L'arrembaggio dell'Esmeralda

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Avventura, storico, LGB. 1628, Granada. La vita di Victoria, figlia di una ricca famiglia di proprietari terrieri, sembra non avere riservato per lei altro che un matrimonio combinato non lontano dalla casa paterna, ma la terribile malattia dell'amato fratello finirà per stravolgerla più di quanto lei abbia mai potuto immaginare. Un viaggio inaspettato e il destino la trasformeranno in una persona nuova e le doneranno una vita nuova in un mondo nuovo. Ma l'equilibrio che pensava di aver raggiunto si dimostrerà essere più fragile di quanto lei si aspettasse.

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In uscita il 31/3/2015 (15,50 euro)

Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2015

(4,99 euro)

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MARGHERITA DEMONTIS

L’ARREMBAGGIO

DELL’ESMERALDA

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L’ARREMBAGGIO DELL’ESMERALDA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-871-8 Copertina: immagine Shutterstock

Prima edizione Marzo 2015 Stampato da

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Per chi fa parte della mia vita. Per Elena, per averci creduto più di me.

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Prologo La prima volta che mio padre mi colpì avevo appena compiuto sedici anni. Fu un colpo violento, diretto alla mia guancia destra, che mi fece voltare la testa con tanta forza che pensai si sarebbe staccata. Lui non era mai stato un uomo violento. Nemmeno con i suoi servitori che si muovevano come tante formiche per fare in modo che la nostra grande villa alla periferia di Granada potesse funzionare al meglio. Mio padre, Miguel Fernández Hortega, era diventato ricco grazie a una serie di fortunati eventi di cui io sapevo davvero poco. Come era giusto che fosse per una dama come me che doveva solo pensare a imparare come essere una brava moglie per qualche nobile con il quale si sarebbe dovuta sposare per portare lustro al nome dei Fernández. L’unica cosa che sapevo era che, una trentina d’anni prima, mio padre era stato nel nuovo mondo e, da lì, era tornato carico di terre e ricchezze. Aveva comprato una grande proprietà nella campagna circostante Granada e creato una ricca e potente famiglia. La prima volta che mio padre mi colpì era una caldissima estate del 1628, in una giornata così afosa e luminosa da farmi dubitare che il sole sarebbe mai più tramontato. Se ve lo state chiedendo posso dirvi che non avevo fatto niente di male. Forse avevo alzato appena la voce o usato parole poco adeguate al mio rango e alla mia posizione sociale. Non c’era un vero motivo per quell’atto di violenza. La verità era molto più semplice: mio padre aveva scaricato su di me la sua frustrazione e la sua paura. Da quando mio fratello maggiore, Francisco, si era ammalato gravemente, quella casa era diventata un inferno. Mia madre piangeva e non usciva dalla sua camera, mio padre, semplicemente, vagava per la casa e consultava i più famosi luminari di medicina della Spagna intera. Ma nemmeno lui aveva molta fede in loro. Era convinto che l’unico che davvero potesse venir in aiuto del suo primogenito e unico erede, fosse Dio Onnipotente. Per questo non si diede pace finché non riuscì, grazie

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alle sue amicizie influenti e, sospetto, a una generosa donazione, a convincere lo stesso Agustín de Spínola Basadone, Arcivescovo di Granada, in persona a recarsi al capezzale di Francisco per pregare per lui. E, soprattutto, a dire messa nella cattedrale che, finalmente, da poco si poteva dire completa. C’erano voluti anni di lunghi e costosi lavori per trasformare la vecchia moschea degli infedeli, che dominarono la città sino al 1492, in una maestosa cattedrale. La delusione di mio padre, per quelli che sembravano, sempre più, sforzi infruttuosi, si trasformò ben presto in violenza quando nemmeno questo sembrò avere effetti positivi sul corpo martoriato dalla febbre di mio fratello. E io capii che era meglio stare il più lontano possibile da lui. Nessuno lo diceva. Ma tutti sembravano in attesa di ciò che, ormai, pareva inevitabile. Sinché, un giorno, uno dei servi più fedeli di mio padre arrivò a casa con un monaco eremita sceso appositamente dalle montagne circostanti dell’Alpujarra. Nei dintorni si raccontava che fosse un uomo miracoloso: alcuni assicuravano persino che bastasse toccare il suo saio per guarire da ogni infermità. Io riuscii a vederlo solo di sfuggita prima che scomparisse nella camera di mio fratello ma, devo ammettere, mi sembrò solo un vecchio malandato con una tunica logora e sporca. Non so cosa successe nei due giorni che rimase nella nostra casa. So solo che, quando andò via, mio padre sembrava aver ritrovato la speranza e la Fede. Quando gli chiesi cosa gli avesse detto lui mi rispose: «Victoria, quel vecchio santo mi ha aperto gli occhi. Ho fatto un voto alla Virgen de Guadalupe e lei salverà il mio bambino.» «La Virgen de Guadalupe?» chiesi confusa. Lui mi guardò per un lungo attimo. «Quando sono stato nel Nuovo Mondo ho passato un periodo in un convento. Ospite di una santa congregazione di monaci e monache devoti alla Madonna di Guadalupe. Ho fatto un voto a lei.» «Cosa gli hai promesso?» chiesi con uno strano presentimento. Lui sembrò valutare le parole da usare. «Tu vuoi che tuo fratello guarisca?» chiese.

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Io strinsi appena le palpebre. C’era una sola risposta possibile, ma mi sentivo stranamente restia a pronunciare quell’unica parola, come se potesse trasformarsi in una condanna. «Sì» cedetti alla fine in un sussurro abbassando lievemente il capo. «Sono sicuro che Dio e la Vergine accetteranno le tue preghiere.» E poi sparì, lasciandomi lì, sola nel mio largo vestito da giorno, con la sensazione che, quel semplice sì, avrebbe segnato la mia vita più di quanto potessi immaginare in quel momento. Passarono giorni prima che il miracolo si concretizzasse. Ma, una mattina, trovai Francisco in piedi che mi sorrideva di nuovo. La febbre era passata così come era arrivata. Tutti sapevano che era un miracolo. E i miracoli si pagano. Solo che, mentre correvo tra le sue braccia, ancora non potevo sapere quale sarebbe stato il prezzo. La seconda e ultima volta che mio padre mi colpì fu solo un paio di mesi prima del mio diciassettesimo compleanno. E, questa volta, meritavo quella punizione. La meritavo per il semplice fatto che gli avevo urlato contro la mia rabbia e il mio disgusto per quello che mi stava obbligando a fare. Una settimana prima avevo scoperto cosa avesse promesso alla Virgen de Guadalupe se avesse salvato il suo primogenito. Aveva offerto una figlia per un figlio. Sarei dovuta partire per il Nuovo Mondo per entrare in convento in una terra selvaggia e sconosciuta. Avrei dovuto rinunciare alla mia vita e al lusso. Avrei dovuto rinunciare al mio posto nella società. Non sarei mai stata la sposa di un nobile. Non sarei mai stata chiamata contessa. Non avrei mai passeggiato in calesse per le vie di Granada e non sarei mai stata a Siviglia per qualche festa con Filippo IV e con la regina. Sarei stata chiusa tra quattro mura, senza la possibilità di vedere nessuno. Imprigionata in una vita che non volevo e che non sentivo mia. Per la prima volta mi ritrovai a chiedermi se, per me, non sarebbe stato meglio che quel miracolo non fosse mai avvenuto. Quello che non immaginavo davvero era che quel viaggio, ben lungi dal segnare la mia incarcerazione in un convento, avrebbe in realtà cambiato la mia vita.

