia il toracedel bertone, angelo di benee messagger di salute,che dicea: «La Canagliasuccede all'Uomo per sempree in pace amministra le grasce!».O quanto era bellaintorno all'imperatoriapinguedine del suo collostillante incliti sudorila porpora della corvatta!Egli era la sanie coattain forma di vafro macaconascosto nei panni il verdicciopelo e le chiappe callute.E le vociatrici boccutel'adoravano. Dal capoalle piante con gli avidi occhielle parean tutto succiarlo

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quasi ei fosse tutto priàpo.

Ma, quando l'umanoingombro riprese il camminoverso la muraglia equestreirta di lame e di lanceche laggiù l'attendea,(la pioggia recente avea sparsoper le vie l'odore terrestre,calando il sole accecatotra nuvole e cupole d'atropiombo gonfio ed immoto)un che di sacro e d'ignotosorse da quell'immensomiserabile corpoin balìa del deliriovespertino, le cui millee mille facce divampateparean da una fumida gloria.E pietà mi prese di luiche camminava ignaronell'eterna sua debolezzacome nella vittoria.

Uomini fetidi e robusti,altri smorti e scarnie curvi, combustidal calore dei fornie delle caldaie infernali,inverditi dai sali

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del rame, inazzurratidall'indaco, arrossatidalle conce delle pelli,inviscati dai grumie dai carnicci dei macelli,corrosi dagli acidi, morsidal fosforo, fatti ciechidalle polveri e dai fumi,fatti sordi dai fischidel vapore dilacerantio dai tuoni iteratidei martelli giganti,dai fragori e dagli stridoridi tutto il ferro attrito,venian del lavoro fornito.

Foschi di carboni,bianchi di farine,con lorde le manid'argille o d'inchiostridi sevi o di nitri,con pregne le vestidi tabacchi o di droghedi farmachi o di tòschi,venian delle fucine,venian degli opificii,venian delle fabbriche in opra,dei fondachi, delle fornaci,di tutti i supplicii e i servaggi,con su i vólti selvaggi

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impresse le impronte tenacidella materia brutacui li asserviva il travaglio.Ed ecco era divenutala lor pena diversauna sola rabbia, conversaa sollevare un sol maglio.

E la volontà di mortecessò dal grido e dal canto:subitamente si fecetaciturna e compattadinanzi alla muragliaequestre che l'attendea.S'udiva tintinnirel'acciaro nella boccadegli inquieti cavalli,ansar nei petti inermis'udiva la forza plebea.Gli squilli, gli urli, il galoppo,il turbine duro che passa,la vendemmia sotto l'ugneferrate, le carni calpeste,i cranii fenduti, i cervellisgorganti, l'orror consuetodella rivolta disfattae rotta su le pietre grige;ma tra il sangue un'ala ch'è intatta,una fiamma che vige l'idea.

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Quale? L'antica, l'eterna,ch'ebbe nei crepuscoli fulvidei secoli tante ecatombidi ribelli invano rinatidal carnaio delle lor fosse.Quella che disse: «Vesti i lombidegli schiavi, o sacra Giustizia,perché i prigioni del prodesien tolti e le prededel possente sieno riscosse».Nel crepuscolo fulvonasceva il delirio. La ciecademenza guidò la cresciutamiriade non più inermeagli abbattimenti e agli incendii,sott'esso il chiarore sublimeche ferìa le pile dei ponti,gli archi di trionfo, le frontidei templi su le colonnesuperstiti, gli anfiteatrititanii, l'erculee terme.

Le fauci belluinedella Folla s'erano apertedismisuratamenteper divorar la possadella Città trionfale,della tirannica madrecon tutte le sue opulenzeed abominazioni.

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Come il fiume contra i pilonidi granito, fra la distrettadegli argini, sotto la bassanuvola melmoso, la massacarnale rigurgitavaschiumava in capo d'ogni strada,e alla libidine atroceogni strada era suburra.Valanghe d'ombra azzurrasi precipitavan dal cielo,ché l'ombra parea più velocenel vespero violento.Le torce ruggirono al vento.

E da presso e da lungiio udiva il clamore,io udiva gli ululi e i lagniorribili della gran doglianella Città millenaria.E il clamore era comedi femmina partorienteche si torca in spasimo grandee morda la verde sua bavae dia del capo e dei pugninelle mura e invochi soccorsoalla doglia sua, vanamente,negli orrori suoi solitaria.E dissi: «Ah quanto ti torci,misera, e quanta fai bavadi vituperii e d'ire

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nelle tue mascelle di ferro!Ma dato non t'è partorirese non l'aborto cionco e monco,l'acèfalo mostro che ha il troncodi ciuco e la coda di verro.

Ah chi almeno un giornosaprà sollevar la tua frontechiomata di crin leoninoverso la bellezzad'una vita semplice e grande?Chi ti trarrà dalle landedella morte verso il bel montedelle sorgenti ove il destinodelle stirpi s'immergee si rinnovella? Un eroeforse ti verrà che ferraresaprà de' suoi duri pensierila rapidità de' tuoi atti,come s'inchiodano i ferriall'ugne degli acri corsieri,di là dagli antichi riscatti».Afflitto io non dissi a me stesso:«I giorni saran prolungatie ogni visione è perita».Ma sì bene: «I giorni e la fiammad'ogni libertà son da presso».

E dal giorno di poil'ora santa d'Eleusi

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fu pallida nella memoriadinanzi all'ora del pane.La spica mietuta in silenzionella mistica ombra mi parvemen pura che il pane addentatodall'avidità della fame.O mattino di primaverasu la via lavata dall'acquadel cielo! Garrire e brillaredi rondini nell'umidoreargentino! Odor dell'eternofrumento, dell'aurea crostarotonda, della mollicasoffice occhiuta e leggera!Selvaggio sguardo maternoverso il divino alimento!Strida del pargolo fiocheper l'aderir della linguaal palato nell'alidore!

Le turbe assalivano i fornicon l'avidità della fame.Abbattevan le porte,abbrancavano il paneancor caldo gonfio cricchiante.Traevan sul lastrico i sacchidella bianca farina,del biondo cruschello; e le donnese n'empievano il gremboprendendone col cavo

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delle palme fatto capacedalla bramosia come staio.E subitamente un gaiofervore invase le turbe.E gli uomini forti, i fanciulli,le madri, le vergini, i vecchi,tutti ridean con umidi occhi;e tutti i denti parean purinelle bocche affamateche masticavano il donodella Terra nato nei solchi.

E un sapor religiosoera certo in quel paneche tal sacra ebrezza recava,come nel primissimo paneche intriso fu, cotto e mangiatodal colono poi che Demetradi cerulo peplo gli diedel'ammaestramento immortale.E io dissi: «L'uomo è l'egualedell'uomo dinanzi alla spicamietuta in silenzio o con canti.E questa è la sola eguaglianza,questo il gran diritto terrestreche inscritto sta nella zolla».E parvemi, sopra la follasazia di pane recentecarica di pura farina,intraveder la divina

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benignità sorridentedella Dea che è cittadinaper la sua corona murale.

E un'altra ora fu largaalla mia speranza; e fu l'oranotturna della mia Musaquando apparve in veste sanguignaalla moltitudine chiusanell'anfiteatro profondoche fremea di fremito immane.Quivi rotto fu l'altro pane:fu dato all'unanime cuoreil bene che supera tutti,il cibo più dolce dei fruttinati di radice terrena,il rapido oblìo della penaassidua e del duro bisogno,il nepente del sognoche svela nel lume d'un astronovello il prodigio del mondo:quando il buono Eroe biondo,che tenne la spada e il timonel'ascia la marra e il vincastro,rivisse nell'alta canzone.

Anima mia, tu provastil'avversità d'ogni ventoe d'ogni vento la gioia,tutte le figure segrete

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conoscesti tu dell'abissomarino da poppa e da prora.Ma quale dei soffii più vastiti sollevò come quellospirante dal vólto in te fisso?e quale figura d'abissoti parve misteriosacome quella che ti guatavae parea farsi cavaalla voce tua ripercossa?Entrar sentimmo una possaignota in noi, crescere un'alaterribile al nostro ardimento,un'ansia d'interno titanosforzare l'angustia nostra,distruggere l'impedimentodella corporea chiostra.

E la materia sacradella stirpe, l'imperiturasostanza progenitricedei sangui, l'originariavirtù della gente era innanzia noi affocatacome il masso del ferroche posto sarà su l'incude.E noi con le man nudel'afferrammo delirandocome chi è pieno del dioe travede nel fuoco informe

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l'imagine che trarreei deve alla vista di tutti.L'afferrammo e, instruttidal dio, la foggiammo rovente,e traemmo il gran simulacrodell'Eroe disparito.E tu vedesti dal sacrotuo fuoco, o italica gente,nascere il novello tuo mito.

Bellezza dei miti novellinon anche nata! Divinetrasfigurazionidelle forze operantinella profondità segretadella stirpe dominatrice!Fiammei fiori della radiceinnumerevole che abbracciala sua terra con fibreinespugnabili! Supremetestimonianze d'un sangueanimoso! Gli oliviche fioriscono a specchiodel Mediterraneo Mareancor vedranno fumarei roghi accesi ai numiindìgeti e udranno il peana,quando restituitasu l'acque sarà la più grandecosa che mai videro gli occhi

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del Sole: la Pace Romana.

XIX.

Certo, una inattesa bellezzabalenar talora mi parvenella chimerosa figuradel popolo unanime intenta;e l'ingluvie sua flatulentae il vociar suo forsennatoe l'enormità del suo dosso,la caudale giunturadelle sue mille e millevertebre che traversa, comefólgore, l'insano sussulto;e il Pànico, l'occultosuo dio che gli schiaccia la coglia;e la sua furia e la sua dogliae la sua miseria infinita,tra le inesorabili mura,mi diedero fremiti avversi.E talor discopersiin alcun vólto infoscatodalla filiggine o adustol'armonia del bronzo vetusto.

Ma, dopo, il Deserto di sabbiainospite fu la mia gioiasublime, fu il mio rapimento.

280

E tedio mi prese del verdealbero, e il solco del novograno mi fu a noiaper la memoria dell'uomo;e ogni vestigio di piedeumano mi parve lordura.E l'immensa aridità puradel Deserto senza viee senza òasi, il suo fioreineffabile che illudela sete nudrito di brace,le sue mammelle nudee sterili che fannodi bassura in bassuraombre d'inganno, il mutotremar del suo vento focacequasi battito di febbre,furono il mio rapimento.

E la luce m'entrò pei poridella pelle, m'impregnò d'orole vene le ossa e le midolle,mi fece il cuore lucentecome il quarzo e lo schisto.E ogni umor tristofu inaridito, riarsaogni sovrabbondanza molle,ogni pesantezza alleggiata,ogni ingombro distrutto.E nel mio corpo asciutto

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la felicità del mio spirtofu più agile che fiammaappresa ad arbusto di mirto.E tutti i miei pensierifuron come corde di cetraaridi; e le volontà bellesonarono in me constrettecome le aguzze asticelledei dardi a quattro alettesuonano nella faretra.

E la mia coscia nervosaaderì così forteal fianco del mio caval sauroch'io divenni il mostro biforme,lo snello centaurod'ugne senza ferro,di levità senza orme.E ne' miei occhi umanisentii la bellezza dei grandiardenti umidi occhi inumanidel corsiere d'Arabiache parea sangue di pardo.Ed ebbi così nel mio sguardol'inconsapevolezzadella purità bestiale,in me ebbi tutto il Deserto.E, scendendo in corsa le duneverso la bassura fallaced'aereo incantamento,

282

correre credetti alla Nubematerna vestito di vento.

Delirio dei profetisaziàti di locustee beveràti con l'acqualotosa dell'otre sozzo,visione di doloree d'orrore innanzi alla Morte,il mio delirio fu più forte,la mia visione più bella.Dov'era il dio di procellache seccò il mare, le acquedel grande abisso? che ridussele profondità del marein un cammino di fuocoper i dromedarii di Efae per i cammelli di Sebacarichi del suo incenso?Quivi, nel fuoco immenso,non era alcun che gridasseper la giustizia né alcunoche per la verità facesselite e contesa e digiuno.

Fin l'ossa dei dromedariisu la sabbia eran più mondedi tal giustizia e più puredi tal verità, sotto il Sole.E non v'eran parole

283

se non quelle del ventoincorruttibile, che è il Messodella Libertà per i prodie per i solitarii, quivi.E il vento dicea: «Tu che vivi,guarda il mio palpito incessanted'amore su i corpi che foggio!Il Mar glauco, il Deserto roggioio li travaglio d'amoreindefesso e li trasfiguroin bellezza infinitache una pare e sempre disvaria.O Vita! Non odi nell'ariaclangor delle mie mille trombe?Or ora laggiù seppellitaho la Sfinge presso le tombe».

Seppellita ho anch'io la mia Sfingeco' suoi enigmi nodosi,e seppelliti anco gli avellicon la lor putredine inclusa.Risa di fanciulli, effusagioia puerile, crosciantirisa d'innocenza selvaggiafurono l'inno funeralealla covatrice di tombe,risa volubili comeavvolgimenti d'aura, rochedi troppa allegrezza taloracome i canti delle colombe,

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come i murmuri dei ruscelli.Volontà, Vittoria senz'alein me ferma sempre! Nudritadi rai, Voluttà, calda e ascosacome sotto il pampino l'uva!Orgoglio, uccisor dispietato!Istinto, fratello del Fato,dio certo nel tempio carnale!

Volontà, Voluttà,Orgoglio, Istinto, quadrigaimperiale mi foste,quattro falerati corsieri,prima di trasfigurarviin deità operosecome le Stagioni, che fannole danze lor circolarie compagne son delle Graziee delle Parche in ricondurreProsèrpina ai giorni sereni:quadriga che con frenidifficili resse l'auriga,con rèdini tese nei pugniove serpeggiava la fiammadel sangue sagliente pei fermicùbiti ai bicìpiti duri:quadriga negli Atti più puriconiata come l'anticanel rovescio del tetradramma,segno di potenza ai futuri.

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Con quanto ardimentotrapassammo i termini d'ognisaggezza e corremmo su l'orlodei precipizii, lungh'essigli alti argini delle fiumanevorticose, in vistadel duplice abissopel crinale aguzzo dei montiove la vertigine afferrasubitamente coluiche crede al pericolo, e senzascampo lo sbatte sul sasso,gli spezza la nuca e la schiena!O ebrietà d'ogni vena,occhio gelido e chiaronella faccia ardente!A levante, a ponente,per ovunque guardaiquell'adamàntina cimadel rischio, e sempre mi chiesi:«Ove debbo ancóra salire?».

Ma il meridiano delirionel Deserto l'oblìod'ogni cima più perigliosami diede e d'ogni demenzapiù lucida e d'ogni divietoabbattuto. E l'alta quadrigae lo sforzo dei freni

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e la chiara audacia e la lungaesperienza dei malie la gioia immite del rischio,tutta l'opra d'odio e d'amoredietro di me sparve, fu comesabbia ventosa, fu nulla.E l'anima mia dalla culladell'eternità parve alzatain quell'ora, con l'innocenzadell'elemento, novae pur compiuta da un'artepiù fiera che qualsìa nostr'arte.E corsero a lei d'ogni partemoltitudini di bellezze.

Ed ella taceva, profondadel suo più profondo silenzio.Ma parole erano dettein lei, alla gran lucedel mezzodì, chiare paroleche non pur nel già fattovespero furon mormoratemai dal timor delle labbrané mai nel mistero notturno.E il suo coraggio taciturnole suggeva cupidamentecome il fanciullo voraceche sugge gli acini gonfiidi miel solare e inghiottela pelle che il sol fece d'oro

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e trita i fiòcini e il raspo,ché tutto gli piace.E quel ch'è angoscia spaventomiseria tra gli uomini, quellole si trasmutò pel Desertoin felicità senza nome.

Felicità, non ti cercai;ché soltanto cercai me stesso,me stesso e la terra lontana.Ma nell'ora meridianatu venisti a me d'improvviso,coi piedi scalzi e col visovelato d'un velo tessutodi quei fili che talorabrillano impalpabili all'aereopere d'aeree fusa.Ed ecco tu torni! E la Musat'ode mentre tu t'avvicini,se bene i tuoi piedisien più delicatidel guaime che nascenei prati dopo la falce,più tenui delle primefoglie che spuntan nel salce,e più lievi sieno i tuoi passiche scorrer di talpa sotterrao di lucertola in sassi.

Tu torni e tu tornerai,

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come l'aura intermessache manca perché va più lungi,forse sopra un letto di musco,forse in una tremula stanzadi capelvenere, forsedietro una cortina rosatadi madreselva, a vestirsidi freschezza novellada recare a colui che l'ama.Il mio cor non ti chiamané ti attende. Tu repentinaentri e mi guardi con occhinegri d'un negrore vellutocome quel degli occhi onde occhiutoè il fior della fava nel mesedi marzo tra pioggia e chiarìa.E tu m'assempri l'iddiaparrasia, Carmenta dai lunghiriccioli, che portavaghirlande di foglie di fava.

Tu sei visibile, tu haila specie divina e selvaggia,il primo odore del campodi marzo, i denti di brina.Ti guardo; e la prima peluriadella mandorla novaè men dolce della tua guancia.Ti guardo; e le tue dita chiuseson come lo spicanardo

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che chiuso è in mazzi pei forziericolmi di nivei lenzuoli;e i petali dei giaggiuolinel piegarsi non han la graziade' tuoi capelli che piegasu le tue tempie il favonio;e come il nido alcionioche palpita a fiore del salecol palpito lento e infinitodi tutto il mare placato,e il tuo sen verginalemosso dal profondo tuo fiato.

Di cose fugaci e segretesei fatta, di silenziie di murmuri, lievecome i frutti piumosidella viorna, comele lane del cardo argentino,o Felicità del cor prode.Ed ecco tu torni a me! T'odela Musa; e il suo vólto divinonel volgersi ti rassomiglia,se non che tra le cigliasembra ell'abbia il fiore del linoma in vero è il colore marinoche rimasto è per semprenel suo sguardo amico dei flutti.Che ci porti? Quali bei fruttidi paradiso insulare

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per invogliarci a largarenovamente le veleumide ancor di tempesta?Che ascondi nella tua vesta?

Noi abbiamo un canto novelloperché tu l'oda, questo grandeInno che edificar ci piacquea simiglianza d'un tempioquadrato cui demmo per ognilato cento argute colonnetutto aperto ai vènti salmastri.Ai raggi del sole e degli astrinotturni l'artefice insonneoperò con puro fervore,quasi fosse questa l'estremaopera di sé morituro,il monumento al suo spirtoliberato e liberatore.Ei le materie sonorecon ìmpari numero, oscuroe inimitabile, vinse.Le sette Pleiadi ardentie le tre Càriti leni,le stelle dell'Orsa e le Parche,in rapido giro costrinse.

Tre volte sette: la strofequal triplicata sampognadi canne ineguali risuona

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con l'arte di Pan meriggiante.Io tagliai le canne lungh'essii fiumi, sovr'esse le fontifrigide, nel loto febbrosodelle paludi, sul cigliodei botri, nelle ruinedelle città venerande.Per giugnerle insieme, la ceraseparai dal nettare flavocon la mia bocca ingordama non sì che non rimanessenella masticata sostanzal'odor del cefisio narcisso.Trassi il refe da una sagenalogora per lungo esplorarei fondi pescosi, ancor lordadi scaglie, pregna di salso,esperta del tacito abisso.

Il Dèmone dai mille nomi,il vagabondo Orgiaste,il Dio circolare, il Maestrodelle visioni, l'Amicodei suoni, Colui che conducela melodìa del Tutto,m'insegnò quest'arte nascosta.Ebbi acuto l'orecchioal rombo del ponto remoto,allo sciame lene strepente,al vado pulsare del sangue,

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ai movimenti segretidell'anima vigile, a ognidimanda, a ogni risposta.Il suono si fece acque foglieglebe rupi nuvole marmi,scroscio di doglienza, sorrisodi pace, grido di brama,combattimento ordinato,danza revoluta, solennecoro, sicìnnide incomposta.

Ah, che mai sanno gli schiavifaticosi intenti a mestarecon lor mestole ed assine' vecchi truoghi di pietraconsunta lor polte ed imbratti,come i ciechi servi di Sciziaposti in buon ordine ai vasidella mungitura, or che sannoeglino della potenzae dello splendore dei suoni?O parole, mitica forzadella stirpe fertile in opree acerrima in armi, per entroalle fortune degli evifermata in sillabe eterne;parole, corrotte da labbrapestilenti d'ulceri tetre,ammollite dalla balbuziesenile, o italici segni,

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rivendicarvi io seppinella vostra vergine gloria!

Io vi trassi con manocasta e robusta dal gorgodella prima origine, freschecome le corolle del marecontràttili che il novo lumeindicibilmente colora.Io vi disposi nei modidell'arte così che la vitavostra rivelò le segreteradici, le innùmere fibreche legano tutta la stirpealla Natura sonora.Io feci apparire tra l'unae l'altra sillaba i millevólti del Passato tremendicome sembianze di mortiche un'anima sùbita inondi.Io dal vostro cozzo favillesprigionai, baleni d'amoreche illuminarono l'ombradel Futuro pregna di mondi.

Splendete e sonate, o parole,in questo Inno che è il vastopreludio del mio novo canto.Converse io v'ho novamentein sostanza umana, in viva

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polpa, in carne della mia carne,in vene di sangue e di pianto.Splendete come l'aurorasu l'alpe nutrice di fiumi,onde scese al suo messaggeroEuretria la Decima Musa.Risonate come le trombedel vento che avea seppellitolaggiù nelle sabbie di fuocol'ancìpite Sfinge camusa.Ma, prima che l'ora sia chiusa,io voglio al Maestro sublimealzare il saluto figliale;poi, colcato sopra la terramunifica, gli ultimi vótivolgere alla Madre immortale.

XX.

Enotrio, in memoria dell'orasanta che versò d'improvvisoil fuoco pugnace de' tuoispirti su la mia pueriziaimbelle, alle tue prime cuneio peregrinai santamente.E purificai le mie maninelle acque alpestri che, irosecontra macigni superbipiù che marmi di simulacri,

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schiumeggiano presso la casaumile dove nascesti,sorelle della correnteStrophia dinanzi la portadel re d'inni Pindaro in Tebe.Duro è il Teumesso, e il suo sproneè come ginocchio protesod'oplìte in resistere all'urto.Ma il tuo Monte Gàbberi è duropiù del Teumesso, o mio padre;è come un elmetto d'eroe.

Ha forma d'aulòpide, caraa Pallade e a Pericle, il monte,con la visiera e il nasale.E l'aspra virtude apuanasembra guatar per i fórile navi sul mar di Liguriae noverare le forzedell'arsenà che travagliail patrio ferro dell'Elbadietro il promontorio lunense.Certo nell'infanzia selvaggiaei t'apprese il crudo cipiglioonde tu guatasti i Bonturie i Fucci e i ladruncoli immondie l'altra genìa per le terreche il vicin tuo grande esulatostampò di suoi fiammei vestigi.Ma l'alpe di Mommio ha una vesta

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di glauco pallore, e la Cullasta con Montéggioli biancasopra un dolce golfo d'ulivi.

Sicché nel cor mi sovvennedella sacra Fòcide, e il Plistonel lapidoso Motroneriveder mi parve, e spiraresentii per le alture e le valliil soffio dell'Ellade, il numedi Pan nei vocali cannetipresente, che ancóra conducepe' tempi il Ritorno eternale.Sostai nella selva palladiaattonito, e il ciel tra le frondiera come il vergine sguardodell'occhicèrula Atena.E quivi sedetti su l'erbaa meditare, o Maestro,il fato del tuo nascimento.E tu eri meco placatonella tua divina vecchiezza;e la santità degli uliviti coronava d'immensacorona la fronte sublime:

E io dissi: «Padre, il tuo grandeaspetto è come la terranatale, tra l'Alpe di Luniove il Buonarroto ancor rugge

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e il Tirreno Mar navigatodalle prue dei Mille in eterno.Prometèa materia è quest'alpe,insonne altitudine alata,carne delle statue chiare,forza delle colonne, gloriadei templi, inno senza favella,sculta rupe che s'infutura.L'aquila batte le pennesul vertice aguzzo, il torrenteprecipita al piè con fragore.Da tutte le vene profondeuna volontà di bellezzaeroica s'agita e soffreper sorgere in luce di forme.O padre, qui son le tue cuneche Michelangelo seppe.

Degna è quest'alpe che gli occhituoi di fanciul torvo guardatal'abbiano quando la dolcetua madre era ignara del tantopeso ch'ella avea sostenutoe non ascoltava il torrentesonoro annunciar le tue sorti,onde l'umil casa ancor trema.Degna è che tu la contemplinella tua sera solenne,o eroe che tanto pugnastie tanta sementa spargesti

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nei campi di guerra fendutidall'unco tuo vomere fattocon l'acciaio delle me scuri.Se un luogo v'è dove tu possagrandemente spandere il fiatodel tuo coraggio ancor caldodalla titanica impresa,ben questo è, che un dio formò quandotutti gli iddii erano ellèni.

Qui forse tagliasti la primacanna pel sufolo vanoe v'apristi i sette suoi fóri,tu che sai perché Pan facesseobliqui i calami eternie diritti Pallade Atena.Or, se tu spiri il tuo vastosoffio nella bùccina forteche tra l'ignavia dei servichiamò i guerrieri festantialla suprema tua giostra,da tutti gli echi dei montiche il castigatore grifagnovide fiammeggiare nel cielodell'ire sue conflagratovermigli come se di focousciti fossero e feced'essi le meschite infernalida tutti gli echi dei montisola ti sarà ripercossa

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voce di vittoria e di gloria».

Questo dal cor m'ebbi fervorenel puro silenzio dell'alpe.E dal ferreo Gàbberi al Roncoroseo di grecchia, dai boschidi Mommio argentei di paceai rugginosi gironidella Ceràgiola ardente,il tuo spirto ovunque diffusoera nell'etrusca Versilia;e conveniva con Dantein Val di Magra, con Guidoa Sarzana, con l'Ariostodi là dalla Pania su l'aspraTurrite, più lungi. E per tuavirtude risorsero quivigli antichi iddii della patria,risorsero su le ruinedelle città disparitei popoli spenti a cantarele divine origini e i cultidegli avi e la forza dell'armi.

E come Erme, come Vergilio,come il vicino tuo grande,eri mediator fra due mondi.Enotrio, ora e sempre laudatosii tu fra gli uomini in terra,perché veruna dell'alte

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opere che tu operastieguaglia in altezza il tuo spirto,presente ovunque un servaggiosi scuota, un'augusta memoriarisorga, una giusta potenzasi vendichi, un sogno lampeggi,un desìo s'armi e combatta.Enotrio, ora e sempre laudatosii tu fra la gente latina,perché tu superstite regiodel gentil sangue, tu vatesolare contra il nubilosobarbarico ingombro esaltastile marmoree fronti degli Archidi Trionfo sacre all'Azzurro.

Enotrio, ora e sempre laudatosii tu fra l'italica gente,e col lauro gianicolensecol cipresso del Palatinocol gattice d'Arno col salcelombardo con le violeliguri con le pestànerose con le sicule palme,con tutte le nobili frondie con tutti i fiori soavidei campi espèrii ghirlandedi gloria ti sieno tessutedalla giovinezza robusta,perché tu solo, mentre in ogni

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capo di strada era alzatoletto fornicario o pur bancodi baratto o pur falso altaread officii di vituperio,tu sol ci serbasti nell'ampiotuo petto il fuoco di Romaper la terza vita d'Italia.

O padre, verrà quel gran giornoche ci promise il tuo canto!Ad ogni alba gli Archi dell'Urbesembrano vomire la notteaccidiosa che rempiei loro vani come le bocchedelle cave maschere inerticui sospese il vecchio tragedoper vóto a Diòniso muto.Subitamente per entroi loro vani sembra che parlila magnificenza del giornogeniale, con la concisaforza delle inscritte parolepiù fiera su i cuori viriliche getto di bronzo, più acreche punta di stilo rovente.E gli Archi, ecco, aspettano i nuovitrionfi, perché tu cantasti:«O Italia, o Roma! quel giornotonerà il cielo sul Fòro».

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Tonerà il cielo sul Fòroliberato d'ogni congerievile, d'ogni cenere e polve,restituito per semprenella maestà de' suoi segni;e dal fonte pio di Giuturnascoppieranno le acque lustrali,e da ogni luogo arido venedi acque, e torrenti di vitanelle solitudini pronedell'Agro, nell'imperialedeserto, da tutte le tombe;e tutte le vèrtebre foschedegli acquedotti sarannoArchi di Trionfo per milleVolontà erette su carri;e la croce del Galileodi rosse chiome gittatasarà nelle oscure favissedel Campidoglio, e finitonel mondo il suo regno per sempre.

E quella sua vergine madre,vestita di cupa doglianza,solcata di lacrime il vólto,trafitta il cuore da spadeimmote con l'else deserte,si dissolverà come nubeinnanzi alla Dea ritornantedal florido mare onde nacque

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pura come il fiore salinoportata dai zèfiri carchidi pòlline e di melodìalà dove l'antico suo figlioapprodò coi fati di Romae disse: «Qui è la patria».Tonerà il cielo sul Fòro.I grandi Pensieri e le grandiOpere saran coronati,deità novelle, nell'Urbe.Ed anche tu, vate solare,assunto sarai nel conciliodei numi indìgeti, o Enotrio.

XXI.

Ecco, il mio carme si chiude.Si placa l'ebrezza dei suoni,come la sonora dei fluttidanza innumerabile quandoè senza bava di ventoil mare che lento s'imbiancae per tutto è placida albàsia.Ecco, venir veggo pel pratodell'erba il selvaggio silenzio,a me venire qual cautosatiro su piede caprinocon occhi sì chiari che sembralùcergli tra i cigli tremore

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qual di linfe tra colocasia.Ei fece pur ieri il suo flautosecondo la norma del diotegèo, ma del pollice soffreper una scheggetta di cannache vi s'infisse... Ah, mi mandaTeocrito questo silenzio!O forse la ninfa parrasia?

È il solstizio d'oro su i campiesperii, è il solstizio d'estate.Si càstrino i bianchi vitelli.Si tóndano i greggi lanuti.Si mietano gli orzi e i legumi.S'apparecchi l'aia e, conciatacon pula e con morchia, si rasi.Non più pe' forami de' fiaris'ode rimbombevole coroma a pena sottil mormorio,segno che l'arnie son piene,colme son di nettare biondo.Noi le voteremo domaniall'alba, in mondissimi vasi.Piedi due fa l'ombra dell'uomonell'ora sesta. Oh lunghezzadel dì per oprare e oziare!Fa ventidue nella primaora e nell'undecima. Oh grandiopere tra l'albe e i meriggi,ozii tra i meriggi e gli occasi!

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Natura, mia Madre immortaleche anche tu mi dài vita brevee immensi disegni mi poninel cuore, tu nata la prima,di te medesima nata,a tutti comune ma solaincomunicabile, m'odi.Io sì grave di sapienzae di esperienza, di gioiae di dolore, di amoree di odio, se in te mi distenda,ritorno leggero ed ignaro,mi sento pieghevole e verdequasi arbusto privo di nodi.Eccomi su l'erba supino,col braccio sotto la testa,col vólto nell'ombra, coi piedinel sole. Così mi riposo.Un sangue infantile m'inonda.Sento un fresco sonno venire.Tu proteggi il sonno dei prodi.

Io vidi Zagrèo, che i Titanico' vólti coperti d'argillaentrati nell'antro segretosgozzarono e poi crudelmentedilacerarono, io vidisu l'erba il rinato Zagrèoal soglio del bosco dormire.

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Non vidi mai sonno più dolcené più profondo, o Nutrice.La sua barba d'oro era fattad'ali d'uno sciame splendenteche gli pendea dalla boccaaperta qual d'arnie forame.In miel converso era il patire!Così, così dormir voglioin te che mi dài signoriaa pacificar mia discordia,o Persuasiva. Ancor novoeccomi, ancóra immaturoe pieno d'occulte potenze,ancóra nel mio divenire.

Ciò che per me fu compiuto,in verità, lieve cosaparmi al paragone dell'oprache dentro mi nasce e si nutredel misterioso licore.O mia Madre, in tutte le veneaccresci il mio sangue e l'affina!E, s'io fossi in crudo supplizioed ogni aumento di sanguemi fosse aumento di pena,io ti griderei: «Madre, Madre,moltiplica questo mio sanguedoglioso, perché più mi ferval'anima e mi sia più divina!».Sano mi facesti nel ventre

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della incorruttibile donnache mi portò. Eccomi sanosu l'erba, con muscoli snellicuore saldo e fronte capace.Più ragione v'è nel mio corpovalido che in ogni dottrina.

Tu proteggi il sonno dei prodi.Ecco, al favor tuo m'abbandono.Odo il brulichìo del tuo lentoguaime, il tuo fulvo pinetocon gli aghi e le pine far vaghiaccordi, e sonar come sistriil grande oro tuo frumentario.Ma odo anche un rombo lontanoche dice: «Son qua, Ulissìde».Madre, Madre, fa che più fortee lieto io sia, quando la vocedel dèspota ch'io ben conosco,che udii tante volte, la maschiavoce nel mio cor solitariogriderà: «Su, svegliati! È l'ora.Sorgi. Assai dormisti. L'amicodivenuto sei della terra?Odi il vento. Su! Sciogli! Allarga!Riprendi il timone e la scotta;ché necessario è navigare,vivere non è necessario».

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LIBRO SECONDO

ELETTRA

Alle montagne

Candide cime, grandi nel cielo forme solennicui le nubi notturnestanno sommesse come la gregge al pastore, ed i Vegliinclinati su l'urneprofonde dànno eterne parole, e fanno coronale stelle taciturne;

o Montagne, terribili dòmi abitati da Dio,ove gli anacoretid'un tempo immemorabile per sola virtù di doloreconobbero i segretidel Mondo e nelle rocce co' i cavi occhi lessero comein libri di profeti;

Montagne madri, sacre scaturigini delle Forzepure, quando non eral'Uomo; donde gioiosa alla cieca tenebra sparsabalzò l'alba primierae alle vergini valli guidando le forme dei fiumiscese la Primavera;

donde scesero stirpi umane d'oltrepossente

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vita, giù per apertevie più vaste de' fiumi, stampando titaniche ormenella pianura inerteche fumigava umida al sole purpureo, pregnadelle future offerte;

o Montagne immortali, non parla nel sacro silenziodelle cose ignorateil vostro Spirto? Ascolta l'anima mia se non giungaun messaggio. Deh fate,o Montagne immortali, che scenda dai vostri mistericinto di luce il Vate!

La speranza e la gioia fuggirono lungi dai cuoriumani; e tutti i sognidella bellezza e tutti i sogni dell'arte felicevanirono; e stringe ognicuore un'arida angoscia; e rugge d'intorno la guerradegli atroci bisogni.

Chi finalmente, sceso a noi dalle alture inaccesse,ricondurrà la gioia?Chi su la vasta fronte avrà, mai veduta possanza,una luce di gioia?O tu dalle Montagne purissime, Spirito ignoto,scendi con la tua gioia!

Dai culmini virginei che splendono sotto le stellepie, dalle inesploratesedi ove le sorgenti perenni cantano inconsce

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della superna estate,dalle vene incorrotte dei geli, dal sacro silenziodelle cose ignorate,

da tutta la grandezza venerabile delle Montagnemadri io t'evoco, o puroSpirito senza nome, che l'occhio dell'anima vedetrascorrere l'oscuroabisso dove tanto umano dolore si torcee schiudere il Futuro!

A Dante

Oceano senza rive infinito d'intorno e oscuroma lampeggiante, e con un silenzio sotto i terribili tuoniimmoto ma vivente come il silenzio delle labbrache parleranno:tenebrore dei Tempi, profondità dell'affannoumano, assidua mutazione delle cose, ritornoperpetuo delle sorti:oceano senza rive tra due poli, tra il Bene e il Male,con le sue bave disperse dalla procella eternale,co' suoi abissi ingombri dalle spoglie dei popoli morti,era il Destino;

e tu come una rupe, come un'isola montuosa,come una solitudine di pensiero e di potenza,come una taciturna mole di dolor meditabondo

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che ode e vede,sorgevi uno dal gorgo; e nell'ululo delle prede,nel sibilo dei nembi, nel rombo delle correnti,il tuo orecchio udivaquel silenzio e la sola Parola che doveva esser detta;e di sotto alla fronte percossa dalle schiume e dai vèntiil tuo occhio insonne vedeva infiammarsi il mondoall'alta tua vendetta.

Allora, nei baleni e nell'ombre, lo spirito dell'uomostette davanti a te, ignudo, senza la sua carne,senza le sue ossa, disvelato davanti alla scienzadel tuo dolore;e nel cavo delle tue mani, che sapean l'arme e il fiore,più mansuefatti degli augelli che la neve cacciaverso gli asili umani,discesero i messaggi delle divine speranze,i poteri sconosciuti delle verità divine;e ti diede i suoi tuoni e i suoi raggi il tuo Dio, cui tu al-zasti il cantoche non ha fine.

O nutrito in disparte su le cime del sacro monte,abbeverato solo nell'albe al segreto fontedelle cose immortali, Eroe primo di nostro sanguerinnovellante;oceanica mente ove dieci secoli atroci,carichi d'oro d'ombra di strage di fede e di paurametton lor focisilenziosamente; anima vetusta e nuova,

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instrutta e ignara, memore e indovina, ove si serratutto il pensier dei Saggi e palpitano il Fuoco l'Arial'Acqua e la Terra;

o Risvegliatore, o Purificatore, o Intercessoreper la vita e per la morte, o tu che cresci il vigoredella stirpe come il pane nato dal nostro sudore,noi t'invochiamo;o tu che col tuo canto disveli agli uomini i camminiinvisibili e discopri i vólti nascosti dei destini,noi ti preghiamo;o tu che risusciti l'antica virtù delle contradee tempri il medesimo ferro per la bontà delle spadee per la gioia delle falci nelle profonde biade,noi ti attendiamo;

perocché tu sii pur sempre atteso in prodigi, come il Fi-gliodel tuo Dio, dai cuori che nei battiti del tuo cantoappresero a sperare oltre il volo delle fortune,o profeta in esiglio,e pur sempre su le nuove tombe e su le nuove cune,là dove un'opra si chiuse e là dove s'apre un germe,suoni il tuo nome santo,e il tuo nome pei forti sia come lo squillo degli orical-chi,e solo il nomar del tuo nome, come il turbine agita i lembid'un gran vessillo, scuota nei suoi mari e nei suoi valchil'Italia inerme.

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Dove sono i pontefici e gli imperatori? Splendentierano nella specie dell'oro, e stampavano con piediobliqui le vestigia sanguigne, vestiti dell'anticafrode, e i lor vestimentiodoravano. Rotti come i sermenti addi, perduticome i fuscelli nella tempesta, diffusi come crassacenere ai vènti.E pallido il postremo alza le mani verso le portedei cieli e attende un segno, e chiama, e nulla appare fuor che la morte.Ma il cuore della nazione è come la forza delle sorgentimeraviglioso;

e tu rimani alzato nel conspetto della nazionecon la tua parola eterna nella tua bocca respirante,col tuo potere eterno nel tuo pugno vivo; e la tua stagio-nesta su la nostra terrasenza mutarsi; e la tua virtù è dentro le radicidi nostra vita come il sale è nel mare, come la feconditàè nella nostra terra;e nulla di te perisce nei tempi ma la tua passione,ma il tuo furore, ma il tuo orgoglio e la tua fede e la tua pietàe la tua estasi e tutta la tua grandezza dura nei tempi comedura la nostra terra.

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Tu la vedesti col tuo profetico onniveggente occhio in-fiammatol'Italia bella, come una figura emersa dall'internoabisso del tuo dolore, creata dalla tua stessa fiamma,con i suoi monti,con i suoi piani, con i suoi fiumi, con i suoi laghi,con i suoi golfi, con le sue città ruggenti d'ire,l'Italia bella;e la tua rampogna la rifece sacra, la tua preghierafece risplendere di purità le sue membra schiave;sì che sempre gli uomini vedran su lei bella il duplice splendoredel cielo e del tuo verbo.

Sol nel tuo verbo è per noi la luce, o Rivelatore,sol nel tuo canto è per noi la forza, o Liberatoresol nella tua melodia è la molt'anni lagrimatapace, o Consolatore,quando la cruda pena il veemente sdegno il duro spregiosi fanno eguali alle più dolci cose della forestaprimaverilee la mano che torturò la carne immonda, che trattò la ghiacciae il fuoco, la pece e il piombo, gli sterpi e i serpi, il fan-go e il sangue,tocca segrete corde e nel silenzio fa il divin concentoch'ella può sola.

Cammineremo noi ne' tuoi cammini? O imperialeduce, o signore dei culmini, o insonne fabbro d'ale,

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per la notte che si profonda e per l'alba che ancor non salenoi t'invochiamo!Pel rancore dei forti che patiscono la vergogna,pel tremito delle vergini forze che opprime la menzo-gna,noi ti preghiamo!Per la quercia e per il lauro e per il ferro lampeggiante,per la vittoria e per la gloria e per la gioia e per le tue santesperanze, o tu che odi e vedi e sai, custode alto dei fari, o Dante,noi ti attendiamo!

Al Re Giovine

Nella gran bandierache agitarono i vènti marinia poppa della nave guerrieratutt'armata di ferro gigantecontra i ferrei destini,nella gran bandieradi battaglia e di tempestaavvolgi il tuo padre esangue,coprigli la bianca testa,consacragli il petto fortecon quella croce raggiante,o tu, della purpurea sorte

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erede, che navigavi il Mare,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare!

Avvolgi il tuo padrenell'insegna che attese la gloriasopra le acque così lungamente;componilo sul carro scematodel bronzo possente;dàgli a scorta mute squadreche in arme sognino la vittoriapel sangue non vendicatosul deserto ardente;nella luce dell'Urbe fatale,nel silenzio delle scortee del tuo dolor regale,accompagna il tuo padre clemente,o tu che chiamato dalla Mortevenisti dal Mare.

Accompagna il padrealla tomba ove già l'avo dorme,nel tempio sublimeche alzò su colonnedi granito la forza di Roma.La romba degli inni austericome un turbine all'ultime cimerapisca i tuoi pensierinuovi, oltre la tomba, oltre l'altare.E i grandi pensieri

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ti facciano insonne; e Romae la sua Fortuna dalla chiomaterribile ti facciano insonne,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare.

Tu non dormiraise il tuo cuore è degno che lo mordal'avvoltore violento;tu non dormiraise de' tuoi nervi induratiattorca tu la cordaper l'arco che t'è innanzi lento;tu non dormiraise tu oda la voce dell'Urbe,sepolcrale e marina,non voce di volubili turbema d'immutabili fati,ma dell'anima eterna latina,o tu che chiamato dalla Mortevenisti dal Mare.

Tu non dormiraise degni sieno i tuoi occhidi contemplar l'orizzonteche il Quirinal discopreal dominatore;tu non dormiraise le tue mani sien prontealle lotte ed all'opre,

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alla spada ed al martello,a foggiar per la tua fronteun'altra corona di ferrocol ferro d'un altro Salvatoresopra l'incudine d'un altare,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare.

Non dormimmo noinella notte solennequando passò per l'ombrad'Italia il funereo convoglioche portava il buono infranto cuore.Non dormimmo. Ascoltammo gli eroifavellare nella notte ingombra.Ascoltammo il fragoredei carri nel vento d'estate.Tremammo. Più del cordogliopoterono le speranze alate.Per l'ombra era un fremito di penne.Lampeggiavano i monti e le coste.Gravido di vita e di morteanelava il Mare.

Tremammo di forzachiusa e di volontà raccolta;fummo ebri d'un sogno virile.Sentimmo nei polsi robustiardere la febbre civile.Sentimmo nel suolo profondo

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rivivere gli iddii vetusti.Ebri di presagi augusti,vedemmo ancóra sul mondosplendere il latin sangue gentile.Ascoltammo gli indigeti eroifavellare nella notte ingombra.Seguimmo nell'ombrainfinita il volo della Mortelungo il patrio Mare.

E dicemmo: «Passalungo il patrio Mare,Maestà della Morte!Alza gli spirti; fa palpitareil popolo che veglianella notte balenante.Genova ti salutasul suo golfo magnifica e forte,coronata di baleni.La Spezia ti saluta,in vista dell'Alpe, austera e forte,coronata di baleni.Salutano il tuo passarele due madri delle navi, o Morte,veglianti sul Mare.

Più grande salutoavesti tu mai?Ma, giunta alla mèta, tu avraiil saluto del Sole e di Roma.

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E il nuovo destino, segnatodal sangue regio, avrà nella nuovaluce principio solenne».Per l'ombra era un fremito di penne.Lampeggiavano i monti e le coste.E dicemmo: «O Italia, o Italia,non ti vedremo noi su l'alba,per questo buon sangue che ti giova,per la divina provadi questa sacrificale morte,rifiorir nel Mare?».

E dicemmo: «O Italia,Italia sonnolente,alfine ti sveglitu dal tuo sonno vile?Ahi sì lungamentesotto il sole giaciutacon l'obbrobrio senile,tra le mani dei vegliscaltri che t'han pollutache di te han fatto stramedocile all'ignavia loroe d'ogni tuo nobile allorouna verga per batter la fame,non senti l'odor della morte?Oh nuova sul Mare!».

Così noi dicemmo,questo sognammo ascoltando

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il fragore dei carri nel ventod'estate per la funebre notterecanti alla tomba il re spento,al silenzio di Roma, alla pace.Questo pregò sotto il firmamentoingombro la nostra ansia seguace.Or chi sarà l'eroe che attendiamo,il pastor della stirpe ferace?Tendi l'arco, accendi la face,o tu che chiamato dalla Mortevenisti dal Mare,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare!

T'elesse il Destinoall'alta impresa combattuta.Guai se tu gli manchi!È perigliosa l'ora.Ma tu sai che il periglioè la cintura pe' fianchidell'eroe. Dal sangue vermigliofa che nasca un'aurora!La fortuna d'Italiaprese l'ali sul campod'una battaglia perduta.Ricòrdati d'un altro padrepartito per un più triste esiglio,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare.

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T'elesse il Destino.Ricòrdati del figliuol vintoche cavalcò quel giornotra la Sesia e il Ticinoverso il bianco maresciallo.Rifiorì l'itala primaveratra i dolci fiumi; e il re sardoscese dal suo cavalloper segnare il duro patto.Tutto fu nemico intorno.Egli disse al suo cuore gagliardo:«Sopporta, o cuore, e spera!».Ricòrdati di quel ritornotu che chiamato dalla Mortevenisti dal Mare.

Egli volle Roma,egli ebbe il Campidoglio,egli ha pace nel Tempio romano.Che vorrai tu sul tuo soglio?Quale altura è il tuo segno?Miri tu lontano?È largo quanto il tuo orgoglioil gesto della tua mano?Sai tu come sia bello il tuo regno?Conosci tu le sue sorgentiinnumerevoli e la forzanuova o antica delle sue correnti?Ami tu il suo divino mare,Giovine, che assunto dalla Morte

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fosti re nel Mare?

T'elesse il Destinoall'alta impresa audace.Tendi l'arco, accendi la face,colpisci, illumina, eroe latino!Venera il lauro, esalta il forte!Apri alla nostra virtù le portedei dominii futuri!Ché, se il danno e la vergogna duri,quando l'ora sia venuta,tra i ribelli vedrai da vicinoanche colui che oggi ti saluta,o tu che chiamato dalla Mortevenisti dal Mare,Giovine, che assunto dalla Mortefosti re nel Mare.

Alla memoria di Narciso e di Pilade Bronzetti

Canta, o Verità redimitadi quercia, canta oggi gli eroial genio d'Italia che t'ode!Al popolo ardente di vitanovella tu canta oggi i suoileoni, il suo sangue più prodeche corse la gleba feconda!Tu fa che fiammeggi nell'ode

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ciascuna feritae lungi la fiamma s'effondaper tutte le prode,per tutte le cime,per tutta la patria sublimeche freme di gloria sepolta!Canta, o Verità redimitadi quercia, canta oggi gli eroial genio d'Italia che ascolta!

Ma ascolta dall'ombra dei montiTrento, l'indomatafiglia cui la cordanon spegne la voce iteratache chiama che chiama la madrenell'orror notturno;e grida: «Ricordatu prima dell'altreglorie la mia gloriaoggi che su l'ardue frontidell'Alpe volò la Vittoriae che l'Adige taciturnon'ebbe rinnovatapromessa! RicordaCastel di Morone, Tre Ponticon l'Aquila che dal Tifatapiombò sul Volturno».

Canta dunque, pria che si partala nova speranza da noi

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e si spenga il sùbito ardore,canta dunque il fior degli eroi,il prode dei prodiche dorme leggero sul cuoredi Brescia fedele,e l'emulo del re di Spartacon i suoi trecento,con i suoi trecento custodiche la dolce Campania tiene;canta oggi la gloria di Trentoper lei consolare in catenedel vano amor del van dolore,oggi che da mano servilela sua pura corona è spartacome fronda vile.

Come vil lorduradal tempio di Roma lo sgherrospazza quella corona purache tesseano, ideal tesoro,(ancor dunque ai monti si sogna?)fedeltà più dura del ferro,speranza più ricca dell'oro.Giovi ella a crescere lo stramesu cui la frode e la pauragiaccion come buoistracchi ruminando menzogna.Giovi ella a crescere il letameche impingua l'annosa vergogna.Ma tu non piangere; tu sogna,

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anima chiusa, ancor nei tuoimonti. È alto il sole sul Fòro.Cantiamo gli eroi!

Non piangere. Aspetta nei monti;poi che non indarnonel libero azzurrosul Gianicolo, alto a cavallo,sta Colui che udisti a Tiarnoper te su la via sfolgoratatonare col bronzo.Ma sogna. Come il bianco alburnocelandosi sotto la scorzasi fa vigor novo del tronco,nell'anima tua sempre alzatail sogno convertasi in forza.Non piangere. Sogna nei monti.Cantiamo la gesta obliata,Castel di Morone, Tre Ponticon l'Aquila che dal Tiratapiombò sul Volturno.

Cantiamo la vetta ridentesu l'antico fiumeesperto di strage, la vettaridente di giovine sangue.Oh tumulo grandeche gioiosamentedi sé fece l'alta coorte!Ciascun combattente

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su la sua terribile ebrezzacol sole e con l'ariasentiva il guardar leoninodel Duce, dell'Onnipresente.Oh vendemmia di giovinezzapiù forte che il vino!Porpora d'autunno,porpora di mortesu la dolce di uve Campania!

Non piangere, anima di Trento,la tua calpestata corona.Dimentica il male, se puoi.Non fare lamento.La tua madre non t'abbandona:ha il cuore profondo.Passano i Bonturie il seguace lor gregge immondo.Durano gli eroieterni nei fastid'Italia, e quel Dante che alzastinel bronzo, al conspetto dell'Alpedura solo più che le rupi,gran Mésso dei fati venturisignore del Canto sul mondo.Passano i Bonturie il seguace lor gregge immondo.

Non fare lamento. Perdonapel lungo martirio di Dante,

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perdona pel chiuso doloredi Quegli che disse la grandeparola. Sovvienti? Ei ti videperduta, ei vide tanto sangueinvano sparso, tanto fioredi libere viteinvano reciso,Trieste come te perduta,come te perdutal'Istria, alla mercé del nemicole porte d'Italia, ottenutaVenezia con man di mendico,laggiù laggiù sola su l'Adriala macchia di Lissa, l'infamia,tutta l'onta; e disse: «Obbedisco».

Ah ti sovvenga! Ti sovvengaancóra di Lui doloroso,col piombo nell'ossa dolenti,combusto dal fuocodi cento battaglie e pensosogià del vasto rogoche alzato ei volea sul selvaggiogranito, al conspetto del mare,per dar la sua cenere ai vèntidel suo mar selvaggio.Ei disse: «Ah ch'io vengach'io venga anche all'ultima guerra!Legatemi sul mio cavallo.Ch'io veda brillare le stelle

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su la Verruca, oda al Quarnarocantare i marinai d'Italia!Legatemi sul mio cavallo».

Verrà, verrà sul suo cavallo,con giovine chioma.Torrà il nero e giallovessillo dal suo sacro monteche serba il vestigio di Roma.Ridere su l'antica frontevedrà le sue vergini stelle;più oltre, più oltreverso le marine sorelle,anche udrà anche udrà nel Quarnaroi canti d'Italia sul vento.Non piangere, anima di Trento,la tua calpestata corona.Ribeviti il tuo pianto amaro.Dimentica il male, se puoi.Non fare lamento. Perdona.Prepara in silenzio gli eroi.

Per i marinai d'Italia morti in Cina

Chi ti vide col suo cuorepuro, o Italia liberata,detersa dal sangue e dal pianto,dalla polve e dal sudore,

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dopo l'alta gesta, alzatanel mare nel sole nel canto?

Chi ti vide, dopo l'altagesta, vivere nel marecol grande tuo corpo fecondo?Chi sentì nella tua caldagiovinezza palpitarel'antica speranza del mondo?

Forse i figli, forse i figlituoi migliori, i marinaisu l'acque remote, nei portistrani, gli umili tuoi figliche non sai né rivedrai,ti videro e caddero morti.

Ah ti videro più bellaessi, i tuoi semplici eroi,negli ultimi palpiti sacri!Canterò oggi, per quellatua bellezza, se tu m'odi,il pianto di tutte le madri.

Ecco, una madre nell'antica Ichnusadei pastori, nell'isola disertache stampa sul Tirreno dalla Nurraal Campidano sua durabile orma,ecco, la madre che filò la nerae bianca lana, ecco, la madre a sera

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vien su la soglia con la nuora pregna,quando le greggi tornan di pastura.Sta su la soglia con la nuora, e contale stelle prime nell'aria serena,nell'aria dolce ove il colmigno fuma;e sta con nel suo cor la sua preghiera;e guarda sopra i gioghi di Gallurala falce della luna che tramonta.E guarda verso il mare la Capreraove dorme il Leone in sepolturacon un respiro che solleva l'onda;e guarda l'ombra della Maddalena,sul dolce mare un'ombra di guerrierache tutta armata a guerreggiare è pronta.E prega, ignara della sua sciagura,e prega e dice: «Chi me l'assicura?Tu, Vergine Maria, Vergine pura,tu guardalo dal male e tu l'aiuta!T'accenderò quant'io potrò di cera,quant'io potrò d'oliva, se sventuranon gli accade, se salvo mi ritorna.Guardalo, Vergine, alla madre sua,guardalo alla sua madre e alla sua donna.Dov'è, dov'è? Che fa egli a quest'ora,il buono figliuol mio, mentre che annotta?Lo rivedemmo ch'era primavera.La rondine non era anco venuta.Giunse improvviso, giunsemi alla portagridando: «O madre, o madre, apri la porta!».Eri al telaio sotto la lucerna...».

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A lungo a lungo ella così raccontaal cuore che ben sa, che ben ricorda,che ben ricorda ch'era primavera.Così racconta la madre canuta;e guarda sopra i gioghi di Gallurala falce della luna che tramonta;e guarda verso il mare la Capreraove dorme il Leone in sepolturacon un respiro che solleva l'onda.E un'altra madre viene su la sogliad'un'altra casa e guarda un'altra alturae un altro mare, il mar di Siracusae l'Etna grande che nell'ombra fuma;e prega in cuore e dice: «O creaturadel sangue mio, quando ti rivedrò?».Odorano le selve alla rivieracon frutta d'oro; cantano alla lunale ciurme prima ch'ella si nasconda:trema la rete, palpita la vela.E un'altra madre viene su la sogliad'un'altra casa, là nella remotaItalia, là sul Garda ove Peschierasorge custode nella sua cinturaforte, ove il Mincio memore salutai campi di battaglia. E un'altra ancóraprega in silenzio e guarda la pianuratra l'Oglio e l'Adda ove la primaverafu cerula di molto lino. E ancóraun'altra prega dalla pampinosarama dei Monti d'Alba, dalla volsca

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Velletri che disotto le sue muravide un mattino tempestar fra l'ondadei cavalli il Leone ebro di Roma.E un'altra ancóra sta su la picenaspiaggia, di là dal Tronto, e si ricordadel bel naviglio che la prima voltaportò il fanciullo a Spàlato, a Gravosa,a Sebenico, alla latina spondacui San Marco legò la sua galerae prega in cuore e dice: «O creaturadelle mie pene, non ti rivedrò?».Sì penano le madri in su la seraal novilunio, alla dolce frescura.E non, di qua dal Tronto, nella terrad'Abruzzi, nella terra ove riposanoi miei maggiori con la rugginosaàncora di speranza e di fortuna,non prega qualche madre per venturaguardando su la placida Maiellatramontare la falce della luna?Guarda greggi passare ad una ad unalungh'esso il lito andando alla pianuradell'Apulia, ai lor paschi, dall'alturadel Sannio che laggiù si fa nevosa;migrar le greggi per la via saputadai primi avi la madre guarda, mutapresso la casa ove restò la cunaantica per la nova genitura,la madre veneranda cui virtùdi nostra prima gente in grembo dura;

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e prega in cuore e dice: «O creatura,creatura, che fai mentre che annotta?Se sei grondante, ora chi ti rasciuga?Forse hai tu sete, e la vigna ha tanta uva!Figlio, che fai? Pensi alla madre tua?Pensi alla madre tua che non t'aiuta?».E guarda pel sentiere che s'oscura,e il cor le stringe sùbita paura.Tramontata è la falce della luna;nell'ombra intorno altro non v'è che lucase non il ferro pronto all'aratura.È il mésso quei che per l'erta s'indugia?Gran silenzio negli alberi s'aduna.La madre ascolta, non respira più.S'ode il campano in lontananza ancóra,della greggia che valica la duna;s'ode il passo per l'erta che s'oscura.La madre attende, non palpita più.

Morti sono i figli, mortisono i figli, morti sonoi figli alla guerra lontana.Pochi erano contro molti.Essi avean pel suolo ignotolasciata la nave lontana.

Morti come sopra il pontedella nave, come sannomarinai dovunque morire.Non il fiume, non il monte,

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non il piano, essi non hannoveduto la casa e il confine.

Veduto non han Gallurané il Mar Ligure né l'Adriamorendo su l'orride porte,ma veduto han la figuragrande e sola della Patriarisplendere sopra la morte.

Veduto non hanno i Montid'Alba o l'Etna, non Peschierané il Garda, ma l'unica Italia.Morti sono i figli, mortisono intorno alla bandierad'Italia d'Italia d'Italia.

A Roma

Aurea Roma, sia testimonedal ciel di settembre la facciadel Sole che mai cosa più grandedi te visitò nell'alterno Orbe;sieno testimoni dal confinodell'Agro il Soratte santoapollineo con le sue coronedi nubi e il Cimino procliveche dal Tevere al Mare

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tende le sue cerulee braccia;e testimoni sieno i Montid'Alba pampinei ridential cielo dai profondiocchi dei laghi; e il divinoAgro che tace, co' suoi armentiirti, co' suoi pastori biformidall'aspetto umano ed equino,l'erbifero sepolcro dei regnisia oggi testimone al cantoche memora il detto sibillino.

«Manca la Madre» disse il carmeeuboico al sacerdote.O Roma, guerriera senz'arme,ti manca l'universa Ideache sorga, su l'ombreoblique, su le forme vuotedi alito, su le cloache ingombredi uomini, generatrice.Manca la Grande Madre. Ti mancail vergine eroe, il nepoteultimo del magnanimo Enea,che con la sua man purala tragga vivente alle tue muraauguste e instituisca la Festanova e inizii la nova Epopea.L'ancile di Marte è scodellaal mezzano; la meretriceè addetta al fuoco di Vesta;

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del tuo Campidoglio non resta,o Roma, che la Rupe Tarpea.

Ma, sotto il ciel settembraleche riversa il suo calice d'oroampio dal Celio al Viminaledal Gianicolo al Vaticanodall'Anfiteatro al Fòro,nel dì fausto dell'alta conquista,cantiamo l'avvento fatale,su la torbida acqua corrottachiamando l'imagine prisca.Contro l'un concistoroche ciancia baratta confiscae l'altro che munge il tesorodi Pietro per l'anima ghiotta,alziamo la statua ideale.Sorse fervido il popolo quandointese il responso canoro:«Manca la Madre. O Romano,che tu chieda la Madre io comando.Com'ella venga, addottasia da una pura mano».

Venne la Magna Madresu la nave alla foce del fiumebiondo; e nel limo ristette,immota, incrollabile comeuna rupe. I cavalieri,il senato, la plebe di Roma,

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le vergini del fuoco santoaccorsero in turba alla focedel fiume incontro alla venerandaOspite. Ed era ne' cuoriletizia. Ma stava nel vadolimoso la carena immotasimile a una rupestreisola. Legarono all'altaprora una fune gli uomini fortie fecero gran forza di braccia,e con voci iterateaiutavano eglino la vanaopera, a trarre la navedipinta nel Tevere biondo.

Ma sedeva la Magna Madreincrollabile sopra la tolda,con la sua corona di murasu le chiome che fingono i fluttidel ponto e i solchi dell'agro,con le sue mani invittebenefiche di beni infinitiprone su le ginocchia più saldeche le roveri annose nei monti;al conspetto del popolo grandesedeva la Madre dell'aureafecondità, la nutricedei mortali e degli immortali,la donatrice delle semenzeineffabili, la dea

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che moltiplica il sangueanimoso, edifica le chiarecittà, conduce i pensierii timoni gli aratri, errantesonante in circoli immensi.

E la forza degli uomini fortis'accrebbe di tutta la pleberomana, s'accrebbe di tuttii cavalieri romani. E tuttile braccia davano alla funeritorta e iteravan le vocial travaglio, ma indarno; ché stavaimmota nel vado la dipintacarena e il simulacro sublimesplendeva sopra la toldanell'aer salino tacente.Attonita interruppe il conatola moltitudine e tacquepavida innanzi al prodigiocon supplice cuore. S'udivafluire il Tevere biondo,addurre all'imperio del Marela maestà di Roma.Tra il popolo supplice, alloras'avanzò Claudia Quinta vestale.

Offendeva lei casta il sospettodel volgo, iniquo rumore.S'avanzò Claudia Quinta e con mani

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pure attinse l'acqua del fiume;tre volte il capo s'asperse,tre volte levò al cielo le palme;prona nel suo crine giacente,invocò a gran voce la dea.Quindi, alzata, legò il suo cintoalla prora e con lene faticatrasse la Magna Madre nel fiume,trasse la Madre dell'eternafecondità verso l'arce eternadell'Urbe. Tonarono i pettiromani; sanguinò la biancagiovenca dinanzi alla poppacoronata. Sedente sul plaustrode' buoi la Turrigera, addottada virtù di vergine pura,entrò per la porta Capena.

Così, o Roma nostra, negli anniverrà non dal Dindimo ululante,non pietra esculta in nave dipintapel Mediterraneo Mare,verrà dagli oceani lontaniove la vita allaccia la vitad'isola in isola per correntimisteriose di voleriumani e di sogni umaniche cercano le novelle forme,verrà dai continentiimmensi ove ancóra dorme

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la ricchezza nei misteridelle montagne e delle landepromessa agli insonni messaggeri,verrà dai confini del mondocon l'impeto degli elementie con l'ordine dei pensieri,verrà dall'alto e dal profondola Potenza in cui sola tu speri.

Così, o Roma nostra, nei tempiun vergine eroe di tua stirpecosì la trarrà alle tue mura.Non carena immobile in sirtelimosa, non simulacrogià venerato in templiestranei trarrà la man pura,ma la Potenza umana, ma il sacrospirito nato dal cuoredei popoli in pace ed in guerra,ma la gloria della Terranel divino fervoredella volontà che la scopree la trasfiguraper innumerevoli opredi luce e d'ombra, d'amoree d'odio, di vita e di morte,ma la bellezza della sorteumana, dell'uomo che cercail dio nella sua creatura.

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Però che in te come in un'improntaindistruttibile, debbala Potenza dell'Uomoassumere forma ed effigie,instituita nel Campidoglioe nel Fòro, di contro all'Ontadell'Uomo, su le vestigiedella forza e dell'orgoglioche chiesero la Grande Madrealle montagne frigieper lei custodir nelle tue sacremura che sole credevitu degne di chiudere l'altriceuniversa quantunque sì brevi.O Roma, o Roma, in te sola,nel cerchio delle tue sette cime,le discordi miriadi umanetroveranno ancor l'ampia e sublimeunità. Darai tu il novo panedicendo la nova parola.

Quel che gli uomini avranno pensatosognato operato soffertogoduto nell'immensa Terra,tanti pensieri, tanti sogni,tante opere, tanti dolori,tante gioie, ed ognidiritto riconosciuto ed ognimistero discopertoed ogni libro aperto

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nel giro dell'immensa Terra,tutte le speranze umanevolanti da porti sonori,tutte le bellezze umanecantanti per boschi d'allori,vestiranno le forme sovrane,appariranno alla luce eterna,o Roma, o Roma, in te sola.Ai liberi ai forti materna,o dea, spezzerai tu il novo panedicendo la nova parola.

Aurea Roma, o donna dei regni,sien testimoni all'auguraleOde che canta oggi il tuo destinole cose che portano i segni:la nube che sul Palatinosanguigna risplendecome porpora imperialetra gli ardui cipressi; il divinosilenzio del vespero che accendei Diòscuri domitoridi cavalli sul Quirinale;l'ombra spirante che occupa i Fòrigli Archi le Terme taciturna;la fonte di Giuturnache dalla ruina risale;la tavola delle Leggi sacreche dalla polve riappare;e la mia speranza, o Madre,

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e il fior del mio sangue latino,e il fuoco del mio focolare.

A uno dei mille

O vegliardo, consunto come l'ustodell'àncora che troppe volte morsecon sue marre i tenaci fondi, pregnodel sale amaro,splende la gloria sul tuo vólto adustoquando nelle fortune indaghi l'Orsee t'argomenti di campar tuo legnocercando il faro?

Quando torni dall'isola dei Sardicarico, e taciturno al tuo timonestai rugumando il tuo masticaticcio,tese le scotte,a tratti co' tuoi grigi occhi non guardiper l'ombra se tu scorga il tuo Leonefiammeggiare laggiù sul sasso arsicciocontro la notte?

E quando poi governi a prender porto,maggio illustrando la città dei Doria,non cerchi tu quella che a Quarto eressemagra colonnala modestia del popolo risorto,

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per figurarvi in sommo la Vittoriache sul gran cor parea ti sorridessecome tua donna?

Tu non rispondi. Solo ascolti i vèntie disputi talor con la tempesta.Hai crudo e breve il motto a dir tua noia,e più non dici.Tua vita va tra due divini eventi,tra bonaccia e fortuna; e quella gestala scrisser già su le tue vecchie cuoiale cicatrici.

Ond'io ti priego che mi sii benigno,o tu che troppo sai d'amaro sale,se consecrarti ardii questi miei carmitumultuanti.In van chiesi al tuo mar che nel macigno,nell'invitto macigno sepolcrale,volesse per l'eternità foggiarmistrofe giganti.

Ma tu vi sentirai correre, sopraal rosso bulicame, odor salmastro;romoreggiar v'udrai l'onda nemicacome il frangente;vi rivedrai quale t'apparve all'opraColui che fu buon calafato e mastrod'ascia, d'ogni arte artiere, dell'anticatirrenia gente.

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Io ne cercai l'imagine sicuraentro gli occhi tuoi tristi, in cor tremando.Eri presso il cordaio per rinnovaretue gomenette;seguivi l'arte della torcitura,il crocile, la pigna, il naspo; quandosu le tue labbra le parole amarelessi non dette.

«Il torticcio dell'àncora s'è rotto.Rinnovarlo non giova. Orvia, tralascia!Per flagelli e capestri, o cordaio, l'acrecanape torci.La terza Italia si distende sottoogni bertone come una bagascia.E Roma all'ombra delle querci sacrepascola i porci.»

La notte di Caprera

I.

Donato il regno al sopraggiunto re,il Dittatore silenziosamentesul far dell'alba con suoi pochi sen vienealla marina dove la nave attende.Ei si ricorda nell'alba di novembre:

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quando salpò da Quarto era la sera,sera di maggio con ridere di stelle.Non vede ei stelle ma l'alta accesa gestadietro di sé nella stagion sì breve.Ei seco porta un sacco di semente.Quella è la nave che all'acque di Sardegnagià navigò dal Faro in gran segretoper il soccorso, innanzi ch'ei prendesseReggio ed i monti, innanzi che Soveriafossegli resa, quando le nuove schiereprecipitò nella Calabria estremae duce fu alle armi, alle carenefu calafato, fu mastro d'ascia, artiered'ogni arte, pronto ei sempre alla diversanecessità con vólto sorridente.Donato il regno al sopraggiunto re,ora sen torna al sasso di Caprerail Dittatore. Fece quel che poté.E seco porta un sacco di semente.

II.

Ancóra dorme la città che ululòd'amor selvaggio all'apparito Eroenel bel settembre. Emmanuele dormelà nella reggia ove tanto tremòl'erede esangue di Ferdinando. ImploraDominedio Francesco di Borbonechiuso in Gaeta con la sua fulva donna,

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con l'aquiletta bavara che rampogna.«Calatafimi! Marsala!» Chiama a nomei suoi cavalli di guerra il Dittatore,novo nell'alba, gli arabi suoi sul ponterecalcitranti al vento che riscuoteil Golfo. Palpa le lor criniere ondoseche sanno ancor d'arsiccio, le lor frogepalpa, e le labbra frenate onde fioccòla spuma come neve su i moribondi.Ed ei li pensa lungi, franchi del morso,per le ferrigne rupi; e dice: «Anche a voila libertà!». Quella divina voceodono i due cavalli che hanno i nomidelle Vittorie e lui guatan con occhidi fanciul!i, ecco, obbedienti. Sorgel'aurora. È pronta la nave. Il Dittatoredelle tempeste grida: «Salpa!». L'alta ondadel dominato Oceano gli tornanella memoria e nella voce. Sciogliel'ultimo capo dell'ormeggio allor conatto che par santo al devoto stuolo.L'anima già per l'acque si diffondesimile al dì. Ripete ei la parolache consolò i suoi laceri prodi:«A Roma, a Roma ci rivedremo! A Roma!».Bello non è come il raggiante vóltodel donator di regni il novo Sole.

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III.

Ed or sen va il Ligure pel suoTirreno. Guarda vigile, dalla pruache non ha rostro, se non vegga la rupebrulla apparir tra i nugoli; o sedutoresta sul sacco delle semente a lungo,tutto pensoso della seminaturanei magri solchi e delle sue lattugheanco e de' suoi magliuoli e de' suoi frutti.Novera già col pensier nel suo chiusola scarsa greggia, e le lane valuta,i negri velli ed i candidi, cuinon mai segnò la robbia; alla futuraprole sorride, e allarga la pasturasopra il macigno. In quale tempo ei fupastore? Quando migrò con la tribùsu le grandi orme dei padri alle pianure?Quando agli armenti cinse i fuochi notturni,fatta la sosta presso la fonte pura?Mondo di strage, ei beve il vento. I flutticrespi e canuti accorrono ver luicome le bianche pecore per l'azzurraerba; ed ei sa il suono che le aduna.D'antico tempo gli sovviene. Di tuttoquel che fu ieri non gli sovviene più.Apre così le braccia la Naturasubitamente al buono figliuol suoper riposarlo, sopra il suo petto ignudo,

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di tanto sangue e di tanta ventura.E il figlio a lei così volge dischiusala sua divina anima di fanciullo.

IV.

Ma ecco l'ombra di Caprera. Ecco l'aspraGallura, i monti aerei nell'aria.Ecco il granito ov'ei riposerà.Ecco la tomba che gli lavoreràl'arte del Mare. Come in petrose tazze,nei grembi cavi l'isola solitariaserba il silenzio ch'è bevanda al pugnace.Quivi placato nella sua veritàei può sognare; né quel silenzio maigli mancherà, sopra il fragor del Mare.

V.

Or liberati i cavalli di guerra(ei palpitò forte veggendo selcirisfavillar sotto l'urto del ferro,udendo su per le rupi deserteeco del gran galoppo senza freno)or nella bianca stanza è solo con séil Dittatore, solo con sé fedele.Guarda le bianche mura ch'ei fece, artiered'ogni arte, dopo che preso e difeso ebbe

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quelle di Roma. È senza mutamentola povertà, è senza mutamentola pace. Il sacco delle semente è a pièdel letto. L'arme, disopra l'origliere,al vacillar della lucerna splende.Palpita e guizza la fiammella. E gran ventoalle finestre, gran vento di maestrosul mar che romba nelle anse di Caprera,grande clamore a quando a quando, immensogrido, selvaggio urlo come a Palermo,come a Palermo urlo di popolo ebro.«O cuore, balzi? Placato ancor non sei?»L'Eroe sorride; ma gli occhi del veggenteveggono il sole su la città che fervecolui che parla e l'ultimo suo gesto,il furibondo palpito che sollevatutto quel muto popolo come un pettoimmortale, e tutto il sangue repentesparir dai vólti innumerevoli, etutte le bocche urlanti, tutte lemani distese in alto alla ringhiera;Piazza Pretoria fatta dal travincenteamore vasta come l'Italia intera;l'anima d'un popolo fatta un cielodi libertà, eguale al giorno ardente;una bellezza nuova per sempre accesanel triste mondo, un'imagine eternadi gloria impressa nel vano velo, erettaun'altra cima, ala data alla Terra!

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VI.

«O cuore, balzi? Non sei placato ancóra?»L'Eroe sorride; ma si tocca la fronteove in quel dì battevan forte il solesiciliano e il vento dell'ignotodestino e il suo volere. Poi s'accostaal bianco letto che dà i profondi sonni,ove il lin rude par che di sale odori(lavato in mare e torto su lo scoglio?),ma il cuore è insonne, riposare non può.Ei crolla il capo e dice: «Spartiròle mie semente». Si china; piano sciogliela bocca al sacco; e ripone la corda.

VII.

Seduto sta; le sue semente ei sparte,faville d'oro dall'una all'altra mano.Sparte e col soffio ventila come faesso il colono che non mai fece altra arte.La man non falla quando l'occhio s'inganna:sa come pesi nella palma il buon grano.Tenne la spada ed or terrà la marra.Mezzo novembre avran repente e chiarol'opre, poiché non anco Aldebaranosorse dal mare ed ecco il Maestraleporta il sereno a chi vuol seminare.

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«O cuore, o cuore, entra nella tua pace!»Gli àlbatri intorno soli rosseggeranno,cui tolta fu la terra lavorata.«Guardiamo innanzi, all'alba che verrà!»Chino la fronte, le sue semente ei sparte,faville d'oro dall'una all'altra mano.«Ciò che compimmo altri lo canterà.»

VIII.

Ma la grandezza di ciò che fu compitos'alza e sovrasta alla notte sublime,sovrasta al cuore di colui che ha sorriso,occupa la solitudine, vincela pace, infiamma l'ombra; non ha confinein breve nome. O Italia, i Mille, i Mille!Ali fulminee delle Vittorie latine,rapidità della forza e dell'irasu le riviere del sangue, alte e succintevergini d'oro, messaggere vestitedi vento, immenso amor di Roma, chisi chiamerà fra voi l'eguale diquella che un volo su da Calatafimisino al Volturno volò senza respiroe dissetò la sua gran sete alfinesol nelle vene di Leonida uccisoun'altra volta? Pianto alla Porta Pila,silenzioso pianto alla dipartita,coro di donne liguri! Ultimo addio

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di ferree madri ai giovinetti figli!Divinità rivelata nei cigliumani e primo tremito delle primestelle nel puro cielo primaverile!Più dolce maggio in terra non fiorì.Navi sospinte nel mare dal respirostesso dei petti eroici, dal destinoe dalla febbre, dalla speranza invittae dal prodigio, piene di melodìae di ruggito, nell'oscuro periglioilluminate dai baleni d'un risosilenzioso, con la prora dirittaa gloria e a morte, a un punto e all'infinito!Rapida gioia de' bei delfini amicinel solco, méssi d'un rinnovato mito!Stelle augurali dell'Orsa al grande ardire,accesa in cielo bandiera del naviglio!Più alto sogno in Dante non salì.

IX.

Chino la fronte, sparte le sue sementeil Dittatore, sotto la sua lucernache per le mura d'ombre e di luci creanotturne vite coi lunghi aliti dellanotte. È gran vento alle finestre: geme,sfida, minaccia, rugge, ulula, intermesso.La man nell'atto a quando a quando trema.Fissi alla gesta son gli occhi del veggente.

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L'anima eterna è cinta di baleni.Ei vede, ei vede il patrio mare ardente,i suoi vascelli nel fulgido silenziomisteriosi come due giganteschispiriti, fatti leggieri dall'ebrezzache vi s'aduna, dal sogno che vi ferve,come le navi dei templi dalla prece:e il primo approdo, Telamone col segnodell'Argonauta, le odorifere selvedell'Argentaro, la pallida Maremmatinta del sangue gallico, ove racceseMario la febbre di Minturno ed il ferrotrasse dal piè degli schiavi, ne fecespade battute per la strage crudele.E l'altro monte, e l'altro monte ei vede,l'Erice azzurro, solo tra il mare e il cielodivinamente apparito, la vettaannunziatrice della Sicilia bella!

X.

Ed ora tutto è baleni, ora tuttofolgori e tuoni, furore e sangue, azzurroe sole, ferro e fuoco, aure e profumi.L'inno è nel vento, l'ebrezza è nell'arsura.Ei squassa l'aspre chiome della fortunain pugno e fa d'ogni uomo una virtù,una virtù d'ardore ch'ei conducecol suo sorriso terribile nell'ultimo

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impeto al cuor d'un astro. E l'armaturadella sua possa è il suo sorriso; e ovunquerisplenda, quivi è il prodigio; e nessunolo vede senza vedere un dio nel suocielo; e beato colui, quasi fanciullo,che primamente lo vede nella lucee tra le spiche ucciso cade giù.

XI.

O Verità cinta di quercia, quandocanterai tu per i figli d'Italia,quando per tutti gli uomini canteraitu questo canto? Ecco il pane spezzatosotto l'olivo, prima della battaglia;ecco irto d'armi il colle di sì grandenome, nomato il Pianto dei Romani,aspro di sette cerchi, balzo di Dante,per ove gridan come stuol di selvaggeaquile sette Vittorie disperate;Alcamo in festa, Partinico fumante;l'avida sosta della falange, al Passodi Renna, in vista della Conca e del Mare;la sete, la fame; la corsa verso Parconella tempesta e nella notte, ingannomeraviglioso; la montagna affocatadi Gibilrossa ove ecco ogni uomo parche trasfiguri come se oda parlareuna divina voce alla sua speranza;

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e la discesa muta di sasso in sasso,per gli arsi aromi, lungo le schegge calde,mentre la sera coi richiami lontanide' suoi pastori e coi suoi flauti fala melodìa dell'obliata pace;e poi la notte vigile di fatalistelle; e poi l'alba, e nell'alba il tonanteimpeto, l'urto, la furibonda strage,l'inferno al ponte dell'Ammiraglio; il maschioNullo a cavallo oltre la barricatacon la sua rossa torma, ferino e umanoeroe, gran torso inserto nella vastagroppa, centàurea possa, erto su la vampacome in un vol di criniere; il grifagnoBixio, il risorto Giovanni delle BandeNere, temprato animato metallo,voce a saetta, sottil viso che sala cote come il filo d'una spadalaboriosa, ossuta fronte saldacome l'ariete che dirocca muraglie,eccolo all'opra che balza da cavalloper trarsi il piombo con le sue stesse manifuor delle fibre tenaci; ecco espugnatala Porta, data la rotta alle masnaderegie col ferro alle reni; le stradeancor nell'ombra, deserte; la cittàancor dormente, e la prima campanache suona a stormo verso l'aurora alzatasu Gibilrossa; Fieravecchia che battegià colma come un cuor che si rinsangua;

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Macqueda sotto la grandine mortale;Montalto ai regi tolto dallo spettraleSirtori; atroci strida, crollar di case,rossor d'incendii; la morte che s'ammassanella ruina; l'afa delle carni arse,il cielo azzurro su l'urlante fornace;e il Dittatore terribile che passa,il Dittatore sorridente con pacetra quel delirio umano, il dio che guarda,indubitata forza, con nella facciail sole, il sole del sorriso eternale.Gloria per sempre! Ecco Palermo schiavache si risveglia giovine tra le fiamme,che si solleva, memore della Gancia,nella vendetta e nella libertà.

XII.

Sotto l'immensa gloria chino la fronte,il Dittatore onniveggente è immoto.Nel sacco rude la sua mano s'affondae inerte sta, immemore dell'opra.Or è interrotta l'opra del buon colono.Ei più non vede rilucere pe' solchile sue semente, né ribatte le porcheei con la marra in suo pensiero. Ascoltail vento e il mare nella notte profonda.Ascolta il rombo del suo spirito solo.Non proferì la sua più gran parola

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quando a quel re sopraggiunto donòil regno e solo poi si ritrasse all'ombrad'un casolare, lungi alla bella scorta,sol con taluno de' suoi laceri prodi?Triste è la bocca nella sua barba d'oro,ché le sovvien del molto amaro sorso.Era laggiù, presso Teano, incontroai foschi monti del Sannio, il donatore;seduto all'ombra era, su vecchia bottenon più capace di contener la forzadel vin novello. Era l'autunno intorno;ammutolito sul Volturno il cannone;piegata e rotta la gente di Borbonesul Garigliano; scomparso con la scortasplendida il re sul suo cavallo storno,andato a mensa. Era l'autunno intorno:cadean le foglie dal tremolio dei pioppi;i campi roggi fumigavano sottol'aratro antico tratto dai bianchi buoicampani cui rauco urgeva il bifolcofasciato le anche dal vello del montone,coperto il bronzeo capo dal frigio corno.Antiche e grandi eran le cose intorno;antico e grande era il cuore dell'uomoseduto in pace su la fenduta botte.Ognun taceva al conspetto dell'uomomeditabondo. Quasi era a mezzo il giorno:era il meriggio muto come la notte.Ognun taceva, ogni anima era pronadinanzi a lui, col silenzio che adora

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e riconosce: alta preghiera in orache parve a ognuno scorrere per ignotaprofondità. E il forte elce nodoso,che negreggiava quivi, fu santo comei dolci olivi dell'orto ove pregòtre volte un altro uomo di fulve chiome.E il donatore, seduto su la dogavile, crollò la testa di leone.Calmo guardò pei fumi il campo roggio,col calmo sguardo cerulo che soggiogail rischio; udì l'anelito dei buoiaffaticati per quelle terre sode;seguì un aratro che discendea da un poggio,considerò se fosse dritto il solcodietro l'attrito vomere. Anche ascoltòla lodoletta che facea sua melode.Venne per l'aria il suono d'un rintocco.Allor fu quivi recato da un pastoregiovine irsuto di pelli, sopra un moggio,al donator di regni un duro tozzodi pane, e cacio stantìo, di grave odore.Aveva ei seco il suo coltello a scrocco,il suo coltello di marinaio, ancóraraccomandato alla sua vecchia corda;l'aperse pronto, con quello s'affettòil pane e il cacio. Maciullando, guardòl'aratro antico tratto dai bianchi buoi,e giudicò del dritto solco; poi,come il più duro non passava pel gozzo,chiese da bere sorridendo al pastore.

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Allor fu quivi recato in un orciuoloal donator di regni acqua di pozzo.Avido ei bevve, accostatosi il rozzovaso alla bocca, ma la bocca schifò.L'acqua putiva, come d'un otro immondo.Senza sdegnarsi ei versò l'acqua al suolo.Poi s'asciugò, tranquillo; e disse: «Il pozzoè infetto. Certo, v'è una carogna al fondo».S'alzò nel detto; e andò pei campi solo.

XIII.

Or si ricorda ei ben del sorso tristo;e il cuor gli duole d'un lento presagire(riarderà l'agosto su le cimedell'Aspromonte torbido, e di vermigliebacche il novembre allegrerà le infidemacchie a Mentana). Ei vede il buono Elìacol piombo in bocca laggiù su la collinadei sette cerchi; e laggiù sul sottileistmo, a Milazzo, entro i maligni intrichidelle paludi e dei canneti, rittoil suo Missori bellissimo che uccidei cavalieri. Ode il grifagno Bixioche nel più folto della mischia gli grida:«Dunque così voi volete morire?».Subitamente Deodato Schiaffino,quel da Camogli, il biondo, gli apparisce:il marinaio biondo che gli somiglia,

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occhi cilestri, d'oro la barba e il crino,ma più membruto, più alto, d'una stirpeingigantita nel travaglio marino.Subitamente gli apparisce supino,a mezzo il colle, nel sangue che invermigliatutto il pianoro. È caduto cosìl'alfiere, primo all'assalto. Garriscedopo lo schianto la bandiera investita,come da un vento d'ira, dal grande spiro:e sul torace come sur un macignofanti e cavalli s'azzuffano in prodigidi furia, e tutta la virtù dell'estintoecco risorge viva in un cuore vivo,ed è il torace dell'eroe come un plintoalla grandezza d'un altro eroe. «Cosìdunque volete morire?» Un leoninofremito scuote il Dittatore. Ei mirasé nel gigante biondo che gli somiglia,nel marinaio ligure che morìcom'ei vorrebbe. Cupo aggrotta le ciglia;con gli occhi fissi interroga il Destino.

