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Latina5stelle magazine - numero 6 - anno 2016

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Latina5stelle magazine - numero 6 - anno 2016

Violenza di genere:a lui la parolaquando non bastano le canzoni

Pagina 13a cura di Antonietta De Luca

Disabilità:fondi tagliatidal Governo Renzi

Pagina 5a cura di

Cinzia David

YEMENUna guerra da troppotempo ignorata

Pagina 19a cura di Francesco Martello

Nuovi soggettipolitici in Europa

Pagina 39a cura di Luca Pietrolucci

Quel “Sì” al referendum chepiaceva tanto a Washingtone ai mercati internazionali

Pagina 49a cura di Emanuele Coletti

Non hanno mai fatto la guerraLe comunità tzigiane in Italiadi sinti, rom e camminanti

Pagina 27a cura di Dario Di Berardino

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Latina5stelle magazine n.4/2016Latina5stelle magazine n.6/2016

a cura di Cinzia David

A che punto siamo?Disabilità: fondi tagliati

dal Governo Renzimonta l’indignazione su Facebook

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Per i tagli all’assistenza educativa agli alunni portatori di handicap, Renzi ha deciso che dal primo gennaio gua-riranno tutti e noi saremo ben con-tenti, ma temiamo non sia vero. Nel 2016, infatti, c’era uno stanziamento di 70 milioni di euro per questo servi-zio che veniva garantito dalle Provin-ce. Ora pare che da gennaio, debbano guarire tutti perché il Governo non ha ancora trovato i fondi. Ad essere eliminati saranno così servizi come le ore di “Assistenza agli alunni portatori di handicap e i servizi di trasporto.” Insomma, vista l’entità dei tagli, il Governo ha deciso di non garantire la frequenza scolastica per gli alunni portatori di handi-cap e tuttavia se così fosse in effetti sarebbe davvero una decisione gra-ve, perché significherebbe che nella scuola pubblica non c’è spazio per gli alunni disabili. La notizia è giunta sui social in seguito alla rivelazione dell’assessore al Bilancio della Regio-ne Lombardia Massimo Garavaglia che accusa il Governo di aver tolto i fondi per questi servizi specifici. Subito la risposta su Facebook della deputata Pd Ileana Argen-tinAlle accuse di Garavaglia, ha risposto su Facebook, indignata, la deputata del Pd Ileana Argentin dicendo che sui social e in rete gira l’ennesima bufala. All’assessore Garavaglia, ri-sponde la deputata, “sarebbe bastato che avesse fatto lo sforzo di leggersi il testo della Manovra e al capitolo di bi-

lancio 2836 avrebbe trovato la voce corrispondente e la cifra di 70 milio-ni”. Nessun taglio quindi e in effet-ti sembrerebbe che i 70.000.000 milioni di euro siano stati stan-ziati, ma erano per l’anno 2016, e quei soldi potrebbero però non giungere addirittura a coprire le spese fino a dicembre dell’anno in corso, mentre per il 2017 non sono ancora state trovate le voci di spesa per coprire il finanzia-mento.

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DECRETO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI

30 agosto 2016Riparto del contributo di 70 milioni di euro per l’anno 2016 a favore del-le regioni a statuto ordinario e degli enti territoriali che esercitano le fun-zioni relative all’assistenza per l’auto-nomia e la comunicazione personale degli alunni con disabilità fisiche o sensoriali e ai servizi di supporto or-ganizzativo del servizio di istruzione per gli alunni con handicap o in si-tuazione di svantaggio. (16A07193) (GU Serie Generale n.233 del 5-10-2016)Gazzetta ufficiale 30 agosto 2016: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/id/2016/10/05/16A07193/sg

L’ITALIA GOVERNATA A COLPI DI TAGLI E BONUS

“COME UN GRANDE “QUIZ A PREMI”

TUTTO COMINCIÒ CON GLI 80 €

Quando Renzi alle porte delle ele-zioni europee regalò 80 euro fu falli-mento totale!Il problema di quegli 80 euro è che, quest’anno, sono stati “sottratti” tutti dal portafoglio di un milione e mezzo di italiani. I dati del diparti-mento delle Finanze segnalano che 1,4 milioni di italiani che furono i beneficiari del bonus sono stati costretti a restituire tutto per il periodo d’imposta 2015 (1 su 8, il

12,5% degli italiani), tra questi, 341 mila avevano un reddito an-nuo inferiore ai 7.500 euro e con queste macchinazioni il Governo ha remato contro i cittadini per cui do-vrebbe adoperarsi. La restituzione del bonus non è stata rateizzata ma ripresa tutta in una volta e con effetti restrittivi sui consumi e l’economia. Il bonus di 80 euro, come ha sem-pre denunciato il M5S, ha escluso le fasce più povere, ossia quelle al di sotto degli 8.000 euro annui e gran parte del ceto medio (sopra i 26.000 euro annui). Il contributo sui consu-mi è stato nullo, come testimonia-no i dati diffusi dall’Istat, perché gli italiani hanno preferito rispar-miare gli 80 euro per tutelarsi dai tagli del Governo sui servizi pub-blici e sulla spesa sociale.

È ORA DI CAMBIARETUTTO

È stato giusto non aver creduto alle promesse di Renzi, visto il suo ope-rato, e considerato che quello che ai cittadini ha dispensato come utili e benefici, poi se lo è ripreso, lascian-do ancora più in difficoltà gli italia-ni e quelle categorie dimenticate che hanno avuto un parziale o nessun beneficio. Una classe politica obsole-ta e morta, disattenta, cinica e ma-nipolatrice, che salvaguarda i propri interessi solo per scopi elettorali. #Cambiamotutto ora!

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Legge di Stabilità 2017“L’Italia non va ancora bene, ma va meglio di come andava prima.” Mat-teo RenziCon queste parole, l’ex premier ha presentato la Legge di Stabilità 2017, una manovra da 26,5 miliardi di euro, 2 miliardi in più di quanto pre-ventivato. Cosa successivamente il governo confermerà per il prossi-mo anno sarà tutto da scoprire, ma è interessante sbirciare nella Legge di stabilità 2017.Riforma pensioniPer quanto riguarda la previdenza, nella Legge di Stabilità sono stati stanziati 7 miliardi per il triennio. Tra le manovre previste ci sono:quattordicesima estesa a 1,2 milioni di pensionati; no tax area equiparata per tutti a quella dei lavoratori dipendenti. La soglia quindi è di 8.125€;APE in vigore da maggio 2017, na-scita dell’APE Social.Pensioni, ultime notizie su chi rientra nell’Ape social?Legge di Stabilità 2017: Voluntary disclosure.Con la Legge di Stabilità 2017 do-vrebbe essere riproposta la volun-tary disclosure che ha portato nel-le casse dello Stato circa 4 miliardi di euro, avendo fatto emergere i fondi e capitali nascosti e il lavoro nero. Con la riproposizione della misura si punta ad arrivare a quota 2 miliardi.Legge di Stabilità 2017: Estensione sussidio alla povertà.

Con la Legge di Stabilità 2017 do-vrebbe essere esteso in tutta Italia il sostegno all’inclusione attiva (Sia), un sussidio pari a 400 euro al mese e destinato alle famiglie con fi-gli minorenni o disabili e reddito in-feriore ai 3mila euro annui.

Legge di Stabilità 2017: Bonus famiglia ufficiale.

Anche nella Legge di Stabilità 2017 trovano spazio gli interventi in favo-re dei nuclei familiari più disagiati: dal bonus bebè al voucher asili nido, fino agli sconti per prodotti riservati alla prima infanzia.

BONUS PER LE FAMIGLIE:Bonus BebèBonus famiglia

Legge di Stabilità 2017 famiglie: bonus, taglio Irpef, bonus 18enni e borse di studioNella Legge di Stabilità 2017 per le famiglie ci sono alcune novità.Taglio Irpef 2017: l’aliquota più bassa, ossia quella che colpisce i red-diti fino ai 15mila euro, passa dal 23% al 22%.Per le famiglie a basso reddi-to: confermato il bonus bebè 2017, i voucher asili nido, sconti per pro-dotti riservati alla prima infanzia, bonus famiglia 2017 per chi ha al-meno 2 figli, bonus premio mamme domani, ossia, un bonus gravidanza da 800 euro.Per le famiglie molto disagiate

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economicamente: conferma del sostegno all’inclusione attiva (Sia), Carta Sia 2017 bonus fino 400 euro al mese riservato alle famiglie con fi-gli minorenni o disabili e reddito in-feriore ai 3mila euro annui.

Bonus mamme domaniBonus Nido da 1.000€Social Card SIA 2017

Il SIA è una nuova Social Card ope-rativa dal 2 settembre 2016 che prevede un sussidio di un massimo di 400€ per le famiglie con reddito ISEE inferiore ai 3mila euro (annui) e in cui sono presenti minori o disabili. Il SIA è il primo intervento strutturale messo in atto dal Governo per com-battere la povertà che, come previsto dalla Legge di Bilancio 2017, costerà allo Stato circa 50 milioni di euro (Fondo di non autosufficienza).Il SIA dal 2 settembre viene dato a tutti coloro che rispettano i requisi-ti indicati dall’INPS. Tuttavia, come specificato dal Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, il SIA è una “misu-ra ponte” in attesa dell’approvazione definitiva della legge delega sulla po-vertà che segnerà il debutto del red-dito di inclusione.

Altri Bonus 2017:Voucher Baby Sitter e Asilo Nido; Taglio Irpef 2017BONUS SCUOLA:Student Act 2017 con introduzione della no tax area e delle super borse

di studio;Bonus 18enni

Bonus insegnantiBonus neo-diplomati 2017

La manovra finanziaria per il 2017, quindi, prevede diversi interventi a vantaggio degli studenti italiani tant’è che rispetto all’anno scorso sono stati investiti 50 milioni di euro in più per il diritto allo studio.Tra gli interventi di quello che è sta-to ribattezzato “Student Act 2017” c’è l’introduzione di una no tax area per gli studenti con un ISEE inferiore ai 13 mila euro (cifra non ancora con-fermata dal Governo Renzi). Inoltre, per gli studenti più meritevoli ver-ranno bandite 400 borse di studio del valore di 15mila euro ciascuna.Invece, per il 2018 è previsto lo stan-ziamento di circa 270 milioni di euro che verranno destinati ai mi-gliori dipartimenti universitari. Fon-di che dovranno essere reinvestiti per la ricerca e per l’assunzione di “nuovi cervelli”.Infine, anche se non rientrano nello Student Act 2017, ci sono diversi in-terventi in favore degli studenti del-le scuole superiori. Ad esempio, per il 2017 è stato confermato il bonus cultura da 500€ per i 18enni, ed è stato introdotto il bonus neo diplo-mati, un contributo destinato ai da-tori di lavoro che assumono gli stu-denti appena diplomati negli Istituti Tecnici.