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Prima ancora di arrivare nel nuovo mondo, Victoria Fernández Hortega figlia di Miguel Fernández Hortega, sarebbe morta. Per sempre. Ma quel giorno, mentre salivo su quel galeone, non lo sapevo e, soprattutto, non potevo nemmeno immaginare cosa avesse in serbo per me il Destino. I giorni si susseguivano sempre uguali ai miei occhi ma, in realtà, non lo erano. Ogni granello di sabbia che cadeva nella clessidra mi avvicinava sempre più al mio destino. La mia dama di compagnia cercava di rallegrarmi, ma anche lei aveva capito ben presto che non esistevano parole di conforto, non per me. Tardai giorni per capire che, insieme a me, era stata imbarcata quella che era la mia dote. Il tesoro che sarebbe dovuto andare al mio nobile sposo era stato trasformato nel dono per il monastero che mi avrebbe imprigionata. Trovai l’idea ironica. Tanto che mi strappò un sorriso sarcastico. Per un paio di giorni pensai di cercare un modo per buttarlo in mare, ma mi accorsi presto che era ben protetto e una giovane donna, promessa a Dio e alla Vergine come me, non poteva certo dare ordini su una nave. Non so quando esattamente, durante quella traversata, desiderai di morire. So solo che, in un modo o nell’altro, quella vaga e imprecisa speranza si trasformò in realtà. Accadde tutto rapidamente. Era appena l’alba. Solo il giorno prima il capitano, un omaccione grasso e con una fitta barba, probabilmente bianca ma sempre troppo sporca per poterne essere davvero sicuri, mi aveva comunicato che saremmo sbarcati di lì a tre giorni. Quella mattina mi trovavo sul ponte, dopo una notte passata a guardare la parete della mia cabina senza poter prendere sonno, quando l’uomo di guardia gridò terrorizzato. All’inizio non compresi quali parole stesse urlando né a cosa si riferisse, ma improvvisamente, come apparsa dal nulla nella nebbia del mattino, comparve una nave decisamente più piccola e veloce della nostra. Qualcuno mi spinse sottocoperta mentre gli uomini prendevano le armi. L’ultima cosa che vidi prima di entrare nella mia cabina fu una spaventosa bandiera nera che garriva al vento sull’albero maestro della nave che ci stava attaccando. Poi fu solo il caos. Le mie orecchie fischiavano e la mia testa girava mentre capivo che quello, probabilmente, sarebbe stato il mio ultimo giorno su quella

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terra. Al contrario di quello che avevo pensato durante le lunghe giornate di navigazione, non mi sentii sollevata. Al contrario l’istinto di sopravvivenza ebbe il sopravvento mentre, senza sapere bene come né perché, mi infilai nella cabina del comandante. Iniziai inconsciamente a frugare tra le cose personali di quell’uomo. Mi fermai solo quando trovai un piccolo libro rilegato in cuoio e lo riconobbi immediatamente. Era il libro maestro della nave, il libro che nascondeva tutti i segreti del comandante. Dove vi erano segnate le rotte, le stelle da seguire durante le lunghe notti, i giorni di navigazione tra un porto e l’altro. Era il tesoro più grande che potessero cercare i pirati che ci stavano attaccando. Più dell’oro che nascondevamo nelle profondità del nostro galeone. La chiave per continuare ad attaccare altre navi spagnole che percorrevano le stesse rotte. Lo strinsi a me con forza e poi accesi la più grande candela che trovai nella scrivania del capitano. E, semplicemente, attesi, persa nel mio limbo personale che mi impediva di sentire la paura e il tempo che scorreva. Anche i suoni sembravano giungere ovattati e distanti, quasi come se si trattasse solo di un sogno. Ma quando la porta si spalancò e mi trovai davanti un giovane con una spada stretta nella mano destra e uno strano sguardo che incrociai immediatamente, tutte le sensazioni che, sino a un attimo prima sembravano così distanti, mi colpirono con forza. L’uomo si bloccò di colpo vedendomi dietro la scrivania. I suoi occhi si mossero lentamente per fissare le mie mani aggrappate disperatamente al libretto, quasi fosse l’unica cosa che mi tenesse in vita. Sorrise. «Mia Signora, credo che possediate ciò che vado cercando.» Parlava perfettamente spagnolo, ma con un forte accento inglese. Doveva essere uno dei corsari che, con il benestare e spesso l’aiuto della corona inglese, attaccavano le navi spagnole per indebolire il nostro impero. Lo squadrai per valutarlo. Il suo tono era fin troppo educato e il suo sguardo sembrava genuinamente incuriosito. Sembrava giovane, forse aveva poco più di vent’anni, ma aveva l’aria di essere abituato a dare ordini. Sospettai che fosse il capitano di quella ciurma. Intravidi una cicatrice che, dal collo, scendeva verso la spalla andando a nascondersi sotto le sue vesti come a testimoniare che fosse un uomo che aveva

