L’arte di tradurre Intervista a Giorgio Amitrano · Con Murakami, a sua volta traduttore, ha mai...

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L’arte di tradurre Intervista a Giorgio Amitrano Elvira Grassi, settembre 2016 amitrano_intervista_5set16_amitrano_intervista 03/10/2016 17:11 Pagina 1

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L’arte di tradurreIntervista a Giorgio Amitrano

Elvira Grassi, settembre 2016

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© Oblique Studio, settembre 2016 www.oblique.it L’arte di tradurreIntervista a Giorgio Amitrano

La foto di copertina è di Stefano BaroniLe illustrazioni di pag. 6 sono di Yoshitomo Nara

Non dobbiamo riscrivere il libro, solo tradurlo.

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Giorgio Amitrano è un fine tradut-tore – Murakami Haruki e Yoshi-moto Banana gli autori più celebritradotti –, scrittore e docente di Lin-gua e letteratura giapponese al-l’università Orientale di Napoli.Pe rennemente diviso tra due mon -di, in questo periodo vive in Giap-pone perché dirige l’Istituto italianodi cultura di To kyo. Ed è lì che l’horaggiunto via mail, e con eleganza egentilezza mi ha raccontato il suopercorso e il suo modo di lavorare,l’incontro con Murakami e Yoshi-moto, qualche aneddoto e consiglioper chi aspira a lavorare come luicon le parole.

Com’è cambiata la sua vita, comesono cambiate le sue giornate ora chenon deve affrontare quotidiani corpoa corpo col testo? Quanto del suotempo riesce a dedicare alla tradu-zione ora che è impegnato con l’Isti-tuto italiano di cultura?La mia vita e le mie giornate sonocambiate non per la mancanza diquotidiani corpo a corpo col testo,ma perché il lavoro che svolgoadesso è particolarmente impegna-tivo ed è diverso da tutto quanto hofatto finora. Quando il mio temposi divideva tra l’insegnamento al-l’università e la traduzione, anchese avevo poco spazio per me, rima-nevano comunque pause per leg-gere, vedere dei film, fare qualchepasseggiata. Adesso tutto questo èquasi completamente sparito. Hodovuto rinunciare anche a tradurre.Ma, pur avendo accantonato perpiù di due anni il lavoro sui libri,una parte della mia mente è co-munque rimasta in contatto con la

traduzione. Credo che non sismetta di essere traduttori, nem-meno quando questa attività, perqualche ragione, si interrompe.

Non smette di essere traduttore ancheperché è quotidianamente immersonella lingua e cultura giapponese.Quanto è stato importante vivere inGiappone, o perlomeno frequentarloper lunghi periodi, per i suoi primilavori di traduzione? Qual è il primolibro che ha tradotto?È stato fondamentale. Non pensoche avrei potuto tradurre senzal’esperienza diretta della vita inGiappone. Prima del primo viag-gio a Tokyo avevo studiato la lin-gua, ma a quei tempi si studiava ilgiapponese come il latino o ilgreco. All’università non si facevaconversazione. Gli studenti di oggipraticano in aula la conversazioneanche per diverse ore settimanali.Ma credo che anche loro, se desi-derano tradurre, abbiano bisogno

di una esperienza sul posto. Ilprimo libro che ho tradotto è unaraccolta di racconti di NakajimaAtsushi dal titolo Cronaca dellaluna sul monte.