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Cos’è lo Student Act 2017 e quali sono i bonus previsti per gli studen-ti? Ecco tutto quello che c’è da sape-re sul pacchetto di investimenti per i giovani inserito nella Legge di Stabi-lità 2017.

Legge di bilancio 2017 video M5S: https://youtu.be/olFmRDT5jVk

BONUS 500 EURO AI 18ENNI, PERCHÉ AI DISABILI NO?Un articolo del “Il Fatto quoti-diano online” a firma di Fabiana Gianni attivista per i diritti dei disabi-li ha parlato del bonus di 500 euro destinato dal governo Renzi ai gio-vani nati nel 1998 cercando di capire cosa fosse esattamente ed in realtà comprendendo che si tratta di un’a-gevolazione contenuta nella Legge di Stabilità all’interno del pacchetto cultura e sicurezza. Fabiana Gian-ni capisce che la propria figlia che ha una disabilità grave con com-ponente psichica non ha diritto a nulla di tutto ciò. Per ottenere il bo-nus - scrive Fabiana - tutto avviene online e nessuno si è ricordato de-gli Amministrati e dei tutelati. Ops! Sarà stata una banale svista. Così scrivendo a uno degli uffici preposti gli viene recapitata la seguente rispo-sta bella, chiara e anche veloce. “Per il riconoscimento ‘fuori sede’ non c’è alcun vincolo. L’operatore, se dispone di connessione e strumen-tazione adeguata può procedere al

riconoscimento anche presso altra sede. Per la casistica di una perso-na con disabilità accompagnata/assistita da un amministratore di sostegno legalmente riconosciuto non abbiamo ancora una risposta da parte dell’autorità che norma le attività degli Identity Provider (AgID). La richiesta, quindi, va te-nuta in attesa del pronunciamen-to di AgID”. Peccato una distrazione del legiferatore che distrattamente non ha tenuto conto del problema “Disabilità con componente psi-chica grave”. - Quindi? - scrive Fa-biana Gianni - Ora? E chi c’è dietro questa sigla AgID? L’ennesima piccola grande discriminazione buttata sulle spalle di chi pensava di aver conqui-stato gli stessi diritti. L’illusione di po-ter acquistare più libri per trascorrere il tempo o di poter vivere tra coetanei un momento in comune, o magari po-ter capire cosa potessero fornire questi voucher. Dopo 18 anni a volte mi sento davvero ancora troppo ingenua. Cado, come nel peggiore dei concorsi a premi, nella rete della nostra Pubblica Ammi-nistrazione, convinta che Diletta esista come cittadina e invece scopro che è una delle tante persone di serie B. In realtà lei e tutti coloro nella sua situazio-ne non esistono proprio in nessuna categoria.

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a cura di Antonietta De Luca

Violenza di genere:a lui la parola

Quando non bastano le canzoni

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Suggestivo no? Maschile plurale. Non è soltanto il nome di un’as-sociazione, non è solamente un segnale http://www.maschileplurale.it/info/.È una parola capace di parlare. Contro il silenzio, contro il pudore e tut-

to il non verbale che sommerge le cittadine del globo di fronte alla parola “stupro” (http://forum-antiviolenza.freeforumzone.com/discussione.

aspx?idd=6081694 ). E stupro è quello che a Latina è avvenuto nella giornata an-tistupro per antonomasia (25 novembre), proprio a pochi passi e a pochi minuti dal flashmob in Piazza del Popolo: http://www.h24notizie.com/2016/11/violenza-sessuale-le-strade-latina/.

Quante parole ci vorrebbero, quanta presenza, quanta con-fidenza, quanta fiducia ci vorrebbero in questi momenti. Ep-

pure per anni la voce degli uomini non è arrivata alle orecchie delle donne impressionate dalle notizie. Qualcuno si sarà chiesto

perché. E qualcun altro si sarà anche risposto.Io no. Sono ancora qui a domandarmelo. Non mi sono bastate le letture, le informazioni, il confronto con gli altri, non mi è bastato alcun gene-re di consolazione artistica. E, continuando a interrogarmi su questo silenzio così assordante, pieno di sentimenti e di smarrimento, sono rimasta a osservare. E piano piano sono venute le marce silenziose, pia-no piano le comunità maschili contrarie alla violenza www.noino.org, piano piano le associazioni, http://www.liberarsidallaviolenza.it/, in fine il rap: https://www.youtube.com/watch?v=FzZCBKMJcDQ

Così ho capito che sempre più vicino è il giorno in cui potremo marciare insieme sotto lo stesso NO, così ho capito che la violenza sulle donne è un problema degli uomini, di ALCUNI uomini. E questo “alcuni” è importante

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per la società, per le donne e per gli uomini stessi. Una società fratturata per generi – in un’epoca in cui è in discussione lo stesso concetto di genere – è un problema che rischia di deflagrare e, ancora una volta, a totale discapito delle donne. Il pensiero non può non andare al modello islamico né latitare il ricordo delle classi maschili e femminili della scuola presessantottina, tanto meno in un’epoca scon-volta dal terrorismo internazionale nell’orizzonte della globalizzazione in cui i diritti delle donne rischiano di essere i primi ad essere sacrificati sull’altare dell’economia ultrafrontaliera (cfr. il visionario Houellebecq di Sottomissione) avendo rinunciato la politica alla sovranità nella sfera decisionale. È importante per le donne tenere a mente che si tratta di ALCUNI e non di tutti gli uomini, perché possano coltivare la fiducia in se stesse e nei compagni di viaggio che incontrano nella vita, perché possano sentire in concreto che non sono sole contro la violenza, che esiste ancora un argine di protezione e di rispetto ben di-stinti da certo paternalismo uno-punto-zero.È importante per gli uomini, perché non pesi su di loro il dubbio di essere assimilati a individui capaci di efferatez-ze che la maggior parte di loro non è nemmeno in grado di concepire, perché possano sentirsi liberi di uscire da quel silenzio così intenso, di esprimere il loro sdegno e di porsi una volta di più a sostegno delle compagne di strada che hanno accanto in famiglia, al lavoro, tra gli amici. È importante per allontanare i fantasmi del senso di colpa, dell’in-sicurezza, gli ingredienti di quella ricetta perversa che impedisce alle vittime di denunciare i carnefici, di andar via, di lasciare tutto e di rico-struirsi una nuova vita senza la minaccia di una possibile conseguenza, perché non c’è Nessuna Conseguenza https://www.youtube.com/watch?v=Sw_6cXr-

SX2Q, nessuna vita impossibile https://www.youtube.com/watch?v=LbtPX7K92NA.

Uomini che fanno paura alle donne2 luglio 2014 alle ore 11:33

L’altro giorno, tornando da un viaggio, mi sono fermata in autogrill e per caso ho buttato l’occhio sulle prime pagine dei quotidiani: ho preso la copia de Il fatto, attratta dal servizio intitolato: “I corpi disarmati del-le donne-soldato”. In una pagina se ne legge uno che suona: “Non sono

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CORPO dello Stato”. Vari giornalisti si sono occupati del tema degli abusi sessuali nelle caser-me, ma la riflessione che mi ha colpito di più è quella di Sansa, sebbene anche la pagina di Mimmo Calopresti sia degna di attenzione. Questo editoriale lo trovo interessante per le parti che segnalo in grasset-to. Parla alle donne di qualcosa che gli uomini solitamente non raccontano...  

UOMINI CHE FANNO PAURA ALLE DONNEdi Ferruccio Sansa - Il fatto quotidiano, 23 Giugno 2014 

 È capitato a tutti noi uomini. A chi scrive, a voi che leggete. Magari ti trovi a camminare in una strada di notte, incroci una donna sola e vedi la paura nei suoi occhi. La senti nel suo passo che accelera, mentre im-

magini il cuore che le batte forte. In quei momenti te ne accorgi: non c’è niente di più angosciante che provocare terrore in un altro esse-

re umano. Le donne hanno paura di noi. Non sono soltanto la natura, l’i-stinto. È, purtroppo, l’esperienza di ogni giorno. La società in cui viviamo. Nelle caserme italiane (ma avviene anche all’este-ro) centinaia di donne vivono nella paura. Di questo ci parla

l’inchiesta di apertura: di molestie, di violenze nelle caserme. Ci sarà, purtroppo, chi ne trarrà spunto per sostenere che la divisa

non è fatta per le donne. Quando è vero esattamente il contrario: la sensibilità e la delicatezza femminili (che sono tutt’altra cosa rispetto alla debolezza) possono essere indispensabili per un compito prezioso soprattutto oggi che le forze armate si dedicano sempre più all’assisten-za, alla pace. E in questo la presenza femminile, materna, arricchisce la figura dei militari. La rende più umana. Ci sarà anche chi invocherà una forma distorta di cameratismo, quei riti che gli uomini inventano per vivere in comunità. Ma le testimonianze inedite delle soldatesse che accusano i commilitoni di violenze ci ricordano  anche altro: quanto nella nostra vita,nella psicologia maschile sia presente il bisogno di fare paura. Di usare il timore

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come surrogato della forza, dell’autorevolezza, della capacità di persuasione. Tutti noi uomini ci ricordiamo il primo smarrimen-to dell’adolescenza: dopo essere cresciuto stabilendo le gerar-chie sulla forza fisica (chi non porta sul corpo o nello spirito cicatrici di quelle infinite lotte?), d’improvviso scopri l’impotenza dei tuoi bicipiti nel primo confronto con le ragazze. Che esercitano su di te una forza tanto più grande, ma impalpabile. Quasi incom-prensibile. È uno smarrimento che l’uomo si porta dentro tutta la vita, con meraviglia o con rancore. Che piega l’orgoglio, costringe all’umiltà. Non si può imporre sé stessi a un’altra persona con la forza, come fanno gli animali. È esatta-menta il contrario: servono comprensione, delicatezza, dialogo, ironia, intelligen-za. Eppure di fronte alla sconfitta, al legittimo rifiuto, ecco riemergere la tentazione della forza. Quella brutale della violenza (più facile in ambienti come quelli militari dove la forza è elemento del compito che svolgi). Quella sottile e ipocrita del potere nei luoghi di lavoro. Quella ancora più infame del maltrattamento nelle famiglie che prende come pretesto addirittura l’amore. Dobbiamo fare ancora molta strada. Non solo nelle caserme. Per le donne. E per noi uo-mini. Presso questo link, è possibile leggere e integrare i commenti sulla pagina in cui ho condiviso questo articolo:https://www.facebook.com/notes/antonietta-de-luca/uomini-che-fanno-paura-alle-don-ne/10152482524798955

Tu mi uccidiCol telecomando in manoscorri mondi che non sono tuoi,rimani distaccato nella noia sofficedel divano nuziale,sei ingrassato e anch’ionon sono una modella.Tu mi uccidi, così, mentre sorridisenza accorgerti; nel braccio di ferro

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che ci costringe a rassegnarci;negli ordini subliminali che da anninon eseguo e tollero inveced’esser donna e desiderare un amorecom’era o al limite uno diverso o nuovo. E ti uccido anch’io puntando al margine in cui ti ho relegato con la naturalezzadella madre che mi hai resoe - pure per questo - grazie sempre-.Soprattutto grazie quando mi uccidicome questo governoche ha lasciato gli occhi sotto la sabbiamentre la rabbia cresce ed esceanche da me il cecchino che tu seiquando mi ignori e pretendi e commentisenza dar tregua neppure al silenzio,questo governo immobile che mi lascia immobilead invecchiare tra le faccende e le camicie dei miei maschiche permette questo infernodi omicidi, queste tempesta di buchineri nel cielo nazionale, questo esercitodi posti vuoti sugli autobus, nei teatri:questo futuro di figlie senza figli.  Antonietta De Luca, dalla raccolta di poesie A Lei la Parola, in corso di pubblicazione.