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affrontato le sue battaglie e che le aveva vinte, per guadagnarsi ogni cosa che possedeva. «Non un altro passo o lo brucio» dissi semplicemente avvicinando il libro alla fiamma della candela, tanto che l’angolo iniziò a oscurarsi e un lieve odore di bruciato solleticò le mie narici. «Potremmo arrivare a un accordo?» chiese lui rimettendo la corta spada che impugnava nel suo fodero e sollevando le mani, per mostrare le sue presunte buone intenzioni. Non che mi fidassi di lui. «Non saprei. Quanto vale la parola di un pirata?» chiesi con una voce ferma che stupì anche me. Lui sorrise, un sorriso che sembrò stranamente sincero e che parve illuminargli gli occhi scuri. «Mi piaci ragazzina!» «Il mio nome è Victoria, delinquente!» «Il mio nome è Alexander, Alexander Young!» Ci squadrammo per alcuni lunghissimi istanti. «Cosa proponi?» chiese lui chiudendosi la porta alle spalle con il piede per non perdermi d’occhio nemmeno per un istante. «Come?» domandai confusa. «Ovvio che vuoi qualcosa in cambio di quello che stringi. Posso immaginare che si tratti della tua salvezza» si strinse nelle spalle quasi fosse una semplice constatazione perfettamente naturale. «Facciamo così, se eviti di dare fuoco a quel tesoro io ti porterò sana e salva alla tua meta.» «Come posso sapere che parliate sul serio?» «Non puoi! Ma l’altra possibilità è che tu bruci il libro, non lasciandomi altra scelta che quella di infilzarti con la mia spada!» disse lui sollevando le spalle. «Sarebbe meglio quello piuttosto che ciò che mi aspetta una volta a terra.» Alexander aggrottò le sopracciglia. Non so cosa gli passasse per la testa in quel momento, ma vidi che il luccichio di quella che sembrava sincera curiosità si riaccese con vigore nei suoi occhi. «Raccontami la tua storia.» Lo feci. Non che sentissi di avere una vera scelta. E fui onesta, molto più di quanto fossi mai stata. Raccontai cosa pensavo e cosa provavo, come mai prima d’allora avevo potuto fare. Il mio dolore nel sentirmi, in qualche modo, venduta da mio padre prese vita e corpo.

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Alexander mi ascoltò in silenzio. «Fidati di me» disse solo alla fine. Chiusi gli occhi e gli lanciai il libricino. Dopo aver raccontato la mia storia mi sentivo solo vuota e quasi desiderai che tutto finisse. Lui lo prese al volo nascondendolo nella tasca interna del gilet di pelle che in-dossava e mi disse di aspettarlo lì, immobile. Uscì dalla cabina dando un paio di ordini che non capii. Non so quanto tempo passò prima che rientrasse. So solo che pensavo sarebbero stati i miei ultimi minuti e li assaporai quasi grata che così fosse. Non avrei dovuto preoccuparmi di niente. Sarebbe stato solo un attimo, in fondo la mia vita era finita quando mio padre mi aveva im-barcata su quel galeone, come un oggetto qualsiasi. Invece lui, non appena rientrato e dopo essersi assicurato che la porta della cabina fosse ben chiusa, mi lanciò degli abiti e si voltò dandomi le spalle. «Cambiati» ordinò sicuro. Guardai quella stoffa che avevo tra le mani, usata e con uno strano odo-re, ma non trovai parole. Mi limitai a indossare quei comodi pantaloni e la camicia che, un tempo per lo meno, doveva essere stata bianca, un gilet di un tessuto pesante e scuro e degli stivali neri troppo grandi per me. Quando gli chiesi di voltarsi lo fece squadrandomi con aria critica. Poi si chinò per estrarre un pugnale che aveva legato alla sua gamba e si di-resse verso di me. Ricordo distintamente di aver pensato che non aveva molto senso farmi vestire come un dannato pirata per poi uccidermi, ma comunque chiusi gli occhi. Sentii le mie lunghe ciocche scure che venivano tagliate e cadevano al suolo. «Legali» ordinò di nuovo Alexander quando ebbe finito. Obbedii legando quello che rimaneva dei miei capelli in una cortissima coda. Lui sorrise soddisfatto. «Cosa state facendo?» domandai alla fine. «Volete andare in convento?» chiese. «No, certo che no!» «Volete che tutti i miei uomini decidano di violentarvi?» «No!» gridai spaventata. «Allora è meglio che sappiate che Victoria Fernández è morta.»

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«Cosa?» «Sei il mio nuovo braccio destro e vice capitano dell’Esmeralda!» disse sorridendo e cambiando quasi immediatamente tono di voce, come se, davanti a lui, non ci fosse più una giovane dama ma un suo vecchio compagno d’avventure. «Esmeralda?» «Certo, è il mio vascello e la tua nuova casa!» «E se non volessi esserlo?» Lui si strinse nelle spalle. «Scegli tu: morte, suora, violenza o pirata.» Lo guardai mentre mi accorgevo che, quello che mi offriva, era una nuova vita. Mi fermai solo per un attimo per domandarmi cosa l’avesse spinto a prendere quella decisione, cosa l’avesse fermato dall’infilzarmi su due piedi. Non lo sapevo e, ancora, nonostante tutto quello che ab-biamo vissuto insieme, non ne sono sicura. Ma non potevo dare le spal-le a quell’unica opportunità. Perché intravedevo mille possibilità diver-se ad attendermi dentro ogni nuovo giorno. Così mi limitai a stringermi nelle spalle, inconsciamente imitando il suo movimento: se dovevo tra-sformarmi in una nuova persona dovevo anche adattarmi e imparare a partire dai piccoli gesti. «Chiamami Vicente. Vicente López.» Alexander si aprì in un enorme sorriso. «Benvenuto al mondo, Vicente!»

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1. Cinque anni. Avete mai provato a dirlo a voce alta? Cinque anni. Ci vuole un attimo, un sospiro, un battito di ciglia. Sono solo due parole. Ma viverli giorno per giorno è davvero tutta un’altra cosa. Se ci penso adesso posso dire con certezza che quegli anni furono deci-samente i più intensi di tutta la mia vita. Improvvisamente mi ritrovai padrona del mio destino e decisi che non mi sarebbe bastata solo una vita. Ne volevo due. Vicente mi piaceva. Essere un uomo aveva dei lati positivi che non a-vevo mai nemmeno immaginato. E la vita sui mari mi intrigava più di quanto volessi ammettere. Ma, allo stesso tempo, Victoria mi mancava ogni minuto. Ebbi bisogno di due anni di scorribande nei mari per mettere da parte abbastanza denaro per comprare una piccola proprietà sulla costa nord est della Nuova Spagna1 e, probabilmente, avrei avuto bisogno di molto più tempo se Alex non avesse deciso di restituirmi parte della mia dote. Capii subito che avevo fiuto per gli affari e fortuna nella scelta della terra. La proprietà era una delle più ricche e riuscii a comprare una am-plia zona di boschi poco distante che mi permise grossi guadagni in po-co tempo grazie al legname. Ero diventato un uomo ricco. Fu allora che mi decisi a far rinascere Victoria, non più Fernandez, ma Lopez. Un giorno, approfittando dei lunghi periodi d’inattività dell’Esmeralda, tornai alla mia villa non come Vicente ma come sua sorella gemella. Mi presentai sorprendendo gli uomini che lavoravano per me con una lettera e con documenti, ovviamente falsi, che dimo-stravano chi fossi, accompagnata da Alex.