XIV.

E dalla morte sorge l'ombra di Roma.Come il pastore dell'Agro spaventosonel ferin sangue porta germe nascostod'antica febbre che sùbita riscoppiamentre di sotto l'arco dell'acquedotto

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inaridito ei guata fuggir l'orasu l'erba e sta con l'anima gravosach'ebbe immutata per geniture moltedal tempo quando con solfo e con alloroPale odorava la pecora feconda:conosce il segno del vigile malore,conosce il gelo che in foco si risolve;dà la sua vita alla vorace forza:ed ei ben sa ch'ella non abbandonase non l'ossame, e guata fuggir l'oraper l'erba e sta con l'anima gravosae brucare ode la pecora d'intorno:così l'insonne sente dal più profondosangue salir la febbre sacra, il morbodivino, ardore immedicabile, odioed amore ambi indomati, onde il corpoarde e la mente, sacra febbre di Roma,ultima vita terribile del suoloesercitato dai padroni del Mondo.

XV.

Ei lo conobbe come conosce il figlioil sen materno, conobbe il suol latinocome colui che alla mammella anticas'abbeverò con sete di giustizia.Vi giacque armato, sotto il seren d'aprile,e di rugiada nell'alba si coprì.Vi colse il fiore dell'asfodelo; misti

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alle fresche orme vi rinvenne i vestigidei Fabii; v'ebbe a ginocchio il nemico;vi fu calpesto dai suoi nello scompiglio,dai cavalieri suoi fuggiaschi, feritodall'unghie dure, di polve e sangue intriso,tremenda impronta, quando del cuore invittoimpedimento al terrore improvvisoei fece solo e là, prono, col visonella carraia, baciò la madre, vivooltre la morte, e nel fragor sinistrol'urlo supremo della sua Lupa udì.

XVI.

O Verità cinta di quercia, quandocanterai tu per i figli d'Italia,quando per tutti gli uomini canteraitu questo canto? L'umano alito maipiù grandemente magnificò la carnemisera; mai con émpito più grandel'anima pura vinse il carcame ignavo.L'onta dell'uomo, il corpo che si lagnae trema, che ha sonno, che ha sete famepaura, che ha orrore del suo sanguee delle sue viscere, che si salva,si cela, fugge, cade, invoca pietà,prega soccorso, per soffrire si giacee per morire chiude gli occhi, la salmapesante opaca e fragile, la carne

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misera e impura, l'onta dell'uomo schiavo,veduta fu sùbito trasmutarsi,al nomar d'un nome, in una sostanzanovella, armata d'una vita tenacee numerosa come di germinantimembra e di vene perenni, inebriatadi strage come di allegrezza, agitatacon risa e grida se molto era la piagavasta, se orrenda era, come si squassauna bandiera superba a rincuorarestanchi e codardi. Cantami, o Veritàcinta di quercia, cantami questo canto!Eccoti innanzi le donne, ecco i vegliardi,ecco i fanciulli: le donne senza pianto,senza vecchiezza i vegliardi, a mortalegioco i fanciulli con la morte che passa;ecco guidato a suon di trombe il ballodal buon Manara sotto il colle tonante;ecco il Masina, con la sua schiera francadi cavalieri bolognesi, l'uom d'armee di piacere, ardentissima spada,gioioso a mensa come in campo, che giàtinto in vermiglio ritorna al quarto assaltoper la Corsina e sprona il suo cavallosu la scalèa, gli dà ferocia ed ali,colpito in petto non fa motto né lai,vuota la sella, stramazza, con le bracciaaperte e il ventre prono sul sasso sta;ed ecco i suoi già pronti a dargli bagnodi grana e coltre di porpora, le lame

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battute a freddo, le lance di Romagna,che per ammenda di Velletri han pagatoun fiero scotto, eccoli tempestaresu l'atterrato per trar dalla battagliail corpo e dargli sepoltura, gli egualidei belli Achei corazzati di ramesul corpo di Patroclo nato dalcielo, del caro al Pelìde compagno;mentre dardeggia la voce del grifagnoBixio ferito di piombo all'anguinaglia,voce di scherno, che fischia sfonda e tagliacome la spada che tronca gli è rimastanel pugno; e il fabro d'inni Mameli, il vatesoave come Simonide ceo, mapiù puro che l'ospite di Tessaglia,guerreggiatore laureato, sul frantoginocchio cade sorridendo; e di vastaanima un altro artefice, il lombardoInduno, alfine cade, giace foratocome selvaggio bugno e per tanti varchinon la sua vasta anima dà ma ingannala morte, due volte fatto immortale.Ecco il Bronzetti, ad altri campi sacro,ad altro antico esempio, che il suo caronon abbandona già sotto le calcagnanemiche ma l'ardire e la pietàdi Niso ingenuo innova; ecco il toscanoMasi, il Sampieri veneto, ecco il lombardoVismara, il Bacci piceno, l'apuanoGiorgieri, duci e gregarii, il romano

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Spada, e Fulgenzio Fabrizi umbro ammirandoal Ponte Milvio, e il conte ravennateLoreta, e il buon Savoia mantovano,e il buon Maestri, il monco, il mutilatodi Morazzone, e quel gentil Montaldigià cacciatore al Salto e capitanoche navigando laggiù pel guerreggiatofiume fu solo ed ebbe cento bracciaa sostener con l'arme l'arrembaggio;ecco l'Anceo, il Silva, il Rodi, il Sacchi,il pro' Daverio, il Mellara, gli Strambio,il più bel fiore del sangue di Romagnae di Liguria e d'Umbria e di Toscana,d'ogni contrada, figli della montagna,figli del piano, figli del litorale,della città e del borgo selvaggio,il più bel fiore fiorito dalle madrinel vaticinio della gesta fatale,speranza e forza della profonda Italia,speranza che arde e forza che combatte,dolor che ride e giubilo che assale,solenne ebrezza, funebre voluttà,il più bel fiore fiorito dalle madripotenti come la terra che bagnail fiammeo flutto ond'è converso il latterobusto dato con compagnia di canti;e il Morosini, e i Dandolo, sonantinomi nel bronzo della gloria navale,stirpe di dogi, sangue republicanoche tinse già di suo colore i fianchi

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delle galere, il Mare Nostro, Candia,la Morea, Nasso, in cento assedii, e i sacrimarmi d'Atene e l'oro di Bisanzio,spoglie del Mondo offerte alla Città.

XVII.

Villa Corsina, Casa dei Quattro Vènti,fumida prua del Vascello protesanella tempesta, alti nomi per sempresolenni come Maratona PlatèaCrèmera, luoghi già d'ozii di piaceridi melodie e di magnificenzefuggitive, orti custoditi da ciechestatue ed arrisi da fontane serene,trasfigurati sùbito in rossi infernivertiginosi, chi dirà la bellezzache in voi s'alzò dalla ruina e stettesu l'Urbe come terribile astro a sera?chi canterà la vostra grande sera?Cadeva il dì crudo su fuoco e ferro.Tre volte e quattro iterato per l'ertescalèe l'assalto: grado per grado, pietraper pietra, preso e perduto e ripresoe riperduto il baluardo orrendo;accumulati i cadaveri a pièdegli agrifogli, dei balaustri, dellestatue, delle urne; fatto il pendìo rivieradel sangue, cupo bulicame di membra

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lacere; acceso l'incendio; alzato al cieloimpallidito il clamore supremoi Legionarii ansanti, arsi di setee d'ira, armati di tronconi e di scheggeneri di fumo e di polvere, bellie spaventosi parvero come quelliche superato avean l'uman poterecon la scagliata anima (tale il segnosuperato è dal dardo veemente)e respiravan dai lor profondi pettipiagati l'ansia d'un miracolo ardente.«Avanti!» allora gridò la voce immensa.Erano questi reduci dall'infernoraccolti presso le mura, tra il Vascelloe San Pancrazio. Ansavan come belvecacciate innanzi dal fuoco nelle selveincendiate, esausti, dalla setestretti le fauci; e non avean da berese non sudore e sangue. Ognun coi dentisecchi mozzò l'anelito, e si teseper obbedire. «Avanti!» ripetéla voce immensa. Ed il bianco mantelloondeggiò, come l'onda delle bandiere,su gli aridi occhi. S'udìa, contra il Vascello,spesso il nemico tonar dalle trinceredella Corsina come da una fortezza.Perduta omai l'altura; folle impresatentare un altro assalto; tutta l'ertaspazzata; dubbio giungere a mezzo; certala strage. «Avanti!» gridò la voce immensa

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e pura come il ciel di primaverasopra le fronti degli uomini promessi.E comandò agli uomini il portento.«Orsù, Emilio Dandolo, riprendeteVilla Corsina! Su, di corsa, con véntidei vostri prodi più prodi, a ferro freddo!»Ed il nomato tremò nel cuore udendoil nome suo in bocca della stessaGloria. Caduto eragli già il fratellosu la scalèa, spento. E disse: «O fratello,teco verrò!». Pronto, fece l'appellodei morituri. E la falange brevemosse all'assalto ultimo. Una gran febbreallora parve palpitare nel vespro,visibil come l'ardore nei desertiquando per l'aere vibra incessantemente.Sorse un clamore terribile nel vespro,terribil come quel dei romani pettiche ferì l'aere ed i volanti uccelliquando rostrata salpò la quinqueremedi Scipione. Videsi in alto un negrostuolo di corvi sbattere sul funestoGianicolo, ove scendean le aquile un tempocon i presagi. E nel fuoco e nel ferroil fato della Republica fu certo.I morituri la videro morentenel sangue loro. Un disse: «Vinceremo».

XVIII.

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Veniva, senza squilli, in corsa, alla Portadi San Pancrazio la seconda legionelombarda, quella dal Medici condottaflorida schiera giovenile, coronadi Lombardia. Il Vascello, dal prodeSacchi difeso fin quasi a mezzo il giorno,quindi tenuto da quel santo e feroceManara cui serbata era la gloriadi Villa Spada, sosteneva il maggioresforzo nemico. Fervida era già l'opradegli approcci, era imminente già il crollodel fastigio, era già degli uccisi ingombrotutto il palagio. Or veniva al soccorsoGiacomo Medici, incrollabile possa,compatto bronzo contra le sorti immoto.Dalla Toscana nel Lazio, senza colpoferire, avea condotta la legionecon disciplina durissima, per provee patimenti infiniti, velocee càuto, dando per guanciale al riposola gleba o il sasso, avendo giorno e notteil rischio sempre alle spalle, di frontee ai fianchi come dogo o molosso prontoad azzannare senza latrato. Il sole,il vento, l'erbe, i torrenti, le rocceaveangli fatta selvaggia come un'ordala bella schiera. Ai giovini leoni,tutta la notte nutriti dall'odoredella Campagna sacra nel periglioso

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cammino, Roma era apparita in fondoalla pianura nella sùbita auroracome una nube. Ed un grido era sorto:«O Madre!». Ed ogni cuore in quella parolas'era devoto, con volontà di gloria;e taluno ebro avea sentito forsenelle gramigne rimaste fra le chiomeincolte il peso mortale degli allori.Veniva or dunque, senza squilli, alla Portadi San Pancrazio la seconda legionelombarda. Ed ecco, verso la Porta, incontroa lei la fila delle barelle atroce,con i feriti, con i morenti in mostra!Ed i feriti ed i morenti, incontroai giovinetti floridi, del dolorefecero un riso non umano. E coloroche non avean più pel riso la boccama cave piaghe, gittarono dagli occhiil lor baleno; e taluno gittòle bende intrise discoprendo la cosciatronca od il ventre lacerato e gridò:«Resti con voi questo segno!». Ed un moncoscosse ridendo il moncherino comeun aspersorio di sangue e battezzògli imberbi. E tutti ridevano di gioiacome fanciulli, poiché la morte ai loroterribili atti mesceva un che di dolce,una bontà puerile, un candoredi libertà mai detto da parolad'uomo né vinto in terra; e di candore

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splendevan essi nel dissanguarsi in fondoalle barelle che penetravan l'ombradi Roma fatta più profonda dal romboche il Campidoglio spandea sonando a stormo.Nell'ombra «Viva la Republica!» urlòl'anima alzata del coro moribondo.E l'urlo sotto la Porta rimbombò.E la legione, scagliata dalla Portaeroica, entrò nella battaglia. Allora,bianco a traverso la bufera del fuoco,bianco sul suo cavallo agile comeun tigre dómo, non simile ad un uomofragile ma simile ad una forzaonnipresente espressa dalla lottastessa dei fati e degli uomini, incontroai giovinetti venne il Liberatore.Muto trascorse lungh'esse le coortiadolescenti come fa il nembo soprale spiche ma l'anime ch'ei piegòcol suo gran soffio parvero dall'angosciarisollevarsi moltiplicate. Gli occhierano intenti a lui; e con un solosguardo ei toccò le anime come un solobaleno tocca le innumerevoli onde.«Avanti!» allora gridò l'immensa voce.Ed il cavallo a un tratto s'arrestòcome un torrente precluso che si copredi schiume. Calmo il cavaliere biondoparve più alto, signore delle sorti,sicuro. Spessi fischiavangli d'intorno

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gli obici senza toccarlo; orrido scrosciofacean su i muri del Vascello; talorasordi facean nella legione un solcoove spariva qualche silenziosocapo atterrato. Si protese, raccolseil puro sogno dei giovinetti mortinella sua voce che fu pei vivi comela melodia della materna Roma.«Giovani, avanti, ché vinceremo anche oggi!»Non con lo sprone ma col suo grande cuoreei sollevò il suo cavallo a volo:nel balzo il bianco mantello palpitòcome la bianca ala della Vittoria.Il giovenile grido coperse i tuonidel monte, dietro il galoppo senza orma.Nella fumèa del vespro, intorno a Roma,erano ovunque la ruina e la morte.Ma chi morì, morì vittorioso.

XIX.

Con gli occhi fissi interroga il Destinoil Dittatore. Arde tra le apparitestragi, nel grido dei magnanimi figli.Arde, in silenzio, della sua febbre antica.E la grandezza di ciò che fu compitos'alza e sovrasta alla notte sublime.«Ah non invano! Ah non invano!» dicela sua speranza. «Non invano moriste,

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o dolci figli, latin sangue gentile!Altra rugiada aspettan le gramignedell'Agro, e avranno altra rugiada, primache sorga l'alba della novella vita.O Madre, e quel che ti daremo vincadi santità quello che t'offerimmo.Pur t'offerimmo quel ch'era in noi divino.»Ed ecco ei tende la mano, come chipromette, ei tende la mano che spartivale sue semente con la saggezza antica,la man che già seminò, che al mattinoseminerà là dove fu il granito.Per testimone ha l'anima sua. Dice:«Verrò, verrò. Là donde mi partiiritornerò». La trista dipartitaripensa: il luglio torrido; le milizieraccolte in piazza, mute sotto il meriggiomuto, al conspetto del Vaticano inviso,come le statue dei portici; il sorrisoche gli sgorgò dai precordii alla vistadella coorte adolescente; Iddionei cieli azzurri, il silenzio infinito,l'orazion piccola «Io offro a chimi vuol seguire fame sete fatichecombattimenti e morte»; poi l'uscitada San Giovanni, tutto il popolo afflittoche lacrimava e le Trasteverineaccorse in gara che spargevano i giglisotto il cavallo dell'eroina Anitaa San Giovanni, il sordo calpestio

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in notte chiara su la Via Tiburtinacon la grande ombra di Roma che seguivai legionarii, la sosta su la cimanuda, l'estremo sguardo, l'estremo addioalla Città già in mano del nemico;e poi la corsa di confine in confineper monti e valli, l'arrivo a San Marino,al bel Titano, con la sua schiera esiguasfuggita a quattro eserciti, la finedell'alta guerra, il Mare, l'accanitoinseguimento per le selvagge rive,per le paludi febbrose, l'agoniadella sua donna sotto il sole maligno,il disperato remeggio verso il lidodi Chiassi, il dolce corpo su l'erbe arsiccemorente, poi l'abbandono improvvisosopra la Costa di Paviero, il supplizioferoce, il caro corpo non seppellitonella calura lùgubre l'infieriredi tutti i mali contro l'anima invitta.«O Madre, e quel che ti daremo vincadi santità quello che t'offerimmo»dice l'Eroe che seppe ben patire.Per testimone ha l'anima sua. Dice:«Verrò, verrò. Là donde mi partiiritornerò, Madre, per ben morire».

XX.

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Or s'è placato il cuore in quel suo puroatto di fede e in quell'offerta. Il giustoseminatore, innanzi ch'ei s'inducaal meritato sonno, innanzi ch'ei chiudagli occhi da tanta visione consunti,getta il buon seme del dolore futuro.Ascolta il vento, esplorator notturnoche indaga gli antri, che visita le rupi,che parla e poi tace, tace e poi rugge.Pensa il piloto: «Reca lungi l'auguriotu che ben sei vento italico, piùnostro che ogni altro, Maestrale, robustotenditor di vele latine, duroscotitor di latine selve, tuche tra Ponente e Borea spiri, giùdalle Alpi insino al Peloro, per tuttala Italia e segui l'Apennino e le puntedei promontorii tutte sul mare giungiin libertà, Maestrale, tu lungiin questa prima notte reca il salutodell'uomo a quella che sta nella pianuraoltre Argentaro, nell'Agro taciturnoche divorò le stirpi, e l'assicurache a lei pensò l'uomo quando la pruasciolse da Quarto, ed a lei quando fupresa la riva, e sempre in ogni pugnaa lei, dal Pianto dei Romani, laggiù,da Gibilrossa, dal Faro, dal Volturno.E, come attende l'uomo, tu l'assicurache a lei verrà se pur sempre all'autunno

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segua l'inverno e dall'inverno surgala primavera. Intanto ei veglia e scruta».Così promette il piloto di alturae di rivaggio, l'uomo tirrenio, instruttodi sapienza pelasga, che misurasenza fallire con l'occhio l'azzimuttoe su la linea di fede sa condurreil suo naviglio con bussola vetusta,col buon pinàce di manico sicuro,privo dell'ago, dell'ago che si turbastrepita impazza smarrisce sua virtù.«Andremo a poggia e all'orza. Orza di punta!»pensa il piloto. E il sorriso si schiudenel suo oro. «Alle mure dei trevi! Mura!»Silenzioso ride: pensa la sustache tiene a segno l'antenna latina. Unaminaccia arguta par che il suo riso aguzzi.Ei sa che avrà vento traverso, buffidi vento obliquo; ma sa come si muri.E crolla il capo incolpevole. «Orsùvia, che domani si semina!» Nel suopensiero ondeggia di biade il sasso brullo.S'accosta al letto placido ove il lin rudepar che di sale odori, male asciuttavela che quivi posi dalle fortune.Il sacco è a piè del letto; l'arme lucesu l'origliere: il sogno eterno illudequella divina anima di fanciullo.

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XXI.

Or mentre giace, sopra il vento intermessoode un belato. Belare ode un agnelloforse smarrito nelle rupi deserte;per la notte ode una voce innocenteche chiede prega geme trema si perde.Già sollevato in sul cubito, tesol'orecchio, ascolta nelle pause del vento.La voce trema prega geme. «È un agnellosmarrito; cerca la madre» E balza in piediil Dittatore. Indossa le sue vesti,rapido come allor che il pro' Daverioil tre di giugno entrò dov'ei giacevapesto e ferito, urlando «La bandiera!».Durano affé i buoni usi di guerra,se bene tace la diana, a Caprera.Anche allora brillavano le stelle.Il Dittatore cammina contravvento.A quando a quando sosta, tende l'orecchiose mai distingua, tra i colpi del maestro,sopra gli schianti della risacca, il segnodi quel belare. Conosce dall'altezzadell'Orse l'ora. Tutto il cielo è sereno.Le sette Guardie tramontan sul Tirreno.Il buon piloto mira le chiare stelledei marinai, le dolci Gallinellesul collo al Toro, nell'ala pegasèaMarkab, in bocca al Cane Sirio ardente,e su la spalla d'Orione Adhaèr,

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e Vega e Arturo e Canòpo e la Perla.D'antico tempo or gli sovviene. Regge,nella memoria, col pollice l'anellodell'astrolabio e studia come ascendaun astro e come si colchi, nel silenziodei mari. Gira sul capo il ciel sereno.L'isola acclive è come una galèagrande che sola navighi verso terrelontane. Il vento cade. Ed ecco l'agnellochiama la madre nelle rupi deserte:s'ode la voce che trema prega geme.«O creatura di Dio, dove sei persa?»Ed ecco un che di bianco, un che di lievenell'ombra, come una falda di neveintiepidita da una pena vivente.L'uomo si china verso la pena, senteil vello, prende con le mani leggierela creatura di Dio, l'alza, la tienefra le sue braccia, l'accoglie sul suo petto.Non fu pastore ei forse? Gli sovviened'antico tempo quando migrò col greggealle pianure su l'ampia orma paterna,quando di fuochi notturni cinse il gregge,fatta la sosta intorno alla cisterna.L'anima sua ora è come la terra,è come il mare, è come il firmamento,come la forza delle stirpi guerrieree pastorali che nel cominciamentofurono, come la verginità frescadel primo sguardo che dalla cosa espresse

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il mito, come la meraviglia ingenuaanimatrice che d'ogni cosa feceuna bellezza e la favola brevedell'uom fallace converse in gioia eterna.

XXII.

Col novel peso pianamente sen vaalla sua casa, portando nelle bracciala creatura che tuttavia si lagna,che chiama chiama, che chiama la sua madre.Il vento cade, il mare s'abbonaccia,il ciel s'imbianca. Ei sente nella facciapungere l'uzza mattutina, e la guazzapiovere sente su l'oro della barbache si confonde con quella dolce lana.«O creatura, non posso io darti latte»dice il pastore sorridendo al belatoche non si placa. «Tu chiami la tua madre.Dove sarà ella? Molto lontana?E veggo già che s'avvicina l'alba;sicché non giova tornare alla mia casa;ma giova a te avere la tua madreche anche ti chiama, che ha la poppa gonfiatadi molto latte che tu ti beverai.»Ed ei si gode nel suo cuore piegandoa un'altra via, però che bene ei sala via del chiuso ove la greggia scarsaattende l'ora della pastura. L'alba

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stampa nel ciel le sue dita rosatequando all'ovile giunge, all'ovile fattodi schiette pietre che scelse di sua manoe poi commesse e legò con la calcee vi coprì tutto il tetto di lastrepulite ed anche vi fece di legnamesodo la porta, come artiere d'ogni artech'ei fu, che sempre sarà finché le bracciagli reggeranno. Or, mentre giunge, il canelo riconosce come riconobbe Argosul concio il dire del molto travagliatoOdisseo; sì lo riconosce il sardomastino, forte, fulvo, e balzagli innanzie gli fa festa. Ma, dal chiuso, al richiamodella deserta creatura la madrerisponde. Senza indugio il pastore aprela porta e càuto depone al limitaredi pietra il redo che, su le oblique zampelanose, come un infante traballa,bela dal roseo muso, per l'ombra caldasaltella in cerca della poppa gonfiata.Chino alla porta, dell'avido popparesi gode l'uomo incolpevole; è pago;ché buono ei stima l'odore della caldalana nell'uzza che punge aspra di sale,e invero sol gli rincresce d'un pane,d'un pan che manca alla sua lieta famesì mattutina. «Ecco che è fatta l'alba.Riconterò le mie pecore.» Tagliauna verga, entra nel chiuso, e caccia il branco.

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Nitrire i suoi cavalli di battagliaode all'aperto. Respira: «Oh Libertà!».Poi, sufolando ne' modi della Pampae dell'Oceano, pascola verso il mare.

Canti della morte e della gloria

I.

O Verità cinta di quercia, cantala tristezza del popolo latino,il Sol che muore dietro l'Aventinoe la notte che abbraccia l'Arce santa.

Ahi che lungi egualmente a Roma, e in quantalontananza entro l'ombra del destinocompiuto, sono i Fabi e il lor divinoCrèmera, Villagloria e i suoi settanta!

Esausto è il latte della Lupa straccanelle flaccide mamme, e tutto è spogliodai ladruncoli il fico ruminale.

Acca Larenzia lucra da baldracca.L'oca senz'ale abita il Campidoglioe la talpa senz'occhi il Quirinale.

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II.

Il pastore d'Amulio dal galèrodi pel lupigno, Fàustolo che scorseil pico verde e quel seguendo accorseal loco lupercale umido e nero,

indi prese i Gemelli, uno leggero,l'altro più grave, e nudi ambo li porsea Larenzia mammosa, non s'accorseche in un pesava il peso dell'impero.

Il peso dell'impero e del delittonecessario facea grave il fratellodi Remo, sacro all'augurale volo.

Ei diede al mondo l'Urbe e al cuore invittodel Guerriero insegnò come sia bellocon un sogno di gloria restar solo.

III.

La gloria fu. L'ultime vite insignisi spengono sul suol di Dante a un trattocome le faci in un festin protrattoquando il cielo arde di baglior sanguigni.

Vanno lungi da noi l'Aquile e i Cigni:quei ch'ebber pronta la virtù dell'atto

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e quei ch'ebber nel cuore il sogno intatto;né si vede che il seme lor ralligni.

Alziamo gli Inni funebri, sul greggeignaro, alla Potenza che ci lascia,alla Bellezza che da noi s'esilia.

Implacabile è il Canto e la sua legge.E però leva su, vinci l'ambascia,Anima mia. Questa è la tua vigilia.

Per la morte di Giovanni Segantini

Implorazione dei monti, voci del regno alto e santo,dolor selvaggio dei vènti combattuti, profondo piantodelle sorgenti pure,quando l'ombra discesa da un più alto regno bendala rupe e il ghiacciaio albeggia solo come un cammino che attendagrandi orme venture!

Salutazione dei monti, coro delle gioie prime,laude impetuosa dei torrenti, fremito delle cimepercosse dalla meraviglia,quando si fa la luce nelle vene della pietracome nelle fibre del fiore perché Demetrarivede la sua figlia!

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Dominazione dei monti, purità delle cose intatte,forza generatrice delle fiumane pròvvide e delle schiattearmate per l'eterna guerra,mistero delle più remote origini quando un pensierodivino abitava le fronti emerse dai mari! O mistero,purità, forza sopra la Terra!

Spenti son gli occhi umili e degni ove s'accolse l'infinitabellezza, partita è l'anima ove l'ombra e la luce la vitae la morte furon come una solapreghiera, e la melodìa del ruscello e il mugghio dell'ar-mento e il tuonodella tempesta e il grido dell'aquila e il gemito dell'uo-mofuron come una sola parola,

e tutte le cose furono come una sola cosaabbracciata per sempre dalla sua silenziosapotenza come dall'aria.Partita è su i venti ebra di libertà l'anima dolce e rudedi colui che cercava una patria nelle altezze più nudesempre più solitaria.

O monti, purità delle cose intatte, forza, misterosopra la Terra, ella va e ritorna come un pensieroimmortale sopra la Terra.O monti, o culmini, il suo dolore fu come la vostra om-brasopra la Terra. La sua gioia sarà oltre la sua tombaun palpito della Terra.

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Per la morte di Giuseppe Verdi

Si chinaron su lui tre vaste frontiterribili, col pondodegli eterni pensieri e del dolore:Dante Alighieri che sorresse il mondoin suo pugno ed i fontidell'universa vita ebbe in suo cuore;Leonardo, signoredi verità, re dei dominii oscuri,fissa pupilla a' rai de' Soli ignoti;il ferreo Buonarrotiche animò del suo gran disdegno in durimassi gli imperiturifigli, i ribelli eroisilenziosi onde il Destino è vinto.Vegliato fu da' suoifratelli antichi il creatore estinto.

Come la nube, quando è spento il Soledietro le opache cime,di fulgore durabile s'arrossa:contro all'ombre notturne arde sublimela titanica molee la notte non ha contro a lei possa:così dalle affrante ossal'anima alzata contrastò la Morte,

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avverso il buio perdurò splendente.Dinanzi alla veggentetutte aperte rimasero le portedel Mistero, e la sorteumana fu sospesasu l'alte soglie ove la Forza trema.Sul rombo, nell'attesa,allor sonò la melodìa suprema.

La melodìa suprema della Patriain un immenso corodi popoli salì verso il defunto.Infinita, dal Brènnero al Peloroe dal Cìmino al Catria,accompagnò nei cieli il figlio assunto.E colui, che congiuntoin terra avea con la virtù de' suonitutti gli spirti per la santa guerra,pur li congiunse in terracol suo silenzio funerale e pronili fece innanzi ai tronied ai vetusti altariove l'Italia fu regina e iddia.Canzon, per i tre marivola dal cuor che spera e non oblìa!

E «Ti sovvenga!» sia la tua parola.Vegliato fu da' suoifratelli antichi il creator che dorme.E simile alle fronti degli eroi

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era la fronte, solae pura come giogo alpestro, enorme.E profonde eran l'ormeimpresse dal suo piè nella maternazolla, profonde al pari delle antiche;e l'alte sue faticheerano intese ad una gioia eterna;e come l'onda alternadei mari fu il suo cantointorno al mondo, per le genti umane.E noi, nell'ardor santo,ci nutrimmo di lui come del pane.

Ci nutrimmo di lui come dell'arialibera ed infinitacui dà la terra tutti i suoi sapori.La bellezza e la forza di sua vita,che parve solitaria,furon come su noi cieli canori.Egli trasse i suoi coridall'imo gorgo dell'ansante folla.Diede una voce alle speranze e ai lutti.Pianse ed amò per tutti.Fu come l'aura, fu come la polla.Ma, nato dalla zolla,dalla madre dei buoiforti e dell'ampie querci e del frumento,nel bronzo degli eroifoggiò sé stesso il creatore spento.

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E disse l'Alighieri in tra gli egualinella funebre notte:«O gloria dei Latin', come tramonti!».Quivi bianche parean dalle incorrottespoglie grandeggiar le alisotto la fiamma delle vaste fronti.E Dante disse: «O fontidella divina melodia richiusiin lui per sempre, che tutti li aperse!Ecco quei che s'aderse,su la sua gloria, in cieli più diffusie agli uomini confusiparve subitamenteartefice maggior della sua gloria.O natura possente,non conoscemmo noi questa vittoria!».

E Leonardo: «Innanzi ebb'io la nudafaccia del Mondo immensa,come quella dell'Uom che a dentro incisi.Creai la luce in Cristo su la mensae creai l'ombra in Giuda.Dell'Infinito feci i miei sorrisi.Poi, nel vespro, m'assisicalmo alla sommità della saggezzaed ascoltai la musica solenne.Per quali vie convennemeco quest'aspra forza a tale altezza?Come questa vecchiezzasemplice e sola attinse

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il culmine ove regna il mio pensiero?Fratello m'è chi vinseil suo fato e tentò novo sentiero».

E il Buonarroti disse: «Io prima oscuro,per opra più perfettarinascere, di me nacqui modello.Poi mi scolpii nella virtù concetta,come nel marmo puros'adempion le promesse del martello.E posi me suggelloviolento sul secolo carnaledi grandi cose moribonde carco.Irato apersi un varconelle rupi all'esercito immortaledegli eroi sopra il Malevindici; senza pace,stirpe insonne, anelammo all'alto segno.Ben costui che or si giacetal cuore ebbe, s'armò di tal disdegno».

Nella notte così gli eterni spirtiriconobbero il Grandecui sceso era pe' tempi il lor retaggio.Il titano giacea senza ghirlande,senza lauri né mirti,sol coronato del suo crin selvaggio.E, come il primo raggiodell'alba fu, la maggior voce disse:«O patria, degna di trionfal fama!».

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E parve che una bramadi rinnovanza dalla terra escisse,e che le zolle scissedai vomeri altro semechiedessero a novel seminatore,e che l'onte supremevendicasse la forza del dolore.

Canzon, per i tre marivola dal cuor che spera oltre il destino,recando il buon messaggio a chi l'aspetta.Aquila giovinetta,batti le penne su per l'Apennino;per l'aere latinorapidamente vola,poi discendi con impeto nei pianisacri ove Roma è sola,getta il più fiero grido e là rimani.

Nel primo centenario della nascita di Vincenzo Bellini

Nell'isola divina che l'etnèoGiove alla figlia di Demetra anticadonò ricca di messi e di cavalli,di lunghe navi e di città potenti,d'aste corusche e di cerate canne,di magnanimi eroi e di pastori

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melodiosi,

dal santo lido ove apparì l'Alfeoterribile che tenne la sua bramaimmune dentro all'infecondo sale,da Ortigia ramoscel di Siracusa,che fu sorella a Delo e abbeveravanell'orrore notturno la sirenaai fonti ascosi,

il re degli inni Pindaro tebanoassiso in ferreo trono,invocando le Grazie dal sen vastoe l'Ardire e la Forza e l'Abondanzasopra l'anima pura,celebrò le vittorie dei mortali.Per gli inni trionfali,con l'olivo selvaggio e il bronzeo vaso,i vincitori furono gli egualidei belli iddii nel sole senza occaso.

Inni, rapidi figli del furoree della fiamma, qual degli iddii, qualeeroe, quale uomo noi celebreremooggi al conspetto del religiosopopolo accolto che offre alla Potenzagenerata dal suo dolente grembouna preghiera?

Il dio celebreremo noi, pel cuore

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innumerevole avido di eternavita, l'eroe celebreremo e l'uomoin una sola forma di bellezzagiovenile, rapita negli alti astrima sempre ritornante in terra comela primavera.

Simile al mare procelloso incontroalle foci dei fiumi,che sforza verso le sorgenti primeverso le auguste origini montanela gran copia dell'acque(beve intorno la terra e si feconda),simile al mare l'ondadel canto volga impetuosamentequesta che palpita anima profondaverso l'antichità di nostra gente.

Dove il veglio Stesicoro per Ilioereditò la cecità di Omero,dove Pindaro assunse ai cieli il carrodel re Ierone fondatore d'Etnae Teocrito addusse tra i bifolchieloquenti le Càriti dal frescofiato silvano,

quivi improvvisa dopo il lungo esiliola doriense Musa ricomparvetra l'immemore popolo, improvvisaanimò la siringa dell'occulto

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Pan, cui la cera dato avea l'odoredel miele (appreso aveale a lamentarsiil labbro umano);

e il dolore degli uomini e l'amoredegli uomini e le ciechesperanze e le bellezze della vitae della morte e tutte le virtudiriebbero nel Cantola purità sublime e necessaria.Oh sagliente nell'ariache la nutrì, semplice nuda e sola,come nel tempio la colonna paria,la melodìa che vince ogni parola!

Gli Itali palpitaron di novellaattesa udendo quella giovenilevoce nell'aria limpida salire;e l'olivo che cinge i poggi curvilungh'essi i patrii mari santo parvealle dischiuse ciglia e ancor più santoparve l'alloro;

però ch'eglino, tristi servi, in quellavoce riconoscessero l'anticalor giovinezza e la meravigliosaverginità dell'anima primierache creò nella luce l'immutatoordine e bianco per gli intercolunniicondusse il coro.

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Cantava inconsapevole, su i giornie su l'opre comuniil figlio degli Ellèni in false vesti,tra vane moltitudini loquaci,lungi ai marmi natali;e in cor gli ardeva una tristezza ignota,mentre nella remotaisola i suoi teatri pel notturnosilenzio biancheggiavano e la votascena attendeva l'urto del coturno.

«Egli è morto, l'Orfeo dorico è morto!Sicelie Muse, incominciate il carmefùnebre! O rosignoli, annunziatead Aretusa ch'egli è morto e il cantomorto è con lui, e il latte non fluiscepiù, né dai favi il miele, ché peritoè nella cera

per lo dolore; e il verde apio nell'ortolangue, e l'aneto aulente; e le montagneson tacite, e le fonti nelle selveplorano, e al mare Cèrilo fa lai.Sicelie Muse, incominciate il carmefùnebre! Varca il doriense Orfeol'atra riviera.»

Non sonò forse questo antico piantosul trapassato auleta?

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«Omai chi canterà su le tue canne?Respiran elle come le tue labbra.Pan non si ardisce. E oppressotu dal silenzio della Terra sei!Ma, se canti a coleiche pur pensosa è d'Enna in Acheronte,ella in memoria dei narcissi ennèiti ridona al tuo mare ed al tuo monte.»

Non piansero così forse i selvaggiflauti contesti con la cera e il lino,al mar siciliano e a piè del cavorogo vulcanio? E le città illustripiangevano, come Ascra per Esiodo,per Archiloco Paro, per AlceoLesbo su l'acque.

Inno di gloria, irràggiati dei raggipiù fulgidi recando all'ansiosamoltitudine, accolta nel Teatroriconsacrato dalla reverenza,l'imagine del giovine Cantore.auspice e i testimonii del fatalesuolo ove nacque.

Alto pel mar duplice ei vien cantando,il figlio degli Ellèni,il subitaneo fiore della MadreEllade. Ei vien cantando la bellezzae il dolore dell'Uomo.

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Il genio della stirpe lui conduce,pervigile. La luceè la sua legge. E l'orizzonte immenso,con tutto che la Terra alma producevolgesi a lui come un divin consenso.

Saluta, mentr'ei viene, Inno, l'ignitavetta e il lido aretùside, sospirod'Atene, e le vocali selve, e i fiumiche il chiaro Ionio beve, e Siracusae Taormina e la natal Catanacon l'orme che v'impressero congiunteEllade e Roma.

La luce regna. Una profonda vitaanima le ruine respirantiper mille bocche cerule nel maree nel cielo. L'alta erba occupa i gradimarmorei, ove i secoli silentie invisibili ascoltano il tragedoche non si noma.

Tra il cielo e il mare le deserte orchestrecome stromenti cavis'aprono per accogliere la vocemisteriosa cui risponde il corodei Vènti peregrini.E la tempesta che laggiù percotele grandi rupi immotecontra i frangenti, e il tremito del lieve

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stelo tra i rotti fregi, son le notedell'istessa parola eterna e breve.

Italia, Italia, quale messaggerodi popoli trarrà da quel silenziovenerando il messaggio che s'attende?Quivi taluno interroga i vestigi?pacato curvasi ad apprender comesi tagli il marmo per edificareimmortalmente?

O altrove, altrove affòrzasi il pensieroliberatore in qualche eroica frontesu cui ventò lo spirito dell'albapromessa? Dove? Dove Leonardotemprò il sorriso, penetrò le ambagidel corpo umano, dominò la forzadella corrente?

Sotto l'ombra dell'Alpi vigilate?Nella ligure piaggiaonde salpò la prua ferrea di cuori?Nella candida pace della valleumbra dove Francesconutrì di sé le dolci creature?Fra l'alte sepolturedella città ch'ebbe di Dante l'ossae al gran nome sfavilla di futuresorti qual fredda selce alla percossa?

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O nella polve (Inno d'amore, battil'ale tue forti!) nella sacra polvedel Fòro suscitata oggi dai ferrianimosi che rompono i suggellidel Tempo e riconducono alla lucedell'Anima e del Sole i testimoniiprimi dell'Urbe?

Ovunque i bei pensieri e i grandi fattisi preparino, quivi arde un altarealla Dea Roma e il buono Eroe s'attende.Inno, che nell'ardore della miaanima come in fervida fucinafoggiarono le mie speranze invitte,saluta l'Urbe!

Saluta, nella gloria del Cantorefiorito a piè dell'Etna,l'Aventino sul Tevere d'Italia,il monte che salivano i Carmentiaedi del Futuro;però che tutto alla Gran Madre tornie d'ogni raggio s'orniil suo capo che sta sopra la Terra.Sveglia i dormenti e annunzia ai desti: «I giornisono prossimi. Usciamo all'alta guerra!».

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Nel primo centenario della nascita di Vittore Hugo

Come sopra la forza del montetra la selva e il fonte,tra la palude e il fiume,in vista all'infaticato mare,nell'altezza dell'etravenerabile, con suon di cetrae di flauto, armoniosamente,l'immune dalla morteEroe figlio del Numeedificava per l'industree pugnace sua gente,e pel Fato, la città illustredi molte porte e di molte are;così edificò Eglinella luce e nell'ombral'opera d'eterne paroleche ingombra l'orizzonteumano con la sua moleimmensa; e l'abitarono i vegliesperti d'infiniti mali,le vergini vereconde, i lietipargoli, i guerrieri sanguigni,e i mostri carnali senza fronte,che faceano insonni i profetine' lor chiostri di macigni,le onte irte d'artigli e d'ali,di cigli e di rostri.

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Nazione di Dante,se l'anima tua non è morta,se il tuo braccio ancor vale,se ancor la tua voce risuona,se t'arde nella memoriafavilla del romano orgoglio,o custode del Libro immortale,percuoti lo scudo raggiantesospeso alla portadel tuo Tempio ideale,solleva una vasta coronadal tuo Campidoglio,e grida: «Gloria! Gloria!Gloria!» come nei giornidelle tue magnificenze;perocché oggi ritornil'edificator Titanotrasfigurato sopra gli annie i tiranni, spiriti adducendodi amore su vènti di letizia,nella sua pura vittoriale sacre invocando potenzetestimoni al cruciato di Scizia:«O Terra! O Madre!O chiaro Etere! Mutato è in gioiadegli uomini quel ch'io soffersiper la Giustizia».

Gloria all'esule Eroe che invoco,

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Nazione di Dante, all'aedoche seppe pur l'altra paroladel Portatore-di-fuoco!«Più grato m'è l'esser prigionedel sasso, che servodel tuo signore.» E solaeragli intorno la rupe, e soloeragli l'Oceano intornoululante; e il lamentodei popoli ignavi sul ventoferivagli il cuore ferito;e la nuvola del suo doloreoccupava il ciel taciturnoprocellosa, di folgori spessa;e l'ira indefessalatrava pel tragico litoall'orrore notturno,più trista che Niobe nel mito.Ma egli aspettò la sua vela,ospite sovrumanodel granito, come Eschilo a Gelaospite fu del vulcano.E le parole suecostrinsero il Fato lontanoa premere la ferrea manosu l'impero di sangue e di lue.

O nembo sonante dell'Ode,rischiara dei tuoi rotti lampil'immensità del suo cuore!

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La Gallia, distesa tra i campinubilosi e le prodedel Mediterraneo lucente,nel suo cuore è compresacon la profonda Ardennae la Provenza serenaove canta la cicalad'Apolline all'olivo d'Atena,e la Bretagna silentedai candidi liniche prega rammemora e sognacoronata di giunchi marini,e la Borgogna che al ferroduro partitor di retaggiè madre e alle vigne opimeonde fiammea gioia s'esprime.Integro nel suo pettoè il suo dolce paese;e nell'anima sua ferve il solcodella nave foceseche venne recando il perfettodell'Ellade fiorenel seno petroso ove nacqueMassilia a specchio dell'acque.

Ma il tutto è in lui. Nel suo pettoconcluso è il mondo. Ogni raggio,ogni tenebra in lui discende,da lui parte. Il suo spirto selvaggioe divino s'oscura e risplende

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come la Notte, come il Giorno.Egli è Pan, la sostanza del Cielodella Terra e del Mare,l'Orgiaste, il Sonoro,il Vagabondo,il dio dal piè caprino, dal cornolunare, il signore del coro,il duce dell'eterno ritorno,che sopporta le stelle,incita le stirpi,dischiude la portadelle eterne visioni.Crescono in lui stagioniineffabili. La polvedei secoli s'anima al fiatodella sua bocca e levasi in trombeimpetuose. Le tombegli rendono i morti e i misteri.Dal silenzio Egli trae tutti i suoni.I novi pensieri suoi fortiper entro alle selve dei tempisi scagliano come leoni.

Sale il monte, scompare nell'atranube, parla con l'aquile e i vènti.Dietro di sé lascia la turbache latra, la città del sanguee del lucro, la femmina molle;fa sosta ai torrenti.Beve, come i profeti, nel cavo

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della mano, mentre all'oppostariva rugge il fratel suo flavo.Come l'artefice folledel Macedone, ebro di fasto,emulando con l'arte l'orgoglio,foggia nel monte il colossodel suo desiderio inumanoche cerca il dominio più vasto,che anela il più fulgido soglio.Come il dio degli eserciti, grida:«Io ti darò una frontepiù dura che le fronti loro».Veggon di lungi le gentitorreggiare quel suo simulacro.Dicono: «Chi trasfigura il monte?».I muscoli ingenticonstringono l'ardua ossaturaterribili come i serpentiche attorsero Laocoonte.Guardan l'aquile il sacro lavoro.

Egli sa ciò che deve perire,e il segreto travaglio onde nascela nova speranza o la novabeltà su la doglia del mondo,ora curvo come sotto il pondodi popoli morti, d'immensitumuli, d'infami ruine,or raggiante di vite future.Legioni di re, coorti

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di pontefici e d'imperatoriebri di lutti e d'incensi,lordi di menzogne e di fuchi,torme di carnefici sordi,d'eunuchi infermi di paure,moltitudini di meretricifameliche come le tombe,si mutano in tacita polvenelle profondità delle vienascoste; e la polve,sitibonda sorella del fango,riceve il pianto dei cieli; e il suonod'una parolav'è seminato: «La spadasi torce, la tiara si offusca,la corona si apre,la catena si spezza, il suppliziosi arresta. Gloria alla Terra!».

Egli canta: «Gloria alla Terra!Benigna è la madre e severaalle sue schiatte,incorruttibile e certa.Ama il figlio che pensa e che spera,che opera e che combatte;e l'innocenza offertaa tutte le vite è il suo latte,e la giustizia è la sua mammella».Canta: «Ogni alba è novella.La vittoria è nel grembo dell'alba

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fecondata dal sogno del forte.O Spirto, vinceremo noil'immite elemento, e la morteinforme che in fiumi d'oblioi solchi profondati agguaglia.L'un sotto il giogo dell'uomosi curverà come giumento;l'altra si farà bella del cantoche eterna il cuor degli eroi.L'inno del divinoordine sorgerà dal gridorauco, dal fragor della battaglia.E la bianca rondine che volaverso l'eternità, la Speranzadel giusto, farà il suo nidonelle fauci inerti del Destino».

Canta: «Il bisogno, aratroinfaticabile, travagliale moltitudini folte,fremebonda gleba.Innumerevoli manilevate alla minacciason le spighe ond'è irtoil sanguineo campo fenduto.Noi getteremo, o Spino,il seme per altre raccolte.Bandiremo conviti d'amorecon beatitudini molte.Tesseremo la bianca tovaglia

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con una invisibile spola.Il nostro puro fromentonon patirà la molaper convertirsi in pani.Il ramoscel cresciutoall'ombra del dio che consolaornerà, con l'alloro e col mirto,le mense pie di domani.Il lin sincero e la lana rudeal conviva saran vestimento.Su la porta che mai non si chiudeove l'uom dice: «Entra e rimani»,sarà scritta la grande parolaCOMINCIAMENTO».

Ed Egli tace, nella graziadella terra vestita di cielo,simile al fiume che saziadi sé le moltitudini e i campi.Tutto il Bene è nell'occhio profondo.La pagina del suo vangelopalpita come l'alache in aere si spazia,splende come velo che avvampi.Tace Egli e guarda.Il suo petto titanico esalail soffio pacato d'un mondo.Tace e contempla. Una scalasorge nel suo sogno, diritta,di crisòlito e di diamante.

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All'imo un re moribondov'è senza eredi; e confittada presso v'è l'ontad'un pastor senza legge, che spingai suoi cotti piedicome quei nella bolgia di Dante.Ma stirpi ansiose in catenainfinita vi salgono. Al sommodell'ansia il miracolo sta:la suprema bellezza, la gioiasuprema, la gloria suprema:nella Luce la Libertà.

O libera forza dell'Odeche precipiti sopra le turbeestuose e fai tua rapinadei cuor maschi, e il lor palpito s'odefra i tuoi gridi intermesso,e teco li traggi ed esaltiinsino all'ardor che commutain una adamantìnatempra il desire e il volere,o Ardente!, quali faci arderemonoi, quali fuochi, quali altiroghi, quali incendii vastiaccenderemo noi presso e lunge,su i colli dell'Urbe, alle prodedel Tevere, nei paschidell'Agro, oggi, per questo che giungedi torri incoronato

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ospite del Campidoglio?Ecco le terme, ecco i circhi, gli archi,gli acquedotti roggi,vertebre dei secoli, orridi ossi.Ma se Roma si levi dal soglioper lui onorare, oggi erettaapparirà più grandea questo che vien d'oltremontefabro di colossi,con fragore di scudi percossi.

«Patria! Patria!» gridavan gli Ellènipercotendo gli scudi sospesialle porte dei templi,quando escivan dal bianco Teatropieni il petto del ditiramboreligiosocui Eschilo dato avea l'anguee la torcia dell'insonne Erinni.«Patria! Patria!» E con ambole braccia cingean le colonnepure, sorelle degli inni.Percotiamo gli scudi chiamandoil dolce e terribile nome,suggello di labbra più sante.Colui che oggi sale il MonteTarpeo, l'amò d'alto amoreché l'udì dalle labbra di Dante.«Italia! Italia!»Una voce d'iroso dolore

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dall'adriatico mare,dal mare che chiude altri morti,dal mare che vide altre onte,ripete oggi il grido, ahi, vano. E il cuoreanco spera? E la fede non langue?Calpesta dal barbaro atroce,o Madre che dormi, ti chiamauna figlia che gronda di sangue.

Per la morte di un distruttore

F.N. XXV AGOSTO MCM

Disse al cuore dell'uomo: «Quandotu fervi, o cuore, largo e pieno,simile alla grande fiumana,beneficio e periglio dei lidi,quivi la tua virtù s'inizia».Disse: «Nel deserto estremo,con risa e con gridi,danzando e cantando,irrompe il mio desiderio e irraggiala sua letizia.Nacque su le montagne eternela mia saggezza inumana,su le montagne che stannovergini e solenel meriggio sereno,

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nell'ardore solenne;pregna divennesu i culmini prossimi al Solela mia virtù selvaggia;partorì su gli aridi macigniil più giovine de' suoi figli».

Disse: «Nel deserto estremo,nella fulva sabbia,sotto la rabbiadel sole, duro, violento,silenzioso,avido di conoscenza comeil leone di nutrimento,senza dio, senza nome,senza spaventoe spaventoso,con la volontà del leone,con la fame del leone,famelico, sitibondo,infaticabile, padronedel deserto e del mondofui, e delle mie forze segrete.Inesprimibile e senza nomequel che fu il tormentoe il giubilo dell'anima mia,quel che fu la fame e la setedell'anima mia!».

Disse: «Le fonti attossicate,

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i fuochi graveolenti,i sogni corrottie i vermi nel pane della vitason necessarii?Non io la mia vitamendicai a frusto a frusto,ma esso il mio disgustomi diede le forze e l'aleche presentivano le sorgentidei fiumi solitarii.E per giorni e per notti,di monte in monte,oltre il bene, oltre il male,senza sosta, senza sonno,il mio volo robustocercò cercò la fontedella gioia; e la trovò in sommo.Avido nelle acque canores'abbeverò il mio cuoreove arde la mia grande estate.

Il mio cuore, ove splendel'estate, s'abbeverò nell'acquegelide e n'ebbe gioia infinita.Tutta la mia vitafu un'alta speranza.O miei fratelli, dove siete?Accorrete, accorretealla gioia che v'attende.Troppo si piacque

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della pianurala vostra virtù. Non è setequella ch'estinguono i ruscelligarruli, quella che alla cisternaempie l'otro e vi s'indugia.Uditemi, o miei fratelli!Poi ch'io bevvi alla fonte apparite,tutta la mia vitafu una speranza eterna,tutti i miei pensieriper mille varchi e mille sentierimigrarono alla terra futura.

Oh venite, fratelli in angoscia,perché io vi mostrila sorgente ignotanell'alba che si leva!Scaturisce ella con troppaveemenza e scrosciacosì che la coppasi riempie e si vuota.V'insegnerò come si beve.Venite a me! Lasciate gli egrie i vili alla bassura.Venite perché io vi rallegri,fratelli, ne' cuori vostri.Grande sarà l'estate su i monticon gelide fontie silenzio infinito.L'aquile ci porteranno il cibo

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con i lor curvi rostri.Vivremo come i vènti forti.Negli occhi profondiavremo la terra futura.

Venite a me col vostro amoreche non soccombe,con la vostra seteche non si placa, quanti sieteuomini che v'accrescestedi conoscimento e di dolore,che la vita incidestecon la vostra vita dura,che osaste abbattere le tombeperché taluno risorgesse,che seguiste il più aspro camminoa cercar le vostre anime stesse,che chiamaste il più crudo nemicoper guerreggiar la vostra guerra,che santificaste nei periglile vostre inesorabili sorti,venite a me su l'ultima altura!Vivremo come i vènti forti.Saremo fedeli alla terra,fedeli alla terra dei figli,fedeli alla terra futura».

Disse: «Il mio lavorofu la guerra, la mia pacefu la vittoria.

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La mia volontà fu sospesasul mio capo come una legge,come una gloria,come un nimbo d'oro.In ogni impresail mio pensierefu la mia sola face.Sdegnai di beredove bevve il gregge,sdegnai di rimirare il cielooscurato dalla cava nube;perch'io sapea che nella rupeaerea tu eri, o sorgentepura, o sorella dell'aria,io sapea l'erta necessariaper rimirarti, o cielopudico e ardente,libertà, serenità d'oro.

O cielo su la mia testanuda, giocondoabisso, gorgodi luce, festadel sole, o cielo senzanube e senza tuono,ecco la mia innocenza,ecco che io risorgoverso di te mondodi ogni tabe e di ogni lebbra,ecco che io sono

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colui che affermae colui che benedice;e per questo lottai su la terra,per questo ebbi tanta guerratante armi tante ire:per aver libere mani,o serenità liberatrice,miracolo d'oro sul mondo,per avere un giorno le manilibere a benedire!

E così benedico:«Essere sopra ogni cosacome il suo proprio cielo,come il suo volubile tetto,come la sua cerulea voltae l'eterna sua pace». E felicecolui che benedicecosì! Però che la sorgentedell'eternità siail battesimalefonte di tutte le cose,oltre il bene, oltre il male;e il bene e il male sien ombrefuggitive; e su tutte le coseunico si spanda il ridentecielo delle sortimisteriose;e sia la terra una divinatavola al divino

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gioco degli iddii che tu porti,Eternità, per colui che t'ama.

Però che io sia colui che t'ama,o Eternità, colui che bramail tuo anello eternale,colui che vuoleda te il nuzialeanello del ritornoe del divenire,colui che ti chiamaal suo desireed al suo giorno,o Eternità, per tecogenerar la sua prole,colui che fu ciecoper la possa del tuo soleche a lungo ei mirò fiso,colui che alfine ha un risovasto come un balenocreatore sul mondo,colui che ama il tuo seno,il tuo seno profondo,o Eternità, colui che t'ama!».

Così parlava l'Asceta.Questa parola dissecolui che terribilmente visseper la sua terribile mèta.Così parlava

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su la plebe schiavasu la moltitudine mortacolui che errò lunghi annipei labirinti fallaci,per tutte le ambagidei secolari inganni,e ritrovò la portaantica della Vita bella.Disse: «Insegno al cuore umanouna volontà novella».Disse: «Insegno all'uomo non l'amoredel prossimo ma del più lontano,del vertice ch'ei s'elegge.Sia l'uomo la sua propria stella,sia la sua legge e il vendicatoredella sua legge».

E il fiato impuro dell'uomolo soffocava; lo soffocavail lezzo della bestiainferma e vile.Ed egli andava andava andava,cupo ed ostile,nell'aria gravida di tempesta,emulo del lampo e del tuono,ebro della sua guerra,splendido della sua virtù, irtode' suoi pensieri, tra i sogni gramidi mille e mille anime stanche.E disse: «Il tuo spirto

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e la tua virtù infiammino anchela tua agonia, come il fuocodel tramonto infiamma la terra.Così voglio io morireperché a causa di me tu ami,o fratello, sempre più la terra;così voglio io reddireluminoso alla gran madre terra».

Ahi che dal Fato,cui d'evento in eventoamò di così gagliardoamore, non gli fu datomorire nel combattimento,morire alzato e prontoal più difficile varco,nell'atto di tendere l'arcolucido ponderosoper l'ultimo dardo,il grande arco d'Ulisse,quello dal nervo che garriscecome la rondine messaggera,quello che tende sol unocontro la schierainnumerevole! Ahi che il notturnoFato l'oppresse a mezzo dell'opra!Ed egli stette nell'ombrasenza mutamento,immoto, vacuo, taciturnocome un cratère spento.

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Poi, come l'acqua informecolma i cratèriimmemori del fuoco pugnace,la materia egualel'agguagliò nell'ombra infinitae nei silenzii eterniove si celano le normedel ritorno e del divenire,ove tutte le formedell'essere s'aprono in misteriineffabili e la morte è vitae la vita è morte.O Verità redimitadi quercia, cantami la sua vitae la sua mortecon la possa delle antiche lire!Canta pei figli degli Ellèniil Barbaro enormeche risollevò gli iddii serenidell'Ellade su le vaste portedell'Avvenire!

Io lo canterò, io figliodegli Ellèni, con una odeampia, di possente volo;perché dissi, quando udii la vocedi lui solo io solo,dal suo esiglio nel mio esiglio,dissi: «Questi è il mio pari.

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Questo duro Barbaro che bevveuna colma tazza dell'ardentevin campàno ed ebro di dominioe di libertà corse i mariarmoniosi agognando il suoloove l'uomo per la divinaetra incedeva al fianco del dioed entrambi erano Ellèni,questi è il fratel mio.Salutammo le rosse trireminelle acque di Salaminanutrice di colombe;portammo una corona alle tombedi Maratona».

Dissi: «O Vita, egli non sa che vivesu le rive sonoreun figlio della florida stirpe.Io nasco in ogni alba che si leva.Io so io so come si beva,o Vita. E chi t'amò su la terracon questo furore?Chi più larghe piaghes'ebbe nella tua guerrae chi ferì con spadedi più sottili tempre?Chi di te gioì semprecome s'ei fosse per dipartirsi?Ah tutti i suoi tirsiil mio desiderio scosse

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verso di te, o Vitadai mille e mille vólti,a ogni tua apparita,come un Tìaso di rosseTìadi in boschi folti,tutti i suoi tirsi!

Io nasco in ogni alba che si leva.Ogni mio risveglioè come un'improvvisanascita nella luce:attoniti i miei occhimirano la luce e il mondo.Egli non sa come sien purele mie pupille, o Vita,mirando il cielo verecondo.Egli non sa come trabocchiil mio cuore, simile alla grandefiumana. Che m'insegnerà egli,o Vita.? Io so come si danzisopra gli abissi e come si ridaquando il periglio è innanzi,e come si compie sotto il rombodella tempesta l'opera austera,e come si combatta con l'ugnee col rostro, e come si uccide,e come si tessan le ghirlandedopo le pugne».

Ma riconobbi i suoi pensieri

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fraterni come il navigatoreansio riconosce i verzierid'Italia da lungi all'odoreche gli recano i vènti.Il tuo sole, il tuo sole,o Italia, colorò la sua fronte,maturò la sua saggezza forte,converse in oroil ferro delle sue saette.Il barbaro pellegrinosotto il tuo cielo alcionioapprese il canto dal coroalato delle tue selve aulenti.O Italia, egli bevve il vinodelle tue vigne ambrosio;colse il miele de' tuoi favi meri,le rose de' tuoi rosetigravi di api e di colombe. I piedisuoi divennero leggerisu i prati di violette.

La serenità adamantinache s'inarca su i ghiacciai dell'ermeAlpi placò la sua furia.Gli proposero enimmile rupi che nel mar di Liguriasi protendono come sfingicoronate di fiori.Come un novo Ermesenza caducèo

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egli portò su la sua spallaDioniso infante, nelle Termedi Caracalla,nel Fòro, nel Colossèo.Come Eraclito nel tempio efesio,egli meditò la sua dottrinailluminato dagli oridi San Marco nell'ombra marina.E il fresco vento etesiogonfiò la sua vela nei meriggid'estate, fra Sorrento e Cuma,sul golfo ove il Vesuvio fuma.

Quivi, o triste ombra della grecaAntigone, anima profondache gli fosti custodefedele nella notte cieca,o sorella, quivi recail cadavere dell'eroe,sul golfo lunato e grandecome l'arco ch'egli tese.Gli alzeremo un tumulo grande,un'altissima tomba,là dove le costesono più scoscesee il flutto più rimbombanelle caverne più nascostecon le eterne rispostealle eterne domande.Gli daremo ghirlande

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d'ulivo selvaggio e, tra le accesefaci, libàmi come all'altare.Gli canteremo in coro una odemisurata al respiro del mare.

Canteremo: «Qui dorme,nella sacra Italia, sul maredelle Sirene, sul MareNostro, in vista dell'arce cumèadove il figlio di Venere Eneagiunse recando i Penatidi Troia ed i Fatidi Roma, qui dorme,in vista del fuoco distruttoree creatoreche irrompe dal cuor della Terra,vegliato dalle antiche Mirefiglie della Notte arbitre soledella nascita e della morte,o prole degli Ellèni,qui dorme, placate le iredopo tanta guerra,il Barbaro enormeche risollevò gli iddii serenidell'Ellade su le vaste portedell'Avvenire».

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Per la morte di un capolavoro

Foreste su i monti, chiome fragorosedi oro di porpora e di crocoall'aquilone,su l'aeree frontiimmense coroneche affoca il foco dei tramonti;rosarii di rosenate su i fonti solitariiancor tiepidi dell'Estateche vi s'immerse;orti, orti conclusi, pomariisoavi cui l'Autunno ponemonili più gravi che quelli di Sersepoi che su le gemme celateil bel garzoneebro il pomo punico aperse;

voluttà della Terra, o fronde,o fiori, o frutti,gioia di tutti,prole delle Stagioni sacre,portento dell'Acqua e del Sole,fronde, fiori, frutti,ecco, ora nati, ora distrutti,chi mai si duoleoggi di vostra bella morte?quale corda piange vostri dolci lutti?Vivono le profonde

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radici nel buio attorte.Ancóra brilleran felicii ramicelli,e il suco acresi farà di miele nelle polpe bionde.

Ma la creatura infinita,in cui la mentedell'uom fatto diocontinuò l'opera della divinaMadre e trasfigurò la vitasotto la specie dell'Eterno;ma l'effigie purain cui l'uom solo nell'oblìodi sé mutamentesvelò la virtù del doloresotto la specie dell'Eterno;ma il mondo creato sopra la Natura,ove con un gesto l'uom si fe' signoredel Fato e congiunse la sua forza anticaalla sua bellezza futurasotto la specie dell'Eterno;

ma lo specchio dell'Ideale,o Poeti, la misura degli Eroi,la somma dell'Arte,il vertice del Pensiero e del Mistero,il segno visibile dell'Immortalemuore, o Poeti, non è più.Perisce e non si rinnovella.

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Da noi si diparte; non avrà ritorno.S'oscura per sempre nella notte eguale.Fronde fiori frutti nel sereno giornorivedremo noi,la giovine Terra, la sua genitura,e non l'infinita creatura bella!Piangete, o Poeti, o Eroi,per la luce che non è più,per la gioia che non è più.Umiliato è l'Universo.Menomato è l'orgoglio delle sorgenti.Un grande fiume è inaridito.Un gran potere s'è disperso.Nella memoria delle gentiresta la grandezza d'un nomecome il nome d'un mitolontano, d'un cielo abolito,d'un dio che parlò nel silenzio degli evi,bianchissimo sopra le nevi,vestito di sua verità.O Poeti, Eroi, volontàmeravigliose della giovine Terra,date il canto e il pianto,sopra la guerra,alla meraviglia che non rivivrà.

Culmine delle speranze sovrumanealta anima senza compagna,precinta isola dal dolore infinito,solitudine dell'abisso,

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occhio aperto e fissonell'interno maredella Bellezza, ebbe Egli un nome per voi?«Chi mangia il panecon me, mi ha alzato contro le sue calcagna»parlava ai suoi il signore del Convito;e il pane azzimo involto nell'erbe amareeragli innanzi, e la tristezza era immensa.«In verità vi dico: quegli che bagnala mano insieme a me nel piatto,quegli mi tradirà.» E la man nell'attonon tremava sopra la mensa.

Udiste voi queste parole?Parlò per voi queste paroleEgli, il Galileo? Ben le udistedall'anima sua che fu tristesino alla morte?Ebbe per voi nome GesùEgli, e il giorno degli azzimi eraquello che risplendea dietro la sua testa?Piangete, o Poeti, o Eroi,per la fiamma che non è più,per la gloria che non è più!Era l'eterna primavera, la festad'ogni ritorno;ed Egli era nel silenzio suo profondosolo col cuor del mondo e con la sua sorte;e gli uomini schiavi e tardi erangli intorno.

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E disse Egli queste parole:«Dove io vo, tu non puoi seguirmi».Ah queste udimmo noi, fratelli,antiche parole d'eroiche sonarono verso tutte le cimeterribili, al nembo ed al sole,per l'erte cui il sogno sublimeimpresse vestigi che furon suggelli.«Dove io vo, tu non puoi seguirmi.»Udimmo; e non ebbe Egli nomeper noi; non lontanar dietro le sue chiomevedemmo la rupe di Scizia o il Calvario;non vedemmo la croce, né l'avvoltore.Ma, solitariotra la sua gente, era Egli sopra il doloreColui che annuncia che rivela e che inizia;

ed eglino erano gli schiaviche non veggono e che non sanno,schiavi eterni della forza e dell'inganno;e la creatura dal visolene, che soleva adagiarglisi al pettoinvincibile, il suo dilettofemineo giglioreclinato, l'anima dalle soavilabbra, quel sorriso che parvequasi il minor fratello del suo dolore,anche era distante.Ed Egli era solo, il gran cuoreera solo, incluso nel petto

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come in diamante.E non eravi per lui padre né figlio,e non amico, e non amante.

«Ah, chi mai lo consolerà?»dicemmo noi nello spavento.«Chi consoleràColui ch'ebbe a sé testimoniil Sole, il Vento,le sorgenti dei Fiumi, il risoinnumerevole delle onde marine,la madre di tutte le cose, la Terra?Chi mai lo consolerà nel dì supremo?L'antico Oceano? Nicodemocon gli aromi della Giudea?Il canto delle Oceanine?Il lamento delle pie donne?Qual parola natadal sale del mare e del piantolenirà l'insonne?»

E noi leggemmo sol nel gestodelle sue mani e nell'ombra de' suoi cigli:«Non han le case degli uomini giacigliper l'insonne, dov'egli giacersi voglia.Non io m'arresto alla tua soglia.Dove io vo, tu non puoi seguirmi.La mia certezza canta nel mio sentieroed alza ai perigli colonnetrionfali sul limite degli abissi.

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È il mio pensiero più che il giorno e il domani.So come sia dolce grappoli vermiglipremere e bei capei prolissi;so come sia dolce una foglia, e la goladella colomba. Ma beni più lontanicerco, e il silenzio. Non della mia parolaio m'inebrio, ma di quel che mai non dissi».

O puro Eroe, inalzato sopra il tempoe sopra le favole umane,o segno visibile dell'Immortale,che vale ora il paneche diviso t'è innanzi? Che vale il mantoche ti traveste, e il nome che ti fa santonelle preci vane,e lo stuolo inquieto che ti circonda?Ben lungi sei tu dall'altare frequente.Terreno e celeste,tu sei a te stesso il tuo tempio.Ti creò dalla più profondaverità del suo spirto, dal più belloardore della sua mente quel segretoartefice che volle foggiarsi le alead attingere un ciel novello.

A similitudine di sé ti vollequegli ch'ebbe in sé la radiceed il fiore della volontà perfettacon tutto il travaglio del maree tutte le geniture della terra

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e le virtù dei saggi e degli antichi iddiie i gèrmini senza forma e senza nome,le semenze delle bellezze future.A similitudine di sé ti fecequel Prometèo meditabondoche immune fu dal supplizio, rapitoreinviolabile, modello del Mondo.E tu vivesti, inspirato dal più fortealito della sua bocca che nutritas'era alla plenitudine della vitae della morte.

Vivesti solo su la cimaultima della Conoscenza,sol tu capacedi respirarvi, imperialecome il sire della vita e della morte,sì lungi agli uomini e pur sì presso a loro,vedendo il male passare, la speranzadurare, la pace seguire alla guerra,il sogno condurre il lavoro,ma senza felicità e senzacorona perché tu sapeviche nata non era dalle artiumane la gioia onde avrestitu potuto gioire e nato non eradal sen della Terra l'alloroonde tu avresti potuto incoronarti.

Ahi, che rimane oggi fra i cieli

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e le tombe, nella notte ove s'oscurala tua bellezza,nella gente cui tu raggiavicon la bellezza la tua muta dottrina,nella patria divina ove Leonardoti fece misura d'eroi,specchio dell'Ideale, norma dell'opre,culmine delle speranze sovrumane,or che rimane per l'ultimo tuo sguardo,che mai ti si scopre se non allegrezzad'irrisori ed onta di schiavi?Il sole declinacome te, fra i cieli e le tombe.Su l'ampia ruinainane caligine incombe.

E tu così dunque per sempre ti partidai cuori cui fin la tua ombrafu luce e il tuo segno fu gioia?Ten vai tu forse nel prato d'asfodelosorridendo verso gli eguali?Trapassi tu di là dal veloa contemplar le cose eternecon fronte indicibile ed occhi immortali?Chi verrà dietro la tua ombra?Ah, per somigliartiuna volta, per esser degnodel tuo segno, innanzi ch'ei muoiataluno di noi darà al rogol'error che l'ingombra!

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E arderà l'anima sua pura in un attocome in un lampo arde il potere di un cielo.

Canti della ricordanza e dell'aspettazione

Il sole declina fra i cieli e le tombe.Ovunque l'inane caligine incombe.Udremo su l'alba squillare le trombe?Ricòrdati e aspetta.

Vedremo all'aurora l'Eroe sollevarsi?Ahi dietro la nube splendori scomparsi!Rilucono selci per fiumi riarsi.Ricòrdati e aspetta.

Son nude le selci, son aride e nudema piene di fato ciascuna in sé chiudeper l'urto favilla di grande virtude.Ricòrdati e aspetta.

È piena di fato la muta ruina.All'ombra dei marmi la via cittadinasi tace pensando che l'ora è vicina.Ricòrdati e aspetta.

La polvere è un turbo di gèrmini folti.Il rosso mattone qual sangue che sgorghifiammeggia novello per case e per torri.

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Ricòrdati e aspetta.

Fra l'erba che cresce davanti ai palagiterribili, spogli dell'armi e degli agi,s'ascondono forse divini presagi.Ricòrdati e aspetta.

È figlia al silenzio la più bella sorte.Verrà dal silenzio, vincendo la morte,l'Eroe necessario. Tu veglia alle porte,ricòrdati e aspetta.

Le città del silenzio

FERRARA, PISA, RAVENNA

O deserta bellezza di Ferrara,ti loderò come si loda il vóltodi colei che sul nostro cuor s'inclinaper aver pace di sue felicità lontane;e loderò la chiarasfera d'aere e d'acqueove si chiudela tua melanconia divinamusicalmente.

E loderò quella che più mi piacquedelle tue donne morte

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e il tenue riso ond'ella mi deludee l'alta imagine ond'io mi consolonella mia mente.Loderò i tuoi chiostri ove tacquel'uman dolore avvolto nelle laneplacide e cantò l'usignuoloebro furente.

Loderò le tue vie piane,grandi come fiumane,che conducono all'infinito chi va solocol suo pensiero ardente,e quel lor silenzio ove stanno in ascoltotutte le portese il fabro occulto batta su l'incude,e il sogno di voluttà che sta sepoltosotto le pietre nude con la tua sorte.

O Pisa, o Pisa, per la fluvialemelodìa che fa sì dolce il tuo riposoti loderò come colui che videimmemore del suo malefluirti in cuoreil sangue dell'auroree la fiamma dei vesprie il pianto delle stelle adamantinoe il filtro della luna oblivioso.

Quale una donna presso il davanzale,socchiusa i cigli, tiepida nella sua vesta

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di biondo lino,che non è desta ed il suo sogno muore;tale su le bell'acque pallido sorrideil tuo sopore.E i santi marmi ascendono leggeri,quasi lungi da te, come se gli echili animassero d'anime canore.

Ma il tuo segreto è forse tra i due nericipressi nati dal senode la morte, incontro alla foresta trionfaledi giovinezze e d'arbori che in festal'artefice creò su i sordi e ciechimuri come su un ciel sereno.Forse avverrà che quivi un giorno io rechiil mio spirito, fuor della tempesta,a mutar d'ale.

Ravenna, glauca notte rutilante d'oro,sepolcro di violenti custoditoda terribili sguardi,cupa carena grave d'un incarcoimperiale, ferrea, construttadi quel ferro onde il Fatoè invincibile, spinta dal naufragioai confini del mondo,sopra la riva estrema!

Ti loderò pel funebre tesoroove ogni orgoglio lascia un diadema.

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Ti loderò pel mistico presagioche è nella tua selva quando trema,che è nella selvaggia febbre in che tu ardi.O prisca, un altro eroe renderà l'arcodal tuo deserto verso l'infinito.O testimone, un altro eroe farà di tuttala tua sapienza il suo poema.

Ascolterà nel tuo profondosepolcro il Mare, cui 'l Tempo rapì quel litoche da lui t'allontana; ascolterà il gridodello sparviere, e il rombodella procella, ed ogni disperatogemito della selva. «È tardi! È tardi!»Solo si partirà dal tuo sepolcroper vincer solo il furibondoMare e il ferreo Fato.

Le città del silenzio

RIMINI

Rimini, dove la cesarieseAquila gli occhi dubbii al Fato avulsecol rostro e il diede al Sire che l'impulseverso Roma sì cieco alle contese,

in te non cerco i segni delle imprese

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ma le tombe cui semplici ti sculsepe' i Vati e i Sofi quei che al genio indulsepur tra il furor delle mortali offese.

Dormon gli Itali e i Greci lungo il grandefianco del Tempio, ove le caste Parchesospesero marmoree ghirlande.

Ignorar voglio i nomi ed ascoltaresol l'antico Pensier rombar nell'archecome il Mar nelle conche del tuo mare.

URBINO

Urbino, in quel palagio che s'addossaal monte, ove Coletto il Brabanzonetessea l'Assedio d'Ilio, ogni Stagionel'antica istoria tesse azzurra e rossa.

E Guidubaldo torna dalla fossaa tener corte, e tornano a tenzoneil Bembo e Baldassarre Castiglione,Giuliano de' Medici e il Canossa.

Ascolta Elisabetta da Gonzagaa fianco dell'esangue Montefeltropoetar Serafino, il novo Orfeo;

o chiede la Gagliarda ond'ella è vaga,

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ver lei musando l'armillato veltro,al liutista Gianmaria Giudeo.

PADOVA

Non alla solitudine scrovegna,o Padova, in quel bianco april felicevenni cercando l'arte beatricedi Giotto che gli spiriti disegna;

né la maschia virtù d'Andrea Mantegna,che la Lupa di bronzo ebbe a nutrice,mi scosse; né la forza imperatricedel Condottier che il santo luogo regna.

Ma nel tuo prato molle, ombrato d'olmie di marmi, che cinge la rivierae le rondini rigano di strida,

tutti i pensieri miei furono colmid'amore e i sensi miei di primavera,come in un lembo del giardin d'Armida.

LUCCA

Tu vedi lunge gli uliveti grigiche vaporano il viso ai poggi, o Serchio,e la città dall'arborato cerchio,

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ove dorme la donna del Guinigi.

Ora donne la bianca fiordaligichiusa ne' panni, stesa in sul coperchiodel bel sepolcro; e tu l'avesti a specchioforse, ebbe la tua riva i suoi vestigi.

Ma oggi non Ilaria del Carrettosignoreggia la terra che tu bagni,o Serchio, sì fra gli arbori di Lucca

rosso vestito e fosco nell'aspettoun pellegrino dagli occhi grifagniil qual sorride a non so che Gentucca.

Le città del silenzio

PISTOIA

I.

T'amo, città di crucci, aspra Pistoia,pel sangue de' tuoi Bianchi e de' tuoi Neri,che rosseggiar ne' tuoi palagi fieriveggo, uom di parte, con antica gioia.

Come s'uccida in te, come si muoiai Panciatichi sanno e i Cancellieri.

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Fin quel de' Sigisbuldi, tra pensierid'amor, grida: «Emmi tutto 'l Mondo a noia!».

Vanni Fucci odo, come nell'Infernotra i sibili del serpe che l'agghiada,«A te le squadro!» ulular furibondo.

Cino rincalza, folle del suo scherno:«E' piacemi veder colpi di spadaaltrui nel vólto e navi andar al fondo».

II.

Or placato è nel suo marmo senese,fuor d'ogni parte, il buon Giureconsulto;e stanno intorno a lui nel marmo scultogli alunni che animò Cellin di Nese.

È in pace la Città dal pistolesedi lama corta. Intorno al suo sepultodorme, né vede sul sepolcro occultosorridere la bella Vergiolese.

Là dove il mul nemico a Dio Signore,col Mironne e con Vanni della Monna,involava a Sant'Iacopo il tesauro,

ella ride il Digesto e il suo dottore,quasi celata dietro la colonna,Musa furtiva che nasconde il lauro.

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III.

Ma nella sagrestia de' belli arrediio conosco un sorriso più divino.Trema, o Pistoia, in te come il mattinoquando nasce su' colli; e tu no 'l vedi.

Colselo un giorno Lorenzo di Crediforse in un giovinetto fiorentino,stando con Leonardo e il Peruginopresso Andrea che di gloria ebbeli eredi.

Dalla tavola al marmo, ove riposail Forteguerri sotto il grave incarco,si diffonde quel tremito leggero.

E la Speranza ha la maravigliosabocca che il Vinci incurverà com'arcoa mirar l'infinito del Mistero.

PRATO

I.

O Prato, o Prato, ombra dei dì perduti,chiusa città, forte nella memoria,ove al fanciul compiacquero la Gloriae la figliuola di Francesco Buti!

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Spazzavento, alpe delle mie virtuti,che lustri come di ferrigna scoria,ove parvemi svelta alla Vittoriapenna di nibbio fra' tuoi sassi acuti!

O lapidoso letto del Bisenzioove cercai le sìlici focaievigilato dal triste pedagogo,

camminando in disparte ed in silenzio,mentre l'anima come le tue ghiaiefaceasi dura a frangere ogni giogo!

II.

Sul petrame ove raro striscia il biacco,rosseggiar come sangue che s'accagliae incupirsi io vedea l'alta muragliache il Cardona scalò per dare il sacco.

E ogni sera nel verde bronzo il Baccoinfante alla nascosta mia battagliaridea dal fonte. «Il tuo riso mi vagliacontra il compagno scaltro dal cor fiacco!»

E amico l'ebbi, il pargolo divino,su l'agil coppa sua, tra i freschi getti.Ei m'insegnava il riso di Lieo.

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Or fatto è prigioniere nel museosquallido, in mano degli scribi inetti.Io spremo dai miei grappoli il mio vino.

III.

Ma ancóra pende sopra il capitelloflorido, al sole e al vento come un grandenido, il pergamo ricco di ghirlandeignude, o Michelozzo, o Donatello!

Nel marmo appeso udii cantar l'augellocome nel nido; e il Duomo, che in sue bandeverdi e bianche chiudea le venerandereliquie, fogliar vidi al sol novello.

E non il Sacro Cingolo, che v'ètra le mura cui pinse Agnolo Gaddi,adorai quivi reclinando il capo;

ma il metallo che Bruno di Ser Lapofece di grazie naturato. E caddiin ginocchio dinanzi a Salomè.

IV.

La figlia d'Erodiade, apparitaal Tetrarca, in sua frode e in sua melodemagica ondeggia: entro il bacino s'odebollire il sangue della gran ferita.

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Frate Filippo, agli occhi tuoi la Vitadanza come colei davanti a Erode,voluttuosa; e il tuo desìo si goded'ogni piacer quand'ella ti convita.

Ma il Dolore guardar sai fisamentee la Morte, e le lacrime, e lo straziodelle bocche e l'orror de' vólti muti.

Io ti vedea sopra la sabbia ardenteschiavo in catene; e ti vedea poi saziodormir sul seno di Lucrezia Buti.

V.

Filippino, in sul canto a Mercatalequante volte intravidi pe' razzantivetri del Tabernacolo i tuoi Santicome i fiori d'un orto angelicale!

Fiori tu désti alla città natale:freschi petali i vólti, aiuole i manti.E intorno alla Maria le tue spirantigrazie non ebber mai sì lievi l'ale.

Vedevi, oprando, la materna portaove l'antica suora in atti umìlipregava pel figliuol del suo peccato.

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Demoniaco segno, il seggio portaal piede, come l'ara dei Gentili,testa bicorne di capron barbato.

VI.

Tali m'ebb'io maestri. O Giulianoda San Gallo, il tuo tempio fu misuradell'arte a me che la sua grazia puramirai caldo del fren vergiliano.

La croce greca l'ordine sopranoreggea della pacata architettura,spaziandosi in ritmo ogni figuracome il bel verso al batter della mano.

La cupola dai dodici occhi tondiil bianco-azzurro fregio dei festonii fiori i frutti gli òvoli i dentelli

i dorici pilastri dai profondisolchi eran come nelle mie canzonifronti sìrime volte ritornelli.

VII.

O grande architettor della Canzone,più anni Convenevole il Grammatico,dal Bisenzio natìo maestro erratico,alunno t'ebbe in Pisa e in Avignone.

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La fame eragli al fianco assiduo sprone;e tu benigno al vecchierel salvaticofosti, quando per pane e companaticoei mise in pegno il bel tuo Cicerone.

Non la foglia di lauro ma d'assenziorugumando, ei tornò nel tardo autunnoalla tua terra che gli diede un'arca.

E dalla Sorga a lui verso il Bisenziomandò la gloria il suo divino alunno.L'epitafio da te s'ebbe, o Petrarca.

VIII.

E Guido del Palagio, il Fiorentino,non mandò egli sue canzoni al bancodi Porta Fuia, al mercatante Bianco,all'orfano di Marco di Datino?

Guido le belle rime e l'angioinofiordaliso donavagli il Re franco.Per le terre a far paci, non mai stanco,sen giva il vecchio vestito di lino.

«Probitas» scrisse il re nel suo diploma.Cantava Guido: «O gentil popolano,sia chi si vuole, ascolta il mio latino!».

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E l'orfano di Marco di Datinoripetea, tra la rascia e il pannolano:«Recatevi a memoria l'alta Roma!».

IX.

Nel novel tempo del Decameroneo Ser Lapo Mazzei, sottil notaio,che buon villico foste e pecoraioe, innanzi Fra Girolamo, piagnone,

ogni giorno s'avea vostro sermone«Francesco ricco» in quel giardin suo gaio,alla Porta, fiorito dal denaiodei fondachi di Pisa e d'Avignone.

Gli mutaste in bigello ed in albagioi drappi di Damasco e quei d'Aleppo;ond'ei fece del Ciel l'ultimo acquisto.

Seguì nel Cielo Guido del Palagio;e l'unta quercia del suo banco in Cepporitornò, per i Poveri di Cristo.

X.

Ma al sol s'allegra in la vita serenaMesser Agnolo; e par che gli fioriscavermiglio il cor se Mona Amorroriscafavelli, o canti Bianca la sirena.

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Il felice Bisenzio è la sua vena.Discorrer fa la Sapienza priscanegli Animali, sì che le obbediscail buon re di Meretto Lutorcrena.

Oh di nostro parlar limpida fontein cui mi rinfrescai! Della BellezzaCelso ragiona all'ombra degli allori.

Dice: «Le guance bramano bianchezzapiù rimessa che quella della fronte...».Le tue, Selvaggia che il bel Prato infiori!

XI.

E nella villa di Lorenzo Segnisopra Sant'Anna, ove a Bernardo è caromeditar le sue Storie o legger Maro,e suoni e balli allegrano i convegni.

Tempo non è che d'aspro sangue impregnila polve il Guazzalotro o il Dagomaro;tempo è che il figlio di Fioretta a parocol Firenzuola i molli amori insegni.

Ma il Ferrucci stramazza a Gavinana.Scossa da Lorenzino l'ultimo urlogetta la Libertà dalla man mozza.

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Sotto il maligno agosto, in su l'alfanabolsa cavalca giù da Montemurlotra gli schemi plebei Filippo Strozza.

XII.

O Libertà, colui che abbeverastidel tuo latte alla tua sinistra mammasì che col nutrimento egli la fiammadel tuo gran cor si bevve e i sogni vasti,

il Leon primogenito nei Fastidella tua nova genitura, infiammade' suoi vestigi il suol, dall'alto drammadi Roma escito agli ultimi contrasti.

Quivi il Profugo sosta. E la giogaia,la gleba, il fonte, l'albero, la portach'egli varca, la mensa ove s'asside,

il pan che spezza, l'uomo a cui sorridesono sacri. E il molino di Cerbaiasplenderà fin che Roma non sia morta.

XIII.

O Vaiano, Cammin di Spazzavento,Madonna della Tosse, umili e insigninomi di luoghi e di fati! I macignie gli sterpi indagai pien di spavento.