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a cura di Francesco Martello

YEMENUNA GUERRA DA TROPPO TEMPO

IGNORATA

Per chi di voi non lo sapesse, lo Yemen è uno stato posto all’e-stremità meridionale, più precisamente a sud-ovest, della Pe-nisola araba. Questo stato si chiama ufficialmente Repubblica Unita dello Yemen, in quanto il 22 maggio 1990 gli stati dello Yemen del Nord e dello Yemen del Sud si sono riuniti in un’u-nica nazione (sarà più chiaro nel proseguo dello scritto perché attualmente è impossibile definirla “Repubblica Unita”). Per cominciare dobbiamo ovviamente fare qualche passo indie-tro rispetto alla situazione attuale. Nello Yemen e non altrove è presente una variante dell’islamismo sciita chiamato zaydismo, una derivazione musulmana abbracciata da 5 milioni di persone su 25 che abitano dentro questi confini. Per secoli, lo zaydismo è stato rappresentato da chi governava quello che in passato era lo Yemen del Nord ed era, molto più indietro nella storia, cono-sciuto dai romani come Arabia Felix. Questo era il nome che gli venne dato per via dei suoi lucrosi traffici commerciali. Curioso come nel tempo l’essere più intelligente del pianeta, in maniera inversamente proporzionale alla sua evoluzione cognitiva, sia riuscito a trasformare questo luogo in uno degli stati più pove-ri al mondo, in cui il 40% degli yemeniti vivono con meno di 2 euro al giorno e mezzo milione di bambini tenta (spesso inva-no) di sopravvivere ai morsi della fame. Lo zaydismo fioriva nelle zone summenzionate finché, nel 2004, Ali Abdullah Saleh, a capo dello Yemen del Nord dal 1978 fino all’anno dell’unificazione e a capo dello Yemen “unito” fino al 2012, portò avanti alcune azioni oppressive nei confronti di questo culto fino al 2010. Le oppressioni hanno un antefatto: dopo l’invasione occidentale dell’Iraq nel 2003, i membri del movimento della “Gioventù credente” (un movimento zaydita fondato nel 1992 da Husayn al-Huthi), conclusa la preghiera collettiva del venerdì, presero a scandire slogan anti-statuniten-si e anti-israeliani nella Moschea Saleh, a Sana’a (ex capitale del-lo Yemen del Nord, capitale dello Yemen dopo la riunificazione). 800 membri del movimento vennero arrestati. Il presidente Sa-leh invitò allora Husayn al-Huthi a un incontro nella capitale yemenita, ma Husayn declinò l’invito. Il 18 giugno 2004, Saleh inviò forze governative ad arrestare Husayn. Questi reagì lan-ciando una rivolta zaydita contro il governo, ma fu ucciso il 10 settembre 2004. In seguito alla sua morte i membri del gruppo

YEMEN: UNA GUERRA DA TROPPO TEMPO IGNORATA

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iniziarono a definirsi e ad essere definiti Huthi o Houthi, termi-ne derivato dal nome di famiglia di Husayn. La rivolta proseguì in modo intermittente fino al cessate il fuoco nel 2010, dopo molteplici accordi di pace in fase di negoziazione e sistemati-camente ignorati. In seguito alla primavera araba, la cui onda d’urto si propagò anche nello Yemen, Saleh ha visto il sostegno al suo potere sgretolarsi fino al 2012, anno in cui, il 3 giugno, è rimasto vittima di un attentato compiuto contro una moschea nella residenza presidenziale. Saleh riportò ustioni sul 40% del corpo e un polmone collassato e si rifugiò in Arabia Saudita per essere sottoposto a cure mediche. Dopo essersi ristabilito, ha ceduto l’incarico al suo vice Abed Rabbo Mansour Hadi, dicendo che lui avrebbe invece occupato un ruolo onorifico.

Foto: miliziani houthi, 21 gennaio 2015. Khaled Abdullah, Reu-ters/Contrasto).

Hadi non è riuscito a mantenere le promesse fatte durante il periodo di transizione che ha seguito le primavere arabe, ovve-ro formare un governo che includesse anche i gruppi che erano stati oppressi o discriminati da Saleh (tra cui i ribelli Houthi e alcune forze separatiste del sud). Nel 2014, gli Houthi pro-testarono anche contro l’amministrazione Hadi e, in seguito

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YEMEN: UNA GUERRA DA TROPPO TEMPO IGNORATA

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ad alcuni scontri, presero il controllo della capitale Sana’a nel settembre di quello stesso anno. Nel mese di gennaio del 2015, insoddisfatti dalla proposta di dividere il Paese in sei regioni fe-derali, i combattenti Houthi catturarono il complesso presiden-ziale della capitale. Richiedevano le dimissioni del presidente Abd Rabbih Mansur Hadi e dei suoi ministri. Il nuovo assetto politico Houthi annunciò, il 6 febbraio 2015, lo scioglimento del parlamento e la formazione di un Comitato Rivoluzionario per governare il Paese. Poche settimane dopo, il 21 febbraio, Hadi scappò dalla sua residenza nella quale era confinato per recar-si ad Aden (ex capitale dello Yemen del Sud, nominata capitale temporanea in questo frangente). In un discorso televisivo dal-la sua città natale, dichiarò che il golpe Houthi era illegittimo e indicò che lui stesso poteva ancora essere considerato il pre-sidente legittimo dello Yemen. Il predecessore di Hadi è stato fortemente accusato (ed i sospetti sembrano essere fondati ) di aver aiutato gli Houthi nella loro avanzata. Stiamo parlando proprio di quel Saleh che, per diversi anni, è stato il loro nemico numero uno. Le due parti hanno dunque siglato a denti stretti un matrimonio di convenienza destinato a non andare molto lontano. La faccenda si stava facendo sempre più spinosa e al-tre parti iniziarono a prendere posizione. L’Arabia Saudita, che ha sempre sostenuto il governo (espressione della maggioranza sunnita) ha assunto una posizione decisamente ostile ai ribelli zayditi: Riyad, nel 2014, li ha inseriti nella lista dei gruppi ter-roristici. Nel frattempo, la guerra raggiunse la periferia di Aden il 25 marzo, con i soldati pro-Saleh che presero in consegna l’A-den International Airport in seguito agli scontri che scoppiaro-no in una base militare. Secondo testimonianze, Hadi abban-donò la sua capitale temporanea in barca, dato che i disordini peggiorarono. Il giorno dopo, riapparve nella capitale saudita, Riyad, dove arrivò con l’aereo e venne accolto dal principe sau-dita Mohammad bin Salman Al Sa’ud. Mancano un paio di ingredienti e la bomba è pronta ad esplode-re. Come ad esempio l’Iran (stato di nota maggioranza sciita). Sì perché la rapida avanzata degli Houthi è spiegata anche dai legami del gruppo con l’Iran. Entrambe le parti hanno sempre negato di avere legami, ma diverse inchieste giornalistiche e te-stimonianze hanno dimostrato il contrario. Tempo fa, proprio

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un funzionario iraniano ha detto a Reuters che “alcune centi-naia” di combattenti delle Forze al Quds, l’unità di élite del-le Guardie Rivoluzionarie iraniane che si occupa di estendere l’influenza dell’Iran all’estero, hanno addestrato i combattenti Houthi sia in Yemen che in Iran. Si sa per certo che il governo iraniano ha fornito una qualche assistenza militare e finanzia-ria agli Houthi, anche se non si conosce la dimensione di questi aiuti. Va detto che molti hanno ipotizzato che yemeniti e saudi-ti abbiano gonfiato le stime per ottenere più sostegno esterno, soprattutto dagli Stati Uniti, anch’essi “rivali” dell’Iran. Manca soltanto il secondo ingrediente: lo Yemen si trova in una posi-zione strategica, perché controlla mezzo stretto di Bab el Man-deb, che collega il Mar Rosso con il Golfo di Aden e che è una via di commercio piuttosto importante, anche per il passaggio del petrolio. Tutto ciò è bastato ed avanzato a far sì che il 26 marzo2015 l’Arabia Saudita aprisse ufficialmente le ostilità sul cam-po con i ribelli Houthi. A seguire, a ruota, la decisione presa da Riyad con altri membri del CCG (Consiglio di cooperazione del Golfo che comprende Arabia Saudita, Bahrein, Emirati Ara-bi Uniti, Kuwait, Qatar e Oman, unico stato a tenersi fuori dal conflitto tentando però di aiutare a creare ponti diplomatici im-portanti tra le due fazioni), a cui si sono aggiunti Egitto, Gior-dania, Sudan, Pakistan e Marocco. Non è finita qui: nello Yemen c’è un altra grande chimera, AQAP, acronimo che corrisponde ad Al-Qaida nella Penisola araba. At-tualmente rappresentano la cellula più importante ed attiva di Al-Qaeda, nonché coloro che rivendicano l’attentato a Charlie Hebdo. Aggiungiamoci anche alcune cellule dell’ISIS e gli Stati Uniti d’America che operavano già sul territorio per bombardare Al-Qaeda con i droni e consideriamo che tutti questi personaggi (Houthi, Al-Qaeda e ISIS) si sfidano in un tutti contro tutti di-chiarandosi guerra a vicenda. La matassa è completa. L’intervento di altre nazioni nel conflitto non ha fatto altro che contribuire al marasma interno, dando possibilità ai gruppi ci-tati finora di far valere le loro intenzioni.