1 La “Nuova Spagna” comprendeva anche buona parte della zona meridionale degli attuali Stati Uniti. Compreso il Texas e la Florida.

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Nessuno osò protestare. Forse anche per la minacciosa presenza del mio amico che tutti conoscevano per averlo visto lì spesso, ospite di Vicen-te. Finalmente avevo due identità e, stranamente, ero ben lungi dal sentir-mi confusa. Al contrario mi sentivo completa. Per la prima volta in tutta la mia vita. Era un equilibrio precario, anche se allora non lo sapevo, e incontrai ciò che l’avrebbe rotto in un’umida giornata di fine maggio. Improvvisamente, senza che fossi pronta, capii che vivere due vite non era così facile come mi era sembrato all’inizio. L’inizio di quello che sarebbe stato l’ennesimo giro inaspettato della mia vita, avvenne nell’isola di San Cristoforo. Questa era un buco spor-co e puzzolente dove tutte le navi pirata attraccavano per far riposare l’equipaggio, pulire la chiglia e rivendere ciò che ottenevano nelle loro spedizioni. Le strade brulicavano di uomini ubriachi che spendevano il denaro ap-pena guadagnato in rum e prostitute, cani affamati che abbaiavano con-tro qualunque cosa si muovesse sinché qualcuno non li faceva star zitti a calci, e marmocchi sporchi e malnutriti dal destino segnato. Non era certo il mio luogo preferito. Ma ero il braccio destro di uno dei più famosi e temuti corsari. Dovevo fingere che mi piacesse. Se vi state chiedendo perché semplicemente non lasciassi andare quella parte della mia vita per dedicarmi alla mia redditizia proprietà terriera, la risposta è semplice. Dovevo la mia vita ad Alex e non volevo lasciarlo solo in mezzo ai pericoli che il mare nascondeva. «Vicente.» Mi voltai di scatto mentre Alex e un paio degli uomini del nostro equi-paggio si avvicinavano a grandi passi. Il mio amico mi diede una virile pacca sulla spalla che gli restituii con entusiasmo. «Stiamo andando alla locanda della bandiera nera!» «Voglio andare a vedere come procedono i lavori sulla chiglia dell’Esmeralda» dissi sollevando le spalle. Si alzò un coro deluso. «Andiamo, Vicente! Vieni a bere una pinta di rum con noi!» esclamò John, il più giovane del nostro equipaggio. Provai a scuotere la testa. «Andiamo a vedere lo spettacolo di Susan! Vieni con noi! Se sei fortu-nato e porti abbastanza monete con te, la puoi portare a letto! Con quel

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bel faccino che ti ritrovi tutte le puttane della zona fanno a gara per sta-re con te!» aggiunse Thomas scatenando l’ilarità del gruppetto. «Ho del lavoro da fare!» dissi sorridendo. «Come sempre! A volte mi domando se hai le palle la sotto!» Thomas non fece in tempo a finire la frase. Si ritrovò il mio coltello sot-to la gola che premeva con forza sulla sua carotide. «Ripetilo adesso se hai tu le palle» sussurrai al suo orecchio. Alex mi allontanò scoccandomi un’occhiata di approvazione. Dovevo farmi rispettare. E quello era il mio modo. «Vieni con noi, Vicente. Ti offro una pinta e poi torni alla nave» disse per tranquillizzare gli animi. Non potevo dire di no al mio capitano e mi ritrovai ad annuire, contro-voglia ma consapevole di quali fossero le regole non scritte. Camminammo lentamente lungo il porto verso la locanda più famosa e, a mio modesto parere, più sporca della zona. Poco più avanti una nave era appena attraccata e iniziavano ad arrivare uomini che sembravano particolarmente entusiasti. Dovevano avere ap-pena compiuto un’impresa redditizia perché sembravano troppo allegri per una semplice scorribanda poco lucrativa. Fu in quel momento che vidi il capitano Jake scendere dalla scialuppa che l’aveva portato a riva, spintonando una giovane spaventata e in la-crime. Feci un cenno con la testa ad Alex e ci avvicinammo. «Capitano Jake, cosa ci porti di nuovo?» gridò Alex. L’uomo sollevò lo sguardo con un ghigno. Era un uomo crudele, ma molto intelligente. Sapeva cosa voleva e come ottenerlo con il minor dispendio possibile di energie. E quello che voleva davvero era oro. Diede un’altra spinta alla ragazza che si ritrovò al suolo e si strinse in posizione fetale. Mi feci violenza per non inginocchiarmi e aiutarla. Non potevo. «Abbiamo fatto una buona pesca ieri! Un vascello inglese!» Alex si irrigidì. Lui non attaccava i suoi compatrioti. Ma Jake non ave-va il suo stesso codice d’onore. «E questa?» «Lei è una giovane donzella figlia di qualche ricco inglese. E mi frutte-rà un bel po’ di quattrini.» Strinsi la mascella. «Hai intenzione di chiedere un riscatto?» domandai incredula.

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«Certo che no, idiota di un Vicente!» mi rispose con una risata. «La venderò a Felipe Márquez. Non sai la fatica che ho fatto per impedire che il mio equipaggio si divertisse con lei prima di arrivare in porto. Non capitano tutti i giorni delle fanciulle così delicate.» Sorrise inchi-nandosi per stringere e sollevare il viso della ragazza con una sola delle sue mani grandi e callose. «Ma Felipe non apprezza la merce di secon-da mano.» Mi irrigidii a quel nome. Felipe Márquez era forse il più ricco e potente latifondista che ci fosse nel nuovo mondo. Aveva una pessima fama. Si diceva che gli piacessero le donne giovanissime. Amava divertirsi con loro prima che, misteriosamente, sparissero nel nulla. Abbassai lo sguardo. Quella ragazza era davvero bella. Alta e slanciata con capelli dorati e lineamenti dolci. La pelle candida e delicata. Provai un dolore immenso pensando al triste destino che la attendeva. Scossi la testa al pensiero. Non potevo fare molto per lei. Improvvisamente aprì gli occhi e, in quel mare di lacrime, vidi l’azzurro del cielo. Misi una mano sotto la camicia ed estrassi un sac-chetto di monete. «È mia.» Jake afferrò al volo il sacchetto squadrandomi confuso poi l’aprì e con-tò quello che vi era dentro. Sapevo che era più che sufficiente. Nemme-no Felipe Márquez avrebbe pagato tanto. Ma lui scosse la testa mentre me lo restituiva. «Trovatele da solo le tue puttane!» mi disse con un sorriso divertito. Ero certa che semplicemente avesse fiutato l’affare e cercasse di ottene-re ancora maggiori benefici. Ma sapevo anche che non avevo altro con me. E lui non avrebbe certo accettato la mia parola d’onore di portargli il doppio. Strinsi la mascella con ancora più forza incrociando quegli occhi azzur-ri e spaventati. La mia mano corse automaticamente alla spada che ri-posava lungo il fianco destro. Vidi un secondo sacchetto uguale al mio che volava nella direzione di Jake. «Aggiungici anche questi ed è sua» disse la voce sicura di Alex. Questa volta Jake non l’aprì nemmeno, si limitò a strapparmi dalle ma-ni le mie monete e a scoppiare a ridere. «Tutta tua, Vicente. Lasciami dire che hai dei gusti cari per le donne!»