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Taceva il suolo, senza mutamentoMa non vidi, pe' tramiti ferrigni,passi d'eroe? Me li facea sanguignitutto il sangue del cor mio violento.

Lui seguitai per monti e boschi e fiumi,Lui vidi giungere al Tirreno, ignotoentrar nel mare come un dio marino.

E, quando mi chinai su' miei volumiebro, nel canto omerico il pilotore d'Itaca mi parve men divino.

XIV.

Lascia che in te s'indugi la mia rima,Città della mia chiusa adolescenza,ove alla fiamma della conoscenzasi rivelò la mia bellezza prima.

L'anima del fanciullo è fatta opima.Ave, ingigliata figlia di Fiorenza!Quei ch'era ignaro della sua potenzaora combatte a conquistar la cima.

Ti mando sette e sette spade acuteche recisero i dìttami e gli acantidella Memoria, e n'hanno aulente il ferro.

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Le promesse ti furon mantenute.Ma il più fiero de' mostri or m'ho davanti.L'onta cada su me, se non l'atterro.

Le città del silenzio

PERUGIA

I.

Maschia Peroscia, il tuo Grifon che rampain cor m'entrò col rostro e con l'artiglio,onde tutto il mio sangue acro e vermigliodelle immortali tue vendette avvampa.

Certo segnato fui della tua stampaun dì, tra ferro e fuoco io fui tuo figlioancor vivo, qual fecemi il Bonfiglio,là sul muro ove Totila s'accampa.

Le catene spezzai nelle tue strade,precipitai gli uccisi per isfregiodalle tue torri, usai spiedo e roncone.

Brillar vidi tra il rugghio delle spadeil mio sogno di re nell'occhio regiodi Braccio Fortebraccio da Montone.

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II.

Dal Palagio non scendono, o Peroscia,i tuoi Priori le solenni scale?L'acqua, che ai gradi della Cattedraleterse il sangue degli Oddi, ancóra scroscia.

Tace la piazza. Il Gonfalon s'affloscia.Vento d'odio o d'amor più non l'assale?Ecco Astorre Baglione, a Marte eguale,che cavalca con l'asta in su la coscia!

Anco viene Gismondo a piè, con tantalevità che assimiglia presta lonza:lo scolare alemanno i passi ammira;

e Grifonetto, il figlio d'Atalanta,senza elmo, come il sole che l'abbronzabello: valletti ha il Tradimento e l'Ira.

III.

Il magnifico Astorre a Porta Solemena la donna sua del sangue Ursino.Monna Lavinia in veste d'oro finodanza a suono di piffari e viuole.

La mensa d'ogni frutto e fior redole,reca d'ogni ragion confetti e vino.In quell'ora il signor di Camerino

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soffia a Carlo Barciglia sue parole.

E il gobbo invesca Filippo di Braccio.Mastro d'inganni è il bastardo: ei sghignazzapensando a Giovan Pavolo e a Zenopia.

E, mentre Astorre nel fraterno abbracciosorride, su Peroscia che gavazzaversa una negra iddia la Cornucopia.

IV.

Dorme col suo bagascio Simonettoche in vita non conobbe mai pauraed Astorre non sa che in sepolturaè per mutarsi il nuzial suo letto.

«Griffa! Griffa!» Il perduto giovinettoapre tutte le porte alla congiura.Ecco primo il bastardo. Ei raffigurail grande Astorre al grande ignudo petto.

Questi urla: «Misero Astorre che morecommo poltrone!». E spira sotto i colpiciechi d'Ottaviano dalla Corgna.

Ma Gian Pavolo, il suo vendicatoreche tornerà lione tra le volpi,escito è in salvo per la Porta Borgna.

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V.

Giacciono su la via come vil somagli occisi. Or qual potenza li fa sacri?Nei corpi è la beltà dei simulacriche custodisce l'almo suol di Roma.

Sembrano infusi in un sublime aroma,se ben privi de' funebri lavacri.Quasi letèi papaveri son gli acrigrumi, serto di porpora alla chioma.

Traggono allo spettacolo le genti,percosse di stupore. Il Maturanziosogna Achille Pelìde e il Telamonio.

Ma nella cerchia di quegli occhi intenti,o Peroscia, è un divino testimonio:talun nomato Rafaele Sanzio.

VI.

Coi fanti e con le lance alle Due PorteIovan Pavolo vien sul suo morello.Nitrire ode il corsiero del fratellotradito; e il cor gli rugge: «A morte! A morte!».

Di repente rivolgesi la sorte.«Addosso a Corgna! A me Monte Sperello!»D'ogni banda cavalcano al macello

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i partigiani in arme con le scorte.

Entra il gran falco da Sant'Ercolanoe incontra il figlio d'Atalanta. «Addio,traditore Grifone: sei pur qua!

Non t'ammazzo. Non vo' metter la manoio nel mio sangue. Vattene con Dio.»E sprona innanzi a prender la città.

VII.

Cade reciso il bello infame fiore.Filippo Cencie con Messer Gintilel'abbatte in su le selci. «O Grifon vile,or tu griffa se puoi, vil traditore»

Portato è in piazza su la bara, ad oreventidue, come Astorre! Il grido ostiletacesi a un tratto. Ecco la giovenilemadre china sul figlio che si muore.

Ecco Atalanta, la viola aulente,ecco Zenopia, la soave rosa,più belle nell'orror della gramaglia.

Inondano di pianto il moriente.E intorno alla bellezza dolorosasospeso arde il furor della battaglia.

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VIII.

Ben è che dal tuo vertice selvaggiotu guardi a valle il sacro fiume nostro,maschia Peroscia che con l'ugne e il rostrosì togli preda e vendichi l'oltraggio.

Dalla Lupa il tuo Grifo ebbe il retaggio.Sempre il tuo sangue splende come l'ostro.Per dardo in torre e per flagello in chiostrosanguina fiammeggiando il tuo coraggio.

O Turrena, città pontificale,grande arce guelfa, al Papa e a Dio ribelle,ligia al Sole, devota all'Aquilone,

non odi su la porta comunale,nell'irto bronzo contra l'evo imbelle,l'urlo del Grifo e il rugghio del Leone?

ASSISI

Assisi, nella tua pace profondal'anima sempre intesa alle sue mirenon s'allentò; ma sol si finse l'iredel Tescio quando il greto aspro s'inonda.

Torcesi la riviera sitibondache è bianca del furor del suo sitire.

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Come fiamme anelanti di salire,sorgon gli ulivi dalla torta sponda.

A lungo biancheggiar vidi, nel frescofiato della preghiera vesperale,le tortuosità desiderose.

Anche vidi la carne di Francesco,affocata dal dèmone carnale,sanguinar su le spine delle rose.

SPOLETO

Spoleto, non la Rocca che ti guardaghibellina dal Guelfo tuo nemico,né la grandezza di Teodoricoche pensosa nel vespro vi s'attarda,

non la Borgia onde par che tu riardasubitamente del trionfo antico,né dal vasto acquedotto all'erto vicosegno romano ed orma longobarda

cerco, ma ne' silenzii dell'Assuntal'arca di Fra Filippo che dai marmipallidi esala spiriti d'amore

mentre nel muro pio la sua defuntaVergine, sciolta dalla morte, parmi

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piegar sul petto dell'Annunciatore.

GUBBIO

Agobbio, quell'artiere di Dalmaziache asil di Muse il bel monte d'Urbinofece, l'asprezza tua nell'Apenninoguerreggiato temprò con la sua grazia.

Or tristo e spoglio il tuo Palagio spaziatra l'azzurro dell'aere e del lino.Ma ne' tuoi bronzi arcani il tuo destinoresiste alla barbarie che ti strazia.

E, se teco non più ridon le cartedi Oderisi cui Dante sotto il pondovide andar chino tra la lenta greggia,

l'argilla incorruttibile per l'artedi Mastro Giorgio splende; e in tutto il mondol'alta tua nominanza ne rosseggia.

SPELLO

Spello, qual canto palpita nei pettidelle tue donne alzate in su la Portadi Venere? La Dea che non è mortal'arco nudo t'adorna di fioretti.

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E par che il pafio pargolo saettinel sol novo ai precordii con accortaferocia strali dell'antica sorta,come solea negli élegi perfetti.

Non l'amico di Cynthia oggi sospiradai prati d'asfodelo i suoi patemicampi che Ottavio diede al veterano?

Nelle tue torri imitan quella lirai caldi vènti, mentre negli Infernisogna l'Umbria il Callimaco romano.

MONTEFALCO

Montefalco, Benozzo pinse a frescogiovenilmente in te le belle mura,ebro d'amor per ogni creaturaviva, fratello al Sol, come Francesco.

Dolce come sul poggio il melo e il pesco,chiara come il Clitunno alla pianura,di fiori e d'acqua era la sua pintura,beata dal sorriso di Francesco.

E l'azzurro non désti anche al tuo biondoMelanzio, e il verde? Verde d'arboscelli,azzurro di colline, per gli altari;

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sicché par che l'istesso ciel rischiarila tua campagna e nel tuo cor profondol'anima che t'ornarono i pennelli.

NARNI

Narni, qual dorme in Santo Giovenalesu l'arca il senatore Pietro Cesi,tal dormi tu su' massi tuoi scoscesiintorno al tuo Palagio comunale.

Sogni il buon Nerva in ostro imperiale?o Giovanni tra gli odii in Roma accesi?Io di secoli, d'acque e d'elci intesimurmure che dal Nar fino a te sale.

E vidi su la tua Piazza Priora,ove muto anco dura il cittadinoorgoglio, alzarsi una grand'ombra armata:

grande a cavallo il tuo Gattamelata,sempiterno in quel bronzo fiorentinoche gli invidian lo Sforza ed il Caldora.

TODI

Todi, volò dal Tevere sul colle

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l'Aquila ai tuoi natali e il rosso Marteti visitò, se il marzio ferro or partecon la forza de' buoi le acclivi zolle.

Ebro de' cieli Iacopone, il folledi Cristo, urge ne' cantici; in dispartealla sua Madre Dolorosa l'artedel Bramante serena il tempio estolle.

Ma passa, ombra d'amor su la tua fronteche infoscan gli evi, la figlia d'Almonte,il fior degli Atti, Barbara la Bella.

E l'inno del Minor si rinnovella:«Amor amor, lo cor si me se spezza!Amor amor, tramme la tua bellezza!».

ORVIETO

I.

Orvieto, su i papali bastionifondati nel tuo tufo che strapiomba,sul tuo Pozzo che s'apre come tomba,sul tuo Forte che ha mozzi i torrioni,

su le strade ove l'erba assorda i suoni,su l'orbe case, ovunque par che incombala Morte, e che s'attenda oggi la tromba

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delle carnali resurrezioni.

Gli angeli formidabili di Lucadomani soffieran nell'oricalcol'ardente spiro del torace aperto.

Stanno sotterra, ove non è che luca,oggi i Vescovi e il gregge. Solo un falcostride rotando su pel ciel deserto.

II.

Uman prodigio dell'artier da Siena,nel ciel deserto il Duomo solitariorisplende come nel reliquiarioil Corporal sanguigno di Bolsena.

Di grandezze la sua fulva ombra è piena,piena di Dio, piena dell'Avversario.O Angelico, Ugolin di Prete Ilario,Gentile, il respir vostro odesi appena!

Sola il vòto dei marmi bianchi e nerioccupa e turba la tremenda ambasciadell'artier da Cortona, come un vento.

Ruggegli nel gran cor Dante Alighieri;e però di sì dure carni ei fasciail Dolore la Forza e lo Spavento.

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III.

Sfolgorati procombono i Perduti,salgon gli Eletti a ber l'alme rugiade;e gli Arcangeli snudano le spadementre i Musici toccano i leuti.

Ma i re spirtali degli inconosciutimondi, Empedocle che le vie dell'Adesforza, l'amor dell'api e delle biadeVergilio che apre al Teucro i regni muti,

e l'Alighier grifagno che con irain foco in sangue in fanghe in ghiacce inertii peccatori abbrucia attuffa asserra,

cantano all'Uomo un inno senza liradall'alto; e il Tosco ha due volumi aperti,Libro del Cielo e Libro della Terra.

Le città del silenzio

AREZZO

I.

Arezzo, come un ciel terrestro è il linocerulo, il vento aulisce di viola.

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Ove sono Uguccion della Faggiuolae il cavalier mitrato Guglielmino?

Non vedo Certomondo e Campaldino,né Buonconte forato nella gola.Alla tua Pieve il balestruccio vola;in San Francesco è Piero, e il suo giardino.

Non vedo nella polve i tuoi pedonicarpone sotto il ventre dei cavallicon le coltella in mano a sbudellarli.

Van sonetti del tuo Guitton, canzonidel tuo Petrarca per colline e valli;e con voce d'amore tu mi parli.

II.

Bruna ti miro dall'aerea loggiache t'alzò Benedetto da Maiano.Fan ghirlanda le nubi ove Lignanoe Catenaia e Pietramala poggia.

E fànnoti ghirlande i tralci a foggiadi quelle onde i tuoi vasi ornò la manopieghevole del figulo paganoquando per lui vivea l'argilla roggia.

Or rivive pel mio sogno il libertogrèculo intento a figurar le tigri

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l'evie i tripodi i tirsi le pantere.

Arar penso i tuoi campi e, nell'apertosolco da' buoi di Valdichiana impigri,discoprir l'ansa infranta del cratere.

III.

Aste in selva, stendardi al vento, elmettidi cavalieri, Costantin securo,Massenzio in fuga, Cosra morituro,e le chiare fiumane e i cieli schietti!

Come innanzi a un giardin profondo io stetti,o Pier della Francesca, innanzi al purofulgor de' tuoi pennelli; e il sacro muromoveano i fiati dei pugnaci petti.

Ma il Vincitore e il Labaro e Massenzioe la bella reina d'Asia oblìail mio cor; ché levasti più grand'ala!

Presso l'arca del crudo Pietramalavidi il fiore di Magdala, Maria.E un greco ritmo corse il pio silenzio.

IV.

Forte come una Pallade senz'armi,non ella ai piè del mite Galileo

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si prostrò serva, ma il furente Orfeodissetò arso dal furor dei carmi.

Qui da tristi occhi profanata parmi,mentre a specchio del Ionio o dell'Egeodegna è che s'alzi in bianco propileocome sorella dei perfetti marmi.

Ellade eterna! Non il vaso d'olioodorifero è quel di Deianira,ov'essa chiuse il dono del Biforme?

Per lei Ristoro ode cantar le tormedegli astri, come il Samio; e su la liraGuido Monaco tenta il modo eolio.

CORTONA

I.

O Cortona, l'eroe tuo combattentenon è già quel gagliardo che s'accampagiuso in Inferno alla penace vampaove si torce la perduta gente?

Pur le Vergini crea la man possentee i Chèrubi, usa all'affocata stampa,come l'Etrusco orna la dolce lampae di macigni alza la porta ingente.

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Chiusa virtù d'antiche primavere,urbe di Giano, irrompe nel tuo Luca.Maravigliosamente in lui tu vigi.

Forza del mondo è il tuo robusto artiere.Sparvero come in vortice festucai tuoi tiranni Uguccio ed Aloigi.

II.

O Corito, perché la Lampa è privadi nutrimento? Io vidi messaggera,grande come Calliope, leggeracome Aglaia, recar l'olio d'oliva.

Ecco, nel bronzo la Gorgóne è viva;nuota il delfino, corre la pantera;segue le melodíe di primaveraSileno su la fistola giuliva.

Bacco e gli aspetti delle Essenze ascosefan di fecondità ricco il metallo.Or versa nel suo cavo l'olio puro!

La vital Lampa in cui l'arte composetra mostri e iddii l'Onda marina e il Phallo,tu sospendila accesa al dio futuro.

III.

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Dirompendo col vomere l'anticagleba etrusca il bifolco, a Sepoltaglia,all'Ossaia, la spada e la medagliascopre laddove ondeggerà la spica.

Chi sa, nell'ansia della sua faticasotto l'ignea fersa, non l'assagliaun sùbito furore di battagliaa trionfar la sorte sua nemica!

Muzio Attèndolo Sforza nella roveredi Cotignola gitta il suo marrelloe ferrato cavalca al gran destino.

Sono le glebe tue fatte sì povere,o Italia, che non sórgavi un novelloEroe dall'aspro sangue contadino?

BERGAMO

I.

Bergamo, nella prima primaverati vidi, al novel tempo del pascore.Parea fiorir Santa Maria Maggioredi rose in una cenere leggera.

E per l'aer volar pareano a schiera

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i chèrubi fuggiti da Trescore,quei che Lorenzo Lotto il dipintorealzò fra i tralci della Vigna vera.

Davanti la gran porta australe i sassideserti verzicavano d'erbetta,quasi a pascere i due vecchi leoni.

Dolce correa per la città dei Tassila melode a destar la verginettaMedea sepolta presso il Coleoni.

II.

Destarsi la dormente, qual la posesu l'origlier di marmo l'Amadeo:gli occhi aprirsi, le labbra LAUS DEOclamare, le due mani sparger rose:

quest'opere vid'io meravigliosedel lene April; ma in vetta al mausoleo,tutt'oro l'arme, il gran Bartolomeopronto imperar tra le Virtù sue spose.

Non diemmi forse l'alto Condottiere,benigno a' suoi ed a' nimici crudo,col suo gesto il segnal della riscossa?

Oh seme delle nostre primavere!Triplice egli ebbe nell'invitto scudo

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il carnal segno della maschia possa.

III.

L'ombra canuta del Guerrier sovranoa Malpaga erra per la ricca loggia,mutato l'elmo nel cappuccio a foggia,tra i rimadori e i saggi in atto umano.

E tu, Bergamo, il suo sepolcro vanochiudi. Ma all'aspro vento che da Chioggiasìbila è vivo! Ancor di strage ha roggial'unghia e la pancia il suo stallon romano.

Stretto nel pugno il fólgore di guerra,i fanti contra Galeazzo ei sferratonando co' mortaro e la spingarda.

Arcato il duro sopracciglio, ei guardadi su la manca spalla irta di piastra;e, bronzo in bronzo, nell'arcion s'incastra.

CARRARA

I.

Carrara, morti son vescovi e contidi Luni, e son dispersi i loro avelli;gli Spinola e Castruccio Antelminelli

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son morti, e gli Scaligeri e i Visconti;

ed Alberico che t'ornò di fonti,gli antichi tuoi signori ed i novelli.Ma su quante città regnano i bellieroi nati dal grembo de' tuoi monti!

Quei che li armò di soffio più gagliardo,quei fa su te da vertice rimotoombra più vasta che quella del Sagro.

E non il santo martire Ceccardot'è patrono, ma solo il Buonarrotopel martirio che qui lo fece magro.

II.

Su la piazza Alberica il solleonemuto dardeggia la sua fiamma spessa;e, nel silenzio, a piè della Duchessacanta l'acqua la rauca sua canzone.

Dalla Grotta dei Corvi al Ravaccioneferve la pena e l'opera indefessa.Scendono in fila i buoi scarni lungh'essal'arsura del petroso Carrione.

S'ode ferrata ruota strider fortesotto la mole candida che abbaglia,e il grido del bovaro furibondo,

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ed echeggiar la bùccina di mortecome squilla che chiami alla battaglia,e la mina rombar cupa nel fondo.

III.

Arce del marmo, in te rinvenni i segniche t'impresse la forza dei Romani;sculti al sommo adorai gli Iddii pagani;e dissi: «O Roma nostra, ovunque regni!».

Dissi: «O mio cuore, or fa che tu m'insegnila rupe che foggiar volea con manidi foco il grande Artier, sì che i lontanimarinai la vedesser dai lor legni».

E dal Sagro alla Tecchia, da Betoglial Polvaccio, da Créstola alla Mossacercai l'arcana imagine scultoria.

Tutta l'Alpe splendea d'eterni orgogli.«O cuor» dissi «il tuo sangue sì l'arrossa!»E in ogni rupe vidi una Vittoria.

Le città del silenzio

478

VOLTERRA

Su l'etrusche tue mura, erma Volterra,fondate nella rupe, alle tue portesenza stridore, io vidi genti mortedella cupa città ch'era sotterra.

Il flagel della peste e della guerraavea piagata e tronca la tua sorte;e antichi orrori nel tuo Mastio forteempievan l'ombra che nessun disserra.

Lontanar le Maremme febbricosevidi, e i plumbei monti, e il Mar biancastro,e l'Elba e l'Arcipelago selvaggio.

Poi la mia carne inerte si composenel sarcofago sculto d'alabastroov'è Circe e il brutal suo beveraggio.

VICENZA

Vicenza, Andrea Palladio nelle Termee negli Archi di Roma imperialeapprese la Grandezza. E fosti egualealla Madre per lui tu figlia inerme!

Bartolomeo Montagna il viril germed'Andrea Mantegna in te fece vitale.

479

La romana virtù si spazia e saleper le linee tue semplici e ferme.

Veggo, di là dalle tue mute sorti,per i palladiani colonnatipassare il grande spirito dell'Urbe

e, nel Teatro Olimpico, in coortii vasti versi astati e clipeatidel Tragedo cozzar contra le turbe.

BRESCIA

Brescia, ti corsi quasi fuggitivo,nell'ansia d'una voluttà promessa!Ed ebbi onta di me, o Leonessa,per la vil fiamma che di me nudrivo.

Sol cercai nel tuo Tempio il vol captivodella Vittoria, con la fronte oppressa.Repente udii su l'anima inaccessafremere l'ala di metallo vivo.

Bella nel peplo dorico, la parmapoggiata contro la sinistra coscia,la gran Nike incidea la sua parola.

«O Vergine, te sola amo, te sola!»gridò l'anima mia nell'alta angoscia.

480

Ella rispose: «Chi mi vuole, s'arma».

RAVENNA

Ravenna, Guidarello Guidarellidorme supino con le man consertesu la spada sua grande. Al vólto inerteferro morte dolor furon suggelli.

Chiuso nell'arme attende i dì novelliil tuo Guerriero, attende l'albe certequando una voce per le vie desertechiamerà le Virtù fuor degli avelli.

Gravida di potenze è la tua sera,tragica d'ombre, accesa dal fermentodei fieni, taciturna e balenante.

Aspra ti torce il cor la primavera;e, sopra te che sai, passa nel ventocome pòlline il cenere di Dante.

Canto di festa per calendimaggio

Uomini, qual mai voce oggi si speranei campi della terra taciturna,nelle città fatte silenziose,

481

nei puri solchi del rinato panee nelle selci delle vie maestre?Qual parlerà vento di primaveramentre si tace l'opera diurna,se il giusto Sole genera le rosepresso le soglie e intorno alle fontane,lungo le siepi e su per le finestre?Uomini, qual s'attende messaggerache tra le man sue certe arrechi l'urnadei beni ignoti e, pallida di coseineffabili, annunzii la dimanealla potenza del dolor terrestre?

Uomini operatori, anime rudiansanti nei toraci vasti, eroifuligginosi cui biancheggian buonii denti in fosco bronzo sorridentie le tempie s'imperlano di stille;voi che torcete il ferro su le incudiil pio ferro atto alle froge dei buoi,alle unghie dei cavalli, atto ai timonidei carri, atto agli aratri, agli strumentivenerandi delle opere tranquille,voi presso il fuoco avito seminudiartieri delle antiche fogge; e voinegli arsenali ove dà lampi e tuoniil maglio atroce su le piastre ardenti,atleti coronari di faville;

e voi anche, nei porti ove la nave

482

onusta approda, onde si parte onusta,che recate su l'òmero servilecon vece alterna le ricchezze impurefluttuanti nel traffico del mondo;o voi che a piè delle inesauste cave,pel nobile arco e per la porta angusta,pel tempio insigne e pel fumoso ovile,polite nelle semplici misurela pietra che azzurreggia o il marmo biondo;e voi, destri in quadrar la sana travepel tetto, in far la madia di robustaquercia e di bosso l'arcolaio gentile,inchini al pianto delle fibre duresotto la pialla o al tornio fremebondo;

uomini solitarii, su l'erbosavia dove giunge suono di campanefioco e quell'erba assorda il passo raro,dati all'opra dei padri, senza penae senza gioia e senza mutamento;uomini in alleanza minacciosadi volontà ribelli entro l'immaneopificio vorace ove l'acciarocon suo moto infallibile balenaostile come nel combattimento;o uomini, oggi che il lavoro posae il sudore non bagna il vostro panee letifica tutti gli occhi il chiarogiorno, ascoltate la voce serenache spazia ai campi e alle città sul vento.

483

Or si tace stridore di metalli,rombo d'acque, e il vostro ànsito, operai.Stan mute nel mistero le immortaliForze signoreggiate dai congegnilucidi e vigilate dagli schiavi.Il sol di maggio brilla su i cristallidei tetti immensi come su i ghiacciai.Tinte in sanguigno, dentro gli arsenaliove marcì la Gloria in vecchi legni,le ferrate carcasse delle navigrandeggiano deserte. O poggi, o valli,o per ovunque nevi di rosai!Rondini su l'argilla dei canalimolli! Ombre delle nubi e soffii pregnidi pòlline su i pascoli soavi!

Torbidi uomini, uscite dalle porte,disertate le mura ove il tribunostridulo, ignaro del misteriosonumero che governa i bei pensieri,dispregia il culto delle sacre Fonti;però che il verbo della nova sorteultimamente vi dirà sol unoche ascoltato abbia il canto gloriosodei secoli e con gli occhi suoi sincericontemplato il fulgor degli orizzonti.Sol chi si nutre della terra è forte.Glorificate in voi la Madre! Ognunola sentirà presente al suo riposo.

484

Di beltà si faran gli animi alteri,di nobiltà s'accenderan le fronti.

È tutto il cielo come un fermo sguardosu voi, ma l'erbe un palpito frequentehanno come le ciglia per soverchiolume. E gli olivi son come una vestedi verità su i colli inginocchiati.Il fiume lento, simile al vegliardo,reca la verità; pure il silentelago la custodisce nel suo cerchiodi rupi; e l'armonia delle forestel'accompagna, e l'allodola dei prati.Sembra che in ogni gleba un cuor gagliardopulsi. Ed ecco il passato a voi presentecome un sepolcro che non ha coperchio!Ricca è l'antica Madre onde nasceste.La sua mammella abbeveri i suoi nati.

Poi, Sol calando, ai reduci dal purogiòlito la Città sembri d'amoreardere co' i palagi e le fucine,co' i lupanari e con le cattedrali,oh come bella, avida e furibonda!Il gesto dell'eroe verso il futuroamplia la piazza; sola erge il vigored'una gente la torre; alle ruineauguste sopra seggono fatalipresagi; sta nell'anima profondala virtù del pensiero nascituro;

485

la volontà si tempra nel dolore;l'atto sublime sfolgora; divinearmonie surgon dai più crudi mali.Glorificate la Città feconda!

Quivi restò la testimonianzadella forza magnifica e pugnaceche ben commetter seppe il marmo, elettonei monti ad eternar la sua memoria.Uomini, in voi glorificate l'Uomo!Il superbo disìo della possanzaquivi trovar soleva la sua pacenell'edificio esculto, ai cieli erettoqual visibile canto di vittoria.Uomini, in voi glorificate l'Uomo!Il vestimento d'ogni alta speranzaè la bellezza. Ogni conquista audacenon par compiuta, in terra, se un perfettofior non s'esprima dall'umana gloria.Uomini, in voi glorificate l'Uomo!

Or quella torna, ch'era dipartita,del Mare Egeo mirabil Primavera?Par che un ìgneo spirito si movadal santo lido ad infiammare il mondo.Glorifichiamo in noi la Vita bella!La bellezza escir può dall'incallitamano del fabro, s'ei la sua preghieraalzi verso le Forme dalla novaanima sua piena d'ardor giocondo.

486

Glorifichiamo in noi la Vita bella!Sol nella plenitudine è la Vita.Sol nella libertà l'anima è intera.Ogni lavoro è un'arte che s'innova.Ogni mano lavori a ornare il mondo.Glorifichiamo in noi la Vita bella!

Canto augurale per la nazione eletta

Italia, Italia,sacra alla nuova Auroracon l'aratro e la prora!

Il mattino balzò, come la gioia di mille titani,agli astri moribondi.Come una moltitudine dalle innumerevoli mani,con un fremito solo, nei monti nei colli nei pianisi volsero tutte le frondi.

Italia! Italia!

Un'aquila sublime apparì nella luce, d'ignotastirpe titania, biancale penne. Ed ecco splendere un peplo, ondeggiare una chioma...Non era la Vittoria, l'amore d'Atene e di Roma,la Nike, la vergine santa?

Italia! Italia!

487

La volante passò. Non le spade, non gli archi, non l'aste,ma le glebe infinite.Spandeasi nella luce il rombo dell'ali sue vastee bianche, come quando l'udìa trascorrendo il peltàstesu 'l sangue ed immoto l'oplite.

Italia! Italia!

Lungo il paterno fiume arava un uom libero i suoipingui iugeri, in pace.Sotto il pungolo dura anelava la forza dei buoi.Grande era l'uomo all'opra, fratello degli incliti eroi,col piede nel solco ferace.

Italia! Italia!

La Vittoria piegò verso le glebe fendute il suo volo,sfiorò con le sue palmela nuda fronte umana, la stiva inflessibile, il giogoondante. E risalìa. Il vomere attrito nel suolobalenò come un'arme.

Italia! Italia!

Parvero l'uomo, il rude stromento, i giovenchi indefessinel bronzo trionfaleeternati dal cenno divino. Dei beni inespressigonfia esultò la terra saturnia nutrice di messi.O madre di tutte le biade,

Italia! Italia!

La Vittoria disparve tra nuvole meraviglioseaquila nell'altezza

488

dei cieli. Vide i borghi selvaggi, le bianche certose,presso l'ampie fiumane le antiche città, glorioseancóra di antica bellezza.

Italia! Italia!

E giunse al Mare, a un porto munito. Era il vespro.Tra la fumèa rossastraalberi antenne sàrtie negreggiavano in un gigantescointrico, e s'udìa cupo nel chiuso il martello guerrescorintronar su la piastra.

Italia! Italia!

Una nave construtta ingombrava il bacino profondo,irta de l'ultime opere.Tutta la gran carena sfavillava al rossor del tramonto;e la prora terribile, rivolta al dominio del mondo,aveva la forma del vomere.

Italia! Italia!

Sopra quella discese precìpite l'aquila ardente,la segnò con la palma.Una speranza eroica vibrò nella mole possente.Gli uomini dell'acciaio sentirono subitamentelevarsi nei cuori una fiamma.

Italia! Italia!

Così veda tu un giorno il mare latino coprirsidi strage alla tua guerrae per le tue corone piegarsi i tuoi lauti e i tuoi mirti,o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,

489

aroma di tutta la terraItalia, Italia,sacra alla nuova Auroracon l'aratro e la prora!

490

LIBRO TERZO

ALCYONE

La tregua

Dèspota, andammo e combattemmo, semprefedeli al tuo comandamento. Vediche l'armi e i polsi eran di buone tempre.

O magnanimo Dèspota, concedial buon combattitor l'ombra del lauro,ch'ei senta l'erba sotto i nudi piedi,

ch'ei consacri il suo bel cavallo sauroalla forza dei Fiumi e in su l'auroraei conosca la gioia del Centauro.

O Dèspota, ei sarà giovine ancóra!Dàgli le rive i boschi i prati i montii cieli, ed ei sarà giovine ancóra

Deterso d'ogni umano lezzo in fontigelidi, ei chiederà per la sua festasol l'anello degli ultimi orizzonti

I vènti e i raggi tesseran la vesta

491

nova, e la carne scevra d'ogni maleéntrovi balzerà leggera e presta.

Tu 'l sai: per t'obbedire, o Trionfale,sì lungamente fummo a oste, franchie duri; né il cor disse mai «Che vale?»

disperato di vincere; né stanchimai apparimmo, né mai tristi o incerti,ché il tuo volere ci fasciava i fianchi.

O Maestro, tu 'l sai: fu per piacerti.Ma greve era l'umano lezzo ed eravile talor come di mandre inerti;

e la turba faceva una Chimeraopaca e obesa che putiva fortesì che stretta era all'afa la gorgiera.

Gli aspetti della Vita e della Morteinvano balenavan sul carnamefolto, e gli enimmi dell'oscura sorte.

Non era pane a quella bassa famela bellezza terribile; onde il tardobruto mugghiava irato sul suo strame.

Pur, lieta maraviglia, se alcun dardotutt'oro gli giungea diritto insinoai precordii, oh il suo fremito gagliardo!

492

E tu dicevi in noi: «Quel ch'è divinosi sveglierà nel faticoso mostro.Bàttigli in fronte il novo suo destino».

E noi perseverammo, col cuor nostroardente, per piacerti, o Imperatore;e su noi non potè ugna né rostro.

Ma ne sorse per mezzo al chiuso ardorela vena inestinguibile e giocondadel riso, che sonò come clangore.

E ad ogni ingiuria della bestia immondascaturiva più vivido e più schiettotal cristallo dall'anima profonda.

Erma allegrezza! Fin lo schiavo abietto,sfamato con le miche del convito,lungi rauco latrava il suo dispetto;

e l'obliqio lenone, imputriditonel vizio suo, dal lubrico angiportocon abominio ci segnava a dito.

O Dèspota, tu dài questo confortoal cuor possente, cui l'oltraggio è lodee assillo di virtù ricever torto.

Ei nella solitudine si gode

493

sentendo sé come inesausto fonteDedica l'opre al Tempo; e ciò non ode.

Ammonisti l'alunno: «Se hai man pronte,non iscegliere i vermini nel fimoma strozza i serpi di Laocoonte».

Ed ei seguì l'ammonimento primo;restò fedele ai tuoi comandamenti;fiso fu ne' tuoi segni a sommo e ad imo.

Dèspota, or tu concedigli che allentiil nervo ed abbandoni gli ebri spirtialle voraci melodìe dei vènti!

Assai si travagliò per obbedirti.Scorse gli Eroi su i prati d'asfodelo.Or ode i Fauni ridere tra i mirti.

l'Estate ignuda ardendo a mezzo il cielo.

Il fanciullo

I.

Figlio della Cicala e dell'Olivo,nell'orto di qual Faunotu cogliesti la canna pel tuo flauto,

494

pel tuo sufolo doppio a sette fóri?

In quel che ha il nume agresto entro un'anticavilla di Cameratadeserta per la morte di Pampìnea?O forse lungo l'Affrico che rigala pallida contradaove i campi il cipresso han per confine?Più presso, nella Mensola che ridesotto il ponte selvaggia?Più lungi, ove l'Ombron segue la tracciad'Ambra e Lorenzo canta i vani ardori?

Ma il mio pensier mi finge che tu coltal'abbia tra quelle murache Arno parte, negli Orti Oricellari,ove dalla barbarie fu sepoltaahi sì trista, la MusaFiorenza che cantò ne' dì lontaniai lauri insigni, ai chiarifonti, all'eco dell'inclite caverne,quando di Grecia le Sirene eternevenner con Plato alla Città dei Fiori.

Te certo vide Luca della Robbia,ti mirò Donatello,operando le belle cantorìe.Tutte le frutta della Cornucopiaper forza di scalpellofecero onuste le ghirlande pie.

495

E tu danzavi le tue melodìe,nudo fanciul pagano,àlacre nel divin marmo apuanocome nell'aria, conducendo i cori.

Figlio della Cicala e dell'Olivo,or col tuo sufolettoincanti la lucertola verdognolaa cui sopra la selce il fianco vivopalpita pel dilettoin misura seguendo il dolce suono.Non tu conosci il sognoforse della silente creatura?Ver lei ti pieghi: in lei non è paura:tu moduli secondo i suoi colori.

Tu moduli secondo l'aura e l'ombrae l'acqua e il ramoscelloe la spica e la man dell'uom che falcia,secondo il bianco vol della colomba,la grazia del torelloche di repente pavido s'inarca,la nuvola che varcail colle qual pensier che seren vóltomuti, l'amore della vite all'olmol'arte dell'ape, il flutto degli odori.

Ogni voce in tuo suono si ritrovae in ogni voce seisparso, quando apri e chiudi i fóri alterni.

496

Par quasi che tu sol le cose muovamentre solo ti beinell'obbedire ai movimenti eterni.Tutto ignori, e discernitutte le verità che l'ombra asconde.Se interroghi la terra, il ciel risponde;se favelli con l'acque, odono i fiori.

O fiore innumerevole di tuttala vita bella, umanofiore della divina arte innocente,preghiamo che la nostra anima nudasi miri in te, preghiamoche assempri te maravigliosamente!L'immensa plenitudine viventetrema nel lieve suonocreato dal virgineo tuo soffio,e l'uom co' suoi fervori e i suoi dolori.

II.

Or la tua melodìatutta la valle come un bel pensieredi pace crea, le due canne leggiereversando una la luce ed una l'ombra.

La spiga che s'inclinaper offerirsi all'uomoe il monte che gli dà pietre del grembo,

497

se ben l'una vicinae l'altro sia rimotoe l'una esigua e l'altro ingente, sembrasi giungano per l'aere serenocome i tuoi labbri e le tue dolci canne,come su letto d'erbe amato e amante,come i tuoi diti snelli e i sette fóri,

come il mare e le foci,come nell'ala chiare e negre penne,come il fior del leandro e le tue tempie,come il pampino e l'uva,come la fonte e l'urna,come la gronda e il nido della rondine,come l'argilla e il pollice,come ne' fiari tuoi la cera e il miele,come il fuoco e la stipula stridente,come il sentiere e l'orma,come la luce ovunque tocca l'ombra.

III.

Sopor mi colse presso la fontana.Lo sciame era discorde:avea due re; pendea come due poppefulve. E il rame s'udìa come campana.

Ti vidi nel mio sogno, o lene aulente.Lottato avevi ignudo

498

contro il torrente folle di rapina.Raccolto avevi piuma di sparviereche a sommo del ciel mutoin sue rote ferìa l'aer di strida.Ahi, lungi dalle tue musiche ditagittato avevi i calami forati.Chino con sopraccigli corrugatieri, fanciul pugnace,intento a farti archi da saettare

col legno della flèssile avellana.

IV.

Eleggere sapesti il re splendentenello sciame diviso,ridere d'un tuo bel selvaggio risospegnendo il fuco sterile e sonoro.

Con la man tinta in mele di sosillotraesti fuor la troppasignoria. Cauto e fermo le calcavi.Sporgeva a modo d'uvero di poppail buon sire tranquilloche fu re delle artefici soavi.Poi franco te n'andavisonando per le prata di trifoglio,incoronato d'ellera e d'orgoglio,entro la nube delle pecchie d'oro.

499

V.

L'acqua sorgiva fra i tuoi neri ciglifecesi occhio che vede e che sorride;fecesi chioma su la tua cerviceil crespo capelvenere.

Fatto sei di segreto e di freschezza.Fatte son di làticefluido e d'umide fibre le tue membra.Il tuo spirto, dal fonte come il salicema senza l'amarezzanato, le amiche naiadi rimembra;tutte le polle sembratrarre per le invisibili sue stirpi.E se gli occhi tuoi cesii han neri cigli,ha neri gambi il verde capelvenere.

Converse le tue canne sono in chiarivetri, onde lenti i suonistillano come gocce da clessidre.S'appressano i colúbri maculosi,gli aspidi i cencri e gli anguie le ceraste e le verdissime idre.Taciti, senza spire,eretti i serpi bevono l'incanto.Sol le bìfide lingue a quando a quandotremano come trema il capelvenere.

500

Sino ai ginocchi immerso nella cupalinfa, alla venenatagreggia tu moduli il tuo lento carme.Par che da' piedi tuoi torta sia nataradice e di naturaerbida par ti sien fatte le gambe.Ma il fior della tua carnesuso come il nenùfaro s'ingiglia.E se gli occhi tuoi cesii han nere ciglia,neri ha gli steli il verde capelvenere.

VI.

Se t'è l'acqua visibile negli occhie se il làtice nudre le tue carni,viver puoi anco ne' perfetti marmie la colonna dorica abitare.

Natura ed Arte sono un dio bifronteche conduce il tuo passo armoniosoper tutti i campi della Terra pura.Tu non distingui l'un dall'altro voltoma pulsare odi il cuor che si nascondeunico nella duplice figura.O ignuda creatura,teco salir la rupe venerandavoglio, teco offerire una ghirlandadel nostro ulivo a quell'eterno altare.

501

Torna con me nell'Ellade scolpitaove la pietra è figlia della lucee sostanza dell'aere è il pensiere.Navigando nell'alta notte illune,noi vedremo rilucere la rivadel diurno fulgor ch'ella ritiene.Stamperai nelle arenedel Fàlero orme ardenti. Ospiti solipresso Colòno udremo gli usignuolidi Sofocle ad Antigone cantare.

Vedremo nei Propìlei le portedel Giorno aperte, nell'intercolunniotutto il cielo dell'Attica gioire;nel tempio d'Erettèo, coro notturnodai negricanti pepli le soppostevergini stare come urne votive;la potenza sublimedella Citta, transfusa in ogni venadel vital marmo ov'è presente Atena,regnar col ritmo il ciel la terra il mare.

Alcun arbore mai non t'avrà datogioia sì come la colonna intattache serba i raggi ne' suoi solchi eguali.All'ora quando l'ombra sua trapassai gradi, tu t'assiderai sul gradopiù alto, co' tuoi calami toscani.La Vittoria senz'aliforse t'udrà, spoglia d'avorio e d'oro;

502

e quella alata che raffrèna il toro;e quella che dislaccia il suo calzare.

Taci! La cima della gioia è attinta.Guarda il Parnete al ciel, come leggiero!Guarda l'Imetto roscido di miele!Flessibile m'appar come l'efebo,vestito della clamide succinta,che cavalcò nelle Panatenee.Sorse dall'acque egeeil bel monte dell'api e fu vivente.Or tuttavia nella sua forma ei sentela vita delle belle acque ondeggiare.

Seno d'Egina! Oh isola nutricedi colombe e d'eroi! Pallida viad'Eleusi coi vestigi di Demetra!Splendore della duplice feritanel fianco del Pentelico! Armoniedel glauco olivo e della bianca pietra!Ogni golfo è una cetra.Tu taci, aulete, e ascolti. Per l'Imettol'ombra si spande. Il monte violettomormora e odora come un alveare.

VII.

L'odo fuggir tra gli arcipressi foschi,e l'ansia il cor mi punge.

503

Ei mi chiama di lungesolo negli alti boschi, e s'allontana.

Mutato è il suon delle sue dolci canne.Trèmane il cor che l'ode,balza se sotto il piè strida l'arbusto;pavido è fatto al rombo del suo sangue,ed altro più non odeil cor presàgo di remoto lutto.Prego: «O fanciul venusto,non esser sì velocech'io non ti giunga!» È vana la mia voce.Melodiosamente ei s'allontana.

Elci nereggian dopo gli arcipressi,antiqui arbori cavi.Pascono suso in ciel nuvole bianche.A quando a quando tra gli intrichi spessile nuvole soavison come prede tra selvagge branche.E sempre odo le cannegemere d'ombra in ombraroche quasi richiamo di colombache va di ramo in ramo e s'allontana.

«O fanciullo fuggevole, t'arresta!Tu non sai com'io t'ami,intimo fiore dell'anima mia.Una sol volta almen volgi la testa,se te la inghirlandai,

504

bel figlio della mia melancolìa!Con la tua melodìafugge quel che divinoera venuto in me, quasi improvvisoritorno dell'infanzia più lontana.

Fa che l'ultima volta io t'incoroni,pur di negro cipresso,e teco io sia nella dolente sera!»Ei nell'onda volubile dei suonicon un gentil suo gesto,simile a un spirto della primavera,volgesi; alla preghierasorride, e non l'esaude.L'ansia mia vana odo sol tra le pause,mentre che d'ombra in ombra ei s'allontana.

Ad un fonte m'abbatto che s'accoglieentro conca profondaper aver pace, e un elce gli fa notte.«O figlio, sosta! Imiterai le fogliee l'acque anche una voltae i silenzii del dì con le tue note.Sediamo in su le prode.Fa ch'io veda l'imaginepuerile di te presso l'imaginedi me nel cupo speglio!» Ei s'allontana.

S'allontana melodiosamentené più mi volge il viso,

505

emulo di Favonio ei nel suo volo.Sol calando, la plaga d'occidentes'infiamma; e d'improvvisotutta la selva è fatta un vasto rogo.Le nuvole di focoardono gli elci forti,aerie vergini al disìo dei mostri.Giunge clangor di buccina lontana.

E un tempio ecco apparire, alte ruinecui scindon le radicierrabonde. Gli antichi iddii son vinti.Giaccion tronche le statue divinecadute dai fastigi;dormono in bruni pepli di corimbi.Lentischi e terebintil'odor dei timiamifan loro intorno. «O figlio, se tu m'ami,sosta nel luogo santo!» Ei s'allontana.

«Rialzerò le candide colonne,rialzerò l'altaree tu l'abiterai unico dio.M'odi: te l'ornerò con arti nuove.E non avrà l'eguale.Maraviglioso artefice son io.T'adorerò nel miopetto e nel tempio. M'odi,figlio! Che immortalmente io t'incoroni!»Nel gran fuoco del vespro ei s'allontana.

506

Si dilegua ne' fiammei orizzontiForse è fratel degli astri.O forse nel mio sogno s'è converso?«Ti cercherò, ti cercherò ne' monti,ti cercherò per gli aspritorrenti dove ti sarai deterso.E ti vedrò diverso!Gittato avrai le canne,intento a farti archi da saettarecol legno della flèssile avellana».

Lungo l'Affriconella sera di giugno dopo la pioggia

Grazia del ciel, come soavementeti miri ne la terra abbeverata,anima fatta bella dal suo pianto!O in mille e mille specchi sorridentegrazia, che da nuvola sei natacome la voluttà nasce dal pianto,musica nel mio cantoora t'effondi, che non è fugace,per me trasfigurata in alta pacea chi l'ascolti.

Nascente Luna, in cielo esigua comeil sopracciglio de la giovinetta

507

e la midolla de la nova canna,sì che il più lieve ramo ti nascondee l'occhio mio, se ti smarrisce, a penati ritrova, pel sogno che l'appanna,Luna, il rio che s'avvallasenza parola erboso anche ti vide;e per ogni fil d'erba ti sorride,solo a te sola.

O nere e bianche rondini, tra nottee alba, tra vespro e notte, o bianche e nereospiti lungo l'Affrico notturno!Volan elle sì basso che la molleerba sfioran coi petti, e dal piacereil loro volo sembra fatto azzurro.Sopra non ha sussurrol'arbore grande, se ben trema sempre.Non tesse il volo intorno a le mie tempiefresche ghirlande?

E non promette ogni lor breve gridoun ben che forse il cuore ignora e forseindovina se udendo ne trasale?S'attardan quasi immemori del nido,e sul margine dove son trascorsepar si prolunghi il fremito dell'ale.Tutta la terra pareargilla offerta all'opera d'amore,un nunzio il grido, e il vespero che muoreun'alba certa.

508

La sera fiesolana

Fresche le mie parole ne la serati sien come il fruscìo che fan le fogliedel gelso ne la man di chi le cogliesilenzioso e ancor s'attarda a l'opra lentasu l'alta scala che s'anneracontro il fusto che s'inargentacon le sue rame spogliementre la Luna è prossima a le sogliecerule e par che innanzi a sé distenda un veloove il nostro sogno si giacee par che la campagna già si sentada lei sommersa nel notturno geloe da lei beva la sperata pacesenza vederla.

Laudata sii pel tuo viso di perla,o Sera, e pe' tuoi grandi umidi occhi ove si tacel'acqua del cielo!

Dolci le mie parole ne la serati sien come la pioggia che bruivatepida e fuggitiva,commiato lacrimoso de la primavera,su i gelsi e su gli olmi e su le vitie su i pini dai novelli rosei diti

509

che giocano con l'aura che si perde,e su 'l grano che non è biondo ancórae non è verde,e su 'l fieno che già patì la falcee trascolora,e su gli olivi, su i fratelli oliviche fan di santità pallidi i clivie sorridenti.

Laudata sii per le tue vesti aulenti,o Sera, e pel cinto che ti cinge come il salceil fien che odora!

Io ti dirò verso quali reamid'amor ci chiami il fiume, le cui fontieterne e l'ombra de gli antichi ramiparlano nel mistero sacro dei monti;e ti dirò per qual segretole colline su i limpidi orizzontis'incùrvino come labbra che un divietochiuda, e perché la volontà di direle faccia belleoltre ogni uman desiree nel silenzio lor sempre novelleconsolatrici, sì che pareche ogni sera l'anima le possa amared'amor più forte.

Laudata sii per la tua pura morteo Sera, e per l'attesa che in te fa palpitare

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le prime stelle!

L'ulivo

Laudato sia l'ulivo nel mattino!Una ghirlanda semplice, una biancatunica, una preghiera armoniosaa noi son festa.

Chiaro leggero è l'arbore nell'ariaE perché l'imo cor la sua bellezzaci tocchi, tu non sai, noi non sappiamo,non sa l'ulivo.

Esili foglie, magri rami, cavotronco, distorte barbe, piccol frutto,ecco, e un nume ineffabile risplendenel suo pallore!

O sorella, comandano gli Ellèniquando piantar vuolsi l'ulivo, o côrre,che 'l facciano i fanciulli della terravergini e mondi,

imperocché la castitate siaprelata di quell'arbore palladioe assai gli noccia mano impura e tristoalito il perda.

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Tu nel tuo sonno hai valicato l'acquelustrali, inceduto hai su l'asfodelosenza piegarlo; e degna al casto ulivoora t'appressi.

Biancovestita come la Vittoria,alto raccolta intorno al capo il crine,premendo con piede àlacre la gleba,a lui t'appressi.

L'aura move la tunica fluenteche numerosa ferve, come schiumesu la marina cui l'ulivo arridesenza vederla.

Nuda le braccia come la Vittoria,sul flessibile sandalo ti levia giugnere il men folto ramoscelloper la ghirlanda.

Tenue serto a noi, di poca fronda,è bastevole: tal che d'alcun pesonon gravi i bei pensieri mattutinie d'alcuna ombra.

O dolce Luce, gioventù dell'aria,giustizia incorruttibile, divinanudità delle cose, o Animatrice,in noi discendi!

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Tocca l'anima nostra come tocchiil casto ulivo in tutte le sue foglie;e non sia parte in lei che tu non veda,Onniveggente!

La spica

Laudata sia la spica nel meriggio!Ella s'inclina al Sole che la cuoce,verso la terra onde umida erba nacque;s'inclina e più s'inclinerà domaneverso la terra ove sarà colcatacol gioglio ch'è il malvagio suo fratello,con la vena selvaggiacol cìano cilestrocol papavero ardentecui l'uom non seminò, in un mannello.

È di tal purità che pare immune,sol nata perché l'occhio uman la miri;di sì bella ordinanza che par forte.Le sue granella sono ripartitecon la bella ordinanza che c'insegnail velo della nostra madre Vesta.Tre son per banda alterne;minore è il granel medio;ciascuno ha la sua pula;

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d'una squammetta nasce la sua resta.

Matura anco non è. Verde è la restadove ha il suo nascimento dalla squamma,però tutt'oro ha la pungente cima.E verdi lembi ha la già secca spogliaove il granello a poco a poco induraed assume il color della focaia.E verdeggia il fistucodi pallido verdorema la stìpula è bionda.S'odon le bestie rassodare l'aia.

Dice il veglio: «Nè luoghi maremmanigià gli uomini cominciano segare.E in alcuna contrada hanno abbicato.Tu non comincerai, se tu non vedatutto il popolo eguale della messeegualmente risplender di rossore».E la spica s'arrossa.Brilla il fil della falce,negreggia il rimanente,di stoppia incenerita è il suo colore.

E prima la sudata mano e poiil ferro sentirà nel suo fistucola spica; e in lei saran le sue granella,in lei sarà la candida farinache la pasta farà molto tegnentee farà pane che molto ricresce.

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Ma la vena selvaggiama il cìano cilestroma il papavero ardentecon lei cadranno, ahi, vani su le secce.

E la vena pilosa, or quasi bianca,è tutta lume e levità di grazia;e il cìano rassembra santamentegli occhi cesii di Palla madre nostra;e il papavero è come il giovenilesangue che per ispada spiccia forte;e tutti sono bellibelli sono e felicie nel giorno innocenti;e l'uom non si dorrà di loro sorte.

E saranno calpesti e della dolcesuora, che tanto amarono vicina,che sonar per le reste quasi esiguacìtara al vento udirono, disgiunti;e sparsi moriran senza compiantoperché non danno il pane che nutrica.Ma la vena selvaggiae il cìano cilestroe il papavero ardentelaudati sien da noi come la spica!

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L'opere e i giorni

O sposo della Terra venerando,è bello a sera noverare l'opredella dimane e misurar nel cuoremeditabondo la durabil forza.Veglio, la tua parola su me piovecandida come il fior del melo allorache già comincia ad allegare il frutto.Parlami, e dimmi quali sieno l'opre.«Di questo mese m'apparecchio l'aia.La mondo e sarchiellata lievementela concio con la pula e con la morchiasicché difenda la biada da topie da formiche e d'altra gente infesta.E poi la piano con la pietra tonda,o con legno; o pur suvvi spargo l'acquae suvvi metto le mie bestie, e beneco' piedi lor la faccio rassodare;e poi si secca al sole» il veglio dice.E sta su la sua soglia rinnovatadi quella pietra ch'è detta serena(nasce del Monte Céceri in gran copia)schietta pietra, pendente nell'azzurroalquanto, di color d'acqua piovanaove cotta la foglia sia del glastro.E dietro la sua faccia, che la grandeetade arò con invisibil vomeresì che raggia di curvi e retti solchiqual iugero già pronto alla sementa,

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sale su per lo stipite di pietrail bianco gelsomin grato alle pecchie,eguale di candore al crin canuto.«Di questo mese nel solstizio, quandoil Sol non puote più salire, seminole brasche; le qua' poi di mezzo agostotrapiantar mi bisogna in luogo irriguo.E la bietola e l'appio e il coriandroe la lattuga semino, ed innacquo.Colgo la veccia, e sego per pasturail fien greco. La fava anzi la lucevello, scemante la luna; la fava,anzi che compia lo scemar la luna,batto; e refrigerata la ripongo.Di questo mese inocchio il pesco, impiastroil fico, vòto l'arnia, il condottieroeleggo nel gomitolo dell'api.E prossima si fa la mietituradell'orzo, la qual compiere mi giovaanzi che mi comincino a cascarele spighe, imperocché non son vestitesue granella di foglie, come il grano.Da giovine sei moggia il dì poteisegarne!» sorridendo il veglio dice.Ancora armata è la gengiva, saldanel suo sorriso e nella sua favella.E non pur gli vacillano i ginocchi,se ben la falce nell'oprare gli abbiaa simiglianza del suo ferro istessocurve le gambe. E sopra il santo petto

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il lin rude, che l'indaco fe' quasiceleste, crea misteriosamentel'imagine di Pan duce degli astri,cui nel torace si rispecchia il Cielo.

L'aedo senza lira

Meco ragiona il vegliod'una spezie di pomi.E dice: «Nasce in arboredi mezzana statura, e fior bianchetto.La dolcezza del fruttoè mista con asprezza.Non ricusa qualunque terra. I luoghiallegri ama bensì, dolce temperie.Dilettasi del mare.Il vento e il gelo teme.Innestar non si puote.Piccola etade dura.Serbansi i pomi in orci unti di pece.Anco serbansi in cavedell'oppio arbore; ovver tra la vinacciain pentole, assai bene e lungamente».Così ragiona il veglio; ed in sue lenteparole il cor si spaziacome in un canto aonio.Risplende un'antichissima virtude,come nel prisco aedo

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che canta un fato illustre,o Terra, nel tuo bianco testimonio.Il soffio del suo pettopaterno è come la bontà dell'ariache fa buona ogni cosa.La vita fruttuosadell'arbore s'agguagliaalle sorti magnifiche dei regni.Ei parla, e tra due legnitesse la chiara pagliacome l'aedo tende le sue corde,create co' minugi degli agnelli,tra i bracci della lira.Vento asolando, spiraodor di meliloto il miel dall'ombra,colato nei mondissimi vaselliove la man spremette i fiali pregni.Ei ragiona e travaglia;e il flavescente culmo non si spezza.A quando a quando miracome chi attenda segni.Ode sciame che romba.Ei parla di battagliache han l'api in loro ostelliper signorie lor nuove.Gli luce nella barba e ne' capellialcun filo di pagliache il suo parlar commuove.Al sole oro non è che tanto luca.Appesa alla sua bocca che s'immézza,

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presso l'aroma della sua saggezza,l'anima nostra è come la festuca.

Beatitudine

«Color di perla quasi informa, qualeconviene a donna aver, non fuor misura».Non è, Dante, tua donna che in figuradella rorida Sera a noi discende?

Non è non è dal ciel Beatricediscesa in terra a noibagnata il viso di pianto d'amore?Ella col lacrimar degli occhi suoitocca tutte le spichea una a una e cangia lor colore.Stanno come personeinginocchiate elle dinanzi a lei,a capo chino, umìli; e par si beiciascuna del martiro che l'attende.

Vince il silenzio i movimenti umani.Nell'aerea chiostradei poggi l'Arno pallido s'inciela.Ascosa la Città di sé non mostrase non due steli alzati,torre d'imperio e torre di preghiera,a noi dolce com'era

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al cittadin suo prima dell'esiglioquand'ei tenendo nella mano un gigliochinava il viso tra le rosse bende.

Color di perla per ovunque spaziae il ciel tanto è vicinoche ogni pensier vi nasce come un'ala.La terra sciolta s'è nell'infinitosorriso che la sazia,e da noi lentamente s'allontanamentre l'Angelo chiamae dice: «Sire, nel mondo si vedemeraviglia nell'atto, che procededa un'anima, che fin quassù risplende».

Furit aestus

Un falco stride nel color di perla:tutto il cielo si squarcia come un velo.O brivido su i mari taciturni,o soffio, indizio del sùbito nembo!O sangue mio come i mari d'estate!La forza annoda tutte le radici:sotto la terra sta, nascosta e immensa.La pietra brilla più d'ogni altra inerzia.

La luce copre abissi di silenzio,simile ad occhio immobile che celi

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moltitudini folli di desiri.L'Ignoto viene a me, l'Ignoto attendo!Quel che mi fu da presso, ecco, è lontano.Quel che vivo mi parve, ecco, ora è spento.T'amo, o tagliente pietra che su l'ertabrilli pronta a ferire il nudo piede.

Mia dira sete, tu mi sei più carache tutte le dolci acque dei ruscelli.Abita nella mia selvaggia pacela febbre come dentro le paludi.Pieno di grida è il riposato petto.L'ora è giunta, o mia Mèsse, l'ora è giunta!Terribile nel cuore del meriggiopesa, o Mèsse, la tua maturità.

Ditirambo IRomae frugiferae dic.

Ove sono i cavalli del Solecriniti di furia e di fiamma?le code prolisseannodate con listedi porpora, l'ugneadorne di lampisu l'aride ariste?Ove l'aie come circhile trebbie come pugne,

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come atleti la rustica prole?Ove sono i cavalli del Soledisgiunti dal carro celeste?Ove le sferze sonanti,le rèdine lunghe sbandite,il tinnir dei metalli,il brillar delle madide groppe?Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?Ove la femmina bellacoperta di loppe e di restecome d'ori e di gemme?Ove gli scherni, le risse,le nude coltella,il sangue che fuma e che bolle,il giovine ucciso che cadenelle sue biadeasperse del suo ricco sanguee del vin suo vermiglio?Ove il tuo nume, o Dionìso,e il tuo riso e il tuo furoree il tuo periglio?

Qui scarsa mèsseper piccole vite,aia angusta, fatica molle,mani prudenti, fievoli gole.O Maremme, o Maremme,bellezza immitenata dalla Febbre e dal Sole,o regni diurni di Dite,

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voi l'anima mia sogna!O Roma, o Roma, la primadavanti alla faccia del Sole,incombustibile forza,semenza di gloria,unica nata dal solcodel violentoardua spica opima,te l'anima mia sogna ed agognain un mar di frumento,dal Cimino solitarioai vitiferi colli dei Volsci,fino a Minturno ov'erranel limo l'ombra di Mario,fino a Sinuessaebra di Massico forte,fino alle auree portedella Campania promessa,in un mar di frumentoinnumerevolecome le trionfate stirpidalla tua guerra!

O arce della Terra,nel dipartirmida te, al cospetto dell'Agroebbi presagio cruentoche m'infiammò d'amorepiù novo e gagliardoper tutte le tue are

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e per tutte le tue tombe.Vidi campo di rossipapaveri vasto al mio sguardocome letto di strage,come flutto ancor caldosgorgato da una ecatombe.Non mai più fervente rossoreveduto avean gli occhi miei grandi,e tutta la mia vita tremavadalle radicicome s'io mi svenassisul sacro tuo suolocon vene giganti.E l'anima, che si dipartiva,impetuosamenteverso di te si rivolse, incesada dolor roventech'ella udì stridere cometizzo in piaga viva;e tutta verso di te protesaera, gridando il tuo nomeal fulgor vermiglio,dal carro strepitosoche la traeva in esiglio.E intollerabile maletra tutti i suoi malia lei parve la sua dipartita;sentì la sua vitaspoglia d'ogni forza e senz'ali,pallida e senza riposo

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piegata su l'acre ferita,ahi, mirò sé stessa lontana.

O Toscana, o Toscana,dolce tu sei ne' tuoi ortiche lo spino ti chiudee il cipresso ti guarda;dolce sei nelle tue collineche il ruscello ti rigae l'ulivo t'inghirlanda.E una dura virtudecerto nelle tue torri commisee murò per la guerra civilele pietre forti;e carca di grandi mortitu sei ne' tuoi sculti sepolcri,o Fiorenza, o Fiorenza,giglio di potenza,virgulto primaverile;e certo non è grazia alcunache vinca tua grazia d'aprilequando la valle è una cunadi fiori di sogni e di paceove Simonetta si giace.Ma cuna dell'anima miaè il solco del carro stridentenella pietra dell'Appia via.A piè del Celio infrequente,sotto la Porta Capenagemere udì l'Acqua Marcia

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che abbevera l'Urbe affocata.Si mosse di là fra le tombee i lauri, fra la Morte che guatae la Gloria che perde le frondi,ai colli d'Alba giocondi.Lasciò dietro sé le molli ombre;più non vide la lunga catenarosseggiar degli acquedutti;non vide la fresca Preneste;sdegnò di Tuscolo i frutti,d'Aricia la selva serena;s'affrettò alla spiaggia tirrenaove dura ferventela bava delle tempeste,alle reggie di Circe funesteove urtò d'Odisseo la carena.Anelante al deserto di luceove fuma vapor che avvelenae rapisce gli spirti errabondi,scoperse la candida rupeonde Anxur pendentenella truce canicola incombeallo stagno mortifero e al Mare.

Appia via, cammino solareincontro all'Austro rapido-ardente,Appia via, dalla Porta Capenacui la recondita venageme l'assidua stilla,ove condurrai tu la mia

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anima impazienteche d'avidità risfavilla?Non qui la mia messe è mietuta.A mietere l'alta mia mèssemille falci indefessetravagliarono solco per solco,dall'aurora al tramonto,per nove auroree per nove tramonti,in terra sconosciuta.E s'udiva in ogni meriggiovenir dagli orizzontiinfiammati la vocee il tuono di Pan sopra a noi.E ululava la torma feroce:«O Pan, aiuta, aiuta!»E per la stoppia i buoicandidi, aggiogati ai plaustricontra le biche manomesse,mugghiavano di spavento.O Pan, dammi il mio frumento,dammi l'oro della mia mèsseaustrale e la furia degli Austrilibici e la furia dei cavallidall'ugne adorne di lampi!Non qui non qui ebbi i miei campi,non qui ebbi i miei plaustri,ma nel grande Lazio tirreno,fino a Minturno,fino a Sinuessa,

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nella terra ebra di Massiconella terra ebra di Cècubo,a Fondi lacustre,ad Amicle marina,ad Ardea danaèiaov'arde il sangue di Turno,e su la curva spiaggia nomatadalla nutrice eneia,di qua dal rapace Volturno,e presso lo stagno taciturnopingue di calami e d'ulveove il Latino il lauro vigetra le spiche fatte più fulve,e ad Anzio amor del piratae della Fortuna crudelie del crudele Imperatore,e a Ostia, nella sacra boccadel Tevere irta di proregonfia di veleingombra de' lunghi granai.

Ovunque falciai e trebbiainel grande Lazio tirreno,alle porte dell'Urbe e al confineestremo, fra il Tevere e il Liri,in ogni più fertile plaga.Ma a te vanno i miei sospiri,a te, ombra del Monte Circèoletifera come il velenoe il carme dell'avida maga

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che tenne l'insonnepiloto re d'Itaca Odisseonel letto dall'alte colonne.Quivi ancor regna nel Montel'Iddia callida, figlia del Sole;e spia dal palagio rupestro,tra sue stellate panteree sue tazze attoscate di suchi.Gemon prigioni i suoi drudi,bestiame del suo piacere,cui ella tocca la frontecon verga e susurra parole.E i suoi pastori astati, proledell'Evia e del Centaurogenerata nell'ora dell'estro,di bronzea pelle, di pel sauro,prole furibonda,quivi sotto gettano raucoululo su la paludee pungono il negro armentodalle code nude,i bufali, irosi mostriprofondati nel lutulentopascolo che s'inselva di corna.E, quando aggiorna,tutta la palude ansa e soffiaper le froge e per le fauci emerse,occhiuta di mille occhi torvi;e l'acqua putre gorgogliae bulica occlusa dall'erbe

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cui sradica il piè bisulco,mentre nube di corvisinistra offusca e assorda l'ariaove passa in silenzio mortalela Febbre velata di nebbia.

Quivi io farò la mia trebbia,quivi batterò la mia mèssein un'area vastacome campo per oste schierata.Ove sono i cavalli del Solecriniti di furia e di fiamma?le code prolisseannodate con listedi porpora, l'ugneadorne di lampisu l'aride ariste?Ove le sferze sonanti,le rèdine lunghe sbandite,il tinnir dei metalli,il brillar delle madide groppe?Ove gli urli, ove i canti, ove i balli?

Ecco, al tripudio, ecco i cavalli!Chi li conduce?Ecco le sferze, ecco i crotali,i cimbali cavi-sonoriche vince il rombo dei cuori,le femmine scalze-succinteebre di luce,

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i giovini possa-di-toriebri di strepito.Ecco il fiore del sangue latino.Ecco gli otri gonfi di vino.Ecco la sapa dolce a mescere.Ecco l'arido pane che asseta.Ecco la tazza di creta,foggia antica e ne' secoli bella,ampia come bucranio,rosea come mammella.Ecco tutto il tripudio!Versate i manipolisul suol vulcanio,versate dal plaustroaccline i manipolicome da cornucopia.Tutta la terra è roggiapiù che sinopiaagli occhi torbidi.Il vento turbina,suscita polvere in vortici.Versano i plaustrinell'aia l'oro stridulo.L'oro s'accumula.Dispare il suolo igneosotto la congerieinnumerevole.Sola una bica, solo un aureomonte è la grande area.Tutto il Lazio è una stoppia

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che arde e solvesi in cenereda Sinuessa massicafino a Roma romùlea.Sola una bica, solo un aureomonte è la grande area;e i cavalli l'ascendono.Scalpita, scalpita!O Roma, questo è il monte di Cereremadre di Prosèrpina,questo è il monte della Magna Madreche navigò pel Tevere.I cavalli terribilierti su l'unghia solidal'ascendono, l'assaltano.Scalpita, scalpita!Crollano i manipolisotto l'urto, si spezzanoi culmi, si sgrananole spiche, le ariste stridono,le loppe volano.Scalpita, scalpita!Le sferze schioccano,per l'aere guizzanocome le folgori.Come le gómenedella nave in pericolosotto la ràffica,si tendono le rèdine.Gli umani polsi battono,tremano i muscoli,

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si gonfiano le arterie.chi osa reggerela forza degli Alipedi?Balzano, s'impennanole fiere, vèrberanol'aere, col ferro quadruplicei cumuli dirompono.Le code intonse inarcansi,le criniere svèntolanocome vessilli vividi,le nari spiranofiamma, gli occhi si riganodi sangue, i fianchi pulsano,le vene si palesano,per l'ampie groppe rivolidi sudore fluiscono,nella schiuma dei difficilifreni brilla l'iride.Scalpita, scalpita!Tutto il fuoco dell'animaferina esalasinell'impeto e nell'ànsitopar circonfonderegli acri corpi madidi,sul sudor fremerecome un'ala invisibile.Svegliasi nei rapidicuori l'anelito di Pègasoverso il cammin sidereo?Scalpita, scalpita!

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Il vento turbina,agita in nugolivani le spoglie spìcee.Tutto l'aere è volatileoro, per ove le candidee negre e sauree maculate groppe splendono,per ove passanoi gridi rauchi,gli schiocchi, i sibili,l'urto dei crotali,il tintinnìo dei cimbali,il mugghio delle bufale,il riso delle femmineumane che Libero èccita.

Ma il cielo dilatasimuto e solenne sul tripudio;lungi si tace il Mare Inferoove il figlio di Veneredall'alta prora iliacagridò: «Italia! Italia!»E l'ombra del re d'Itaca,l'ombra dell'antico nautaesperto degli uomini e dei pelaghi,guata dalla magicarupe se il Fato ferreolui anco chiami a vincereun più grande pericolo.O Forza, o Abondanza, o Vittoria,

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voi all'opera terrestre auspicisiete e testimonii!Tutto di voi s'illuminail grande Lazio. In purpureolume il giorno cangiasi.Il vento chiude i suoi turbini.L'aere la terra pènetra.Par nelle cose nascereuna vita indicibile,però che i prischi numi italici,subitamente reducidall'ombra delle Origini,nella gleba rivivano,nell'acqua nell'erba nella silice,e laggiù, entro la reggiadel re Latino figliodi Marica e di Fauno,rinverdiscasi il Lauroche fu sacro ad ApollineFebo pria che il vedovodi Creusa da Iliovenisse per congiugnersicon Lavinia vergine fertile.O prodigio! O metamorfosi!Su la grande area,quadrata come la saturniaUrbe nel nascere,la calpesta messe al par d'occiduanuvola s'imporpora.Scalpita, scalpita!

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E i cavalli son roseisplendenti, come se nell'intimosangue una sùbitaaurora accendasie per i fumidifianchi trasparir veggasi.S'ergono e di roseofuoco il petto e il ventre splendono,ove s'intrecciano le tumidevene come d'ederaintrichi per iperborei còrtici.Fiammei spiritidalle narici esalano.Scalpita, scalpita!Or senton gli uominiche un divin numeromodera l'impetodei solidunguli.O prodigio! O metamorfosi!Ecco, le ali titanie,le solari penne, le luciferepiume, infaticabiliflagelli dell'Eterediurno, ateficidella rapidità precìpite,cui le trame dei muscolicontro le dure scapuleparean constringere,ecco, ecco, si liberanosi spiegano s'allargano.

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Nell'oro e nella porporaaperte palpitanole ali, le ali apollinee.Il vento ch'elle muovonosolleva il cuor degli uominicome un peàn che càntinoper sacri intercolumniicetere a miriadi.Io Peàn! Io Peàn! Gloriaal Maestro dell'Opere,allo Specchio degli Uomini,al Titan dalla rutila chioma,al Re delle alate parole,al Duce dei cori eliconii!O Forza, Abondanza, Vittoria,e tu, Genio che mai non si doma,voi siatemi qui testimonii.Calpestano i cavalli del Soleil rinato frumento di Roma.

Pace

Pace, pace! La bella Simonettaadorna del fugace emerocàllidevagola senza scorta per le pallideripe cantando nova ballatetta.

Le colline s'incurvano leggiere

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come le onde del vento nella sabbiadel mare e non fanno ombra, quasi d'aria.L'Arno favella con la bianca ghiaia,recando alle Nereidi tirreneil vel che vi bagnò forse la Grazia,forse il velo onde fasciala Grazia questa terra di Toscanaescita della casalinga lanache fu l'arte sua prima.Pace, pace! Richiama la tua rimanel cor tuo come l'ape nel tuo bugno.Odi tenzon che in su l'estremo giugnoha la cicala con la lodoletta!

La tenzone

O Marina di Pisa, quando folgorail solleone!Le lodolette cantan su le pratoradi San Rossoree le cicale cantano su i platanid'Arno a tenzone.

Come l'Estate porta l'oro in bocca,l'Arno porta il silenzio alla sua foce.Tutto il mattino per la dolce landaquinci è un cantare e quindi altro cantare;tace l'acqua tra l'una e l'altra voce.

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E l'Estate or si china da una bandaor dall'altra si piega ad ascoltare.È lento il fiume, il naviglio è veloce.La riva è pura come una ghirlanda.Tu ridi tuttavia co' raggi in bocca,come l'Estate a me, come l'Estate!Sopra di noi sono le vele bianchesopra di noi le vele immacolate.Il vento che le toccatocca anche le tue pàlpebre un po' stanche,tocca anche le tue vene delicate;e un divino sopor ti persuade,fresco ne' cigli tuoi come rugiadein erbe all'albeggiare.S'inazzurra il tuo sangue come il mare.L'anima tua di pace s'inghirlanda.L'Arno porta il silenzio alla sua focecome l'Estate porta l'oro in bocca.Stormi d'augelli varcano la foce,poi tutte l'ali bagnano nel mare!Ogni passato mal nell'oblìo cade.S'estingue ogni desìo vano e feroce.Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce;quello che mi toccò, più non mi tocca.È paga nel mio cuore ogni dimanda,come l'acqua tra l'una e l'altra voce.Così discendo al mare;così veleggio. E per la dolce landaquinci è un cantare e quindi altro cantare.

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Le lodolette cantan su le pratoradi San Rossoree le cicale cantano su i platanid'Arno a tenzone.

Bocca d'Arno

Bocca di donna mai mi fu di tantasoavità nell'amorosa via(se non la tua, se non la tua, presente)come la bocca pallida e silentedel fiumicel che nasce in Falterona.Qual donna s'abbandona(se non tu, se non tu) sì dolcementecome questa placata correntìa?Ella non canta,e pur fluisce quasi melodìaall'amarezza.

Qual sia la sua bellezzaio non so dire,come colui che odesuoni dormendo e virtudi ignoteentran nel suo dormire.

Le saltano all'incontro i verdi flutti,schiumanti di baldanza,con la grazia dei giovini animali.In catena di putti

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non mise tanta gioia Donatello,fervendo il marmo sotto lo scalpello,quando ornava le bianche cattedrali.Sotto ghirlande di fiori e di fruttisvolgeasi intorno ai pergami la danzainfantile, ma non sì fiera danzacome quest'una.

V'è creatura alcunache in tanta graziaviva ed in sì perfettagioia, se non quella lodolettache in aere si spazia?

Forse l'anima mia, quando profondasé nel suo canto e vede la sua gloria;forse l'anima tua, quando profondasé nell'amore e perde la memoriadegli inganni fugaci in che s'illuseed anela con me l'alta vittoria.Forse conosceremo noi la pienafelicità dell'ondalibera e delle forti ali dischiusee dell'inno selvaggio che si frena.

Adora e attendi!Adora, adora, e attendi!Vedi? I tuoi piedinudi lascian vestigidi luce, ed a' tuoi occhi prodigisorgon dall'acque. Vedi?

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Grandi calici sorgono dall'acque,di non so qual leggiere oro intessuti.Le nubi i monti i boschi i lidi l'acquetrasparire per le corolle immanivedi, lontani e vanicome in sogno paesi sconosciuti.Farfalle d'oro come le tue manivolando a coppia scoprono su l'acquecon meraviglia i fiori grandi e strani,mentre tu fiutil'odor salino.

Fa un suo gioco divinol'Ora solare,mutevole e giocondacome la gola d'una colombaalzata per cantare.

Sono le reti pensili. Talunependon come bilance dalle antennecui sostengono i ponti alti e protesiove l'uom veglia a volgere la fune;altre pendono a prua dei palischermitrascorrendo il perennespecchio che le rifrange; e quando il solebatte a poppa i navigli, stando fermii remi, un gran fulgor le trasfigura:grandi calici sorgono dall'acque,gigli di foco.

Fa un suo divino giocola giovine Ora

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che è breve come il cantodella colomba. Godi l'incanto,anima nostra, e adora!

Intra du' Arni

Ecco l'isola di Progneove sorridiai grididella rondine traceche per le molli creteripetele antiche rampogneal re fallace,e senza pace,appena aggiorna,va e tornavigile all'opranidace,né si posa né si tacese non si coprad'ombra la rivieraa seracirca l'isola leggieradi canne e di crete,che all'auletedà flauti,alla migrante nidi

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e, se sorridi, lautigiacigli all'amor folle.Ecco l'isola molle.Ecco l'isola molleintra dù Arni,cuna di carmi,ove cantano l'Estatele canne virentiai vèntiin varii modi,non odi?,quasi di nodiprive e di midolle,quasi inspirateda volubili bocchee toccheda dita sapienti,quasi con arte elettee giunte insiemea schiera,su l'esempio divino,con linoattorto e con cerasapida di miele,a sette a sette,quasi perfettesampogne.Ecco l'isola di Progne.

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La pioggia nel pineto

Taci. Su le sogliedel bosco non odoparole che diciumane; ma odoparole più nuoveche parlano gocciole e foglielontane.Ascolta. Piovedalle nuvole sparse.Piove su le tamericisalmastre ed arse,piove su i piniscagliosi ed irti,piove su i mirtidivini,su le ginestre fulgentidi fiori accolti,su i ginepri foltidi coccole aulenti,piove su i nostri voltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l'anima schiude

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novella,su la favola bellache ierit'illuse, che oggi m'illude,o Ermione.

Odi? La pioggia cadesu la solitariaverduracon un crepitìo che durae varia nell'ariasecondo le frondepiù rade, men rade.Ascolta. Rispondeal pianto il cantodelle cicaleche il pianto australenon impaura,né il ciel cinerino.E il pinoha un suono, e il mirtoaltro suono, e il gineproaltro ancóra, stromentidiversisotto innumerevoli dita.E immersinoi siam nello spirtosilvestre,d'arborea vita viventi;e il tuo volto ebro

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è molle di pioggiacome una foglia,e le tue chiomeauliscono comele chiare ginestre,o creatura terrestreche hai nomeErmione.

Ascolta, ascolta. L'accordodelle aeree cicalea poco a pocopiù sordosi fa sotto il piantoche cresce;ma un canto vi si mescepiù rocoche di laggiù sale,dall'umida ombra remota.Più sordo e più fiocos'allenta, si spegne.Sola una notaancor trema, si spegne,risorge, trema, si spegne.Non s'ode voce del mare.Or s'ode su tutta la frondacrosciarel'argentea pioggiache monda,il croscio che varia

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secondo la frondapiù folta, men folta.Ascolta.La figlia dell'ariaè muta; ma la figliadel limo lontana,la rana,canta nell'ombra più fonda,chi sa dove, chi sa dove!E piove su le tue ciglia,Ermione.

Piove su le tue ciglia neresì che par tu piangama di piacere; non biancama quasi fatta virente,par da scorza tu esca.E tutta la vita è in noi frescaaulente,il cuor nel petto è come pescaintatta,tra le pàlpebre gli occhison come polle tra l'erbe,i denti negli alvèolicon come mandorle acerbe.E andiam di fratta in fratta,or congiunti or disciolti(e il verde vigor rudeci allaccia i mallèolic'intrica i ginocchi)

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chi sa dove, chi sa dove!E piove su i nostri vóltisilvani,piove su le nostre maniignude,su i nostri vestimentileggieri,su i freschi pensieriche l'anima schiudenovella,su la favola bellache ierim'illuse, che oggi t'illude,o Ermione.

Le stirpi canore

I miei carmi son proledelle foreste,altri dell'onde,altri delle arene,altri del Sole,altri del vento Argeste.Le mie parolesono profondecome la radiciterrene,altre serene

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come i firmamenti,fervide come le venedegli adolescenti,ispide come i dumi,confuse come i fumiconfusi,nette come i cristallidel monte,tremule come le frondedel pioppo,tumide come la naricidei cavallia galoppo,labili come i profumidiffusi,vergini come i caliciappena schiusi,notturne come le rugiadedei cieli,funebri come gli asfodelidell'Ade,pieghevoli come i salicidello stagno,tenui come i teliche fra due stelitesse il ragno.

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Il nome

Donna, ebbe il tuo nomeuna città muratadella pulverulentaArgolide. E quivi era,dicesi, un sentier breveper discendere all'Adeavaro, alle tenariefauci; sì che i natìinon ponean nella boccadei loro morti il prezzodel tragitto infernale,l'obolo tenebrosopel nocchier dello Stige.Ed ebbe anco il tuo nomela figlia della grandeElena, il fior di Spartabianco, il sangue di Ledasplendido come l'oro,la nata di coleiche brillò su la terracome un'altra Stagione,delizia innumerevole,face e specchio di Venere,piaga del combattente.Ermione, Ermionedalla voce sorgevolee talora virentequasi tra capelvenere

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acqua ombrosa, dagli occhinutriti di bellezzae di frescura, natigemelli della Graziae del Sogno, Ermionecara all'aedo, espertain tesser la ghirlandae la lode pel fertileaedo che ti saziadi melodia selvaggia,il tuo nome mi piacetuttavia come un grappolo,come quel flauto rocoche a sera è nel cespuglio,mi piace come un grappolod'uva nera il tuo nome,come il fiore del crocoe la pioggia di luglio.

Innanzi l'alba

Coglierai sul nudo lito,infinitodi notturna melodìa,il maritimo narcissoper le tue nuove corone,tramontando nell'abissole Vergilie,

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le sorelle oceanineche ancor piangono per Ialacerato dal leone.

Andrem pel lito silenti;sentiremo la rugiadalene e purapiovere dagli occhi lentidella notte moritura,tramontando nel pallorele Vergilie,le sorelle oceanineminacciate dalla spadadel feroce cacciatore.

Forse volgerò la facciain dietro talvolta io soloper vedere la tua traccialuminosa,e starem muti in ascolto,tramontando in tema e in duolole Vergilie,le sorelle oceaninea cui l'Alba asciuga il voltocol suo bianco vel di sposa.

Vergilia anceps

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Nella pupilla tua,nel discodell'occhio aurinola prua,l'acuta pruadel navil prisco,come nella medagliadella Tessagliarisplende,come nelle stupendemonete del poteremarino,come nello statèredel porto liciodal pirata fenicionominato Fasèla.Alla vela! alla vela!

E nell'altra pupillascintillail grano a fiammacome nel tetradrammadi Leontinisul fiume Lissoubertà di Siciliadai fromenti divini.E, s'io m'affissoin te, la duplice arteil cor mi parte.O duro suol discisso!

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Lungo solco navale!E in una e in altra partela mia virtù si esilia,o mia Vergilianautica e cereale.

I tributarii

Questa è la bella foceche oggi ha il color del miele,sì lene che l'Amorete l'accosta alle labbracome una tazza colma.Lodata io l'ho con arte.Ma quante acque in quest'acqua,ma quante acque correnti,quanta forza rapace,o Fluviale, in questa tarda pace!

E non è dato a noivotar la colma tazza,distinguerne i sapori.Chi loderà l'Ombronecui Lorenzo già viderompere dallo specodietro le trecce d'Ambra?Ancóra ei grida all'Arno:«In te mia speme è sola.

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Soccorri presto, ché la ninfa vola».

Chi loderà il Bisenziosì caro a quell'anticofavolatore ornatoche lodò la bellezzadella donna perfetta?E chi la Pescia e l'Era?E chi la Pesa e l'Elsa?Chi la Greve e la Sieve?e i rivi freddi e mollidel Casentino giù pe' verdi colli?

Strepiti freschi in sassipoliti, argille chiare,argini d'erba, filedi pioppi alti, vivaidi salci giovinetti,cupe conche pescose,ombre che il quadrel d'orofiede, ambigui meandri,or chi di voi si godee tempra nel cor suo la vostra lode?

Questa è la foce; e quantopaese l'acqua corre,che non godiamo immoti!Le valli sono cavecome la man che beve,i monti gonfii come

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mammella non premuta.Il gregge passa il guado.Il mulino rintrona.Solingo è un fonte nella Falterona.

Cade la sera. Nascela luna dalla Vernacruda, roseo nimbodi tal ch'effonde pacesenza parole dire.Pace hanno tutti i gioghi.Si fa più dolce il lungodorso del Pratomagnocome se blandimentod'amica man l'induca a sopor lento.

Su i pianori selvosiardon le carbonaie,solenni fuochi in vista.L'Arno luce fra i pioppi.Stormire grande, ad ognisoffio, vince il coraleploro de' flauti alatiche la gramigna asconde.E non s'ode altra voce.Dai monti l'acqua corre a questa foce.

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I camelli

Nostra spiaggia pisana,amor di nostro sangue,vita di sabbie e d'acquesilvana e litorana,o ferma creaturanella qual si compiacqueun'arte che non languenon trema e non s'offusca,terra lieve e robustache lineata paredalla mano sicuradel figulo onde nacqueil purissimo vasoche vale e non coruscané pesa, specie pura,l'orgoglio della mensae della tomba etrusca,il fiore delle formenel cielo senza occaso,or qual mai novo casofece che dall'immensaAsia o dall'Africa ustasen venisse il deformesomiero a stampar l'ormesu la tua levitàdivina e, come fail giumento crinitodal tranquillo occhio amico

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dell'uomo, a someggiarecon la sua gobba onustale spoglie dell'augustaselva tra l'Arno e il Mare?