Com’è e cosa significa per lei viverea Tokyo oggi?Sentirmi a casa. È una sensazioneche ho provato dalla prima voltache sono venuto qui, quando erouno studente universitario, e laprovo anche adesso. E questo valenon solo per Tokyo, ma per ilGiappone in genere. Ho vissutoquattro anni a Osaka, e in queglianni frequentavo molto ancheKyoto. Ma, pur sentendomi a casain Giappone, e a mio agio forsepiù di quanto mi senta in Italia, èdifficile dimenticare di essere stra-niero. Il misto di familiarità edestraneità è una condizione inte-ressante, che non mi dispiace, e se-condo me è utile al lavoro ditraduzione. Chi traduce vive in una

«Avevo trentasette anni, ed ero seduto abordo di un Boeing 747. Il gigantescovelivolo aveva cominciato la discesa

attraverso densi strati di nubi piovose, edopo poco sarebbe atterrato all’aeroporto

di Amburgo. La fredda pioggia di novembretingeva di scuro la terra trasformando tutta

la scena, con i meccanici negliimpermeabili, le bandiere issate sugli

anonimi edifici dell’aeroporto e l’insegnapubblicitaria della Bmw, in un tetro

paesaggio di scuola fiamminga. è propriovero: sono di nuovo in Germania, pensai».

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specie di spazio tra due culture sen-tendosi, secondo i momenti, piùdentro o più fuori. O almeno è cosìper me.

Come e quando si è incrociata la suastrada con quella di Murakami?Quando ho letto Norwegian Wood.Era la fine degli anni Ottanta edero tornato da poco dal Giap-pone, dove il libro era stato ungrande best seller. Avevo già lettoalcuni dei libri precedenti di Mu-rakami, ma non mi avevano coin-volto allo stesso modo. Questo miha conquistato e mi ha fatto ve-nire voglia di tradurlo. Grazie alfatto che nel frattempo era uscitoKitchen, che aveva avuto ungrande successo in Italia, sono riu-scito a convincere Feltrinelli apubblicarlo. Ma la prima edizione,di appena settemila copie, è pas-sata quasi inosservata, e dopo unpo’ di tempo le copie invendutesono andate al macero. È stato perme un grande dispiacere. Dopodiversi anni, quando Murakami

cominciava a diventare famosoanche all’estero, Feltrinelli ha ri-stampato il titolo in edizione ta-scabile, e da quel momento, forsegrazie a un passaparola che nonc’era stato alla prima uscita, illibro ha cominciato a vendere, edè stato ristampato moltissimevolte.

A proposito delle ristampe, il libro haavuto vari cambiamenti nel titolo.Forse non tutti ne sono a conoscenza.Vuole ricordare qualcosa al ri-guardo? Murakami è intervenuto inqualche modo?Inizialmente doveva uscire con iltitolo Norwegian Wood. Lo aveva -mo stabilito dall’inizio e in casaeditrice tutti erano d’accordo. Poiall’improvviso il commerciale haopposto un veto dicendo che eradifficile da pronunciare e nessunolo avrebbe comprato. Discussionianimate ma inutili perché avevanodeciso così. Frettolosamente si èoptato per Tokyo Blues. Ma questonuovo titolo, secondo la Feltrinelli

più accessibile, non ha funzionato,almeno non all’inizio. Quando illibro è stato ristampato nei tasca-bili, come ho appena raccontato, èpoi andato bene. Ma a un certopunto – quando era ormai diven-tato un long seller – Murakami,che inizialmente aveva dato l’okper Tokyo Blues, ci ha ripensato eha chiesto di ripristinare il titolooriginale. A questo punto l’editoreha obiettato che ristampare un li -bro ormai di grande diffusionecambiando il titolo avrebbe diso-rientato i lettori. Si è trovata unasoluzione di compromesso: allasuccessiva ristampa il libro è uscitocon un doppio titolo: Tokyo BluesNorwegian Wood. È stato solo mol -ti anni dopo, quando i diritti delromanzo sono passati alla Ei-naudi, che si è potuto finalmenterestituire a Norwegian Wood il ti-tolo che dall’inizio avrebbe do-vuto avere. Murakami ha espressola sua soddisfazione in una pic-cola premessa al volume. TokyoBlues è però restato in copertina,

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in corpo minore, a ricordo di questa complicatavicenda.