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Nella cartina è mostrata la situazione di frammentazione in questo Stato martoriato dalle guerre intestine:

Immaginate ora di vivere nello Yemen: quale credete sia la si-tuazione? Sono circa 300mila le persone che hanno abbando-nato il Paese. Gli sfollati sono 2,4 milioni (circa un decimo della popolazione) e, escluso qualche fortunato, il resto degli abitanti di uno Stato già di per sé tra i più poveri al mondo prima dello

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scoppio di questo conflitto ora si ritrova in condizioni disuma-ne, con una disarmante carenza di materie prime come cibo e acqua. Oltre agli scontri armati tra i ribelli Houthi, Al-Qaeda, i soldati fedeli a Saleh e le forze governative ci si aggiungono i bombardamenti a volte effettuati senza alcuna pietà da parte dell’Arabia Saudita. Un esempio è il bombardamento effettuato da parte di alcuni caccia su una sala adibita che celebrava un funerale che, seppure di un esponente dei ribelli Houthi, conta-va numerosissimi partecipanti civili. La macabra conta arriva a 144 morti e 527 feriti. O ancora, la coalizione militare araba ha tra le colpe anche un bombardamento che ha colpito un ospeda-le da campo sostenuto da Medici Senza Frontiere nel nord dello Yemen, nella località di Abs. 11 morti tra cui un membro di Msf e almeno 20 feriti.

Foto: dopo l’attacco al funerale, Khaled Abdullah, Reuters/Con-trasto

Nei primi sei mesi del conflitto le vittime ammontavano a circa 6.000 (sebbene vi fosse chi appoggiava stime più alte non con-fermate) di cui la metà civili. A un livello attuale di evoluzione tattica e delle armi tutto ciò non è concesso. Tutti noi sappia-mo quanto la guerra sia terribile e quanto queste tremende con-

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seguenze siano purtroppo ovvie e inevitabili, eppure le guerre continuano a esserci. Continua a esserci chi cinicamente passa sopra a delle vite umane per interessi che ritiene di valore più alto e chi per sentirsi in pace con se stesso o per “spirito umano” (chiamatelo come volete) legge questo o altri articoli riguardan-ti temi di questo genere e si dispiace per un minuto o due per quello che sta accadendo. In fondo, come altro reagire ? Sem-briamo quasi essere impotenti di fronte a questi avvenimenti. Nel nostro piccolo qualcosa possiamo farlo, ed è per questo che di seguito è possibile collegarsi al link di Medici Senza Frontiere che vi rimanderà alla pagina riguardante la situazione nello Ye-men dandovi la possibilità di contribuire: www.medicisenzafrontiere.it/cosa-facciamo/paesi/yemen

Foto: Mazrak Camp, nord-est dello Yemen, Irin PhotosNOTA: Questo pezzo è stato scritto con l’intenzione di farvi arrivare notizie che non sono state divulgate a suffi-

cienza dai media. Non c’è arma migliore dell’informazione per riuscire a coalizzarsi contro questi abomini.

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a cura di Dario Di Berardino

NON HANNO MAI FATTO LA GUERRALE COMUNITÀ TZIGANE IN ITALIA DI SINTI, ROM E CAMMINANTI

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LA PRESENZA IN ITALIALe comunità tzigane presenti in Italia appartengono sostanzialmente a due gruppi: i Rom più diffusi al Centro e al Sud e i Sinti che vivono soprattutto al Nord; vi sono poi i Caminanti presenti in Sicilia, un piccolo gruppo che ha come principale riferimento territoriale la provincia di Siracusa e in particolare la città di Noto. In lingua “Romanés”, la parola “Rom” è un etnonimo che significa “uomo”, termine che li differenzia dai non zingari, detti “gagè”, parola che in origine individuava i “contadini zotici e ignoranti”. Il termine “sinto” è un toponimo che deriva da “Sindh”, nome del fiume Indo situato tra India e Pakistan, regione di probabile provenienza di questa minoranza.La presenza rom in Italia ha in realtà diverse origini ed è formata da un mosaico quanto mai complesso. I Sinti, che tradizionalmente esercitavano il mestiere di giostrai, si ritiene siano presenti in Italia sin dal 1400 e si suddividono in gruppi a denominazione regionale (Sinti veneti, piemontesi, lombardi, emiliani ecc.); al gruppo Sinto di più antico radicamento si sono aggiunti all’inizio del 1900 i Sinti gackàne provenienti dalla Germania attraverso la Francia e poi, con le nuove frontiere del 1918, i Sinti estrekharja del Tirolo e krasarja (del Carso). I Rom si dividono a loro volta in numerosi sottogruppi: i Rom havati, il cui nome in lingua Romanès e in slavo significa croato, sono arrivati in larga parte dopo la seconda guerra mondiale, scappando dall’Istria e acquisendo con il trattato di Osimo la cittadinanza italiana; i Rom abruzzesi sono scappati verso l’Italia dopo la battaglia di Kosovo del 1382 e rappresentano oggi il gruppo più attivo economicamente e meglio integrato; i Rom vlah (valacchi) sono giunti a metà dell’ottocento dai principati della Moldavia e della

Valacchia dove vivevano come schiavi e a quest’ultimo gruppo si possono ricondurre i kalderasha, i lovara (con origini danubiane-carpatiche) e churara; i Khorakhané, portatori del Khorà, cioè del corano, sono arrivati dall’Albania, dal Kosovo e dalla Macedonia in due ondate, negli anni ’60 a causa della crisi economica che aveva investito quelle regioni e poi durante e dopo la guerra nell’ex Jugoslavia.

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LA LINGUA ZINGARALa lingua zingara (rómani čib o romanés) è costituita da una molteplicità di dialetti affini tra di loro, ma allo stesso tempo diversificati sul piano lessicale, fonetico e morfologico. L’affinità tra la lingua rómani e alcune lingue neoindiane fu dimostrata già verso la fine del 1700 quasi contemporaneamente da due studiosi tedeschi, Grellmann e Rüdiger e da un inglese, J. Bryant. Numerosi altri autori compirono in seguito studi convalidanti le affermazioni dei sopracitati linguisti. La rómani čib si è arricchita di numerosi termini di derivazione persiana, armena, greca e slava e di prestiti più recenti dal romeno, all’ungherese, dal tedesco e da altre lingue moderne. La lingua zingara, perciò, più di ogni altra costituisce un sistema soggetto a continui ed incessanti mutamenti, e la divisione degli Zingari in gruppi diversi, estremamente scollegati tra di loro e spiccatamente individualisti, ne ostacola un naturale processo di unificazione.

L’ADESIONE DI ROMANIA E BULGARIA ALL’UNIONE EUROPEA

Secondo l’Opera Nomadi, circa la metà dei Rom e Sinti residenti in Italia ha la cittadinanza italiana mentre l’altra metà, proveniente principalmente dai Balcani e dalla Romania, è formata da stranieri e apolidi. È probabile tuttavia che negli ultimi anni, dopo l’adesione di Romania e Bulgaria all’Unione Europea nel 2007 e gli arrivi da quei Paesi, la percentuale di Rom stranieri sia cresciuta e sia oggi superiore a quella dei Rom con cittadinanza italiana, ma non esistono dati certi in proposito. Dello stesso avviso è

anche il Ministero dell’Interno, secondo cui “l’assoluta maggioranza dei Rom proviene dalla ex Jugoslavia, dall’Albania e dalla Romania” mentre è irrilevante - seppur non inesistente - la presenza di Rom e Sinti cittadini di altri Paesi dell’Ue. In Italia, dunque, la distinzione è duplice, per gruppi e per epoca di arrivo.

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GLI APOLIDIQuesti in particolare, sono cittadini di uno Stato non più esistente (o persone che hanno perso per vari motivi la cittadinanza) e rappresentano una frazione cospicua dei richiedenti asilo e degli irregolari; si tratta per lo più, in questo caso, di Rom provenienti dalla ex Jugoslavia. Il problema che emerge immediatamente quando si affrontano le questioni che riguardano la minoranza storica dei Rom, Sinti e Caminanti e quindi anche la questione abitativa in Italia in relazione a queste minoranze, è l’assenza di dati completi e attendibili. Si stima che in Italia vi siano tra 110.000 e 150.000 persone appartenenti alle comunità summenzionate, secondo l’ANCI 130/150.000, secondo il Ministero dell’Interno 140.000, secondo la Comunità di Sant’Egidio 130.000, secondo l’Unirsi - Unione Nazionale

e Internazionale dei Rom e dei Sinti in Italia e Opera Nomadi, circa 170.000. Anche se non vi è certezza sulle cifre, si stima che gli individui appartenenti alle popolazioni Rom, Sinti e Caminanti rappresentino in Italia una percentuale sulla popolazione di poco superiore allo 0,2%, che in Europa è una delle più basse. In Romania, infatti, i Rom sono circa l’8% della popolazione (circa 1.800.000), in Bulgaria quasi l’8,5% (circa 700.000), in Repubblica Ceca il 2,4% (circa 200.000), in Grecia il 2% (circa 250.000), in Spagna l’1,6% (tra 650.000 e 800.000), in Francia lo 0,6% (tra 350.000 e 400.000).Circa un quarto dei Rom e Sinti residenti in Italia vivono in campi (40/50.000 persone), ma non esistono dati certi sul numero di Rom presenti sul territorio nazionale ed europeo, sulla loro situazione abitativa, sul livello di istruzione e sul tasso di disoccupazione, sull’aspettativa di vita e sulla mortalità infantile, sulla percentuale di stranieri in rapporto alla popolazione Rom. Si tratta di una lacuna comune anche ad altri Paesi europei (dati COSES, 2010; Open Society Foundation, 2010), che costituisce un ostacolo importante allo sviluppo di politiche e iniziative orientate alla risoluzione dei problemi.

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DIFFICOLTÀ DI IDENTIFICAZIONE E I MOTIVI DELLA MANCANZA DI DATI

“LA RACCOLTA SISTEMATICA SU BASE ETNICA NEI PAESI DELL’UE È VIETATA DA NORME COSTITUZIONALI O DI LEGGE”

Alla base di questa tara conoscitiva vi sono molteplici motivi. Innanzitutto, vi è una questione per così dire normativa e di principio: la raccolta sistematica su base nazionale di dati etnici, nella maggior parte dei Paesi dell’UE è vietata da norme costituzionali o di legge che si basano sul principio di non discriminazione oltre che su quello del rispetto della vita privata e che sono la conseguenza del retaggio storico del nostro continente, dove

in passato la raccolta di dati su base etnica ha permesso una schedatura razziale e reso possibile lo sterminio di intere minoranze da parte di alcuni Stati. In particolare, per quanto riguarda le popolazioni di origine rom, la follia delle teorie della razza è servita come base per la catalogazione di intere comunità, clan, famiglie e individui singoli, finalizzata alla loro eliminazione fisica: sono più di mezzo milione gli “zingari” sterminati nei campi nazisti (il cosiddetto “Porrajmos”). Anche l’Italia ha contribuito a questo sterminio, internando dopo il 1940 in una decina di campi di concentramento migliaia di Rom e Sinti italiani, molti dei quali poi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, furono trasferiti nei campi nazisti dove trovarono la morte. La necessità di avere dati rilevanti sulla presenza di popolazioni di origine Rom per sviluppare politiche adeguate si sta facendo tuttavia sempre più pressante. Così, nonostante l’esistenza di queste norme che si basano su questioni essenziali e non trascurabili di principio e che riposano sui sensi di colpa che trovano una valida giustificazione nella nostra storia, a livello europeo si sta facendo gradualmente strada la proposta di un censimento etnico, non solo per i Rom ma anche per le altre minoranze, al fine di consentire alle Istituzioni - attraverso la raccolta di informazioni disaggregate per singole comunità - di adottare le necessarie misure per favorire l’inclusione sociale ed economica di questi gruppi e di contrastare più efficacemente il razzismo e la discriminazione