Passano per la macchia,vanno verso la ripa,tra i mucchi di legname,tra i cumuli di stipa,i camelli gibbuti,carichi di fascinedi ramaglia e di strame,sì gravi e tristi e muti!Sotto i lor piè distortiscricchiolano le pinearide, gli aghi morti.Ròtea la mulacchianel cielo ingombro d'afa;e a quando a quando gracchia.Cola e odora la ragia.S'odono su le Lamedi Fuore le cavallenitrire a quando a quando;e più sottil nitritoe più tremulo s'oderispondere e più fresco,dei puledri novelli.Passano per la macchiagravi e tristi i camelli.Non il lor Barbaresco

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li guida ma il bifolcotoscano, con l'anticavoce che i padri suoiusarono pel solcoad incitare i buoitardi nella fatica.Vanno i callosi cuoi.

Giungono alla raduraper deporre i lor fasci.Ecco, subitamenteciascun par che s'accasciper esalare il fiato,per quivi infracidire.Si piegan su i ginocchicon un grido sommesso.Poi sbadigliano al sole.Appar la gialla chiostradei denti aspri, il palatoviolaceo. S'odesalire nelle goleserpentine e lanoseun gorgóglio intermesso.Treman le labbra mollie lacrimano i bruni occhiesanimi, gli specchiinerti dei desertie dei palmeti. Vecchisembran della vecchiezzadel Mondo questi grandi

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esuli, oppressi e affrantida tutta la stanchezzache addolora la carneviva sopra la facciadella Terra discorde.S'alzano senza il peso.Lunghe dal fianco spogliotrascinano le cordegiù per la traccia. E s'odequel lor triste gorgóglio.

Tali forse li videin lor piagge natali,e n'ebbe orrore, il buonomercatante pisanoche fu predato e trattoprigione dai corsaliin paese lontano.Volle la mala sortech'egli incappasse in unafusta di Barbareschi,che armava ventidueremi per banda, fortee veloce a saetta.E per le mani ladreperse le robe sue,la cocca a vele quadree la mercatanzia.E fu messo in ritorte.E schiavo in Barberia

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gran tempo si rimase.E macinava il granoa braccia, tratto trattoudendo il grido vanodel camello percosso,triste sino alla morte.Poi tornò, per riscatto,a Pisa, alle sue case.E fecesi un palagionovo a specchio dell'Arno.Memore del malvagioservire, ALLA GIORNATAscrisse nell'architrave.

E l'Arno era soave.

Meriggio

A mezzo il giornosul Mare etruscopallido verdicantecome il dissepoltobronzo dagli ipogei, gravala bonaccia. Non bavadi vento intornoalita. Non trema cannasu la solitariaspiaggia aspra di rusco,

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di ginepri arsi. Non suonavoce, se ascolto.Riga di vele in pannaverso Livornobiancica. Pel chiarosilenzio il Capo Corvol'isola del Faroscorgo; e più lontane,forme d'aria nell'aria,l'isole del tuo sdegno,o padre Dante,la Capraia e la Gorgona.Marmorea coronadi minaccevoli punte,le grandi Alpi Apuaneregnano il regno amaro,dal loro orgoglio assunte.

La foce è come salsostagno. Del marin colore,per mezzo alle capanne,per entro alle retiche pendono dalla crocedegli staggi, si tace.Come il bronzo sepolcralepallida verdica in pacequella che sorridea.Quasi letèa,obliviosa, eguale,segno non mostra

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di corrente, non rugad'aura. La fugadelle due rivesi chiude come in un cerchiodi canne, che circonscrivel'oblìo silente; e le cannenon han susurri. Più foschii boschi di San Rossorefan di sé cupa chiostra;ma i più lontani,verso il Gombo, verso il Serchio,son quasi azzurri.Dormono i Monti Pisanicoperti da inerticumuli di vapore.

Bonaccia, calura,per ovunque silenzio.L'Estate si maturasul mio capo come un pomoche promesso mi sia,che cogliere io debbacon la mia mano,che suggere io debbacon le mie labbra solo.Perduta è ogni tracciadell'uomo. Voce non suona,se ascolto. Ogni duoloumano m'abbandona.Non ho più nome.

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E sento che il mio vóltos'indora dell'oromeridiano,e che la mia biondabarba rilucecome la paglia marina;sento che il lido rigatocon sì delicatolavoro dell'ondae dal vento è comeil mio palato, è comeil cavo della mia manoove il tatto s'affina.

E la mia forza supinasi stampa nell'arena,diffondesi nel mare;e il fiume è la mia vena,il monte è la mia fronte,la selva è la mia pube,la nube è il mio sudore.E io sono nel fioredella stiancia, nella scagliadella pina, nella bacca,del ginepro: io son nel fuco,nella paglia marina,in ogni cosa esigua,in ogni cosa immane,nella sabbia contigua,nelle vette lontane.

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Ardo, riluco.E non ho più nome.E l'alpi e l'isole e i golfie i capi e i fari e i boschie le foci ch'io nomainon han più l'usato nomeche suona in labbra umane.Non ho più nome né sortetra gli uomini; ma il mio nomeè Meriggio. In tutto io vivotacito come la Morte.

E la mia vita è divina.

Le madri

Su le Lame di Fuore,nel salso strame,nelle brune giuncaie,nell'erbe gialle,oziano a branchile saure e baiecavalledi San Rossore.Altre su i banchidi sabbia, altre nell'acquaimmerse fino al ventre,s'ammusano; mentre

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le groppe al solerilucono, chiare, scure,d'oro, di rame.Su le Lame, cui adduceanatre il verno,oziano nella lucepura le feconde,coi gravidi fianchiimmote in una massaplacida. Solesu l'acqua bassale lunghe codecon moto eternoondeggiano. S'odea quando a quandofremito delle frogeumide, sbuffareansare leggero,tremulo nitrito,nella foce silente;cui dal lito rispondefievole risucchiodel mare. Talunaesce del mucchio, annusal'acqua, s'abbevera lenta;poi guata verso il montesu cui s'adunafumoso il nembo;poi si rivolge e ammusa.E ondeggiano le code

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lente sul riposodella mandra ferace.Teco, o Luce pura,teco attendono in pacela geniturale Madri.

Lunge per l'aria chiaraappar grande e soavecerula e biancal'Alpe di Carrara,cerula d'ombrebianca di cave.Ma ingombre del mutonembo che si preparason le cime ov'hannocon l'aquile nidole folgori corusche.Odor di lunge acuto,dalle pineteverdi e fulve, nelle baverare del vento giungealla quiete.Ed ecco una nave,ecco le vele etruschepartitesi dal litodi Luni lunatoe niveo di marmi.Ecco una nave in vistatra il Serchio e il Gombo.

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È carica di marmi,è carica di sognidormenti nel profondocandore ignoti e soli.E il mio spirito evòcail tuo folle Evangelista,o Buonarroti,il figlio della Terrae del Genio che l'affoca;vede la gran personache si torce nell'angosciadel masso che lo serra,onde si sprigiona a guerral'aspro ginocchio, e la cosciad'osso e di muscoli enorme.Nella carena dormel'incarco fecondodi forme,tratto dall'erme cave,rapito al grembo dell'Alpe.Nel grembo della navedormono le bianche moli.Attendon dai sogni solila geniturale Madri.

Albàsia

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O mattin nuzialetra il Mar pisanoe l'Alpe lunense!O nozze immensee brevi!La nube formosadisposail monte che a lei sale,l'ombra d'entrambi il piano,la dolce acqua il sale,la canna il tralcio,il salciola florida stiancia,l'argano la bilanciasu la foce pescosa,la mia rima il mio giòlito,l'algosaarena i tuoi piè lievi,o Ermione.

E il cielo è nivalecome su la tua guanciaondata il veloinsolito.Il mare è d'opalecon vene di crisòlito,come i mari dell'Asia,immoto alboredi gemme fuse.Brillano le meduse

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a fioredell'immerso banco.E tutto è bianco,presso e lontano.È grande albàsiada lido a lido,come allor che fa il nidosul Mar sicanola sposa Alcyone.

L'Alpe sublime

Svégliati, Ermione,sorgi dal tuo letto d'ulva,o donna dei liti.Mira spettacolo novo,gli Iddii apparitisu l'Alpe di Lunisublime!Occidue nubi, coronecaduche su cimeeterne.Ma par che s'aduniconcilio di numigrande e solennetra il Sagro e il Giovo,tra la Pania e la Tambura,e che l'aquila fulva

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del Tonantesu le santesedi apra tutte le penne.Oh silenzii tirreniinel destero Gombo!Solitudine pura,senz'orme!Candore dei marmi lontani,statua non nata,la più bella!Dormono i Monti Pisani,grevi, di cerulo piombo,su la pianurache dorme.Altra stirpe di monti.Non han numi, non genii,non aruspici in lor caverne,non impeti d'ardoreverso i tramonti,non insania, non dolore;ma dormono su la pianurache dorme.Oh Alpe di Luni,davanti alla faccia del Marela più bella,rupe che s'infutura,oh Segno che l'anima cerne,grande anelito terrestroverso il Maestroche crea,

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materia prometèa,altitudine insonne,alata,Inno senza favella,carne delle statue chiare,gloria dei templi immuni,forza delle colonnealzata,sostanza delle formeeterne!

Il Gombo

L'immensità del duolo,del lutto immedicabile senzafine, terrestre fattaqual Niobe nell'umida rupe,quivi abitava sembranel lito deserto, nell'alpeardua, nella selvache piange il suo pianto aromale.

Tutto è quivi alto e puroe funebre come le plagheove duran nel Tempoi grandi castighi che inflisseil rigor degli iddiiagli uomini obliosi del sacro

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limite imposto all'ansiadel lor desiderio immortale.

Tre disse quivi immenseparole il Mistero del Mondo,pel Mare pel Lito per l'Alpe,visibile enigma divinoche inebria di spaventoe d'estasi l'anima umanacui travagliano il pesodel corpo e lo sforzo dell'ale.

Poi che non val la possadella Vita a comprendere tantabellezza, ecco la Morteche braccia più vaste possiedee silenzii più intentie rapidità più sicura;ecco la Morte, e l'Arteche è la sua sorella eternale:

quella che anco rapiscela Vita e la toglie per sempreall'inganno del Tempoe nuda l'inalza tra l'Ombrae la Luce, e le donacol ritmo il novello respiro:ecco la Morte e l'Arteapparsemi nel cerchio fatale.

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O Niobe, l'anticotuo grido odo alzarsi repenteal cospetto del Mare,e il tuo disperato dolorechiamar le figlie e i figliper l'inesorabile chiostra,e stridere odo l'arcoforte e sibilare lo strale.

«Tera, Ftia, Cleodossa,Astìoche, Pelòpia, Fedìmo!»Tu chiami; e i dolci nomi,i nomi che furono il mieledella tua bocca, o Madre,si frangon nell'ululo crudocome pel mìssile orol'incolpevole fior filiale.

Procombono sul pettosul fianco, procombono i corpifloridi, i giovinettivenusti, le vergini leni;copron la sabbia amara,mescono le chiome alle spumenon il sangue: incruentaè la piaga dell'oro letale.

Procombono, stannoai tuoi piedi, o Madre demente!Poi tutto è marmo, immota

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bellezza, effigiato silenzio.L'immensità del duoloè fatta terrestre e marina.Il Mare il Lito l'Alpesono il tuo simulacro ferale.

O Tantalide audace,io veggo il tuo bellissimo vóltoimpietrato e il tuo piantonella solitudine esangue,e il sacrilego orgoglioche feceti chiedere altariper la generatircevirtù del tuo grembo mortale.

Tutto è quivi alto e puroe funebre e ai cieli superbo,memore dell'umanegrandezze e dei castighi divini.Ed in nessuna plagacon più guerra, ahi, l'anima audacetravagliarono il pesodel corpo e lo sforzo dell'ale.

Anniversario orficoP.B.S. VIII Luglio MDCCCXXII

Udimmo in sogno sul deserto Gombo577

sonar la vasta bùccina tritoniae da Luni diffondersi il rimbomboa Populonia.

Dalle schiume canute ai gorghi intortifremere udimmo tutto il Mare nostrocome quando lo vèrberan le fortiale dell'Ostro.

E trasalendo «Odi, sorella» io dissi«odi l'annuncio dell'enfiata conca?Forse per noi risale dagli abissila testa tronca,

la testa esangue del treicio Orfeoche, rapita dal freddo Ebro alla furiabassàrica, sen venne dell'Egeoal mar d'Etruria».

Quasi fucina il vespro ardea di cupifuochi; gridavan l'aquile nell'altocielo, brillando il crine delle rupiqual roggio smalto.

Come profusi fuor dell'urne infranteparean ruggir nell'affocato cerchioi fiumi, l'Arno del selvaggio Dante,la Magra, il Serchio.

Ed ella disse: «Non l'Orfeo treicio,

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non su la lira la divina testa,ma colui che si diede in sacrificioalla Tempesta.

Oggi è il suo giorno. Il nàufrago risale,che venne a noi dagli Angli fuggitivo,colui che amava Antigone immortalee il nostro ulivo».

Dissi: «O veggente, che faremo noiper celebrar l'approdo spaventoso?Invocheremo il coro degli Eroi?Tremo, non oso.

Questo naufrago ha forse gli occhi apertie negli occhi l'imagine d'un mondoineffabile. Ei vide negli incertigorghi profondo.

E tolto avea Promèteo dal rostrodel vùlture, nel sen della Cagionesvegliato avea l'originario mostroDemogorgóne!»

Disse ella: «Gli versavan le melodii Vènti dai lor carri di cristallo,il silenzio gli Spiriti custodibui del metallo,

il miel solare nella boccha schiusa

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le musiche api che nudrito aveanoSofocle, il gelo gli occhi d'Aretusafiore d'Oceano».

Dissi: «Ei ghermì la nuvola negli atriidi Giove, su l'acroceraunio giogola folgore. Non odi i boschi patriioffrirgli il rogo?

Mira funebre letto che s'appresta,estrutto rogo senza la bipenne!Vengono i rami e i tronchi alla congestaara solenne.

E caduto dal ciel l'arde il divinofuoco. Scrosciano e colano le gomme.Spazia l'odor del limite marinoall'Alpi somme».

Ella disse: «A noi vien per aver paceil nàufrago che il Mar di gorgo in gorgotravolse. Altra nel cielo che si taceanima scorgo.

Placa te stesso e l'ospite! Il mortale,ch'evocò la gran Niobe di pietrasu dal silenzio e trarre udì lo straledalla faretra,

èvochi presso il nàufrago silente

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la lacrimata figlia di Giocasta,la regia virgo nelle pieghe lentedel peplo casta,

Antigone dall'anima di luce,Antigone dagli occhi di viola,l'Ombra che solo nell'esilio truceegli amò sola.

Ecco il giglio per quelle morte chiome,il fiore inespugnabile del nudoGombo, il tirreno fior che ha il greco nomedel doppio ludo,

ecco il pancrazio». Io dissi: «No, 'l corremo.Intatto sia tra l'uno e l'altro il fiore.Vegli con noi quest'Ombre ed il supremolor sacro amore».

Terra, Vale!

Tutto il Cielo precipita nel Mare.S'intenebrano i liti e si fan cavi,talami dell'Eumenidi avernali.Nubi opache sul limite marinoalzano in contro mura di basalte.Solo tra le due notti il Mar risplende.presa e constretta negli intorti gorghi,

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come una preda pallida, è la luce.

La tempesta ha divelto con furorei pascoli nettunii dalle salsevalli ove agguatano i ritrosi mostri.Alghe livide, fuchi ferrugigni,nere ulve di radici multiformifanno grande alla morta foce ingombro,natante prato cui nessuna greggiamorderà, calcherà nessun pastore.

Virtù si cela forse nelle fibresterili, che trasmuta il petto umano?O mito del mortale fatto numecerulo, rinnovèllati nel miodesiderio del flutto infaticato!Tutto il Cielo precipita nel Mare.Preda è la luce dei viventi gorghi,forse immolata per l'eternità.

Ditirambo II

Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.Trepidar ne' precordiisentii la deità, sentii nell'intimemidolla il freddo fremitodella potenza equorea trascorreredi repente, io terrìgena,

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io mortal nato di sostanza efimera,io prole della polvere!Memore sono della metamorfosi.L'anima si fa pelagonel rimembrare, s'inazzurra ed èstua,e le foci vi sboccanodei mille fiumi che mi confluironosul capo: nel rigùrgitoimmenso novamente par dissolversiquest'ossea compagine.O Iddii profondi, richiamate l'esule,però ch'ei sia miserrimonella sua carne d'acro sangue irrigua,lasso ne' suoi piè debiliche per lotosi tramiti s'attardano,dopo ch'ei fu l'indomitaforza del flutto convertita in muscolitòrtili per attorcere,dopo che le correnti dell'Oceanogli furon giogo a tesserele divine di sé vicissitudinicome su trama vitrea.O Iddii profondi, richiamate l'esuletriste, purificatelosotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi,la deità rendetegli!

Memore sono. Era già fatto il vesperosu l'acque; ma i cieli ultimiardevano d'un foco inestinguibile,

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e i golfi e i promontoriie l'isole di contro negreggiavanocome are senza vittimegià notturni, allorché sostai nel pascolonettunio, presso il limitemarino. Onusto di gran preda, sùbitovotai su l'erbe i nèssilimiei lini a noverar la mia dovizia.Poi del confuso cumulofeci schiere ordinate. E in cor godevamitante squame rilucereveggendo per quel bruno intrico; «I nèssilimiei lini e i piombi e i sugherit'appenderò nel tempio, o dio propizio»in cor disse il grato animo.E allor vidi i pesci più risplendere,vidi le pinne batteree le branchie alitare e per le scaglielampi di forza correre.E, come quando il nume di Diònisoinvade le Bassaridie si disfrena giù pe' monti il Tìaso,la muta gente parvemiinfuriare, cedere a un'incognitavirtù, di sacra fervereinsania. «Qual prodigio è questo? Ahi miserome!» gridai per grandissimospavento; ché la preda mia fuggivasia gara con vipèrearapidità, balzando e dileguandosi.

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«Me misero! Un dio fecemiquesto? e nell'erba è la possanza?» Attonitomi rimasi. Il silenzioera divino nella solitudine.Era già fatto il vespero,ma lungamente i cieli ultimi ardevano.Udir parvemi bùccinacupa sonar lungh'essi i promontoriiselvosi; udire parvemicanti fatali spandersi dall'isole.E quasi inconsapevolela man correami per quell'erba strania,meditando io nell'animoil prodigio. Divelsi dalle radichegli steli foschi; e, similea capra di virgulti avida, mordereincominciai, discerperee mordere. Rigavami le fauciil suco, ne' precordiiscendeami, tutto il petto conturbandomi.«O terra!» gridai. Fumidaera la terra intorno come nuvolache fosse per dissolversine' cieli, sotto i piedi miei fuggevole.E un amore terribilesorgeva in me, dell'infinito pelago,dell'amara salsedine,degli abissi, dei vortici e dei turbini.La mia carne era liberadella gravezza terrestre. Nascevami

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dall'imo cor l'imagined'un'onda ismisurata e per le pàlpebremi si svelava il cerulosplendor del sangue novo, e il collo e gli òmeridilatarsi parevanoe le ginocchia giugnersi, le scagliesu per la pelle crescere,gelidi guizzi correre pei muscoli.«Terra, vale!» Precipitecaddi nel gorgo, mi sommersi, l'infimatoccai valle oceanica,uomo non più, non anco dio, ma immemoredella terra e degli uomini.

Fiumi correnti, odo il sublime sònitodi voi sempre nell'anima,fiumi sgorganti d'ogni scaturigine,leni di pace o rauchidi violenza, caldi come l'aurenove che v'arrecaronol'alluvione copiosa o frigidicome i nivali verticionde scendeste inviolati, d'aureesabbie flavi o sanguineid'argille, pingui di limo o più limpidiche l'etere sidereo!Cento e cento passarono passaronosul mio capo. La fluidavita dell'orbe mi fluì su gli òmeriproni, con ineffabile

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melodìa. L'Acheronte, il gran tartareopianto, anche sentii volveresu me nel cieco suo pallore i petalirapiti al prato asfòdelo.Tutte l'acque rombarono crosciaronosu me sommerso, tolseroogni terrestrità dal corpo immemoredella sua dura nascita.E mi risollevai dio verso l'eteresanto; spirai grande alitoche una nave d'eroi sospinse. Io auspiceapparvi agli Argonauti!Di su la prora chino il cantor tracioraccolse il vaticinio.E presso lui, d'oro chiomato, floridodella prima lanugine,(sentendo l'immortalità, saltavagliil cuore sotto il bàlteosplendido) presso Orfeo figlio d'Apollineera il fratello d'Elena.

O Iddii profondi, richiamate l'esule,la deità rendetegli!Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.La terra m'è supplizio.Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,e per ovunque è tenebra.O nunzia di prodigi Alba oceanica!Nel gorgo mi precipito.

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L'oleandro

I.

Erigone, Aretusa, Berenice,quale di voi accompagnò la notted'estate con più dolce melodìatra gli oleandri lungo il bianco mare?Sedean con noi le donne presso il maree avea ciascuna la sua melodìaentro il suo cuore per l'amica notte;e ciascuna di lor parea contenta.

E sedevamo su la riva, escitidalle chiare acque, con beato il sanguedel fresco sale; e gli oleandri ambiguiintrecciavan le rose al regio allorosu 'l nostro capo; e il giorno di sì grandibeni ci avea ricolmi che noi paghisorridevamo di riconoscenzaindicibile al suo divin morire.

«Il giorno» disse pianamente Erigoneverso la luce «non potrà morire.Mai la sua faccia parve tanto pura,non ebbe mai tanta soavità.»Era la sua parola come il ventod'estate quando ci disseta a sorsi

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e nella pausa noi pensiamo i fontidei remoti giardini ov'egli errò.

L'udii come s'io fossi ancor sommersoe la sua voce avesse umido velo.Ma reclinai la gota, e d'improvvisotiepida come sangue dalla concadell'udito sgorgò l'acqua marina.Pur, profondando nella sabbia i nudipiedi, io sentia partirsi lentamenteil buon calor del tramontato sole.

E chi recise all'oleandro un ramo?Io non mi volsi, ma l'amarulentafragranza della linfa della frescapiaga mi giunse alle narici, vinsel'odor muschiato dei vermigli fiori.«O Glauco» disse Berenice «ho sete.»Ed Aretusa disse: «O Derbe, quandofiorì di rose il lauro trionfale?»

Ella ben sapea quando, ma non Derbeinesperto in foggiar lucidi miti.Ed il cuore profondo mi tremò,tremò della divina poesia.Ond'io pregava: «O desiderii miei,stirpe vorace e vigile, dormite!E voi lasciate che nel vostro sonnoio mi cinga del lauro trionfale!»

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Tutto allora fu grande, anche il mio cuore.Oh poesia, divina libertà!Ergevasi con mille cime l'Alpegrande, quasi con volo di mille aquile,per il salir d'impetuosa forzadalle sue dure viscere di marmoonde l'uom che non volle umana proletrasse i suoi muti figli imperituri.

E le curve propaggini dell'Alpesi protendeano ad abbracciare il mare;ed il mare splendeva di candoremeraviglioso nel lunato golfocon la bellezza delle donne nostre.E quella luce un rinascente mitofece di voi sull'irraggiato mondo,Erigone, Aretusa, Berenice!

Così ci parve riudire il cantodelle Sirene, dalla nave concavadi prora azzurra, fornita di ponti,veloce, in un doloroso ritornospinta dal vento al frangente del mare,né ci difese Odisseo dal perigliocon la sua cera; ma il cuore, non piùlibero, novellamente anelava.

II.

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«O Glauco», disse Berenice «ho sete.Dov'è la fonte? dove sono i frutti?Dov'è Cyane azzurra come l'aria?Dove coglierai tu con le tue manil'arancia aurata nella cupa fronda?Come ci dissetammo! E tanto era soaveil dissetarsi che desiderammol'ardente sete. Al par di noi chi seppedistinguere il sapore d'ogni fruttoe la maturità dal suo colore?distinguere d'ogni acqua la freschezzae ritrovar la sua più fredda vena?e regolar le labbra al vario beree il sorso modular come una nota?L'imagine di me nell'acque amavi.Dell'amore di me arsi inclinata,sì bella nel ninfale specchio fui.Io fui Cyane azzurra come l'aria.Tu mi ghermisti fra natanti foglie.L'ombra divina mi trasfigurò.Un fiore subitaneo s'apersetra i miei ginocchi. Vincolata fuida verdi intrichi, fra radici pallidecome i miei piedi, con segreto gelo.Il sol divino mi trasfigurò.Anelli innumerevoli alle ditafurommi i raggi, pettini ai capelli,monili al collo, e veste tutta d'oro.O Aretusa, perché non ho il tuo nome?Nascesti tu nell'isola di Ortigia

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come l'amor del violento fiume?La sirena scagliosa abbeveravi,già fatto il vespero, al tacer dei flauti.Diedi io le canne ai flauti dei pastori.Io fui Cyane azzurra come l'aria.L'acqua sorgiva mi resto negli occhi;la lenta correntìa mi levigò.O Glauco, ti sovvien della Siciliabella?» Ed io più non vidi la grande Alpe,il bianco mare. Io dissi: «Andiamo, andiamo!»

«Ti sovvien della bella Doriesenomata Siracusa nell'effigied'oro co' suoi delfini e i suoi cavalli,serto del mare? Noi scoprimmo un giorno,stando su l'Acradina, la triereche recava da Ceo l'Ode novelladi Bacchilide al re vittorioso.Udivasi nel vento il suon del flautoche regolava l'impeto dei remi,or sì or no s'udiva il canto rocodel celeùste; ma silenziosal'Ode, foggiata di parole eterne,più lieve che corona d'oleastro,onerava di gloria la carena.Scendemmo al porto. Ti sovvien dell'ora?Un rogo era l'Acropoli in Ortigia;ardevano le nubi sul Plemmiriobelle come le statue sul frontedei templi; parea teso dalla forza

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di Siracusa il grande arco marino.E noi gridammo, e un sùbito clamorecorse lungo le stoe quando la navepiena d'eternità giunse all'approdo.Portatrice di gloria, ella viveamagnanima, sublime. Giù pe' trastianelava l'anelito servile;s'intravedean su' banchi sovrappostii remiganti ignudi unti d'oliva:la lor fatica ansava dai portelli;il giglione del remo ai raggi obliquilucea come la scapula; un ferignoodore si spandea, quasi di belve.E non di quell'anelito servileera viva la nave, non del sanguee dell'ossa pesanti ne' suoi fianchi;ma sì vivea divinamente d'unacosa ch'ella recava d'oltremare,più lieve che corona d'oleastro:l'Ode, foggiata di parole eterne».

«È vero, è vero!» io dissi. «Mi sovviene».Ed il cuore profondo mi tremò,tremò della divina poesia.«Mi sovviene. Era l'Ode trionfale:"Canta Demetra che regna i feracicampi siciliani, e la sua figliacinta di violette! Canto, o Clio,dispensatrice della dolce fama,la corsa dei cavalli di Ierone!

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Nike ed Aglaia eran con essi quandotrasvolavano..." E l'anima invelatadi sogni andava per le lontananzedei tempi verso i gloriosi approdipiena d'eternità come la navedi Ceo. Passammo gli ellesponti, i golfi,l'isole, gli arcipelaghi, le sirti:riverimmo le foci dei paternifiumi, pregammo i promontorii sacri,salutammo le bianche cittadellecustodite da Pallade rupestri;varcammo l'Istmo pel diolco. Quivieroi vedemmo e Pindaro con loro.Ed obliammo l'usignuol di Ceoper l'aquila tebana. Era la tuamitica luce sul Tirreno, o madreEllade, ed era bella come i tuoimonti la nuda Alpe di Luni, o madreEllade, come i tuoi monti bellissimaera, onde a te discesero le stirpidegli Immortali che incedeano al fiancodegli Efimeri sopra il dominatodolore, e quelli e questi erano eguali,e tutti erano Ellèni ed una linguaparlavano divina, uomini e iddii.

In silenzio guardammo i grandi miticome le nubi sorgere dall'Alpeed inclinarsi verso il bianco mare.Io vidi allora Pègaso pontare

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su gli altissimi marmi i piè di ventoe balzar nell'azzurro con apertele immense penne, senza cavaliere;e per il petto e per il ventre vastitrasparia come fiamma palpitantela potenza del sangue gorgonèo.Ardi gridò: "Ecco il teschio d'Orfeo,che vien dall'Ebro!". Ed il solenne lidoparve attendere il fato dopo il grido.La sua bellezza s'aggrandì d'orrore.Il flutto nell'insolito splendoreera meravigliosamente puro.Splendea sul mondo un giorno imperituro.»

III.

Ma non sostenne il nostro cuor mortalequel silenzio sublime. Si piegòverso il sorriso delle donne nostre.E Derbe disse ad Aretusa: «Quandofiorì di rose il lauro trionfale?».Era la donna giovinetta alzata,mutevole onda con un viso d'oro,tra gli oleandri; ed il reciso ramoper la capellatura umida effusa,che fingevale intorno al chiaro visol'avvolgimento dell'antica fonte,intrecciava le rose al regio alloro.Disse Aretusa: «Bene io te 'l dirò»

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mutevole onda con un viso d'oro.

Disse: «Inseguiva il re Apollo Dafnelungh'esso il fiume, come si racconta.La figlia di Penèo correva ansantechiamando il padre suo dall'erma sponda.Correva, e ad ora ad or le snelle gambele s'intricavan nella chioma bionda.Ben così la poledra di Tessagliagaloppa nella sua criniera falbache fino a terra la corsa le ingombra.

Rapido il re Apollo più l'incalza,infiammato desìo, per lei predare.All'alito del dio doventa fiammala chioma della ninfa fluvïale."O padre, o padre" grida "tu mi scampa!"Chiama ella il padre suo con grida vane."Padre, un veloce fuoco mi ghermisce!"E corre, ed ansa, e le sue gambe liscecrescon la furia del desìo predace.

"O gran padre Penèo, perduta sono,ché mi si rompono i ginocchi. Salva-mi dalla brama del veloce fuocoche ora mi giunge, ecco, ecco, ora m'abbranca!"Ma il dolce sangue suo in altro suono,la sua bellezza in altro suono parla.Balzale il cuor, si piegano i ginocchi.Ed ecco ella s'arresta, chiude gli occhi

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e trema e dice: "Or ecco m'abbandono".

Una gioia s'aggiunge al suo terroreignota che il divin periglio affretta.Tremante e nuda dentro la chioma odela vergine il tinnir della faretra,sente la forza del perseguitore,vede l'ardor pe' chiusi cigli e aspettad'esser ghermita, e più non chiama il padre.Ma il dio la chiama: "Dafne, Dafne, Dafne!".Ed ella non udì voce più bella.

Il dio la chiama: "Dafne, Dafne!" Ed osaella aprir gli occhi: la rutila facciavede da presso e la bocca bramosamentre il dio con le due braccia l'allaccia.Rapita dalla forza luminosagitta ella un grido che per la selvaggiasponda ultimo risuona, e l'ode il padre.Avido il dio districa la soavenudità dalla chioma che la fascia.

Bianca midolla in còrtice lucente,in folti pampini uva delicata!Tenera e nuda il dio la piega, e sentech'ella resiste come se combatta.Tenera cede il seno; ma dal ventrein giuso, quasi fosse radicata,ella sta rigida ed immota in terra.Attonito, l'amante la disserra.

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"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei fatta!"

Subitamente Dafne s'impaura:le copre il vólto e il seno un pallor verde.Ella sembra cader, ma la giunturadei ginocchi riman dura ed inerte.S'agita invano. L'atto della fugainvan le torce il fianco. Si disperdeil senso di sua vita nella terra.E l'amante deluso ancor la serra."Ahi lassa, Dafne, chi ti trasfigura?"

Ma non il suo melodioso duologiova a trarre colei dalla sua sorte.Nell'umidore del selvaggio suoloi piedi farsi radiche contorteella sente e da lor sorgere un troncoche le gambe su fino alle cosceinclude e della pelle scorza fae dov'è il fiore di verginitàun nodo inviolabile compone.

"O Apollo" geme tal novo dolore"prendimi! Dov'è dunque il tuo desìo?O Febo, non sei tu figlio di Giove?Arco-d'-argento, non sei dunque un dio?Prendimi, strappami alla terra atroceche mi prende e beve il sangue mio!Tutto furente m'hai perseguitataed or più non mi vuoi? Me sciagurata!

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Salva mio grembo per lo tuo desìo!

Salvami, Cintio, per la tua pietà!Se i miei capelli, che m'avvinsero, ami,de' miei capelli corda all'arco fa!Prendimi, Apollo!" E tendegli le mani,che son fogliute; e il verde sale; e giàle braccia sino ai cubiti son rami;e il verde e il bruno salgon per la pelle;e su per l'ombelico alle mammellegià il duro tronco arriva; e i lai son vani.

"Aita, aita! Il cuore mi si serra.Vedi atra scorza che il petto m'opprime!O Apollo Febo, strappami da terra!Tanto furente, non sia più ghermire?Nuda mi prenderai su la dolce erba,su la dolce erba e su 'l mio dolce crine.Ardo di te come tu di me ardi.O Apollo, o re Apollo, perché tardi?Già tutta quanta sentomi inverdire."

Il dolce crine è già novella frondaintorno al viso che si trascolora.La figlia di Penèo non è più bionda;non è più ninfa e non è lauro ancora.Sola è rossa la bocca gemebondache del novello aroma s'insapora.Escon parole e lacrime odoratedall'ultima doglianza. O fior d'estate,

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prima rosa del lauro che s'infiora!

Tutto è gia verde linfa, e sola è sanguela bocca che querelasi interrotta-mente. In pallide fibre il cor si sfacema il suo rossore è in sommo della bocca.Desioso dolor preme l'amante.Guarda ei l'arbore sua ma non la tocca;l'ode implorare ma non ha virtù.E chiama: "Dafne, Dafne!" Ella non piùimplora, non più geme. "Dafne, Dafne!"

Ella non più risponde: è senza voce.Pur la gola sonora è fatta legno.Le palpebre son due tremule foglie;li occhi gocciole son d'umor silvestro;bruni margini inasprano le gote;delle tenui nari è appena il segno.Ma nell'ombra la bocca è ancora sangue,sola nel lauro la bocca di Dafnearde e al dio s'offre, virginal mistero.

Curvasi Apollo verso quella ardente,la bacia con impetuosa brama.Ne freme tutta l'arbore; s'accendel'ombra intorno alla fronte sovrana;ogni ramo in corona si protende,e la fronte d'Apollo è laureata.Pean! O gloria! Ma sotto i suoi bacior più non sente che foglie vivaci,

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amare bacche. E Dafne Dafne chiama.

"Ahi lassa, Dafne, ch'arbore sei tutta!Ahi chi ti fece al mio desìo diversa?In durissimo tronco e in fronda cupala dolce carne tua or s'è conversa.La tua bocca vermiglia s'è distrutta,che pareva di fiamma ardere eterna.Come leggieri i piedi tuoi su l'erba,or radicati nella negra terra!M'odi tu? M'odi tu? Dafne, sei muta?

Rispondi!" Abbrividiscono le frondisino alla vetta. Nel silenzio un brevemurmure spira. "M'odi tu? Rispondi!"Move la vetta un fremito più lieve.Poi tutto tace e sta. Sotto i profondicieli le rive alto silenzio tiene.Il bellissimo lauro è senza pianto;il dolore del dio s'inalza in canto.Odono i monti e le valli serene.

Odono i monti e le valli e le selvee i fonti e i fiumi e l'isole del mare.Spandesi il canto dall'anima ardentee per tutte le cose generare.La bellezza di Dafne ecco rivestela terra; le sue membra delicateson monti e valli e selve e fiumi e fonti,il suo sguardo inzaffira gli orizzonti,

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la sua chioma fa l'oro dell'estate.

O Dafne, sempre il dio e l'uom cantandonon vorranno altro onor che un ramoscellodi te! Così l'Arco-d'-argento, quandoha placato il suo cuore nell'immensoinno, pago si giace sotto il sacrolauro ad attendere il suo dì novello.Cade la notte. Sul sonno divinol'arbore luce d'un baglior sanguigno,qual bronzo che si vada arroventando.

Scorre la notte. Tra l'Olimpo e l'Ossauna stella tramonta e l'altra sale.Misteriosa l'arbore s'arrossama sul suo fuoco piovon le rugiade.Sogna il Cintio la desiata boccadi Dafne, e balza il suo cuore immortale.È l'alba, è l'alba. Il dio si desta: un gridodi meraviglia irraggia tutti il lido.Brilla di rose il lauro trionfale!»

IV.

E così della rosa e dell'alloroparlò quell'Aretusa fiorentina,mutevole onda con un viso d'oro.

la sua voce era come acqua argentina

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che recasse lavandula o pur mentao salvia o altra fresca erba mattutina.

Tutto rigato dalla schietta vena«Sol d'oleandro voglio laurearmi»io dissi. Ed Aretusa era contenta;

e recise per me altri due ramie fe' l'atto di cingermi le tempiedicendomi: «Pe' tuoi novelli carmi!

Che la cerula e fulva Estate sempreabbia tu nel tuo cuore e in te le rimenascano come le sue rose scempie!»

E il giorno estivo non potea morire,ma sorrideva sopra il bianco maresilenziosamente senza fine;

e la notte, che avea parte ineguale,spiava il bel nemico dalle chiostredei monti azzurra come te, Cyane.

Ebri e tristi d'aver bevuto a troppefonti e incantato il cor per tutte guise,cercammo il grembo delle donne nostre.

Ma la Melancolìa venne e s'assisein mezzo a noi tra gli oleandri, mutaguatando noi con le pupille fise.

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Ed Erigone, ch'ebbe conosciutala taciturna amica del pensiero,chinò la fronte come chi saluta.

E poi disse la Notte e il suo mistero.

V.

«Il Giorno» disse «non potrà morire.Il suo sangue non tinge il bianco mare.Mai la sua faccia parve tanto pura,non ebbe mai tanta soavità.Giace supino sopra il bianco mare,sorride al cielo ch'ei regnava, attendeei non sa quale morte o voluttà.Pur tanto è dolce che la Notte oscuranon già lo spegne ma di lui s'accende,e lui aurato nelle braccia prende,lui cela nella sua capellatura,ma non così che quelle membra d'oronon veggansi pel fosco traspariree illuminare la serenità.Caldi soffiano i venti al bianco mare,calde passano e lente le rivierein cuore alle terribili città,passano e vanno per ignoti piani,cingono ignoti boschi: i cervi a berescendono ansanti nella gran caldura;

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lunghi bràmiti ascoltano lontani;bevono: in qualche tacita radurapoi fino a morte si combatterà.O Notte, o Notte, invano tu nascondine' tuoi capelli il dolce tuo nemico!Non sono i tuoi capelli sì profondiche non veggasi dai nostri occhi umanifiammeggiarvi per entro il tuo piacere.La terra oppressa respiro non ha.Arde l'ombra. La vigna è come il vino:il grappolo sul tralcio si maturapoi che il raggio nell'uva è prigioniere.La terra soffre nell'ebrietà.Arde come una glauca vampa l'ombra.Aduna e vita e morte il bianco mare,immensa cuna il mare, immensa tomba.A lui dal monte la sorgente va.Impallidisce sotto il pianto il corodelle Pleiadi e l'una d'elle è occulta,l'una che seppe la felicità.Orione si slaccia l'armatura,e Boote si volge, e Cinosuravacilla; e l'Orsa anche impallidirà.Oblìa la Notte tutte le sue stellee il duolo antico degli amanti umani.Che con lei piangeremo ella non sa.O Notte, piangi tutte le tue stelle!il grido dell'allodola domanidall'amor nostro ci disgiungerà».

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Un'altra era con noi, ma restò muta,tra gli oleandri lungo il bianco mare.

Bocca di Serchio

ARDI: Glauco, Glauco, ove sei? Più non ti veggo.Ho perduto il sentiere, e il mio cavallos'arresta. I Pini, i pini d'ogni partemi serrano. Agrio affonda nella massadegli aghi, come nella sabbia, finoai garetti. Ove sei, Glauco? Mi vedi?Ho le gambe che sanguinano. Follifummo entrando nel bosco ignudi comenel mare. I rovi, le schegge, le scaglieferiscono, e i ginepri aspri. Non sanguinianche tu? Oh profumo! Sale a un trattocome una vampa. Il vino dell'Estate!N'ho bevuto una piena coppa, e un'altrane bevo, e un'altra anche più calda, e un'altrabollente che mi brucia il cuore e finoalla gola mi sazia, fino agli occhi.O Glauco, Glauco, il vino dell'Estatemisto di oro di rèsina e di miele!GLAUCO: Io ti veggo, ti veggo, Ardi. Sei bellosul tuo cavallo bianco. Tu non puoiportar clamide, come i cavalierid'Atene, ma ti giova essere ignudo.Su, spingi Agrio! Non v'è sentiere. I fusti

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sono fragili come aride canne.Odi? Folo li rompe col suo petto.Dunque or teme le scaglie e i rovi il marmodelle tue gambe? È splendido il tuo sangue,Ardi. Poiché ciascuna cosa in tornole più ricche virtudi e più segreteesprime per farti ebro, non ti dolgadi sanguinare come il pino stilla,come il ginepro odora. Avanti, avantiper la boscaglia che rosseggia e cede!Vedesti mai più fulva chioma e spessa?I bei sogni vi restano come apiprese nella criniera d'un leone.ARDI: Preso per i capegli sono. Ah, il ramosi rompe e gli aghi piovonmi sul collo,su gli omeri, già coprono la groppad'Agrio. Vedi? A miriadi, a miriadi!Carichi tutti i rami biforcuti.In ogni congiuntura accumulatia fasci gli aghi morti. Morta sembratutta la selva, inaridita e cieca.Rompesi come vetro. Il verde è al sommo,invisibile, e fa prigione i ragginell'intrico; ma l'ombra sua mi cuocela fronte e mi dissecca la narice.Entreremo nel fiume coi cavalli!Diguazzeremo in mezzo alla corrente!E ancor lontano il Serchio? Tutta l'ombrarespira aridità. L'acqua è lontana.E sento che lo zòccolo a traverso

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gli aghi morti non trova se non sabbiatorrida. I coni vacui son nericome carboni spenti, come tizziconsunti. O Glauco, dove mi conduci?GLAUCO: Chiudi gli occhi. Odi il vento? Navigareti sembra, veleggiar per il desertomare. Odi il vento tra le sàrtie? Odiil gemito degli alberi allo sforzodelle vele? Si naviga per acqueinfide verso l'isola di Circe.Negli orciuoli d'argilla non rimanegoccia di fonte. Beveremo il sale.Apri gli occhi! Ecco l'atrio della magatutto riscintillante di prodigi.Larve di stelle adornano la reggiadella donna solare, vedi?, similia foglie macerate dagli autunniche serban lor sottili nervaturecon la tenuità dei bissi intestid'aria e di lume. Fili palpitantile congiungono, l'iride le cangia,indicibile tremito le muove.Circe incantò le stelle eccelse, e l'ebbe,e le votò di lor sostanza ignìta;e qui raduna le lor dolci larve.ARDI: Opre di ragni, arte divina, telestellari! O Glauco, io n'ho già laceratauna col viso, e un'altra ancóra. Guarda!Per ovunque tessute son le stelle.Siam presi in una rete innumerevole.

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Férmati! Non distruggere l'incanto.GLAUCO: La radura è vicina. Il sole pènetrafra i rami. Tutto tremola e scintilla.La résina sul tronco è come l'ambra.Di polito metallo è il mirto chiuso.La tamerice sembra quasi azzurratra i rossi pini. E il tuo volto s'imperla.ARDI: Oh com'è bello Folo che dall'ombratrapassa, maculato di sudore,nella banda del sole! Anche tu sànguini.Non vedesti le vipere fuggire?Qual nome hanno quei lunghi fili d'erbache portano una spiga nera in cima?GLAUCO: Il nome che le labbra ti diletta.Abbandona le rèdini sul collod'Agrio. Ascolta il cavallo nel silenziosbuffare. Vola la sua bava e imbiancail mentastro. Perché, Ardi, sol questoempie il mio petto di felicità?ARDI: Forse già fummo i figli della Nuvola.Già l'erba calpestammo con gli zòccoli,cogliemmo il fiore con le dita umane.Un dì, volgendo indietro il torso ignudo,con la concava scorza detergemmodal pelo della groppa calorosail sudore che in rivoli colava.Lo spazio immenso era la nostra ebrezza.Senz'ansia il nostro fianco infaticatovinse in numero i palpiti del vento.Tanto di terra in un sol dì varcammo

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quanto varcava Pègaso di cielo.GLAUCO: Rapidità, Rapidità, gioiosavittoria sopra il triste peso, aereafebbre, sete di vento e di splendore,moltiplicato spirito nell'òsseamole, Rapidità, la prima natadall'arco teso che si chiama Vita!Vivere noi vogliamo, Ardi, correndo:passare tutti i fiumi, discoprirlidalle fonti alle foci, lungo i lidimarini l'orma imprimere nel segnosinuoso, nell'argentina tracciache di sé lascia il flutto più recente.ARDI: Dato ci fosse correre senz'ansial'Universo! Ma troppo il nostro pettoè angusto pel respiro della nostraanima. O Glauco, a chi t'ascolta, seicome l'estro implacabile che incìtai tori. E l'orizzonte è come anellovitreo che tu spezzi per disdegno.GLAUCO: Taci, Beviamo il vino dell'Estate,sol dediti all'amore del bel fiume.Verso tutte le selve della Terrasospiro; ma, se in una solitarioviver dovessi, in questa, Ardi, vorreivivere, in questa calda selva australe,in quest'aridità d'ombre estuose.ARDI: È come un rogo pronto a conflagrare.La potenza del fuoco in lei si chiude.Soavemente mormora nell'aura,

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ma la sua voce vera in lei si tace.Parlerà con le lingue dell'incendioquando la nube nata dal Tirrenole scaglierà la folgore notturna.GLAUCO: Il respiro non passa per le faucima per tutte le membra, fino al pollicedel piede scalzo; e passano gli aromiper tutti i pori. E sento respirareil mio cavallo, e sento la ferinasua allegrezza, come se nel duplicecorpo fervesse l'unico mio cuore.ARDI: Ecco l'erba, ecco il verde, ecco una canna.Ecco un sentiere erboso. Guarda, al fondo,guarda i monti Pisani corrucciatisotto le vaste nuvole di nembo.GLAUCO: Ardi, non odi gracidìo di corvilà verso il mare? Scendono alla focedel Serchio a branchi, e tesa v'è la rete,dissemi il cacciatore di Vecchiano.ARDI: Il Serchio è presso? Volgiti all'indizio.Ecco la sabbia tra i ginepri rari,vergine d'orme come nei deserti.Si nasconde la foce intra i canneti?La scopriremo forse all'improvviso?Ci parrà bella? No, non t'affrettare!Lascia il cavallo al passo. È dolce l'ansia,e viene a noi dal più remoto oblìo,vien dall'antica santità dell'acque.Liberi siamo nella selva, ignudisu i corsieri pieghevoli, in attesa

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che il dio ci sveli una bellezza eterna.Non t'affrettare, poi che il cuore è colmo.GLAUCO: Bocche delle fiumane venerande!Lungo le pietre d'Ostia è più divinoil Tevere. Soave è nei miei modil'Arno. Il natale Aterno, imporporatodi vele, splende come sangue ostile.E l'Erìdano vidi, e l'Achelòo,e il gran Delta, e le foci senza nomeove attardarsi volle invano il sognodel pellegrino. Ma che questa, o Ardi,sia la più bella mi conceda il dio;perché non mai fu tanto armoniosoil mio petto, né mai tanto fu degnodi rispecchiare una bellezza eterna.ARDI: Oh, mistero! La verde chiostra accogliei vóti, qual vestibolo di tempiosilvano. I pini alzan colonne d'ombraintorno al sacro stagno liminareche ha per suo letto un prato di smeraldi.Nel silenzio l'imagine del cielosi profonda: non ride né sorride,ma dal profondo intentamente guarda.GLAUCO: Odi la melodìa del Mar Tirreno?Tra le voci dei più lontani mari,nell'estrema vecchiezza, nell'orroredel gelo, il sangue mio l'imiterà.E la cerula e fulva Estate sempreio m'avrò nel mio cuore. Odi sommessocarme che ci accompagna per l'esiguo

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istmo sembiante al giogo d'una lira.ARDI: Tutto è divina musica e strumentodocile all'infinito soffio. Guardaper la sabbia le rotte canne, guardale radici divelte, ancor frementidi labbra curve e di leggiere dita!I musici fuggevoli con ellemodulavano il carme fluviale.GLAUCO: Scendi dal tuo cavallo, Ardi. Ecco il fiume,ecco il nato dei monti. Oh meraviglia!Ei porta in bocca l'adunata sabbiafatta come la foglia dell'alloro.T'offriamo questi giovani cavalli,o Serchio, anche t'offriamo i nostri corpiov'è chiuso il calor meridiano.ARDI: Anelammo d'amore per trovarti!Sgorgar parea che tu dovessi, o fiume,dal nostro petto come un sùbito inno.GLAUCO: Dio tu sei, dio tu sei; noi siam mortali.Ma fenderemo la tua forza pura.La più gran gioia è sempre all'altra riva.

Il cervo

Non odi cupi bràmiti interrottidi là del Serchio? Il cervo d'unghia nerasi sèpara dal branco delle femminee si rinselva. Dormirà fra breve

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nel letto verde, entro la macchia folta,soffiando dalle crespe froge il fiatoviolento che di mentastro odora.Le vestigia ch'ei lascia hanno la forma,sai tu?, del cor purpureo balzante.Ei di tal forma stampa il terren grasso;e la stampata zolla, ch'ei sollevacon ciascun piede, lascia poi cadere.Ben questa chiama «gran sigillo» il cautocacciatore che lèggevi per entroi segni; e mai giudizio non gli falla,oh beato che capo di gran sanguepersegue al tramontare delle stelle,e l'uccide in sul nascere del sole,e vede palpitare il vasto corpoazzannato dai cani e gli alti palchidella fronte agitar l'estrema lite!

Ma invano invano udiamo i cupi bràmitinoi tra le canne fluviali assisi.Tu non ti scaglierai nel Serchio a nuotoper seguitar la pesta, o Derbe; e il freddofiume non solcherà duplice solcodel tuo braccio e del tuo predace riso,fieri guizzando i muscoli nel gelo.Inermi siamo e sazii di bellezza,chini a spiare il cuor nostro ove rugge,più lontano che il bràmito del cervo,l'antico desiderio delle prede.Or lascia quello il branco e si rinselva.

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Forse è d'insigni lombi, e assai ramoso.Ei più non vessa col nascente cornole scorze. Già la sua corona è dura;e il suo collo s'infosca e mette barba,e fra breve sarà gonfio del moltobramire. Udremo a notte le sue lunghemuglia, udremo la voce sua di toro;sorgere il grido della sua lussuriaudremo nei silenzii della Luna.

L'ippocampo

Vimine svelto,pieghevole Musafurtivamentefuggita del Corolasciando l'alloropel leandro crinale,mutevole Aretusadal viso d'oro,offri in ristoroil tuo sal lucenteal mio cavallo Folodagli occhi d'elettro,dal ventre di veltro,ch'è solo l'egualedel sangue di Medusaahi, ma senz'ale!

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Offrigli il sale,sonoro al dente,o Aretusa,nella palma dischiusae nuda, senza spaventoché, per prendere il dono,ha labbra più leggieredelle sue gambedi vento.Appena ti lambe,come per bere!Del suo piacereti bagna; e la tua palmaappena sente, dietrole labbra, il frescosuo dente di puledro,che brucar l'erba calmapuò sì dolcementee rodere il ferrodifficile quando serrola rapidità focacepe' solitariilidi io senza pace.

Come per te, furacefauna dei pomarii,un bugnodi miel redolentenon valesimiana acerba,

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così per lui biada opimanon vale un pugnodi sale mordace.Troppo gli piace,Aretusa. Ingordon'è come capra sima.Forse ha un ricordomarino il sangue di Folo.Egli è forse figliuolodegli Ippocampidalla coda di squamme.Ora è fiamme e lampi,ma primaera forse argentinoo cerulo o verdastrocome il flutto, gagliardocome il flutto decumano.E nel vespero tardo,all'apparir dell'astroche cresce,al levar della brezza,tutto acquoso e salmastrovenuto in su la proda,mansuefatto,battendo con la codadi pesce l'arenaper la dolcezza,sogguardando in attod'amore, gocciando bava,prono la schiena,

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mangiava pianol'aliga nella manocava della Sirena.

L'onda

Nella cala tranquillascintilla,intesto di scagliacome l'anticaloricadel catafratto,il Mare.Sembra trascolorare.S'argenta? s'oscura?A un trattocome colpo dismaglial'arme, la forzadel vento l'intacca.Non dura.Nasce l'onda fiacca,sùbito s'ammorza.Il vento rinforza.Altra onda nasce,si perde,come agnello che pascepel verde:un fiocco di spuma

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che balza!Ma il vento riviene,rincalza, ridonda.Altra onda s'alza,nel suo nascimentopiù leneche ventre virginale!Palpita, sale,si gonfia, s'incurva,s'alluma, propende.Il dorso ampio splendecome cristallo;la cima leggieras'arruffacome crinieranivea di cavallo.Il vento la scavezza.L'onda si spezza,precipita nel cavodel solco sonora;spumeggia, biancheggia,s'infiora, odora,travolge la cuora,trae l'alga e l'ulva;s'allunga,rotola, galoppa;intoppain altra cui 'l ventodiè tempra diversa;l'avversa,

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l'assalta, la sormonta,vi si mesce, s'accresce.Di spruzzi, di sprazzi,di fiocchi, d'iridiferve nella risacca;par che di crisopazziscintillie di berilliviridi a sacca.O sua favella!Sciacqua, sciaborda,scroscia, schiocca, schianta,romba, ride, canta,accorda, discorda,tutte accoglie e fondele dissonanze acutenelle sue voluteprofonde,libera e bella,numerosa e folle,possente e molle,creatura vivache godedel suo misterofugace.E per la riva l'odela sua sorella scalzadal passo leggeroe dalle gambe lisce,Aretusa rapace

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che rapisce le fruttaond'ha colmo suo grembo.Subito le balzail cor, le raggiail viso d'oro.Lascia ella il lembo,s'inclinaal richiamo canoro;e la selvaggiarapina,l'acerbo suo tesorooblìa nella melode.E anch'ella si godecome l'onda, l'asciuttafura, quasi che tuttala freschezza marinaa nemboentro le giunga!

Musa, cantai la lodedella mia Strofe Lunga.

La corona di Glauco

MÉLITTA: Fulge, dai maculosi leopardivigilata, una rupe bianca e solaonde il miele silentemente colaquasi fontana pingue che s'attardi.

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Quivi in segreto sono i miei lavacridove il mio corpo ignudo s'insaporae di rosarii e di pomarii odorae si colora come i marmi sacri.

Io son flava, dal pollice del piedealla cervice. Inganno l'ape artefice.Porto negli occhi mie le arene lidie.

Per entro i variati ori la lieveanima mia sta come un fiore semplice.Melitta è il nome della mia flavizie.

L'ACERBA: Non io del grasso fiale mi nutrico.Lascio la cera e il miele nel lor bugno.Ma spicco la susina afra dal prugnosemiano, e mi piace l'orichico.

E il latte agresto piacemi del ficoprimaticcio che nérica nel giugno.Ti do due labbra fresche per un pugnodi verdi fave, e il picciol cuore amico!

Vieni, monta pe' rami. Eccoti il braccio.Odoro come il cedro bergamottose tu mi strizzi un poco la cintura.

Quanto soffii! Tropp'alto? Non ti piaccio?Ah, ah, mi sembri quel volpone ghiotto

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che disse all'uva: Tu non sei matura.

NICO: I tuoi piè bianchi sono i miei trastullinella gracile sabbia ove t'accosci,bianchi e piccoli come gli aliossilevigati dal gioco dei fanciulli.

- Ahi, ahi, misera Nico, i miei piè brulli!Su la sabbia di foco i piè mi cossi.Tu ridi, costassù, tu ridi a scrosci!Ma, s'io ti giungo, vedi come frulli.

- Ingrata, ingrata, con che arte il focoti rilieva le vene in pelle in pellee il pollice t'imporpora e il tallone!

- Bada; Non aliossi pel tuo giocoma ho in serbo per te, schiavo ribelle,una sferza di cuoio paflagone.

NICARETE: Glauco di Serchio, m'odi. Io, Nicaretele canne con le lenze e gli ami sgombriche non preser già mai barbi né scombrit'appendo alla tua candida parete.

E t'appendo le nasse anco, e la retefallace con suoi sugheri e suoi piombiche non pescò già mai mulli né rombima qualche fuco e l'alghe consuete.

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Amaro e avaro è il sale. O Glauco, m'odi.Prendimi teco. Evvi una bocca, parmi,sinuosa nell'ombra de' miei bùccoli.

Teco andare vorrei tra lenti biodie coglier teco per incoronarmil'ibisco che fiorisce a Massaciùccoli

A NICARETE: Nicarete dal monte di Quiesaa Montramito i colli sono lenticome i tuoi biodi, all'aria obbedienti,fatti anch'elli d'un oro che non pesa.

E quella lor soavità, sospesatra i chiari cieli e l'acque trasparenti,tu non la vedi quasi ma la senticome una gioia che non si palesa.

Sorge, splendore del silenzio, il discolunare. O Nicarete, ecco, e s'adempiementre nel lago la ninfea si chiude.

Prima è rosato come il fior d'ibiscoche t'inghirlanda le tue dolci tempiema dopo assempra le tue spalle ignude.

GORGO: Ospite sempre memore, io son Gorgoe l'odor delle Cicladi vien meco.Tutte l'uve e le spezie, ecco, ti recoin questo lino aereo d'Amorgo.

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Glauco, e ti reco il vin di Chio nell'otro,quel che bevesti un dì sul tuo fasèlo,quel che in argilla si facea di gelopendula a soffio di ponente o d'ostro.

E una corona d'ellera e di gàtticeti reco, per un'ode che mi piacquedi te, che canta l'isola di Progne.

Io voglio, nuda nell'odor del màstice,danzar per te sul limite dell'acquel'ode fiumale al suon delle sampogne.

A GORGO: Gorgo, più nuda sei nel lin seguace.La tua veste ti segue e non ti chiude.Fra l'ombelico e il depilato pubeil ventre appare quasi onda che nasce.

Ombra non è su le tue membra caste:dall'ìnguine all'ascella albeggi immune.Polita come il ciòttolo del fiumesei, snella come l'ode che ti piacque.

Danzami la tua molle danza ioniamentre che l'Apuana Alpe s'inostrae il Mar Tirreno palpita e corusca.

L'Ellade sta fra Luni e Populonia!E il cor mi gode come se tu m'offra

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il vin tuo greco in una tazza etrusca.

L'AULETRIDE: Io rinvenni la pelle dell'incautoFrigio nomato Marsia appesa a un pino,sul suol roggio il coltello del divinocastigatore e, presso, il doppio flauto.

Questo raccolsi trepidando, o Glauco.E, immemore del flebile destino,io son osa talor nel mio giardinochiuso carmi dedurre sotto il lauro.

Rivolgomi sovente e guardo s'Eglinon apparisca a un tratto, l'Immortale.Ma non mi trema il mio labbro fasciato.

Vivon nell'orror sacro i miei capeglima per l'angustia del mio petto saleil superbo di Marsia antico afflato.

BACCHA: Ah, chi mi chiama? Ah, chi m'afferra? Un tirsoio sono, un tirso crinito di fronda,squassato da una forza furibonda.Mi scapiglio, mi scalzo, mi discingo.

Trascinami alla nube o nell'abisso!Sii tu dio, sii tu mostro, eccomi pronta.Centauro, son la tua cavalla bionda.Fammi pregna di te. Schiumo, nitrisco.

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Tritone, son la tua femmina azzurra:salsa com'alga è la mia lingua; entrambele gambe squamma sonora mi serra.

Chi mi chiama? La bùccina notturna?il nitrito del Tessalo? il tonantePan? Son nuda. Ardo, gelo. Ah, chi m'afferra?

Stabat nuda aestas

Primamente intravidi il suo piè strettoscorrere su per gli aghi arsi dei piniove estuava l'aere con grandetremito, quasi bianca vampa effusa.Le cicale si tacquero. Più rochisi fecero i ruscelli. Copiosala résina gemette giù pe' fusti.Riconobbi il colùbro dal sentore.

Nel bosco degli ulivi la raggiunsi.Scorse l'ombre cerulee dei ramisu la schiena falcata, e i capei fulvinell'argento pallàdio trasvolaresenza suono. Più lungi, nella stoppia,l'allodola balzò dal solco raso,la chiamò, la chiamò per nome in cielo.Allora anch'io per nome la chiamai.

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Tra i leandri la vidi che si volse.Come in bronzea messe nel falascoentrò, che richiudeasi strepitoso.Più lungi, verso il lido, tra la pagliamarina il piede le si torse in fallo.Distesa cadde tra le sabbie e l'acque.Il ponente schiumò ne' suoi capegli.Immensa apparve, immensa nudità.

Ditirambo III

O grande Estate, delizia grande tra l'alpe e il mare,tra così candidi marmi ed acque così soavinuda le aeree membra che riga il tuo sangue d'oroodorate di aliga di résina e di alloro,laudata sii,o voluttà grande nel cielo nella terra e nel maree nei fianchi del fauno, o Estate, e nel mio cantare,laudata siitu che colmasti de' tuoi più ricchi doni il nostro giornoe prolunghi su gli oleandri la luce del tramontoa miracol mostrare!

Ardevi col tuo piede le silenti erbe marine,struggevi col tuo respiro le piogge pellegrine,tra così candidi marmi ed acque così soavialzata; e grande eri, e pur delle più tenui vite

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gioiva la tua gioia, e tutto vedeva la tua pupillagrande: le frondi delle selve e i fusti delle navi,e la ragia colare, maturarsi nelle pinele chiuse mandorlette e la scaglia che le sigillapender nel fulvo, e l'orme degli uccelli nell'argilladei fiumi, l'ombre dei voli su le sabbie salinevedea, le sabbie rigarsi come i palati cavi,al vento e all'onda farsi dolci come l'inguine e il pubeamorosamente,imitar l'opre dell'api,disporsi a mo' dei faviin alveoli senza miele,e l'osso della seppia tra le brune carrubebiancheggiar sul lido, tra le meduse mortebrillar la lisca nitida, la valvatra il sughero ed il vimine variar la sua iri,pallida di desiri la nubelanguir di rupe in rupelungh'essi gli aspri capiqual molle donna che si giaccia co' suoi schiavi,scorrere la gómena nella rossacùbia, sorgere la negossaviva di palpitanti pinne, curvarsi al peso vivola pertica, la possadei muscoli, gonfiarsi nelle braccia vellute,una man rudetendere la scotta,al garrir della vela fortepiegarsi il bordo, come la gota del nuotatore,la scìa mutar colore,

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tutto il Tirreno in fioretremolar come alti paschi al fiato di ponente.

O Estate, Estate ardente,quanto t'amammo noi per t'assomigliare,per gioir teco nel cielo nella terra e nel mare,per teco ardere di gioia su la faccia del mondo,selvaggia Estatedal respiro profondo,figlia di Pan diletta, amor del titan Sole,armoniosa,melodiosa,che accordi il curvo golfo sonorocome la citaredaaccorda la sua cetra,dolore di Demetrache di te si duolene' solstizii sereniper Proserpina sua perduta primavera!O fulva fiera,o infiammata leonessa dell'Etra,grande Estate selvaggia,libidinosa,vertiginosa,tu che affochi le reni,che incrudisci la sete,che infurii gli estri,Musa, Gorgóne,tu che sciogli le zone,che succingi le vesti,

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che sfreni le danze,Grazia, Baccante,tu ch'esprimi gli aromi,tu che afforzi i veleni,tu che aguzzi le spine,Esperide, Erine,deità diversa,innumerevole gioco dei vèntidei flutti e delle sabbie,bella nelle tue rabbiesilenziose, acre ne' tuoi torpori,o tutta bella ed acre in mille nomi,fatta per me dei sogni che dalla febbre del mondotrae Pan quando su le canne sacredelira (delira il sogno umano),divina nella schiuma del mare e dei cavalli,nel sudor dei piaceri,nel pianto aulente delle selve assetate,o Estate, Estate,io ti dirò divina in mille nomi,in mille lauditi loderò se m'esaudi,se soffri che un mortal ti domi,che in carne io ti veda,ch'io mortal ti goda sul letto dell'immensa piaggiatra l'alpe e il mare,nuda le fervide membra che riga il suo sangue d'oroodorate di aliga di résina e di alloro!

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Versilia

Non temere, o uomo dagli occhiglauchi! Erompo dalla cortecciafragile io ninfa boscherecciaVersilia, perché tu mi tocchi.

Tu mondi la persica dolcee della sua polpa ti godi.Passò per le scaglie e pe' nodil'odore che il cuore ti molce.

Mi giunse alle nari; e la mialingua come tenera foglia,bagnata di sùbita voglia,contra i denti forti languìa.

Sapevi tu tanto sagacinari, o uomo, in legno sì grezzo?Inconsapevole eri, e del rezzogioivi e de' frutti spiccaci

e dell'ombre cui fànnoti gli aghidel pino, seguendo il piacerede' vènti, su gli occhi leggierecome ombre di voli su laghi.

Io ti spiava dal mio fustoscaglioso; ma tu non sentivi,

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o uomo, battere i miei vivicigli presso il tuo collo adusto.

Talora la scaglia del pinoè come una palpebra rudeche subitamente si schiude,nell'ombra, a uno sguardo divino.

Io sono divina; e tu forsemi piaci. Non piacquemi l'irtoSatiro sul letto di mirto,e il panisco in van mi rincorse.

Ma tu forse mi piaci. Aulisced'acqua marina la tua pelleche il Sol feceti fosca. Snellehai gambe come bronzo lisce.

Offrimi il canestro di giuncoricolmo di persiche bionde!Poiché non mi giovano monde,riponi il tuo coltello adunco.

Io so come si morda il pomosenza perdere stilla di suco.Poi co' miei labbri umidi inducoil miele nel cuore dell'uomo.

Riponi il ferro acre che attoscaogni sapore. Tu non pregi

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i tuoi frutti. I peschi, i ciriegi,i peri, i fichi in terra tosca

son di dolcezza carchi, e i meli,gli albricocchi, i nespoli ancora!E tu li spogli in su l'auroravelati dei notturni geli.

Da tempo in cuor mio non è gaudiodi tal copia. Ahimè, sono scarsii doni. E tu vedi curvarsii rami del susino claudio!

Ma io non ho se non la terrapigna dal suggellato seme.E a romper la scaglia che il premenon giovami pur una pietra.

O uomo occhicèrulo, m'odi!Lascia che alfine io mi satollidi queste tue persiche molliche hai nel cesto intesto di biodi.

Ti priego! La pigna malvagiami vale sol per iscagliarlacontro la ghiandaia che ciarlarauca. Non s'inghiotte la ragia.

Ma se le mastichi negli ozii,quantunque ha sapore amarogno,

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allor che il tuo cuore nel sognosi bea lungi ai vili negozii,

certo ti piace, o uomo; ed iote ne darò della più ricca.Tu la persica che si spicca,e ne cola il suco giulìo,

dammi, ch'io mi muoio di vogliae da tempo non ebbi a provarne.Non temere! Io sono di carne,se ben fresca come una foglia.

Toccami. Non vello, non ugnericurve han le tue mani comequelle ch'io so. Guarda: ho le chiomeviolette come le prugne.

Guarda: ho i denti eguali, più bianchiche appena sbucciati pinocchi.Non temere, o uomo dagli occhiglauchi! Rido, se tu m'abbranchi.

Abbrancami come il bicornevilloso. La frasca ci copra,i mirti sien letto, di sopraci pendano l'albe viorne.

Ma come, Occhiazzurro, sei cauto!Forse amico sei di Diana?

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Ora scende da Pietrapanail lesto Settembre col flauto,

se cruenta nel corniolorosseggi la cornia afra e lazza.Odo tra il gridìo della gazzail richiamo del cavriuolo.

Sei tu cacciatore? Sei destroad arco, esperto a cerbottana?Ora scende da PietrapanaSettembre. Tu dammi il canestro.

Eh, veduto n'ho del pél baioverso il Serchio correre il bosco!Tu dammi il canestro. Conoscola pesta se ben non abbaio.

Accomanda il nervo alla cocca.Ne avrai della preda, s'io t'amo!Imito qualunque richiamocon un filo d'erba alla bocca.

La morte del cervo

Quasi era vespro. Atteso avea soverchioalla posta del cervo, quatto quattofra le canne; e vinceami l'uggia. A un tratto

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vidi l'uom che natava in mezzo al Serchio.

Un uomo egli era, e pur sentii la pelleaggricciarmisi come a odor ferigno.Di capegli e di barba era rossignocome saggina, folte avea le ascelle;

ma pél diverso da quel delle gotesotto il ventre parea che gli cominciasse,bestial pelo, e che le parti bassefossero enormi, cosce gambe piote,

come di mostro, tanto era il volumedell'acqua che movea il natatorese ben tenesse ambe le braccia fuorecon tutto il busto eretto in su le spume.

Un uomo era. A una frotta d'anitroccolisbigottita egli rise. Intesi il croscio.Repente si gittò su per lo scrosciodella ripa, saltò su quattro zoccoli!

Lo conobbi tremando a foglia a foglia.Ben era il generato dalla Nubeacro e bimembre, uom fin quasi al pube,stallone il resto dalla grossa coglia.

Il Centauro! Di manto sagginatoera, ma nella groppa rabicanoe nella coda, di due piè balzàno,

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l'equine schiene e le virili arcato.

Ritondo il capo avea, tutto di riccifolto come la vite di racimoli;e l'inclinava a mordicare i cimolidei ramicelli, i teneri viticci

con la gran bocca usa alla vettovagliasanguinolenta, a tritar gli ossi, a bered'un fiato il vin fumoso nel cratèreampio, sopra le mense di Tessaglia.

Levava il braccio umano, dal bicipiteguizzante, a côrre il ramicel d'un pioppo.Repente trasaltò, di gran galopposparì per mezzo agli arbori precipite.

Il cor m'urtava il petto, in ogni nervoio tremando. Ma, nella mia latèbraumida verde, l'anima erami ebrad'antiche forze. E udii bramire il cervo!

L'udii bramir di furia e di dolorecome s'ei fosse lacero da zanneleonine. Balzai di tra le canne,vincendo a un tratto il corporale orrore,

agile divenuto come un veltrope' gineprai, per gli sterpeti rossi,con silenzio veloce, quasi fossi

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in sogno, quasi avessi i piè di feltro.

O Derbe, la potenza che desideroè nei metalli che il gran fuoco ha vinto.Eternato nel bronzo di Corintoti darò quel che i lucidi occhi videro?

Il Centauro afferrato avea pei palchidelle corna il gran cervo nella zuffa,come l'uom pe' capei di retro acciuffail nemico e lo trae, finché lo calchi

a terra per dirompergli la schienae la cervice sotto il suo tallone,o come nella foia lo stallonela sua giumenta assal per farla piena.

Erto alla presa della cornea chioma,con le due zampe attanagliava il dorsocervino, superandolo del torso,premendolo con tutta la sua soma.

Furente il cervo si divincolavasotto, gli occhi riverso, il bruno collogonfio d'ira e di mugghio, in ogni crollocrudo spargendo al suol fiocchi di bava.

Era del più vetusto sangue regio,di quelli che ammansiva il suon del sufolo,vasto e robusto il corpo come bufolo,

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di vénti punte in ogni stanga egregio.

Quanti rivali, oh lune di Settembre,cacciati avea da' freschi suoi ricoverie infissi nella scorza delle roveri,pria d'abbattersi al Tassalo bimembre!

Si scrollò, si squassò, si svincolò.E le muglia sonavan d'ogni intorno.In pugno al mostro un ramo del suo cornolasciando, corse un tratto; e si voltò.

Si voltò per combattere, le vampedelle froge soffiando e le vendette.Il Tassalo gittò la scheggia; e stetteguardingo, fermo su le quattro zampe.

Un fil di sangue gli colava giùpel viril petto, giù per il pelamecavallino il sudore. Come ramegli brillava la groppa or meno or più

al sole obliquo che ferìa lontanope' tronchi, variato dalle frondi.S'era fatto silenzio nei profondiboschi. Il soffio s'udìa ferino e umano.

Gli aghi dei pini ardere come bragiaparean sul campo del combattimento.E l'aspro lezzo bestial nel vento

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si mesceva all'odore della ragia.

Pontata a terra la sua forza avversa,il cervo, come fa nel cozzo il tauro,bassò l'arme. La coda del Centaurotre volte battè l'aria come fersa.

Una rapidità fulva e ramosasi scagliò con un bràmito di morte.O Derbe, ancor ne freme per la sortedel petto umano l'anima ansiosa.

Credetti udire il gemito dell'uomosu l'impennarsi del caval selvaggio.Ma il Tessalo con inuman coraggioil cervo avea pur quella volta dómo!

Preso l'avea di fronte, alle radicidelle corna, e gli avea riverso il muso.Entrambi inalberati, l'un confusocon l'altro in un viluppo, i due nemici,

tra luci ed ombre, sotto il muto cielosaettato da sprazzi porporini,lottavano; e su i due corpi ferini,se le zampe le punte il fitto pelo

il crino irsuto il prepotente sesso,io vedea con angoscia il capo alzarsidi mia specie, agitare i ricci sparsi

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quel vento d'ira sul mio capo istesso.

E, gonfio il cor fraterno, d'un anticorimorso, tesi l'arco dell'agguato.Ma l'uom co' pugni avea divaricatoe divelto le corna del nemico.

Udii lo schianto stridulo dell'ossoinfranto, aperto sino alla mascella.Fumide giù dal cranio le cervellasgorgarono commiste al sangue rosso.

L'erto corpo piombò nel gran riposocon urto sordo; sanguinò silente;senza palpito stette; del cocenteflutto bagnò l'arsiccio suol pinoso.

Rise il Centauro come a quella frottalieve natante giù pel verde Serchio.Poi levò, grande nel silvano cerchio,il duplice trofeo della sua lotta.

Fiutò il vento. Ma prima di partirsicolse tre rami carichi di pine;e due n'avvolse attorno alle cervinecorna, e sì n'ebbe due notturni tirsi.

Del terzo incurvo fece un serto sacroe se ne inghirlandò le tempie umaneove le vene, enfiate dall'immane

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sforzo, ancor cupe ardeangli di sangue acro.

Precinto, armato dei due tirsi foschi,sollevò la gran bocca a respirareverso il Cielo. S'udìa remoto il Mareseguir col rombo il murmure dei boschi.

Sola una Nube era nell'alte zonedell'Etere qual dea scinta che dorma.Venerava il Nubìgena la formacui fecondò l'audacia d'Issione.

Bellissimo m'apparve. In ogni muscologli fremeva una vita inimitabile.repente s'impennò. Sparve Ombra labileverso il Mito nell'ombre del crepuscolo.

L'asfodelo

GLAUCO: O Derbe, approda un fiore d'asfodelo!Chi mai lo colse e chi l'offerse al mare?Vagò sul flutto come un fior salino.

O Derbe, quanti fiori fiorirannoche non vedremo, su pe' fulvi monti!Quanti lungh'essi i curvi fiumi rochi!

Quanti per mille incognite contrade

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che pur hanno lor nomi come i fiori,selvaggi nomi ed aspri e freschi e molli

onde il cuore dell'esule s'appenapoi che il suon noto per rendergli odorecome foglia di salvia a chi la morde!

DERBE: Io so dove fiorisce l'asfodelo.Là nel chiaro Mugello, presso il Giogodi Scarperia, lo vidi fiorir bianco.

Anche lo vidi, o Glauco, anche lo colsiin quell'Alpe che ha nome Catenaiae all'Uccellina presso l'Alberese

nella Maremma pallida ove forseei sorride all'imagine dell'Ademorendo sotto l'unghia dei cavalli.

GLAUCO: O Derbe, anch'io errando su i vestigidella donna letèa, vidi fioriretra Populonia e l'Argentaro il fiore

della viorna. Tutto le sorellebianche il bosco aspro nelle delicatebraccia tenean tacendo, e i negri lecci

e i sóveri nocchiuti al sol di giugnodormivan come venerandi eroientro veli di spose giovinette.

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DERBE: In Populonia ricca di sambuchiio conobbi il marrubbio che rapiscel'odor muschiato al serpe maculoso

e l'ebbio che colora il vin novellodi sue bacche e lo scirpo che rivesteil gonfio vetro dove il vin matura.

GLAUCO: La madreselva come la viornaintenerire del suo fiato i tronchividi a Tereglio lungo la Fegana,

e il giunco aggentilir la Marinelladi Luni, e su pe' monti della Vernal'avornio tesser ghirlandette al maggio.

DERBE: I gigli rossi e crocei ne' monti,alla Frattetta sotto il Sangro, io vidi;anche alla Cisa in Lunigiana, e all'Alpe

di Mommio dove udii nel ciel remotogridar l'aquila. Spiriti immortalipareano i gigli nell'eterna chiostra.

La bellezza dei luoghi era sì crudache come spada mi fendeva il petto.Con un giglio toccai la grande rupe,

che non s'aperse e non tremò. Mi parve

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tuttavia che un prodigio si compiesse,o Glauco, e andando mi sentii divino.

GLAUCO: Nella Bocca del Serchio, ove la pianasabbia vergano oscuramente l'ormedei corvi come segni di sibille,

il narcisso marino io colsi, mentrel'ostro premea le salse tamerici,i cipressetti dell'amaro sale.

Lo smìlace conobbi attico; e al Gomboanche conobbi il giglio ch'è nomatopancrazio, nome caro ai greci efèbi;

e tanto parve ai miei pensieri ardentedi purità, che ai Mani dell'Orfeocerulo io lo sacrai, al Cuor dei cuori.

DERBE: O Glauco, noi facemmo della Terrala nostra donna ed ogni più segretagrazia n'avemmo per virtù d'amore.

Come il Sole entri nella Libra eguale,ti condurrò sui monti della Pievedi Camaiore, e alla Tambura, e ai fonti

del Frigido, e lungh'essa la Freddanadietro Forci, e nell'Alpe di Soraggio,ché tu veda fiorir la genzïana.

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GLAUCO: Bella è la Terra o Derbe, e molto a noicara. Ma quanti fiori fiorirannoche non vedremo, nelle salse valli!

Le Oceanine ornavan di ghirlandei lembi della tunica a Demetrapiangente per il colchico apparito.

Com'entri nello Scòrpio il Sole, o Derbe,ti condurrò su i pascoli del Giovoin mezzo ai greggi delle pingui nubi,

perché tu veda il colchico fiorire.

Madrigali dell'estate

IMPLORAZIONE

Estate, Estate mia, non declinare!Fa che prima nel petto il cor mi scoppicome pomo granato a troppo ardore.

Estate, Estate, indugia a maturarei grappoli dei tralci su per gli oppi.Fa che il colchico dia più tardo il fiore.

Forte comprimi sul tuo sen rubesto

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il fin Settembre, che non sia sì lesto.

Sòffoca, Estate, fra le tue mammelleil fabro di canestre e di tinelle.

LA SABBIA DEL TEMPO

Come scorrea la calda sabbia lieveper entro il cavo della mano in ozioil cor sentì che il giorno era più breve.

E un'ansia repentina il cor m'assaleper l'appressar dell'umido equinozioche offusca l'oro delle piagge salse.

Alla sabbia del Tempo urna la manoera, clessidra il cor mio palpitante,l'ombra crescente di ogni stelo vanoquasi ombra d'ago in tacito quadrante.

L'ORMA

Sol calando, lungh'essa la marinagiunsi alla pigra foce del Motronee mi scalzai per trapassare a guado.

Da stuol migrante un suono di chiarinavenìa per l'aria, e il mar tenea bordone.

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Nitrì di fra lo sparto un caval brado.

Ristetti. Strana era nel limo un'orma.Però dall'alpe già scendeva l'ombra.

ALL'ALBA

All'alba ritrovai l'orma sul posto,selvatica qual pesta di cerbiatto;ma v'era il segno delle cinque dita.

Era il pollice alquanto più discostodall'altre dita e il mignolo ritrattocome ugnello di gàzzera marina.

La foce ingombra di tritume negroodorava di sale e di ginepro.

Seguitai l'orma esigua, come braccoche tracci e fiuti il baio capriuolo.Giunsi al canneto e mi scontrai col riccio.

Livido si fuggì per folto il biacco.Si levarono due tre quattro a volomigliarini già tinti di gialliccio.

Vidi un che bianco; e un velo era dell'alba.Per guatar l'alba dismarrii la traccia.

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A MEZZODÌ

A mezzodì scopersi tra le cannedel Motrone argiglioso l'aspra ninfanericiglia, sorella di Siringa.

L'ebbi su' miei ginocchi di silvano;e nella sua saliva amarulentaassaporai l'orìgano e la menta.

Per entro al rombo della nostra ardenzaudimmo crepitar sopra le cannepioggia d'agosto calda come sangue.

Fremere udimmo nelle arsicce cretele mille bocche della nostra sete.

IN SUL VESPERO

In sul vespero, scendo alla radura.Prendo col laccio la puledra bradache ancor tra i denti ha schiuma di pastura.

Tanaglio il dorso nudo, alle difese;e per le ascelle afferro la naiàda,la sollevo, la pianto sul garrese.

Schizzan di sotto all'ugne nel galoppo

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gli aghi i rami le pigne le cortecce.Di là dai fossi, ecco il triforme gropposu per le vampe delle fulve secce!

L'INCANTO CIRCEO

Tra i due porti, tra l'uno e l'altro faro,bonaccia senza vele e senza nubidolce venata come le tue tempie.

Assai lungi, di là dall'Argentaro,assai lungi le rupi e le paludidi Circe, dell'iddìa dalle molt'erbe.

E c'incantò con una stilla d'erbetutto il Tirreno, come un suo lebete!

IL VENTO SCRIVE

Su la docile sabbia il vento scrivecon le penne dell'ala; e in sua favellaparlano i segni per le bianche rive.

Ma, quando il sol declina, d'ogni notaombra lene si crea, d'ogni ondicella,quasi di ciglia su soave gota.

E par che nell'immenso arido viso

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della pioggia s'immilli il tuo sorriso.

LE LAMPADE MARINE

Lucono le meduse come stanchelampade sul cammin della Sirenasparso d'ulve e di pallide radici.

Bonaccia spira su le rive biancheove il nascente plenilunio appenasegna l'ombra alle amare tamerici.

Sugger di labbra fievole fa l'acquach'empie l'orma del piè tuo delicata.

NELLA BELLETTA

Nella belletta i giunchi hanno l'odoredelle persiche mézze e delle rosepasse, del miele guasto e della morte.

Or tutta la palude è come un fiorelutulento che il sol d'agosto cuoce,con non so che dolcigna afa di morte.

Ammutisce la rana, se m'appresso.Le bolle d'aria salgono in silenzio.

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L'UVA GRECA

Or laggiù, nelle vigne dell'Acaia,l'uva simile ai ricci di Giacintosi cuoce; e già comincia a esser vaia.

Si cuoce al sole, e detta è passolina,anche laggiù su l'istmo, anche a Corinto,e nella bianca di colombe Egina.

In Onchesto il mio grappolo era azzurrocome forca di rondine che vola.All'ombra della tomba di Nettunol'assaporai, guardando l'Elicona.

Feria d'agosto

Espero sgorga, e tremola sul lentovapor che fuma dalla Val di Magra.Un vertice laggiù, nel cielo spentoultimo flagra.

Emulo della stella e della vetta,arde il Faro nell'isola di Tino.Dóppiano il Capo Corvo una golettae un brigantino.

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Or sì or no la ragia con la cuorasi mescola nel vento diforàno.Dell'agrore salmastro s'insaporal'odor silvano.

Àlbica il mar, di cristalline striscevaria, su i liti ansare odesi appena.Ed ecco, il promontorio s'addolciscecome l'arena.

Ogni cosa più gran dolcezza impetra.Tutto avvolve l'immensa pace urania.Fin, nell'aere tenue, si spetrala cruda Pania.

O fanciullo, inghirlanda l'architrave;salda la cera ai tuoi calami arguti;rinfondi nella lampada il soaveolio di Buti.

Fa grido e aduna i tuoi compagni auleti,che rechino le fìstole sonorecomposte con le canne dei cannetidi Camaiore.

Sette di pino belle faci olentie sette di ginepro irsuto appresta,a rischiarare gli ospiti vegnentiper la foresta.

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Fresche delizie avranno elli da scerrebene accordate su la stoia monda:l'uva sugosa delle Cinque Terree nera e bionda,

l'uva con i suoi pampani e i suoi tralci,le pèsche e i fichi su la chiara stoia,e le ulive dolcissime di Calciin salamoia.