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Poi si voltò per dirigersi alla locanda. A quel punto non sapevo bene come comportarmi. Alex dovette capire le mie difficoltà perché si inginocchiò per sollevare la giovane donna, che non doveva avere più di diciotto anni, con una mossa decisa ma gentile. Poi, una volta in piedi, mi intimò con lo sguardo di afferrarla per un braccio. Solo allora mi accorsi che aveva le mani legate dietro la schiena e che le corde le stavano lasciando dei brutti segni rossi nei pol-si. Rabbrividii. «Certo che il nostro Vicente ha davvero dei bei gusti in fatto di donne!» scherzò Thomas. «Ci credo che le puttane di questo posto non gli piacciono!» esclamò John. «Torno alla nave» dissi rapidamente. Alex annuì comprensivo. «Hai fretta di provarla?» domandò tra le risate dei presenti un uomo che si era fermato attirato da quella situazione così inconsueta. Sorrisi cercando di mantenere il mio personaggio, anche se avevo solo voglia di portare quella giovane il più lontano possibile da quel posto. «Vicente, magari ce la puoi lasciare per farci un giro! Posso pagare!» Mi voltai riconoscendo la voce di un giovane che era stato nel nostro equipaggio per un breve periodo prima che Alex lo lasciasse a terra per la sua propensione alle risse. Decisi di reggergli il gioco per evitare problemi e allontanarmi da lì ra-pidamente. «Non credo tu abbia il denaro sufficiente, Patrick, ma se lo racimoli ci posso anche pensare!» La mia risposta scatenò una salva di urla di apprezzamento e battute volgari. Finalmente mi voltai per portare via con me la ragazza, al sicu-ro nella mia cabina. Incrociai il suo sguardo e quello che vidi mi gelò il sangue. Era terrore. Puro e semplice terrore. Ed era terrorizzata da me. Camminai cercando di non guardarla, con un senso di oppressione che mi stringeva il petto in una morsa. Arrivai alla scialuppa che mi avreb-be riportato sull’Esmeralda e fu solo una breve passeggiata, ma a me sembrò infinita. Come uno di quei sogni che ancora mi perseguitavano

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dove vedevo mio padre fermo davanti a me che improvvisamente si voltava per darmi le spalle e spariva in una grande casa sulla cima di una collina. Per quanto camminassi non riuscivo mai a raggiungere la porta in legno che rimaneva inesorabilmente chiusa. La ragazza non opponeva resistenza. Si lasciava trascinare camminando con passo incerto. Io cercavo di essere il più delicata possibile, ma, a ogni movimento, vedevo le corde che strisciavano sulle ferite aperte dei suoi polsi. Non potevo ancora liberarla. Sentivo lo sguardo dei curiosi che si posava su di me. E sapevo che, ai loro occhi, ero fin troppo deli-cata con la giovane. Avrei potuto giustificarmi in seguito spiegando che non volevo che il mio nuovo acquisto si rovinasse. O, come al solito, non avrei aperto bocca. Semplicemente avrei piantato la mia lama sotto il naso di chiun-que avesse osato criticare il mio comportamento. Come ho detto vivevo in un mondo nel quale essere rispettati era l’unica maniera di sopravvi-vere. E c’erano vari modi per ottenere il tanto agognato rispetto. Ogni tanto osavo lanciarle una rapida occhiata e vedevo le lacrime si-lenziose che le rigavano il volto. Aveva smesso di singhiozzare quando Alex l’aveva aiutata ad alzarsi. Sembrava solo dannatamente triste e senza speranza. Per un attimo mi ricordai della mia infanzia. Un vener-dì prima della domenica di Pasqua arrivò a casa un giovane pastore del-la zona con un agnello al suo fianco. La bestia camminava con la testa bassa, quasi come se fosse consapevole che veniva portato al macello. La ragazza mi ricordò quella povera bestiola e, in quell’attimo, compre-si che probabilmente anche lei si doveva sentire allo stesso modo. E, per lei, io ero solo il suo boia. La aiutai a salire sul vascello e la afferrai prima che cadesse quando in-ciampò. Fortunatamente di guardia c’era solo il vecchio Tim, un uomo che doveva avere circa quarant’anni, ma che ne dimostrava almeno il triplo. Mi scoccò un’occhiata inespressiva. Aveva visto di tutto nella sua vita e aveva perso la capacità di stupirsi da molto tempo. Probabil-mente, vedermi arrivare a bordo con una giovane donna così bella e chiaramente estranea a quell’ambiente dovette sembrargli solo un colpo di testa di un giovane stupido. Ma lui non era certo il tipo da commen-tare né, tanto meno, giudicare. Si limitò a sollevare una mano in segno di saluto prima di tornare a lasciarsi dondolare nell’amaca che aveva montato tra i due alberi minori della nave come faceva sempre quando stavamo in quel porto.