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nei loro confronti (2000/43/EC). D’altra parte, oggi esistono gli strumenti affinché i dati etnici siano raccolti in modo tale da proteggere la privacy individuale. Inoltre, l’Unione Europea non proibisce espressamente la raccolta di dati su base etnica, anche se pone al riguardo tre condizioni e cioè che sia rispettata la privacy degli individui, che i dati siano utilizzati a livello aggregato e che servano per contrastare le discriminazioni. Vi sono però anche questioni di carattere pratico e organizzativo che rendono difficile l’elaborazione di una metodologia per un censimento di questo tipo rispetto alla popolazione rom. Si tratta, in parte, della difficoltà di contattare tutti gli appartenenti a questi gruppi dovuta alla precarietà dei loro insediamenti: il disordine abitativo e l’abitare precario rendono sicuramente più difficile il reperimento di dati e, come affermato dall’ANCI in sede di audizione presso la Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato, “la difficoltà nel censire queste persone rimanda ad un problema di carattere più generale che è quello delle condizioni abitative e di vita, in generale, in cui si trovano molte famiglie”. È la stessa precarietà degli insediamenti e della presenza zingara nel territorio a rendere difficile la rilevazione: “molti di questi insediamenti sono provvisori, irregolari o in condizioni molto critiche e ciò fa in modo che le famiglie si spostino per trovare soluzioni più stabili e sicure. Insediamenti irregolari sono frequentemente sgomberati ed in questo modo o vengono eliminati o ridotti nella loro dimensione”. Per queste ragioni “il numero di presenze in un insediamento è quasi sempre un dato approssimativo”, così come spesso lo sono le informazioni sulle caratteristiche degli abitanti (Monasta, 2004).Vi è inoltre la difficoltà di “identificare” queste persone a causa della loro scarsa propensione a dichiarare la loro origine. La stima della consistenza numerica

delle popolazioni sprovviste di territorio nel nostro Paese è particolarmente difficile anche perché mancano criteri precisi per classificare una persona o un gruppo come Zingari” (Scalia, 2006). Trattandosi di minoranze prive di territorio, costituite da cittadini italiani, stranieri comunitari (provenienti soprattutto da Romania a Bulgaria) ed extra-comunitari (provenienti soprattutto dai Paesi balcanici martoriati dalla guerra nei primi

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anni ’90) oltre che da apolidi, ed essendo inapplicabili altri criteri di identificazione (linguistico, religioso, ecc.) vista la grande varietà del mosaico di queste popolazioni, l’unico strumento possibile per attribuire l’identità Rom ad una persona è infatti l’autoascrizione: il problema è che queste persone, a causa dei pregiudizi che gravano su queste minoranze, tendono ad attuare delle strategie “mimetiche” e a non dichiarare la loro origine, per evitare le discriminazioni e diminuire le possibilità di dover affrontare le conseguenze di un “rifiuto sociale”.

LE STIME DEGLI ENTI LOCALI

“In questo momento in Italia e in molti altri Paesi dell’UE sono soprattutto gli enti locali a rappresentare

una fonte preziosa di dati e di conoscenza”Solo grazie alle stime che gli uffici comunali preposti che riescono a fornire dati sul numero e sulla tipologia dei Rom presenti negli insediamenti locali. Si tratta di informazioni preziose ma spesso incomplete, che poggiano su differenti basi metodologiche e che per questo motivo andrebbero sistematizzate sulla base di un piano nazionale e di una procedura da concordare a livello centrale e da eseguire a livello locale. Nondimeno, le informazioni in possesso dei Comuni, pur essendo caratterizzate da una notevole frammentarietà, costituiscono la base dati da cui si potrebbe partire per intraprendere un’indagine compiuta a livello nazionale. Ovviamente, la summenzionata carenza di dati rende problematica anche qualsiasi approfondita indagine numerica che riguardi “l’abitare” di Rom, Sinti e Caminanti in Italia. In particolare, non è semplice determinare

il numero di campi e di altri insediamenti con basse condizioni di vita e delle persone che li abitano, anche se il censimento dei campi avviato in alcune Regioni dal Ministero dell’Interno a partire dal 2008, insieme alle informazioni fornite dagli enti locali, rappresentano delle fonti da cui poter partire. I censimenti, tuttavia, sono stati condotti solo in alcune regioni ed hanno pertanto una caratterizzazione territoriale e incompleta.

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D’altra parte, la tematica dell’abitazione riveste un ruolo fondamentale in qualunque indagine sociale riguardante i Rom.

“NO DATA - NO PROGRESS”“Una norma applicata in inghilterra concede o limita l’aiuto

personale o familiare alle persone di etnia zingara che si prestano alla identificazione”

“SEGREGAZIONE ABITATIVA”Tra gli indicatori per il monitoraggio delle politiche in favore dell’integrazione dei Rom, si inserisce anche l’indicatore della “segregazione abitativa”, che comprende sub-fattori come la bassa qualità delle abitazioni, il livello di povertà, l’ubicazione delle stesse, il sovraffollamento e l’accesso ai servizi pubblici. Così intesa, la segregazione abitativa ha una correlazione diretta con l’accesso al lavoro, ai servizi socio-sanitari e all’educazione e rappresenta un parametro essenziale per la comprensione del livello di inclusione sociale ed economica di Rom e Sinti. È quindi quanto mai necessario al fine di orientare le politiche di integrazione, acquisire una conoscenza più approfondita dei dati che riguardano le condizioni di vita dei Rom e Sinti nei campi del nostro Paese.

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Il gioco dell’oca degli sgomberi romani nel 2014

“Oltre 230 sgomberi forzati a Roma e Milano nel 2014. Nuovi campi nomadi e 443 discorsi di odio contro i rom, di cui

l’87% da parte di politici.”

Rapporto annuale dell’Associazione 21 luglio su rom, sinti e camminanti in Italia

A distanza di 3 anni dal varo della Strategia nazionale per l’inclusione di rom, sinti e camminanti (adottata nel febbraio 2012 dal governo italiano in seguito alla Comunicazione 173/2011 della Commissione europea che fa rientrare l’inclusione dei rom tra le priorità dell’Ue per il 2020), le condizioni di vita di queste comunità non sono cambiate molto. È quanto emerge dal Rapporto annuale 2014 dell’Associazione 21 luglio. “Nel 2013, dopo la conclusione dello ‘Stato di emergenza nomadi’, una nuova stagione sembrava profilarsi all’orizzonte – scrive Carlo Stasolla, presidente della 21 luglio nella prefazione al rapporto – In realtà, l’approccio emergenziale ha continuato a rappresentare il leitmotiv di ogni azione pubblica”. Basta dare un’occhiata ai numeri degli sgomberi: nel 2014 a Roma ne sono stati documentati 34 con 1.135 persone coinvolte per una spesa stimata in oltre 1,3 milioni di euro, mentre a Milano nel periodo gennaio-settembre 2014 ne sono stati registrati 191 con 2.276 persone coinvolte. Senza contare che, nonostante tra le indicazioni dell’Ue ci sia il superamento dei campi, in Italia si continua a progettarne di nuovi, di cui 2 solo a Roma. A questo si aggiunge poi l’antigitanismo radicato nel nostro Paese, anche per responsabilità di politici e operatori dell’informazione: nel 2014 su 443 discorsi di odio contro i rom e i sinti (di cui 2014 gravi) l’87% proveniva da esponenti politici mentre circa il 70% è stato registrato nelle 5 Regioni ‘ex emergenza’ (Lombardia, Lazio, Campania, Veneto, Piemonte) dove c’è il maggior numero di campi autorizzati.

INTOLLERANZA E RAZZISMO

“L’antiziganismo non è un fenomeno a impatto neutrale, non si limita a una mera questione di opinione, ma ha gravi ripercussioni che lo connotano come un fenomeno altamente pericoloso, e quindi come tale deve essere considerato una minaccia per una società democratica effettivamente plurale e inclusiva”.

I NUMERINell’immaginario collettivo italiano, la presenza dei rom e dei sinti è ritenuta numericamente rilevante in quanto percepita come fastidiosa, molestatrice e attentatrice alla pubblica sicurezza. I numeri però ci dicono il contrario: secondo le stime del Consiglio d’Europa in Italia vivono tra i 120 mila e i 180 mila rom e sinti, pari allo 0,25% della popolazione totale (una delle percentuali più basse d’Europa, dove vivono 12 milioni di rom e sinti di cui 6

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milioni nell’Unione europea) di cui, nonostante il ripetuto etichettamento dei media, solo il 3% persegue uno stile di vita itinerante. “Se poi scendiamo nel dettaglio, scopriamo che i rom e i sinti ‘visibili’ sono coloro che vivono il disagio abitativo che, in Italia, equivale alla probabile condanna a una vita all’interno dei cosiddetti campi nomadi – scrive Stasolla – La percentuale precipita così verso un misero 0,06% in quanto riferita ai 40 mila rom e sinti che vivono in insediamenti formali e informali, sui circa 180 mila totali. Uno 0,06% identificato negli anni precedenti come una ‘emergenza nazionale’ e per il quale l’Italia si è impegnata a stendere davanti all’Europa una Strategia nazionale per l’inclusione”. Circa la metà dei rom e sinti che vivono in Italia ha la cittadinanza, mentre quasi il 60% ha meno di 18 anni. Si stima che siano 15 mila i minori a rischio di apolidia. La maggior parte di rom e sinti si concentra nel Lazio, in Lombardia, in Calabria e in Campania. Si registrano numeri consistenti anche in Piemonte, Abruzzo e Veneto. Un quarto dei rom che risiede nei campi vive in Lazio, mentre si arriva al 51% se si prendono in considerazione anche Lombardia e Piemonte.