Infra l'ombrìna e il dèntice la trigliagrassa di scoglio veggan rosseggiare,e il vino di Vernazza e di Corniglianelle inguistare.

Anche avremo di miele e di friscellola focaccia che fu grata a Priapo,e ghirlanda di cùnzia e d'alberelloper ogni capo.

O fanciulli, e per voi saremo lauti.Io farò sì che ognun di voi ricordila mia feria d'agosto, ma se i flautinon sien discordi.

Accendete le faci, e andiam nel boscoa rischiarare l'ospite che viene.Odo tinnire un riso ch'io conosco,ch'io mi so bene.

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È di quella che fùstiga i miei spirti,d'una che acerba ride e dolce parla.Accendete le faci e andiam tra i mirtiad incontrarla.

Non vi stupite già che la crocòtasia guisa d'oggidì tra Serchio e Magra.Quest'ospite è d'origine beota,vien di Tanagra.

Ma ben la grazia onde succinge il giallobisso e i sandali scopre è maraviglia(porta anelli d'elettro e di cristalloalla caviglia)

mentre il suo capo sottilmente orditopiega, ove ferma un lungo ago l'intreccio,fulvo come i ginepri che sul litomorde il libeccio.

Rugge e odora il ginepro nella teda.Or configgete in terra acceso il fusto.Flauti silvestri, e il nume vi concedail tono giusto.

Fanciulli, attenti! Fate un bel concerto.Pan vi guardi da nota roca o agra.Quest'ospite che v'ode ha orecchio esperto;vien di Tanagra.

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(Data di composizione sconosciuta)

Il policefalo

Spezzate i flauti. Il lino che connettele canne è quel medesmo degli astutilacci, e la cera troppo sa di miele.

Il suono puerile è breve oblìopel cor prestante che non ama il giocofacile né cattare il sonno lieve.

Né tu sei cittadino d'Agrigentonomato Mida, vincitore in Delfo.Né t'insegnò la Cèsia il grande carme.

Pallade Atena dai fermi occhi chiariprima inventò tal melodìa, nel giornoin cui Medusa tronca fu dall'arpe.

Udì le grida e i pianti ch'Euriàlemettea tra il sibilare dei serpentiverso la strage; udì l'orrendo ploro.

I gemiti di Steno come dardifendeano l'etra, e tutti gli angui erettiminacciavan l'eroe nato dall'oro.

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Così la Melodìa di Mille Testenacque in giorno sanguigno; e la raccolsePallade Atena e modulò per l'uomo.

Le canne dei canneti d'Orcomènoella guarnì con làmine di bronzoe sì ne fece più possente il tuono.

Spezzate i flauti esigui, auleti imberbi,poi che non han potenza al grande carme.Cercatemi nel mare i nicchi intorti.

V'insegnerò davanti alle tempestededurre dalle bùccine profondela melodìa delle mie mille sorti.

Il tritone

Il Tritone squammoso mi fu mastro.S'accoscia su la sabbia ove la schiumabulica; e al sole la sua squamma fuma.Giùngogli ov'è tra il pesce e il dio l'incastro.

Ha il gran torace azzurro come il glastroma l'argento sul dorso gli s'alluma.Sceglie tra l'alghe la più verde, e ruma;e gli cola il rigurgito salmastro.

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Con la vasta sua man palmata afferrala sua conca, v'insuffla ogni sua possa,gonfio il collo le gote gli occhi istrambi.

Va il rimbombo pel mare e per la terra.L'Alpe di Luni cròllasi percossa.Bàlzano nel mio petto i ditirambi.

L'arca romana

Alpe di Luni, e dove son le statue?I miei spirti desìan perpetuarsioggi sul cielo in grandi simulacri.

O antichi marmi in grandi orti romani!Stan per logge e scalèe di balaustri,con le lor verdi tuniche di muschi.

Negreggiano i cipressi i lecci i bussiintorno alla fontana ove il Silenziocol dito su le labbra è chino a specchio.

Vede apparire dal profondo il teschiodell'eterna Medusa, la Gorgónevede sé fiso nel divino orrore.

Lamenta i fati il grido del paone.Tutto è immobilità di pietra, vita

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che fu, memoria grave, ombra infinita.

Un sarcofago eleggo, ov'è scolpitain tre facce una pugna d'Alessandro;pieno è di terra, e porta un oleandro.

Quivi masticherò la foglia amaradel mio lauro, seduto su quell'arca.

Quivi disfoglierò la rosa vanadell'amor mio, seduto su quell'arca.

L'alloro oceanico

Oleandro d'Apollo, ambiguo arbustoche d'ambra aulisci nell'ardente sera;melagrano, e il tuo rosso balaustoquasi fiammella in calice di cera;

nautico pino, e il tuo scoglioso fustoe i coni entro la chioma tua leggera;olivo intorto da dolor vetusto,e l'oliva tua dolce che s'annera;

ginepro irsuto, mirto caloroso,lentisco, terebinto, caprifoglio,cento corone dell'Estate ausonia;

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ma te, sargasso, re del Marerboso,vasto alloro del gorgo, anche te voglio,che bacche fai come la fronda aonia.

Il Prigioniero

Ardi, sei triste come il Prigionieroignudo che il titano Buonarrotocavò da quel che or splende àvio e rimotoSagro, per il pontefice guerriero.

Constretto anche tu sei del tuo mistero,vittima consacrata al Mare Ignoto;e la bocca tua bella grida a vòtocontra il fato che tolseti l'impero.

Tiranno fosti in Gela, trionfalenell'ode pitia re? Traesti schiavida Tespe uomini e marmi alla tua Tebe?

O sul cavallo bianco eri a Micale,presso il padre di Pericle, e pugnavicon l'altra gioventù nel nome d'Ebe?

La vittoria navale

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Se quella ch'arma di sue grandi pennela prua della trière samotracevenir dee verso me che senza pacepersèvero lo sforzo mio ventenne,

non altrove ma fra le vive antennedi questa selva nata dal focacelito, in vista dell'Alpe che si tacegloriosa di suo candor perenne,

l'attenderò dicendo: «Ben mi vienidalla piaggia che i Càbiri nutrica,dall'isola che sta di contro all'Ebro.

Io son l'ultimo figlio degli Elleni:m'abbeverai alla mammella antica;ma d'un igneo dèmone son ebro».

Il peplo rupestre

Mutila dea, tronca le braccia e il collo,la cima dell'Altissimo t'è ligia.È tua la rupe onde alla notte stigiadiscese il bianco aruspice d'Apollo.

La cruda rupe che non dà mai crollo,o Nike, il tuo ventoso peplo effigia!La violenza delle tue vestigia

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eternalmente anima il sasso brollo.

Quando sul mar di Luni arde la pompadel vespro e la Ceràgiola è cruentasotto il monte maggior che la soggióga,

sembra che dispetrata a volo irrompatu negli ardori e sul mio capo io sentacrosciar la gioia dell'immensa foga.

Il vulture del sole

S'io pensi o sogni, se tal volta io vedaquasi vampa tremar l'aria salina,se nel silenzio oda piombar la pinasorda, strider la ragia nella teda,

sonar sul loto la palustre auleda,istrepire il falasco e la saggina,subitamente del mio cor rapinatu fai, di me che palpito fai preda,

o Gloria, o Gloria, vulture del Sole,che su me ti precipiti e m'artiglisin nel focace lito ove m'ascondo!

Levo la faccia, mentre il cor mi duole,e pel rossore de' miei chiusi cigli

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veggo del sangue mio splendere il mondo.

L'ala sul mare

Ardi, un'ala sul mare è solitaria.Ondeggia come pallido rottame.E le sue penne, senza più legame,sparse tremano ad ogni soffio d'aria.

Ardi, veggo la cera! È l'ala icaria,quella che il fabro della vacca infamefoggiò quando fu servo nel reamedel re gnòssio per l'opera nefaria.

Chi la raccoglierà? Chi con più fortelega saprà rigiugnere le pennesparse per ritentare il folle volo?

Oh del figlio di Dedalo alta sorte!Lungi dal medio limite si tenneil prode, e ruinò nei gorghi solo.

Altius egit iter

L'ombra d'Icaro ancor pe' caldi senidel Mar Mediterraneo si spazia.

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Segue di nave solco che più ferva.Ogni rapidità di vènti agguaglia.Voce d'uom che comandi ama nel turbine.Ode clamor di nàufraghi iteratoe n'ha disdegno, ché silenziosofu quel rimoto suo precipitare.

Io la vidi laggiù, verso l'occaso.Era nel palischermo io co' miei dueremi. A prora il mio Dèspota sedutoera, e guatava fiso la mia cura.Tra quegli e me subitamente vidiignuda l'ombra d'Icaro apparire.Quasi il color marino aveano assuntole sue membra, ma gli occhi eran solari.

Sul petto giovenile intraversateancor gli stavan le due rosse zone,già per gli òmeri vincoli dell'ale,simili a inermi bàltei di porpora.«O Dèspota, costui» dissi «è l'anticofratel mio. Le sue prove amo innovareio nell'ignoto. Indulgi, o Invitto, a questamia d'altezze e d'abissi avidità!».

Ditirambo IV

Icaro disse: «La figlia del Sole

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a me poggiata come ad un virgultosul limite dei paschiguatava il candido armento dei buoipascere lungo il Cèrato rupestro.Mi si piegava il destroòmero sotto la mano regaleumida di sudor gelido; e, dentrome, tremavano tutte le midolle,negli orecchi fragoresonavami sì forte ch'io temevaudir dal sacro Dicte i Coribantiatroci e il rombo del bronzo percosso.E la città di Cnossosplendea di mura còttili e di blocchioltre l'irto canneto atto a far dardi."O Pasife, che guardi?"chiese il Re sopraggiunto. Ed anelavanella sua barba violetta comel'uva cidònia; ché membruto egli erae gravato di giallo adipe il fianco."Io guardo il toro bianco,quello che tu non désti a Posidone"la figlia di Perseide rispose.E le vette nevosedell'Ida biancheggiavan men del toroniveo diniegato al dio profondo."Perché sì tremebondosei tu, figlio di Dedalo?" il Re chiese.E allor Pasife: "Questo ateniesegiovinetto somiglia ad Androgèo

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che non torna d'Atene;e per ciò mi sostiene,il cor triste mi folce;per ciò tanto m'è dolcele dita porre nel suo crin prolisso".Io rividi l'Ilisso,i platani gli allori gli oleandriche l'adombrano, e il bosco degli ulivipresso Colono caro all'usignuolo.Rividi il patrio suoloentro l'anima mia subitamente,come colui ch'è presso alla sua fine;perocché nel mio crineponea le dita la donna solare,e l'ossa mie flagrareparean nel suo sorriso accosto accostosiccome rami cui fiamma s'appicchiquando i legni sien ricchid'aroma e inariditi dall'Estate.E le navi lunatecoi rematori seduti agli scalmiin fila a battere il flutto diviso,e l'Eracleo, l'Amniso,i due porti ricurvi, e il fiume, e i montie tutta quanta l'isola selvosacon le vigne col dìttamo e col mieleardere in quel sorrisovidi per mezzo ai cigli miei morenti.E il sire degli armentiudii mugghiare in quel foco sonoro,

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mugghiare il bianco torodiniegato al gran Padre enosigèo».

Icaro disse: «Poi che l'ombra cadde(il vertice dell'Ida solitarionell'etra rosseggiavacome il fiore del dìttamo crinito)nascostamente ritornai su' paschi,gonfio d'odio il cuor tacito; e scagliaicontra il toro le selci acuminatedell'àlveo del Cèrato divulsee imposte alla mia frombola cretese.Il boaro m'intesee mi rincorse ratto su per l'erbecon la verga di còrilo a minaccia.Ma perse la mia traccianell'ombra che cadea; né mi conobbe,né l'erbe verdi tenner le vestigia.L'infanda cupidigiaper ovunque era sparsa! Palpitareparea pur anco nelle stelle vaghe!Il vento perea piaghesùbite aprire nel mio corpo nudoacerbe sì che non sarìami valsoa medicarle il dìttamo dell'Ida.E piena era di gridacompresse la mia gola nell'arsura,quando giunsi alle muradel Labirinto ove il mio padre avevaambage innumerevole di vie

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riempiuta d'error laborioso.Quivi ristetti ascosoperocché vidi il duro fabro alzatosu la soglia difficile in silenzioe la figlia del Sole in gran segretofavellare con lui senza sorriso,marmorea nel viso,come chi chieda all'arte del mortaleuna cosa tremenda e non ne tremi».

Icaro disse: «L'officina arcanaera in un orto a vista del recurvoporto Eracleo frequentedi ben costrutte navi dalla proradipinta; e gli utensìli erano acuti,e la fronte del fabbro era contratta.Sorgea la forma esattadella falsa giovenca nella lucedel dì, quasi che sazia di pasturaspirasse dalle froge il fiato olentedi cìtiso, tranquilla su' piè fessi.Con tale arte commessieran gli sculti legni e ricopertidi fresca pelle, che parean felicid'ubertà non fallibile i bei fianchie le mamme in sul punto di gonfiarsiall'affluir d'un latte repentino.Furtiva nel giardinovenìa Pasife senza le sue donnea rimirar l'opera fabrile

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ch'ella infiammava della sua lussuriaimpaziente; e seco avea l'irsutoboaro come giudice perfetto.Costui rise: il difettoscorse nella giogaia. Il grande artierefu docile al consiglio dell'uom rude.Pasife con le nudebraccia premette gli òmeri miei nudi,s'abbandonò su me come su fulcroinsensibile, assorta nel suo sognoinumano, perduta nel portento.Saliva un violentofoco dal suolo ov'eran le radicidella mia forza, e tutto m'avvolgea,e tutto come arbusto resinosoparea vi crepitassi e vi splendessi.Oh giardino di spessiaromi, carco di cera e di miele,carco di gomma e d'ambra,ove s'udìa scoppiar la melagranacome un riso che scrosci e quasi mostosi liquefaccia in una bocca d'oro!Recava l'Austro il corodelle femmine ancelle dal palagioremoto, che sedevano ai telaio tingevan di porpora le laneo i semplici isceglieano al beveraggioo di carni ammannivan la vivandaper la figlia del Sole,ignare ch'ella fosse innanzi al Sole

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preda schiumosa d'Afrodite infanda».

Icaro disse: «La figlia del Soleamai, che per libidine soggiacquealla bestia di nerbo più potente.Splendea divinamentela sua carne quand'ella penetravanel simulacro per imbestiarsi.Io chiuso in me riarsi.Io, quando vidi il callido boarola prima volta addurrealla falsa giovenca il toro biancoche si batteva il fiancosonoro con la fersa della codaadorno i corni brevi d'una listadi porpora, balzai gridando: «O Sole,a te consacrerò, sopra la rupeinconcussa, oggi un'aquila sublime!»E andai verso le cimecon la bipenne l'arco e le saette,ben coturnato, a far le mie vendette».

Disse: «Da prima vidi l'ombra vastapalpitar su la torrida petraia.Fulvo il macigno, cerula era l'ombra.E dopo udii la rombadelle penne per l'aer verberato.Gridò verso il suo fatoella repente, ferma su le penne;la corda mia nel tendersi stridette;

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il grido parve lacerare il cieloe lo stridor fu lieve qual garritodi rondine ma il tèloche si partì fu forte e fu cruento.Sentii sul viso il ventodel volo che fece impeto a salire,poi si fiaccò, girò come in un turbo,piombò verso lo scrìmolo del monte.Mi cadde su la fronteuna goccia di sangue larga e caldacome goccia di nuvolo d'agostoquando lampeggia e tuona.L'aquila s'abbattè sul sasso pronail petto, aperta l'alicrude che strepitarono sul sasso,erta sùbito il rostro alla difesa.La roccia discoscesaardeva nel meriggio come il ferronella fucina, sotto i miei coturni.La fronda dei viburniera come la scoria dei metalliliquefatti, e la fronda degli avorni.S'udìano i capricornibelare in mezzo al dìttamo crinito,e l'odore dell'erba vulnerariamescevasi nell'ariatremula con l'odor dell'aquilinosangue che d'ogni sangue è più vermiglio.Col rostro e con l'artigliofu pronta la satellite di Giove

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a combattere contra il feditoresu la rupe inconcussa.Allora io dissi: "Augusta,se tu sei senza volo, io sia senz'armi".E disdegnai ritrarmiqual uomo a saettarla di lontano.Ma gittai l'arco; e mi fasciai la manocon il corame della mia faretra,mi fascia la man destraa difesa degli occhi minacciatidal becco adunco. Feci impeto, entraiin un selvaggio fremito di penne;in un orrendo strepito di pennecome in un nembo fulvo preso fuidalla possa grifagna;sentii fuggirmi sotto le calcagnala rupe e gridai forte.Combattemmo nel rombo della morte.Io con la destra le afferrai la strozzarobusta come tronco di serpente,e strinsi e strinsi; e con la manca trassidalla ferita fresca il dardo primo,più volte e più nell'imofegato lo confissi.Combattemmo sul ciglio degli abissi,in cospetto del Sole, a mezzo il giorno.Gloria d'Icaro! Intornoalla zuffa ogni bàttito di pennesprizzava mille stilledi sangue come porpora in faville

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accesa ed isvolata via per festa.A gloria la mia testapareva di faville incoronarsi.E le piume dei tarsie del petto e del collo e delle ascelleisvolavan su l'Ostro.E un rivolo purpureo dal rostrocolava sul mio braccio imporporatofino al cùbito. E làcera dai colpidelle rampe la destra coscia m'erasì che la messaggeraNike, se mai sostò sul solitariovertice andando verso Atene miaa recar le coronedell'oleastro, fece il paragonetra l'aquilino sangue e il sangue icario.Ah, non temetti il suo giudicio, o Sole.Parvemi, quando apersi il pugno ostilee la nemica ricoprì la rupealfine spenta, parvemi che tuttala sua virtute aligera mi fossenelle braccia e negli òmeri trasfusae m'agitasse i fragili precordiiuna immortale avidità di volo.L'alto vertice soloe l'esanime preda eran con meco,e il dio della lucifera quadriga.Pregai: "Divino auriga,questa vittima t'offro in olocaustoperché tu mi sii fausto

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se dato mi sarà tentar le viedove agiti le tue criniere bianche.Il torace le viscere le branchee il gran capo rostratoin un fuoco di sterpi e d'erbe io t'ardoe la canna del dardo.Concedi, o dio magnifico, se m'odi,concedimi che immuni dalla braceio dell'aquila serbi l'ali fortie con meco le portiperché le veda entrambe il padre mioDedalo d'Eupalàmoateniese, artefice sagace,perché due me ne foggi a simiglianzal'uomo di molti ingegni, ma più forti,ma con più grande numero di penne".E tolsi la bipenneche al cinto appesa avea dietro le reni:con ella diedi nelle congiunture,di muscoli e di tendini gagliardecosì che resisteano al doppio taglio."Ahi che l'incudine e il maglioe l'industria paterna non varrannoa radicarmi la virtù dell'alanella scapula somma" io mi pensaiconsiderando, come il citaristainchino su le corde,la tenacia del nesso tendinosoche biancheggiava di color di perlanel cruore. E la mente ne fu trista.

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E trista fu la mozza ala, a vederla.E, nel fuoco di sterpi fumigandola residua carne offerta al Sole,io mi pensai: "Si duoleil dio solingo sul suo carro ardentee non cura l'insolito libame.La figlia sua nel simulacro infameei vide, onniveggente;e dell'arte di Dedalo si crucciae mi scopre nel cor la piaga acerba,nel cor che non si lagna,cui dìttamo né stebe non mi vale".Mi gravai d'ambo l'alecongiunte con la stringa del mio cinto;e l'alta volontà fu la compagnadella doglia fatalequando, scorto dal dio, di sangue tinto,scesi dal monte verso il Labirinto».

Icaro disse: «L'officina arcanaera in una caverna del dirupo,dietro il porto d'Amnisoa levante di Cnosso, erma sul mare.S'udiva starnazzaree stridere d'uccelli senza tregua,pe' fóri dello scoglio ferrugigno.Il suolo di macignoconsparso era d'antichi dolii rottie di fimo biancastro.Rimbombavano al Giàpice salmastro

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le concave pareticome le curve targhe dei Curetiall'urto delle picche furibonde.Sotto, il fragor dell'ondeavea lunga eco per ambagi ignotequando l'Apelioteenfiava i verdazzurri otri del sale.Quivi all'innaturaleopera intento era il mio padre, quivii congegni del volooprava senza incude e senza maglio.Ben gli diedi travaglioe affanno, ché pareami troppo tardala sua fatica per il mio desìoe sempre poche mi parean le penneadunate dinanzi a lui che oprava.Per lui la cera flava,stretta in pani, col pollice e col fiatoammollii; dispennai la copiosacacciagione; sollecito le penneseparai dalle piume.Il sangue onde imperlavasi l'acumed'ogni fusto divulsovertudioso parvemi; e mi piacquea stilla a stilla suggerlo, accosciatopresso il fabro mirabile che opravaseduto su la pietra.Quante volte votai la mia faretra,infaticato sagittario erranteper le rupi lontane!

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I falchi gli sparvieri e le poianecaddero, e gli avvoltoicalvi gravati di carni lugùbri,e gli astori co' resti dei colùbri,ancor ne' becchi adunchi, e i gru strimoniigambuti dai lunghi ossiaccòmodi al tibìcine, ogni speciepennipotente altivolante caddeper la forza degli archi miei cidoniie de' miei dardi gnossi.E mi tornava io carico di predaceleste alla caverna;e pur sempre pareva al mio desìoche fosse tarda l'opera paterna.Era quivi l'odore della cerae della ragia, ché l'operatoremescolava le lacrime del pinochiare al dono trattabile dell'ape,acciocché questo fosse più tegnente.Escluso avea dall'opera i metallicome gravi ch'ei sono, e l'armaturacomposto avea con le vergelle fermedel còrilo e pieghevoli, congiunteda bene intorto stame in ciechi nodi,e sópravi disteso avea l'omento,la grassa rete che le interioradegli animali include, ben dissecco.E sul congegno solido e leggeroei disponea per ordine le penne,dalla più breve alla più lunga elette

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acutamente, come nella fistoladi Pan le avene dìspari digradanoper la natura dei diversi numeri.E lino e cera usava a collegarle,cera immista di ragia, come dissi.E le sapeva inflettere con tantaarte, per imitar la curvaturadella vita, che l'ala su la pietrainerte parea trepida e tepentee penetrata d'aere, ventosacome fosse per rompere dal nidoo per posarsi dopo lungo volo».

Icaro disse: «Non veduto, vidi.Misi gli occhi per entro ad un rosaio,ove all'alito mio silentementesi sfogliarono due tre rose passe.Parve che si sfogliassecon elle e si sfacesse il cuor mio caro.E senza fine amaromi fu tutto che vidi non veduto,in quel giardino mutoove non più s'udìa la pingue gommagemere né scoppiar pomo granatocome riso puniceo che scrosci.Fracidi i frutti, floscierano, grinzi come cuoi risecchigli arbori, crudi stecchi;le cellette soavi, aride spugne,senza la melodìa laboriosa.

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Rotta al suolo, corrosa,informe fatta come vil carcameera la vacca infameofferta dalla frode al toro biancoperché l'inclito fiancoalla figlia del Soleempiesse di semenza bestiale.E la donna regale,figlia del Sole e dell'Oceanina,Pasife di Perseide, il cui vóltom'era apparito come il penetraledella luce nel tempio dell'iddiosplendido, la reinadell'isola che fu cuna al Cronìdericca in dìttamo in uve in miele e in dardi,l'adultera dei pascoli era quivisola col suo spavento.Bocca anelante, nari acri, occhio intentoavea, pallido volto come l'erbearide, consumato dai sudorie dalle schiume della sua lussuria.Discinta era, e l'incuriadella sua chioma la facea selvaggiaqual femmina del Tìaso tebanoche defessa dall'orgia ansi in un botrodel Citerone, esanguefra il tirso spoglio della fronda e l'otrovoto del vino, al gelo antelucano.Sentiva nel suo ventre, abbrividendo,vivere il mostro orrendo,

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fremere il figlio suo bovino e umano».

Icaro disse: «Era stellato il cielo,era pacato il mare,nella vigilia mia meravigliosa.La roggia stella ascosanel mio cor vigile era la più grande.Le cose miserandeeran lungi da me come da un diobeverato di nèttare novello.Parea dal corpo snellodileguarmisi il triste peso comedal cielo eòo si dileguava l'ombra,e nella carne sgombraun aereo sangue irradiarsi.Nel cielo eòo comparsii pallidi crepuscoli, il messaggiodella Titània fece su per l'acqueun infinito tremito tremare.Subitamente il giubilo del maresi converse in desìo tumultuoso,irto le innumerevoli sue squamme.Allor tutte le fiammedel giorno dal mio cor parvero nate,per sempre tramontatedietro di me le stelle della notte,l'ali della mia sortegià nel periglio glorioso aperte.Ahi, su la pietra inertesi giacevan gli esànimi congegni,

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e le mie braccia umane erano spogliedella virtù pennatache la mia scure avea tronca sul montein giorno di vittoria.E sùbito mi fu nella memoriala tenacia del nesso tendinosoche biancheggiava di color di perlanel cruore vermiglio."Aquila vinta" dissi "Icaro, figliodi Dedalo d'Atene,ai tuoi mani consacra i ligamentiarteficiati e fragili dell'aliche sono opera d'uomo;perché, come ti vinse combattendolungi e presso, così nel tuo dominiovincerti vuole d'impeto e d'ardire".E il mio padre destai dal sonno. Dissi:"Padre, è l'ora". Non altro dissi. Mutostetti mentr'ei m'accomodava l'aliagli òmeri, mentr'ei gli ammonimentiiterava con voce mal sicura."Giova nel medio limite volare;ché, se tu voli basso, l'acqua aggrevale penne, se alto voli, te le incendeil fuoco. Tieni sempre il giusto mezzo.Abbimi duce, séguita il mio solco.Deh, figliuol mio, non esser tropp'oso.Io ti segno la via. Sii buon seguace".E le mani perite gli tremavano.Il mirabile artiere ebbi in dispregio

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silenziosamente. "Al primo voloio con te lotterò, per superarti.Fin dal battito primo, io sarò l'emulotuo, la mia forza intenderò per vincerti.E la mia via sarà dovunque, ad imo,a sommo, in acqua, in fuoco, in gorgo, in nuvola,sarà dovunque e non nel medio limite,non nel tuo solco, s'io pur debba perdermi"risposegli il mio cor silenzioso.E gli sovvenne della grande frode(difficile all'oblìo questo mio cuoresì che l'acqua del Lete non ci valse:furon pur tre le tazze tracannate)e del dolo fabrile gli sovvenne.Fra le mani perite che tremavanoriveder seppe gli utensìli acutiintesi a compiacer la trista voglia."Icaro figlio, m'odi? Io m'alzo primo.Volerò senza foga, e tu mi segui".Ma con l'arte dell'aquila io spiccaidal limitar della caverna un volosì veemente che diseparatofui sùbito. Gli stormi isbigottironosu per le rosse rupi, in fuga stridulitemendo la rapina dileguarono.Oh libertà! Pel corpo nudo l'aerematutino sentii crosciarmi, gelidotutto rigarmi di chiarezza irrigua:non i torrenti ove uso fui detergeredopo le cacce la sanguigna polvere

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m'avean rigato di sì grande giòlito.Oh nel cor mio rapidità del palpitoond'era impulso il volo, in egual numero!Pareami già gli intaversati bàlteiesser conversi in vincoli tendìnei,tutto l'azzurro entrar per gli spiracolidel mio pulmone, il firmamento splenderesul mio torace come sul terribilepetto di Pan. Gridava "Icaro! Icaro!"il mio padre lontano. "Icaro! Icaro!"Nel vento e nella romba or sì or nomi giungeva il suo grido, or sì or noil mio nome nomato dal timoregiungeva alla mia gioia impetuosa."Icaro!" E fu più fievole il richiamo."Icaro!" E fu l'estrema volta. Solofui, solo e alato nell'immensità.Passai per entro al grembo d'una nuvola:un tepore un odore dolce e stranoeravi, quasi l'alito di Nèfelemadre d'Elle che diede nome al ponto.Il vento del remeggio i veli tenuisconvolse, un che di roseo svelò,un che di biondo. Odore dolce e stranom'illanguidiva, inumidiva l'ali.Il vol decadde. Vidi undici navidi prora azzurra fornite di tolda,che flagellavano il mar con la palmadei remi in lunga eguaglianza concordi,andando a impresa lontana. Sul ponte

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pelte lunate luceano e di bronzoclìpei tondi, aste lunghe. Mi giunsel'urlo dei nàuti. Veloce volai,oltre passai. Qual fu dunque la mentedei nàuti rudi mirando il prodigio?Come di me favellarono? Disseroforse: "In un campo di strage la màsculaNike, nell'ombra d'un cumulo grandedai carri estrutto riversi e dirotti,o a piè d'un grande trofeo d'armi illustri,sul suol cruento cedette all'eroeche l'afferrò per la chioma; e fu pregna.E quei che rema lassù con tant'alaè certo il figlio di lei giovinetto".Di queste l'alto cor mio si compiacqueimaginate parole, ché stirpedi Nike avrebbe ei voluto infierire.E vidi poi sotto fulgere in Paroiscalpellata il candor del Marpesso.E vidi poi dall'erratica Delosalir vapore di caste ecatombi.Poi non vidi altro più, se non il Sole.Poi non volli altro più, se non da pressomirarlo eretto sul suo carro ignìto,giugnerlo, farmi arditodi prendere pei freni il suo cavallosinistro, Etonte dalle rosse nari.Il pètaso e i talarid'Erme Cillenio avea conquisi il miosogno meridiano, il mio delirio.

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Congiunto era con Sirioaltissimo nel medio orbe, nell'arcesomma dei cieli Elio d'Eurifaessa.E l'altezza inaccessae l'ardore terribile agognaied offerirgli l'ali che sul montecrètico escluse avea dall'olocausto.Mi sembrava inesaustoil valor mio ché l'animo agitavale morte penne, l'animo immortalee non il braccio breve.Ed ecco, vidi come un'ombra lievesotto di me nella profonda luceove non appariva segno alcunodel mare cieco e dell'opaca terra;ancóra un'ombra vidi, un'altra ancóra.E dissi: "Icaro, è l'ora".Ma il cor non mi mancò. Non misi gridoverso il mio fato, come la devotaalla saetta aquila moritura;né rimpiansi il paterno ammonimento.Guatai senza spaventoin giuso; e l'ombre lievi eran le pennedell'ali, che cadeano tremolandodalla cera ammollita.Mi sollevai con impeto di vitaverso il Titano: udii rombar le ruotedel carro sul mio capo alzato; udiilo scàlpito quadruplice; il balenoscorsi dell'asse d'oro, il fuoco anelo

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dei cavalli. Piròe dalla crinierasublime, Etonte dalle rosse nari.E i cavalli solariannitrirono. Il ventre di Flegontebrillò come crisòlito; la bavad'Eòo fu come il velo d'Iri effuso.E vidi il pugno chiusoche teneva le rèdini, la fersagarrir sul fuoco udii. Tesi le braccia."O Titano!" E la facciaindicibile, sotto la gran chiomaambrosia, verso me si volse china;e i raggi le cingean mille corone."Elio d'Iperione,t'offre quest'ali d'uomo Icaro, t'offrequest'ali d'uomo ignoteche seppero salire fino a Te!"Si disperse nel rombo delle ruotela mia voce che non chiedea mercèal dio ma lode eterna.E roteando per la luce eternaprecipitai nel mio profondo Mare».

Icaro, Icaro, anch'io nel profondoMare precipitai, anch'io v'inabissila mia virtù, ma in eterno in eternoil nome mio resti al Mare profondo!

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Tristezza

Tristezza, tu discendi oggi dal Sole.La tua specie mutevole è la nubedel cielo, e son le spumedel mare gli orli del tuo lino lungo.

Sembri Ermione, sola come leiche pel silenzio vienti incontro solatraendo in guisa d'ala il bianco lembo.Sì le somigli, ch'io m'ingannereise non vedessi ciocca di violasu la sua gota umida ancor del nembo.Ha tante rose in gremboche la spina dell'ultima le pungeil mento e glie l'ingemma d'un granato.Come fauno barbatoaccosto accosto mòrdica le roseil capricorno sordido e bisulco.

Le Ore marine

Quale delle Oreche mi conducestiviventi e furon larvecinerinequando il sole disparvenella triste sera,

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o Ermione,quale delle Ore marinech'ebbero il tuo voltoe le tue mani e le tue vestie la tua movenza leggierae ciascuno de' tuoi gestie ogni grazia che tu avesti,o Ermione,quale delle vergini Oreche mansuefecero col solosilenzio il mar selvaggioquasi che accoltose l'avessero in grembocome un fanciullo torvoper blandire il suo duolosorridendo,o Ermione,quale delle Ore divine,con gli occulti beniche tu le désti,t'accompagna nel viaggiodi là dai fiumi sereni,di là dalle verdi colline,di là dai monti cilestri?

Quella che raccogliesu la sterile sabbiale negre fogliedella querce sacra,o Ermione,

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creature dei montimacere dal sale amaro,cui rapì dalla balzail vento e diede al flutto amaroche le travagliae le rifiuta?Quella che guarda il farolontano su la rupe nudaove il flutto si frange,o Ermione,l'insonne occhio ardenteche già volge i suoi fochiper il deserto specchioinfaticabilmente?Quella che inclinapensosa l'orecchiosu la conca marinae ascolta la rombadella volutae odevi la trombadel Tritone che chiamala Sirena perduta,o Ermione,e odevi il mar che piangela sua Sirena perduta?

Quale delle Ore,quale delle Ore marine,con gli occulti beniche tu le désti,

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col segreto linguaggioche le apprendesti,o Ermione,t'accompagna nel viaggiodi là dai fiumi sereni,di là dalle verdi colline,di la dai monti cilestri,o Ermione,di là dalle chiare cascine,di là dai boschi di querci,di là da' bei monti cilestri?

Litorea dea

Estate, bella quando primamentenella tua bocca il mite oro portavicome l'Arno i silenzii soaviporta seco alla foce sua silente!

Ma più bella oggi mentre sei morentee abbandonata ne' tuoi cieli blavi,che col cùbito languido t'aggravisu la nuvola incesa all'occidente.

T'arda Ermione sul tuo letto roggiogli àcini d'ambra dove si sublimail pianto delle tue pinete australi.

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Io della tua bellezza ultima foggiouna divinità che su la cimadel cuor mi danza: Undulna dai piè d'ali.

Undulna

Ai piedi ho quattro ali d'alcèdine,ne ho due per mallèolo, azzurree verdi, che per la salsèdinecurvi sanno errori dedurre.

Pellùcide son le mie gambecome la medusa errabonda,che il puro pancrazio e la crambedifforme sorvolano e l'onda.

Io l'onda in misura conducoperché su la riva si spandacon l'alga con l'ulva e col fucoche fànnole amara ghirlanda.

Io règolo il segno lucenteche lascian le spume degli orli:l'antico il men novo e il recenteio so con bell'arte comporli.

I musici umani hanno modilor varii, dal dorico al frigio:

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divine infinite melodiio creo nell'esiguo vestigio.

Le tempre dell'onda trascrivosu l'umida sabbia correndo;nel tràmite mio fuggitivogli accordi e le pause avvincendo.

O sabbia mia melodiosa,non un tuo granello di sìlicedarei per la pómice ascosadella fonte all'ombra dell'ìlice.

Brilli innumerevole e immensaalla mia lunata scrittura;e l'acqua che bevi t'addensa,lo sterile sale t'indura.

Il rilievo t'è tanto sottile,dedotto con arte sì parca,che men gracile in puerilefronte sopracciglio s'inarca.

A quando a quando orma trisulcail lineamento intercide;pesta umana, se ti conculca,s'impregna di luce e sorride.

Figure di nèumi elle sonoin questa concordia discorde.

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O cètera curva ch'io suono,né dito né plettro ti morde.

Io trascorro; e il grande concentoin me taciturna s'adempie,dall'unghie de' miei piè d'argentoalle vene delle mie tempie.

Scerno con orecchia tranquillai toni dell'onda che viene,indago con chiara pupillapiù oltre ogni segno più lene;

così che la musica tracciam'è suono, e ne' righi leggeri,mentre oggi odo ansar la bonaccia,leggo la tempesta di ieri.

Che è questo insolito alboreche per le piagge si spande?Teti offre alla madre di Coredogliosa le salse ghirlande?

L'albàsia de' giorni alcioniianzi il verno giunge precocee dagli arcipelaghi ioniiattinge del Serchio la foce?

Il molle Settembre, il tibìcinedei pomarii, che ha violetti

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gli occhi come il fiore del glìcinetra i riccioli suoi giovinetti,

fa tanta chiarìa con due ossidi gru modulando un partèniomentre sotto l'ombra dei rossicorbézzoli indulge al suo genio.

Respira securo il mar dolcequal pargolo in grembo materno.La pace alcionia lo molcequasi aureo latte, anzi il verno.

Onda non si leva; non s'oderisucchio, non s'ode sciacquìo.Di luce beata si godela riva su mare d'oblìo.

La sabbia scintilla infinita,quasi in ogni granello gioisca.Lùccica la valva polita,la morta medusa, la lisca.

In ogni sostanza si tacela luce e il silenzio risplende.La Pania di marmi feracealza in gloria le arci stupende.

Tra il Serchio e la Magra, su l'oziodel mare deserto di vele,

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sospeso è l'incanto. Equinoziod'autunno, già sento il tuo miele.

Già sento l'odore del mostofumar dalla vigna arenosa.All'alba la luna d'agostoera come una falce corrosa.

Di Vergine valica in Libral'amico dell'opere, il Sole;e già le quadrella ch'ei vibrahan meno pennute asticciuole.

Silenzio di morte divinaper le chiarità solitarie!Trapassa l'Estate, supinanel grande oro della cesarie.

Mi soffermo, intenta al trapasso.Onda non si leva. L'albèdineè immota. Odo fremere in basso,a' miei piedi, l'ali d'alcèdine.

Bianche si dilungan le rive,tra l'acque e le sabbie dileguala zona che l'arte mia scrivefugace. Sorrido alla tregua.

A' miei piedi il segno d'un'ondagravato di nero tritume

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s'incurva, una màcera frondadi rovere sta tra due piume,

un'arida pigna dischiusache pesò nel pino sonorosta tra l'orbe d'una medusadispersa e una bacca d'alloro.

Vengono farfalle di nevetremolando a coppie ed a sciami:nella luce assemprano lievespuma fatta alata che ami.

Azzurre son l'ombre sul marecome sparti fiori d'acònito.Il lor tremolìo fa tremarel'Infinito al mio sguardo attonito.

Il tessalo

Tra i fusti ove le radiche fan groppoe già si gonfia venenato il fungo,odo incognito piede solidungocome bronzo sonar contra l'intoppo.

Caval brado non è; però che troppoforte suoni lo scàlpito ed a lungoper la selva selvaggia ove no l' giungo

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duri l'irrefrenabile galoppo.

Certo è l'ugna del Tessalo bimembrecontra i rigidi coni e l'aspre stirpisonante, l'ugna del Centauro illeso.

Ei vuole, mentre il giovine Settembrecirca il fragile vetro intesse scirpibevere il nero vino all'otre obeso.

L'otre

I.

Pelle del becco sordido e bisulcofui, prima che mi traesser le coltella.Deh come olente alla stagion novellaegli era e tra le capre sue petulco,

o uom che m'odi, e ben barbato e torvoe di téttole dure ornato il gozzoe d'aspre corna il fronte invitto al cozzo,negli occhi sùlfure atro come corvo!

Sagliente egli era, e mogli in abbondanzaebbe, e feroce fu nelle sue pugne;ma al suon d'un sufoletto, erto su l'ugnefésse, imitava il satiro che danza.

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Occiso penzolò sanguinolentedall'uncino; e squarciato fumigava,nudi ostentando in sua ventraia caval'argnon focoso e il fegato possente.

Tratta gli fui di dosso umida e floscia.Pelo e carniccio poi tolsemi il ferro.Ghianda di gallonèa, scorza di cerrofecermi bona concia nella troscia.

Rasciutta nelle cieche stìe, premutadai macigni, distesa dall'orbello,per sorte un dì cucita fui del bellocon fil d'accia da femmina saputa.

Otre divenni e principe degli otriobeso appresso i pozzi e le cisterne.Acqua di cieli, acqua di fonti eternecontenni, acqua di rivoli e di botri,

dolci acque e fresche ma di odor caprignosapide tuttavia, sì che talvoltale femmine entro me chiusero moltamenta e il seme dell'ànace fortigno.

O uomo, l'otre invidia le tue seti!Pianure arsicce, livide petraie,pigre maremme fabbricose, ghiaiee sabbie in foco per deserti greti,

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stridor di carri, ànsito di giumentiio conobbi, e il guatar del sitibondo.Io valsi più che l'universo mondoal desiderio delle fauci ardenti!

O uomo, da benigni iddii tu haile tue seti. Il garòfolo e il papaveronon così vividi ardere mi parverocome la bocca tua che dissetai.

Non il capro, onde tratta fui sua spoglia,mai si precipitò come chi vollebere da me. Tutto lo feci molle.Oh gaudio della gola che gorgoglia!

Mani cupide premono i miei fianchiturgidi (sembra che gli arsi occhi bevanoprima che i labbri) mani mi sollevanosu arsi vólti, di polvere bianchi.

Va da me per le vene al cor profondola mia liquida gioia, al più remotoviscere. Oh bene immenso! Eccomi vòto.In dieci gole ho dissetato il mondo.

II.

E vòto fratel fui della bisaccia

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grinzuta ch'ebbe la cipolla e il tozzoin coniugio. E non più rempiuto al pozzofui, non udii crosciar la secchia diaccia,

ma dalla mamma copiosa udiicrosciare emunto il latte nel presepiooccluso. Per indùlgere al mio tedionova sorte mi fecero gli iddii.

Gonfio di latte, anch'io ubero parvipiù capace e men roseo. Notturnopendevo nel presepio taciturno,come gli uberi sotto i materni alvi.

Ma non mai tanto l'otre ebbesi amicala pace come allor che, in su lo scorciodell'autunno, s'apparentò con l'orcioper favore di Pallade pudica.

Pacifera è l'oliva e tarda e pingue.da poi che gemuto ha sotto la mola,si raddolcisce e più non fa parola;mentre la garrula acqua ha mille lingue.

Or pieno fui di castità palladiae di silenzio. Tacito ascoltavapulsar la tempia fievole dell'avae il pane lievitare nella madia.

D'improvviso, una notte, mentre vòto

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giacea sul palco fra i minori otrelli,venne un bifolco tutto irto di vellie seco trassemi a un officio ignoto.

Duro il suo pugno parvemi qual sassoe l'ugna adunca qual branca di belva.Tramontavano l'Orse. Ad una selvaorrida, in riva al fiume, arrestò il passo.

Quivi nel sangue prono era distesoil suo nimico. Gli troncò la testacon una falce; e quella mozza testaprese a' capegli, e me carcò del peso.

Subitamente mi rempiei del nerosangue. E disse il falcato al teschio: «Avevitu sete? Orbè, se t'arde sete, bevi,nell'otro che t'ho acconcio, il vin tuo mero».

E il teschio e il sangue dentro ei mi serrò.Gonfio ero fatto, ed ei mi sollevò.Su la riva del fiume ei mi portò.In mezzo alla corrente ei mi scagliò.

Fervido era anco il buon licor doglioso.O uom che m'odi, acqua di fonte, biancolatte, olio lene, quanto ebbi nel fianco,non vale il sangue tuo meraviglioso!

Entro di me fu breve e immensa guerra,

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ismisurata e rapida tempesta.Non parvemi serrar la tronca testama contenere l'orbe della Terra.

Poi nel gel fluviale in grumo e in saniesi converse quel peso; e la correntemi voltò per le ripe, oscuramentetrassemi verso le contrade estranie.

III.

Era l'aurora quando in mezzo ai salicimi rinvenne l'Egìpane biforme.Uom che m'odi, il tuo spirito che dormepiù non vede gli antichi numi italici!

Vivon eglino pieni di possanza:hanno il fiato dei boschi entro le nari;i gioghi venerandi han per altari,e di sé fanvi testimonianza.

Più non li vedi, o uomo. Nel tuo pettoil cor si sface come frutto putre.E la Terra materna invan ti nutrede' suoi beni. Tu plori al suo conspetto!

Mi rinvenne l'Egìpane divino.Possentemente rise in suo pél falbo;poi tolsemi per trarmi di fra gli àlbori

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umidi: mi credea gonfio di vino.

Dava schiocchi la lingua sua salacementr'ei m'aprìa. Ma pél non gli tremòquando scoperse il teschio e il grumo; «Tò»disse «nell'otro il capo del gran Trace!»

E sopra l'erba mi sgravò del reopeso, mi scosse. Poi raccolse il teschio,lo rotò, lo scagliò forte nel Serchiogridando: «Tu non sei capo d'Orfeo!»

Tal era il riso de' suoi denti scabriquale un rio lapidoso. Allor nell'acquechiare mi terse; m'asciugò. Gli piacqueanco d'enfiarmi co' suoi curvi labri.

Pieno fui del divino afflato, pienofui del selvaggio spirito terrestro!Venne allora il Panisco, che mal destroera nel nuoto, al bel fiume sereno.

E il nume padre a lui mi diede; ed iotenerlo a galla seppi, io lo sorressinel nuoto quando i piccoli piè féssitroppo agitava celere disìo.

Molto l'amai. Dall'ombelico in giusodi pél biondiccio qual cavriuolettoera ma liscio il rimanente, eretto

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il codìnzolo, un po' lusco e camuso.

Tenérmigli solea sotto l'ascellaove appena fiorìa qualche peluzzorossigno; e avea del suo cornetto aguzzotema non mi bucasse per rovella,

sì rapido era il pueril corruccios'ei districava il piè dall'erba acquaticao alzar vedeva l'anatra selvaticao sentiva guizzar da presso il luccio.

Viride Serchio in tra due selve basse!Mattini estivi, quando il bel Paniscobiondetto sen venìa, cinto d'ibiscoroseo, con suoi lacci e con sue nasse!

Troppo, ahimè, destro erasi fatto al nuoto.Omai fendeva le più rapide acque;sì che più giorni e più l'otre si giacquesolo nel limo, e alfin rimase vòto.

IV.

Ma gli alti iddii anco mi fur benigni.Un bel pastore dalla barba d'oromi raccolse. Ed all'ombra d'un alloromi lavorò con suoi sottili ordigni.

705

Quattro di bosso ei fecemi cannelleineguali, e assai bene le polì.La più corta alla spalla m'inserìe strinse con cerate funicelle.

In bocca tre l'artiere me ne messe,l'una più lunga, l'altre due minori;nella più lunga numerosi fóripraticò, che diverse voci desse.

Le due brevi, di largo cerchio e stretto,aperte in giuso a mo' di padiglione,servir di grande e piccolo bordonedovean come le frondi all'augelletto.

Oh meraviglia, quando per la cortacanna egli enfiò la nova cornamusa!Tutta di pia felicità soffusagiovine donna venne in su la porta,

nuda le belle braccia, e disse: «O caromarito, o barbadoro, ecco che nascericchezza ingente nelle nostre case;ed i granai si rempiono di grano,

gli alveari si rempiono di miele,d'aurei pomi si rempiono i frutteti,di rose citerèe tutti i verzieri,e di cervi e di damme le mie selve;

706

e avrò tra i muri miei variodipintiun talamo con quattro alte colonnee vestimenta avrò d'ogni coloree per cignermi d'ogni sorta cinti;

e avrò e avrò nelle mie veglie ancoraper filar la mia lana mille ancellemariterò le mie dolci sorelleai satrapi dell'Asia spaziosa!».

Questo fecero grande incantamentol'otre e il pastore con un poco d'aria,o uom che m'odi, con un poco d'ariae col nume di Cintio arco-d'-argento;

però che il faretrato Citaredo,il qual pur trasse Marsia di vagina,sia largo della sua virtù divinaall'inculto pastore e al dotto aedo,

al calamo forato e alla testudinetricorde se lui prieghi un puro cuore.Noi come greggi i vesperi e l'aurorepascemmo nella verde solitudine.

Il pino irsuto diede il molle fico,i narcissi fioriron su i ginepri,danzò il veltro armillato con le lepri,e l'antico fu novo e il novo antico.

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Oh maraviglia! Come l'elitropioal Sol, volgeasi al suono la soavedonna dalla sua porta. E l'architraveparea sculto da Dedalo il Cecropio

e lo stipite rozzo una colonnadel Palagio di Pelope l'Eburno,quando il pastor dicea: «Come l'alburno,intorno al cuore mi biancheggi, o donna!»

Divenuta più candida nel suonoell'era, come il lin nell'acqua infuso.Sorridea sempre. E la conocchia e il fuso,la spola e i licci erano in abbandono.

Pe' capegli repente l'abbrancò,pe' suoi capegli come l'uva nera,come il folto giacinto a primavera,come dell'edera il corimbo forte,

pe' capegli repente l'abbrancòla Morte, l'abbattè, pel calle oscurola trascinò: di là dal fiume curvo,nel regno buio la portò la Morte.

E nessuno e nessuno più la scorse.Cupo silenzio fu dentro le case.L'ombra lunga occupò la soglia, invaseil talamo. E l'aurora più non sorse.

708

Ma pianto non sonò dentro le case:erano il cuore e gli occhi opache selci.E fuggì la lucertola dall'embrice,anche fuggì la rondine, anche l'ape.

Io pendea tristo, presso il focolare.Ed infine il pastore si sovvennedell'otre. Mi guatò gran tratto. Venne,mi tolse, muto, senza lacrimare.

Io mi credeva ancóra esser premutocontra il fianco dal cubito leggeroe disciogliere in me, rivolto al neroAde, l'ingombro del dolore muto.

«Sposa, ch'io venga su le tue vestigia!»E da me svelse i calami con crudamano, li infranse. L'anima sua nudae noi profferse alla gran Notte stigia.

V.

O uom che m'odi, fu laboriosala mia sorte. Non fecero grandi oziia me gli iddii. Solstizii ed equinoziipassano; passa il colchico, e la rosa.

Tutto ritorna; e la saggezza è vana.La saggezza non val legno ficulno

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né zàccaro caprino. Io voglio, alunnodi Libero, finir di fine insana.

Se bene obeso, molto vidi e udiiperò che amico fui de' viatoriinsonni, esperto di molti sapori,a servigio di efimeri e d'iddii.

Molto contenni, puro o adulterato.Il falso e il vero son le foglie alterned'un ramoscello: il savio non discernel'una dall'altra, l'un dall'altro lato.

E la virtù si tigne come lana,e la felicità come Vertunnotramuta la sua specie. Io voglio, alunnodi Libero, finir di fine insana.

So nelle loro generazionidiverse l'acqua, il latte, l'olio tacito;so il sangue umano e so l'afflato pànicoe so le metamorfosi dei suoni.

Ma il licor rubicondo che ti rendesimile ai numi, o uom che m'odi, ignoro:quello onde gonfio mi credette il buonoEgìpane, e il gran riso ancor mi splende!

Tu m'hai raccolto, o uomo nello specoove per ruzzo trassemi il lupatto.

710

Che valgo? Vedi tu come son fatto!Piacciati dunque d'insanire meco.

Desìo d'altre fortune non mi tocca.Più lungamente vivere non posso.Ricucimi la spalla ov'ebbi il bossoanimato e ristringimi la bocca.

Tu vedi: sono vecchio e non ti giovo.Ma è larga alla tua sete e alla tua famela Terra, e tu le devi il tuo libame.Nell'otre vecchio or poni il vino nuovo!

Vendemmierai con cantici di gioia.Farai del mosto mite il vin possente.Della giovine forza, alla nascenteluna, tu m'empirai queste mie cuoia,

che me le schianti almen la giovinezzaterribile! E coronami di fioriselvaggi, ed al più folto degli allorituoi sospendimi. Oh ultima bellezza!

Discisso tonerò nel gran meriggio.Lungi s'udrà nell'alta luce il tuono.E tu dirai, la pura fronte prono:«Bevi l'offerta, o Terra. Io son tuo figlio».

711

Gli indizii

Ahimè, la vigna è piena di languorecome una bella donna sul suo lettodi porpora, che attenda l'amadore.

Ahimè, di bacche il frùtice s'affoca,la viorna s'incénera, più lieveche la prima lanugine dell'oca.

Ahimè, già qualche canna ha la pannocchia,nella belletta il cìpero si schiude,fa sue querele antiche la ranocchia.

Ahimè, fiore travidi gridellinoche di gruogo salvatico mi parve,e tinto di gialliccio il migliarino.

In uno m'abbattei lungo il canaleove tra lente imagini di nubis'infràcida la dolce carne erbale.

Villoso egli era. Intento io lo guatai;e la morte di quella che mi piacqueseppi negli occhi suoi distrambi e vai.

Sogni di terre lontane

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I PASTORI

Settembre, andiamo. È tempo di migrare.Ora in terra d'Abruzzi i miei pastorilascian gli stazzi e vanno verso il mare:scendono all'Adriatico selvaggioche verde è come i pascoli dei monti.

Han bevuto profondamente ai fontialpestri, che sapor d'acqua natìarimanga ne' cuori esuli a conforto,che lungo illuda la lor sete in via.Rinnovato hanno verga d'avellano.

E vanno pel tratturo antico al piano,quasi per un erbal fiume silente,su le vestigia degli antichi padri.O voce di colui che primamenteconosce il tremolar della marina!

Ora lungh'esso il litoral camminala greggia. Senza mutamento è l'aria.il sole imbionda sì la viva lanache quasi dalla sabbia non divaria.Isciacquìo, calpestìo, dolci romori.

Ah perché non son io co' miei pastori?

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LE TERME

Settembre, oggi veder vorrei l'azzurrodel tuo cielo riempiere la boccarotonda della maschera di pietrain cima alla colonna che si sfaldanei secoli, convolta dal rosaioche si sfoglia nell'ora, entro quel chiostroquadrato che di biondo travertinochiarisce il cotto delle antiche Terme.

Forse d'Orfeo ragionerei con Ermesul margine del fonte ove i delfinireggon la tazza in su le code erette;o forse udrei l'ammonimento gravedei due neri superstiti cipressiai due lor verdi cipressetti alunniche crescono ove caddero i maggioripercossi dalla folgore di luglio.

O forse mi parrebbe, oltre il cespugliosoave, udire l'ànsito del servoalla stanga appaiato col giumentocirca la mola cònica di lava;e più de' nudi torsi, e più de' bustie più de' cippi mi sarebbe caral'ombra delle farfalle su pe' doliirisarciti con piombo dal colono.

Settembre, là, sul fianco del bel Trono

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d'Afrodite, l'aulètride dagli occhia mandorla e dal seno di cotognasta, sovrapposta l'una all'altra coscia,adagiata sonando le due tibiecon i frammenti dell'esperte dita;e il Re Pastore immoto nel basaltefigge all'Eternità gli occhi corrosi.

Ronzano l'api ne' silenziosiorti dei bianchi monaci defunti;e nelle celle àbitano gli iddii,làcerano le Menadi la vittima,Anassimandro medita, dal murosvégliasi il carme dei fratelli Arvali.«Enos Lases iuvate». Un'ape or entra,per la chioma di Iulia che l'illude.

Nell'àlveo d'un ricciolo si chiude.

LO STORMO E IL GREGGE

Settembre, teco io sia sul Loricinoche fece blandi gli ozii del pretore:in sabbia quasi rosea fluiscescabra di rughe e sparsa di negrorecome il palato del mio dolce veltro.

Sorvolano le rondini quel vetrolieve cui godon rompere coi bianchi

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petti: una piuma cade e corre al mare.E di là dalle verdi canne i montidi Cori son cilestri come il mare.

Forza del Lazio quanto sei soave!Obliate città dei re vetusti,atrii del Citaredo imperiale,un bel fanciullo vien con le sue capree regna i lidi, impube re latino!

Il suo gregge è di numero divino,nero e bianco a sembianza delle frottealate che sorvolano il bel rivo,pari olocausto al Giorno ed alla Notte.Quasi fiore l'esigua foce s'apre.

Equa ride alle rondini e alle capre.

LACUS IUTURNAE

Settembre, chiare fresche e dolci l'acqueove il tuo delicato viso miri;e dolce m'è nella memoria il mionatale Aterno in letto d'erbe lente,e l'Amaseno quando muor domatopresso l'Appia col fratel suo l'Uffente,e la Cyane ascosa tra i papìri,e la Vella sì cara alla vitalba.

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E pien di deità dai colli d'Albalo specchio di Diana ancor mi luce.Ma un'altr'acqua al mio sogno è più divina.Quella m'attingi e ne riempi l'urna.Sotto la roggia mole palatinapresso il Tempio di Castore e Polluce,occhio di Roma è il Fonte di Iuturna.Deh mio misterioso amor lontano!

Alte sul Fòro nel meridianosilenzio stan le tre colonne pariecome d'argento cui salsezza infoschi.Gli elci neri sul colle imperialesembran ruine dei primevi boschi.Di ferrigno basalte arde la ViaSacra tra gli oleandri giovinettie i sepolcreti dei Latini prisci.

Si tace il Fonte ne' suoi marmi liscicome quando Tarpeia la Vestalevi discendea con l'anfora d'argilla.Tremola il capelvenere sul tufoe sul mattone, l'acqua è glauca, tingeil suo letto lunense; una lucertasu l'ara dei Diòscuri tranquillagode in grembo alla dea di lunga face.

Ombre delle farfalle in quella pace!Poc'acqua accolta, santità dell'Urbe!Le custodi del Fuoco sempiterno

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scendono alla marmorea piscina?o i Tindàridi rossi di latinastrage, per beverare i due cavalli?Deh lauri nuovi! Presso il putealecrescono, nel sacrario di Iuturna.

Li veglia la Speranza taciturna.

LA LOGGIA

Settembre, il tuo minor fratello Aprilefioriva le vestigia di San Marcoa Capodistria, quando navigammoil patrio mare cui Trieste addentaco' i forti moli per tenace amore.

Capodistria, succiso adriaco fiore!Io vidi nella loggia d'un palagionidi di balestrucci appesi a travifosche, tra mazzi penduli di sorbe.Cinericcio era il tempo, umido e dolco.

Or laggiù, pel remaggio senza solco,tu certo aduni i neribianchi stormi,e quelli di Pirano e di Parenzo,che si rincontreranno in alto marecon l'altra compagnia che vien di Chioggia.

E son deserti i nidi nella loggia,

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e dei mazzi di sorbe son rimaseforse le canne appese pel lor cappio.S'ode nell'ombra quella parlaturache ricorda Rialto e Cannaregio.

Una colomba tuba dal bel fregio.

LA MUTA

Settembre, ora nel pian di Lombardiaè già pronta la muta dei segugi,de' bei segugi falbi e maculatidall'orecchie biondette e molli comefoglie del fiore di magnolia passe.La muta dei segugi a volpe e a dammaor già tracciando va per scope e sterpi.Erta ogni coda in bianca punta splende.

Presso il gran ponte sta Sesto Calende.Corre il Ticino tra selvette rare,verso diga di roseo granitocorre, spumeggia su la china eguale,come labile tela su telaiocèlere intesta di nevosi fiori.Chiudon le grandi conche antichi ingegni,opere del divino Leonardo.

Il sorriso tu sei del pian lombardo,o Ticino, il sorriso onde fu pieno

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l'artefice che t'ebbe in signoria;e il diè constretto alle sue chiuse donne.Oh radure tra l'oro che rosseggiadello sterpame, tiepide e soavicome grembi di donne desiate,sì che al calcar repugna il cavaliere!

Vanno i cani tra l'èriche leggierecon alzate le code e i musi bassi,davanti il capocaccia che gli allenaper mezz'ottobre ai lunghi inseguimenti.S'ode chiaro squittire in que' silenzii.Il suon del corno chiama chi si sbandae chi s'attarda e trae la lingua ed ansa.Già la virtù si mostra del più prode.

Il buon maestro dell'arte sua si gode:talor gli ultimi aneliti esalaresembra l'Estate aulenti sotto l'ugnedel palafren che nel galoppo falca.E, fornito il lavoro, ei torna al passoper la carraia ingombra di fascine:con la sua muta va verso il canile,va verso Oleggio ricca di filande.

Vapora il fiume le sterpose lande.

LE CARRUBE

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Settembre, son mature le carrube.Or tu pel caldo mare di Ciliciaconduci dalla riva cipriotala sàica a scafo tondo e a vele quadre.Bonaccia, e nel saffiro non è nube.

Germa con sue maggiori quattro vele,garbo o schirazzo, legni levantinicarichi di baccelli dolci e bruniconduci verso l'isola dei Sardi.E vien teco un odor di tetro miele.

La siliqua, che ingrassa la mulettadall'ambio lene e in carestìa disfamala plebe dalla bianca dentatura,lustra come i capelli tuoi castagnimentre stai su la coffa alla vedetta.

Certo, d'olio di sèsamo son untequelle tue ciocche in forma di corimbi.Certo, ritrovi or tu nel gran dolcioredel Mar Cilicio l'obliato carmeche alla Cipride piacque in Amatunte.

Settembre, teco esser vorremmo ovunque!

Il novilunio

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Novilunio di settembre!Nell'aria lontanail viso della creaturaceleste che ha nomeLuna, trasparente comela medusa marina,come la brina nell'alba,labile comela neve su l'acqua,la schiuma su la sabbia,pallido comeil piaceresu l'origliere,pallido s'inclinae smuore e languecon una collanasotto il mento sì chiarache l'oscura:silenzioso viso esanguedella creaturaceleste che ha nome Luna,cui sotto il mento s'incurvauna collanasì chiara che l'offusca,nell'aria lontanaov'ebbe nome Dianatra le ninfe eterne,ov'ebbe nome Selenedalle bianche bracciaquando amava quel pastore

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giovinetto Endimioneche tra le bianche bracciadormiva sempre.

Novilunio di settembre!Sotto l'ambiguo lume,tra il giorno senza fiammee la notte senza ombre,il mare, più soavedel cielo nel suo volumelento, più molledella nubelattea che la montagnaesprime dalle sue mammedelicate,il mare accompagnala melodìadella terra, la melodìache i flauti dei grillifan nei campi tranquilliroca assiduamente,la melodìache le ranefan nelle pantanemorte, nel fiume che stagnatra i salci e le cannelutulente,la melodìache fan tra i vinchiche fan tra i giunchi

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delle ripe rimoteuomini solinghitessendo le vermenein canestre,con sì lunghiindugi su quelle paroleche ritornano sempre.

Novilunio di settembre!Tal chiaritateil giorno e la notte commistisul letto del marenon lieti non tristieffondono ancora,che tu vedi ancoranella sabbia le ondedel vento, le ormedei fanciulli, le conchevacue, le algheargentine,gli ossi delle seppie,le guainedelle carrube,e vedi nella sieperosseggiar le nudebacche delle rose caninee nel campo la pannocchiadalla barba d'orolucere, che al pleniluniosu l'aia il coro

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agreste monderà con canti,e nella vignail grappolo d'oroche già fu sonoro d'api,e nel verziere il ficoche dall'ombelico stillail suo miele,e su la soglia del tuguriobiancheggiar la conocchiadell'antica madre che fila,che fila sempre.

Novilunio di settembre,dolce come il visodella creaturaterrestre che ha nomeErmione, tiepido comele sue chiome,umido come il sorrisodella sua boccaumida ancóradella prima uva matura,breve come la sua cinturanel cielo verdecome la sua veste!Ha trematonella sua vesteverde che odoraad ogni passocome un cespo ad ogni fiato,

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ha trematoal primo gelo notturnoella che a mezzo il giornodormì con la guanciasul braccio curvoe si svegliò con le tempiemadide, con imperlatoil labbro, nella calura,vermiglia come un'auroraaspersa di calda rugiadae sorridente.E io le dico: «O Ermione,tu hai tremato.Anche agosto, anche agostoandato è per sempre!

Guarda il cielo di settembre.Nell'aria lontanail viso della creaturaceleste che ha nomeLuna, con una collanasotto il mento sì chiarache l'oscura,pallido s'inclina e muore...»Ma dice Ermione,non lieta non triste:«T'inganni. Quella ch'è sì chiaraè la falcedell'Estate, è la falceche l'Estate abbandona

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morendo, è la falceche falciò le aristee il papavero e il cìanoquando fiorìanoper la mia coronavincendo in lume il cielo e il sangue;ed è la faccia dell'Estatequella che languenell'aria lontana, che muorenella sua chiaritatesopra le acquetra il giorno senza fiammee la notte senza ombre,dopo che tanto l'amammo,dopo che tanto ci piacque;e la sua canzonedi foglie di ali di aure di ombredi aromi di silenzii e di acquesi tace per sempre;

e la melodìa di settembre,che fanno i flauti campestried accompagna il marecol suo lento ploro,non s'ode lassù nell'arialontana ov'ella spirasolitariail suo spirto odoratodi alga di résina e di alloro;e l'uomo che s'attarda

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in tessere vermenegià fece del grano mannelleed or fa canestriper l'uva, con un canto eguale,e tutto è obliato;obliato anche agostosarà nell'odor del mosto,nel murmure delle api d'oro;per tutto sarà l'oblìo,per tutto sarà l'oblìo;e niuno più sapràquanto sien dolcil'ombre dei volisu le sabbie saline,l'orme degli uccellinell'argilla dei fiumi,se non io, se non io,se non quella che andràdi là dai fiumi sereni,di là dalle verdi colline,di là dai monti cilestri,se non quella che andràche andrà lungi per sempre,

e non con le tue rondini, o Settembre!»

Il commiato

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L'Alpe di Mommio un pallido velamed'ulivi effonde al cielo di giacinto,come un colle dell'isola di Sameo di Zacinto.

Il Monte Magno di più cupo argentofascia la sua piramide; il Matannaè porpora e viola come il lentofior della canna.

O canneti lungh'essi i fiumicellidi Camaiore, appreso ho il vostro carme.Vedess'io rosseggiare gli albatrellisul Monte Darme!

Dal Capo Corvo ricco di viburnii pini vedess'io della Palmariache col lutto de' marmi suoi notturnista solitaria!

Potess'io sostenerti nella mano,terra di Luni, come un vaso etrusco!In te amo il divin marmo apuano,l'umile rusco;

amo la tua materia prometèa,la sabbia delle tue selve aromali,l'aquila dei tuoi picchi, la ninfeade' tuoi canali.

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Potesse l'arte mia, da Val di Serchioa Val di Magra e per le Pànie al Varae al Golfo, tutta stringerti in un cerchiocon l'alpe a gara!

Troppo è grave al mio cor la dipartenza.Come dal corpo, l'anima si esiliadal marmo che biancheggia tra l'Avenzae la Versilia.

Tempo è di morte. In qualche acqua torpenteor perisce la dolce carne erbale.Strider non s'ode falce ma si senteodor letale.

Dìruta la Ceràgiola rosseggia,là dove Serravezza è co' due fiumi,quasi che fero sangue in ogni scheggiagrondi e s'aggrumi.

Sta nella cruda nudità rupestreil Gàbberi irto qual ferrato casco.Ecco, e su i carri per le vie maestrepassa il falasco.

Metuto fu dalla più grande falcenella palude all'ombra del Quiesa,ove raggiato di vermène il salcepar chioma accesa

730

tra cannelle di stridulo oro secco,tra pigro sparto di pallor bronzino.Su l'acqua un lampo di smeraldo, e il beccotuffa il piombino.

Deh foss'io sopra un burchio per la cuoranavigando, e di tifa e di sparganiocarico ei fosse, e fóssevi alla prorafitto un bucranio

o un nibbio con aperte ali, e vi fosseodore di garofalo nel mucchioper qualche cunzia dalle barbe rosseonde il suo succhio

sì caro all'arte dell'aromatariostillasse fra l'erbame, e resupinovi giacessi io mirando il solitariociel iacintino;

e scendessi così, tra l'acqua e il cielocon l'alzaia la Fossa Burlamaccaalbicando qual prato d'asfodèlola morta lacca;

e traesse il bardotto la sua funesenza canto per l'argine; ed io, corcosul mucchio, mi credessi andare immunedi morte all'Orco!

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Ma cade il vespro, e tempo è d'esulare;e di sogni obliosi in van mi pasco.Su i gravi carri lungo le vie chiarepassa il falasco.

Sono sì vasti i cumuli spioventiche il timone soperchiano dinnanzie il giogo cèlano e le corna e i lenticorpi dei manzi,

onde sembran di lungi per sé mossie tra la polve aspetto hanno di stranianimali dai gran lanosi dossi,dai ventri immani.

In fila vanno verso Pietrasanta,strame ai presepi, ai campi aridi ingrasso.L'un carrettiere vócia e l'altro cantaa passo a passo.

E tutta la Versilia, ecco, s'indorad'una soavità che il cor dilania.Mai fosti bella, ahimè, come in quest'oraultima, o Pania!

O Tirreno, Mare Infero, s'accendesul tuo specchio l'insonne occhio del Faro;ti veglia e guarda con le sue tremendenavi d'acciaro

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la Città Forte dietro il Caprionesacro agli Itali come ai Greci il Sunio;t'è scheggia della spada d'Orioneil novilunio;

come sia fatta l'ombra, alla tua paceverseranno lor lacrime le Atlàntidi,ti condurrà l'ignavo Artofilacel'Orse erimàntidi;

s'udrà pe' curvi lidi il tuo respirosolo nell'ombra senza mutamento;solo rispecchierai l'immenso girodel firmamento.

O Mare, o Alpe, ed io sarò lontanocon nel mio cuor la torbida mia cura!Splende la cima del mio cuore umanonell'ode pura.

Ode, innanzi ch'io parta per l'esilio,risali il Serchio, ascendi la collinaove l'ultimo figlio di Vergilio,prole divina,

quei che intende i linguaggi degli alati,strida di falchi, pianti di colombe,ch'eguale offre il cor candido ai rinatifiori e alle tombe,

733

quei che fiso guatare osò nel cèsioocchio e nel nero l'aquila di Pellae udì nova cantar sul vento etèsioSaffo la bella,

il figlio di Vergilio ad un cipressotacito siede, e non t'aspetta. Vola!Te non reca la femmina d'Eresso,ma va pur sola;

ché ben t'accoglierà nella man largaei che forse era intento al suono alternodei licci o all'ape o all'alta ora di Bargao al verso eterno.

Forse il libro del suo divin parentesarà con lui, su' suoi ginocchi (ei coglieora il trifoglio aruspice virentedi quattro foglie

e ne fa segno del volume intonso,dove Tìtiro canta? o dove Eneape' meati del monte ode il responsodella Cumea?).

Forse la suora dalle chiome lisce,se i ferri ella abbandoni ora ch'è tardie chiuda nel forziere il lin che auliscedi spicanardi,

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sarà con lui, trista perché conciliovide folto di rondini su gronda.E tu gli parla: «Figlio di Vergilio,ecco la fronda.

Ospite immacolato, a te mi mandail fratel tuo diletto che si parte.Pel tuo nobile capo una ghirlandacurvò con arte.

E chi coronerà oggi l'aedose non l'aedo re di solitudini?Il crasso Scita ed il fucato Medola Gloria ha drudi;

e, se barbarie genera nel ventonuovi mostri, non più contra l'orrorediscende Febo Apollo arco-d'-argentocastigatore.

Ma tu custode sei delle più pureforme, Ospite. Col polso che non langueil prisco vige nelle tue figuregentile sangue.

Gli uomini il tuo pensier nutre ed irradia,come l'ulivo placido produceagli uomini la sua bacca palladiach'è cibo e luce.

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Per ciò dal fratel tuo questa fraternaghirlanda ch'io ti reco messaggeraprendi: non pesa: ell'è di fronda eternama sì leggera.

Fatta è d'un ramo tenue che crebbetra l'Alpe e il Mare, ov'ebbe il Cuor de' cuoriselvaggio rogo e il Buonarroti v'ebbei suoi furori.

L'artefice nel flettere lo stelovedea sul Sagro le ferite antichesplendere e su l'Altissimo l'anelopeplo di Nike.

Altro è il Monte invisibile ch'ei salee che tu sali per l'opposta balza.Soli e discosti, entrambi una immortaleansia v'incalza.

Or dove i cuori prodi hanno promessodi rincontrarsi un dì, se non in cima?Quel dì voi canterete un inno istessodi su la cima».

Ode, così gli parla. Ed alla suora,che vedrai di dolcezza lacrimare,dà l'ultimo ch'io colsi in su l'auroragiglio del mare.

736

LIBRO QUARTO

MEROPE

Così veda tu un giorno il mare latino coprirsidi strage alla tua guerrae per le tue corone piegarsi i tuoi lauri e i tuoi mirti,o Semprerinascente, o fiore di tutte le stirpi,aroma di tutta la terra,

Italia, Italia,sacra alla nuova Auroracon l'aratro e la prora!

Canto augurale per la nazione eletta [1901]

737

La canzone d'oltremare

I miei lauri gettai sotto i tuoi piedi,o Vittoria senz'ali. È giunta l'ora.Tu sorridi alla terra che tu predi.

Italia! Dall'ardor che mi divorasorge un canto più fresco del mattino,mentre di te l'esilio si colora.

Oggi più alta sei che il tuo destino,più bella sei che la tua veste d'aria;e di lungi il tuo vólto è più divino.

Odo nel grido della procellarial'aquila marzia, e fiuto il Mare Nostronel vento della landa solitaria.

Con tutte le tue prue navigo a ostro,sognando la colonna di Duilioche rostrata farai d'un novo rostro.

E nel cuore, oh potenza dell'esilio,il nome tuo m'è giovine e selvaggiocome nel grido delle navi d'Ilio.

Italia! Italia! Non fu mai tuo maggio,nella città del Fiore e del Leonequando ogni fiato era d'amor messaggio,

738

sì novo come questa tua stagionemaravigliosa in cui per te si cantacon la bocca rotonda del cannone.

Questa è per te la primavera santache - dice il dio - «d'ogni semenza è pienae frutto ha in sé che di là non si schianta».

Oggi nova tu sei per ogni venasopra l'oblìo dell'onta; e nelle Sirtiucciderai l'ultima tua sirena.

Come vivremo, o bella, per servirti?come morremo, o fior delle contrade,perché tu c'inghirlandi de' tuoi mirti?

Del miglior sangue fa le tue rugiadee serba la promessa d'Oriente,se il paradiso è all'ombra delle spade.

Siamo cinti d'oblìo. Siamo una gentefresca e spedita, immemore dei giornisquallidi, paziente e impaziente,

immemore dei sonni e degli scorniquand'ella mendicava il suo preconiodal ciompo, tempestando il pan ne' forni,

e la pace era femmina da conio

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che per ruffian s'avea qualche Bonturoe un Zanche per mezzano al mercimonio.

Giorni senz'alba, il rullo del tamburo,lo squillo della tromba, e questa sorteche turbina alle soglie del futuro,

vi disperdono. Tuonano sì fortele volontà, che nella rossa auroranon s'ode il crollo delle cose morte.

Ecco il giorno, ecco il giorno della prorae dell'aratro, il giorno dello spronee del vomere. O uomini, ecco l'ora.

È venuta col rombo del tifonepel Mar Mediterraneo, più fierache l'astro su la spalla d'Orione,

più colorata che la messaggeradella Celeste. E al grido «Issa! Issa!»già tutta l'aria è sola una bandiera.

Emerge dalle sacre acque di Lissaun capo e dalla bocca esangue scaglia«Ricòrdati! Ricòrdati!» e s'abissa.

E il Mar Mediterraneo, che vagliale stirpi alla potenza ed alla gloria,in ogni flutto freme la battaglia.

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«Ch'io mi discalzi» dice la Vittoria,simile a grande mietitrice albana,fosca sotto la fronda imperatoria

«Ch'io mi discalzi presso la fiumanadi Rumia bella, dove il suo meandronutre l'olivo a Pallade romana.

Ch'io pieghi e chiuda un ramo d'oleandroin Lebda, nella cuna di coluiche suggellò la tomba d'Alessandro.

Ch'io m'abbeveri là dove già fui,non per l'umide argille alla cavernaonde il Lete discende i regni bui,

ma per l'aride sabbie alla cisternadi Roma, che nell'ombra una silentelinfa conserva e una memoria eterna.

Con me, con me verso il Deserto ardente,con me verso il Deserto senza sfingi,che aspetta l'orma il solco e la semente;

con me, stirpe ferace che t'accinginova a riprofondar la traccia anticain cui te stessa ed il tuo fato attingi,

con me là dove chi combatte abbica,

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perché nella corona io ti connettala foglia della quercia con la spica!

Se tu mi veda oggi nell'armi erettasopra la prua, tu mi vedrai domanida presso curva al suolo che t'aspetta,

quando pacata come i Decumaniacerrimi, con nude ambe le braccia,tu rempierai di semi le tue mani.

Troppo vegliai, avverso la minacciadel sonno e della febbre, in Ostia morta,volta al limo del Tevere la faccia,

tra gli stipiti alzati della PortaMarina dove a vespero s'adunaluce fatale dalle pietre assorta,

io sola con l'anelito, se alcunaombra d'iddio scorgessi o udissi entrarenella foce la Nave e la Fortuna.

Ah, se tanto vegliai sul limitareterribile, ch'io dorma un sonno lenee breve, sotto l'Arco d'oltremare!

Ch'io sogni il greco sogno di Cirene,sotto l'Arco del savio Imperatoresgombro della barbarie e delle arene,

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schiuso al Trionfo, mentre dalle proresplende la pace in Tripoli latina,recando i dromedarii un sacro odore.

O incenso del Deserto alla marina,profumo delle incognite contradefulvo come la giubba leonina;

aròmati e metalli, armenti e biade,e Berenice dalla chioma d'oro!Il paradiso è all'ombra delle spade.

La palma è la sorella dell'alloro.»Dice la grande Vergine che squillasimile a Clio nel grande aonio coro.

E per noi dalla libica Sibilla,sotto il cielo voltato dal Titano,la sentenza di Dio si disigilla.

Preparate l'aratro cristiano,preparate la falce per la mèsse,il frantoio e la macina al Soldano,

l'ascia il piccone e il palo ch'ei dilesse,i gran magli e le macchine forbitesimili a moltitudini indefesse;

i forni vasti come le meschite

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pel ferro dissepolto, le magoneov'aspro strida nell'assidua lite;

le fornaci per cuocere il mattonedei costruttori, in cui porrem l'improntache piacque a Nerva: Roma col timone.

Ogni tristezza dietro a noi tramonta.Chi latra ancóra nella lorda fossa,quando il fato con l'anima s'affronta?

Italia, alla riscossa, alla riscossa!Ricanta la canzone d'oltremarecome tu sai, con tutta la tua possa,

come quando sorgeva sopra il marein sangue e in fuoco un sol clamor selvaggio«Arremba! Arremba!» e ne tremava il mare,

scrosciando la galèa, preso il vantaggioe infisso il cuor del capitano al rostro,con le vele e coi remi all'arrembaggio.

«Dienai', Dienai' e 'l Signor nostro!Dienai', Dienai' e 'l San Sepolcro!»cantava la galèa sul Mare Nostro.

Nel croscio de' tuoi secoli io t'ascolto.«Dienai', Die n'aìti in mare e in terra!»Alza nel grido il tuo raggiato vólto,

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e in terra e in mare tieni la tua guerra.

La canzone del sangue

In Cristo Re o Genova, t'invoco.Avvampi. Odo il tuo Cìntraco, nel caldovento, gridarti che tu guardi il fuoco.

Non Spinola né Fiesco né Grimaldotrae con la stipa. Il sangue del Signorebulica nella tazza di smeraldo.

S'invermiglia a miracolo d'ardoreil tuo bel San Lorenzo, come quandotornò di Cesarèa l'espugnatore.

Tornò Guglielmo Embrìaco recandoai consoli giurati, in sul cuscino,tra la sesta e il bastone di comando,

tra la coltella e il regolo, il catinoove Giuseppe e Nicodemo accoltoaveano il sangue dell'Amor divino.

Era desso, l'Embrìaco, figliuolto,quei che fece al Buglione il battifredoonde il vóto santissimo fu sciolto.

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Con le mani che diedero a Goffredola scala invitta, sopra il popol mistolevò la tazza. E il popol disse: «Credo».

E ribolliva il sangue ad ogni acquistodi Terrasanta; e n'eri tutta rossa,il popolo gridando: «Cristo, Cristo!

Cristo ne preste grazia che si possaandar di bene in meglio». E la Compagnaincastellava cocca e galèa grossa.

Così tu veleggiasti alla seccagnadi Tripoli, con uno de' tuoi Doriabuon predatore, o Genova grifagna;

ché padroni e nocchieri di Portoriae di Prè, stanchi d'oziare a bordo,tentarono l'impresa per galloria.

Ed era un vile tirannello ingordoquivi, nato d'un fabbro saracino;e l'ebbero per palio in sul bigordo.

Ogni roba condussero a bottino,ogni uom prigione. E pieno di tesorofu l'ammiraglio quanto il pilotino.

La terra spoglia come piacque a loro

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poi la vollero vendere a vergogna.per cinquanta e più milia doble d'oro.

Poi cattarono altrove altra bisogna;e stettero tre mesi in su la guerraper le marine della Catalogna.

O Genova, ma non l'istessa terrapresa dalle tue quindici galereè quella ch'oggi il nostro acciaro serra;

né di preda in pecunia ed in averesottile, se il sangiacco dà la voltacome l'altro, sarem noi per godere;

né, quando bene glie l'avrem ritolta,a quetare i tribuni dell'Erariola venderemo noi un'altra volta.

Odimi, pel sepolcro solitariodel tuo Lamba colcato in San Matteolungi al figlio che s'ebbe altro sudario;

pel fonte del tuo picciol Battisteodonde al mare t'escì la grande schiattasperta di mille vie come Odiseo,

di mille astuzie aguta, assuefattaai mali, contra i rischi pronta, a scottatesa, a voga arrancata, a spada tratta,

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ìmproba e col gabbano e con la cotta,usa il giaco fasciar di mal entragnocome di cuoia crude la barbotta,

indomita a periglio ed a guadagno,or tutt'ala di remi al folle volo,or piantata nel sodo col calcagno;

odimi, Mercatante, dal tuo molo,Guerriera, dal naval tuo sepolcreto,Auspice, dal tuo scoglio ignudo e solo,

per l'ombra di quel semplice Asseretoche, distolto da rògito o caparrae posto sopra il cassero, l'abeto

trattò meglio che il calamo, la barradi battaglia assai meglio che il sigillo,contra il fior d'Aragona e di Navarra,

vincitore di re su mar tranquillo,con gli infanti coi duchi e coi gran mastriaggiugnendo al trionfo un codicillo;

odimi, Ascia di Dio. Se sotto gli astrid'un'altra state, tutti i tuoi rosaiaulendo ne' tuoi chini orti salmastri,

tal si partì coi rossi marinai,

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con l'Amore e la Morte, del fraternostuolo facendo un spirito, e giammai

volse il bel capo verso il lido eterno,dubitoso di perdere Euridiceche dietro sé traeva dall'Inferno;

se t'ebbe inconsapevole nutricel'esule smorto, tutto fronte e sguardo,il fuoruscito senza Beatrice,

quegli che nel crepuscolo infingardoeresse il suo dolore come un rogo,il suo pensiero come uno stendardo,

e nella carne stracca sotto il giogoil soffio ansò di quella terza vitach'or freme ferve splende in ogni luogo,

con te sì presso all'opera fornitaè quel dèmone vindice che formail suo mondo nell'anima infinita.

Ben a tal piaggia, ove non è che l'ormadell'Immortale, o Madre delle Navi,ieri approdò la nostra prima torma.

Non all'antica terra che forzavicon la balestra e col montone, durain mettere a bottino, in trarre schiavi;

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ma alla terra che chiamano futurai messaggeri, alla terra dei figli,alla terra dell'Aquila futura.

Come di tra i riversi orli vermiglidelle pàlpebre gli occhi del pilotos'aguzzavano sotto i sopraccigli!

Ché divinava egli per entro al vòtogorgo dell'aria un che di virginalee di sublime, quasi monte ignoto,

simile al nudo culmine ove salelo spirito, ov'edifica imminentelo spirito la grande arce spirtale.

E chiuse, per veder profondamente,e chiuse egli le pàlpebre infiammatesu le pupille insonni; e fu veggente.

Per ciò, serva del Ciel, per ciò, primatedel Mare santo, la Reliquia vedoardere ed arrossar le tue navate.

Con le mani che diedero a Goffredola scala invitta, il rude espugnatorelevò la tazza. E il popol disse: «Credo».

O parola novissima d'amore,

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trascorri in nembo tutto l'Apenninoe fa crosciar le selve al tuo clangore!

Ecco il vaso di vita, ecco il catinoove Gesù nel vespero pasqualeai Dodici versò l'ultimo vino,

e lor disse: «Quest'è il mio sangue; il qualeè il sangue del novel patto, ed è sparsoper molti». E s'indiava sopra il male.

Quando clamò «Eloi!» dal cor riarso,nell'ora nona, un uom d'Arimateavenne; e in quel vaso accolse il sangue sparso.