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Risposi con un semplice gesto del capo prima di infilarmi sottocoperta e raggiungere la mia piccola cabina al lato di quella, decisamente più grande, di Alex. Tirai un profondo sospiro di sollievo quando aprii quella porticina. Come se, magicamente, tutti i problemi e la tensione che avevo accumulato sparissero nel nulla in quella stanza. Ma, naturalmente, non fu così. La ragazza vide il letto e io sentii distintamente un singhiozzo terroriz-zato. Si accasciò al suolo non appena la lasciai andare e vidi come si appiattiva contro un angolo. Mi inginocchiai mantenendo le distanze per evitare di spaventarla anco-ra di più. «Non vi farò del male.» Lo dissi così piano che dubito fosse riuscita a sentirlo tra i suoi lamenti che si facevano sempre più forti. «Vi prego» dissi disperata. «Vi prego non fate così.» Non so se fu il tono o le mie parole. So solo che si fermò e aprì piano gli occhi per rivolgerli verso i miei. Nessun suono uscì dalle sue labbra, le sue lacrime non si fermarono. Provai a trascinarmi, ancora in ginocchio, verso di lei. Avvicinandomi di qualche centimetro e allungando una mano. Lei si lasciò sfuggire un lamento spaventato e si schiacciò ancora di più alla parete. «No» fu la prima parola che mi rivolse. «Non voglio farvi del male. Lo prometto.» Ma sembrava inutile. Voltò la testa nascondendo il viso. Vidi il suo corpo scosso da singhiozzi e notai i suoi polsi sanguinanti a causa delle strette corde. Decisi che, per il momento, la mia priorità doveva essere solo quella di liberarla prima che le ferite potessero prendere infezione. Dio solo sa-peva per cosa avevano potuto usare quella corda prima di legarla. Estrassi il coltello. Il rumore la fece voltare di scatto. Spalancò gli occhi alla vista della lama. E poi li chiuse, come fosse in attesa dell’inevitabile. Mi alzai in piedi e la raggiunsi per tagliare quella costrizione. Quando si trovò libera le sue braccia corsero ad abbracciare se stessa in un gesto di protezione che mi strinse il cuore. «Fatemi vedere i polsi. Hanno bisogno di cure.»

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Lo dissi con il tono più dolce che potessi trovare. Ma lei scosse freneti-camente la testa senza guardarmi. Non voleva che la toccassi. E come potevo darle torto? Era una ragazzina capitata per caso in mezzo a un abbordaggio pirata in una rotta che le navi inglesi consideravano sicura. Si era ritrovata sola e sperduta in balia di un uomo spaventoso e del suo equipaggio. E si era salvata solo grazie al fatto che Jake avesse fiutato un affare, non certo per compassione. E alla fine era arrivata tra le mani di uno sconosciuto che l’aveva com-prata pagando il suo peso in oro e che aveva lasciato intendere non solo di considerarla alla stregua di un qualunque oggetto, ma anche di essere disposto a lasciarla ad altri affinché ne facessero ciò che desideravano, semplicemente in cambio del giusto prezzo. Improvvisamente, mi sentii un mostro. Avrei dovuto estrarre la spada e salvarla. Forse allora mi avrebbe visto come un eroe e non avrebbe avu-to tanta paura di me. Naturalmente sarei morta non appena avessi anche solo provato a farlo. E lo sapevo bene. Ma il terrore che vedevo in quegli occhi mi impediva di pensare coe-rentemente. Perché era la stessa emozione che doveva aver visto Alex in me solo cinque anni prima. E, forse per la prima volta, capii davvero quanto fossi stata fortunata. In quel momento volevo solo che smettesse di piangere. Così mi alzai lentamente, ogni mio movimento era seguito dagli occhi rossi di lacrime di quella fanciulla, feci un paio di passi indietro sino ad arrivare alla porta. «Non voglio farvi del male» mi ritrovai a ripetere piano. Lei si limitò a guardarmi mentre uscivo. «Sono qui fuori se avete bisogno di me. Riposate, parleremo quando sarete pronta.» Uscii chiudendomi l’uscio alle spalle e lasciandomi scivolare con la schiena appoggiata alla parete sino a ritrovarmi seduta nel pavimento. Alex arrivò qualche ora dopo camminando un po’ storto, probabilmente a causa del rum. Mi lanciò una rapida occhiata, ma non disse niente. Si infilò rapidamente nella sua cabina e ne uscì pochi secondi dopo con un cuscino che mi lanciò senza tante cerimonie. «Vì, ti stai cacciando in un bel guaio.» Lo disse prima di sparire senza darmi tempo di ribattere. Non era nep-pure una domanda, solo una semplice constatazione. Io annuii tra me e

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me, anche se lui non poteva più vedermi. Sapevo che quando usava quel diminutivo su quella nave non si stava rivolgendo a Vicente. Quella frase era diretta a Victoria.

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2. Quella mattina mi svegliai, dopo una notte lunga e agitata passata a sonnecchiare senza mai riuscire ad addormentarmi profondamente, con un terribile dolore al collo. Mi sentivo completamente anchilosata ed ebbi bisogno di diverso tempo prima di riuscire a ricordare che diavolo facessi davanti alla porta della mia cabina. Saltai in piedi di colpo mentre l’immagine della giovane donna che a-vevo salvato solo poche ore prima appariva chiara nella mia mente. Mi mossi piano per non fare nessun rumore. Ancora non doveva essere neppure l’alba. Tutto era avvolto in un silenzio irreale. Sapevo che era una falsa sensazione, se avessi percorso solo pochi metri per raggiunge-re le scale che portavano alla stiva dove riposavano gli altri membri dell’equipaggio, addormentati sulle loro amache, avrei probabilmente sentito il forte russare che accompagnava quelle mattine in porto. Quando tornavano ubriachi e felici, in attesa che arrivasse il giorno di ripartire. Mi guardai intorno indecisa su come comportarmi, per l’ennesima volta in poche ore. Quella sensazione di mancanza di controllo iniziava a in-fastidirmi. Decisi di prendere in mano la situazione e bussai piano alla porta. Non ci fu risposta. Deglutii nervosamente mentre guardavo alla mia destra per assicurarmi che Alex non apparisse dal nulla per dirmi che ero davvero impazzita. E, conoscendolo, avrebbe aggiunto che era ora che cominciassi a comportarmi da uomo. Quanto gli piaceva dirmi quella frase. Aprii la porta piano e feci un passo dentro la stanza. Il mio sguardo cadde immediatamente sul letto. Lei era lì stretta alle lenzuola di lino che dormiva. Mi avvicinai sedendomi sul materasso il più delicatamen-te possibile e mi limitai a fissarla. I segni del pianto erano ancora ben visibili sulle sue guance scavate, i capelli erano disordinati e le lenzuola erano avvolte alla rinfusa intorno al suo corpo che indossava ancora lo stesso vestito sporco e logoro del giorno prima. Mi insultai mentalmen-te per non aver pensato di lasciarle qualcosa di più comodo per la notte.