L’ATTUAZIONE DELLA STRATEGIA

Se già nella prima valutazione sullo stato di attuazione delle Strategie nazionali nei Paesi membri effettuata dalla Commissione europea nel 2012, l’Italia non viene riportata come esempio di “Good practice” in nessuna delle 4 aree di intervento previste: “ISTRUZIONE - ALLOGGIO - SALUTE - IMPIEGO”, in quelle del 2013 e 2014, nonostante alcuni aspetti positivi e passi avanti, continuano a risaltare carenze. In particolare, nel coinvolgere la società civile, nel coordinamento tra realtà nazionale e locale, nei meccanismi di monitoraggio e nello stanziamento di finanziamenti adeguati. La stessa Commissione straordinaria per la tutela e la promozione dei diritti umani del Senato aveva evidenziato nel 2013 un forte ritardo nell’attuazione della Strategia, ritardo che a fine 2014 non risulta essere colmato. In particolare, si rileva una disomogeneità nell’applicazione a livello territoriale e un elevato grado di discrezionalità da parte degli enti locali nel declinare le misure previste a livello centrale. A febbraio 2015

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risultano attivi solo 10 Tavoli regionali per l’applicazione della Strategia nazionale a livello locale sui 20 previsti (Umbria, Toscana, Emilia-Romagna, Molise, Liguria, Marche, Piemonte, Calabria, Campania, Lazio). In 3 casi su 10 (Umbria, Liguria, Lazio) l’istituzione del tavolo non ha significato l’avvio di nessuna attività. Inoltre, tra i Tavoli attivati mancano quelli di 2 regioni ‘ex emergenza’ come Lombardia e Veneto, mentre quello del Lazio è stato istuito ma mai convocato. Nel 2013 e nel 2014 si è registrato un crescente consenso sulla necessità di attuare politiche effettivamente inclusive per rom e sinti e in particolare sul definitivo superamento dei ‘campi nomadi’. Ma, come si legge nel rapporto, “il passaggio dagli impegni ai fatti risulta intermittente e in forte ritardo”.

ANCORA LA COSTRUZIONE DEI CAMPI NOMADI IN ITALIA

“ANCORA GLI ENTI LOCALI E REGIONI SCELGONO DI SPENDERE MILIONI DI EURO PER CONTINUARE A

COSTRUIRLI”

Nonostante la Strategia si pronunci al riguardo in maniera chiara e sia documentato che i campi provocano violazione dei diritti umani, azzerano le opportunità di uscita da una condizione di marginalizzazione e siano insostenibili dal punto di vista economico. Nel 2013 a Roma sono stati spesi oltre 22 milioni di euro per mantenerli), sono numerosi i Comuni che perseverano nel costruirne di nuovi. Dal 2012 (anno della Strategia nazionale), sono stati costruiti nuovi insediamenti per:

soli rom a Roma (Best house rom, 2012, Barbuta/LeroyMerlin e Nuova Cesarina)

Giuliano (Masseria del Pozzo, 2013) Carpi (ex scuola di Cortile e Magazzino ex colombofila, 2014) Milano (Lombroso e Martirano, 2013 e 2014) Operazioni che hanno riguardano circa 1.600 rom e sinti, rialloggiati in

queste aree con una spesa di circa 13 milioni di euro (escluse le spese di gestione)

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Latina5stelle magazine n.4/2016Latina5stelle magazine n.6/2016

Al momento risultano inoltre in costruzione insediamenti per soli rom:Latina (Nuovo Al Karama)Lecce (Nuovo Panareo) Merano (Nuova area sinti) Cosenza (Tensostruttura).

Lavori che, una volta terminati, interesseranno 350 persone per una spesa di 3,5 milioni di euro (escluse le spese di gestione). Sono state effettuate ristrutturazioni straordinarie con trasferimento temporaneo dei residenti in altra sede:

Asti (via Guerra) Savona (Fontanassa) Vicenza (via Cricoli)

mentre sono programmate:Torino (via Germagnago e strada Aeroporto).

In totale coinvolgono 685 persone per una spesa di 1,5 milioni di euro. Infine, sono in fase di discussione avanzata progetti per nuovi insediamenti per soli rom a Roma.

Pistoia (Brusigliano) Napoli (Cupa Perillo)

per un totale di circa 1.500 persone con finanziamenti in discussione per oltre 20 milioni di euro In un 2014 carico di contraddizioni.

Tra gli amministratori si dovrebbe produrre un cambiamento e una più diffusa consapevolezza sulla necessità di superare i campi nomadi, in più bisognerebbe essere in grado di produrre una nuova sensibilità nell’opinione pubblica nel condannare forme di razzismo e discriminazione verso i rom e un nuovo gruppo di rappresentanza incarnato da giovani rom e sinti che si stanno formando a prendere in mano la loro esistenza e quella della loro comunità”.

NOTA: questa raccolta di dati è solo indicativa ed in costante modificazione in quanto le comunità e i singoli nomadi hanno il diritto a spostarsi in quanto persone che sono membri o sono provenienti dai paesi della comunità europea.

NON HANNO MAI FATTO LA GUERRALE COMUNITÀ TZIGANE IN ITALIA DI SINTI, ROM E CAMMINANTI

a cura diLuca Pietrolucci

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Li chiamano “populismi e movimenti di protesta”, ma il loro ruolo si è molto modificato con il passare del tempo. Ormai si parla di movimenti come i pirati che sono anche gruppi parlamentari europei; come lo è anche UKIP, che viene definito:”partito populista”. Ma come mai si definiscono con la stessa parola due soggetti politici così differenti?

Nuovisoggettipolitici

in Europa

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Diversi i programmi: il partito pirata vuole introdurre riforme per migliorare la libera informazione, mentre i membri di UKIP si definiscono “indipendentisti”, il loro programma è strutturato in base a questo ideale e in più sono di destra! La realtà è che sono semplicemente idee alternative, nate da relativamente poco (si potrebbero citare Podemos in Spagna e i 5 stelle in Italia), che vengono definite “populiste” in maniera denigratoria e dispregiativa. Ultimamente, stanno vincendo elezioni e consultazioni democratiche (come M5S e Ukip), oppure vengono incaricate di fare governi (Pirati)! Forse è il tempo che i partiti tradizionali si pongano una domanda.

UKIP - UNITED KINGDOM INDIPENDENCE PARTY (GRAN BRETAGNA): 38.000 Iscritti

Partito fondato nel 1993 da Alan Sked (professore di storia internazionale alla London School of Economics), UKIP è un partito n a z i o n a l i s t a , collocato a destra, che basa la propria ideologia

sull’euroscetticismo e sul nazionalismo liberale; fa parte dell’eurogruppo EFDD (EUROPEAN of FREEDOM and DIRECT DEMOCRACY) che è lo stesso del M5S.

Sono principalmente due i risultati degni di nota di questo partito: le elezioni europee del 2014 dove hanno ottenuto il 27,5% risultando il primo partito e la BREXIT. Dei nuovi movimenti e partiti europei, UKIP è l’unico che ha raggiunto lo scopo per cui è nato: l’uscita dello UK dall’UE, anche se la campagna elettorale del referendum è stata caratterizzata da bufale sia da parte del LEAVE che del REMAIN. Nigel Farage (leader di UKIP) è stato costretto a scusarsi in diretta TV per aver promesso 500 milioni in più alla sanità.

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PODEMOS (SPAGNA): 389.000 Iscritti

Partito di area socialista di sinistra fondato nel 2014 da alcuni ex-esponenti del movimento di protesta INDIGNADOS. Podemos, ormai secondo partito spagnolo per preferenze, si inserisce a pieno titolo tra i partiti che si oppongono alle politiche di austerity della UE e che propongono politiche sociali più espansive. Punti fondanti del programma riguardano la democrazia diretta, la difesa dei diritti sociali e dei diritti dei lavoratori e l’istruzione; a differenza di UKIP che basa la propria forza e le proprie azioni politiche su una solida presenza nel Parlamento europeo, Podemos occupa soltanto 8 seggi. Fa parte del Gruppo Europeo Gauche Unitaire Europeene (Sinistra Unitaria Europea).

RISULTATO ELEZIONI EUROPEE (2014)

La coalizione UNIDOS PODEMOS

Attualmente Podemos è il secondo partito spagnolo e amministra città importanti come Madrid e Barcellona. A seguito della ripetizione delle elezioni politiche nel 2016 (causa l’impossibilità di formare un governo da parte del Partito Socialista e del Partito Popolare), Podemos ha dato vita a una coalizione con il partito di Sinistra Unita che comprende anche i partiti locali: Compromis (Catalogna), En Marea (Galizia) e ICV (Partito dei Verdi della Catalogna). Merita una nota a parte l’ultimo elencato: ICV è un partito che si definisce, nell’ordine, anticapitalista, ecosocialista, ecomarxista, econazionalista di sinistra, che lotta per la creazione di un mondo più ecosostenibile formato da uomini e donne liberi e uguali. Nella ripetizione del 2016 la coalizione ha ottenuto il 21,15% dei voti occupando 71 seggi alla Camera e 16 al Senato. I parlamentari della coalizione si sono rifiutati di formare un governo con il Partito Popolare e il partito Ciudadanos, mentre ha mostrato segni di apertura nei confronti del Partito Socialista.

L’IDEOLOGIA: tra le sue proposte di politica economica, di rilevanza vi sono un piano per il risparmio energetico, il passaggio a fonti di energia rinnovabile

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e l’autoconsumo elettrico, il trasporto pubblico gratuito per i poveri, la creazione dei science shop per una ricerca scientifica che parta dalle esigenze sociali, l’aumento dell’imposizione fiscale sui redditi più alti e l’aumento della progressività dell’IVA, la creazione di una banca pubblica, la possibilità di ristrutturare il mutuo per le famiglie in difficoltà, l’etichetta etica, gli investimenti pubblici nell’economia collaborativa, l’aumento del salario minimo, l’introduzione del reddito minimo garantito, la settimana lavorativa di 35 ore, la pensione a 65 anni e l’aumento selettivo dei contributi previdenziali. Altre proposte sono l’introduzione di una Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, la partecipazione dei cittadini al processo legislativo (democrazia diretta) e alla gestione dei servizi pubblici, le sanzioni amministrative proporzionate al reddito, un piano strategico di migrazione della pubblica amministrazione al software libero e ai dati aperti.

L’INTERNAZIONALE DEI PARTITI PIRATA

Vengono denominati come Partito Pirata (PP) tutti i movimenti e partiti politici registrati a livello internazionale sotto questo Logo. Tutti questi soggetti politici riuniti insieme formano l’Internazionale dei Partiti Pirata (fondata nel 2006).

Nel 2009, l’Internazionale ha ricevuto lo status di organizzazione non governativa (ONG), e attualmente comprende i partiti pirata di tutti i paesi UE e di Canada, Australia, Tunisia, Giappone, Kazakhistan, Serbia, Bulgaria, Grecia, Irlanda e Svizzera, in più risulta attivo ma non registrato ufficialmente negli USA e in Russia, in tutta l’America Latina e Centrale, nell’Europa dell’Est, in Portogallo e in Turchia. È guidata da un consiglio direttivo, i cui co-presidenti sono Marcel Kolaja (Repubblica Ceca) e Samir Allioui (Paesi Bassi). Nel 2013 è stato fondato il PPE (Partito Pirata Europeo) che unisce i partiti pirata della UE e opera principalmente nel Parlamento Europeo.

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IL PARTITO PIRATA ISLANDESE

LA POETESSA: Birgitta Jónsdóttir, leader del Partito Pirata Islandese

Sicuramente rilevante è la storia del Partito Pirata dell’Islanda. A seguito delle elezioni del 28 ottobre 2016 e grazie a un accordo politico con altri partiti d’opposizione anti-establishment, la poetessa leader del Partito Pirata Islandese sarebbe potuta diventare premier.