Quindi per alta grazia un'assembleadi Puri s'ebbe lo smeraldo scultoin custodia; e di loro il mondo ardea.

Pari l'ebrezza del convito occultoera ad una immortalità precoce,ed il trapasso era un divino indulto.

L'anima era visibile; la croceera senz'ombra; il pianto era rugiada;il silenzio era un inno senza voce.

L'avversario era in capo d'ogni strada;la battaglia era un serto di faville;la giustizia era l'occhio della spada.

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Il futuro era un carme di sibillecome di tessitrici glorianti;e la gloria era d'uno contro mille.

O Mistero del Sangue! I duomi santicrollarono in un vespero, i templarifuron sepolti sotto i marmi infranti.

E un'orda venne, che coi limitaridivelti, col rottame dei lavacriperfetti, con le mense degli altari,

con le schegge dei grandi simulacricostrusse le sue case. Ed il porcileera murato di frammenti sacri.

Ma i bianchi Astori lungi all'orda vileavean rapito il segno del reame.Odimi tu, latin sangue gentile!

Odimi; ché di te sotto il velameio dico, e del miracolo repenteonde un spirito fai di tanto ossame.

Quale improvviso nella notte ardentedi Cesarèa l'Embrìaco la tazzadi salute rinvenne alla sua gente

e, quella pósta su la galeazza

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come il palladio fu su la trireme,ricelebrò la gloria della razza,

tal forse un genio indìgete del semed'Enea ritorna a noi col divin segnodallo splendore delle sabbie estreme.

Tra le palme invisibili arde il pegnodel novo patto. Innanzi ch'Ei si sveligiura fede al Signor del novo regno,

Italia, per gli aperti tuoi vangeli,e per la grande imagine che invoco,e per la gesta che t'allarga i cieli!

«Chi stenderà la mano sopra il fuoco?»grida il Signore ai primi eroi comparsi«Chi stenderà la mano sopra il fuoco

avrà quel fuoco per incoronarsi.»

La canzone del Sacramento

INTROIBO AD ALTARE DEI. Sul casseroera fitto un pavese quadro in ottobattagliòle forcute, e v'era un assero

di timone per grado, e paliotto

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un panno di bastita era, tovagliaera ferzo di trevo o marabotto;

e quivi con un càmice di maglial'asta di croce in pugno avea l'accolito.Sì fatto era l'altare di battaglia.

E fu silenzio ed isplendore insolitosu tutto il mare, al segno del Primate.E tutte le galèe stavano in giolito,

con le pale fuor d'acqua affrenellatesu la bonaccia. E il giorno di San Sistoera per i Pisani, a mezza state.

Tenean quelli di Genova il sinistrocorno con navi e saettìe, l'oppostole genti di Campania unite in Cristo.

Rosse le prore come tinte in mostoavea Salerno, d'indaco Gaeta,d'oro Amalfi alla Vergine d'agosto;

ché que' mercanti a battere monetaintendevano sol per far naviglioe cambiavano in gómene la seta.

KYRIE, ELEISOS. Il bianco ed il vermiglioondeggiavan con l'Aquila pisanache già temprato in Bona avea l'artiglio;

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e la Rosa dei vènti amalfitana,già fatta croce irsuta d'otto punte,si consecrava presso la campana.

CHRISTE ELEISON. Ché s'erano congiuntenel lor Signore le città tirrenela prima volta a lega; avevan unte

di novo spalmo a caldo le careneper la lega, cresciuto il palamento,rinforzato il cordame e le catene,

ai lor Vescovi dato sacramentodi riscattare dal predone immondole tolte navi, il cristiano armento;

e parea quivi il comun corpo al mondolatino annunziar le sante imprese,prima che si crociasse Boemondo.

KYRIE, ELEISON. Le guardie del calcesetrasognando vedean nell'acqua i bianchimarmi fiorir delle lor dolci chiese.

Tutti in corazza i rematori franchi,allacciati i giglioni coi frenelli,pregavano a ginocchi sopra i banchi;

ma i prodieri, di sotto i lor cappelli

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di cuoio, con un piede alla pedagna,guatavano la costa pei portelli.

AGNUS DEI. E per tutta la compagnafremito corse; ché, splendor d'Iddio,splendé nella raggiera l'Ostia magna.

E i prossimi gridarono: «Te, Dio,lodiamo, Te, Signore, confessiamo!».Ed anelavan di ricever Dio

nella specie del Pane. «Te lodiamo,Te confessiamo, unico Iddio vivente.Del corpo di Gesù comunichiamo.

Dacci il Pane dei forti!» E incontanentes'apprese la divina bramosia,corse di poppa in prua, di gente in gente.

E il Vescovo rispose: «Così sia».E per tutto il naviglio fu gran serraal grido: «Eucaristia! Eucaristia!».

Ed era il grido della santa guerra.Poi fu silenzio. Il rugghio d'un leoneudito fu venire dalla terra.

E dal cassero come dall'amboneil Vescovo parlò: «Fratelli in Dio,udite, udite il rugghio del leone!».

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E sopra la coverta un balenìopassò, dalle garitte alle rembate;le carte del Vangelo sul leggìo

si volsero, le lunghe fiamme issategarrirono, stridé l'alberaturacarica delle vele ammainate;

ché si levava il vento di Galluraper i Pisani. E il console Uguccionedietro il Vescovo apparve in armatura.

E il Vescovo parlò: «Egli è il leonedi Ieronimo, o quel che pien di mielefu rinvenuto in Timna da Sansone,

o quel che nella fossa Danielemansuefece, ond'egli disse al re:«L'Iddio mio mandò l'Angelo fedele

il qual compresse le fauci, talchénon m'hanno guasto». E sì voi confidate,ché molta in cielo è la vostra mercé,

e l'Angelo di Dio dalle rembatevi guarda, e su dal gorgo i vostri mortirisalgono perché vi ricordiate,

perché più non isforzi ai vostri porti

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le catene il feroce rubatore».Gridaron tutti: «Dacci il Pan dei forti!».

E, come fu sedato il gran clamore,tanto crebbe la romba dei ruggitiper quelle rupi rogge dall'ardore,

che parve avesser chiuso i re ziritiquivi l'intiera possa del Desertoa difendere i culmini turriti.

Sorgevano le sette torri in sertosopra il ciglione, e la muraglia spessale collegava; e il fosso era coperto

dal barbacane; e sola era lungh'essala muraglia una porta verso terra,ché la cerchia marina era inaccessa.

Ismisurata macchina di guerra,la nemica città feriva il cielomentre il suo cor parea ruggir sotterra.

«O Cristiani, in duomo pel Vangelovoi giuraste, toccata la scrittura,per le Reliquie sante, per il velo

di Nostra Donna e per la sua cintura,pei vostri fuochi e per le vostre fonti,e per la culla e per la sepoltura!»

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Miravano i Pisani Ugo Viscontich'era il lor fiore, e rivedeano corcala dolce Pisa in ripa d'Arno ai ponti,

e dove la fiumana si biforcal'orme di Piero, e alzata in pietre concela preda di Palermo e di Maiorca.

Misurar si sognavano a bigoncei Genovesi e il console Gandolfol'oro ch'avean pesato a once a once.

Quei di Salerno il lor lunato golfo,gli archi normanni, tutta bronzo e argentola porta di Guïsa e di Landolfo

aveansi in cuore, e l'arte e l'ardimentoonde tolse lo scettro ad AlberadaSigilgaita dal quadrato mento.

Ma quei d'Amalfi, cui la lunga spadaera misura, a patria più lontanaandavano; ché già s'avean contrada

e forno e bagno e fondaco e fontanaper tutto, e Mauro Còmite dal Grecomattava il Doge al libro di dogana.

«Fratelli in Cristo, dietro il muro bieco

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a mille a mille anime battezzatepenano; e solo il pianto hanno con seco.

Non vi croscia nel cor, se l'ascoltate?Sono i fanciulli, sono i vecchi, gli avie i padri, son le donne violate,

schiavi alla mola, schiavi al remo, schiavial carico, sepolti nelle gunedel grano come in cemeterii cavi,

muffi nelle cisterne e nelle mude,riarsi dalla sete e dalla fame,rotti dalla catena e dalla fune.

Bevono pianto, màsticano strame.Vivi non sono più né sono morti.Sono un cieco dolore in un carname.

Se non vincete, ecco le vostre sorti,fratelli in Cristo.» E il tuono fu sul mare.«Allarme! Allarme! Dacci il Pan dei forti!»

E l'Ostia sfolgorava su l'altarea tutti i marinai come la speradel sole. E Dio ricamminò sul mare.

Ed issò lo stendardo ogni galera;e volse d'Occidente ad Orientecon le mani velate la raggiera

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il Vescovo, e dal petto suo potenteAGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDIclamò tre volte sopra la sua gente.

Ed Uguccione e i consoli congiuntiin Cristo e tutta la capitanìaAGNUS DEI QUI TOLLIS PECCATA MUNDI

conclamarono. E lungo la corsiae nelle balestriere e su i castellirisposero gli armati: «Eucaristia!».

E i vogavanti sciolsero i frenelli,al sìbilo dei còmiti; e due vanniil legno fu dai cento suoi portelli.

«La croce a poppa, messer San Giovannia prua, la Vergin Donna Nostra in vettaall'albero di mezzo: e Dio li danni!»

Gridavano i prostrati «Affretta! Affretta!»vedendo i lor adusti cappellanifrangere a gara l'Ostia benedetta.

E alfine s'ebber l'Ostia nelle maniessi i prostrati; assolti l'ebber toccai feditori con le dure mani

indurite alla lieva ed alla cocca,

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e la fransero e diedero ai compagni;e ricevuta fu di bocca in bocca.

E l'un l'altro pregava: «Sì la fragniche basti a me, che basti anco a fratelmo!».E tremavagli il fondo degli entragni,

ché non bastava. Allora nello schelmosaltò quell'uno, armato; si scoperseil capo, empié d'acqua marina l'elmo;

e l'alzò, come calice l'offersegridando: «Valga a noi per sacramento,o Vescovo di Cristo!». E quei converse

in ispecie divina l'elementoindomito, col segno, dall'altaregridando: «Valga a voi per sacramento».

E si comunicarono del maresol con quel segno i fanti: ginocchionicontra i pavesi, udìan Màdia rugghiare.

Poi forzaron le rupi ed i leoni.

La canzone dei trofei

O Pisa, or tu sei vedova del mare,

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che stavi notte e dì per tener frontein Tersanaia a fare, a racconciare,

quando un bando di Chìnzica o di Pontevaleva a trarre in corso dai sessantascali ben unti le galere pronte!

Pende dal muro la catena infrantanel chiostro dove Andrea pinse Rinierie i tuoi morti fiorìan la terra santa.

La Porta a Mare è triste. Ma pur ierinel tuo Vescovo il cor di Daibertobalzò, verso i trofei de' Cavalieri.

O Salerno, nel duomo dove offertoti fu da Gian di Procita l'avorioe l'oro sovra i marmi di Ruberto,

nell'ombra dove il settimo Gregoriograndeggia, non fanal di capitana,non stendardo d'emiro pel mortorio,

non insegna, non spoglia musulmanahai, che tu orni in nome de' tuoi grandial tuo giovine eroe la coltre vana?

Non egli è su la bara che inghirlandi;ma tu lo vedi, quasi fosse apparso.E lo chiami per nome e l'addimandi.

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Verginità del primo sangue sparso!Ne bevano le sabbie un più gran flutto;ma pur quel primo che sembrò sì scarso

risplenderà sul giubilo e sul luttopiù vermiglio e più fervido a Coleiche sa pianger gli eroi con viso asciutto.

O Gaeta, se in Sant'Erasmo seia pregar pe' tuoi morti, riconosciil Vessillo di Pio ne' tuoi trofei,

toglilo alla custodia perché scroscicome al vento di Lepanto tra i dardid'Ali, mentre sul molo tristi e flosci

sbarcano i prigionieri che tu guardie che non puoi mettere al remo. O Cagliari,i quattrocento archibusieri sardi,

che Don Giovanni d'Austria alla battagliasotto il Vessillo nella sua Reales'ebbe per incrollabile muraglia,

hanno veduto verso il mare australeardere il fuoco sopra Teuladae nella sera accorrono al segnale;

ché vien pel mare d'Africa e dirada

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l'ombra con la bellezza della morteun che fu degno della lor masnada.

Egli ha per buon compagno, o Carloforteche il ferro e il fuoco sai del predatoree la sferza e la stanga e le ritorte,

un de' tuoi figli che nel suo furorese ne sovvenne e, per i mille schiavidi quel settembre, ebbe di mille il cuore.

Marinai, marinai, sopra le navie dentro le trincere, a bordo e a terra,in ogni rischio e con ogni arme bravi,

fatti dalla tempesta per la guerra,nel silenzio mirabili e nel grido,infaticati sempre, a bordo e a terra,

di voi s'irraggi e palpiti ogni lidod'Italia mentre per la mia più grandeItalia qui la vostra gloria incido.

Non le piagge che adorna di ghirlandeamare il flutto ove le sue melodiUndulna dea dal piè d'argento scande,

ma oggi loderò con le mie lodil'acqua oleosa lungo le banchinesonanti per gli imbarchi e per gli approdi,

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l'acqua opaca ove colan le sentinee nuotano i tritumi del carbone,le fecce dei cavalli, le farine

delle sacca sventrate, il bariglionerotto, la buccia putrida, la lordaschiuma che ingialla il piede del pilone,

mentre alla gru che cigolando assordal'aria imbracato il bove da macellopencola come botte che sciaborda.

Canto l'acqua dei porti. Odo l'appellorude, il commiato, il grido. I reggimentipartono. Ogni uomo armato è il mio fratello.

Veggo gli occhi brillare, veggo i dentirilucere. Odo il lastrico del molorombar sotto la marcia. Sono ardenti

i vólti come se li ardesse un soloriverbero, o il sorriso d'una solamadre, di quella grande. Ogni figliuolo

oggi ha sol quella, e in cuore la parolache alfine irruppe dalla bocca forte.Guerra! È il croscio dell'Aquila che vola.

Guerra! Una gente balza dalla morte,

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s'arma, s'assolve nell'eucaristiadel mare, e salpa verso la sua sorte.

Non più si volge indietro. Guerra! Siaper giorni, sia per mesi, sia per anniella combatterà nella sua via.

Canto la libertà. Quali tirannifurono uccisi? quali mostri vinti?Qual forza li atterrò? di quanti inganni,

di che frodi senili erano cinti?Chi diede al falso tempio il grande crollo?Le colonne piegarono su i plinti.

Il precone stampato fu col bollorovente nella palma della manoe nel dosso restìo, sino al midollo.

Strascicandosi contra l'uraganogioioso che lo tratta come balladi cenci, or vocia nella piazza in vano.

E marchiatelo ancóra su la spallae su la fronte! Poi gli sia concessala buona greppia nella buona stalla.

Altra parola è data, altra promessa.Canto il domani e canto la canzonedei secoli; ché l'anima è trasmessa.

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A mira di balestra o di cannonel'occhio è ben quello, che non batte ciglio.Dritto è il silùro come lo sperone.

Canto la forza antica e nova, figliod'una carne vivente e d'infinitaprogenie. O tu che m'odi, io ti somiglio.

Ma il balestriere, chino alla bastitao alzato sul carroccio, anco in me vive.L'anima eterna è il vaso della vita.

Canto le stive, le profonde stivepiene d'armi, di viveri, di tende,di bottame; le maestranze attive

su i ponti apparecchiati ove risplendeforbito ogni metallo. I battaglionigiungono. Il cielo è prode, con vicende

di nubi e di chiarìe, con padiglioniimmensi, con falangi impetuose.E tutta la città par che si doni.

E diffuso è l'amore su le cosecome un ciel più vicino, simiglianteal vólto delle madri coraggiose.

Non sul vólto, nell'anima son piante

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le lacrime divine e trionfali,mentre il silenzio fa le labbra sante.

Gloria della città! Passano l'aliripiegate dell'uomo, i grandi ordegnidi Dedalo, le macchine campali

fatte di tesa canape e di legnilievi, che porteran l'uomo e l'atrocesua folgore su i fragili sostegni.

E le gole d'acciaio senza vocepassano, che laggiù nel lor linguaggioconciso parleranno, dal veloce

affusto tratte al ciglio del villaggio,lungo il palmeto, sopra le trincere,davanti ai pozzi. Romba il carriaggio

su la selce. Seduto è l'artiglieresul cofano. Conduce a coppia a coppiai cavalli gagliardi il cavaliere.

L'applauso scroscia, un gran clamore scoppia.Repente il sole batte su la facciagiovenile, sul pezzo, su la doppia

groppa. E l'affusto trascinato a braccianella sabbia ove il mare s'impantanavedo! Chi mai cancellerà la traccia

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dentro le dune della Giuliana?Il vento, il flutto, l'uomo, il tempo? È immota.Gloria a te, batteria siciliana!

Canto il selvaggio anelito, la gotache gronda, il lungo sforzo a testa bassa,i polsi tra le razze della rota,

le spalle che sollevano la cassae la portano, l'ordine del fuoco,la mira, il primo colpo nella massa

nemica, il suolo raso, l'urlo rocodelle strozze riarse ad ogni schieraabbattuta, l'allegro ardor del gioco;

o Ameglio, e il ferro freddo; e la bandieratua vecchia, o Quarto Reggimento, issatasu la Berca nel soffio della sera.

Canto la Morte, alata e illuminatacome la prima legge della luce.La vita è meno fertile. È rinata

da lei l'alta bellezza. Ella producele semenze che noi nella ruinaseminerem cantando. Ella conduce

le Muse, conduttrice più divina

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d'Apollo. Non ha tombe ma trofei.È tutt'avvolta d'aria mattutina

come la messaggera degli dei.I più giovini eroi sono i suoi gigli.O Gloria, ed ella è là dove tu sei.

O Primavera, e tu le rassomigli.Mentre che soffia il vento del Deserto,ella infiamma gli anemoni vermigli.

Canto la Gloria cerula, dal sertoalternato di rostri e di muraglie,che ride se il combattimento è incerto.

Immune dall'orror delle battaglie,è bella come Roma nel suo tronoe Siracusa nelle sue medaglie.

Come sul mar risponde il tuono al tuono,il presente al passato in lei risponde;e la mia corda duplice è il suo dono.

Conculcate le stirpi moribondeella fa dell'Italia dai tre marila grande Patria dalle quattro sponde.

Quando nei nostri porti gli alti faris'accendono, ella sfolgora da ostrosola nelle foschie crepuscolari.

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E, vòlto verso lei notturna, il nostrosogno ansioso vigila il mattino.E il mattino per noi sorge da ostro.

Sorge con uno strepito marino,tra le grida gioiose dei messaggiche gridano il gentil sangue latino:

gridano i reggimenti e gli equipaggi,gridano i morti, gridano i feritile vittorie da' bei nomi selvaggi,

gli eroi dai nomi oscuri ingigantiti.Bu-Meliana, Sidi-Messri, Sciara-Sciat, Henni! Par che al lauro si mariti

la palma. Tutta l'oasi è un'arafumante. Verri, Granafei, Briona,Orst, Bertasso, Gangitano, Fara,

Moccagatta, Spinelli! Un nome suonala morte, l'altro la vita. E la mortee la vita son come una corona

sola composta di due fronde attorte.Severo dal suo grande Arco sorride:il battaglione è come la coorte.

Foss'io come colui che i nomi incide

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col ferro aguzzo nella nuda stelead eternar la gesta ch'egli vide!

O Roma, almen quello del tuo fedeleinciderò nel fulvo travertino,e il tuo modo: «Coi remi e con le vele».

O Roma, e mentre al giovine Latino«Velis remisque» nella pietra intaglio,scorgo l'Ombra del grande suo vicino.

Guarda la fresca tomba l'Ammiraglio,quegli che fece co' suoi nervi solia San Giorgio di Lissa il suo travaglio.

«Gittai buon seme» ei dice. Si consoliper quell'Ombra e s'inebrii del suo piantola madre di Riccardo Grazioli.

E tu resta, o Canzone, in camposanto.Annotta. Sta fra l'una e l'altra tomba;e veglia, incoronata d'amaranto.

Alla diana sonerai la tromba.

La canzone della Diana

Tutti i cipressi fremono. O Canzone,squilla! I corvi dall'arco tiburtino

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s'alzano andando verso il Teverone.

Altrove è l'alba. Un pascolo marinoè l'Agro. L'Urbe è un'isola. Si spandela più gran luce sopra l'Aventino,

verso la Porta d'Ostia, in sette bande.Nell'ombra del Gianicolo tre velerosse rimontan verso Ripa Grande.

Sul Mausoleo l'Arcangelo Michelesfolgora. Ritto sta su l'altra molea cavallo il secondo Emanuele.

Ninfa perenne dalle mille golel'acqua canta le origini del Lazio.Niuna cosa mai tu veda, o Sole,

maggior di Roma! Il numero d'Orazioa quando a quando par, tra l'Arce e il Fòro,riecheggiato nel divino spazio.

Pieno di nume è l'aere sonoro.Tronca la quercia un dio sul Celio? tagliaun eroe sul Gianicolo l'alloro?

Riarde ai Quattro Vènti la battagliasublime? ancóra fumiga il Vascello?ancóra il sangue bulica e s'accaglia?

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ancóra ai giovinetti ebri il mantellobianco del condottiere è l'ala intattadella Vittoria? il Dandolo l'appello

ultimo fa su la scalea scarlattaove sopra i cadaveri il cavallodel gran Masina dà l'ultima stratta?

Irto di furia è il muto piedestallo.I bersaglieri di Lucian Manaradisperati empion d'animo il metallo.

Laggiù, guatano il ciel che si rischiaradietro il muro di fango, nel palmeto,i bersaglieri di Gustavo Fara.

Laggiù, sotto la cupola che sgretola,arde l'araba lampada al bivaccoe la vedetta sta sul minareto.

Pietro Ari laggiù tra sacco e saccospia l'Oasi, con l'occhio a mira certa,tranquillo masticando il suo tabacco.

I mozzi, come fossero in coverta,stanno alla guardia della batteriasopra il sabbione; e l'un per gioco «Allerta

a proda!» grida. E vien dalla Menscìa,con l'afa dei cadaveri, odor d'erbe

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arse nel vento, odore di gaggìa.

Poggiato al pezzo il morituro imberbe,che morderà la sabbia, i denti bianchificca nel pane e nelle frutta acerbe.

Odesi il canto dei soldati stanchiche scavan le trincere nelle tombedei Caramanli. Il canto li rinfranchi.

S'ode nel cielo un sibilo di frombe.Passa nel cielo un pallido avvoltoio.Giulio Gavotti porta le sue bombe.

Laggiù, presso la mola d'un frantoioo presso i tronchi d'un'antica noriaonde pendon consunti e corda e cuoio,

sorride un morto all'invisibil gloria.Il paradiso è all'ombra delle spadee la delizia è il fior della vittoria.

Ulula per i campi senza biadeil duolo delle donne beduinealterno, ed or s'inalza ed ora cade.

All'ombra d'una palma, sul confinedell'Oasi, una croce rude è fittain un tumulo cinto dalle spine.

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Nome inciso non v'è, non lode inscritta:altro segno non v'è se non l'eterno.Sola una nudità vi splende invitta.

Un dal tuo più profondo sen maternoescito, Italia, un figlio tuo vi dorme;che s'ebbe anch'egli forse il pianto alterno

là nell'isola dove l'ombra enormedel Passato covar sembra il nuragheperché ne sorga un popolo conforme.

Non la madre mortal toccò le piaghe,né le lavò, né le lasciò di bende,già consunta dall'ansie sue presaghe.

Ma tu guardasti le ferite orrendee componesti il corpo in quel sepolcro.Sola una invitta nudità vi splende.

E la terra fu tua per quel sepolcro,tutta la terra inclusa tra la Sirtee il Deserto fu tua per quel sepolcro!

Canto l'azzurro e l'oro della Sirte,l'azzurro che nel grande oro s'insena,ove non dagli scogli ma dall'irte

navi con l'urlo lungo la sirenalacera l'aria pregna dell'aroma

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che inebria i prodi; e bianca su l'arena

Tripoli infida cui la guerra schiomacome femmina presa per le treccedalle pugna del maschio che la doma.

Le sue palme schiantate, le sue breccefumide canto; canto i suoi villaggirasi che brucian come in luglio secce

di Maremma, onde fiutano i selvaggipoledri il dubbio odore dalle chiatteben costrutte e nitriscono ai foraggi

salini che pascean lungo le frattedi tamerici, presso i sepolcretisonori dove il mare etrusco batte.

O terra di sepolcri e di forteti,Maremma, canto la tua razza equina,la ben crinita razza che disseti

nel sarcofago tolto alla ruinadi Saturnia o di Volci e che rinfreschicon un germoglio roscido di brina.

Salute, o terra degli Aldobrandeschi!Pioggia e sole ai tuoi bradi la criniera,come l'ocra e la robbia ai barbereschi,

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arrossano finché di primaveratu non li marchi all'anca e alla ganasciaper arrolarli sotto la bandiera.

La chiatta a fondo stagno il mastro d'asciachioda, coi sacchi d'aria e con le bottil'aiuta, con i canapi la fascia.

I cavalli s'impennano, condottialla gru; cinti dell'imbraca, appesial paranco, paventano. Interrotti

sibili, canti di fatica ai tesicanapi, voci di comando, litidi battellieri, gergo di Maltesi,

schianti d'assi e di tavole, nitritie scàlpiti nel vento che ridonda,sudore e schiuma, urti d'abbordo, attriti

di ferramenta; e tutta l'aria è biondacome su Talamone; ed agli approdii maremmani giungono con l'onda.

Maremma, canto i tuoi cavalli prodi.Tra sangue e fuoco ecco un galoppo comeun nembo. E la cavalleria di Lodi,

la schiera della morte. So il tuo nome,o buon cavalleggere Mario Sola.

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Giovanni Redaelli, so il tuo nome;

Agide Ghezzi, e il tuo. "Lodi" s'immola.E veggo i vostri visi di ventenniardere tra l'elmetto e il sottogola

o dentro i crini se il caval s'impennicontra il mucchio. Gandolfo, Landolina,alla riscossa! Tuona verso Henni.

Tuona, da Gargarèsch alla salinadi Mellah, su le dune e le trincere,su le cubbe, su i fondachi, a ruina,

su i pozzi, su le vie carovaniere.La casa di Giammìl ha una cinturadi fiamma. Appiè, appiè, cavalleggere!

Vengono di Taruna e di Tagiura,vengon di Gariàn e di Misrata;e dal Deserto un'altra massa oscura

s'avanza già sotto la cannonata.Or biancheggiano al vento i baracani:s'arrossano se scoppia la granata.

Occhio alla mira ferma, o cristiani.Solo chi sbaglia il colpo è peccatore.Vi sovvenga! Non uomini ma cani.

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Per secoli e per secoli d'orrore,vi sovvenga! Dilaniano i feriti,sgozzan gli inermi, corrono all'odore

dei cadaveri, i corpi seppellitidissotterrano, mùtilano i morti,scempiano i morti. Straziano i feriti,

gli inermi, i prigionieri, i nostri morti!Vi sovvenga. Dovunque è il tradimento,nelle case, nei fondachi, negli orti,

nel verde d'ogni palma, nell'argentod'ogni olivo, allo svolto d'ogni via.I marinai lo fiutan sottovento.

O Tripoli, città di fellonìa,tu proverai se Roma abbia calcagnadi bronzo e se il suo giogo ferreo sia.

Avanti, o Bracciaferri, Adorni, Bagna,Pergolesi, Coralli! Il maschio Faravi guarda. Cresce il sangue e mai non stagna.

Tutti in piedi. Nessuno si ripara.Chi cade, si rialza; e poi stramazza.La spalla del soldato è la sua bara.

Immune su la grandine che spazzal'Oasi atroce, splendido nell'alto

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cielo un alato spia. Salute, o Piazza,

Mòizo, Gavotti dal tuo lieve spaltochinato nel pericolo dei vèntisul nemico che ignora il nuovo assalto!

Anche la morte or ha le sue sementi.La bisogna con una mano solatratti, e strappi la molla con i denti.

Poi, come il tessitor lancia la spolao come il frombolier lancia la fromba(gli attoniti la grande ala sorvola)

di su l'ala tu scagli la tua bombaalla sùbita strage; e par che t'ardail cuor vivo nel filo della romba.

Non guarda il cielo Pietro Ari. Guardatra sacco e sacco. Pelle non scarseggia.Sceglie, tira, non falla. È testa sarda.

Non si volta, non grida né motteggia.Mira e tira. Una palla squarcia un sacco.Una rimbalza su la canna e scheggia

la cassa. Un'altra viene a tiro straccoe un po' lo pesta. Un'altra vien di schiàncioe lo strina. Egli morde il suo tabacco.

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È a testa nuda, testa quadra. A un ganciopende l'elmetto. Intorno è pien di bòssoli.Ancor nella gamella è caldo il rancio.

Anima, corpo e patria son nel fossocome in un focolare più capaceche l'arborense. Una man sacra ha smosso

col ferro nella cenere la bracedentro il cerchio dei sassi. Le sorellecuciono in sogno il suo gabban d'orbace.

Ei dormirà, come le prime stelletremino, su la stuoia stesa in terra.Or è nella mislèa. «Pelle per pelle»

dai padri suoi che dormono sotterrafu comandato. Or contro questi canista con fegato buono a mala guerra.

Quante grandùre, quanti baracanicolcò, sotto la grandine che scroscia!Ancor uno! Ancor uno! Oggi e domani

e mai sempre. Una palla nella cosciagli spezza il taglio della baionettacinta al fianco, e nell'osso della coscia

il mozzicon del ferro gli s'imbiettaforte così che sola una tanaglia

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o la mano del Sardo in una stretta

cruda lo possa svellere. Ei travagliaseduto su lo zàino. Alfin lo svelle.S'alza nel sangue, e torna alla battaglia.

Non torna al focolare? Le sorellecuciono in sogno il suo gabban d'orbace.Or tinto è il panno, e l'opre son più belle.

Ancor uno! Ancor uno! Non è paceancóra. In piedi nel suo sangue, ammazza.Il sangue scorre e l'anima è tenace;

ché rugge in piedi tutta la sua razzaora nel suo coraggio, su quell'ossoscheggiato, e del suo sangue egli la chiazza.

Ancor uno! Due tre gli sono addosso,lo prendono, gli strappano il fucile,lo forzano, lo traggono dal fosso.

Non son que' cani, sono i suoi! Le filede' suoi vede in ginocchio ai parapetti,i pacchi di cartucce nel barile;

gli scatti ode, gli scocchi dei moschetti;ode il tonfo d'un corpo che si piega,la rabbia che stridisce su gli elmetti.

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E il taciturno supplica, diniega,minaccia, si dibatte. Il sangue scorreper la barella. Ei rugge ancóra, e prega!

Verso Messri, un eroe nomato Astorreha tolto all'orda lo stendardo verde;e tutto il fronte alla riscossa accorre.

Su, compagnia dello stendardo verde,Ottava! Su, la Settima, col prodeOrsi! L'inferno di Giammìl si perde.

Spinelli, alla riscossa! Ala dell'Ode,non batti se non come il chiuso cuore.Chiusa fremi, e il tuo numero non s'ode.

Come quella d'Atene, per amoredella mischia, t'allacci i tuoi calzari,Ode, e ricalchi l'orme del valore.

Dal ciglio dei ridotti e dei riparisporgi, Gloria più giovine, ed irraggigli oscuri eroi pel cor di Pietro Ari.

A corpo a corpo! Son tenuti i gaggidella Corsina e quelli di Marsala.Su la mischia feroce, su i selvaggi

urli, sul mucchio, sul baglior ch'esaladall'animo scagliato a tutta possa,

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subitamente par che passi l'ala

di quel mantello e la camicia rossarilampeggi e racceso per la dunail riverbero sia di Gibilrossa.

Croce d'argento contro mezzaluna!Undecimo, con l'ugne riafferripe' capegli di dietro la fortuna.

Chi balza con lo stuolo irto di ferridi là dalle trincere e dai destiniverso la sua bellezza? È Pietro Verri.

«Avanti, marinai, garibaldinidel mare!» Par che su lo scarno visol'ardente ombra del Sìrtori s'inclini.

Rotta la fronte che fu pura, uccisocade. Par che l'alfiere da Camoglisu le spalle si carichi l'ucciso.

«Avanti!» Non è tempo di cordogli.Il pericolo ondeggia. Il tradimentoè dietro i muri, è dietro i tronchi spogli

che la grandine schianta; è in tutto il ventodel Deserto e dell'Oasi. La sortebalena. Alla riscossa! Ei non son cento,

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e la bandiera sventola. Ora, o Morte,ei son cinquanta. E la bandiera sventola.Dov'è Giacomo Medici? Ora, o Morte,

non son che dieci. E la bandiera sventola.

La canzone d'Elena di Francia

Stelle dell'Orsa, Guardie dei piloti,e voi, Pleiadi, lacrime divined'amori eterni e di dolori ignoti;

e tu, fra le sorelle oceanine,che sola amasti un triste eroe mortale,e ti celi il tuo vólto nel tuo crine,

o Merope d'Atlante, mia navaleMusa; e tu, Vega, e tu, bacca di luce,Perla della corona boreale;

o Sirio, Sirra, Aldebaràn, Polluce,Càstore, plenitudine di spirtiche la corusca melodìa conduce;

Notte, e Galàssia effusa per crinirti,Nube, e il dio che ti lacera, scorgetela bianca nave uscente dalle Sirti!

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Sul guerreggiato mare alta quieteregna. Il silenzio del Risorto incombe,come quando Simon gittò la rete.

Quasi un dolce candore di colombeillumina la tolda della naveche reca i morti alle materne tombe.

E su l'assi che chiudono il cadaveree sul letto ove sanguina il feritoarde una sola santità soave.

La figura di prua non è scolpitolegno ma un sovrumano Essere intento,con un sorriso eguale all'Infinito.

E quegli ch'ebbe stritolato il mentodalla mitraglia e rotta la ganascia,e su la branda sta sanguinolento

e taciturno, e i neri grumi biascia,anch'egli ha l'indicibile sorrisoall'orlo della benda che lo fascia,

quando un pio viso di sorella, un visod'oro si china verso la sua guancia,un viso d'oro come il Fiordaliso.

Sii benedetta, o Elena di Francia,nel mar nostro che vide San Luigi

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armato della croce e della lancia

fare il passaggio coi baroni ligisu le navi di Genova e prostratosotto i suoi gigli attendere i prodigi,

sii benedetta; ché ritorna il fatod'amore all'acque istesse e in te rigiurail santo Re di lacrime beato.

Ti sovviene dei morti di Mansurache putivan nel limo, su le rivedel Nilo, ignudi, senza sepoltura,

mentre per tutta l'oste le malvivegenti ululavan come donne in partodi tra il marciume delle lor gengive,

e i feriti, colcati su lo spartocome buoi, la Cappella e il suo Tesorodeprecavano in van pel sangue sparto

e lungi travedean dal lor martorosplendere, dietro la criniera ardentedi fuoco greco, la celata d'oro,

la gran spada alemanna ben tagliente,e udian sonar la prece su la zuffa:«Bel sire Iddio, tu guarda la mia gente!».

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Allora il Re levavasi la buffadal viso smunto; e, sceso degli arcioni,sfangava solo per l'orribil muffa.

Per quel carnaio givasi carponipiangendo, a riconoscere i suoi carimorti, i suoi fanti come i suoi baroni.

E i Vescovi, che in campo dagli altariassolvevano l'anime, al divinoofficio si turavano le nari.

Ma il Re, toltosi l'elmo e il gorzerino,portava i corpi in su le braccia e in dossoquand'altri li traeva per l'uncino.

E con quella pia man che avea riscossoCarlo d'Angiò di sotto il fuoco greco(in arme d'oro sul cavallo rosso

che ardea per la criniera, ei fatto ciecoe invitto dal suo Dio corse a traversol'inferno avendo un grande Angelo seco)

con quella mano l'ulcero perversomedicava, tagliava intorno ai dentila carne enfiata, ungeva il taglio asterso.

Pane afflitto partia con le sue gentinelle fami. Parlava col lebbroso.

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Portava invidia agli uomini piangenti.

«Bel sire Iddio, richieder non son osofonte di pianto. Alcuna stilla bastaall'alidore del mio cor penoso.»

Le lacrime colando per la castabocca, ei gustava nell'amaro salela dolcezza che ad ogni altra sovrasta.

Ma non tu piangi, o Amàzone regale.Una intrepida forza t'azzurreggianegli occhi, sotto il lino monacale,

se il braccio lacerato dalla scheggiasostieni o la man tronca fasci o bagnile labbra al sitibondo che vaneggia.

Non lacrime, non gemiti, non lagni.Quegli che vinse fuor della trincera,vuol col silenzio vincere i compagni.

E quegli che di vivere non speragià fiammeggiar nel gelido lenzuolosente i tre ferzi della sua bandiera.

Qual novo giorno splenderà sul molopopoloso, laggiù? La Patria è tuttapallida, in piedi, con un vólto solo.

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Pallida, in piedi, con la gota asciutta,serra nel petto i nomi de' suoi morti.Guarda lontano. E il mar non li ributta.

Quale mistico approdo è atteso? I portisono solenni come cattedrali.Donna di Francia, or sai quel che tu porti.

Tu porti con la nave i sogni e l'alie le rose future e il novo cantoin quel cumulo d'anime e di mali.

L'angioino vascello non più santoera allorché recava il grande spogliodel Re che volse in cenere il suo manto.

Ben ti sovviene. Il fùnebre convogliovenìa così pel Mar sicilianocon l'oste e col navile in gran cordoglio.

E il Re col suo soave Gian Tristanostavasi in bara; e, qual lo pinse Giottoin Fiorenza, il cordiglio francescano

nell'una man tenea forse e di sottoal drappo azzurro e al vaio e a' fiordiligiavea su l'ossa il càmice incorrotto.

Era lontano in Santo Dionigiil sepolcro, guardata dalla morte

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la via lunga di Trapani a Parigi.

Re Tibaldo morivasi alle portedell'Invitta, Isabella d'Aragonasentiva già l'orrore della sorte

imboscata ne' monti ove risuonagiù per la costa calabra il malignoguado che lei travolse e la corona.

E il Nasuto, il carnefice ulivignode' biondi Svevi, in terra di baldoriagli usci franceschi tinti di sanguigno

non si sognava già, né la sua boriavedeva il lunedì di Risurressoe le galere di Rugger di Loria,

quand'ebbe offerto in pegno di possessoeterno a Monreale il Cor beatoe in Palermo il Lambello ebbe rimpresso.

Ora a Palermo per divino fatoil Fiordaliso ed il Lambel vermiglioraddotto hai tu, non in vessillo issato,

o Elena di Francia, ma in naviglioricrociato d'amore e di doloreove tu splendi come il più gran giglio.

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«Così è germinato questo fiore!»par sorrida colui che su la rocciadel sacro balzo, ove l'umano errore

si purga, Ugo Ciapetta che rimprocciasuo seme ha visto tutto vòlto in giusofonder per gli occhi il male a goccia a goccia.

«Nuova luce percote il viso chiuso»dice la Voce. E dice: «Qui si monta».Ed ovunque il suo spirito è diffuso.

La sua forza gentile austera e prontaè la tempra dell'aria. O Italia bella,or sei fissa al tuo Sol che non tramonta.

O dolce Francia, o unica sorella,per la muta speranza che s'inclinasu le chiare acque della tua Mosella,

per la memoria pia di Valentinache, fedele al suo lutto, patir vollesenza tregua nel cor l'acuta spina,

pei campi onde l'allodola tua follebalza chiamando, e i pioppi della Mosafremono, e il sangue grida nelle zolle,

Francia, ricevi e serba la gioiosapromessa che ti fa, d'una vendetta

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più grande, questa carne sanguinosa.

Taglia per noi con la tua vecchia accettaun ramo della quercia di Lorena,sul colle ove Giovanna è alla vedetta,

intreccia al ramo rude la verbenagià sacra ai nostri padri, ed a noi manda.Su le Statue velate il ciel balena.

Balena anche per noi da quella banda.Sul Campidoglio senza Fezialisospenderemo noi la tua ghirlanda.

E tu òccupa il ciel con le tue ali,guerriera alata. Noi le navi fortispingeremo nel mar dai nostri scali.

O Elena, che in fronte ai nostri mortiimpressa vedi la virtù di Roma,pel gran patto latino oggi tu porti

la verbena augurale entro la chioma.

La canzone dei Dardanelli

Taranto, sol per àncore ed ormeggiassicurar nel ben difeso specchio,

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di tanta fresca porpora rosseggi?

A che, fra San Cataldo e il tuo più vecchiomuro che sa Bisanzio ed Aragona,che sa Svevia ed Angiò, tendi l'orecchio?

Non balena sul Mar Grande né tuona.Ma sul ferrato cardine il tuo Pontegira, e del ferro il tuo Canal rintrona.

Passan così le belle navi pronte,per entrar nella darsena sicura,volta la poppa al ionico orizzonte.

Sembran sazie di corsa e di presura,mentre nel Mar di Marmara e nel Cornod'oro imbozzate l'ansia e la paura

sognano fumi al Tènedo ogni giornoapparsi e invocan l'altro Macomettoche scenda in acqua col cavallo storno

come quando alla Blanca un vascellettogreco e tre saettìe di Genovesicon lor pietre manesche e fuochi a getto,

conficcate le prue sino ai provesi,nell'arrembaggio, presero battagliacontra il soldano e i suoi visiri obesi

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e contra una ciurmaglia e soldatagliainnumerabile in dugento buonilegni; e vinsero; e con la vettovaglia

sotto Costantinopoli, tra suonie cantici, a rimurchio in salvamentoli ricondusse Zaccaria Grioni.

Eran tre saettìe contra dugentosàiche fuste e galèe! Taranto, Alfierid'Alò, quel tuo figliuol che ti fu spento

su la duna a Bengasi ove tu erimista al suo sangue allor che cadde elettodalla gloria tra i bianchi cannonieri,

ben si mostrò di quella tempra; e il petto,come quando le navi avean di legnoil fasciame, fu ben di ferro schietto.

Ma non pur anco il giovincello Regno,fior di modestia, escito è di tutela.I pedagoghi suoi stanno a convegno.

Adoprano con trepida cautelala bilancia dell'orafo in pesareil buon consiglio; e, se il timor trapela,

appoggiandosi al muro famigliarestranutano e tossiscono. O Senato

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veneto! O prisca Libertà del Mare!

Il sobrio Talassòcrate dentato,il pudico pastor dai cinque pastiche si monda con l'acqua di Pilato,

immemore dei fasti e dei nefastisuoi dì vermigli, cigola e s'indignaa tanto scempio, e torce gli occhi casti!

E quei che verso il Reno ora digrignaed or sorride livido di bilecol ceffo nella sua birra sanguigna,

l'invasor che sconobbe ogni gentilevirtù, l'atroce lanzo che percossevecchi e donne col calcio del fucile,

il saccardo che mai non si commosseal dolore dei vinti e lordò tuttodel fango appreso alle sue suola grosse,

l'Ussero della Morte vela a luttoStinchi e Teschio per la pietà fraternadi tanto musulman fiore distrutto!

Ma uno più d'ogni altro si costerna.Egli è l'angelicato impiccatore,l'Angelo della forca sempiterna.

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Mantova fosca, spalti di Belfiore,fosse di Lombardia, curva Trieste,si vide mai miracolo maggiore?

La schifiltà dell'Aquila a due teste,che rivomisce, come l'avvoltoio,le carni dei cadaveri indigeste!

Altro portento. Il canapo scorsoioche si muta in cordiglio intemeratoa cingere il carnefice squarquoio

mentre ogni notte in sogno è schiaffeggiatoda quella mozza man piena d'anelliche insanguinò la tasca del Croato!

Son questi i cristianissimi fratellidel protettor d'Armenia, ond'è rifattapia la verginità dei Dardanelli.

La vecchia Europa avara e mentecattache lasciò solo il triste Costantino,solo a cavallo nella sua disfatta

ultimo imperatore bisantinocombattere alla Porta Carsia e spentodar la porpora e l'aquile al bottino,

dessa or soccorre del suo pio fomentolo smisurato canchero che pute

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tra Mar Ionio e Propontide nel vento.

Oh Alleanza mistica, salute!Cantar voglio le tre sotto il posticcioturbante auguste Podestà chercute

e d'austriaco sevo unto il mollicciosoldan che ascolta il suo martirologiocol bianco pelo irto per raccapriccio.

Alla Consulta attendono l'elogiotutorio i pedagoghi del pupillodemente; e spiano il tempo ch'è balogio

su la piazza ove ride lo zampilloromano tra gli equestri Eroi gemellipalpitando qual limpido vessillo.

Come sul fulvo mare dei camellista la Sfinge, una intorta Pitonessasenza tripode guarda i Dardanelli.

La licenza è concessa e non concessa,se guarentita sia la libertàal sapone di Caffa e al gran d'Odessa.

Ahi cieca ambage! Ed ei non sono giàdiscepoli di Mosca de' Lambertiche disse: «Cosa fatta capo ha».

800

Vanno librando i pesatori espertila bilancia dell'orafo sì vanacon once dramme scrupoli malcerti.

Meglio rozza stadera di doganaove per dar tracollo il ferreo Cagnigitti la spada di Bu-Meliana.

La nave, col desìo che il sangue bagnile torri e il ponte per ribattezzarsi,richiama a sé gli intrepidi compagni

che troppo a lungo per le dune sparsie nelle fosse tennero la guerradediti a superare e a superarsi

come quando l'eroe, che di sotterraancor gli incìta, disse oltre la morte:«Io con mille di voi prendo la terra».

Stefano Testa, l'òmero tuo forteè rotto; e il braccio tuo, Vincenzo Origlio;o Montella, e il tuo femore. E la sorte,o Gaudino, t'amò quando un vermigliofiore ti pose presso il cor tra costae costa. E tu, Vito de Tullio, figlio

di Bari vecchia ove una santa espostaal popolo si chiama Serafina,e il popol tutto innanzi a lei fa sosta;

801

o Carmineo, di un'umile eroinaanche tu primo nato tra il Leonedi San Marco e la Chiesa palatina;

o fratel mio d'Abruzzo, e tu, Marone,che in sogno ancor la piaga del tuo piedestrascichi per servire il tuo cannone;

voi tutti, ardenti della vostra fedee della vostra febbre nella lungacorsìa triste, con l'anima che crede

e vede or ascoltate se non giungaun grande annunzio, sussultando al cupourlo che nella notte si prolunga.

Dante de Lutti forse in un dirupogiace coi prodi a Derna, e la vendettaride ne' denti suoi di giovin lupo

come quando a Tobrucca su la vettadella ruina issava il tricolore,più agile che mozzo alla veletta.

E la notte par piena di clamore.E la corsìa d'occhi sbarrati e fissiriarde, e ucciso è il sonno dall'orrore.

Taluno i suoi compagni crocifissi

802

rivede, là, nella moschea di Giuma,i corpi come ciocchi aperti e scissi

con la scure, conversi in nera grumasenza forma, sgorgando le ventraieper gli squarci; e le bocche ove la schiuma

dell'agonia tersero l'anguinaierecise, intruse fra le due mascelle;e i viventi infunati alle steccaie,

alle travi dei pozzi, con la pelledel petto per grembiul rosso, con tritele braccia penzolanti dalle ascelle

dirotte, con le pàlpebre cucitead ago e spago, o fitti sino al collonel sabbione che fascia le ferite,

le vene stagna. Odio, che sei midollodella vendetta e lièvito del sangue,ti canto. Insegna del taglion, ti scrollo.

Talun disse: «Spargete poco sangue.Deh non vogliate esser micidiali!Quasi pace è la guerra, quando langue».

O dolci eroi sognanti su i guancialipenosi, udiste l'ordine di guerra?«Le navi scorreranno gli ospedali

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I marinai combatteranno a terra.»Sognando, andiamo incontro all'Ombre solementre il ponte di Taranto si serra.

La notte sembra viva d'una proleterribile. La grande Orsa declina.Infaticabilmente il mar si duole.

Un vento di dominio e di rapinasquassa il vasto Arcipelago schienuto.Chi vien da Scio con la galèa latina?

Chi da Nasso? e d'Amorgo? Ti saluto,a capo del naviglio tuo di corsa,o duca dell'Egeo Marco Sanuto.

Sul tuo coppo di ferro splende l'Orsa.Dietro i pavesi sta la compagniapronta allo sforzo: la minaccia è corsa.

Eri una via calpesta, eri la viadei Barbari che andavano alla guerrain Occidente, allora, o Austria pia.

E l'onta di Giovanni Senzaterrastava su te, la crudeltà del bassovassallo d'Innocenzo, o Inghilterra,

quando al libero Doge dava il passo

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l'Imperatore sul diviso Impero,e la Morea dal Tènaro a Patrasso

e Salamina con il suo cimierodi gloria non immemore d'Aiace,e il Sunio col suo tempio roso e il nero

Acroceraunio, Ocri, Arta, il Golfo ambrace,le Cicladi fulgenti, tutto il lidocurvo dal Mar dalmatico al Mar trace

erano un sol dominio sotto il gridodi San Marco; e Gallipoli, Eraclea,Gano, Rodosto anco, tra Sesto e Abido

il Doge tutto l'Ellesponto avea;quasi mezza Bisanzio, e gli arsenaliquivi, e le darsene e le ròcche aveano

i Veneti; lanciavan dagli scalinel Corno d'oro le galèe costrutte,al Leone ogni dì crescendo l'ali.

Ecco, o Mediterraneo, su tuttel'isole, ecco i tuoi dèspoti. Rischiarocol mio cuore le impronte non distrutte.

Ecco un Sagredo principe di Paro,a Sèrifo un Michiel, ad Andro un Dandolo,a Candia un Tiepolo. Ogni nome è un faro.

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Presso Blacherne publica il suo bandoRanieri Zeno, e quasi Imperatoreha tutta Romania nel suo comando.

Il genovese Enrico Pescatoreconte di Malta usurpa il fio di Creta.In regia potestà l'Asia Minore

ha Martin Zaccaria, batte moneta,leva milizie e navi, si travagliaa Focea per allume, a Chio per seta,

a traffico imperversa e a rappresaglia,stermina Catalani e Musulmani,tutt'armato da re muore in battaglia.

O dura schiatta dei Giustiniani,nova sovranità della Maonalibera, dinastia di popolani

magnifici, di re senza corona,che profuman di mastice la biancascìa o la segnan d'una rossa zona,

quando nell'isola Andriolo Bancaorna templi, deduce carmi, veneraOmero, èduca lauri, schiavi affranca!

Navi d'Italia, ecco l'Egeo. Chi viene

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da Lesbo? chi da Coo? Navi d'Italia,l'Ombre cantano come le sirene.

Un Querini è signore di Stampàlia,di Nanfio un Foscolo, un Navigaiosodi Lemno. Ecco l'Egeo, navi d'Italia,

ecco il mare operoso e sanguinosodi noi, le rive con le nostre impronte,le mura impresse del Leon corroso.

Un Barozzi è signore a Negroponte,un Ghisi a Sciro ed un Pisani a Nio.Navarca è un Longo ed un Adorno è arconte.

Fendo i secoli, lacero l'oblìo,ritrovo le correnti della glorianell'acqua ove portammo il nostro Dio.

Levo sul mar l'onda della memoriae col soffio dell'anima la incalzo,che ferva sotto il piè della Vittoria,

che schiumi e fumi sotto il piede scalzovolante in sommo come quando accorseprecipitosa dal marmoreo balzo

a te, Cànari. O Grecia, o Grecia, forseanche i tuoi fari pendono. E lo scottosarà pagato. Chiedi l'ora all'Orse

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come l'uomo d'Ipsara e l'Hydriottoquando muti ridean nel cuor selvaggio,acquattato ciascun nel suo brulotto,

con alla mano i raffii d'arrembaggio,con alle coste il demone del fuoco,messo fra i denti il fegato per gaggio.

Anche nel nostro cuore arde quel fuoco,sorella. Vien d'Ipsara CostantinoCànari, arsiccio, ancor più pronto al gioco.

Andrea Miàuli vien sul brigantinoch'ebbe a Patrasso a Spezzia ed a Modóne.Ma chi è mai quel grande suo vicino?

Riconosco la chioma del leonee l'affilato viso dell'audaciae l'occhio inesorabile. O Canzone,

piègati sotto l'ala acuta e baciaper tutti i marinai la fronte fessadel Capitan che vien dal mar di Tracia.

Viene dai Dardanelli su la stessagalèa cui non restò se non l'orroredell'annerito arsile, su la stessa

galèa che vide volgere le prore

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e orzare a terra Mehemet codardo,viene dai Dardanelli il vincitore

Lazaro Mocenigo. E lo stendardodel calcese, che gli spezzò con l'astail cranio, or croscia al maestral gagliardo

su l'erto capo cinto della vastapiaga, su la criniera leoninache per corona nautica gli basta.

Chiuso è il destr'occhio che nella marinadi Scio barattò egli contro véntinavi di Kenaàn tratte a rapina.

Ma il freddo astro di tutti gli ardimentiè l'occhio manco, specchio dei perigli.Lazaro Mocenigo ha le sue genti?

Guardalo, Cagni, tu che gli somigli.

La canzone di Umberto Cagni

Cagni, colui che a te negli anni egualepatì l'ignavia delle vane carte,morso il cuore dall'aquila immortale,

e vendicò nello stridor dell'arte

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la forza che sognar faceagli il fatoe il pallore del giovin Bonaparte

quando credea nel suo silenzio armatoessere il messo della nova vitae della nova gloria il primo nato,

colui t'onora come la scolpitaimagine del sogno suo più forte,si ch'ei disdegna l'opera fornita

e, gittando sul vólto della sortele sfrondate corone, or solo speranell'ultima bellezza della morte.

Non per la forza, o anima guerriera,non pel fàscino invitto onde rapiviltre la forza l'èsile tua schiera

quando fendevan quattro cuori vivil'immensa ghiaccia, e più del buio tristala notte senza tènebra era quivi;

non pel fertile ardire onde fu vistauna manata d'uomini discesadalle navi tenére la conquista

della terra ed accrescersi, sospesanel pericolo come nel bagliored'un nume, onnipresente alla difesa;

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ma per l'amore, ma pel solo amoreonde due volte già trasumanasti,eroe, t'invidio sopra il tuo valore.

Eroe di due deserti, dei più vastigeli e delle più vaste sabbie, in qualieroiche immensità l'Italia amasti!

Ogni altro umano amor sembra senz'alie senza lena e inglorioso e impuro,congiunto alla viltà dei nostri mali.

Come il fiore d'un mondo nascituroil tuo fu, schiuso all'orlo d'un'estremaTule che dentro te, nell'uomo oscuro,

avevi, incognita. E la man mi trema,quasi eternassi la mia smania ignavacelebrandoti, eroe, nel mio poema.

Penso la mano tua che doloravacominciando a morire, il ferro atroce,l'anima indenne su la carne schiava;

la volontà spietata e senza voceche ti facea lo sguardo come il tagliodella piccozza; il piede più veloce

come più duro era il cammino; il maglio

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invisibile che schiacciava i blocchienormi, con un tuono ed un barbaglio

di prodigio pel bianco Ade ove gli occhiseguivano i silenzii oltre i fragori;le dighe che rompevano i ginocchi

e i gomiti; le slitte tratte fuoridalle crepe improvvise; la costrettaman dolorosa ai ruvidi lavori;

e la fame in attesa della fettacrudigna presso il cane ancor fumantescoiato su la neve, la galletta

muffita per panatica, all'ansantesete il sorso dell'acqua fetida, ognipenuria, ogni miseria; e, se il sestante

segnava il punto suo, tutti i bisogniconversi in riso lieve e nelle stancheossa inserte le invitte ali dei sogni.

Ti sovviene? Su le pianure biancheuna vita recondita bruiva,nel gran giorno di Dio. Le dighe bianche

s'alzavano, crollavano; la rivasi saldava alla riva, il monte al monte.Tutta la solitudine era viva

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di ghiacci sino all'ultimo orizzonte,fulgida sotto il sol di mezza notte.Tra l'infinito e le tue brevi impronte

era la prova, augusta fra le lottedell'uomo. E tu dicevi a te: «Più oltre».L'Oceano era un bàratro di rotte

isole. E tu dicevi a te: «Più oltre».Sparivano i due solchi in un tumultoraggiante informe immenso. E tu: «Più oltre!».

Ché ti parea da uno scalpello occultonell'eterno cristallo solitarioquell'altro nome ovunque fosse sculto:

lo scandinàvo. «Non è necessariovivere, sì scolpire oltre quel termineil nostro nome: questo è necessario.»

E la virtù dei quattro uomini inermifu per un'ora il vertice del mondo.Ti sembrò tutto fervere di germi

immortali l'Oceano infecondo.Sommosso ti sembrò tutto il desertoartico dal tuo palpito profondo.

Poi fu silenzio, sotto il segno certo.

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Fu la cerchia terribile del geloalla tua gioia adamantino serto.

L'anima tua su te diffuse il cielod'Italia. Fosti immemore e sparentecome l'Ombra sul prato d'asfodelo.

Allora, come l'inno fa presentel'iddio, l'amor creò l'imagin veradella Patria. Nel gran silenzio algente

parve con l'alito una primaverasublime ella diffondere. Il tuo santoamore volse in luce la preghiera.

Piangesti. Ed ogni lacrima del piantoeroico rilucea più che il polaremeriggio. Sol per una, ecco il mio canto.

O messo della gesta d'oltremare,o precursore degli eroi rinatisul lido ove rosseggia il nostro altare,

o tu che primo fosti ai primi agguati,l'indice tronco della man virile,quel che impone i comandi o addita i fati,

non fu debole all'elsa. E il puro apriledella tua gloria parve ad altra ebrezzarifervere nel sangue tuo gentile.

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Ah, da qual sacro mare di bellezza,da qual divino anello d'orizzonte,da qual non vista aurora escì la brezza

vigile che soffiava su la frontede' tuoi, là presso i Pozzi dove forseRoma avea coronata la sua fonte?

Nella notte d'ottobre ardevan l'Orsealte coi sette e sette astri fatalisu i marinai, quando la luna sorse.

Tutta bella tra il golfo dei corsalie il Deserto, levava al gran ritornol'Oasi le sue palme trionfali.

Simile all'invocata alba d'un giornomistico era il notturno effuso lume;e l'annunzio e l'attesa erano intorno.

Parea, spirato dall'antico nume,intra il libico monte e l'apenninospander il ciel di Dante il suo volume.

Da qual nascosto vortice marinola colonna rostrale era politaperché splendesse al novo eroe latino?

Quali mai braccia avean diseppellita

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da secoli di sabbia e di barbarieMinerva, chiarità di nostra vita?

Di sotto l'oro della sua cesariespiava ella gli imberbi, dalla vettacerula delle palme solitarie?

Era forse Ebe la parola detta,come nella battaglia di Micalevinta col nome d'Ebe giovinetta?

Tutto era senza limite, eternaleed imminente, nell'abisso ciecodel tempo e in sommo della vita frale.

Carme romano ed epinicio grecopassavano con tuono di tempesta,e la canzone italica era teco.

E la canzone italica di festae di guerra, di vóto e di riscossa,la sua face scotea su la tua testa.

Tu, come le midolle son nell'ossaeri in quel pugno d'uomini. L'odoredel coraggio era nella sabbia smossa,

Ferìan la notte fasci di splendoredalle grandi pupille delle naviinsonni; e la potenza delle prore

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pareva entrar nei parapetti cavia rendere invincibili i tuoi pochi.In piedi tu, come sul ponte, stavi.

Tutta l'Oasi rossa era di fuochiscroscianti. I cani urlavano alla morte.L'assalto era un inferno d'urli rochi.

La città senza spalti e senza porteavea l'inespugnabile cintura:te, giovinezza, amore della sorte!

Ti canto, aurora; e la tua mano puracome la rosa, piena di semente.Ti canto, eroe, per l'anima futura;

e la battaglia presso la sorgente.

La canzone di Mario Bianco

Giovine, so che vuota è la tua tombalà nella cerchia ove le primaveredella morte una candida colomba

reca, Medea nata del Condottieredi bronzo, quella che i suoi rosei marmidisfoglia come rose di verziere.

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Bergamo t'ebbe. Ma colui che parmiti sorridesse come ad un fanciullogentile, non l'adunco irto nell'armi

Colleoni, sì ben Francesco Nulloera, la buona lancia, il grande e fermoalfier di Libertà, col viso brullo

ancóra delle fiamme di Palermo,rotto dal piombo slavo il vasto pettoofferto alla Giustizia ultimo schermo.

Risorrideva nel virile aspettoil primo sogno che per il selvaggioAgro trasse il lanciere giovinetto

quando la giovinezza era l'ostaggiod'ogni patto segnato col Destinoed ogni giorno era calendimaggio?

Dov'egli cadde, cavalier latinoin terra strana, ivi restò. La spogliadell'eroe sola è mèta al suo cammino.

Tu fosti tolto, su la nave in dogliaalla Patria raddotto e alla soavemadre che t'attendea su la sua soglia.

Tinta in minio la prora della nave

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non era, né corona avea d'olivané la mannella delle spiche flave;

né sopra v'era teoria votivache il virginal tuo sangue, libamentodi guerra, offrisse alla divina riva.

Ma la mistica voce era nel vento,ma sparso era il libame. «È questo, Italia,è questo il tuo fermento e il tuo cemento.»

E non era solenne la paràliaa Delo come il funebre vascelloche radduceva il Giovine d'Italia.

Ed all'approdo ognun t'era fratellosentendo in sé l'immobile tuo cuoreripalpitare come un cuor novello.

E dal silenzio fùnebre un dolorenascea possente come la radicedella virtù. Quest'inno era il suo fiore.

E la morte era quasi Beatriceche ci purificasse in una santaonda per trarci a un regno più felice.

E tu non una giovinezza infrantaeri, ma la promessa e il pegno. Aromaera del cuor la lacrima non pianta.

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E passasti i deserti ove arde Romaor d'altra febbre, e lungo il mar toscanole salse macchie che il libeccio schioma.

Oh t'avessero almen per il Garganoprocelloso raddotto al bel nativocolle scisso dal vomere frentano,

al chiaro colle onde il palladio ulivoguarda il gregge dell'isole nomatedal nome del guerreggiatore argivo

e i nostri monti quinci, le nevateimagini dei nostri alti custodi,e il grande Sprone, e il cerulo Nicate!

Detto io t'avrei: «Buon figlio, se non odiqui fragor di battaglia né ti sazial'effuso dopo te sangue di prodi,

ben odi qui, sepolto nella graziadi San Giovanni, le tue querci cavevaticinare al vento di Dalmazia».

Ma tu rivalicato hai senza naveil mar d'Africa. Vuota è la tua tombache t'infiora la madre tua soave.

Per Santa Barbara, alla prima romba

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del mortaio, già vigile tu eri;e Gian Muzzo sonava la sua tromba.

Ed eran teco i primi cannonieridella morte, i tuoi Sardi e i tuoi Pugliesi;e tutti eran più bianchi e più leggeri.

E parea che la gran Vergine accesiavesse i fuochi dell'aurora eternaalla festa e spiegato i suoi pavesi.

Ardeva a Tripoli, a Bengasi, a Dernala festa del mortaio e del cannone,per Santa Barbara, in vicenda alterna.

Senza pausa correva la canzonedall'una gola nera all'altra rossa:rugghio d'incendii le tenea bordone.

L'odor divino della terra smossa,fra tanta afa, lo spirto della terrauomo e pezzo allenava nella fossa.

Biego, Desuni, Pellegrini, Serra,dèmoni della vampa e del fragore,àlacri sinfoneti della guerra!

Tutte le batterie un solo ardore.Tutte le volontà un nervo istesso.La massa era contratta come un cuore;

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la fila era flessibile qual nessodi tèndini. Fin l'ombra su l'arenatra l'uomo alzato e l'uomo genuflesso

era un legame vivo. La catenaunanime giocava agile e duracome i nodi nell'osso della schiena.

Ove il ferro faceva una radurai superstiti in sùbito retaggioraccoglievan la forza moritura.

I morti si drizzavan nel coraggiomoltiplicato dei viventi. L'ariaera come un ignito beveraggio.

Roma apparìa. L'anima legionariacol vasto afflato dilatava i petti.Nel cielo spaziava l'ala icaria.

Oh date gli asfodeli violettid'Aïn-Zara, per tesser le ghirlandedella gloria primiera ai primi eletti,

ch'io li mesca ai narcissi della grandeBerenice, ai nettunii gigli natisu l'orlo delle sabbie memorande

ove tinse gli affusti trascinati

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a braccia il primo sangue virginalein libamento della Patria ai Fati.

Guardiamarina, cippo sepolcralein Tobrucca ti sia l'un dei cannoniammutoliti, tolti nel campale

giorno di Santa Barbara ai ciglionid'Aïn-Zara che videro i fuggenti.Gli altri sei diamo agli altri sei leoni

Ché dove noi poniamo i fondamentidella potenza, là poniam de' nostrimorti l'ossa per consacrar gli eventi.

Non nelle antiche ombre, ne' lunghi chiostridei cimiteri, tra gli usati avelli,dove profusa la pietà si prostri;

ma novel tumulo ad eroi novellidiamo, oltremare, su la quarta sponda;e ciascun nome in pietra si scarpelli;

e sien pietre angolari che profonda-mente radichi in terra ad opra forteil costruttore, il saldo eroe che fonda.

O Tobrucca, alte mura e ferree porteavrai, cantieri, maestranze, scali,darsene, e i novi ingegni della morte.

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E strapperemo alla Vittoria l'aliperché mai dall'acropoli munitasi fugga. Avrem col Mare altri sponsali.

Una maschia bellezza redimitadi sogni avremo, senza il sacerdote,in mezzo a noi, nel mezzo della vita.

Ché l'Africa non è se non la coteove affilammo il ferro, per l'acquistosupremo, contra le fortune ignote;

e riluce per noi nell'intravistofuturo un bene che per rivelarsivale il martirio d'un novello Cristo.

O Giovine, se mai nel cor t'apparsicreato dalla pagina commossae del gran fuoco mio l'anima t'arsi,

odimi, qual ti vedo su la fossadella trincera mentre ancor spirantebevi l'odore della terra smossa,

odimi. Non morrai. Sei nell'istantee nell'eternità. Colui che vienee non colui che parte sei, distante

e prossimo. Tu grondi, e le tue vene

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sono inesauste. Impallidisci, e il visotuo raggia e le tue mani sono piene

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorrisoè inestinguibile. In grande ombra velila tua certezza, e pure io ti ravviso.

Io fui qual sei, nel mondo. Quel che anelianelai. Vissi come tu combatti.Nutrii di sangue i sogni miei fedeli,

d'aspro sangue, per trasmutarli in atti.Solo, per simulacro della guerraposi a me, tenni a me tremendi patti.

Tutto che in sé l'insonne anima serraperverte esalta io lo conobbi. E puretalor fui pari a un fiume della terra!

Ma gli anni d'onta, ma le cose impurepesavano su me. La mandra abiettasi voltolava nelle sue lordure.

A me dissi: «Ricòrdati ed aspetta.Dal silenzio Ei verrà. Veglia alle porte.La gloria fu. Ricòrdati ed aspetta».

Ed è venuto, il Grande, il Puro, il Forte,il Signore aspettato, alto volando,come la verità, sopra la morte.

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Ecco, vedi, obbedisco al suo comandoe tremo. Vedi, sono ebro d'amoree di spavento. Or ei dice: «Chi mando,

o gridatore ed indovinatoredi cose sante? Chi andrà per noi?».«Eccomi» dico «manda me, Signore.

Con qual segno?» Col segno degli eroiEgli ha moltiplicata la mia gente,accesa la virtù degli occhi tuoi.

Ah perché, mentre tutto è rinascentein una primavera più gioiosache quella delle Esperidi, e il presente

è tessuto di porpora famosae di stami indicibili, e la vitanella pietra di Pallade corrosa

riscolpisce l'imagine compitadella divinità novella, e ignotonume è il soffio che t'agita e t'incìta,

ah perché non rinasco dal mio lotoPrincipe della Gioventù traendoi miei compagni a me duce e piloto,

meco giurati a un patto più tremendo,

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e, per guidarli, d'un più alto e purofuoco in me stesso non mi riaccendo?

O Giovine d'Italia, il morituroti saluta. Il mio sogno, astro vegliante,declina sopra i mari del Futuro.

Tu sorgi. Non morrai. Sei nell'istantee nell'eternità. Colui che vienee non colui che parte sei, distante

e prossimo. Tu grondi, e le tue venesono inesauste. Impallidisci, e il visotuo raggia e le tue mani sono piene

di chiusi doni. Cadi, e il tuo sorrisoè inestinguibile. In grande ombra velila tua certezza, e pure io ti ravviso.

Ave, Giovine. Gloria a te nei cieli,gloria nei mari, gloria su la terra!Combatti e canta come il pio Mameli;

semina e mieti; i varchi tuoi disserra;assoda e guarda le tue vie; con pugnointrepido le tue fortune afferra;

e sappi come traggo il miel del bugno,l'acqua del fonte, della piaga il dardo;e vedi come il mio dolore espugno.

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Quando tu abbia col tuo chiaro sguardoabbracciato il dominio, su la vettavertiginosa infisso il tuo stendardo,

offerto al Sole l'ultima saetta,alfine avrò da te forse il selvaggioinno che il paziente orgoglio aspetta,

l'inno alla mia vigilia e al mio coraggio.

L'ultima canzone

Ah, non dieci canzoni, dieci navid'acciaio martellate con l'istessaforza d'amore, o Patria, dimandavi,

e non sillaba a sillaba commessama piastra a piastra ancor calda del maglioe in ciascuna impernata una promessa,

e già pronte su gli unti scali, al tagliodelle trinche, le dieci in armamentocom'è già pronto il tuo Contrammiraglio.

Ahimè, non ho se non il mio tormentoe il mio canto. L'oblìo breve è finito,e nell'oscuro cuore io mi sgomento;

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ché oggi sono simile al feritolontano che si sveglia al limitaredel gran Deserto e vede l'infinito

silenzio sul suo sangue palpitaredi stelle e in lui remoto come il cieloil vólto delle sue cose più care

e tutta la sua vita senza velo,quasi nel vetro della notte inscritta,e l'anima chiarita nel suo gelo

come una gemma rigida ed invittache più non muta forma né s'arrende,e la vittoria pari alla sconfitta.

Non apprese negli anni ciò che apprendenell'attimo. S'irraggia mentre agghiada.E la notte lo fascia di sue bende.

E nel cavo degli occhi ha la rugiada,non le lacrime, e qualche gran d'arenanella man che non stringe più la spada.

Tutto è tacito e puro. Non balena,non albeggia. In un sol chiarore egualespazia la solitudine serena.

Scende dal cielo e dalla terra sale

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la stessa luce: tal nel cielo Sirioqual nella piaga l'anima immortale.

Mi risveglio io così, dopo il deliriodell'improvvisa primavera, solocon la mia vita, ahimè, senza martirio

cruento, nella notte del mio duoloantico e nel silenzio delle stelleinfauste, inerte su lo stranio suolo.

E nelle vene che parean novellem'incresce il vano sangue non versatoe la febbre che aggrava il polso imbelle.

O mie canzoni, di qual grande affiatopiene sembraste nella prima ressaquando ogni mio pensier balzava armato!

A ciascuna di voi con indefessavigilia diedi vólto d'eroina,d'aquila penne, ugne di leonessa.

Sì travagliosa era la mia fucina,era l'angoscia dell'amor sì forte,che più non mi dolea nel cuor la spina

né più da sera battere alle porteudivo il mio carnefice sagaceche de' miei sonni fa torbida morte,

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ma sol ruggire udivo la fornaceimperterrita, e come alla battagliaera la fronte all'opera pugnace,

e vedevo di là dalla muragliala notte costellata d'occhi ardenti,d'occhi fraterni. «Su, fuoco, travaglia!

Gloria, fiammeggia! Su, cantór di genti,con la Vittoria a gara!» E le sorelle,ancor rosse, partivano nei vènti

quando trascoloravano le stellesul disperato Ocèano, il selvaggiostridendo annunciatore di procelle

per la deserta landa; e al gran viaggiol'anima tutta era seguace, e solateneva l'ombra il pallido rivaggio.

O lontananza, che dalla parolaeri abolita come inane cura,or sembri nella notte di viola

spanderti senza fine, di pianurain pianura, di monte in monte, d'acquein acque. Il mio dolor non ti misura.

L'ululo dell'Ocèano si tacque,

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il vento cadde. Dal silenzio stranoil notturno carnefice rinacque.

Nessun m'ode. Son simile al lontanoferito che si sveglia al limitaredel gran Deserto e vede il ciel lontano

sul suo gelo supino palpitaredi stelle e ascolta sempre più remotoil pianto delle sue cose più care.

Non ti cantai, o mio fratello ignoto?non chiesi il nome tuo perché nel miocanto risuoni? Solo sei, devoto

a morte, già fasciato dall'oblìoperenne, profondato nello stagnodel sangue; e non avrai tomba. Foss'io

per te come colui che accorre al lagnodel caduto, là dove più tremendaè la strage, e si carica il compagno

su l'òmero a scamparlo dall'orrendavendetta del mutilatore e arrivanell'altra vita all'orlo della tenda!

Sembrami, ignoto, ch'io ti sopravvivaper un castigo oscuro e ch'io, non ombrané uomo, in vano erri per questa riva.

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Il vento cadde. Nella notte ingombradi neri crini è il soffio di Medusa.A quando a quando il mio cavallo aombra,

sosta, soffia, ricalcitra, ricusacome se non dai tronchi morti fossela valle tra le dune alte preclusa

ma da mucchio d'uccisi e l'orme rossenella bassura dessero bagliore.Talvolta il passo nelle sabbie smosse

è come un tonfo sordo. Il tetro odoreche lascia la marea su le scopertespiagge de' naufraghi è come l'odore

della putredine. Il bacino è inertecome l'Averno, sparso d'errabondefiamme che or sì or no schiarano incerte

larve dentro le barche o per le sponde,e pare che ogni fiamma s'incolonninell'abisso. Ora tutto si confonde

e m'illude. Latrare i cani insonni,presso e lontano, odo per la malvagialanda. Ascolto. Son forse quei di Fonni?

Sono i mastini della mia Barbagia?

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È la muta di guerra? A paio a paioardere vedo i loro occhi di bragia.

Marceddu è in vermi. Murtula è più gaio:non ha che l'ossa del viso disfatte.Il buon Demurtas medica il carnaio.

Azzanna! Azzanna! Dove si combatte?Muta di guerra, trovami la pestanel sabbione, pe' rovi e per le fratte.

Ma non latrare, ché stanotte è gestadi silenzio, vittoria senza grida,gloria tacita. Il cuore me l'attesta.

Razza del Monte Spada, siimi guida,innanzi al mio cavallo che paventa.Io cerco il fuoco o il ferro che m'uccida.

Dove si muore? Un'anima fermentanella notte, più libera dell'aria.Tutto è grande. La luna s'arroventa

occidua su l'altura solitaria,simile a falce sopra grande incude.Tutto è sogno. La landa originaria

verso il sogno propaga le sue nudeonde, come il Deserto senza strade.L'asfodelo letèo vi si dischiude

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come lungh'essi i talami dell'Ade.L'asfodelo si lacera ed auliscesotto lo schianto di colui che cade.

Or più la pesta si profonda. Striscedi nero sangue rigano il cammino.Tale è il silenzio, che vi si scolpisce

l'evento come in un rigor divino.Il cielo è sgombro. Solo vi s'intaglial'indomito adamante del Destino.

Non rombo, non fragore di battaglia,non urlo di dolore. Ma chi muoveper la gran notte, e la gran notte eguaglia?

È la schiera quadrata, che va dovel'Eroe la riconduce. Ha seppellitoa Tobras i suoi morti. Ha visto nuove

stelle sorgere a lei dall'infinito.Ha represso il singulto del morente,ha soffocato il lagno del ferito.

Col ghiado illude la sua sete ardente.Il mulo che portava l'acqua, portail carico di sangue. Le cruente

some non hanno un gemito. La scorta

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è un solo ferro che respira. Il ducenon chiama, non comanda, non esorta.

Cavalca innanzi. Ha seco la sua luce.Ha seco l'alba nei deserti bui.Quando laggiù gridava «A me!» nel truce

attimo, la sua gente era con lui.S'egli cavalchi al limite del mondo,la sua gente in silenzio andrà con lui.

In sommo della duna, sul profondocielo, è veduto sorgere dagli occhiriversi del soldato moribondo.

E quegli a cui si piegano i ginocchiriprende la sua lena su per l'ertasinché l'arso polmone non gli sbocchi.

Taciturna così per la desertanotte s'avanza la quadrata schiera,con i suoi segni, verso l'alba certa,

simile al vóto d'una primaverasacra che salga verso un fato augustocon l'Eroe primogenito in cui spera.

Così, divina Italia, sotto il giustotuo sole o nelle tenebre, munitae cauta, col palladio su l'affusto,

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andar ti veggo verso la tua vitanuova, e del tuo silenzio far vigore,e far grandezza d'ogni tua ferita.

Nella mia notte, sopra il mio dolore,questa suprema imagine si spande.Chiudila nella forza del tuo cuore.

Non n'ebbe la tua guerra di più grande.

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NOTE AL LIBRO DI MEROPE

La canzone d'oltremareSono comento al primo verso i Canti della morte e della gloria,

i Canti della ricordanza e dell'aspettazione, il Canto augurale per la nazione eletta, quasi tutto il secondo libro delle Laudi pu-blicato or è dieci anni non invano.

Rumia è una corrente di Tripolitania, che passa per antichi oli-veti. Lebda è la romana Leptis Magna ove nacque l'imperatore Lucio Settimio Severo; che in Egitto involò i libri sacri e fece suggellare la tomba del Macedone perché niuno dopo di lui vi di-scendesse. Nella terra di Bengasi, al Gioh, ove si giunge a traver-so un deserto d'argilla, è la caverna che chiude la sorgente del Lete, secondo la tradizione, in vicinanza dei luoghi ove fiorirono gli orti delle Esperidi. In onore della sposa di Tolomeo Evergete, di colei che fece l'offerta della mirabile capellatura assunta tra le costellazioni, la terra s'ebbe il nome di Berenice.

In un codice già strozziano, ora magliabechiano, si trovano le Sante Parole che si dicono in galea; così cominciano:

Dienai' e 'l Santo Sepolcro;Dienai' e 'l Santo Sepolcro;Dienai' e 'l Santo Sepolcro;

Dienai' e madonna Santa Maria e tutti li Santi e le Sante, e la santa e verace Croce del Monte Calvaro, che ne salvi e guardi in mare e in terra;

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Dienai' - e l'Agniol san Michele;Dienai' - e l'Agniol san Gabriello;Dienai' - e l'Agniol san Raffaello;Dienai' - e san Giovanni Batista e 'l Vangelista;Dienai' - e san Piero e san Paolo;Dienai' - e l'Appostol san Jacomo;

con quel che segue.

La canzone del sangueIl Cìntraco era in Genova republicana un banditore del popolo; e

su l'anima del popolo giurava in parlamento. Soffiando il vento, ammoniva i cittadini perché guardassero il fuoco.

Il Catino ottagonale, creduto di smeraldo - che Guglielmo Em-briaco recò a Genova dal conquisto di Cesarea (1101) - è, secon-do la tradizione, quel medesimo in cui Giuseppe d'Arimatea rac-colse il divin sangue, quel medesimo che sotto il nome ineffabile di Graal fu venerato dalla santa milizia dei Templari. Pareva nei secoli perduto, quando l'espugnatore genovese lo rinvenne tra le prede nella città siriaca.

Guglielmo, soprannominato Caputmallii, aveva il comando del-la spedizione navale partita dal porto di Genova nell'agosto del 1100. Era egli non soltanto marinaio durissimo ma costruttore ec-cellente di torri ossidionali e di macchine belliche. Narra Caffaro negli Annali come nell'aprile del 1101, la vigilia della Domenica delle Palme, tornassero i Genovesi a Caifa dopo avere inseguito uno stuolo di quaranta galee d'Egitto, e come da Caifa navigasse-ro a Giaffa accolti festosamente dal re Balduino, e come, dopo aver visitato il Santo Sepolcro, movessero all'espugnazione di Ar-suf e quindi di Cesarea con duplice buon successo. Dinanzi a Ce-sarea trassero il naviglio in secco, istrutti dall'Embrìaco armarono

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macchine murali, poggiarono alle mura le antenne, diedero la sca-lata, presero la città, tutta la misero a bottino e spartirono la ric-chissima preda, tornarono in patria con la Reliquia e con la gloria.

Già quel medesimo Embrìaco, insieme con un Primo suo con-sanguineo, mentre Gottifrè di Buglione era all'assedio di Gerusa-lemme, aveva approdato a Giaffa con un paio di sue galee, queste aveva distrutte per non poter far fronte all'armata saracena d'A-scalona, indi aveva trasportato il legname sotto le sante mura e costrutto con esso formidabili macchine di percossa e di assalto.

Nell'impresa di Siria aveva egli il titolo di Console dell'esercito genovese. S'ebbe Genova la istituzion romana dei Consoli prima d'ogni altra città (1056). Entravano essi in officio il dì di Purifica-zione.

Dipendeva l'Embrìaco, nella detta impresa, dalla Compagna; la quale era una corporazione giurata di mercatanti e di navigatori, liberamente costituita per proteggere il traffico maritimo contro ogni sorta di pirateria e di violenza. Ogni Genovese atto alla vela o al remo, capace di governare la nave e di difenderla, dai sedici anni ai settanta, si giurava alla Compagna e contraeva l'obbligo dell'obbedienza civile e militare ai capi o consoli. Appunto intor-no al 1100 la Compagna divenne un'associazione stabile e serrò l'intera cittadinanza in potentissimo cemento. Per calendimaggio, nel 1189, ricevettero nella Compagna i consoli Pietro re d'Arbo-rea tenuto per cittadino e vassallo del Comune.

Preziosissimo sempre tenne il Comune nel Tesoro di San Loren-zo il Sacro Catino. Ed è singolare, nella storia delle antiche Com-pere, quell'assegnazione che fu detta la Compera del Cardinale pel recupero del Sacro Catino (Compera Cardinalis pro recupe-ratione sacrae Parasidis), originata da un contratto che il 16 otto-bre 1319 il comunal notaro e cancelliere Enrico de Carpena stipu-lò fra il Comune e il Cardinal Luca Fieschi abate di Santa Maria in Via Lata. Dava il Cardinale in prestito al Comune novemila e cinquecento genovini d'oro, contro il pegno della sacra scutela. Occorreva il danaro a opere di difesa necessarie. Più tardi, nel 1327, il Comune a riscattare la divina Reliquia assegnava al Fie-

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schi luoghi 95 con un provento per ogni luogo e v'aggiungeva un aggravio sul prezzo del sale venduto nella cerchia.

L'impresa di Filippo Doria su Tripoli è narrata dall'annalista li-gure Giorgio Stella, dal fiorentino Matteo Villani e dal tunisino Ibn-Kaldun. Di recente Camillo Manfroni, con la sua solita per-spicacia, ha vagliato e riassunto le tre narrazioni. Quella del Vil-lani «come i Genovesi appostarono Tripoli, come la presero, come la venderono» è mirabile di colore e di freschezza.

Nella giornata di Curzola, Lamba Doria - ch'era per ardere ses-santasei galèe venete, e Venezia doveva vedere del nautico incen-dio rosseggiare il suo cielo e i suoi marmi specchianti - afferrò il cadavere del figlio, lo baciò in fronte e dall'alto della poppa lo scagliò nell'Adriatico gridando: «Compagni, il mio figliuolo è morto ma ei vive in cielo. Non ci contristiamo d'una sorte sì bella. Ai prodi è degna tomba il luogo della vittoria».

Trofeo di vittoria fu da lui trasportata a Genova l'urna funebre in cui riposano le sue ossa, sotto una delle finestre di quel bianco e nero San Matteo che fondò Martino Doria in su lo scorcio del XII secolo, tempio gentilizio della schiatta.

Biagio Assereto, notaro, eletto dal volere del popolo capitano d'un'armatella di soccorso contro Alfonso d'Aragona, fu lo stu-pendo eroe della battaglia navale di Ponza. Nella quale, pur es-sendo inferiore di forze, mosse le sue poche navi e galèe con sì novo accorgimento che sconfisse l'armata regia; ed egli popolano fece prigioni Alfonso il Magnanimo, i suoi due fratelli infanti d'Aragona, il re di Navarra, il gran mastro di Calatrava, il gran mastro di Alcantara, il principe di Taranto, il duca di Sessa, il conte di Fondi e cento tra principi o signori d'Aragona e di Sicilia (5 agosto 1435).

Nella lettera da lui scritta al Comune dopo la vittoria - trascritta dal Federici sul testo conservato presso Marco Antonio Lomelli-no e pubblicata dal Belgrano - egli racconta: «Erano le galee dalle

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coste, refrescando le loro navi de homini e tirando le loro navi ad-dosso onde ghe piaxea, però che era grandissima carina».