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Non doveva essere riuscita ad addormentarsi subito, lo potevo vedere dal caos che era ora il mio letto. La potevo immaginare voltarsi e rivol-tarsi mentre la paura le impediva di pensare sinché, sfinita, si era ad-dormentata stringendosi a se stessa per cercare un po’ di conforto. Sospirai. Percorsi con gli occhi la pelle del suo viso che poi si tuffava nel colletto sgualcito dell’abito. Doveva aver fame. Dubitavo fortemente che Jake fosse stato così attento da darle qualcosa da mangiare e, anche se l’avesse fatto, potevano essere solo i peggiori scarti. Strinsi i denti cer-cando di controllare la mia rabbia, cercando di trattenermi dallo sgatta-iolare in quello stesso istante verso la sua nave ed entrare di soppiatto nella sua cabina per piantargli un coltello dritto nel petto. Non si sareb-be nemmeno svegliato. Con tutto l’oro che aveva guadagnato il giorno prima doveva aver bevuto a sufficienza per almeno un paio di vite. Ma, naturalmente, non potevo farlo davvero. Non se volevo conservare ancora a lungo la mia testa sul mio collo. Stavo per alzarmi e scendere verso le cucine per procurare qualcosa da mangiare alla mia ospite, quando i miei occhi furono attirati dalla ferita intorno ai suoi polsi. Era arrossata e ancora sporca di sangue, la pelle sembrava essere stata consumata dalle corde. Si sarebbe infettata presto se non fossi intervenuta. Allungai la mano e sfiorai la pelle delicata, sentendo come emanasse un poco salutare calore, ma non toccai la feri-ta pensando che le dolesse; avrei dovuto chiedere a Mark, uno dei membri più vecchi del nostro equipaggio, di lasciarmi un po’ di quella miracolosa pozione che creava con alcune piante che incontrava nell’isola. Avrei anche potuto chiedergli che mi insegnasse a farla. Improvvisamente, trovai due occhi celesti piantati nei miei che mi guardavano confusi. Fu solo un lunghissimo istante, poi la confusione si trasformò in comprensione e di nuovo in paura. Lei scattò a sedere schiacciandosi contro la testata del letto e raggomitolandosi, a mia volta balzai in piedi mostrandole i palmi delle mani e le mie buone intenzio-ni. Pregai che non riprendesse a piangere, perché dubitavo che sarei riusci-ta a sopportarlo. «Non voglio farvi del male.» Scossi la testa pensando tra me e me che non avevo fatto altro che ripe-tere quella frase con scarsi risultati da quando era entrata nella mia vita.

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I suoi occhi mi squadravano seri e spaventati, ma, questa volta e con mio grande sollievo, non c’era ombra delle lacrime. Anche se erano de-cisamente arrossati per la stanchezza, la paura e il pianto. «Avete fame?» provai a chiedere tranquillamente. Lei abbassò lo sguardo fissandosi le mani. Per un attimo pensai che non avrebbe risposto, che avrebbe continuato a ignorarmi come se non esi-stessi nemmeno. «Sì» sussurrò con una voce sottile e ancora incerta per il sonno. Mi permisi di sorridere, incredibilmente sollevata. Ma lei non mi vide, intenta com’era a fissarsi le ferite sui polsi con le sopracciglia aggrotta-te. «Dobbiamo fare qualcosa per quelle.» Feci un passo avanti nella sua direzione, ma mi fermai immediatamente non appena la vidi schiacciarsi lontano da me. Sollevai di nuovo le ma-ni portandomi un passo lontana da lei. «Mi dispiace. Non voglio spaventarvi.» Mi voltai raggiungendo un piccolo baule in legno decorato che aveva-mo recuperato un anno prima e che avevo tenuto per me. Vi erano inci-si degli alberi di olivo e mi ricordava incredibilmente la terra nella qua-le ero nata. E la grande proprietà intorno alla mia villa a Granada. Chiu-si gli occhi a quel pensiero. Quella non era più mia. Ammesso che lo fosse mai stata davvero. Ricacciai il mio dolore e la mia delusione in un angolo della mia anima e mi rivolsi di nuovo alla giovane che mi guar-dava attenta. «Qui ci sono vestiti. Sono puliti. Qualcuno deve essere della vostra ta-glia. Scegliete ciò che più vi aggrada.» La vidi guardarsi intorno indecisa e capii a cosa stesse pensando. «Non preoccupatevi, io vado a prendere qualcosa da mangiare e una medicina. Fate con comodo, busserò alla porta prima di entrare.» Mi morsi il labbro indecisa. «Solo, per piacere, rispondetemi quando lo fa-rò per sapere se posso o non posso rientrare.» Lei annuì, piano, forse indecisa se credere alle mie parole o interpretar-le come una trappola, io le dedicai una lunga e incerta occhiata prima di annuire a mia volta e uscire. Mi diressi con passo svelto verso la coperta dell’equipaggio. Svegliai a fatica Mark che, aprendo un solo occhio, lanciò la mano tra le sue cose passandomi una scatolina piena di una pasta verde e con un odore non

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proprio appetitoso, dopo che gli spiegai quale tipo di ferita dovessi cu-rare. Poi si voltò e riprese a russare. Dubitai che si sarebbe ricordato di a-vermi dato quell’intruglio. Mi strinsi nelle spalle. Non era un mio pro-blema. Mi diressi a grandi passi verso la cucina e presi un piatto in legno abba-stanza grande. Afferrai del pane non lievitato, un grosso pezzo di for-maggio, alcuni frutti che sembravano non troppo maturi e della birra scura. Lasciai la birra al suo posto scuotendo la testa e riempii una grossa caraffa d’acqua fresca. Probabilmente doveva essere assetata. Uscii fuori per risalire verso la mia cabina e tornai indietro prendendo un coltello per il formaggio e un paio di uova già cotte. A quel punto mi mossi di nuovo il più rapidamente possibile, tanto che arrivai davanti alla porta della cabina con il fiatone. Presi un lungo re-spiro per calmarmi e bussai. Dovetti attaccare l’orecchio al legno per sentire la voce della giovane che mi invitava a entrare. La trovai esattamente dove l’avevo lasciata, seduta sul letto con la schiena appoggiata alla testata. Ma potevo vedere che si era cambiata. Appoggiai il piatto poco distante da lei e presi la scatolina con la medi-cina. La aprii per mostrargliela. «Questa pomata vi aiuterà, ma dovete permettermi di spalmarla sui vo-stri polsi.» Lei mi guardò per un attimo. Poi un rumore abbastanza evidente che proveniva dal suo stomaco le fece distogliere lo sguardo. Un piccolo sorriso si formò sulle mie labbra. «Forse è meglio se mangiate qualcosa prima.» Presi il piatto e lo avvicinai a lei con gesti finalmente un po’ più sicuri. «Non sapevo cosa vi piacesse. Ho portato tutto ciò che ho trovato.» Lo posai vicino a lei al suo fianco e le versai un bicchiere d’acqua. Lei lo prese dalle mie mani con movimenti insicuri. Bevve avidamente e posò il bicchiere nel piccolo mobiletto alla sua destra. Improvvisamente afferrò il coltello, che avevo preso per il formaggio, con entrambe le mani e me lo ritrovai puntato alla gola. Sentii distintamente la punta che penetrava nella pelle, forse una piccola goccia di sangue stava mac-chiando la lama. Guardai prima il metallo e poi spostai lo sguardo sui suoi occhi. Lentamente.