Le elezioni anticipate erano state indette ad agosto a seguito delle dimissioni del predecessore Sigmundur Davíð Gunnlaugsson, travolto da uno scandalo di evasione fiscale legato ai PANAMA PAPERS. I Pirati si dicono pronti a prendere le redini del Paese, e hanno già redatto una nuova costituzione “partecipativa”,

che prevede misure come la nazionalizzazione delle risorse naturali e nuove regole per il Paese. Il Partito Pirata spera di consolidare soprattutto il voto dei giovani con un programma vario: lotta alla corruzione e per la libertà di internet, depenalizzazione delle droghe. Promette anche un referendum sulla ripresa dei negoziati di ingresso nell’Unione europea, bloccati dai partiti euroscettici.

STATUTO DELL’INTERNAZIONALE PIRATA

Il Partito Pirata Italiano promuove l’Internet Ungovernance Forum insieme a tutte quelle realtà e reti, territoriali e nazionali, che si battono per la neutralità della rete, libertà d’espressione e conoscenza, privacy e democrazia liquida.

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INTERNET UNGOVERNANCE FORUM

L’Internet Governance Forum, evento “istituzionale” cui prendono parte rappresentanti di governi e aziende: i soggetti che sono i principali responsabili degli attuali problemi della Rete.

Le priorità da affrontate sono la censura, la sorveglianza e la carenza di privacy, la presenza di posizioni dominanti e i tentativi da parte di alcuni di quei Governi presenti all’IGF di approvare leggi restrittive, anacronistiche e ad esclusivo vantaggio di lobby e multinazionali. Ad uno di questi forum in Italia ha partecipato Rodotà (ex candidato per la presidenza della repubblica per il M5S) in qualità di commissario per la carta dei diritti di INTERNET.

DEMOCRAZIA LIQUIDA

La Democrazia liquida è una variante della Democrazia Diretta. Nella democrazia liquida i cittadini sono liberi di scegliere se partecipare o meno alla vita politica, oppure se delegare il proprio voto a una persona che li rappresenti in sede di votazione. Il rappresentante però ha gli stessi diritti del cittadino che può in qualsiasi momento scegliere di assumere decisioni autonome rispetto al proprio delegato. Come evidenziato, la democrazia liquida permette la possibilità di applicare la democrazia diretta. È evidente che la democrazia diretta è facilmente realizzabile in ambiti ristretti, con gruppi di aventi diritto di qualche centinaio di persone (es. circoli). Quando però gli aventi diritto si fanno più numerosi, emergono subito seri problemi pratici: per riunirsi, proporre iniziative, fare dibattito ed eseguire votazioni. Anche per questi problemi pratici, storicamente le democrazie statali (con milioni di aventi diritto) si sono evolute nella forma della democrazia rappresentativa. Ciononostante, recentemente, con lo sviluppo delle tecnologie informatiche e di internet, sì è palesata la seria possibilità tecnica di gestire un sistema democratico diretto, con milioni di aventi diritto. Un esempio di applicazione di questo sistema è quello messo in opera dal Partito Pirata Tedesco e dal Partito Pirata Italiano. Grazie alla partecipazione democratica di tutti gli iscritti, questi sistemi sono destinati a definire le iniziative che i loro rappresentanti portano negli organismi istituzionali dei rispettivi Paesi. Per la gestione pratica della democrazia liquida interna, utilizzano una piattaforma internet realizzata attraverso il software open source LiquidFeedback, che implementa un sistema di voto delegato.

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Latina5stelle magazine n.6/2016DARIO fo “l’ultimo mistero buffo”Nuovi soggetti politici in Europa

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ALBA DORATA

Alba Dorata è un partito di estrema destra greco nato nel 1993 e venuto alla ribalta negli ultimi anni a causa della tremenda crisi economica che ha colpito la Grecia. Nello statuto del partito si legge che solo “chi è Ariano di sangue e Greco di discendenza” può entrare in Alba Dorata. Per questi motivi il partito è stato accusato di antisemitismo. Nel corso di un’intervista resa al giornalista Stavros Theodorakis (in seguito fondatore del partito To Potami), il leader di Alba Dorata, Nikólaos Michaloliákos, circa la propria posizione sull’omosessualità, ha affermato che “gli omosessuali sono una parte malata e anormale della società greca…Io non mi sentirei per niente orgoglioso se fossi omosessuale”. Altri concetti presenti nello statuto di Alba Dorata sono: il nazionalismo, visto come “unica e vera rivoluzione”; l’avversione verso la “partitocrazia tradizionale”; la ferma condanna della plutocrazia delle banche e della finanza internazionale; un forte statalismo.

Le posizioni politiche del partito, così come vengono riportate sul sito ufficiale, sono la completa risoluzione del cosiddetto “memorandum”; l’istituzione di una commissione d’inchiesta sugli sprechi di denaro pubblico; l’eliminazione dei finanziamenti pubblici ai partiti; la rimozione dei privilegi dei parlamentari (con conseguente limitazione del loro stipendio); la nazionalizzazione immediata di tutte le banche greche che abbiano ricevuto aiuti dal governo; la mobilitazione dell’esercito greco alle frontiere per eliminare il fenomeno dell’immigrazione clandestina; l’arresto immediato e l’espulsione di tutti gli immigrati clandestini; l’introduzione della pena di morte per lo spaccio di droga; l’abolizione dei sindacati; l’applicazione dei diritti legati alla cittadinanza ai greci e ai loro diretti discendenti; l’uscita dall’Unione Europea e la lotta serrata ai poteri occulti internazionali che opprimono il popolo greco; la nazionalizzazione delle risorse naturali; una ripresa economica generale che permetta alla Grecia di uscire dal baratro della crisi, nazionale e internazionale.

I movimenti e i partiti “populisti” non sono una formazione omogenea come si vuol far credere, bensì sono soltanto una diversa risposta in Paesi che hanno differenze culturali, sociali ed economiche totalmente differenti. Si passa dal nazionalismo di estrema destra (Alba Dorata) a partiti che si definiscono Socialisti e di Sinistra (Podemos) a movimenti che si distaccano totalmente dalla definizione tradizionale di partito (Internazionale Pirata e M5S).

DARIO fo “l’ultimo mistero buffo”

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È giusto screditare questi movimenti e bollarli come populisti quando in realtà sono formazioni politiche totalmente differenti l’una dall’altra? L’unica cosa che hanno in comune (non tutti) è la democrazia diretta e la maggiore partecipazione alla vita politica dei cittadini, elementi che in un momento di crisi politica e di idee come quella attuale possono risultare l’arma in più per evitare che partiti come Alba Dorata (che ha palesi simpatie per il fascismo e la dittatura di Ioannis Metaxas) prendano il controllo. Creare una vicinanza tra soggetti politici democratici e e soggetti di stampo estremistico non fa altro che acuire il conflitto sociale e, di rimbalzo, favorire partiti come Alba Dorata o il Front National, partito “storico” in Francia che è salito alla ribalta negli ultimi tempi grazie alla figura carismatica di Marine Le Pen e a causa delle politiche sociali scellerate dei Socialisti, e che rischia di vincere le elezioni transalpine.

DARIO fo “l’ultimo mistero buffo”

a cura diEmanuele Coletti

QUEL “Sì” AL REFERENDUM CHE PIACEVA TANTO A WASHINGTON E AI MERCATI INTERNAZIONALI

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Era il 28 maggio 2013 quando JP Morgan pubblicava il documento “The Euro area adjustment: about halfway there” in cui auspicava il superamento delle attuali costituzioni degli Stati dell’Europa meridionale definite troppo “socialiste” e quindi incapaci di assecondare i mercati internazionali. Delle 16 pagine in formato pdf un passaggio è più rilevante di altri (pagg.12-13): I sistemi politici nella periferia (sottointeso d’Europa) furono istituiti all’indomani delle dittature, e furono caratterizzati da quell’esperienza. Le Costituzioni tendono a mostrare un’ influenza socialista, riflettendo la forza politica che i partiti di sinistra ottennero dopo la caduta del fascismo. Tali sistemi politici attorno alla periferia manifestano diverse delle seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; deboli stati centrali rispetto alle regioni; tutela costituzionale dei diritti dei lavoratori; sistemi di costruzione del consenso che alimentano il clientelismo politico; e il diritto a protestare se cambiamenti indesiderati dovessero esser apportati allo status quo politico. I limiti di questa eredità politica sono stati rivelati dalla crisi. I Paesi attorno alla periferia sono stati parzialmente apprezzati nel produrre agende di riforme economiche e fiscali, con governi limitati dalla Costituzione (Portogallo), potenti regioni (Spagna), e la crescita di partiti populisti (Italia e Grecia).C’è una crescente percezione dell’allargamento di questo problema, sia nel cuore che nella periferia. Il cambiamento sta iniziando a prendere piede…Il test chiave negli anni a venire sarà rappresentato dall’Italia, dove il nuovo governo chiaramente ha un opportunità nell’impegnarsi in significative riforme politiche. Ma, entro i termini dell’idea di un percorso, il processo di riforme politiche è appena iniziato. A quanto pare, negli ultimi anni, la diplomazia e le classi politiche dei più importanti Paesi occidentali non sarebbero in grado di elaborare un pensiero autonomo dai grandi soggetti finanziari. Lo scorso 13 settembre, infatti, l’ambasciatore statunitense in Italia John Phillips, durante un convegno sulle relazioni transatlantiche organizzato dall’Istituto di Studi Americani tenutosi a Roma, esplicitava il suo incoraggiamento nei confronti degli italiani a votare affermativamente nei confronti della riforma costituzionale. Una vittoria del “No” al referendum, secondo Phillips, sarebbe un passo indietro per gli investimenti stranieri in Italia e quello che serve all’Italia è la stabilità e le riforme assicurano stabilità, per questo il referendum apre una speranza. Molti Ceo di grandi imprese Usa guardano con grande interesse al referendum. La vittoria del Sì sarebbe una speranza per l’Italia, aggiungendo, infine, che l’affermazione del testo costituzionale Renzi-Boschi incontrerebbe anche il favore della Casa Bianca.Lo stesso giorno, Edward Parker, managing director dell’agenzia di

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valutazione e rating Fitch, rincarava la dose durante una conferenza a Londra affermando che Se ci fosse un voto `No´, lo vedremmo come uno shock negativo per l’economia e il merito di credito italiano.Fu così che, durante la cena avvenuta il 18 ottobre a Washington tra Barack Obama e il Presidente del Consiglio italiano, non destava alcuna sorpresa negli osservatori l’endorsement del Presidente degli Stati Uniti nei confronti di Renzi: Non voglio parlare della consultazione né interferire, ma le riforme fatte da Matteo sono giuste e coraggiose. Io faccio il tifo. E ancora: Il sì può aiutare l’Italia.Addirittura, il 21 novembre, il britannico Financial Times attraverso la firma di Wolfgang Munchau paventava un’uscita dall’Euro dell’Italia in caso di vittoria del No: una sequenza di eventi che metterebbe in dubbio l’appartenenza dell’Italia alla zona euro. Lo stesso Ft tornava all’attacco una settimana dopo, ricordando il rischio per otto banche italiane in caso di mancata entrata in vigore della riforma Boschi. In maniera non molto difforme, lo stesso giorno il Wall Street Journal, che aveva già definito a Ferragosto la data del 4 dicembre come la “Brexit italiana”, usciva con un articolo in prima pagina in cui trattava le eventuali ricadute sui mercati in seguito a un esito negativo del referendum. Secondo Riva Gold e Giovanni Legorano, sarebbe avvenuta una caduta dei titoli bancari italiani e un ulteriore indebolimento dell’Euro. Il WSJ, citando l’analista di Deutsche Bank Wolf von Rotberg, prevedeva che i risultati referendari del 4 dicembre avrebbero impostato il sentiment per tutto il 2017 del clima politico e degli investimenti in Italia.