La canzone del SacramentoL'argomento di questa canzone è tratto da un carme d'ignoto au-

tore forse pisano, intitolato Carmen in victoria Pisanorum, che narra con un misto di storia e di leggenda l'impresa compiuta so-pra il re zirita Temim, detto Timino, da una lega di Pisani, di Ge-novesi, di Amalfitani e d'altri marinai dello stesso mare: cioè da una vera e propria lega tirrena formata a muovere una guerra reli-giosa che fu il preludio delle Crociate. Conduceva i Pisani il con-sole Uguccione Visconti, che aveva seco il figliuolo Ugo, bellis-simo e arditissimo giovine - omnium pulcherrimus - il quale nella fazione perse la vita. Conducevano i Genovesi un Lamberto e un Gandolfo. Molto era il naviglio e bene armato. I Cristiani espu-gnarono Pantelleria e mossero a Mehedia - la Màdia del poeta pi-sano, l'Alamandia delle Istorie, la Dilmazia della Cronaca -; ed era il dì 6 d'agosto del 1088, «lo die di Santo Sisto», il giorno in cui pareva che per fato i Pisani principiassero o terminassero le loro imprese. E «per forza cavonno di mani delli Saracini Affrica e Dilmazia e più terre di Barbaria» come dice il buon Ranieri Sar-do.

Era la città di Timino lontana da Tunisi novantaquattro miglia a scirocco, luogo fortissimo per natura, sopra rocce inespugnabili dentro il mare congiunte alla terra da un istmo sottile, con un por-to sinuoso. Un'alta muraglia, un fosso, sette torri e un mastio la difendevano. Il re - secondo narra l'Anonimo - nutriva nei serragli gran numero di leoni.

Prima dell'assalto, il Vescovo celebrò l'ufficio divino; arringò dal cassero i combattenti, e diede l'assoluzione sacramentale.

Questo è il momento epico della canzone. Soldati e marinai, rin-novando l'usanza dei Cristiani primitivi nel tempo delle persecu-zioni, si distribuirono a vicenda la sua santa Eucaristia.

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Et communicant vicissimChristi Eucharistiam.

Poi strinsero l'assedio, ebbero la città, liberarono gli schiavi cri-stiani, smantellarono la ròcca, fecero gran bottino, ed imposero a Temim una grossa indennità di guerra e l'esenzione delle imposte per le genti di mare.

A chiarire l'allusione di talun verso, giova ricordare che i Pisani da soli assalirono i Saraceni d'Africa nel 1035 e presero la città di Bona. Nel 1063, nel giorno di Santo Agapito, si presentarono di-nanzi al porto di Palermo «che era pieno di Saracini», ruppero la catena e s'impadronirono di navi cariche. «E dello tezoro che vi preseno, ordinonno di fare lo Duomo Sanctae Mariae, e lo vesco-vado.» Non avevano essi ancor fatta la guerra balearica, ma più volte avevan certo predato navi nelle acque di Maiorca e conver-tito il bottino in pietre da murare. «Avendo trovate due galere vi-cine all'isola di Maiorica e di Minorica, cariche di mercanzia, ed una nave ricchissima dei Mori di Granata, le presero e le condus-sero in Pisa...»

San Pietro, venendo d'Antiochia, approdò alla bocca dell'Arno e vi edificò la basilica che oggi si chiama di San Pietro a Grado, detta ad gradus arnenses dai gradi di marmo che scendevano nel mare.

In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo riedificata da Roberto Guiscardo, è una porta di bronzo lavorata a Costantinopoli e do-nata da Landolfo Butromile e dalla sua donna. Ora mancano a tut-te le figure di rilievo i vólti e le mani d'argento. Quivi anche è la tomba di Sigilgaita, della maschia sorella di Gisolfo, per cui il Guiscardo ripudiò la sua prima moglie Alberada. Più d'una volta Sigilgaita combatté su le navi a fianco del Normanno contro i Greci.

Gli Amalfitani presero ad introdurre le merci d'Occidente nella Siria e nell'Egitto prima d'ogni altro popolo maritimo. Ottennero

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dovunque firmani che loro accordavano libertà di traffico e di transito. E dovunque stabilirono fondachi, case di commercio, chiese, ospizii. Guglielmo di Tiro nella sua Historia de Rebus ge-stis in partibus transmarinis narra come gli Amalfitani edificasse-ro in Terrasanta la prima chiesa sotto il vocabolo di Santa Maria Latina. «E quivi era un ospizio di poveri, e in esso una cappella chiamata Santo Giovanni Elemosinario. E quivi Santo Giovanni fu patriarca d'Alessandria.» La chiesa fu costruita tra gli anni di Nostro Signore 1014 e 1023, per un firmano del soldan d'Egitto. Il qual firmano è oggi custodito nel convento dei Francescani di Gerusalemme. Il luogo era quel medesimo ove, più di due secoli innanzi, Carlomagno aveva fondato il suo ospizio, a un trar di pietra del Tempio del Santo Sepolcro.

Pantaleone Mauro è da molti ritenuto come il primo console della Colonia amalfitana in Costantinopoli. La cattedrale di Amalfi ebbe le sue porte di bronzo dai Mauri come Salerno dal Butromile. Una iscrizione in lettere d'argento sopra una d'esse dice: «Hoc opus fieri jussit pro redemptione animae suae Panta-leo filius Mauri de Pantaleone de Mauro de Maurone Comite».

La canzone dei trofeiTersanaia è vecchio idiotismo pisano per Arsenale, come Arsa-

nà, Tersanà, Tersaia. Dice la Cronaca pisana di Ranieri Sardo: «In del milleduegento anni, fue incominciata la Tersanaia di Pisa, e lo Camposanto fondato per lo arcivescovo Ubaldo, e comprato al Capitolo lo terreno assegnato. Ed è detto Camposanto, perché si recoe della terra del Camposanto d'Oltremare, quando tornonno dal passaggio preditto, e sparsesi in quello luogo». I Pisani, se-condo le parole dello Storico, attendevano di continuo alle cose del mare, dove pareva a loro che consistesse ogni riputazione e onore. Perciò fu proposto nel Consiglio che si edificasse un arse-nale maggiore; ed essendosi vinto il partito, vi si dette principio. Fu fatta questa fabbrica nella cittadella o fortezza vecchia dei Pi-sani, lungo le mura della città, volte dalla banda di ponente, con

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archi sessanta (come scrive Fra Lorenzo Taiuoli pistoiese); e le galere che vi si facevano, si mettevano in acqua sotto gli archi, che si vedono oggidì ancóra in quella cortina di muràglia la qual comincia dal Ponte a Mare e segue fino alla Porta.

Chìnzica e Ponte sono due quartieri di Pisa antica. Gli altri due sono Fuori di Porta e Mezzo. Chìnzica comprendeva i borghi d'Oltrarno rimasti rinchiusi nell'ultimo cerchio della città. Il cro-nista: «Gli Anziani mandorono bando, in sul vespero, che ogni persona dei quartieri di Chìnzica, populo e cavalieri...».

A una parete del Camposanto, dalla parte d'occidente, sono ap-pese le catene di Portopisano che i Genovesi portarono via nel 1362 quando Perino Grimaldi era a soldo del Comune di Firenze... «Velsono le grosse catene che serravano il porto» narra Matteo Villani, «e quelle, carichi d'esse due carra, mandarono a Firenze...» Le quali furono poi restituite dai fratelli ai fratelli, quando l'Italia risorse nazione libera.

Sono conosciute da tutti le storie del Beato Rinieri, santo patro-no dei Pisani, dipinte su le vaste pareti del Camposanto da An-drea di Firenze (1377), da quel medesimo che colori il Cappello-ne degli Spagnuoli in Santa Maria Novella.

Le galere pisane, condotte dall'arcivescovo Ubaldo dei Lanfran-chi, tornarono dall'assedio di Tolemaide cariche della terra cavata sul Monte Calvario. E nel 1203, secondo la tradizione, la preziosa terra fu sparsa nel terreno a fianco della Cattedrale; dove furon sepolti i morti.

Dell'impresa dell'arcivescovo Daiberto, capitano di navi al recu-pero di Gerusalemme, l'antichissimo Annalista nominato Maran-gone scrive: «Anno Domini MXCVIII. Populus pisanus, iussu domini papae Urbani II, in navibus CXX ad liberandam Jerusa-lem de manibus paganorum profectus est. Quorum rector et duc-tor Daibertus Pisanae urbis archiepiscopus extitit...».

L'Ordine dei Cavalieri di San Stefano fu istituito dal Duca Cosi-mo de' Medici. E il primo di febbraio del 1562 una bolla pontifi-cia sanciva l'istituzione, concedendo amplissimi privilegi per co-loro che «a lode e gloria di Dio, a difesa della Fede ed alla guar-

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dia del Mediterraneo» ne facessero parte. Sede dell'Ordine fu la città di Pisa. Col denaro di Cosimo e con la soprintendenza del Vasari sorsero il Convento, il Palazzo del Consiglio e la Chiesa conventuale dedicata a San Stefano, oggi adorna delle bandiere e delle fiamme conquistate su i Barbareschi.

In Salerno, nella Cattedrale di San Matteo, la cappella a destra dell'altar maggiore fu fondata da Giovanni di Procida. La cupola è di musaico e l'altare è di legno e di avorio. Nel musaico il dona-tore è in ginocchio dinanzi all'Apostolo, e l'iscrizione dice:

Hoc studiis magnis fecit pia cura lohannis,De Procida, dici meruit quae gemma Salerni.

Nella stessa cappella sorge il mausoleo del grande Ildebrando, di papa Gregorio VII, dopo la cacciata accolto in Salerno da Ro-berto Guiscardo.

Gaeta possiede, nella Cattedrale di Sant'Erasmo, il vessillo in-viato da Pio V a Don Giovanni d'Austria e issato su la galèa reale nel giorno di Lepanto. Era il vessillo della Santa Lega. Il pontefi-ce inviandolo raccomandò che non fosse spiegato se non nell'ora della battaglia. Secondo un passo delle memorie di Onorato Gae-tani, Don Giovanni dopo la vittoria passando per Gaeta depose il vessillo nel Vescovado in onore del suo patrono Sant'Erasmo, as-solvendo un vóto fatto nel pericolo. Il vessillo fu posto in una cu-stodia e divenne il più prezioso ornamento dell'altar maggiore. Anche una vecchia cronaca della Casa Gattola di Gaeta racconta come Giovanni, figliuol di Carlo re di Spagna, approdasse a Gae-ta con grande pompa ricevuto in porto dal vescovo Pietro e com'egli offerisse a Sant'Erasmo protettore e martire il vessillo ch'egli aveva issato a poppa della Reale il 7 di ottobre 1571. La sera stessa, il vincitore navigava alla volta della Sardegna.

Don Giovanni nella battaglia aveva sul ponte quattrocento sol-dati del terzo di Sardegna; che fecero miracoli contro i trecento

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giannizzeri e i cento arcieri di Alì, quando le galere dei due capi-tani s'investirono. Il bassà, dal principio alla fine della fazione, non cessò dallo scoccare i suoi dardi. Ma le corde degli archi ri-scaldate si distendevano indebolendo i colpi, mentre gli infatica-bili archibusieri cristiani avevano il vantaggio.

Il Capo di Teulada è la punta più meridionale della Sardegna, la più vicina all'Africa. Anche la recondita Teulada ha il suo eroe nel cannoniere Michele Meloni di Francesco, ferito nella giornata del 23 ottobre a Homs. Questo Sardo era tra quei quaranta mari-nai, comandati da Corrado Corradini veronese, che occuparono coi loro pezzi da sbarco l'altura del Margheb ingombra di rovine romane. Come puntava egli il suo cannone per l'ottantacinquesi-mo colpo, una palla araba passando per la clavicola gli traversò l'apice del polmone e gli restò sotto pelle fra le due scapole. Pri-ma di piegarsi, lanciò contro il nemico nell'ingiuria uno sputo di sangue. Accorrendo i suoi uomini, li supplicò di attendere non a lui ma al pezzo già puntato. Insistendo gli uomini, l'ira gli dette la forza di sollevarsi. Egli vomitava sangue dal polmone, e il brac-cio sinistro fiaccato gli penzolava su l'anca. Nessuno osò tratte-nerlo né sorreggerlo. Solo egli si trascinò sino al suo cannone, col braccio valido aggiustò la mira e sparò. Si resse ancóra in piedi qualche attimo per riconoscere l'effetto del colpo, senza più colo-re di vita, con la bocca piena di vomito. Poi cadde a terra, di schianto.

Due altri Sardi, Salvatore Marceddu della nave Amalfi e Nicolò Grosso della Vittorio Emanuele, il primo nativo di Cagliari e il secondo di Carloforte, battellieri e pescatori, furono uccisi su la spiaggia della Giuliana. E avevano entrambi ventitré anni.

Carloforte è una città fortificata dell'isola di San Pietro, edificata in pendio su i contrafforti della Guardia dei Mori. L'isola, ricca di falchi, rimase per secoli deserta, dopo le feroci devastazioni dei Saraceni e dei Barbareschi. Era il desolato dominio d'un patrizio, duca di San Pietro; il quale pensò di trasportarvi i Genovesi dell'i-sola coloniale di Tabarca, che i Turchi di Tunisi molestavano sen-

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za tregua. Il genovese Agostino Tagliafico sbarcò nell'isola con i suoi popolani nel 1736 e costruì su l'altura la fortezza di Carlofor-te, che fu guardata da una piccola guarnigione.

La colonia per alcuni anni prosperò, industriandosi in saline, in tonnare, in pesche di coralli, in culture agrarie. Ma la mattina del 2 settembre 1798 gli abitanti, mentre dormivano ancóra senza so-spetto nelle loro case, furono sorpresi da uno sbarco di predatori tunisini che misero tutta la terra a sacco crudelissimamente e spinsero alla spiaggia come mandria e condussero in schiavitù un migliaio d'infelici; ché i più animosi erano in alto mare occupati alla pesca. Dopo cinque anni di duro servaggio, per intercessione e per danaro di Pio VIII e di Vittorio Emanuele, furono riscattati. E Carloforte allora fu munita di mura, fuorché dalla parte della spiaggia dove fu piantata una batteria a fior d'acqua.

L'Arco di Settimio Severo, nel Fòro Romano, tra il Carcere Ma-mertino e i Rostri, tra il Lapis Niger e l'Ombelico dell'Urbe, fu eretto all'Imperatore nell'anno 203 dopo Cristo; e commemora an-che taluna delle sue vittorie su gli Arabi. Il primo restauratore della nostra marina, Simone di Saint-Bon, ha in Campo Verano la sua tomba; che oggi la riconoscenza nazionale dovrebbe ricoprire di corone. A San Giorgio di Lissa, comandando la Formidabile, penetrò nel porto angusto, s'imbozzò a breve gittata dalla più po-tente difesa, innanzi alla batteria della Madonna, e vi si mantenne imperterrito, con prodigi di valore, destando l'ammirazione degli stessi nemici.

Gli mentirono i Fati, d'innanzi a Lissa tonante.Quando su la sua nave già rotta dagli obici e tuttavermiglia di sangue, sul ponte ingombro di corpimùtili Egli stette impavido incolume solonel tragico ardore, non parve compirsi il prodigioper un patto fatale ed Egli omai sacro alla guerrafutura, a una strage più vasta, a una gloria più vasta?

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Odi navali (1892)

La canzone della DianaLa Porta di San Lorenzo, in vicinanza della Basilica e del Cam-

po Verano, è nel luogo dell'antica Porta Tiburtina. L'arco di tra-vertino fu costruito, come dichiarano le iscrizioni, da Augusto e restaurato da Tito e da Caracalla per sopportare gli acquedotti delle acque Giulia Tepula e Marcia.

Il soldato Pietro Ari nacque in Cuglieri, in terra arborense, in quello stesso circondario di Oristano ove nel cratere del vulcano estinto sta Santu Lussurgiu, l'ardua città posta «fra il Logudoro e l'Arborea, tra i sepolcreti giganteschi delle più antiche stirpi, tutta chiusa in una chiostra di basalto e aperta soltanto a ostro-libeccio, al soffio dell'Africa», là dove Corrado Brando trovò Rudu, homi-ne de abbastu, e l'ebbe compagno intrepido «per seguire la voca-zione d'oltremare».

Il vituperato eroe aveva «una parola romana da rendere italica: Teneo te, Africa». Egli diceva, nel suo sogno di morituro: «Io po-trei forse divenire un costruttore di città su terre di conquista, ri-trovare quell'architettura coloniale che i Romani piantarono nel-l'Africa degli Scipioni. Guarda le Terme di Cherchell, il fòro di Thimgad, il pretorio di Lambesi. Intorno a un campo trincerato per contenere i nòmadi, ecco sorgere di sùbito una città marziale, alzata dalle coorti dei veterani!» Può essere che, per assistere alla sognata rinnovazione, domani egli risorga dal suo rogo meravi-glioso. «Chi narrerà al mio figlio che, nella mia morte notturna, ho tenuto sul mio petto il mio Sole simile a una mola rovente? Via, cani, alla catena! La mia cenere è semenza.»

La canzone d'Elena di Francia

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Chiamano Guardie i piloti le sette stelle dell'Orsa minore, i sette trioni degli antichi; perché esse scorgono e dirigono il loro cam-mino nella notte.

Tragiche favole si formarono intorno alle Pleiadi. Sono esse la costellazione nautica per eccellenza; poiché gli antichi non ardi-vano dar principio alla navigazione prima del nascer eliaco delle Pleiadi nel mattino insieme col sole. Al lor tramonto incomincia-va il tempo delle tempeste, e il nocchiero schivava il mare. Sei delle Pleiadi sono visibili, la settima, Merope, quella che protegge questo libro, è oscura; e la favola narra ch'ella si nasconda per es-sersi congiunta, sola fra le sorelle, con un eroe mortale.

San Luigi re di Francia fece su navi genovesi il primo e il secon-do passaggio d'oltremare. Quando a Damiata, dopo la disfatta del-l'esercito, essendo prigioniero il Re, Margherita di Provenza si sgravò del figliuolo Gianni a cui fu in segno di cordoglio aggiun-to il nome di Tristano, vennero nella stanza della regina alcuni ca-valieri a dirle che le genti di Genova e di Pisa erano in punto di abbandonare il campo. Allora la puerpera animosa convocò nella sua stanza i Genovesi e i Pisani che vennero e stettero accalcati intorno al suo letto. Ella li supplicò di non partire. «Signour, pour Dieu merci, ne laissiés pas ceste ville...» La scena è ingenuamen-te colorita nella prosa del sire di Joinville, del Siniscalco. «Come faremo noi, Dama?» risposero gli Italiani. «Ché in questa città noi moriamo di fame. Dame, comment ferons-nous ce? Que nous mourons de fain en ceste ville.» La regina promise di comperare tutta la vettovaglia. «Car je ferai acheter toutes les viandes en ceste ville...» Genovesi e Pisani fecero consiglio, e restarono.

Nell'avanzata verso Mansura, l'esercito era stremato dalle malat-tie e dalle ferite. Ogni giorno s'accresceva il numero degli infer-mi. Le esalazioni pestilenziali del limo ingrassato dai cadaveri ge-neravano orribili morbi. La carne delle gambe si disseccava tutta, e la pelle si maculava di nero e di color terreo come una vecchia uosa; e le gengive si gonfiavano e marcivano. «La chars de nos

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jambes devenoit tavelés de noir et de terre, aussi comme une vieille heuse: et à nous qui aviens tel maladie, venoit chars pour-rie es gencives...» Il Siniscalco narra come l'orribile male tanto peggiorasse che bisognava i barbieri tagliassero in bocca ai malati la carne morta perché potessero inghiottire il cibo. Ed era gran pietà udire gli urli degli straziati; che urlavano come le donne partorienti. «Grans pitiés estoit d'oir braire les gens parmi l'ost ausquiex l'on copoit la char morte; car il bréoient comme femmes qui traveillent d'enfant.»

I morti rimanevano insepolti, perché ognuno temeva di toccarli e di sotterrarli. Invano il Re dava l'esempio e li portava e li sep-pelliva con le sue proprie mani. Il Confessore della regina Mar-gherita racconta come, seppellendo il Re i morti, i Vescovi nel-l'officiare si turassero il naso pel gran fetore: ma non fu mai visto il Re imitarli.

«Ils estoupoient leur nez pour la puour; mais oncques ne fu veu an bon roy Loys estouper le sien, tant le foisoit fermement et dé-votement.»

Mentre Roberto d'Artese, il fratello del Re, entrava in Mansura solo, lasciandosi indietro i Templari, e vi restava ucciso, San Lui-gi veniva alla riscossa con tutta la sua schiera al suono delle trom-be e delle nacchere. Dice il Siniscalco che mai videsi più bel ca-valiere, avanzante di tutta la spalla le genti sue, con un elmo d'oro in testa, con in pugno una spada alemanna. «Oncques si bel homme armé ne vis, car il paroissoit dessus toute sa gent des épaules en haut, un haume d'or à son chef une épée d'Allemagne en sa main.» Quando il conte d'Angiò su la via del Cairo fu assa-lito da due stuoli di Saraceni e oppresso dal getto dei fuochi lavo-rati, il Re lo salvò scagliandosi a cavallo contro gli assalitori. La criniera della sua bestia fiammeggiava, coperta di fuoco greco, nel vento della corsa.

Il Confessore racconta con quale ardore il Re desiderasse la gra-zia delle lagrime e come si lamentasse d'esserne privo e come non osasse nella litania implorare fontana di lacrime ma sol qualche gocciola ad irrorare l'aridità del suo cuore. «Li sainz roi disoit dé-

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votement: O sire Dieux, je n'ose requerre fontaine de lermes: an-çois me souffisissent petites goutes à arouser la secherèce de mon cuer... Lesqueles, quand il le sentoit courre par sa face, souef et entrer dans sa bouche, eles li sembloient si savoureuses et très-douces, non pas seulement au cuer, mès à la bouche.»

Durante l'agonia, dopo il secondo infelicissimo passaggio, in prossimità di Cartagine, il Re volle esser tratto dal letto e disteso su la cenere. Il suo giovine figliuolo amatissimo, Gian Tristano, era già morto sul vascello.

Carlo d'Angiò venne allora di Sicilia «con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento» come narra Giovanni Villani; pat-teggiò col soldato di Tunisi; e ripartì con le relique del fratello e del nipote. Giunto il convoglio a Trapani l'Invitta (Drepanum ci-vitas invictissima, come fu scritto intorno al sigillo minicipale) Tibaldo di Sciampagna re di Navarra, già infermo, si spense. Con le tre bare il corteo si mise in viaggio verso Palermo, per la via di terra. Quivi fece una sosta di due settimane. Il corpo di San Luigi fu collocato nella basilica palatina di Monreale, ove operò i primi miracoli. Il cuore fu anzi lasciato nel tempio dei re normanni. Poi il re di Sicilia, il re novello di Francia Filippo l'Ardito con sua moglie Isabella d'Aragona e i superstiti della tristissima impresa continuarono il viaggio sino a Messina, passarono lo stretto e s'in-ternarono nella Calabria. Era di gennaio. Nevicava per le gole dei monti. Non lungi da Martirano, il corteo lugubre giunse al guado di un torrente tributario del Savuto. La giovane regina, benché in-cinta di sei mesi, spinse arditamente il cavallo tra i sassi sdruccio-levoli («Praesunta quadam virili audacia pereundi» dice Saba Malaspina); ma la bestia inciampicò e cadde trascinando Isabella nell'acqua ghiaccia. Fu sollevata, posta in lettiga, soccorsa; ma lo schianto era mortale. «Offensa lethaliter et in ipso casu confrac-ta, laesus fuit uterus...» Giunta a Cosenza, ella si sgravò di un bambino morto e rese l'anima. Saba Malaspina racconta come il cadavere fosse bollito, more maiorum, e come le carni fossero se-polte in gran pompa nel duomo di Cosenza e lo scheletro fosse portato in Francia a San Dionigi, con le tre altre spoglie reali. Un

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nobile mausoleo fu eretto nella cattedrale cosentina «perpulcra, digna memoria, materiae ac artis concertatione glorifica» presso l'altare dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, sul luogo della sepoltu-ra. Rimesso in luce per recenti restauri, fu rivelato dall'acume di Nicola Arnone e illustrato da uno studio eccellente di Emilio Ber-taux.

Il Nasuto è chiamato da Dante Carlo d'Angiò nel canto settimo del Purgatorio.

Anche al Nasuto vanno mie parole...

E, poco innanzi:

Quel che par sì membruto e che s'accorda,cantando, con colui dal maschio naso...

E Giovanni Villani: «Grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso...».

Il Lambello è il nostro Rastrello. Dice Vincenzio Borghini: «Alla comune arma della casa di Fois aggiunse un rastrello, o, come essi dicono, lambello d'argento». E, a proposito di Carlo, il Villani: «La sua arme era di Francia, cioè il campo azzurro e fior-daliso d'oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia».

L'allusione al cordiglio francescano tenuto da San Luigi è giu-stificata dalla pittura di Giotto nella Cappella dei Bardi in Santa Croce; la quale è certo inspirata dalla leggenda francescana che fa del Re di Francia un terziario dell'Ordine. Il capitolo XXXIII dei Fioretti racconta Come sancto Lodovico andò a visitare frate Egi-dio e mai non s'erano veduti. Et sança parlare si cognobbono in-sieme. Il San Luigi giottesco tiene in una mano lo scettro e nell'al-tra il cordiglio dei Terziarii; e il suo manto azzurro, col collare di vaio, è cosparso di fiordalisi.

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Facile è riconoscere il luogo del verso di Dante:

Così è germinato questo fiore.

L'altro verso e l'emistichio son derivati dal decimo settimo canto del Purgatorio, non perché vi sia rispondenza tra quel passo e il momento lirico della Canzone ma perché sembra che ogni alto e appropriato segno possa esser tratto per noi dalla Comedia a libro aperto come i responsi dai libri sibillini.

La canzone dei DardanelliQuesta Canzone fu composta quando gli informatori descriveva-

no la ragunata delle navi nel porto di Taranto. «Sin da ieri è un continuo passaggio di torpediniere nel Canale navigabile. Hanno tutte all'albero maestro la fiamma di guerra. Il Mar Piccolo sem-bra un immenso lago dove galleggiano in gran numero navi di battaglia, torpediniere e cacciatorpediniere. Ve ne sono ormeggia-te lungo tutte le banchine, e nell'arsenale e nello specchio d'acqua del primo bacino, ch'è nel Mar Piccolo il più vasto, riparo sicuris-simo ed inespugnabile, unico in tutto il mondo (17 novembre).» Questa notizia era immediatamente seguita da quest'altra, in vi-stosi caratteri: «La flotta non è ai Dardanelli».

L'episodio della battaglia sostenuta dai quattro legni cristiani contro l'intera armata di Maometto II, sotto le mura di Costanti-nopoli, è narrato nelle Croniche di Giorgio Dolfino e di Niccolò Barbaro che ne fu testimonio, e nella Cronica di Costantinopoli del greco Giorgio Phranzes, il quale anche assistette alla fazione. I quattro legni, venendo dal Mar di Marinara, portavano viveri e munizioni all'imperatore assediato. Pei contrarii vènti, avevan cappeggiato a lungo nei paraggi di Chio; cosicché, favoriti alfine dall'Ostro, entravano nell'Ellesponto e s'appressavano al Bosforo quando già tutta la città era stretta. Come l'armata turca li avvistò,

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il sultano diede ordine all'ammiraglio di assalirli con tutte le forze e di catturarli o di colarli a picco. Suleyman bey salpò con circa duecento vascelli (a centoquarantacinque li riduce uno dei croni-sti); innanzi l'ora di nona incontrò i quattro legni sotto le mura, propriamente fra le Sette-Torri e i giardini di Blanca. In quel pun-to il vento cadde, cosicché i Cristiani perdettero il vantaggio. Tut-tavia si prepararono a combattere. Combattimento ineguale e por-tentoso, d'un naviglio sottilissimo contro il grosso dell'armata ot-tomana. Allo spettacolo accorse su le mura, dalla parte della Pro-pontide, la moltitudine degli assediati, e lo stesso Costantino. Su la riva, fuor della cerchia, presso il promontorio di Zeitun, a breve distanza dalle Sette-Torri, accorsero i Turchi, e lo stesso sultano a cavallo per godere della prima vittoria. Il cielo era sereno su tutto il Bosforo. Prima parlarono i mortai e le bombarde; poi un de' le-gni cristiani e la galeazza di Suleyman vennero all'arrembaggio per prua e rimasero conficcati per prua l'uno nell'altra. Intorno s'accalcarono le navi turche. E le tre genovesi nell'investimento persero l'uso dei remi. Allora i ponti accostati furono il campo d'una mischia feroce. Con le pietre pugnerecce e coi fuochi lavo-rati i nostri opposero una così fiera difesa che, dopo tre ore di combattimento, le sorti parvero volgere in lor favore. Gran nume-ro di navi turche ardeva già; cresceva la strage. I nostri, eccitati dai clamori che ventavano dalle mura, parevano moltiplicarsi mentre su l'armata nemica già soffiava il panico.

Allora Maometto, furibondo, imprecando alla viltà de' suoi come per minacciarli e ricacciarli avanti, si lanciò a cavallo nel mare e spinse la bestia sul bassofondo, con l'acqua sino al pettora-le. Atterriti tornarono all'assalto coloro che l'atroce conquistatore soleva, nei momenti disperati, spingere con le spranghe di ferro e coi nerbi di bue; ma non poterono superare la resistenza dei Cri-stiani. Furono costretti a ritrarsi. Le navi superstiti ripresero l'an-coraggio di Bessikhtach.

Verso sera, Gabriele Trevisano e Zaccaria Grioni con due galèe rimorchiarono in trionfo i quattro legni, tra squilli di trombe e canti di vittoria; poi richiusero il porto con la catena.

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Dopo la terza delle Cinque Giornate, quando cominciava a de-terminarsi la disfatta degli occupatori, i soldati del Radetzky si abbandonarono ad atrocità che non cedono nel paragone a quelle arabe e turche di Rebab. Dalla strage di Casa Fortis ai lattanti in-fissi su le baionette, giova non enumerarle. La terzina della mano mozza allude a quella mano feminile, carica d'anelli, che fu rinve-nuta nella tasca d'un Croato ucciso.

Costantino Paleologo, il fratello di Giovanni, avendo accettata la corona di Bisanzio, vera corona di spine, condusse con molta intrepidezza la difesa contro il secondo Maometto che l'assaliva con uno sterminato esercito. I difensori non sorpassavano il nu-mero di settemila. Un Giustiniani, un Cattaneo, un Minoto, un Contarini, un Mocenigo, un Corner, altri nobili veneziani e geno-vesi, erano alla guardia delle torri e delle porte. Quando tutto fu perduto e l'esercito del sultano implacabile irruppe nella città per dare il sacco di tre giorni promessogli, Costantino spronò il caval-lo, nei pressi della Porta Càrsia, contro il folto dei nemici, volen-do morire con l'Impero. «Il sangue gli colava dai piedi e dalle mani» dice Giorgio Phranres. Secondo Michele Ducas, lo storico dell'Impero d'Oriente, l'imperatore gridò: «Non un cristiano v'ha, che prenda il mio capo?» Secondo Michele Critopulo, gridò: «La città è presa, e io vivo ancóra!». In quel punto un Turco gli tagliò la faccia. Come Costantino rispondeva al colpo, un altro gli tra-passò le reni. Cadde nel mucchio, non conosciuto. Più tardi, aven-do Maometto ordinato di ricercarlo, riconobbero i cercatori il ca-davere ai calzati di porpora che recavano trapunte in oro le aquile imperiali.

I sovrani e i principi della Chiesa in Occidente, dopo che con sì trista incuranza avevan lasciato abbattere l'ultimo segno dell'Im-pero bisantino, alla notizia della vittoria turca rimasero atterriti; e temettero che i giannizzeri non venissero a distruggere le imagini di Cristo nelle cappelle unghere ed alemanne e che le basiliche romane non fossero mutate in moschee come quella Santa Sofia

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dove Maometto aveva fatto pel primo il suo namaz su l'altar mag-giore!

Il marinaio barese Vito de Tullio fu ferito a Tripoli nella batta-glia del 26 ottobre. Era disceso dalla nave Sicilia con la compa-gnia di sbarco. Quando giunse la notizia, tutto il popolo della città vecchia passò in pellegrinaggio per la casa della madre; che si chiama Serafina Daddario. Ferito a Bengasi fu il marinaio Luigi Carmineo, tra i primi a sbarcare sotto il fuoco, in una barca getta-ta dalla nave Amalfi.

Nella parte occidentale della città vecchia, nella Piazza Mercan-tile, sta su quattro gradini il Leone veneziano, con incise nel col-lare le parole «Custos iustitiae».

Dopo la spartizione di Costantinopoli, Venezia per assicurarsi il possesso delle Cicladi concesse che cittadini armatori di galèe ne tentassero l'acquisto a lor rischio e pericolo. Fu allora composta per accordo una compagnia di patrizii, la quale armò una squadra di corsa e la diede in comando a Marco Sanuto. Il Sanuto non sol-tanto s'impadronì delle Cicladi, ma anche delle Sporadi e delle isole sparse lungo la costa dell'Asia Minore. Egli fu investito del-la signoria feudale di Nasso e d'Amorgo; poi, per decreto dell'Im-peratore latino di Costantinopoli, ebbe il titolo di duca dell'Egeo, con autorità su tutte le isole distribuite in feudo ai suoi compagni d'armi, insuperabili marinai.

Martino Zaccaria, figlio di Niccolò, per la sua prodezza e per i suoi ardimenti si guadagnò il favore di Filippo di Taranto, impe-rator titolare di Costantinopoli e principe d'Acaia, a tal punto che costui lo nominò con diploma in data del 26 maggio 1315 re e de-spoto dell'Asia Minore e gli diede inoltre Marmara, le Enusse, Tenedo, Lesbo, Chio, Samo, Icaria e Coo, con tutti i diritti regali e con tutte le insegne della regalità. In compenso, Martino s'assu-meva il carico d'aiutarlo, con cinquecento uomini, a riconquistare il trono di Costantinopoli.

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Questo Zaccaria con imperterrito zelo proseguì l'alleanza dise-gnata contro i Turchi da Marin Sanudo nel 1329. Le sue spedizio-ni contro gli infedeli furon quasi sempre vittoriose. Sembra che, durante i quindici anni di suo governo in Chio, egli ne uccidesse più di diecimila.

Come re dell'Asia Minore, aveva diritto di battere moneta. Esi-stono ancóra monete d'argento del suo conio, con l'imagine di Santo Isidoro patrono di Chio. Dopo avventure ammirabili, liete e tristi, nel 1343 si congiunse ai Crociati che facevano oste contro Omar principe d'Aidin per impadronirsi delle Smirne; e cadde nella sanguinosissima battaglia del 15 gennaio 1345.

Egli può esser considerato come un vero eroe nazionale ligure, stupendo rampollo di quella cavalleria greco-franca che aveva già sfolgorato di gloria sul Mediterraneo. Converrebbe rinnovellare le lodi che gli inalza Uberto Foglietta nei suoi Elogia clarorum Li-gurum. Erano nel XIII secolo gli Zaccaria di Castro tra le più opulenti e possenti famiglie di Genova. Traevano essi gran parte della lor ricchezza dalle miniere di allume esercitate nel territorio di Focea.

Quando il capitano popolano Simon Vignoso, partitosi di Geno-va col naviglio nella primavera del 1346, ebbe riconquistata Scio, il Comune dovette ben tenere il patto di rifondere agli armatori e conduttori della guerra tutte le spese rilasciando alcuna parte di certe rendite dello Stato. Ma, essendo assai smunto l'erario, il Go-verno stipulò con i capi della spedizione, il 26 febbraio 1347, un accordo che lor conferiva per anni ventinove il dominio utile e l'amministrazione di Scio e di Focea Vecchia e Nuova, riserbando alla Republica la ragion della spada e del sangue ed il mero e mi-sto imperio (merum et mixtum imperium). Ogni padron di nave per tale accordo aveva facoltà di partecipare al guadagno prodotto dal commercio del mastice e dell'allume e dalle gabelle nei paesi conquistati. Così fu tra i conquistatori di Scio costituita la società chiamata Maona, la cui storia gloriosissima è da ricordareagli Ita-

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liani tutta quanta, dalla romana severità di Simon Vignoso ai di-ciotto giovini martiri Giustiniani.

Il nome di Giustiniani presero poi i Maonesi, come per congiun-gersi in una vasta famiglia e dinastia, rinunciando ciascuno al nome suo proprio. E la Maona fu detta allora dei Giustiniani di Scio. I primi dodici socii della corporazione, che fecero la rinun-zia e assunsero il nuovo nome, furono: Nicolò Caneto, Giovanni Campi, Nicolò di San Teodoro, Gabriele Adorno, Paolo Banca, Tommaso Longo, Andriolo Campi, Raffaello di Fornetto, Luchi-no Negro, Pietro Oliverio e Francesco Garibaldo.

Il commercio più importante e più remunerativo per la Maona era quel del mastice, prodotto nei quattro distretti meridionali di Chio e raccolto da speciali agenti «officiales super recollectio-nem masticis».

I dinasti di Scio furono anch'essi tocchi dall'Umanesimo. Orna-tissimo fra gli altri fu quell'Andriolo Banca che, in grazia al suo sapere, divenne amico di Eugenio IV. Cantò in versi italiani la guerra del 1431 contro Venezia. Le lettere di Ciriaco d'Ancona a lui dirette hanno molti curiosi particolari su le rovine del Tempio d'Apollo in Cardamyla e sul monumento d'Omero; presso il quale Andriolo aveva costrutto all'ombra dei pini e al murmure d'un fonte una casa «omerica», procul negotiis.

Nella evocazione del sublime marinaio greco Costantino Cana-ris, si allude alla impresa da lui compiuta contro il naviglio di Kara Alì ancorato in Cesmè, la notte del 18 giugno 1822. Egli aveva per compagno Pepinos nativo di quell'ammirabile Hydra «sì nuda che in qualche luogo manca la terra per seppellire i mor-ti», di quell'Hydra che fu diletta ad Andrea Miaulis, all'audacissi-mo navarca sepolto nel Pireo presso la tomba di Temistocle.

I giovani palermitani dovrebbero in giorno di vittoria sospende-re una corona votiva al monumento del Canaris nella loro Villa Giulia.

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Lazaro Mocenigo, se bene inimitabile anche nel peccare, meri-terebbe d'esser canonizzato e proposto al culto di tutti i marinai italiani. Forse neppure il Miaulis può essergli paragonato in auda-cia. Se l'arte lunga e la vita breve concedessero all'autore di que-sta Canzone il poter compiere tutto quel che disegna, egli vorreb-be scrivere la biografia di tanto eroe per metterla nelle mani d'o-gni guardiamarina della razza di Mario Bianco. Su la stupenda battaglia dei Dardanelli convien rileggere le pagine del cronista testimonio riferite da Gerolamo Brusoni nella sua Istoria dell'ul-tima guerra fra i Veneziani e i Turchi. Implacabile e infaticabile il vittorioso «volle la sera stessa fare l'ultima prova; e così, segui-tato da quattro o cinque altre delle sue galere più rinforzate, intra-prese di nuovo come la mattina la caccia delle nemiche; dovendo intanto gli altri due generali col resto delle galere scostarsi col fa-vor della notte a danneggiare quelle che erano fermate in terra, e se non fosse loro riuscito di tirarle fuori, incendiarle almeno. E però stavano già formando d'una tartana un brulotto per condur-velo sopra. Ma dopo un difficoltoso proveggio, arrivato il Moce-nigo sotto le batterie de' Barbieri, che non meno furiose della mattina offendevano gravemente le sue galere (avendo ammazza-to sopra la Reale quindici o sedici uomini, ed altri sopra la Prov-veditora, atterrato l'antenna sopra alla Capitana di Golfo, e rotto il timone e parte della ruota alla Commissaria) quando già stava per abbordare i legni fuggitivi, fu da una palla fatale colpito in Santa Barbara: onde preso fuoco la munizione fece subito volare in aria la sua galera, non essendo restato intiero che l'arsile con la poppa dove stando egli a Vigilare il comando non si abbrucciò: ma cadendogli su la testa l'asta dello stendardo del calcese, lo fece cadere subito morto».

Il Mocenigo aveva perduto un occhio, il destro, alla battaglia del 26 di giugno 1656 nelle acque di Scio, ove Lorenzo Marcello per-se la vita. Venti navi del bassà Kenaan caddero in mano dei Ve-neziani, preda fra le più insigni del mare.

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La prima edizione delle Canzoni della Gesta d'Oltremare fu se-questrata il 24 gennaio 1912, a motivo di alcune terzine della Canzone dei Dardanelli, che, a detta dell'Autorità politica, suona-vano «ingiuriose verso una potenza alleata e verso il suo Sovra-no».

Nella seconda edizione, che fu la prima per il pubblico, le sud-dette terzine furono soppresse, e surrogate da puntini con la se-guente postilla: «Questa Canzone della Patria delusa fu mutilata da mano poliziesca, per ordine del cavaliere Giovanni Giolitti capo del Governo d'Italia, il dì 24 gennaio 1912. G. d'A.».

La terza edizione uscita nel luglio 1915, e questa definitiva, cambiati i tempi e gli uomini, sono integrali; comprendono cioè anche le terzine che furono allora soppresse.

La canzone di Umberto CagniI tre compagni di Umberto Cagni nella spedizione polare partita

con le slitte dalla baia di Teplitz la domenica 11 marzo 1900, ri-masti con lui dopo il rinvio degli altri due gruppi, furono Giusep-pe Petigax, Alessio Fenoillet, entrambi di Courmayeur, e il mari-naio ligure Simone Canepa di Varazze.

Espeditissimo fu il Cagni. Superò ogni altra conosciuta celerità sul ghiaccio dell'Oceano artico. Percorse seicento sette miglia in novanta cinque giorni. Fritjof Nansen faceva nel periodo migliore cinque miglia al giorno. Il nostro ne fece dieci. Il pensiero della celerità lo assillava di continuo. «La mancanza di luce prima, il freddo intenso poi, mi hanno impedito di oltrepassare e talvolta di raggiungere le otto ore di marcia. Vedo che i miei uomini in que-ste marce e nel lavoro d'accampamento, con tenacia di volontà ammirevole, dànno quanto possono dare nella massima misura. Ritengo che in queste condizioni sarebbe imprudente richiedere uno sforzo maggiore da essi. Ed ora il vento che soffia violento e la neve che ci involge ergeranno nuovi ostacoli at nostro cammi-no. Eppure ad ogni costo bisogna che questo sia più rapido! (do-menica 18 marzo).»

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Il 25 marzo, costretto a far senza guanti il lavoro improbo del riattare le slitte, vide formarsi una vescica «all'estremità dell'indi-ce della mano destra, già congelatasi due altre volte».

«L'indice della mano destra mi tormenta continuamente da alcu-ni giorni, ma non lo scopro mai per timore d'infettarlo, e poiché a nulla ciò servirebbe, non avendo né tempo né modo di curarlo. Lo guarderò il giorno del ritorno (mercoledì 11 aprile).»

Il lunedì 23 aprile egli doveva superare il termine raggiunto dal-lo Scandinavo. «Il ghiaccio cigolava da tutte le parti e si incaval-cava, e rumoreggiando ergeva dighe: canali serpeggianti si apri-vano e ove altri si richiudevano nuove dighe s'inalzavano. Mai avevo veduto il ghiaccio così vivo, così palpitante, così minaccio-so. I cani intimoriti guaivano e si arrestavano; noi li spingevamo con la voce e affannosamente aiutavamo or una slitta, or l'altra.»

«Nei brevi riposi ci guardavamo sorridendo, ma nessuno parla-va; forse ci pareva che la nostra voce dovesse rompere l'incantesi-mo che ci conduceva alla vittoria...»

Il dolore del dito lo tormentava sempre. Bisogna leggere nel Diario con quale atroce pazienza egli stesso operò il taglio della parte annerita. Per recidere l'ossicino sporgente, dolorosissimo, con un paio di forbici comuni, impiegò quasi due ore. «Canepa ad un certo momento non ha più resistito ed è scappato fuori della tenda nonostante il vento e la neve.»

Rinunziava a lavare la piaga col sublimato «per risparmiare tempo e petrolio». Come più crescevano gli stenti e gli impedi-menti, più gli cresceva l'energia. «Mi sembra di avere una nuova grande energia fisica, conseguenza forse di quella morale poten-temente eccitata dal pericolo, dalla lotta per la nostra conserva-zione e da un desiderio infinito che supera forse quello della vita: dal desiderio che tutte le nostre fatiche ed i nostri sacrificii non vadano perduti, che l'Italia sappia che i suoi figli dalla lotta seco-lare, nuova per essi, escono con onore...»

Con ancor più veloce energia la spada di Bu-Meliana fu stretta, sul limite del Deserto libico, dal pugno cui mancava la falange congelata nel Deserto artico.

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La canzone di Mario BiancoLe due prime terzine alludono alla giovanissima figlia di Barto-

lomeo Colleoni, a quella vergine Medea sepolta nella stupenda Cappella costrutta in Bergamo dall'arte di Giovan Antonio Ama-deo, dell'architetto scultore che lavorò al fronte della Certosa di Pavia e all'interno del Duomo di Milano. Vedi nelle Città del Si-lenzio i tre sonetti su Bergamo.

Francesco Nullo (1826-1863) bergamasco condusse nelle Cin-que Giornate la sua colonna di prodi, con prodezza senza pari. Fu, poco dopo, nel Trentino alfiere potentissimo. Militò alla difesa di Roma nella legione dei lancieri. Fu in Bergamo alcun tempo pri-gioniero del Governo austriaco. Dal 1859 al 1862 seguitò il gene-rale Garibaldi, dando continue prove di valore sublime. Nel 1863, con sedici bergamaschi ed altri pochi giovani d'altre province, partì per soccorrere la Polonia insorta. Il cinque maggio, nella giornata di Krzykawka, rimase ucciso sul campo da una palla che gli forò il petto generoso.

Così egli è rappresentato a Palermo, nella Canzone di Garibaldi:

«Il maschioNullo a cavallo oltre la barricatacon la sua rossa torma, ferino e umanoeroe, gran torso inserto nella vastagroppa, centàurea possa, erto su la vampacome in un vol di criniere...».

Paràlia era detta la trireme sacra che, ornata di ghirlande, tra-sportava la teoria a Delo.

Mario Bianco nacque in terra d'Abruzzi, a Fossacesia, nell'anti-ca regione frentana. Quivi, sopra un'altura querciosa che domina l'Adriatico, sorge la Basilica di San Giovanni in Venere, così det-

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ta dal ricordo di un tempio di Venere Conciliatrice che coronava il promontorio. Insigne d'architettura, la Badia fu ricca, potente e variamente mista alla storia religiosa e civile dell'Abruzzo chieti-no. Nel 1194 vide dalla sottoposta marina partire le galèe di quel-la Quarta Crociata che doveva rinnovare l'egemonia italica nel bacino orientale del Mediterraneo e fondare l'Impero latino.

Nell'immenso spazio di mare, che la vista abbraccia dall'altura sonora di querci, appariscono in lontananza le Tremiti, le isole che gli antichi chiamarono Diomedee dal nome di Diomede figlio di Tideo, socio di Ulisse; perché la tradizione recava che quivi i compagni del guerriero si fossero trasfigurati negli uccelli marini che abitavano le rupi e accoglievano con grandi clamori di giubi-lo chiunque di stirpe ellenica vi approdasse.

I marinai morti nello sbarco di Bengasi furono sei: Gianni Muz-zo di Gallipoli, Alfieri d'Alò e Giuseppe Carlini di Taranto, Nico-lò Grosso di Carloforte, Salvatore Marceddu di Cagliari, Giovan-ni de Filippis di Salerno. Il guardiamarina Mario Bianco coman-dava due cannoni sbarcati a viva forza e situati su le dune della Giuliana, a ostro della Punta. Egli fu sorpreso alle spalle da uno stuolo di Turchi e di Arabi che vennero all'assalto con grande im-peto. Mentre dirigeva il fuoco de' suoi uomini e rispondeva egli medesimo scaricando la sua pistola, fu colpito da una palla all'in-guine. Perdeva sangue; non volle essere sorretto; continuò ad ani-mare i suoi marinai. A ostro della Giuliana, sotto un gruppo di palme, cadde. Il suo corpo fu veduto riverso nella sabbia, con le gambe penzoloni nella fossa d'una trincera dove un colpo d'una delle nostre mitragliatrici aveva abbattuto e ridotto in orribile car-name un mucchio di venti Arabi.

La terzina che reca le parole: «Ricòrdati ed aspetta» è formata con emistichii tratti dai sonetti che fanno da preludio ai Canti del-la morte e della gloria cominciando:

«O Verità cinta di quercia, cantala tristezza del popolo latino...»

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«La gloria fu» sono le prime parole del terzo sonetto, che finisce con questi versi qui citati ad onore:

«Alziamo gli Inni funebri, sul greggeignaro, alla Potenza che ci lascia,alla Bellezza che da noi s'esilia.Implacabile è il Canto, e la sua legge.E però leva su, vinci l'ambascia,Anima mia. QUESTA È LA TUA VIGILIA»

E così comincia l'ode piena di presagio che prelude ai Canti del-la ricordanza e dell'aspettazione:

«Il sole declina fra i cieli e le tombe.Ovunque l'inane caligine incombe.UDREMO SU L'ALBA SQUILLARE LE TROMBE?Ricòrdati e aspetta».

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LIBRO QUINTO

CANTI DELLA GUERRA LATINA

Ode pour la résurrection latine

I.

Quelle horreur et quelle mortet quelles beautés nouvellessont partout éparses dans la nuit?Quel vent prodigieux excitetoutes les flammes en travaildans le firmament latin?Le jour est proche! Le jour est proche!O mes odes, filles rapidesde la fureur et du feu,quel dieu, quel héros, quel hommeexalterons-nous au jour certain?Je ne suis plus en terre d'exil,je ne suis plus l'étranger à la face blême,

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je ne suis plus le banni sans arme ni laurier.Un prodige soudain me transfigure,une vertu maternelleme soulève et me porte.Je suis une offrande d'amour,je suis un cri vers l'aurore,je suis un clairon de rescousseaux lèvres de la race élue.

II.

Voyez, je tremble. Voyez, je chancelle,je suis ivre d'amour et d'épouvante.Il vient, Il vient le Seigneur invoqué.Il enflamme la nuit; et l'on n'entend pas,dans le vertige du sang,le battement de sa force.Or, Il dit: «Qui donc enverrai-je,ô annonciateur de choses saintes?Qui donc ira pour nous?».Je dis: «Me voici. Envoyez-moi, Seigneur.Avec quel signe? pour quel pacte?».Je connais le signe, je sais le pacte.J'obéis à son commandementet j'accomplis le vœu de mon âme.Je n'ai plus de chair ni d'osautour de mon âme haletantepour franchir les fleuves et les monts.Déjà sur la borne milliaire,

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à la clarté des Pléiades,je lis le nom ineffable.Et j'entends les chevaux des Dioscures hennir.

III.

J'entends sur l'antique basalte,dans la mine d'Ostie,résonner le pas de Celle qui seulerompt l'incertitude du combat.Vient elle du bois de Laurente?Va-t-elle vers la route des Tombeaux?Elle marche le long des môles noyés,elle passe entre les deux pierres droitesqui désignent la Porte Marine.N'écoute-t-elle pas si la Nefchargée de la fortune de Romefend de nouveau la vasedu fleuve blond? Les lauriers,autour de ses tempes, se hérissentet brillent comme les fers des javelots;car elle sait de quelle herbe,bien plus âpre que la verveine,faudra-t-il couronner la proue aiguë,et de quel sang, bien plus noirque l'égorgement de la génisse sans tache,faudra-t-il teindre la poupe carrée.

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IV.

O Victoire, sauvage comme la cavalequi paît l'asphodèle dans le désert romain,jeune comme Rome alors que la sombre aurorefut traversée par le vol des douze vautours,toi que je vis sur l'aridité sublimebondir du roc d'Ardéeet dans le bond resplendir toute au soleilblanche comme la poitrine du héron,ô Désirable, si jamais seul et anxieuxj'interrogeai tes vestigesloin du peuple vêtu d'ignominie et de paix;si jamais à tes autels j'apportai mon offrandetandis que sur tes palmes,comme sur une litière pourrie,l'astuce et la peur, vaches baveuses,ruminaient le mensonge;si jamais en ton nom je reprochai son opprobreà la Reine des Royaumescorrompue et polluée par les mains des vieillards;si jamals je fus ivre de ton regard changeant,ô Vierge, accompagne mon message, affermis ma voix!

V.

Car, ô Mâle, tel le fécial criaitles noms des villes sœurs et juréesen brandissant le javelot vermeil,

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tel à grande voix je crie,par-dessus les sépulcres,où les os de nos morts s'émeuventcomme les racines au printemps,je crie et j'invoque les deux noms divins,les plus hauts de la terre,jusqu'à ce que le ciel entier s'enflammede la double ardeuret que toutes les sources tariesrejaillissent et se mêlenten un seul torrent indomptable,je crie et j'invoque: «O Italie! O France!».Et j'entends, par-dessus les sépulcres fenduset par-dessus tes lauriers hérissésVictoire, le tonnerre des aiglesqui se précipitent vers l'Estet de toutes leurs serres déchirent la nuit.Le jour est proche! Voici le jour!

VI.

Voici ton jour, voici ton heure,Italie; et, pour cette heuredes années merveilleuses,la plénitude de tes allégresses!L'ai-je annoncée avec les bûchers et avec les hymnes?l'ai-je appelée dans la vigile et dans l'attente?l'ai-je hâtée par la rancune et par l'amour?Les pieds graves du Destin

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se transmuent en ailes soudaines;et sur son front marmoréens'allume la flamme à deux cornesque portait le Libérateurau-devant du champ couvert de rosée.C'est le signe! c'est le signe!Choisis d'être souveraine ou serve,choisis de monter ou descendre,choisis de vivre ou périr.Je te montre le signe.Malheur à toi si tu doutes,malheur à toi si tu hésites,malheur à toi si tu n'oses jeter le dé.

VII.

Vae victis! Les quatre vents du mondesoufflent la bataille,sur la mer où les phares s'éteignent,sur le continent qui s'éclaireau fond des villes embrasées.Vae victis! La force barbare nous appelleau combat sans merci.Comme la horde traînaitdans ses chariots couverts de peaux fraichesles concubines innombrablespour les rassasier de carnageet les enivrer d'hydromel,ainsi elle amène toutes les hontes

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derrière ses hommes comptés en bétail à deux pieds,pour qu'ils couchent avec toutes dans leur sang épaisqui est le rouge frère de la boue,tandis que le vautour à deux têtes,le maître puant au double cou dénudé,pousse son cri lugubre et rejettela charogne mal digérée.Vae victis! Souviens-toi de Mantoue.

VIII.

N'oublie pas les potences chargées de tes martyrs,et cette corde inusabledont le Pendeur décrépitceignit ses reins, pieuxcordelier du Gibet.N'oublie pas les mains lourdes de baguesque l'Autrichien fuyard coupait en hâteaux poignets de tes femmes hurlantes.Qu'elles giflent l'Oint du Spielberg,chaque nuit, dans ses rêves mornes,sur l'oreiller taché,jusqu'à l'heure du trépas!Qu'elles se dressent contre sa prière,chaque matin, dans la maison de Dieu,quand il fléchit ses vieux genoux, qui craquentcomme le bois des fourches,pour recevoir l'hostie puresur sa langue empâtée!

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Souviens-toi. Je veux peser ma hainedans ta balance. Je veux brûler ton cœur, sans trêve,avec des mots pour brandons.

IX.

Je te le dis, je ne te donnerai pas de trêvejusqu'à tant que mon soufflesoit chaud entre mes dents.Mon dieu m'a fait un front plus dur que leurs fronts.Les strophes vengeresses, forgées pour l'infamiecomme pour le fer qu'on chauffe au rougepour flétrir la joue et l'épauledu traître et du larrontu les laissas mutiler, en silence,par la main vile du châtreur;et je bus en silence mes larmes,qui armèrent mon âme secrèted'une amertume immortelle.Or, je te jure, par tes sources et tes fleuves,par tes trois mers et tes cinq rivages,par tes enfants non conçus encore,par tes ancêtres non encore vengés,je te jure que tu sculpterasavec l'acier froid chaque syllabedans la pierre de Pola romainesur l'Adriatique reconquise au Lion.

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X.

Ton jour est proche! Voici ton jour doré!Ta sœur se tient debout dans le soleil.Elle a vêtu sa robe guerrière de pourpre.Elle a mis de doubles ailes à ses pieds nus.Lavée dans ses pleurs ardents,lavée dans son sang amer,fleur sublime de la discorde,elle ne fut jamais si belle,aux jours mêmes de ses royautés.De toutes ses plaies qui gouttentelle fait une rosée merveilleuse;avec la multitude de ses mauxelle rallume l'étoile de son matin!Sa volonté de vaincre, dans ses yeux clairsluit comme la hache à deux tranchants.Elle est prête à chanter, comme l'alouette,sur tous les sommets de la mort.Rassise, de ses mains infatigables,elle tissera la toile du monde nouveau.Qui est contre elle, sinon le barbare?Et qui sera près d'elle, sinon toi?

XI.

Nous sommes les nobles, nous sommes les élus;et nous écraserons la horde hideuse.Nous combattrons, la face à la lumière.

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Nous sourirons quand il faudra mourir.Car, pour les Latins, c'est l'heure saintede la moisson et du combat. O femmes,prenez les faucilles et moissonnez!Apprêtez le pain nouveauà la faim nouvelle! Vos hommesfrapperont fort, serrés comme les épis,dans la bataille, rang contre rang,comme les blés drus sous le vent d'est.O Victoire, moissonneuse farouche,je sens sur mon front, dans l'attente,la fraicheur du matin.Comme le prêtre de Mars aux enfants de Lanuve,je dis: «Vous avez entendu ce qui plait au dieu.Hâtez votre heure, obéissez, partez.Vous êtes la semence d'un nouveau monde.Et les aurores les plus bellesne sont pas encor nées».

13 août 1914.

Sur une image de la France croiséepeinte par Romaine Brooks

I.

Ont-ils haussé l'éponge âcre au fer de la lancecontre sa belle bouche ivre du Corps Très-Saint?

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La Croix sans Christ, qui souffre au-dessus de son seinn'est que la double entaille acceptée en silence.

Mais son œil est plus clair que la claire Provence,mais son cœur est plus doux que le printemps messin.Elle oint de sa douleur la force qui la ceint,elle noue à ses pieds percés la Patience.

Et le vent du combat et l'or du jeune jouret les avrils non vus et l'amour de l'amouret les chants non chantés vivent dans son haleine

La bandelette pure à son front est un feublanc qui conduit les morts. Et l'on voit sur la plainetomber de son manteau la grande ombre d'un dieu.

II.

O face de l'ardeur, ô pitié sans sommeil,courage qui jamais n'écarte le calice,force qui fais avec tes chairs ton sacrificeet ta libation avec ton sang vermeil!

Sur quel bûcher, sous quel signe, pour quel réveil,à quel Avent ta foi chantait dans le supplice?Plus haut que l'alouette à l'aube du solstice,on vit soudain ton cœur bondir vers le soleil.

Car toute entière en toi lève la bonne race.

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Là-bas, d'entre les neuf preux, sourit à ta gracemâle, par les barreaux de l'armet, Duguesclin.

Tu as communié, dans ta sainte vêture,sous l'espèce du sol. Mais, couronné de lin,ton front semble souffrir d'une étoile future.

III.

France, France la douce, entre les héroïnesbénie, amour du monde, ardente sous la croixcomme aux murs d'Antioche, alors que Godefroisentait sous son camail la couronne d'épines,

debout avec ton Dieu comme au pont de Bouvines,dans ta gloire à genoux comme au champ de Rocroi,neuve immortellement comme l'herbe qui croitaux bords de tes tombeaux, aux creux de tes ruines,

fraiche comme le jet de ton blanc peuplier,que demain tu sauras en guirlandes plierpour les chants non chantés de ta jeune pléiade,

ressuscitée en Christ, qui fait de ton linceulgonfanon de lumière et cotte de croisade,«France, France, sans toi le monde serait seul!».

IV.

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Et voici le printemps de notre amour. Exultedans ton sang et jubile au bout de ta douleur,quand même tu n'aurais à cueillir d'autre fleurque le héros jailli de la racine occulte.

«Sonnerai l'olifant», dit l'Ancêtre. O tumultede tes chênes! O vent de l'immense clameur!Hauts sont tes puys, tes vaux profonds. On meurt, on meurt,et chacun de tes morts dans ta beauté se sculpte.

Entendez le signal, combattants, combattants,âmes prises aux corps corame aux ceps le printemps,comme aux poignets les fers, les bannières aux hampes.

Roland le comte sonne; et tout en est fumant,et en saigne sa bouche, en éclatent ses tempes«Frappez, Français, frappez! C'est mon commandement!».

5 mai 1915.

Tre salmi per i nostri morti

I.

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1. Or il braccio di Roma era inalzato, la destra di Roma era levata a percuotere, a rompere.

2. Ma più non vedevamo i nostri segni, né v'era con noi profeta, né con noi alcuno che sapesse fino a quando.

3. E s'udiva romore di moltitudine sopra l'alpe, simile ad ànsito di schiere che s'accalcano,

4. il gran fumo dell'incorrotto sangue salendo dalle vet-te e dalle valli su pe' cieli e su pe' secoli.

5. E, come allor che il sole balza fuori dai monti nella sua possa, una voce sonò senza carne, che diceva:

6. «Finché non sieno beati i tuoi morti, o Roma; finché non sien per te beati e santi coloro che avran parte nella prima resurrezione».

7. E, come svola il brandello del panno dal corpo del-l'ucciso avvolto nella vampa dello scoppio, fuggì la mia pochezza nell'ardore.

8. E respirai il respiro dei nostri morti, oltre la vita e oltre l'orizzonte, maschia speranza alata;

9. ché la mia speranza era nell'ombra delle mie ali d'uomo, a sommo dello spazio combattuto;

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10. e non la piota né il sasso era quivi, da pontarvi il cal-cagno, da stramazzarvi giù rovescio o prono,

11. non luogo di periglio misurato dalla statura, non fos-so cupo, né abbattuta d'alberi, né sacco, né palanca, né fascina,

12. non l'acre cecità della battaglia in deserto sconvolto o su vulcano fragoroso;

13. ma tutto il firmamento m'era, come all'aquila, regno e rapina, visione e verità, ricordanza e promessa.

14. E, non più soma greve d'orgoglio ma rapida virtù senza peso, io vedeva nella battaglia immensa il fi-gliuolo e la madre, la terra e la creatura,

15. come una sola volontà, come una sola bellezza, come una sola potenza, come un dolore solo, come una gloria sola.

16. E rinascere udii nell'aereo cuore la parola antica e santa: «Cercate la mia faccia».

17. Io cercai la tua faccia, o Patria. Con occhi mortali, con occhi immortali, con le pupille della mia fronte breve e con lo sguardo dell'infinito genere, io cercai la tua faccia, o Patria.

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18. E dal ghiacciaio insino alla laguna, dalla rocca del-l'alpe insino alla landa petrosa, dal pascolo ch'è presso il fiume insino alla barena su la bocca del fiu-me, dalla città che ingemma il monte insino alla cit-tà che addenta il mare,

19. m'apparì la tua specie, mi splendette la tua forma, mi ricorse il tuo numero.

20. E nel mio petto, più fragile che la cèntina di pioppo entro il lino della mia ala levigato, si precipitò un turbine d'amore senza schiantarlo.

21. «Il tuo testimonio è nei vertici, o Patria, il tuo testi-monio è nei luoghi sovrani; il tuo testimonio è nelle pianure, il tuo testimonio è nell'umiltà.

22. Tu signoreggerai da un mare all'altro. I campi di-strutti tu li seminerai di seme eterno. Le città disfatte tu le riedificherai col granito dell'alpe liberata.

23. Tu spezzi le mascelle del nemico e gli fai gittar la preda di tra i denti. Tu rompi a una a una tutte le sue chiusure, e tu metti in ruina le sue fortezze.

24. Condotte come mandre, spartite come branchi sono le sue schiere. Le tue son come sacrificii di giustizia, son come olocausti di purità, son come offerte da ar-dere interamente.

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25. Una corona brilla sopra esse, come sopra la chioma delle vergini. Il sorriso precede la prodezza, e riap-pare dopo l'agonia. La morte è chiara come una vit-toria.

26. O Patria, i tuoi primogeniti han segnato il tuo patto, e i tuoi ultimi nati hanno appreso il verbo che tu hai comandato. Non nascondere mai più da loro il vólto tuo.»

27. «Cercate la mia faccia vivente» comandò nel turbine il tuo verbo. «Cercate la mia faccia di sangue e di sudore, di passione e di anelito.»

28. E i geli e le acque, e le rupi e i macigni, e le sabbie e le erbe, e le selve e le mura, e tutte le cose terrestri, sotto il vento della rapidità, si trasmutavano.

29. E io vidi la tua faccia di sangue e di sudore, di pas-sione e di anelito. Vidi te fatta carne, fatta come la carne dei tuoi figli;

30. ché intrisa t'avea da capo col sudore e col sangue la Guerra, rimenata ti avea come pasta di frumento, ri-cresciuta come farina lievitata.

31. Tal donna rude sopra l'asse calca il novo pane con le pugna e co' ginocchi a farlo più tegnente, tutta di vene enfiata come nell'ira; e dietro a lei rugge la fiamma chiusa.

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32. Rimescolata area la tua sostanza con la sostanza de' tuoi figli la Guerra; ricacciati i tuoi figli nella tua profondità. Ecco, e i tuoi morti erano i tuoi nati!

33. Ecco, e la faccia de' tuoi morti era come la tua faccia vivente, o Patria! E quanto più si combatteva, tanto eri più bella. E quanto più si moriva, tanto eri più dritta.

34. Si combatteva anche dal cielo, sopra i luoghi eccelsi delle nuvole. Le tue stelle combattevano dai lor cer-chi, o Italia? Non gli angeli versavano su la terra e sul mare le coppe ferree dell'ira di Dio, ma gli uomi-ni armati d'ali senza penne.

35. O rombo dell'alta rapina! I fratelli di giù levavano le ciglia divampate dal fuoco e l'anima ansietata d'al-tezza.

36. Ma presi erano nella terra, tenuti erano dalla terra, profondati in essa, intrisi con essa, carname con zol-le, ossame con selci.

37. E morivano. E come i corpi loro formavano il tuo corpo, così gli spiriti loro facevano il tuo fiato, o Pa-tria, il tuo fiato possente.

38. E gli uomini alati, sospesi nel mezzo del cielo come in sommo d'un'anima immensa, sentirono l'ala di

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ferzi e di verghe vivere come se l'agitasse con l'òme-ro divino la datrice di quercia, la datrice di lauro.

39. E tu dicevi: «Or chi mi condurrà nella città fedele? chi mi menerà insino al mio bel colle di San Giusto? chi mi guiderà, lungo le colonne e lungo i secoli, a cogliere la palma che m'aspetta?».

40. I morti, Italia, i tuoi morti.

41. E tu dicevi: «Or chi mi reca le dolci mie città della marina come Eufrasio il martire con le mani velate offre il suo tempio di Parenzo a Dio?».

42. I morti, Italia, i tuoi morti.

43. E tu dicevi: «Con chi passerò io per la Porta Gèmina e sotto l'Arco dei Sergi e tra le sei colonne di Cesare Augusto, nella mia sacra Pola? con chi m'affaccerò sul mare, per gli ordini del bianco Anfiteatro, a no-verar le navi imprigionate?».

44. Con Roma, o Italia, con Roma e con i tuoi morti.

45. E tu dicevi: «Io trionferò. Io romperò il nemico nella mia terra e io lo calcherò sopra i miei monti. Io spar-tirò le Giudicarie, misurerò la valle dell'Isonzo, ri-scolpirò le rosse Dolomiti.

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46. Mia nell'alpe è la città che Dante cuopre; mia sul golfo quella dove approda, sceso dall'alpe, il giovi-netto sanguinoso, vittima integra e novo pegno cer-to.

47. Mie tutte le città del mio linguaggio, tutte le rive delle mie vestigia. Mando segni e portenti in mezzo ad esse.

48. Ma in Zara è la forza del mio cuore; su la Porta Ma-rina sta la mia fede, ed in Santa Anastasia arde il mio vóto. Grida, o Porta! Ruggi, o città, coi tuoi Leoni! A te darò la stella mattutina.

49. A te verrò, e di sotto alla tavola del tuo altare trarrò i tuoi stendardi. Li spiegherò nel vento di levante. O mare, non mi rendere i miei morti, né le mie navi. Rendimi la gloria».

50. E allora udita fu dall'alto una voce senza carne, che diceva: «Beati i morti». Fu intesa una voce annun-ziare: «Beati quelli che per te morranno».

II.

1. In qual pianura, in qual chiostra di rocce, lungo qua-le fiumana, tra quali torrenti, sopra quale carnaio senza croci, in vista di qual città fumante, sarà oggi

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celebrato il sacrificio del Corpo e del Sangue di Cri-sto?

2. L'obice romba sul Monte Nero, il mortaio tuona sul Pedimonte. Tutto il Carso è fragore di ruina. Nella valle del Fella si combatte, ed in Plava selvosa; si combatte al traghetto di Canale, e nella conca di Plezzo dalle quattro gole.

3. Sono scrollate le guardie di Tolmino. Gradisca cro-scia, gialla di foglie e d'ira; rugghia l'Isonzo alle chiuse di Sagrado; e Monfalcone dall'artiglio veneto, co' suoi scafi di ferro su le travi nere, arde in vista di Duino folgorato, rogo navale.

4. O Vescovo castrense, i tuoi fanti hanno parato il le-gno dell'altare con le coperte brune ove giacquero a notte entro la fossa, ove all'alba taluno sanguinò. Qualche grumo è forse tra le pieghe. Ma la tovaglia è candida, come la cima della Dolomite nel cielo eterno.

5. E v'è silenzio come in quell'altezza, silenzio inviola-bile.

6. O Vescovo di Dio, primate della strage, oggi la tua preghiera ha per guglie le baionette in asta, per istro-menti le batterie coperte, che s'intonano in coro come il saltero e il flauto, come il cembalo e la cete-ca nell'alleluia.

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7. Inginocchiate sono le tue milizie, sotto l'irta selva dei ferri chine le teste floride, chine le facce imber-bi. Irta ed aguzza è la preghiera, e senza canto.

8. L'Operaia terribile trascorre dal primo all'ultimo e dall'ultimo al primo. Segna gli eletti. Metà ne pren-de. Tutti anche li prende. La lanugine brilla su le gote come su i pioppi l'oro dell'autunno.

9. Bello è taluno, come un iddio del Fòro. E dice il sa-cerdote: «Dal profondo io ti chiamai». Dice l'antiste: «Giacciono nella polvere, addormentati sono nella polvere; perciocché il riposo di tutti egualmente sia nella polvere».

10. Chiamali, o Patria. Dove sono i tuoi morti? Sollevali dal profondo, a uno a uno, ciascuno pel suo nome, e i sepolti e gli insepolti, e quelli che non han più viso, e quelli che son caldi tuttavia, quelli che cadono mentre tu respiri, proni o riversi.

11. Dove sono? Nei valichi dello Stelvio, nella gola del Braulio, tra le nere vette simili ai pinnacoli dei duo-mi, o alla soglia dei ghiacciai raggianti. Chiama, e numera.

12. Nel Tonale giacciono, sotto la punta d'Ercavallo gri-gia, nella malga o sul picco, là dove tagliarono la

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roccia come il boscaiuolo pone il conio e la scure nella rovere.

13. Dormono tra le nevi dell'Adamello e gli ulivi del Garda melodiosi, a Storo, ad Ampola, a Condino, ossa d'eroi su ceneri d'eroi, soavemente. Chiama, e numera.

14. Chiamali da Vai Daone, chiamali dal Ponale, e dalle rive del tuo Chiese cerulo dove si bagnarono riden-do, a modo di pastori, nel caldo giugno, quando le rupi rosee stillavano e i colli erano cinti d'allegrezza.

15. Chiama quelli che stanno su l'Altissimo, nella prim'alba della guerra preso come i leoni abbranca-no la preda, con un sol balzo; e la rugiada fu la pri-ma notte ne' loro pugni, quando gli astri danzavano lungo gli orli del giorno e le radici del monte giubi-lavano.

16. Chiama quelli che caddero in Vallarsa scorgendo di lontano biancheggiare la dolce Rovereto tra i due scheggioni che parean vermigli del lor sangue fug-gente;

17. e quelli tumulati sul Salubio, al limite del bosco, nel prato eguale ove fiorisce il colchico violetto come l'asfodelo, tra le baite esanimi;

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18. e quelli fitti sotto l'Armentera travagliato di bolge qual monte di castighi, o stronchi sotto le rocche dei Titani, schiantati sotto le Pale rosseggianti, sotto i mastii di Lavaredo opachi, ai piedi delle Tofane cru-deli, nelle ambagi di ghiaccio e di macigno,

19. essi gli assalitori senza grido, con le funi e coi ganci, coi raffii e coi ramponi, coi lor calzari taciti di cor-da, coi lor pugni più duri che manopole di piastra, coi lor cuori d'invitto diamante che brilla per gli squarci dei costati.

20. Chiama e numera. Quelli che gittarono incontro alle trincee fetide e cupe l'inno di giovinezza come fa-scio di raggi e caddero col canto puro nella gola aperta, sepolti nei tesori della neve, quelli udranno e verranno.

21. Chiama. Quelli che rimasero su la via di Vercoglia, in notte cauta, calzati d'astuzia, accanto ai loro carri cui aveano ben unto i mozzi e fasciato i cerchi d'u-mida paglia accanto ai fidi cavalli dagli zoccoli av-volti di lana, quelli udranno e verranno.

22. Chiama. Quelli che caddero in co dei ponti, su l'I-sonzo selvaggio, che a mezzo lasciarono i ponti di fortuna costrutti nel buio col coraggio e col legno, che si persero fra le assi fendute, fra le barche sfa-sciate, fra le travi divelte, si voltolarono a valle, s'enfiarono d'acqua notturna, s'impigliaron ne' vinchi

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o s'arrenarono presso alle foci, quelli udranno e ver-ranno.

23. Verranno dalle balze della Val Dogna, dalla Forcella del Cianalot, dal Quaternà ripido e foggio, da tutta l'alpe indomata, gli assodatori di vie, eredi dell'arte di Roma, che per cemento diedero un sangue roma-no, che con le vene cementaron le selci.

24. Chiama, e numera. I frombolieri orgolesi dalle fion-de di canape attorta scagliarono il fuoco e caddero, col rombo sul capo, col dito nel cappio, più belli del figlio d'Isai. Si leveranno al tuo grido, come nell'al-be del Supramonte, girando la corda.

25. E il cacciator di camosci, piombato giù dal dirupo ch'egli solo calcò, rotolato col masso nel botro, si le-verà di sotto alla mora.

26. E quelli che schiantò l'ala nembosa della Vittoria crosciando su la vetta di Plava, grideranno verso te ancor ebri d'assalto.

27. E colui che portò su le spalle il cadavere conteso e le prede e i trofei per entrar col fratello nel buio, torne-rà col fratello alla battaglia.

28. Chiama, e numera. Lungo i recinti di Globna, lungo le trincere di Zagora, contro gli spineti di ferro, en-tro i ferrei forteti squarciati, al passo di Voraia, su la

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cresta di Vrata, sotto il Rombon tenebroso giaccio-no, in Saga dormono, in Oslavia sognano i tuoi mor-ti;

29. e taluno ha la nuvola per sua coltre e la caligine per sue fasce; e taluno è covato dalla nuvola corusca, qual semidio che si rigeneri o si trasfiguri;

30. ed altri, che il nimbo irrespirabile avvolse, sta con la maschera in vólto, qual nell'occulto sepolcro il re larvato.

31. O Aquileia, donna di tristezza, sovrana di dolore, tu serbi le primizie della forza nei tumuli di zolle, al-l'ombra dei cipressi pensierosi.

32. Custodisci nell'erba i morti primi, una verginità di sangue sacro, e quasi un rifiorire di martirio che rin-novella in te la melodia.

33. La Madre chiama; e in te comincia il canto. Nel pro-fondo di te comincia il canto. L'inno comincia degli imperituri quando il divino calice s'inalza. Trema a tutti i viventi il cuore in petto. Il sacrificio arde fra l'alpe e il mare.

34. Dice l'antiste: «L'acque se ne vanno via dal mare, e i fiumi si seccano e si asciugano. Così, quando l'uom giace in terra, ei non risorge. Finché non vi sien più

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cieli, i morti non si risveglieranno, e non si desteran dal sonno loro».

35. Risponde il canto: «O Patria, ecco, noi siamo in piè, se tu di noi ti ricordi. Se tu ci chiami ancóra, eccoci alzati. Siamo le tue ossa e la tua carne. Conta il no-stro numero nel tuo numero; e ricombatteremo».

36. Dice l'antiste: «Come un monte cade e scoscende, come una rupe è divelta dal suo luogo, e l'acque ro-dono le pietre, così tu fai perire la speranza dell'uo-mo».

37. L'inno risponde: «Noi la tua speranza l'abbiamo sa-ziata di midolla e di sangue. Ella è tremenda come belva immane. Ponila innanzi a noi, che ci conduca dove tu vai; e ricombatteremo».

38. Dice l'antiste: «O Dio, mia Rocca, perché mi hai tu dimenticato? Or io me ne vo vestito a bruno, per l'oppression del nemico, mentre mi è detto tutta not-te: "Dove è il tuo Dio?"».

39. Conclamano gli eroi: «Signore Iddio delle vendette, o Iddio delle vendette, appari in gloria!

40. Quelli che stanotte hanno recato a noi buone novel-le, sono stati una grande schiera e lieta. Sopra costo-ro e sopra noi non ha potestà la seconda morte. O

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Patria, eccoci alzati. Conta il nostro numero nel tuo numero; e ricombatteremo».

III.

1. Io non ti mentovai, monte dell'ira, nominato dal nome dell'Arcangelo folgorante; non gridai verso te, monte di quattro gioghi, monte di quattro teschi, cal-vario della nostra passione.

2. Ma sì ti tacqui sopra gli altri luoghi, sopra gli altri carnai della salvezza, perché più mi cocessi nel mio petto, perché più mi grondassi e mi crosciassi nel mio profondo.

3. Quando la Patria segni nel suo numero invincibile il numero dei morti e il suo soffio moltiplichi con l'an-sia degli insepolti, quale tra le schiere più disperate varrà mai quest'una che ancor si scaglia?

4. Quando nel giorno di giustizia, contro le nazioni im-monde, i liberatori s'aduneranno a giudicare l'opra d'ognuno innanzi di partire e terra e mare, quali ossa avranno un tanto peso? qual misura di sangue sarà più colma?

5. Quando sopra il tumulto e sopra il crollo, sopra i re-gni dirotti e sopra le stirpi sradicate, sopra i naufragi

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e sopra i salvamenti, apparirà di sùbito la Musa inef-fabile, chi le parrà più bello?

6. «Ecco, dunque, le armi son cadute dai pugni esan-gui. Dinanzi alla bellezza riaccesa, ora conviene ras-segnare i morti. Guarda questi, contemplali in silen-zio, alta eroina.

7. Non altrimenti nella greca selva giacevano i giovi-netti uccisi dalla fiera o dal dardo, prima di trasmu-tarsi in fiore o in astro. Si compiace pur sempre l'ar-tefice divino in questa creta. Guarda, o Novella.»

8. Io ti guardai, chinato sopra te, o figlio mio supino nella petraia fumigante, mentre tutti i gironi del monte atroce urlavano a furore. E l'immortalità ebbe il tuo vólto.

9. E la battaglia ebbe la tua bellezza. E il furore degli uomini ebbe da un dio un culmine silente. E la polla del sangue che colava calda dal tuo costato era be-vuta dal duro scoglio.

10. O monte della sete, rocca di siccità, quanto bevevi! O Carso dalle bocche insaziabili, o squallido sepol-cro sitibondo, un rosso fiume ai tuoi fiumi di sotter-ra aggiungi, se notte e dì t'abbeveri di strage?

11. Non si mescolano i due sangui avversi; ma ristagna l'impuro nelle schegge e pei botri, s'accaglia, e solo

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il puro corre profondamente rifiammeggiando pei meandri cavi.

12. Lo sanno i prodi: versano il sangue a gara. Lo sanno i prodi, e vuotano le vene. L'anima invitta spreme la ferita e smunge il cuore. L'ultima goccia è quella che più splende.

13. Nel bel Timavo dalle sette fonti scese a lavare il suo cavallo bianco un de' gèmini eroi; né l'acqua oblia. Ma quest'emulo suo sanguigno è tutto gloria che fer-ve, gloria impetuosa.

14. È una piena di gloria senza foce. È una piena di glo-ria che ti cerca per isboccare in te, mare dei figli, nel tuo silenzio, gorgo del futuro.

15. Allora i morti avranno un nuovo cantico, e il deserto sarà santificato.

2 novembre 1915.

Ode alla nazione Serba

Qual è questo grido iteratoche lacera il grembo dei monti?Qual è questo anelito grandeche scrolla le selve selvagge,

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affanna la lena dei freddifiumi, gonfia l'ansia dei fonti?O Serbia di Stefano sire,o regno di Lazaro santo,cruore dei nove figliuolidi Giugo, di Mìliza pianto,lo sai: hanno ricrocifissoil Cristo dell'imperatoreDusciano ad ogni albero ignudodelle tue selve, ad ogni sassoignudo dell'alpe tua fosca,gli han franto i piedi e i ginocchia colpi di calcio, trafittocon la baionetta il costato,rempiuto non d'acida poscala sacra bocca ma di bilerappresa e di sangue accagliato.

II.

Il boia d'Asburgo, l'anticouccisor d'infermi e d'inermi,il mutilator di fanciullie di femmine, l'impudicovecchiardo cui pascono i vermigià entro le nari e già coladal ciglio e dal mento la marciaanima in cispa ed in bava,il traballante fuggiasco

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che s'ebbe nel dosso il tuo ferroa Pròstruga, a Vàlievo, a Guco,e l'acqua ingozzò della Drinafangosa cercando il suo guadoe forte spingò nella Sava,mentre l'ardir dell'aiducoVèlico rideva nell'asprovento come contro al visirein Negòtino e le tue squillesquillavano a Cristo e il tuo montedi Bànovo Berdo tonavasopra la tua bianca Belgrado;

III.

O Serbia, lo squallido boiaper far di vergogna vendettae per boccheggiare nel sangueprima che la lingua s'annodi,per comunicare nel sangueprima che la lingua s'annodi,per anco leccar salso sangueprima dell'eterno digiuno,per compiere senza rimorsola lunga sua vita terrena,imperator di pie frodie re di fedele catena,con alfine un'ultima strettadi laccio, con una suprema

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strangolazione, al soccorsochiama i manigoldi bracaticontro te, cinquanta contr'unoche in gola ti caccino il cappiocorsoio. «O Serbia di Marco,dove son dunque i tuoi pennatibusdòvani? Non t'ode alcuno?»

IV.

Sì, gente di Marco, fa cuore!Fa cuore di ferro, fa cuored'acciaro alla sorte! Spezzatain due tu sei; sei tagliatapel mezzo, partita in due tronchicruenti, come l'aiducoVèlico su la sua torrepercossa. Di lui ti sovviene?Rotto fu pel mezzo del ventre,e cadde. Il grande toracedall'anguinaia divisocadde, palpitò nella pozzafumante. Giacquero le cosceerculee del cavalierea tanaglia; giacquero in terra,si votarono. E nel fragoredella gorga grido si ruppe:«Tieni duro!». Fiele dal fessofegato grondò. «Tieni duro,

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Serbo!» Dalle viscere caldetal rugghio scoppiò: «Tieni duro!».

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V.

Tal rugghio la Vila raccolse.Tutte le tue Vile di monte,tutte le tue Vile di riparaccolsero il ferreo comando;e tu 'l riudisti pur ieri.L'ode la terra tegnente:non verdeggerà per tre anni.L'ode su la nuvola il cielo:non stillerà per tre annirugiada. Che monta, o guerrieri?Il capo del Santo di Serbia,il teschio di Lazaro splendenon nella Sìniza solama in ogni fiumana. Ecco, ringhiail grande pezzato cavallodi Marco, e si sveglia l'eroesquassando i capelli suoi neri.Re Stefano vien di Prisrenda;sorge dalla Màriza cupaVucàssino; s'alzano a stormoda Còssovo i nove sparvieri.

VI.

E grida la candida Viladal crine del Rùdnico monte,

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sopra la Iacèniza lene;grida e chiama in Tòpola Giorgioche ristà poggiato all'aratro.«Or dove sei, Pètrovic Giorgio?Qual fumido vino ti tiene?Qual t'occupa sogno? Non m'odi?Dove sei, buio bifolco?Dove sono i tuoi voivodi?Dov'è il voivoda Milosio?Giàcopo e il calogero Luca?e Zìngiaco? e Chiurchia? e Milencodella Morava? A simposioseggono? Ucciso hanno il giovencoe trinciano, e cantano lodi?Beono alla gloria di Cristoche li aiuti? beono in giro?E sul buccellato di farroscritto è tuttavia: Cristo vince.Ma non v'è quartiere pei prodi.