Quali sono le sfide da affrontare quando si traduconoi libri di Murakami? Murakami non è uno scrittore particolarmente diffi-cile, paragonato ad altri autori che ho tradotto. Lasfida è tentare di riportare in italiano il suo stile, senzasemplificare i suoi circuiti mentali, spesso minuziosie complessi. Rispetto ad altri traduttori, soprattuttoquelli americani, che in alcuni casi tagliano, accor-ciano, semplificano (con il consenso di Murakami,bisogna dire) per renderlo più «scorrevole», io ho unapproccio diverso e tento di tradurlo il più fedel-mente possibile.

È sempre difficile trovare il giusto equilibrio tra le esi-genze di fedeltà all’originale e il rispetto delle regoledella lingua d’arrivo, lei ha qualche consiglio da dare?Un consiglio molto semplice è conservare nella tradu-zione tutte le informazioni presenti nel testo originalee non aggiungerne altre. Può sembrare un suggeri-mento scontato, ma esaminando delle traduzioni pervarie ragioni (per esempio per recensire un libro) hoscoperto che in alcuni casi i traduttori omettono delleinformazioni secondo loro non necessarie o che ap-pesantiscono il testo nella lingua d’arrivo. Secondo mequesto non è consentito. Non dobbiamo riscrivere illibro, solo tradurlo.

Con Murakami, a sua volta traduttore, ha mai parlato ditraduzione? Nel suo L’arte di correre Murakami scrive:«La traduzione di Il grande Gatsby procede agevolmente.Ho terminato il primo capitolo, e adesso sto rifinendo ecesellando il secondo. Mentre lo rivedo con attenzione rigaper riga, mi rendo conto di rendere la traduzione più

scorrevole, di riprodurre in maniera più naturale la pe-culiarità della scrittura di Fitzgerald […]». Cosa nepensa?Alcune volte abbiamo parlato dei libri che tradu-ceva, ma non del suo lavoro di traduzione e dei pro-blemi che presentava. Conosco il suo pensiero sullatraduzione grazie a due libri di cui è coautore conuno scrittore e studioso di letteratura americana, Shi-bata Motohiko. In questi due volumi, in cui Mura-kami parla della sua esperienza come traduttore edialoga con Shibata, si può capire che la traduzionenon è una attività parallela ma una parte integrantedel suo lavoro di scrittore.

Quanto tempo dedica alla lettura del testo originale disolito? Prende appunti mentre lo legge?Lo leggo una prima volta tutto di seguito, senza pren-dere appunti. Anche perché spesso leggo libri senzaancora sapere se li tradurrò. Poi, quando comincio atradurre, ovviamente rileggo ogni passaggio moltevolte, ma non ci sono altre letture integrali dall’inizioalla fine. Ma dal momento in cui la traduzione ha ini-zio, più che leggere vivo nel testo, e tutti gli elementi(lettura, traduzione, riletture, riflessioni, divagazioni)si fondono in una dimensione che occupa il tempo elo spazio.

Cosa significa invece tradurre la lingua e l’immaginariodi Yoshimoto Banana? Quanto è stato importante peresempio la lettura dei manga per entrare nell’atmosferadelle sue storie?Ho sempre avvertito una particolare sintonia con Yo-shimoto Banana. Ciò non vuol dire che apprezzi tuttoquello che scrive, o condivida ogni sua opinione.Sento però di provare un senso di familiarità come siprova con un amico o un’amica a cui si è legati sin

Il misto di familiarità ed estraneità è una condizione interessante,che non mi dispiace, e secondo me è utile al lavoro ditraduzione. Chi traduce vive in una specie di spazio tra dueculture, sentendosi, secondo i momenti, più dentro o più fuori. O almeno è così per me.