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Questa sequenza di dichiarazioni creava un contesto tale da influenzare il giudizio di molti analisti nello spiegare il -1,81% con cui la Borsa di Milano chiudeva lo scorso 28 novembre. In molti attribuivano le turbolenze di mercato ai timori degli operatori in caso di esito negativo per la proposta referendaria; citando proprio un ex Presidente statunitense (Franklin Delano Roosevelt) durante il suo discorso di insediamento in piena Grande depressione L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa. Non potevano essere poi le pubblicazioni di Jp Morgan, a dire il vero piuttosto superficiali e approssimative, a trasformare una paura in minaccia o ostacolo reale. Dopo il 4 dicembre l’andamento della borsa di Milano si andava infatti stabilizzando. Lo stesso contesto politico-internazionale sembra oggigiorno largamente mutato all’indomani della vittoria alle presidenziali americane di Donald Trump, e le vicende italiane appaiono per il momento residuali agli occhi della Casa Bianca.

Il 4 dicembre e la distribuzione del voto

Due criteri, se combinati tra loro, possono risultare utili per la lettura della percentuale di afflusso ai seggi elettorali nonché della distribuzione delle scelte referendarie dello scorso 4 dicembre: quello politico, ovverosia quello della tradizione del consenso di singole forze politiche sul territorio, e quello economico, vale a dire il reddito per abitante in ogni singola provincia e comune. A tal riguardo, uno studio della Fondazione Cattaneo condotto sulla distribuzione del voto referendario del 4 dicembre nei vari distretti di Bologna, dimostrava che proprio nella popolazione a fascia di reddito più bassa (sotto i 18.000 euro di reddito annuo) la scelta si orientava maggiormente verso il “No”, mentre nelle fasce a reddito intermedio (tra i 18.000 e 25.000 euro annui) e più alte (superiori ai 25.000 annui) gli elettori manifestavano la propria preferenza nei confronti della proposta governativa (fonte: http://www.cattaneo.org/press_release/referendum-sociale-o-costituzionale-torna-il problema-delle-periferie-per-il-pd/ ).

Allargando lo spettro a tutta la Penisola, la percentuale nazionale di presenza ai seggi è stata del 65,47% con un 59,11% a favore del No e un 40,89% per il Sì. In uno dei territori più ricchi per reddito pro capite (il più ricco in assoluto se comparato alle altre province ordinarie), nonché uno dei più atipici, forse il meno italiano, ovverosia la Provincia Autonoma di Bolzano, si registra un’affluenza al voto pari al 67,4%, leggermente superiore alla media nazionale, e la più schiacciante vittoria del Sì, il 63,69% contro il

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36,3% per il No. Tutt’altro clima nella più italiana Provincia Autonoma di Trento, il cui capoluogo di provincia è risultato quest’anno il più vivibile dopo Mantova. Qui l’affluenza è risultata pari al 72,23%, altamente superiore alla media nazionale, e il No ha prevalso col 53,47%: una percentuale che ricalca grossomodo quella di una qualsiasi provincia veneta o lombarda.

In tal senso, in Lombardia, la Regione più ricca per reddito pro-capite, se escludiamo la Valle d’Aosta e le due Province autonome, e popolosa d’Italia, si è registrata un’affluenza pari al 73,11% con una vittoria del No pari al 55,49%. Nella provincia di Milano il risultato è più equilibrato (52,62% del No contro il 47,31% del Sì), mentre nella provincia il cui capoluogo risulta più vivibile per qualità della vita abbiamo un No che raggiunge il 53,97%. Più macroscopiche le vittorie del No nell’alpina Sondrio, nelle province di Pavia, Brescia, Como e Varese dove abbiamo rispettivamente il 60,3%, il 58,22%, il 58,21%, il 58,09% e il 58,00%.

Nella Regione del boom economico degli anni ’90 si registrano, in singoli territori, percentuali di affluenza altissime con altrettanto evidenti vittorie del No: nella provincia di Padova hanno votato il 78,9% degli iscritti con un No che supera il Sì con il 61,9% contro il 38,06%; in quella di Vicenza abbiamo il 78,5% di partecipazione con addirittura un 63,13% a favore del No. Nella provincia del capoluogo di Regione, Venezia, il No ha prevalso con un 61,72%, in linea con la media regionale del 61,94%. Parliamo di aree con reddito medio pro capite di gran lunga superiore a quello nazionale, ma in cui la crisi della piccola media e impresa negli ultimi 8/9 anni ha fatto sentire i suoi effetti.

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Nella quarta regione d’Italia per reddito pro-capite, l’Emilia-Romagna, dove storicamente si registra un’alta tendenza della partecipazione alla vita pubblica, si raggiunge la percentuale più alta d’affluenza: il 77,11%. Qui, però, è necessario il criterio della tradizione politica per interpretare le scelte dell’elettorato: vince il Sì di misura con il 50,39%. Nella provincia di Bologna il Sì vince con il 52,30%, mentre nella più settentrionale Piacenza il Sì non raggiunge neppure il 43%. Analogamente in alcune porzioni della Romagna, come Rimini, il Sì si ferma al 46,71%.

Il criterio della tradizione del consenso attorno al Partito Comunista Italiano nonché la storica influenza sulla popolazione da parte di determinati soggetti economico-finanziari può spiegare i dati riscontrati in Toscana, dove il Sì prevale con il 52,51% contro il 47,49% per il No. Nella provincia di Firenze di Matteo Renzi il Sì stravince con il 57,71%, nella Provincia di Arezzo di Maria Elena Boschi e di Banca Etruria abbiamo il Sì al 54,07%, in quella di Siena dove il Monte dei Paschi di Siena ha rappresentato per secoli il motore per l’economia locale si arriva al 57,18%. Risultati in controtendenza nella meridionale provincia grossetana dove il No ha prevalso col 53,1% e nelle cattoliche Lucca e Massa-Carrara dove il No ha ottenuto rispettivamente il 53,45% e il 58,47%.

Nella regione Lazio abbiamo una netta prevalenza del No, ma le dimensioni della vittoria assumono dimensioni dilaganti nelle aree più meridionali dove le percentuali di disoccupazione giovanile incidono negativamente sui redditi delle famiglie. Nella provincia di Roma il No supera il Sì con il 61,95% contro il 38,05%, ma nella seconda provincia più popolata, quella di Latina, il No arriva al 68,97%. Non molto diversi i numeri nel frusinate: il Sì si ferma al 31,95%.

Le province meridionali del Lazio servono come anticamera per l’analisi del voto in alcune province campane. In quella di Caserta il Sì si arresta al 28,31% e non molto diversamente in quella di Napoli, dove le percentuali di disoccupazione superano grandemente da molti anni il 20%, il Sì viene schiacciato da un voto di dissenso: 29,62% per il Sì e 70,38% per il No. Le manovre del Governatore campano ed ex sindaco salernitano Vincenzo De Luca non sembra abbiano inciso più di tanto sui risultati referendari nella sua provincia d’appartenenza dato che il No ha registrato il 64,69%.

In Puglia prevale il No col 61,16%, ma in questa vasta e composita area i dati del dissenso nei confronti della proposta renziana risultano abnormi

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nel barese (68,02% di No) e nel tarantino (68,48%), dove gli scandali e le vicende dell’Ilva hanno animato la vita e il dibattito locale negli ultimi anni.

Infine, nelle isole d’Italia, la popolazione ha manifestato senza equivoci la propria volontà. In Sicilia il No ottiene il 71,58% con una percentuale d’affluenza che si ferma al 55%: se nella provincia palermitana il No segue la media regionale (72,47% contro il 27,53%), nel catanese la partecipazione al voto si eleva al 58,41%, ma anche la percentuale dei No (74,56% contro il 25,44%). In Sardegna il No ottiene addirittura il 72,21% e nelle province di Cagliari e Oristano le tendenze non sembrano più moderate: rispettivamente 73,79% e 73,98%.

In ultima analisi una menzione la meritano le circoscrizioni elettorali delle aree del recente terremoto dell’Italia centrale. Nella marchigiana Visso sono state garantite le condizioni per poter andare a votare e il 54,38% della popolazione iscritta nelle liste elettorali ha risposto positivamente. Purtroppo nella limitrofa Ussita non esistevano le condizioni minime per partecipare al voto referendario e in questo comune non si è registrato nessun votante. Dato l’elevato numero di vittime e la vasta estensione dei danni nel reatino comune di Amatrice si è registrata comunque una confortante percentuale di votanti (40,39%). Inferiore purtroppo la percentuale di elettori nella più piccola Accumoli dove neppure un cittadino su quattro ha esercitato il proprio diritto al voto.

La direzione del voto degli italiani è stata espressa in maniera chiara, ma il tranquillo svolgimento della vita politica, economica e sociale appare continuamente minacciato da fenomeni di corruzione e collusione che infestano la Pubblica Amministrazione e la classe imprenditoriale. Quest’ultimo fenomeno appare come il più forte deterrente nei confronti degli investimenti stranieri in Italia e di ciò si dovrebbero occupare JP Morgan e gli altri attori economico-finanziari internazionali più di ogni eventuale riforma costituzionale.

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Latina5stelle magazine - numero 6 - anno 2016

ColophonHanno collaborato in questo numero:Alessandro Marrocco, Antonio Agostini, Cristiano Noce, Gianluca Bono, Massimo Lupi, Alessandranna Nocella, Valeria Scognamiglio, Emanuele Coletti, Dario Di Berardino, Cinzia David, Roberto Bertani, Antonietta De Luca, Bernardo Bassoli, Rita Schievano, Andrea Zuccaro, Francesco Martello, Luca Pietrolucci, Vinicio Sperati, Adriano Luppi

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Latina5stelle magazine n.6/2016

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Latina5stelle magazine n.4/2016

Yemen, la distruzione