VII.

Bulica il sangue dei prodial cavallo insino alla staffa,insino alla staffa e allo sprone.Diguazza il fante nel sangueinsino all'inguine e all'anca;v'affoga, se v'entra carpone.Le donne rivoltano i morti

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pel bulicame, né sannofiglio ravvisare o germano.Son tutti un rossore, una piagatutti, come al campo del contei maschi di Giugo Bogdano.Più corpi enfii che scerpateradiche porta il Danubioné sa a qual riva deporre;rigurgita il Vàrdari ai groppi;la Sava è una vena svenatache gorgoglia giù per le forre;è schiuma del Tìmaco a seracanizie che galla; e la Drinaveloce è un carnaio che corre.

VIII.

Su, Giorgio di Pietro, bovarodi Tòpola, su, guardianodi porci, riscuotiti e chiama!Prenditi al tuo fianco i tuoi fidi;Ianco il savio e Vasso il furente.Prenditi con teco gli aiduchiche danzano sopra le vettedegli aceri. Vèlico, or ecco,all'anguinaia il toracerappicca come prima era,e dentrovi il fegato ardente.Su, su, porcaro di Dio!

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Il turbo di Mìsara, or ecco,pei gioghi della Sumàdiaraggira l'antica vittoria,sparpaglia la nova semente.Altre mandrie tu cacceraidinanzi a te, altri branchipiù irti, altro bestiamepiù tetro, altro sagginatocoiame, altra sordida gente.

IX.

Sovvienti? Diceano i padriun tempo, sedendo a convito:"Ve' porco di Bulgaro neroche tutt'oggi dietro ci tennepel tozzo e 'l bicchiere di vinoe per un lacchezzo d'agnello!".Non per tozzo il Bulgaro neroe né per gocciol di vinoe né per minuzzo di carne,ma per tutto prendere alfine,per tutto a te prendere alfine,per tutto a te togliere alfine,la terra il nome il soffio il biancodegli occhi lo stampo dell'uomo,per questo il Bulgaro nerodietro ti venne, alle spalleti dà, alle reni t'agghiada.

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Tre n'hai, e col Bulgaro nero:fanno tre viltà una forza.Ma guarditi il fegato seccoDio, o macellatore di porci.

X.

Pigliaron Semendria la regia,pigliarono, ed anche la biancacittà, Belgrado la regia,in una geenna di fiamme:dal Lìparo al Vràciaro grande,fornace fu ogni collina.Pigliarono Lùciza, ed ancheSclèvene pigliarono, e l'unae l'altra colmaron di mosto,di lúgubre mosto, due tina.Iplana rempieron di veglisenz'occhi, di femmine senzamammelle, di monchi fanciullicarponi a leccar la farina.E di Sòpota la meschinaei fecero lor beccheriatrinciandovi la battezzatacarne (o Battista!), e l'altarelor tavola fu sanguinente:strapparono al prete la linguacon sópravi l'ostia vivente.

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XI.

Ma ben di Verciòrova scorseil Rùmio dagli occhi di druda,dal viso di cera dipinto,gallare nel freddo Danubioi Lurchi enfii, rivoltolarsia mille pel grigio Danubiofra Rame Dubràviza i morti,fra Sip e Tèchia gli uccisisotto la montagna di Tèchiacrosciante qual torcia di ragia,a grappoli i corpi dei Lurchi.Non Lipa è villata che mangi:è mucchio che pute. Non colleche frutti è Trivùnovo: è mucchioche vèrmina. Vrànovo è mensadi corbi e Vuiàn d'avvoltoi.O razza di Cràlievic Marco,l'usura tu fai con la strage!Sotto Orsova, dove il mal fiumes'insacca, ora Bulgari e Lurchisi giungono, stèrcora e fecce.

XII.

Sì, presero i valichi e i passi,li presero; e noi i nostri guati

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tegnamo. Sì, Uzice e Ràlia,presero, e Strùmiza e Vrània,e Cràlievo presero, e Lacle,villate e città, mura e ripe;ma dove più ossa che selci,più teschi che ciottoli dovelasciarono? Presero e Nissal'antica, vestita a gramaglia,oité, santa Serbia, di neridrappi vestita le casedolenti ove suda il contagioe l'odore vieta la porta.Presero e Scòplia l'antica(oité, santa Serbia, fa pianto),la casa che in prima all'Iddiotuo edificasti con pietre,e quivi la rocca, la guardiadell'imperatore Dusciano.O Serbia, in ginocchio fa pianto.

XIII.

Poi rìzzati e balza e riprendila chiesa e la rocca, l'altaree il mastio, l'impero e la sorte.Il verde Vàrdari tingicome la Nìssava a Vlasca,colora il Vàrdari comelo stagno di Vlàsina fatto

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già bulgaro brago di morte.Ma il Tìmaco, o gente di Giorgioche scannò il suo padre con sacramano perché servo non fosse,il Tìmaco tingi in eterno,in eternità dell'infamia,dalla sorgente alla focee insino alla melma profonda,per le tue donne calcatedallo stupro contro la sponda,pei pargoli tuoi palleggiatie scagliati come da fionda,per chi teda fu, per chi arsofu fiaccola furibonda.

XIV.

Tronco s'ebbe Lazaro il caponel piano di Còssovo, e persofu il regno, fu spenta la gloria.Da Scòplia il Bulgaro neroal piano di Còssovo sfangafiutando l'ontosa vittoria.Tieni duro, Serbo! Odi il rugghiodi Vèlico che si rappiccae possa rifà. Tieni duro!Se pane non hai, odio mangia;se vino non hai, odio bevi;se odio sol hai, va sicuro.

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Non erbe coglie nel montela Vila, non radiche pesta,per le piaghe a te medicare.Non a ferita combatti,a morte sì, per l'altarecombatti e pel focolare.Se caschi in ginocchio, ti levi;se piombi riverso, e ti levi;se prono, e ti levi a lottare.»

XV.

Così parla al sangue la Viladal crine del monte, la Vilacosì stride e chiama a battaglia.O Serbia, fa cuore! T'è l'odioosso del dosso, armamentot'è l'odio e t'è vittuaglia.A Còciana ancor si combattee si combatte a Piròte;a Tètovo è lungo macello,e a Babuna tra le due vette.A Ràzana i tuoi cavalieri,al passo d'Isvòre i tuoi fanti,a Glava le donne tue scarnecon le coltella e le accette.Le madri combattono in frottacol pargolo al seno e lo schioppoalla gota, o dritte su i carri

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tirati dai bufali torvile gravide, o in sella con duepistole come la grandeLjùbiza, ghiottume di corvi.

XVI.

Qual è questo riso che scoppiacome manrovescio potente?È il riso di Vèlico aiducodalla dentatura d'alano.Che vede egli? un Bulgaro neroperdere i suoi trenta dinari?un Lurco basire, calandole brache e levando la mano?il pennacchin tirolesedel boia longevo che crocchiae affoga nel flusso senile?o il tronfio Amuratte alemanno,soldano d'eunuchi cinghiati,trar la scimitarra scurrile?Che vede di turpe e di vilelo schernitore, che vede?Ve' ve' bagascion di corona,ve' bardassa in Cesare vòlto,di unguenti asiatici liscioche piglia da Cesare Giulioil letto di re Nicomede!

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XVII.

Tastalo con le tue duremani, questo sacco di doloe di adipe, o Vèlico, questosacco di lardo e di fardo.Cesare dei Bulgari neri,come Simeone, è costui,come Caloiàn di Preslavia,è questo Coburgo bastardo?Tu che metter suoli la lamatra i denti, aiduco, se vuoiaver la pistola nel pugno,tu tagliami questo codardocon la squarcina del fiso,tagliuzzalo come lombata,condiscilo poi con zibetto,con cinnamo e con spicanardo.Lo manderai così concioalle meretrici di Scòplia.E che il tuo scherno s'appigli,che il tuo riso crepiti e scrosciai tuoi come un fuoco gagliardo!

XVIII.

O Serbia, che avesti reginadi grazia Anna Dandolo e desti

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del ceppo regale di Orosiaa un Buondelmonte la sposa,odi: la Vittoria è latina,ed ella è promessa al domani.è una pura vergine bianca(non è la tua Vila a lei pari)più lieve della tua Vilaselvaggia che col piè nudo,in vista dell'oste schierata,danzò su le lance dei bani.Diceano intanto gli araldiin Prìlipa a Marco: «O signore,contendono i re, dell'impero.A chi sia l'impero e' non sanno.Ti chiaman di Còssovo al pianoche tu dica a chi sia l'impero».Un grida: «Al Latino è l'impero.Per forza a lui viene l'impero.Roma a lui commise l'impero».

XIX.

Lode all'uno, grazie al verace!In Còssovo teco i Latinicombatteranno domanisotto il gonfalone crociato,mentre il Lurco «A me è l'impero»grugna «ché la forza s'alterna».Sarà coi Latini domani

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la grande lor vergine bianca.Già misto il lor sangue col tuoebbero a Valàndovo, sacreprimizie. Ora Vèlese è rossadi quelle, e vermiglia è la Cerna.Tra le corna sta di Babunala pertinacia non rottae in Prilipa avvampa la fede.O Rumio dagli occhi di druda,a che musi verso la steppa,bilenco tra rischio e mercede?E tu, vil Grecastro inlurchitoche palpi le sucide dramme,non odi il cannone di Dede?

XX.

O falso Dace, che vantila gloria del nome latinoe non pur sei degno del nomebarbarico ch'era tremendoné mondo pur sei della lebbrad'Asia che tuttora ti squamma,or quando entrerai nella lite?Quando la Colonna traiana,di pietra fattasi fiamma,t'andrà camminando dinanzicome la Colonna divinain Etam dinanzi ai figliuoli

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d'Israele verso il desertolenito e per l'acque spartite?Ma tu, o Greculo, merca.Da tempo son morti i tuoi clefti.Si leva di giù Bucovallae sputa su te dal carnaio.Venditi. Non già ti compriamo,non per una sucida dramma.Ma ti pagheremo d'acciaio.

XXI.

È tempo, è tempo. La notteprecipita. Sta sopra tuttila legge di ferro e di fuoco;e questo è il supremo cimento.Prudenza è vergogna, disfattail dubbio, delitto il riposo,viltà ogni vana parola,e l'indugio è già perdimento.Popolo d'Italia, sii schieraappuntata a guisa di conio,schiera di tre canti romana,che cozza scinde e s'incugna.Popolo d'Italia, sii chiusafalange, con fronte ristretta,fasciata d'ardore, scagliatacome un sol vivo alla pugna.Popolo d'Italia, sii come

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la forza dell'aquila regiache batte con l'ala, col rostrodilania, ghermisce con l'ugna.

E v'è uno Iddio: l'Iddio nostro.

16 novembre 1915.

Preghiere dell'Avvento

I.PER I MORTI DEL MARE

Mare di Dio, che sceveri le sortidei combattenti nella sacra guerra,io ti prego: non rendere i tuoi morti,Mare, alla terra;

non rendere i cadaveri che il salemacera, né l'ossame che tra fluttoe flutto imbianca, al lido, o Sepolcrale,e al nostro lutto;

ma sì, nel gorgo acerbo come il piantofùnebre, tieni le profonde someperché noi più t'amiamo e a noi più santoduri il tuo nome;

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ma sì tieni le spoglie nell'intortoabisso pari al nostro amor rapace,perché non sia rifugio in te né portoin te né pace

in te né tregua né salute a noialcuna se la servitù non cessie in te Roma non chiami i glauchi eroial Resurressi.

Miseri eroi, non caddero sul pontedella nave, gioiosi di battaglia,in un sangue perenne come fonteche non s'accaglia;

non udirono, sotto la buferadel fuoco, nel rossore che non stagna,stridere contro l'asta la bandieraquasi grifagna,

non lassù, dalla ferrea rembatache folgora, la scorsero con gli arsicigli come Vittoria catenatalassù squassarsi;

né s'accosciaron presso i tubi, quandonel capo chiuso dentro la sonoracuffia d'un tratto rombano comandoe morte, a prora;

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né, travaglio dell'orrido beccaioche pesta e insacca, furon carne tritada rempiere la gola del mortaioammutolita;

né, dato in brocca il fulmine copertocontro il nemico enorme, solitariavider l'elice folle in cima all'ertoscafo nell'aria

e irsuta l'onda, delle mille bracciainvan tese da un sol terrore urlante,prima d'inabissarsi senza tracciapresso il gigante.

Ma l'insidia li colse, ma l'agguatoli pigliò, nell'immensa albàsia eguale:ruppe il fianco, la piaga nel costatoaprì, mortale;

di sùbito colcò pel sonno eternola bella nave, dandole carenacome a racconcio, sotto il lungo schernodella sirena;

e l'acciaio temprato a gran martellofu cosa ignuda come vil tritume,sopra l'acque di Dio men che fuscello,men che le spume.

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Or repente un miracolo divinopercote l'acque. Il sol rompe la nube?fa d'ogni flutto un branco leoninodi rosse giube?

Chi squarcia la foschìa dell'imminentemorte? Si leva un giorno di beataporpora? Esulta tutto l'oriente,e un'ora è nata?

Né fulvo branco di leoni balza,né s'inarca fulgore di sovranaporpora. Sola su la morte s'alzal'anima umana.

Sola alla morte l'anima sovrastacongiunta ancóra al carcere dell'ossacome fuoco si radica in catastaa prender possa.

Uomini vivi, saldi sul tallone,non in coperta ma lungh'esso il bordodileguante con l'ultimo cannonenel succhio sordo,

diritti come se facesser alaad ammiraglio in nave pavesata,diritti come sotto la gran galaschiera ordinata,

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gittano al cielo un grido così forteche ferisce le cime dell'ardore,e sforzano a sorridere la Morteche mai non muore.

O Vittoria, alta vergine severa,or quando vinci se non vinci in questafine? Dove più sfolgori, o guerriera?in quale gesta?

E qual madre, qual dolce madre o suora,che tu le renda le profonde salmeosa pregarti, o Mare dell'aurora,giunte le palme?

Chi lungo i lidi tuoi, Mare dei prodi,erra con entro il cor l'esangue vólto,sperando che nel cor l'ombra gli approdidell'insepolto?

Mare di Dio, le vittime che celitu non rendi, né odi le quereledei sùpplici; ma duri ai tuoi fedelitomba fedele,

ma conservi le spoglie nell'intortoabisso pari al nostro amor rapace,perché non sia rifugio in te né portoin te né pace

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in te né tregua né salute a noialcuna se la servitù non cessie in te Roma non chiami i glauchi eroial Resurressi.

11 decembre 1915.

II.PER LA GLORIA

Dio d'Italia, cui Dante il duro visoincotto dalla vampa dell'Infernotende e, non vinto dal fulgore eterno,guata con occhi di rapina fiso;

Dio d'Italia, che gli uomini di partecementarono vivo in pietre conce,il sangue cittadin con le bigoncemischiando nella calce a far lor arte;

Dio d'Italia, bellezza che il titanoMichelangelo in cupola ed in voltagirò, tagliò nel sasso, amò raccoltanell'ossatura del dolore umano;

Dio di gloria, tu fa questo giudiciodella gloria, tu giudica di noiper la palma, considera gli eroi,guarda alla fede e pesa il sacrificio.

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Dicean eglino: «Dove sono i vostrimorti? Quante migliaia di migliaiafalciò ne' vostri solchi l'operaiaassidua? Dove l'ugne e dove i rostri?

Dove i combattimenti disperatia corpo a corpo, lama contro lama?Chi vi devasta i campi? chi v'affama?chi vi rempie le vie di mutilati?

Avete appreso a vivere sotterra,fitti nel fango sino alla cintura?Dentro il fetore della sepolturaavete appreso a prolungar la guerra?

Avete appreso a mordere la mota?avete appreso a mordere la neve?e quando non si mangia né si beve?quando il calcio s'incrosta nella gota?

e quando non si veglia né si dorme?quando mastichi il sangue del compagnoe non sai, o t'impigli nell'entragnocaldo, o ti volti su qualcosa informe?

Avete appreso a riconoscer l'ombredella follia, che genera il fragore,quando si cala, giù per le gran moredei morti occhiuti, alle trincere sgombre?

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Avete appreso, posti in una crocedi fuoco, a mascherarvi come i mimi?a brancolar, nelle agonie sublimi,ciechi d'un pianto stupido ed atroce?

Avete appreso che la guerra è bassabisogna, frode lùgubre, immondiziadolosa? e ch'è sigillo di giustizialo stival lordo quando schiaccia e passa?

Dove sono le donne con nel senodue rosse piaghe, Amàzoni dell'onta?dove i validi figli con l'improntadi poltronìa, col pollice di meno?

Quante delle città vostre ridentison arse e diroccate? quanti altaridisfatti? quanti senza focolaripopoli in lacrime e in stridor di denti?

Contiamo. Avete appreso ben quest'arte?Quegli che più patisce e che più duradiritto avrà di primogeniturasul gran retaggio, avrà la miglior parte».

E si divincolavano ruggendosotto le suola del nemico. I lorocampi erano pantani roggi. L'orocolava come il sangue, ed era orrendo.

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Le donne non avevano più manida giugnere, ma moncherini oranti.Le cattedrali non avean più santiche pregassero in sommo agli archi vani.

Il fanciullo copriva il limitare,supino. La canizie pia del vecchioera dispersa là come pennecchioarido non finito di filare.

Tutte le dolci cose erano spentesenza pietà. Tutte le cose sacrenon erano più sacre. Il fumo acredel sangue soffocava il Dio vivente.

Rase città lungo putride gore,borghi in cenere sopra nere pozzeguardava solo, irto di membra mozzee d'occhi fissi, il dementato Orrore.

L'Italia era in disparte. Taciturnavolgeva la sua faccia verso il maresùpero. Udiva il rombo aquilonarepercuotere la grande Alpe notturna.

L'ombra mordeva il suo bel capo strettofra i rostri della sua naval corona.Come chi forte nel pensier tenzona,ella anelava dal quadrato petto.

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Di sé nutriva il suo divino male.Come l'eroe delle speranze inulto,parea patire un avvoltoio occultoche le rodesse il fegato immortale.

Basso intorno al suo cruccio solitarioera il susurro d'un mercato immondo.Non vedea, non udia, nel suo profondotravaglio, ella. Guatava l'avversario.

E diceano i suoi blandi parasiti,diceano i delicati proci: «O fioredella terra, o benigna Italia, amoredegli uomini, ubertà degli iddii miti,

o nostra grazia, o nostro eterno aroma,o nomata qual miele nella bocca,o più dolce dell'aria che ti tocca,o più bella del nome che ti noma,

qual è mai questo cupo fuoco ond'ardinegli occhi tuoi d'aquila giovinetta?Ti proteggan gli iddii, o predilettadegli iddii tutti! L'Iddio tuo ti guardi!

Cesare è cenere, e smarrito è il dado.Or sei tu osa ritentar le sorti?Né dietro a te fremono le coorticome al grifagno sul fatale guado.

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Duro nemico: in vento di Croaziaè polvere di guasto, afa d'incendio.Ogni bellezza ei tiene in vilipendio.Mal ti difenderebbe la tua grazia.

O nostra grazia, o balsamo giocondoper ogni cura, unguento dell'esiglio,tra tutte le contrade quale il giglioè tra le spine, voluttà del mondo,

o di noi vecchi bruna Sunamita,tu sei pur sempre tutta quanta bella,Italia! Ogni tua pietra t'ingioiella,ogni tua gleba è un ùbero di vita.

Ti spiamo di sopra alle rovine,o di noi vecchi bianca Bersabea.Chi s'ardirà con l'ispida trinceaturbar l'azzurro delle tue colline?

Sèrbati a noi, sèrbati a noi perfettape' lunghi ozii che a noi farà la pacecandida. Non ti giova il dado audacetrarre. Ma dormi su' tuoi lauri e aspetta».

Ella balzò con fremito selvaggiosquassando la corona e la criniera,ebra di forza, ebra di primavera,ebra di morte, ebra di te, o Maggio.

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O maschio Maggio, turbine solare,inno vasto di giubilo, o torrentidi giovinezza, o sùbiti torrentidi sangue, verso l'Alpe e verso il mare!

Diceva il Patto: «Dove sono i tuoimorti?». Dal Chiese gelido all'Isonzoprecipitoso, nel romano bronzoella eternava il gaudio degli eroi.

Eccoli, Dio d'Italia, i nostri morti.Li raccogliamo su le grandi cime,dove l'anima e l'aere sublimesono la solitudine dei forti.

Dio di gloria, tu fa questo giudiciodella gloria, tu giudica di noiper la palma, considera gli eroi,guarda alla fede e pesa il sacrificio.

Di poi verranno i savii partitorie distribuitori della terra;sicché ciascuno, giusta la sua guerra,godrà la parte e succerà gli onori.

Ma tu fa, Dio d'Italia, che al tuo cennogittiam nelle bilance lor cortesiun ferro ancor temibile, che pesipiù della spada barbara di Brenno.

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12 decembre 1915.

III.PER IL RE

Salva il Re che, dimesso l'ermellinoe la porpora, come il fantaccinorenduto in panni bigi,sfanga nel fosso o va calzato d'uosacercando nella cruda alpe nevosa,Dio vero, i tuoi prodigi.

Salva il Re che partisce il pane scurocol combattente e non isdegna il duromacigno alla sua sostané pe' suoi brevi sonni strame o pagliasospesi ai rossi orli della battagliache sotterra è nascosta.

Proteggi il Re del sollecito amore,che in casta forza il tremante dolorecangia con l'occhio fermo,il Re che in fronte ha la ruvida rugae pur sì dolce esser può quando asciugala tempia dell'infermo.

Proteggi il Re della semplice vitachinato verso ogni bella ferita

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che è rosa del suo regno,chinato verso il sorriso dei morti,verso il sorriso immortale dei morti,che è l'alba del suo regno.

19 decembre 1915.

IV.PER LA REGINA

E questa che la Vila con un cantoincoronò del crine di violafolto come la treccia che di schiantolasciò la pia Gevròsima alla travechiamando il fratel Mòncilo fra il pianto,questa guarda, Signore.

Volarono laggiù sul Monte Nerododici aquile bianche con gran strido.Ed una a lei volò sul suo pensiero,e la coprì con velo insanguinato.Il vecchio padre, il candido guerriero,le piange in mezzo al cuore.

S'alzano dal confin serbico in frottei corvi lordi. A valle la Boianaróssica, Scodra fumiga. La notte,ahi, stelle più non ha sul Nero Monte.«Miei falchi, in piè!» Chiama all'estreme lotte

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il veglio, e conta l'ore.

«In piè, falchi miei!» grida il Re canuto.Senza pane, senz'acqua, senza sonnonegli occhi, giorno e notte han combattuto.Sinché nevichi al monte, è grassa guerra.Mangiato han neve e neve hanno bevuto,e munto hanno il dolore.

Prega pel Re la figlia sua Reginache in sogno sta tra due fiumane calde.Or quale d'esse fa più gran rapina,o nell'aspra Cemàgora o nel Carsobrollo? A quest'una la pregante inclinal'ombra del tuo pallore.

Prega per due Re prodi, e figlia e sposa.Veglia e s'affanna per due mute piaghe.Non su l'un fianco né su l'altro posa.Elena, Nostra Donna di due Spade!Ella è per noi due volte gloriosa.Tu guardala, Signore.

19 decembre 1915.

V.PEL GENERALISSIMO

Questi, che vedi curvo su le carte,

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nel più duro granito del Verbanotagliato e scarpellato fu, di manodi maestro; e il vigor soverchiò l'arte.

La sua chiusa virtù, che par novella,nella tenacia dell'antica schiattausa a fare e patire, assuefattaad attendere in fede la sua stella,

si foggiò per i secoli, celatodiamante che incudine non doma.V'incise il segno mistico di Roma,Dio d'Italia, l'acume del tuo fato.

Guarda il suo maschio vólto dove l'ormadel tempo e il solco dello studio scavanella tristezza della carne ignavae trova l'osso che non si difforma.

Conta le sue fatiche a ruga a ruga,novera gli anni suoi, segno per segno:giovine il teschio vige, quasi ordegnodi quella volontà che il cor gli fruga.

Non meno adunco vomere mordeala fronte di quel giusto che l'obbrobriocinse; ma v'era incancellato il sobrioeroe di Maratona e di Platea.

Guarda la sua mascella che tien fermo,

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guarda severità della sua boccaonde il comando ed il castigo scocca,e il lampo a cui la pàlpebra fa schermo

gravata sopra il chiaro occhio che scaglial'anima al segno e il tratto non misura.Sempre in tutt'arme egli è senza armatura.Tutta nel pugno nudo ha la battaglia.

Quel condottiere che dal piedestallola morta riva domina in Vinegiaminacciata dal barbaro e dispregiala minaccia del ciel, solo, a cavallo,

Bartolomeo grifagno come Danteche converso abbia in elmo il suo cappuccioa gote, chiuso in piastra il suo corruccio,preso a trattar cavalleggiere e fante,

tu lo vedi al segnale delle trombesollevare e sferrare i battaglionicome balestra lancia i suoi bolzoni,come mortaio lancia le sue bombe.

Tal questi, senz'arcione ma più grande,senza gesto né grido, solo armatodel suo tacito genio e del suo fato,amplia la forza che quel bronzo spande.

Egli ha mura da prendere, fiumane

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da valicare e gioghi e vette e gole,ghiacciai deserti, valli senza sole,fosche petraie, squallide biancane.

Vigila ai ponti dell'Isonzo; a Plezzotuona; a Tolmino folgora; tien Plavae la vetta, Voraia e il passo; scavala trincea nella neve ed issa il pezzo.

Gorizia in cor gli crolla. Il Carso grondasangue inesausto nel suo petto. Tuttala terra combattuta, arsa e distrutta,dentro gli sorge, dentro gli sprofonda.

La malga e il picco, il botro e la laguna,la roccia e il muro, l'argine e la fossavivono in lui come le vene e l'ossa,come i disegni della sua fortuna.

Egli è la terra ed è l'assalitore.E la forza degli uomini respirain lui, palpita in lui, freme e s'adira,giubila e canta in lui, combatte e muore.

Verso tutte le cime della gloriaegli la incalza. Ecco, subitamenteil suo pensiero si fa carne ardente,grido e strage si fa, morte e vittoria.

Tutte le notti dallo Stelvio al Carso

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la gran barra di fuoco arde e risuona.Egli la sua certezza ne incorona,la sua certezza in te, Dio ricomparso.

O Dio d'Italia, tieni la tua manosu questa fronte che facesti durapiù delle fronti loro. Egli ti giurache tanto sangue non t'è dato invano.

Egli si prostra come il donatoreche giugnea le manopole di magliain atto pio, nel cuor della battagliaavendo colto un portentoso fiore.

La sua casa egli pensa sul suo lagoquieta, dove per la porta adornad'una ghirlanda il terzo dei Cadornarientrerà, sol di silenzii pago,

e innanzi alle due mute Ombre severescioglierà gli alti vóti, i grandi fatiadempirà, l'isole dei beatiquivi splendendo nell'albor leggiere.

O Dio, per questo duce che ci spezzail tuo pane, io ti prego che tu m'oda.Acùmina la sua certezza, e inchiodanei nostri petti, o Dio, la sua certezza.

19 decembre 1915.

932

Il Rinato

Non videro la stella d'orientei magi, non andava innanzi a loroella per scorta su le nevi ardente;

non improvviso udiron elli il corodei Messaggeri in Betleem di Giudaprostrandosi; non mirra incenso ed oro

offersero alla creatura ignudasopra la paglia della mangiatoiacalda di fiati nella notte cruda;

né, curvi in calca sotto la tettoiaradiosa, i pastori di Giudeaintonarono cantico di gioia.

S'ebbe natività nella trinceacava il Figliuol dell'uomo; e solo quivi,messo in fasce da piaghe, si giacea.

Fasciato di tristezza era tra i vivie i morti, solo; e il ferro e il sangue e il lotoerano innanzi a lui doni votivi.

E non piangea, ma intento era ed immoto.

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Laude gli era il rimbombo senza fineper il silenzio delle nevi ignoto;

cantico gli era il croscio delle mineocculto; gli era aròmato il fetoreventato su dalle carneficine.

E sanguinava in fasce; ed il rossoresi dilatava come immenso raggio,sicché tutti i ghiacciai parvero aurore,

tutte le nevi parvero il messaggiodei dì prossimi, l'ombra fu promessadi luce, il buio fu di luce ostaggio.

Ed intendemmo la parola stessadel suo profeta: «Un grido è stato uditoin Rama, un mugolìo di leonessa,

un lamento, un rammarico infinito:Rachele piange i suoi figliuoli, e guatal'ultimo suo non anche seppellito.

Non è voluta esser racconsolatade' suoi figliuoli che non sono più.Una cosa novella, ecco, è creata.

Il Signore ha creata una virtùnella carne. Quel ch'apre la matriceEi farà santo. Ei semina quaggiù

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una semenza d'uomini». Ora diceuna voce: «Io farò rigermogliarein carne i tuoi germogli, o genitrice.

Ritieni gli occhi tuoi di lacrimare,ritieni la tua gola dal lamento;perché come la rena del tuo mare

t'accrescerò, come la rena al ventoti spanderò. Eccoti i tuoi figliuolimoltiplicati dal combattimento.

Senza sudarii tu, senza lenzuoli,li seppellisci ed io li dissotterro.Rifioriranno ai tuoi novelli soli,

alla nova stagione ch'io disserro».E quivi il Figliuol d'uomo era, il Rinato;e quivi erano il loto e il sangue e il ferro.

E con fasce da piaghe era fasciato;e sanguinava senza croce, comeper il colpo di lancia nel costato.

Ma «Colui ch'è il più forte» era il suo nome.

1 gennaio 1916.

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Per i combattenti

I.

Signor di sangue, Dio dei combattenti,non a te supplichiamo con la facciaalzata, non leviamo noi le bracciaverso te, non gli altari tuoi cruenti

serviamo con le man protese o giuntené ti cerchiamo noi con la preghieranostra nei luoghi altissimi, di sferain sfera, tra le tue falangi assunte;

ma ci prostriamo con la fronte bassa,ma contro il suolo noi poniam la frontenuda, poniamo il viso nelle impronteumili, il fiato dove il piede passa,

c'inginocchiamo, o Dio della battaglia.dove la Patria è nostra, nella mota,nell'erba, nella strada che la ruotasolca, nel campo che l'aratro taglia,

dove la zolla è come nostra polpa,dove il fiore è un pensiero di mill'anniintimo e fresco in noi come gli affannisegreti dell'infanzia senza colpa,

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dove la foglia è un cuore che si frange,dove il sasso è la vertebra scolpitad'una potenza che in un'altra vitafu nostra, dove tutto parla e piange,

dove tutto per noi ricorda e spera,dove a noi l'acqua è lacrime e rugiade,dov'è l'autunno tutto quel che cadedi noi tristi, dov'è la primavera

tutto quel che di noi si rinnovellae gemma e fa di noi virgulto e ramo;quivi, Signore Iddio, c'inginocchiamoquivi chiniam la fronte, ch'è più bella;

perché, Nostro Signore, non nei cielisei ma sotterra sei, ma sei profondonel nero suolo, occulto sei nel mondodi giù, Dio che col fuoco ti riveli;

e non hai cura delle tue feliciselve, non nutri il seme, non concedial germe il fimo fendere, ma i piedidei combattenti sono le radici

della tua primavera annunziatadall'Arcangelo, i piedi dolorosidei combattenti, i piedi sanguinosidei figli nella terra insanguinata,

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Signor di sangue, e tutto il lor doloree nella terra una feconditàper sempre, nella terra una bontàper sempre, un spino, un eternale ardore.

II.

Udimmo i loro gridi nella notte,udimmo i loro canti nel mattinopieni del grande zefiro latinocome vele tesate dalle scotte.

Ascoltammo nell'alba dell'insonneurbe, nell'ora della tua rugiada,crescere l'inno e rimbombar la stradasotto lo scalpitìio delle colonne.

Il cuore delle madri coraggioserosso balzava innanzi al lor coraggio,ed era un sole più che il sol di maggiofervido; e il nido al chiaro inno rispose.

S'oscuraron nell'ombra tutti i marmi,risplendettero tutte le fucine.Le città ridivennero eroinefumide, ansarono: Armi! Armi! Armi!

Le città ebber l'anima d'acciaiosfavillanti d'acerrimo travaglio.

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Taluna fu dismisurato maglio;taluna, innumerevole telaio.

Ed eglino passavano cantandoper le diritte vie, verso le porte:prima la Gloria ed ultima la Morte,duce e seguace. Ed era il primo bando.

Erano i primigeniti del sole,erano le primizie, eran le offertevirginee, le vittime più certe,Signor di sangue, la più maschia prole.

Erano l'ostie ai sacrifici tuoisu gli altari terribili dei monti,grandeggiando da tutti gli orizzontila madre delle messi e degli eroi;

ché, ubertà di Dio, lungo le stradedegli eserciti già spigava il granoalto e vedeasi contra il flutto umanoripalpitare l'onda delle biade,

e la madre era bella come i figli,era la prole come le collinee le ripe, era bella come il crinedell'alpe, come il grano e come i gigli.

Ed era il sogno simile alla vitacom'è simile al mosto il sangue ardente,

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quando il genio di tutta la tua genteraggiò dalla primissima ferita.

Il valor rise come il fiore sboccia.Ala, una città presa per amore!E l'eroe d'Ala avea nome Cantore!E il suo canto è scolpito nella roccia.

III.

Ma dall'immondo Barbaro la vivaguerra sepolta fu come carognatruce, posta a marcire nella fognabuia, stivata nell'orrenda stiva,

soffocata nel tossico fumantee rituffata nella lorda pozzacome quell'ira che del fango ingozzanello Stige implacabile di Dante.

E i figli dell'ulivo e della spica,i chiari primigeniti del sole,scesero giù nelle maligne golea consumar la lùgubre fatica.

Quegli che avea sospeso le ghirlandedei pampini all'amico olmo soavi,assi aguzzò, ficcò pali, ugnò travi,costrusse il suo sepolcro ognor più grande.

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Quegli che a' poggi avea falciato il caldofieno e negli orti munto l'alveare,sacchi empié, more alzò, cementò ghiare,costrusse il suo sepolcro ognor più saldo.

E la divinità era presente.Ogni moggio di fresca terra offertoera al genio di Roma, al giorno certo.E seco ebbe i penati il combattente.

Il ciel del Palatino ebber gli eroisu l'ira, il tempio aereo che il vatesegnava con la verga adunca (alatearmi parvero stormi d'avvoltoi),

quando giù nelle fosse un furibondogrido fendé le tuniche di lotointorno ai petti; e l'impeto devotobalzò, irto di cuori, dal profondo.

Impeto, primogenito del fuoco,spirito dell'incendio e della piena,più celere del grido che ti sfrenasubitamente al dubitoso giuoco;

Impeto, condottiere dell'assaltodisperato, che cozzi con la frontee tanto hai più di lena quanto il monteè più nudo, più ripido e più alto;

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Impeto, ghermitor della fortunaimprovviso, che sì l'insegui e serticon la punta alle reni e sì l'afferria' capegli e non hai pietà veruna,

demone della nostra lotta, gloriaa te che su la guerra seppellitasol per noi rilampeggi e con l'ignitabocca avvampi le penne alla Vittoria!

21 gennaio 1916.

Per i cittadini

I.

Quando la notte cadesu la città che strascica l'arsuradella faticapei labirinti delle sue contrade,e nella casa amicaè la lampada accesa da man pura,e tra le quattro murail silenzio si fa ne' cuori attenti,e l'imagine cara della Patriaviene e trema nel cerchio del chiarore,e tu senti sgorgare il sangue suo

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presso e lontanoed una santità gli occhi ti velache non è pianto ed è più che dolore,e nell'anima tua stilla quel sangue,gronda quel sangue sopra la tua mano:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

II.

Quando si leva l'alba dei guerrierisu la città di cenere ove il passodei primi artieriè come d'avanguardia scalpitare,e tu ansi nel maredei sogni con un'ansia in cuor confusa,e all'anima socchiusaecco t'apparepiù vicina dei sognila trincea tetra, la penosa bolgia,tra maceria e steccaiail fango imputriditole piaghe non fasciatei morti non sepoltigli smorti vóltidei vivi senza sonnofitti nel limo sino all'anguinaia,e il cuor ti morde l'onta,e balzi in piedi, e l'anima t'è pronta

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ad ogni eventoad ogni provaad ogni dono,e tutto armato di dolor t'avanzied imprendi, nel giorno che t'è innanzi,il taciturno tuo combattimento:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

III.

Quando la donna veglia senza velo,bontà senza figura,le piaghe in carne viva,ardendo come lampada votivasotto la bianca volta;quand'ella ascoltal'agonia che sorridefavellando a un'imagine futuraimmortalmente;quando al ferro che incide e che recideella in silenzio il dolce pazienteporge con cuor che trema e man sicura,senza battere gli occhi;quando i ginocchiella piega e le tempiealate abbassa,sostenenendo il bacinoche del sangue fraterno

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e del muto supplizio si riempie,ma nell'ombra del suo carnal palloreil confino dell'anima trapassaper amor dell'amore sempiterno:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

IV.

Quando ella filala bianca lana e col fil bigio agucchia,e non canta ma pensaal combattente che nell'alpe immensaè bianco su la neve ch'egli ammucchiadinanzi alla sua fossa,o prega per colui che nella tanacupa ha il colore della terra smossa,il color che le scorre tra le ditaleni di maglia in maglia;e nel rombo del cuoreascolta ella il fragor della battagliacieca e lontana,su la malga lontanavede ella d'improvviso la feritaschiudersi nella neve che s'arrossao mescolarsi al fango scalpitatoche la corrompe,e il filo bianco torce col suo cuorepalpitante ella e il bigio

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conduce col suo cuore vigilanteella, e un prodigiodi carità trasfondenella lana il calor del focolare,nella lana la tempra dell'usbergo:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

V.

Quando colui che perse il figliuol primobevuto sino all'ultima sua stilladal sitibondo Carsoche mai non si disseta,e il suo secondo ne' ghiacciai scomparsodi là da quella mètache si trapassa per non ritornare,e il terzo sul calcàrecandido come ossameal gelo della luna,riverso, incoronato con le spinedi ferro ch'ei tagliò tra legno e legnoconfitti come croce al sacrificiodell'eroe sovrumano;quando colui non piange né dà segnodi lacrime ma pone la sua manosu la spalla dell'ultimo suo nato,su l'omero del fresco adolescentefulgido di bellissimo dolore,

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che ricevuto ha in sé la grazia e il sanguedei suoi fratelli e il fiatocome se dentro il calice d'un fioresi celebrasse nova eucaristia;quando colui non piange ma per viacon la man dolcementesospinge il giovinetto e l'accompagnae l'offre e lo sacrifica e lo donae dice all'Indicibile «Perdonase più non ho che questo,ma questo prendi e me con lui se valgo»:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

VI.

Quando il ricco ha rossoredegli agi suoi, e non s'indugia a mensané poltrisce, se pensache alcun del sangue suoha per tovaglia il sacco o la fascina,ha per coltre la melma febbricosanella fossa che pute;né si riscalda al ceppo sfavillanteche croscia su gli alari,perché sogna le bianchesentinelle perdutenei deserti di neve, nella cerchiadei picchi invitti come il diamante,

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ai limitari della bàite irsuteche la sizza scoperchia,al sommo della rupeonde non più discende chi vi sale;ma rinunzia egli i beni ed è l'egualedel povero che offretutto che strappa alla fatica durae il ben senza figurariceve in abondanzaper solo amore dell'amor che soffre:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato.

VII.

Quando la vecchia inferma e triste e sola,che logora con gli ossi delle ditale lente avemarie senza parolatra morte e vitanella sua stanza freddacome la soglia del sepolcro, pensache le rimaneun'ultima reliquiad'oro consunto,forse nel mondo l'ultimo suo pane,e si leva e s'affanna e la ritrova,ed oblia la dimanepoi che il suo vespro è giunto;ed esce, quasi cieca, per l'incerta

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via seguitando il suon delle campane,la melodia di Cristo antica e nova;ed in silenzio reca quell'offertaall'urna che non parla;e poi torna nell'ombra per morire,e l'angelo è nell'ombra ad aspettarla;ed un alito frescocome canto novelloallevia la parete, che dispare;e nella povertà di san Francesco,nella felicità del Poverello,ella non ha più fame né più sete;e l'angelo sommesso le ripeteil canto del Beato«Ma chi è dato più non si può dare.Vivi morendo in pace»:

quivi è l'Iddio verace,e sia lodato

22 gennaio 1916.

La preghiera di Doberdò

1. San Francesco lacero e logoro piange silenziosa-mente in ginocchio sul gradino spezzato dell'altare maggiore.

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2. Per lo squarcio del tetto il mattino di settembre gli illumina le piante dei piedi piagate; ed è come un lume che raggi dalle sue stìmate di amore.

3. In questo lume soffrono i feriti della notte colcati su la paglia lungo il muro superstite della povera casa di Dio.

4. Non ha più tovaglia la tavola dell'altare, né candel-lieri, né palme, né ciborio, né turribolo, né ampolle, né messale, né leggìo.

5. A mucchio su la tavola dell'altare stanno gli elmetti dei morti, le scarpe terrose dei morti. Per ciò il Po-verello qui piange.

6. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'al-tro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

7. Gli elmetti ch'eran tenuti dalla soga sotto il mento dei morti, e per torli fu fatto un poco di forza alla mascella dura.

8. Le scarpe ch'eran rimaste ai piedi per giorni e per giorni e per giorni in fango in polvere in sasso, e fu-rono rotti i legàccioli per tirarle dai piedi freddi alli-neati su l'orlo della sepoltura.

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9. Le spoglie del capo e dei piedi, serbate pei vivi che nella battaglia morranno, gravano l'altare del sacrifi-cio incruento.

10. Solo v'è con le spoglie il Cristo che porta la croce, la sesta Stazione, un'imagine di purità e di patimento.

11. Il medico, tra fiaschi fasce garza e cotone, curvo su la cimasa della balaustrata di legno malferma scrive le sue tristi tabelle.

12. Da presso, ripiegate, contro il muro cadente, simili a vecchie bandiere chiuse nelle custodie di tela, macu-late di rosso e di bruno, poggiano le bianche barelle.

13. I feriti dell'assalto notturno, discesi dalle trincee sca-vate nelle petraie del colle, simili a un armento su-blime giacciono sopra la paglia.

14. Bocconi giacciono a covare il dolore, o supini a fi-sarlo, o sul fianco e sul gomito, o rattratti, o col braccio dietro il capo, o col capo tra i ginocchi, o con un sorriso d'infante nella bocca assetata, o con nelle occhiaie torbide la vertigine della battaglia.

15. Non si lagnano, non chiamano, non dimandano, non fanno parola. Taciturni, aspettano che di strame in strame li trasmuti la Patria, con le tabelle quadre le-gate al collo da un filo, ov'è scritta la piaga e la sor-te.

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16. Stanno tra paglia e macerie, sotto travi stroncate, lungo un muro fenduto, nella chiesa senza preghiere. E guatano per lo squarcio del tetto se non si curvi sul loro patire l'angelo col dìttamo bianco o col pa-pavero nero la morte.

17. Sanguinano gli adulti, robusti e irsuti, con vólti inta-gliati dall'ascia latina. Domina taluno il dolore, con cipiglio selvaggio, masticando la gialla festuca.

18. Sanguinano i giovinetti: e le stille si rappigliano giù per la lanugine prima. Socchiude taluno le ciglia, e sente la mano materna sotto la nuca.

19. Biondi e foschi, pallidi come l'abete della gabbia che chiude la granata dall'ogiva d'acciaio, fuliggino-si come se escissero fabbri lesi dalla fucina tremen-da.

20. Sembrano corpi formati di terra con in sommo un viso di carne che duole. Ai ginocchi delle brache consunte è rimasto il sigillo rossastro del Carso. Ma una rosa verace fiorisce a fior d'ogni benda.

21. Pochi su poca paglia, tra macerie e rottami, in una miseranda ruina, dove tutte le imagini della Passione furono abbattute o distrutte, tranne una: la sesta.

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22. E, com'essi respirano ed ansano, il luogo si riempie d'una santità vivente come quella che precede il Si-gnore quando si manifesta.

23. Costui dal capo bendato, dalla barba crespa che im-biutano i grumi, con negli occhi di fiera l'ardore in-tento della fede novella, non è simile ai giovani di-scepoli in Cristo, a Filippo di Betsaida, ad Andrea fratel di Simone, quando il Figliuolo dell'uomo non avea pur dove posare la guancia?

24. E questo imberbe dallo sguardo cilestro, dal virgi-neo vólto inclinato, ove un fuoco chiuso traspare pel teschio che solo è coperto di carne quanto basta a si-gnificare il dolore, non somiglia Giovanni il diletto quando si piega verso il costato che sarà trafitto dal colpo di lancia?

25. Pochi su poca paglia, tra un muro fenduto e un muro crollato. E dietro hanno i loro monti, le loro valli, le loro fiumane, le lor dolci contrade, le lor città di gra-zia in ginocchio davanti ai lor duomi costrutti con la pietra natale.

26. E qui sanguina l'Umbria, e sanguina qui Lombardia, e sanguina Venezia la bella, sanguina la Campania felice, sanguina Sicilia l'aurata, e Puglia la piana, e Calabria la cruda, e Sardegna in disparte, e meco la terra mia pretta, e tutta la Patria riscossa con Roma la donna immortale.

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27. Or chi mai su la povera casa di Dio, a raccogliere tanta offerta di porpora, gira su lo squarcio del tetto, con arte titanica, una si vasta cupola in gloria?

28. È l'artefice dei templi novelli, simile a un Buonarro-to ventenne, pari al Genio vittorioso che calca il bar-baro schiavo e guata di là dalla vittoria?

29. Silenzio, umiltà, pazienza. Stagna la vena. La rosa è colma. Taluno s'addorme, col braccio sotto la gota. Lo vegliano i fratelli che non hanno tregua al pena-re.

30. Entra una barella carica d'altre spoglie di morti, cari-ca di scarpe terrose e d'elmetti forati. Si ferma da-vanti all'altare.

31. Gli elmetti ammaccati, scrostati, forati, l'un su l'al-tro, grigi come la cenere, col cuoio dentro macero di sudore, intriso di sangue.

32. Le scarpe lorde di terra rossigna, con qualche scheg-gia di sasso, con qualche fil d'erba calcata, con qual-che foglia di quercia confitta dal chiodo che lustra. Per ciò il Poverello qui piange.

33. Piange inginocchiato su la sua tonaca logora ai gi-nocchi, lacera agli orli che scoprono i piedi suoi

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scalzi. Lacrima, e non s'ode. Tanto ama, e rompersi non s'ode il suo petto.

34. Entra una barella che porta un soldato con la benda su gli occhi, con una gamba prigione tra due assi grezze. Ed è come il mendico di Gerico, Bartimeo. È come l'infermo della piscina, l'uomo di Betesda, sul letto.

35. Forse non sa ch'egli è cieco. E dice anch'egli forse nel cuore: «Figliuolo dell'uomo, abbi misericordia di me». Ed ecco appesa gli è al collo, con un frusto di corda, la tabella ov'è scritto il male e il destino.

36. Ma d'improvviso entra per lo squarcio irto di travi tronche una rondine spersa, l'ultima rondine; e nel silenzio getta un grido, due gridi. Sorvola l'altare. Sorvola le macerie, lo strame, le piaghe, l'ambascia, l'attesa. Getta un grido, due gridi. Dà un guizzo di luce. Ha seco il mattino.

37. E il Santo rapito si volge alla creatura di Dio, con ferme su la faccia le lacrime come la rugiada su la foglia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla messaggera d'una stagione sublime le facce del glo-rioso dolore.

38. E tutti sono fanciulli, tutti nel sangue innocenti. E il cieco si leva sul gomito, con l'anima trapassa le fa-sce, si tende verso l'ala invisibile che muove l'aura

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del miracolo intorn. E ode ridiscendere nella casa di-sfatta il Signore.

Novena di San Francesco d'Assisi. Settembre 1916.

A Luigi Cadorna

Questo che in te si compie anno di sortel'Italia l'alza in cima della spada,trionfal segno; e la sua rossa stradane brilla insino alle fraterne porte.

Tu tendi la potenza della mortecome un arco tra il Vòdice e l'Ermada;torci l'Isonzo indomito, ove guadala tua vittoria, col tuo pugno forte.

Giovine sei, rinato dalla terrasitibonda, balzato su dal duroCarso col fiore dei tuoi fanti imberbi.

Questo che in te si compie anno di guerrascrolli da te, avido del futuro;e al domani terribile ti serbi.

4 settembre 1917.

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La canzone del Quarnaro

Tibi cornua nigrescuntNobis arma dum clarescunt.

Siamo trenta d'una sorte,e trentuno con la morte.

EIA, l'ultima!Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,su tre tavole di ponte:secco fegato, cuor duro,cuoia dure, dura fronte,mani macchine armi pronte,e la morte a paro a paro.

EIA, carne del Carnaro!Alalà!

Con un' ostia tricoloreognun s'è comunicato.Come piaga incrudelitacoce il rosso nel costato,ed il verde disperatorinforzisce il fiele amaro.

EIA, sale del Quarnaro!

957

Alalà!

Tutti tornano, o nessuno.Se non torna uno dei trentatorna quella del trentuno,quella che non ci spaventa,con in pugno la sementada gittar nel solco avaro.

EIA, fondo del Quarnaro!Alalà!

Quella torna, con in pugnoil buon seme della schiatta,la fedel seminatrice,dov'è merce la disfatta,dove un Zanche la barattae la dà per un denaro.

EIA, pianto del Quarnaro!Alalà!

Il profumo dell'Italiaè tra Unie e Promontore.Da Lussin, da Val d'Augustovien l'odor di Roma al cuore.Improvviso nasce un fioresu dal bronzo e dall'acciaro.

EIA, patria del Quarnaro.~

958

Alalà!

Ecco l'isole di sassoche l'ulivo fa d'argento.Ecco l'irte groppe, gli ossidelle schiene, sottovento.Dolce è ogni albero stento,ogni sasso arido è caro.

EIA, patria del Quarnaro!Alalà!

Il lentisco il lauro il mirtofanno incenso alla Levrera.Monta su per i vallonila fumea di primavera,copre tutta la costiera,senza luna e senza faro.

EIA, patria del Quarnaro!Alalà!

Dentro i covi degli Uscocchista la bora e ci dà posa.Abbiam Cherso per mezzana,abbiam Veglia per isposa,e la parentela ossosatutta a nozze di corsaro.

EIA, mirto del Quarnaro!

959

Alalà!

Festa grande. Albona ruggeritta in piè su la collina.Il ruggito della belvascrolla tutta Farasina.Contro sfida leoninaecco ragghio di somaro.

EIA, guardie del Quarnaro!Alalà!

Fiume fa le luminarienuziali. In tutto l'arcodella notte fuochi e stelle.Sul suo scoglio erto è San Marco.E da ostro segna il varcoalla prua che vede chiaro.

EIA, sbarre del Quarnaro!Alalà!

Dove son gli impiccatoridegli eroi? Tra le lenzuola?Dove sono i portualiche millantano da Pola?A covar la gloriolacinquantenne entro il riparo?

EIA, chiocce del Quarnaro!

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Alalà!

Dove sono gli ammiraglid'arzanà? Su la ciambella?Santabarbara è sapone,è capestro ogni cordellanella ex voto navicelladedicata a san Nazaro.

EIA, schiuma del Quamaro!Alalà!

Da Lussin alla Merlera,da Calluda ad Abazia,per il largo e per il lungosiam signori in signoria.Padre Dante, e con la sciafacciam «tutto il loco varo».

EIA, mastro del Quarnaro!Alalà!

Siamo trenta su tre gusci,su tre tavole di ponte:secco fegato, cuor duro,cuoia dure, dura fronte,mani macchine armi pronte,e la morte a paro a paro.

EIA, carne dal Carnaro!

961

Alalà!

11 febbraio 1918.

All'America in armi

While we are marching on!LA CANZONE DI JOHN BROWN

I.

1. Mattino oceanico della Libertà alzata sul fondamen-to di sangue e d'anima dalle spalle dei suoi tredici artieri,

2. giorno della giovine Republica che delle tredici co-lonie fece il fascio consolare di tredici verghe intor-no alla scure dei pionieri,

3. gli Italiani lodano l'Iddio che lor concesse di salutar-ti oggi in piedi sotto il croscio della vittoria romana,

4. essi che oggi ti danno, o Libertà, per tuo diadema il sasso scolpito del Grappa e ti danno il Piave flessibi-le per tua collana.

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5. O Terrestre, lasciato hai il tuo piedestallo solitario e non voli, ma cammini stampando la terra co' tuoi calcagni senza calzati.

6. Guardaci. Siamo il tuo amore. Amiamo il lampo de' tuoi occhi più che il guizzo dei nostri focolari.

7. Guardaci. Riconosci il tuo amore. Abbiamo combat-tuto per te divinamente come la giovinezza del mon-do pugnava a Maratona.

8. Per questo tuo giorno, con la mano della vita e con la mano della morte, liberali entrambe, abbiamo tes-suto la tua corona.

9. La corona di spighe alla Fertile! L'ora del combatti-mento fu l'ora della messe per la Madre degli eroi e delle biade.

10. Per mietere, la sua gente ha impugnato le falci; e per uccidere ha brandito le spade.

11. S'inchinarono le messi e brillarono nel vento come le schiere nella battaglia.

12. Rinasce a noi un pane vittorioso, e ai nostri dolci fe-riti si rinnova il letto di paglia.

13. Abbiamo mietuto e abbiamo combattuto, con la fac-cia sempre volta a oriente.

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14. Riarsi, abbiamo bevuto alla più profonda delle no-stre piaghe come alla sorgente.

15. O Libertà, ma la collina tumida tra Nervesa e Biàde-ne ci nutriva come la tua mammella.

16. Per sette dì e per sette notti i petti eroici ne trassero una forza sempre novella.

17. Per sette mattini gli eroi videro te levarti dall'Adria-tico prima del sole e aprire al giorno la porta.

18. Gridarono: «Benché tu ci uccida, lèvati. Lèvati, e che tutti moriamo per te, non importa».

19. È questo il grido di questo giorno, più alto che i gri-di delle aquile d'Eschilo, più selvaggio che i gridi delle Erine di Dante.

20. È il grido che comanda alla battaglia di riaccendersi e al tempo di sostare e ai morti di risorgere e ai vivi di moltiplicarsi nel sangue.

II.

21. Come i vasti cavalli criniti di spuma nell'oceano che uguagli, come le miriadi dei corsieri spumanti nel-l'Atlantico indomo,

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22. i flutti del tuo vigore, o Republica, accorrono verso le rosse rive dove grandeggia quanto più sanguina la speranza dell'uomo.

23. Gli eroi morienti con occhi pio che umani guardano levarsi la tua luce dove il loro sole si colca.

24. E pensano: «O eternità del mare, non sapesti mai forza più bella di questo spirito che ti solca».

25. Non ti fa bella, o Republica, l'immenso tuo cumulo d'oro, non la copia inesausta che ti versano dal buio i tuoi genii senz'ali,

26. non l'ascia tua celere che ti muta in chiare città le tue selve, non l'impeto delle aeree tue case che ti sono le tue cattedrali,

27. non il numero delle tue macchine schiave che servo-no i tuoi lucri e i tuoi agi, non l'orgoglio che le tue stirpi arroventa e martella,

28. ma una parola che in te parlò una voce republicana, una parola ti fa la più bella.

29. E di sùbito il tuo oro e tutti i tuoi metalli e tutte le tue fucine e tutte le tue genti non sono se non luce operante.

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30. Tutta sei luce. E fin l'oscurità delle tue miniere s'ir-raggia, così che il tuo nero carbone t'è diamante.

31. Teco sono le sorgenti solari, negli occhi tuoi fissi. Dalla fronte al calcagno, tutta quanta sei luce.

32. Sopra l'oceano che è la tua anima vera, l'ora prima, l'ora bianca dell'Alba a noi ti conduce.

33. Innanzi che le mille e mille tue prore fendano il cie-lo e il mare, la tua parola risana il cuore profondo della terra gonfio di doglia.

34. Rescissa dal ferro, incesa dal fuoco, intrisa di san-gue, la divina radice per te rigermoglia.

35. T'avevam conosciuta e disconosciuta, t'avevamo amata e poi rinnegata prima che il gallo cantasse.

36. Troppo aspettammo che i colpi del tuo vecchio tam-buro riscotessero le tarde tue masse.

37. Dato avevi due volte il tuo messaggio col sigillo purpureo, due volte vestita di porpora; e il tuo terzo era atteso dai vivi e dai morti nella notte feroce.

38. Gloria! Agitasti alfine la tua bandiera seminando dalle sue pieghe le stelle; e nella notte sfolgorò la tua voce.

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39. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi sia-mo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.

40. Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.»

III.

41. In marcia! La vecchia canzone di John Brown, radi-cata nella memore gleba, riscoppia come il fiore del-l'agave ardente.

42. Dal fondo degli anni ritorna e si spande il rombo dei bronzi che sonarono il transito del martire nell'Occi-dente.

43. In marcia! la semenza è fervida. Gli uomini nuovi bàlzano in armi dai tuoi solchi fulvi e dalle tue bian-che strade.

44. Recando nel pugno il tuo gruppo di stelle, cacciano in fuga la pace ignobile da tutte le tue contrade.

45. In marcia! Come nella valle dello Shenandoah, c'è il ferro e c'è il fuoco, c'è il sangue e c'è il sudore, c'è il

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fiele e c'è il pianto, l'urlo e il lagno, la sete e la fame, la falange spedita e il branco immondo.

46. In marcia! Come allora, nella selva, nell'alpe, nel piano, sul fiume, sul lago, sul mare, l'uomo inventi la sua vita e la sua morte ogni giorno. Non v'è più sonno. Non v'è più tregua. Non v'è più respiro. In marcia verso la battaglia del mondo!

47. Si sveglia, laggiù, nella dolce valle virginiana ove geme l'uccello notturno, si sveglia Stonewall Jack-son e sente il suo sangue che tuttavia cola, e ordina: «Avanti!».

48. Si poggia sul gomito sano, solleva con l'anima il suo braccio stroncato, lascia pendere i suoi rossi bran-delli, e ordina con la voce d'allora: «Portate innanzi i miei fanti!».

49. Balza di nuovo in sella Philip Sheridan fiutando la disfatta lontana, mette il suo cuore in bocca al suo baio; e galoppa le sue venti miglia.

50. Non ha in bocca né cuore né freno il cavallo. Il cuo-re fu più veloce dei quattro suoi zoccoli. E, quando arriva, la vittoria gli prende la briglia.

51. «Navi! Navi! Navi!» grida David Farragut, l'affon-datore di arieti, l'incendiatore di zattere, lo spezzator

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di catene, a cui furono armi fedeli lo sperone diritto e l'anima ignuda.

52. Qual passo è da forzare? qual porto da violare? qual corazza da fendere? È pallido. Gli ruppe nel sepol-cro i sonni e le glorie l'eroe di Premuda.

53. «Ali! Ali! Ali!» grida non il vittorioso che balza dal-la tomba all'appello, né la giovine cerna anelante, né la folla dal piè di tempesta;

54. ma la stessa vittoria che, come quella d'Atene, non ha negli òmeri penne e non migra, sì arma la sua specie nei cieli a miriadi e con noi resta.

55. Resta con noi sul Piave, resta con noi su la Marna, con noi su i santissimi fiumi, con noi sopra i monti sublimi, con noi dove le è suora corporale la morte.

56. O Liberatrice, il tuono è incessante. Il fragore lacera il cielo come un velario che si ritessa. La nube infa-me acceca e soffoca la battaglia. Il coraggio ansa e soffre. Tutto è martirio celato. Ma la tua statura è più alta, ma la tua voce è più forte.

57. «Vivete, perché la verità è vivente. Morite, perché la morte è immortale. Riordinate la battaglia. Noi sia-mo gli eguali del Tempo. Incomincia la guerra.

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58. Se questa è l'ora del combattimento e della messe, ecco le armi, ecco le falci. Si combatta e si mieta. Si muoia e si raccolga. Non più partiremo col bruto il pane della terra.

59. Siamo in marcia, non truppe noverate e marchiate come le greggi, non eserciti cacciati col pungolo come le mandre. Un popolo armato s'avanza. Consa-cra le sue stelle al Futuro.

60. In marcia! Fino a quando? Fino a che la via d'orien-te, fino a che la via d'occidente non sia libera. Fino a che tra i quattro vènti del mondo la Libertà non sia sola con l'uomo. Fino a che non si compia il cammi-no del tempo, se non bastino al cómpito gli anni. Una fede armata s'avanza. Consacra i suoi segni al Futuro.»

IV luglio 1918.

La preghiera di Sernaglia

I.

1. Chi risponde? La bocca d'un uomo può dunque por-tare una parola che pesa come il sangue di tutti?

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2. Chi risponde? È la voce d'un uomo questa che varca l'oceano inespiato e gonfia i suoi flutti?

3. Chi giudica? Lo spirito solo d'un uomo si fa spada infallibile e taglia il groppo di tutte le sorti?

4. Chi giudica? Chi è che non teme di parlare là dove sol regna il silenzio di Dio e dei morti?

5. Ha egli imposto l'alterno suo polso a quel mare im-placato che non ebbe mai rive a serrar le procelle?

6. Ha egli come il re tebano sposato la novella Armo-nia, e alla città spirtale cantato le leggi novelle?

7. Chi s'alza oggi arbitro di tutta la vita futura, sopra la terra ululante e fumante?

8. Donde è venuto? dalle profondità della pena o dalle sommità della luce, come l'esule Dante?

9. O solo è un savio seduto nella sua catedra immota, ignaro di gironi e di bolge?

10. O solo è un interprete assiso dinanzi al polito suo li-bro, che nessun vento ignoto sconvolge?

11. Non so, né m'inclino al responso lontano, né indago i legami tra sillaba e sillaba accorti.

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12. Serro l'animo spietato nel cuore, l'arma provata nel pugno; e ascolto il silenzio di Dio e dei morti.

II.

13. Chi risponde? Chi giudica? Non l'uomo seduto, né l'uomo diritto, né il codice né la bilancia.

14. Risponde chi per parlare sputa il fango ch'ei morse cadendo o si netta dalle lacrime di sangue la guan-cia.

15. Risponde chi per parlare rompe lo stridore dei denti e l'ambascia, col giogo bestiale sul collo.

16. Risponde chi col moncherino grondante scrisse l'a-bominio e il taglione sul muro superstite al crollo.

17. Risponde chi nel patire eccedette i limiti del pati-mento posti al misero dalla pietà del Signore.

18. Risponde l'umana e divina agonia cui fu Ghetsèmani tutta la terra cospersa di atroce sudore.

19. E alcuno invocò sul misfatto la clemenza del Fi-gliuol d'uomo? Ecco. Mano per mano, dente per dente, occhio per occhio.

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20. Non il sermone laborioso ma il doppio taglio della spada forbita fa la luce al nemico in ginocchio.

21. Il Figliuol d'uomo essi tolsero di croce non per com-porlo nella pietra col panno lino e l'unguento,

22. ma per riflagellarlo e ricoronarlo di spine e risaziar-lo d'ingiurie e partirsi il suo vestimento.

23. Ti sovvenga, o Clemenza. Del suo lenzuolo e del suo sudario e delle sue bende fecero vincoli e corde:

24. vincoli per legare le mani e i piedi forati delle nazio-ni, corde per strangolarle a stràscino, o Misericorde.

III.

25. Non sono un rammemoratore d'immemori e un ri-scotitore d'ignavi. Ma, se nessuno grida, io grido. Oserò se altri non osa.

26. O pace inviata alla tristezza degli uomini non come nivea colomba ma come serpe viscosa!

27. Che mai resta nel mondo, ch'essi non abbiano gua-sto e corrotto? Più pestilente è il lor fiato che il vo-mito dell'avvoltoio.

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28. Partire voleano col ferro la somma dei secoli, tra do-minio e servaggio. Ogni stirpe era morchia di maci-ne, e la terra il lor grande frantoio.

29. Hanno arsi i duomi di Dio dove battezzammo i no-stri nati, portammo le nostre bare, prostrammo il no-stro cuor tristo.

30. Hanno abbattuto i nostri altari, fonduto le nostre campane, contaminato le nostre reliquie, maculato le specie di Cristo.

31. Lordato hanno le nostre case, scoperchiato i nostri sepolcri, sterilito ogni solco, divelto ogni erba e ogni fusto,

32. disperso i semi, corrotto le fonti, percosso i vecchi, forzato le donne, fatto monco ogni fanciullo robusto.

33. Il lagno d'Isaia si rinnova: «Tutte le tavole son piene di vomito e di lordure; luogo non v'è più, che sia mondo».

34. Ma Colui che già pianse per Lazaro, Colui che sopra Gerusalemme già pianse, Colui che già pianse nel-l'Orto, oggi piangere non può sopra il mondo.

IV.

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35. Non piange più; combatte. Non ha il capo chino su l'omero scarno, né inchiodate le palme all'infamia, né i piedi trafitti.

36. Né sfolgora come quando l'angelo rotolò dal sepol-cro la pietra ed Egli sorse, ed apparve agli Undici af-flitti.

37. Ma lo vede ogni fante, simile a sé, con l'elmetto del fante, con le uose del fante, col sudore e col sangue del fante, allato allato.

38. Cade anch'Egli, come quando portava la croce; cade e si rialza. E, come quando riprendeva la croce, ri-prende la sua arme e il suo fiato.

39. Resiste, perdura, persevera, a fianco dell'uomo. Al-l'uomo dona il suo cuore divino e la sua lena immor-tale.

40. Si volge l'ispirato sentendo crescere nel suo petto la forza; e vede al suo fianco penare e lottare un egua-le.

41. Lotta Egli e pena con noi. La sua arsura, che lambì la spugna intrisa nell'aceto e nel fiele, si disseta alla nostra borraccia.

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42. Suda e ansa con noi. L'offerta rinnova del suo sacri-fizio ogni giorno spezzando con le mani piagate il pane della nostra bisaccia.

43. Egli che all'ora di nona gridò: «Dio mio, perché m'hai lasciato?», Egli ben sa quanto costi l'intera vit-toria agli eroi.

44. Non ha Egli pur riudito lo scherno? «Se tu sei l'elet-to di Dio, salva te stesso. Se il Cristo tu sei, salva te stesso, e noi.»

45. Or Egli vince. Con noi vince. Chi credette nell'ani-ma, ora vince per l'anima. Chi accettò la morte, ecco vince per la vita immortale.

46. La forza dell'anima pura precipita le nostre legioni fangose, e in carne tanta non sente il suo male.

47. Chi l'arresta? Dove sono i valli insuperabili? dove gli impenetrabili petti? Dov'è mai la lor ferrata mu-raglia?

48. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Son fuggiti di-nanzi alle spade, dinanzi alla spada tratta, dinanzi al-l'arco teso, e dinanzi allo sforzo della battaglia».

49. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guai a te che predi e non fosti predato. Quando finito avrai di pre-dare, predato sarai tu senza mora».

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50. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Guardia, che hai tu veduto dopo la notte? Guardia, che hai tu veduto dopo la notte?». L'aurora! L'aurora!

V.

51. O stagione di rapimento improvvisa, che la primave-ra non sei e non l'autunno ma quella dove il lauro eternale allega i suoi frutti!

52. O spirito rapido che rifecondi le piaghe della terra e susciti il fremito della messe futura dallo strazio dei campi distrutti!

53. O fiumi rivalicati, gonfii di giubilo, come le vene che portano l'orgoglio al cuor della Patria e sino alla sua fronte il vermiglio!

54. O valli disgombre dove torna una così pura dolcezza che i morti sembran quivi dormire nel grembo di Maria come il Figlio!

55. O canti sovrani, santissimi tra gli inni più santi, alza-ti dall'agonia degli oppressi che sentono i liberatori alle porte!

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56. O vincoli, o spine, o flagelli, rinnegamento e vergo-gna, soma e ambascia, sete e fame, sanie e sangue, o passione di Cristo e del mondo, o vittoria di là dalla morte!

57. Chi muterà questa grandezza e questa bellezza im-petuose in disputa lunga di vecchi, in concilio senile d'inganni?

58. Inchiostro di scribi per sangue di martiri? A peso di carte dedotte ricomperato il martirio degli anni?

59. Se il mutilatore è in ginocchio, se leva le sudice mani, se abbassa il ceffo compunto, troncategli i pollici e i polsi, rompetegli zanne e ganasce.

60. Stampategli il marchio rovente fra ciglio e ciglio, fra spalla e spalla. Né basti. Tal specie, se in paura si scioglie, poi dalle sue fecce rinasce.

61. E passate oltre. Vi precedono i morti. Rimasto ai morti, ai sepolti e agli insepolti rimasto è l'osso del tallone integro per calcare la terra straniera.

62. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «Per l'anima delle creature che hanno spasimato di fame a ogni capo di strada; e mani non avean da giugnere nella preghie-ra».

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63. Vittoria nostra, non sarai mutilata. Nessuno può frangerti i ginocchi né tarparti le penne. Dove corti? dove sali?

64. La tua corsa è di là dalla notte. Il tuo volo è di là dall'aurora. Quel che in Dio fu detto è ridetto: «I cie-li sono men vasti delle tue ali».

Novena di tutti i Santi. Ottobre 1918.

Cantico per l'ottava della vittoria

Balza su dal nero fango, lava il sangue e il sudore.E vendica la potenza del canto sul clamore,o Verità cinta di quercia.Come la spada a due tagli leva il tuo canto puroche la nostra anima nuda fenda, mentre Bonturomal mondato nel trivio bercia.

Verità cinta di lauro, ben tu oggi mi sceglicome quando su lo strame d'Italia i tristi veglirumavan la menzogna stracchie tu mi cantavi il canto solitario alla Terraal Cielo al Mare agli Eroi, meco armata alla guerracontro il sogghigno dei vigliacchi.

O domatrice di fuochi, foggiami tu quest'odee scagliala verso Roma; ché la mia mano prode

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mi trema e condurla non posso.Patria! Patria! Questa sola parola mi trasporta.E rimbombare odo dentro di me, come alla portadel tempio, uno scudo percosso.

Patria! Il terribile e dolce nome chiamare voglio.Sono ebro. Odo il tuono e il rombo. Chi mai sul Campi-dogliopercote lo scudo raggiante?Il giubilo è una rapina bella, un ratto felice.E il cielo è tanto a noi chiaro, sol perché Beatricerivede sorridere Dante.

Come chi chiama la luce pel suo nome divino,come chi chiama la luce pel suo nome e al mattinocomanda che nasca dal mare,o Patria, così ti chiama colui che trascoloradi dolcezza e di spavento. Non tu sembri un'aurorache abbia volontà di cantare?

Palpiti come un' aurora colma di melodia,come un'aurora chiomata d'astri ignoti, che siaapparsa alla soglia del mondo.Dalle calcagna possenti fino alle rosee ditanon sei se non il preludio della novella vita,una nell'alto e nel profondo.

E nel profondo e nell'alto sei tu stessa l'auroraa cui ti facemmo sacra con l'aratro e la proraquando la notte era su noi.

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La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.Sei tutta la luce; e nella luce cantano il cieloil mare la terra e gli eroi.

Sei un infinito canto. Muta sembri rimastada secoli per cantare quest'inno che sovrastala speranza e supera il fato.Sembri rimasta in silenzio da che la terza rimati rapì nel Paradiso dov'arde su la cimadell'amore il verso stellato.

Tutto è voce numerosa, tutto è numero e modoin te nova. Sei la grande Carmenta. Ecco che t'odofra il Tevere e il Capitolino.Ecco che t'odo fra l'Alpe Giulia e l'Alpe Apuana.T'odo fra le Dolomiti rosse e la Puglia piana.E l'Istria è un sol coro latino.

E il leone di Parenzo rugge col miele in gola.E la vittoria cilestra nel colossèo di Polasi prodiga all'arcato abbraccio.E le città di Dalmazia si scingono sul marecantando dai bei veroni veneti, bionde e chiarenell'ambra di Vettor Carpaccio.

E Zara è la prima, Zara nostra, rocca di fede,ch'è scolpita nel mio petto com'è scolpita appiededi Santa Maria Zobenigo,tutta bella al davanzale della sua Riva Vecchia,ridorata come quando Venezia si rispecchia

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nell'oro sciolta dal caligo.

E la seconda non fulge sopra il riposto maredalla gran nave di sasso, tra battistero e altare,ma per gli occhi del suo veggente,ma per gli occhi del suo cieco, pei fisi occhi riarsidall'ardore del futuro ch'egli vede levarsioggi dal sangue immortalmente.

O Sebenico beata, che hai gli occhi più profondi,la cecità del profeta reduce dai tre mondianch'egli ma senza corona!O Spàlato imperiale, Spàlato piena d'archesante, ove cantano alterne le Marie e le Parchesopra le tombe di Salona!

O Traù, mia dolce donna, tu che sei tra le donnedàlmate la più dorata! Sei nelle tue colonnecome il fuoco nell'alabastro.La tua gioia è come l'oro fulva. Sotto l'artiglioil tuo libro si riapre. Fiorisce come un giglioil tuo cipresso nell'incastro.

La sùbita primavera si crinisce di pioggia.La rondine d'oriente torna nella tua loggiaad annunciar la Santa Entrata.Disseppellisci di sotto l'altare i tuoi stendardie li spieghi. Ardono al vento salso come tu ardi,o tu che sei la più dorata.

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E danzano la tua gioia lungh'essa la tua costale isole nutrici di api, da Zirona a Lagosta,e coi cembali e col saltero.O Solta ricca di miele che sa di rosmarino!O sasso della Donzella dove l'amor latinorinnovellò la morte d'Ero!

E s'inghirlanda di mirto Lissa vittoriosa.E la vittoria navale coglie il lauro e la rosanell'oleandro di Lacroma.E la Libertà dal vasto petto, l'unica Musa,canta con dodici bocche nel tuo fonte, o Ragusa;e tu bevi il carme di Roma.

Patria! Patria! Tutto è canto, tutto è canto infinito,canto nato col mattino. Tocca il cuore feritodegli eroi nella terra nera.Schiude fin le tristi labbra dei giovinetti mutinelle ripe nelle malghe nelle velme, cadutiquando la grande alba non era.

Si levano gli insepolti, si levano i sepolti:al sommo del loro ossame portano i loro voltitrasfigurati, l'ebre gole.Son tutti luce e canto, gaudio e canto gli uccisicome se in tutti e in ciascuno san Francesco d'Assisispirasse il cantico del sole.

Nei valichi dello Stelvio, nei passi del Tonale,nella roccia d'Ercavallo che l'ascia trionfale

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tagliò come ceppo d'abeto,nel lene argento del Garda, nel rame della Zugna,nella Vallarsa ricinta d'arci che il sole espugnaper baciar laggiù Rovereto;

e tra l'Astico e il Rio Freddo, di girone in girone,negli inferni statuarii del Cengio e del Cimone,che sono i fratelli del Grappa,essi cantano con calde bocche, riavvampatida un sangue repente; e vanno, s'accrescono, soldatidella luce, di tappa in tappa.

Chi è con loro? Chi viene, riavvampato anch'essodi gioventù sovrumana, come aveva promesso?«Ch'io venga anche all'ultima guerra!Legatemi al mio cavallo. Ma ch'io veda la stellad'Italia su la Verruca! Cinghiatemi alla sella.Ma ch'io venga all'ultima guerra!»

Giovine, giovine come nell'estancia, a Maromba,alla Barra, al Cerro, al Salto, come quando la trombadal Vascello e dalla Corsinasonò su Roma serva slargando col selvaggiosquillo gli archi di trionfo troppo angusti al passaggiodella nova gloria latina,

giovine e con la criniera fulva come l'estate,sul gran stallone di neve dalle froge rosate,che per ala ha il candido manto,cavalca Egli nel delirio come in un nembo ardente,

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fiso alla morte, e l'amore della sua morta gentel'inalza alla vita del canto.

O vita! O morte! Il mio canto vien di sotterra o spiradal mio petto? Son io servo dell'inno senza lirao son io signore del fato?Tutte le vie della notte furon da me percorseper amor del tuo mattino, Patria. Ma so io forsecome questo giorno m'è nato?

Non ho perduto il mio giorno? non ho perduto i donidella trasfiguratrice? Che val se m'incoroni?O fine delle cose impure!Son nel carcere dell'ossa, nei lacci delle vene,e non diffuso nei vènti, nelle acque, nelle arene,in tutte le tue creature.

Con una meravigliosa gioia tesi le mania rapir la morte. E sempre diceva ella: «Domani».Sempre diceva ella: «Più alto!».La inseguii di là da ogni mèta al mio cor promessa.Ed ella diceva sempre: «Più oltre!». Era ella stessail volo la schiuma l'assalto.

O mio compagno sublime, perché t'ho io deluso?e perché fu ingannata l'anima? Avevo chiusote nell'arca e la mia speranza,tra i cipressi di Aquileia. Silenziosamenteavevo teco bevuto l'acqua senza sorgentee celebrato l'alleanza.

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Risorto sei tu dall'arca, fra il croscio dei cipressi.L'arcangelo del mio nome, nel dì del Resurressi,ha scoperchiato il sasso cavo.E tu, Dioscuro, franco del cavallo e dell'asta,sei ridisceso a lavare dal lutto la tua castaforza nel lustrale Timavo.

Ma dov'era il tuo fratello? la sua forza dov'era?Non l'avevano raccolto dentro la tua bandierastessa i compagni di ardore.Non il suo corpo abbronzato sul rottame fumantedell'ala avevan disteso, né con le foglie santecoperto il nudato suo cuore;

né veduto di tra le foglie dell'alloro pugnaceardere subitamente nel profondo toraceun fiore perfetto di fuoco.Eroe, tu m'attendi invano sul tuo fiume lustrale.Ma, se la vita è mortale, se la morte è immortale,in te vita e morte oggi invoco.

Nella mia bocca ho il tuo soffio, tra i miei denti il tuo fiato.Si fa mattutino canto lo spirito esalato.L'agonia si fa melodia.Patria! Patria! Questa sola parola è tutto il cielo.La notte pallida s'apre come si squarcia un velo.Regna «colui che più s'indìa».

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Come chi chiama la luce pel suo nome divino,come chi chiama la luce pel suo nome e al mattinocomanda che nasca dall'acque,o Patria, così ti chiamo. Sono il tuo gridatoree sono il tuo testimonio. Se m'odi, il mio amoresa come questo giorno nacque.

Sto tra la vita e la morte, vate senza corona.Da oriente a ponente l'inno prima s'intona:«La vita riculmina in gloria!».Sto tra la morte e la vita, sopra il crollo del mondo.Da ostro a settentrione scroscia l'inno secondo:«La morte s'abissa in vittoria!».

3-11 novembre 1918.

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NOTE AI CANTI DELLA GUERRA LATINA

Sur une image de la France croiséeUne lettre adressée à M. Alfred Campus, directeur du Figaro,

accompagnait l'envoit de ces poèmes:

«Mon cher ami, je pars pour Gênes. On va jeter le dé. Ce qui n'est pas arrivé sous le signe du Bélier, va arriver sous le signe du Taureau. Cette bte zodiacale a un front encore plus dur, fron-tem duriorem frontibus eorum. De Gênes vous recevrez, de grandes nouvelles.

J'ai composé quatre sonnets d'amour pour la France, et je les publie au profit de la Croix-Rouge de France, du Vestiaire des Blessés et de l'Hôpital auxiliaire du Val-de-Grâce n. II.(institu-tion italienne). Ils sont inédits. J'aimerais les donner eu public français en guise d'adieu, Voutez-vous les publier dans le Figaro, le matin du 5 mai? A la même heure nous serons des alliés.

Au revoir, cher ami. Je vous serre le main bien affectueusement.

En hâte, votreG. D'A.

Ce 3 mai 1915.

Ode alla nazione SerbaStefano soprannominato Dusciano dalle molte pie elemosine

che fece (nell'anno 1346 pur al nostro santuario di San Nicola di Bari donò una rendita di dugento perperi in continuo per la cera) fu della stirpe nemànide quegli «che coronò la grandezza del nome serbico e forse ne preparò la ruina». Silni fu chiamato dal popol suo, cioè il Possente; e nella ragunata dell'anno 1340, in Scoplia, gridato cesare dei Serbi, dei Bulgari, dei Greci, e «pri-mogenito di Cristo».

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Lazaro Greblanovic, conte, creduto figliuolo naturale di Stefa-no, fu l'ultimo re grande di Serbia. Ebba Mìliza per donna, d'insi-gne sangue, d'animo insigne. Nell'anno 1389 sul piano di Cosso-vo fu dal Turco reciso a un tratto il vigore della nazione e a Laza-ro il capo; che poi, gettato nella corrente, raggiò a miracolo. Ven-ne il re misero dalla pietà della sua gente posto tra i santi, come confessore e martire della patria, in Ravàniza sepolto, nella chiesa da lui costrutta «del proprio pane e della propria ricchezza, e sen-za le lacrime dei poveretti».

Perirono in Cossovo, col sire, i nove prodi Giugovic, i nove fi-gliuoli del vecchio Giugo Bogdano, fratelli di Mìliza infelice. «Ecco muore Bogdano il vecchio, e periscono i nove Giugovic, al par di nove candidi falchi, e tutta perisce l'oste loro» si narra nel carme eroico.

Vàlico fu, nel duro tempo di Giorgio il Nero (Kara-George), il più terribile degli aiduchi. La guerra egli amava per la guerra, sic-ché sempre pregava Dio che la Serbia non venisse in pace se non dopo la sua morte. Avendogli Giorgio assegnato la difesa della rocca di Negòtino e della terra circostante, egli con qualche mi-gliaio d'uomini sostenne maravigliosamente, l'assedio. Senza più vettovaglia, senza munizione, senza speranza di soccorsi, in un mucchio di rovine fumanti, sotto la minaccia d'un nemico venti volte più numeroso, non cedette; anzi di giorno e di notte molti-plicò le sortite temerarie, sempre valido, ardente, fidente, gaio. Avendo avvistato in lontananza una compagnia di Serbi e volen-do abboccarsi col capitano, monta a cavallo, salta il fosso; con la sciabola tra i denti, con la pistola nel pugno, seguito da un solo de' suoi, traversa il campo ottomano a furia. Si toglie di bocca la lama per gridare, a squarciagola: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico!» Nessuno osa contrastargli il passo. Compie egli il suo disegno e rivolge la briglia a gran galoppo. Fende di nuovo la ressa ostile gridando: «O cani, ecco l'aiduco Vàlico che torna!». Gli è libero il passo. Egli rientra in Negòtino fra le sue torri mezzo diroccate.

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Ma fu, una mattina, nel fare la ronda, riconosciuto da un canno-niere turco e preso di mira. La palla lo colse, e in due lo spezzò. Ai suoi che accorrevano egli ebbe il fegato di gridare quella paro-la che oggi è la legge dei Serbi, la nostra, quella dei nostri alleati.

Vucàssino ammazzato il pio imperatore Urosio figliuolo del grande Stefano, usurpò il regno; ed ebbe titolo di despota in pri-ma, poi di re di Serbia e di Romania. Guerreggiò sempre, in vi-cenda di vittorie e di sconfitte; e trovò morte alfine in battaglia campale, affogato nella Màriza sanguinosa (1372)

Celeberrimo dei suoi eredi il primogenito, Marco, detto Cralie-vic, cioè figliuolo del re, lo stupendo eroe cantato nel poemi epici della nazione serba. Quando Marco ebbe trecent'anni, trecent'anni di giustizia e di guerra, la Vila gli annunziò la morte prossima e Dio lo addormentò in un sonno che non si romperà se non quando gli si sguainerà da sé la lunga spada. Ecco, s'ode il suo grande ca-vallo macchiato nitrire, e la spada è già nuda...

Uno dei canti epici più belli racconta come Marco di Prìlipa gio-vinetto sia chiamato ad aggiudicare l'impero fra i contendenti. «Re Vucàssino dice: "è mio". Uliesa despoto: "no, gli è mio". Il voivoda Goico: "no, ch'è mio".» Il giustissimo eroe lo aggiudica a quello che è da lui reputato legittimo erede. «Il libro dice: "ad Urosio l'impero".»

Le Vile sono una sorta di deità che abitano i gioghi, i boschi, le fiumane. Vengono a soccorrere, a incitare, a consolare, a medica-re i combattenti. Cavalcano sopra le nubi, sul crine dei monti, danzano sopra lance rizzate; annunziano, predicono, ammonisco-no.

Sempre ebbero grande animo le donne serbe. Anche oggi com-battono a piedi e a cavallo, come combatteva Ljùbiza, la moglie di Milosio Obrenovic; la quale rincuorò il marito che per lei «dal-la fuga volò sùbito alla vittoria»; e sempre di poi ella «col vigore proprio accendeva lo spento coraggio de' suoi».

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Le patrizie veneziane Anna Dandolo (1217-1221) e Costanza Morosini (1321) furono regine di Serbia: e il patrizio fiorentino Esaù de' Buondelmonti (1386-1403) sposò una donzella della Stirpe regia di Orosia.

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