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dall’infanzia. È una cosa strana perché ci siamo co-nosciuti quando io avevo già più di trent’anni, ma mela spiego col fatto che avevamo coltivato passioni si-mili da bambini e da adolescenti. Amavamo EmilyBrontë, i (primi) film di Dario Argento, i disegni diEdward Gorey, Kate Bush, Leonard Cohen, Tru-man Capote… Ognuno di noi, in due parti lontanedel mondo, e in tempi diversi (lei è più giovane dime di diversi anni), aveva sviluppato passioni simili.Poi, incontrandoci, ci siamo scambiati consigli. Leimi ha fatto scoprire Hagio Moto, una mangaka che

ho imparato ad amare, e io le ho fatto conoscere idischi di Nick Drake.Quindi, quando finalmente l’ho conosciuta, da vicinoho sentito in lei – se l’espressione non suona troppoenfatica – una familiarità che di solito non si prova alprimo incontro con uno scrittore, neanche se si sonolette le sue opere. Tradurre la sua lingua e il suo im-maginario mi dà quindi una sensazione di intimità.Anche se rimane una scrittrice non facile da tradurre.Conoscere i manga mi è stato d’aiuto perché il suo im-maginario, e il suo stile, ne sono davvero influenzati.

«Prima che i Tanabe mi prendessero con loro dormivo sempre in cucina. Non riuscivo mai a prendere sonno, e una volta chevagavo per le stanze all’alba alla ricerca di un angolinoconfortevole, scoprii che il posto migliore per dormire era ai piedi del frigo.Mi chiamo Mikage Sakurai. I miei genitori sono morti, tutti edue giovani. Perciò sono stata allevata dai nonni. Il nonno èmorto quando ho cominciato le medie. Da allora io e la nonnaabbiamo vissuto da sole. Pochi giorni fa all’improvviso è mortala nonna. Sono rimasta di stucco».

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Penso che la lettura dei manga miabbia spesso aiutato a trovare dellesoluzioni efficaci.

C’è un autore che le sarebbe piaciutotradurre?Ce ne sono diversi. E ci sono ancheautori che ho già tradotto, ma suiquali mi piacerebbe tornare. Peresempio amo molto MiyazawaKenji, di cui ho tradotto alcunefiabe per Marsilio (Una notte sultreno della Via Lattea e altri rac-conti) e delle poesie pubblicate suParagone. Ma lo ritengo un gran-dissimo scrittore e mi piacerebbetradurlo ancora.

Parlando con tanti ragazzi univer-sitari italiani che hanno seguito la

specialistica in traduzione, emergesempre che non sono soddisfatti degliinsegnamenti ricevuti perché basatipiù che altro sulla teoria. Perché se-condo lei, che insegna all’università,in un àmbito come la traduzione incui si impara solo traducendo, spor-candosi le mani con le due lingue,non si dà spazio, o comunque poco (disolito relegato alla tesi), alla tradu-zione vera e propria in questi corsispecialistici? Nelle università giap-ponesi è diverso?Credo che non sia facile inseriredei laboratori di traduzione neicorsi universitari, se non in modoframmentario. Bisognerebbe averesolo pochi studenti a cui dedicarsie molto tempo da dedicare allesingole persone. Essendo, come

Dal momento in cui la traduzione ha inizio, più che leggere vivo nel testo, e tutti gli elementi (lettura, traduzione, riletture,riflessioni, divagazioni) si fondono in una dimensione che occupail tempo e lo spazio.

traduttore, un autodidatta, pensoche ci si debba sì «sporcare lemani», cioè sperimentare, mache si possa farlo da soli. Per laverità non so se ci siano corsi ditraduzione nelle università giap-ponesi, non mi è mai capitato disentirne parlare o di sapere checi fossero. Ho diversi amici giap-ponesi che sono traduttori, manessuno di loro è passato percorsi di traduzione. Quello cheposso dirle è che in Giappone latraduzione è molto più conside-rata e rispettata, e che i traduttoriricevono delle percentuali piutto-sto elevate sulle vendite dei libri.Inoltre il loro nome compare siain copertina che sul dorso dellibro!

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