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Era un animale in gabbia e spaventato. Poteva essere davvero un peri-colo per me? Lo dubitavo. Vedevo il dubbio nei suoi occhi, era combat-tuta tra la paura e il sollievo di non aver subito nessuna violenza da quando era con me. «Mi fa male» sussurrai piano. Come sospettavo immediatamente la lama si allontanò quel tanto che bastava per non premere sulla mia pelle. Non era un vero pericolo, non per me almeno, e quella ne era la prova. Forse non sarebbe mai riuscita a far del male a nessuno. Aveva gli stes-si occhi limpidi e puri che hanno le persone buone. Ero quasi sul punto di abbozzare un sorriso quando, con un movimento repentino, spostò la lama sul suo collo. Questo mi spaventò davvero. Non sapevo se fosse abbastanza terroriz-zata e senza speranze da trovare il coraggio di farlo davvero, supponevo di no. Ma non potevo fidarmi solo del mio istinto. «No!» dissi decisa. Non potevo permetterle di farsi del male. Non volevo che quello sguar-do si spegnesse per sempre. Non volevo che quell’azzurro smettesse di brillare. «Non vi farò del male. Fidatevi di me. Vi prego. Datemi quel coltello e io vi prometto che vi porterò ovunque vorrete. Sana e salva.» La vidi dubitare e distogliere lo sguardo. Se avessi voluto, in quel mo-mento, avrei potuto colpirle la mano e far volare il coltello lontano. Ma sentivo che quella era una delle poche possibilità che avevo per guada-gnarmi la sua fiducia. Qualunque movimento brusco, qualunque parola di troppo, qualunque sguardo sbagliato avrebbe potuto significare un passo falso difficilmente recuperabile. Non mi mossi, semplicemente attesi che i suoi occhi tornassero a posar-si sui miei. Non so nemmeno quanto tempo restammo ferme nelle nostre posizioni. Poi lei sollevò lo sguardo e io sorrisi. Si mosse e voltò il coltello tra le sue mani per porgermi il manico d’osso. Io lo presi nascondendo un sospiro di sollievo. «Grazie» le dissi piano. Lo pulii sui miei pantaloni prima di tagliare un pezzo di formaggio e uno di pane e passarglielo. Lei lo prese piano iniziando a masticare lentamente senza spostare i suoi occhi da me. Sentivo il suo sguardo che studiava ogni mio movi-

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mento. Rimanemmo lì a lungo. Io stavo attenta a tutto, versandole da bere e tagliandole il pane. Le sbucciai un uovo e lo tagliai in quattro mentre lei prendeva lentamente ogni boccone. Alla fine le preparai la frutta e attesi che finisse anche quella. «Posso portarvi qualcos’altro?» domandai posando il piatto e il coltello vicino a lei dimostrandole la mia fiducia. Lei scosse la testa lasciandomi in qualche modo delusa per non aver sentito di nuovo la sua voce. Ma sorrisi. «No, ma grazie» disse improvvisamente distogliendo lo sguardo. Mi alzai piano con una strana sensazione di pace che mi riscaldava. Mi mossi per prendere la medicina e un paio di bende pulite che avevo con me nella cabina. «Posso spalmarvi questa? Vi giuro che, anche se puzza come qualcosa che è morto da diverso tempo, funziona!» «Sì.» Allungò le braccia e mi avvicinai massaggiando delicatamente quella pasta verde sulla sua pelle ferita e arrossata. Poi la bendai con attenzio-ne. Lei sbadigliò strappandomi un sorriso. «Vi lascio riposare. Ma appena volete possiamo parlare.» Feci un paio di passi e poi mi fermai di nuovo guardandola, improvvisamente con-scia di una cosa. «Sono Vicente.» Lei non disse niente, limitandosi a guardarmi. Io mossi la testa e mi voltai di nuovo aprendo la porta. «Elise.» Mi voltai di scatto fissandola. Mi ritrovai a sorriderle di nuovo. «Elise» dissi a voce bassa. «Vi prometto che vi riporterò a casa.»

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3. Quella prima giornata con Elise passò rapida. Ogni volta che riunivo il coraggio sufficiente per entrare nella mia cabina la trovavo immanca-bilmente addormentata. Non credo che fosse solo la stanchezza fisica, probabilmente lo stress emotivo doveva averla distrutta. O forse finge-va e chiudeva gli occhi non appena sentiva che bussavo, non posso sa-perlo con certezza. Comunque fosse, ogni volta che aprivo la porta e facevo un paio di passi verso di lei per guardarla, abbracciata al cusci-no, mi sentivo tranquilla. Immagino che non fossi ancora pronta neppu-re io per affrontarla. Riuscii a scambiare due parole con lei solo all’ora di cena. Avevo paga-to uno dei mocciosi della zona perché andasse a prendermi uno dei fa-mosi polli alla brace che facevano nella “Locanda del morto”. Era pro-babilmente l’unica cosa che potesse avvicinarsi alla buona cucina nella zona. Ed Elise sembrò apprezzarlo davvero. Ma alla fine la lasciai di nuovo sola. Era un processo lento e difficile, doveva abituarsi a me gradualmente. La fiducia è difficile da ottenere e facile da perdere. Quando uscii incrociai Alex che evidentemente mi aspettava per poter parlare con me, fece un gesto con la testa e io lo seguii sul ponte, nella parte alta che ospitava il grande timone. «Mi devi una quantità spaventosa d’oro!» disse finalmente. Mi limitai a sbuffare. Lui aveva questo strano modo di dimostrare inte-resse e di farmi sentire che mi appoggiava nelle mie scelte. «Te lo restituirò.» «Quando?» «Quando sbarchiamo vai a trovare mia sorella nella mia proprietà» dissi con un’alzata di spalle. «Sei troppo buono per essere un pirata, Vicente» disse rimarcando con forza il mio nome. «Anche tu.» «Non è vero.»

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«Mi ricordo distintamente di una giovane spagnola che è stata salvata da te quando poteva finire in mare come cibo per pesci.» «Oh ma sarebbe stato uno spreco! Perché ricordo che aveva davvero un bel fondoschiena!» sogghignò lui. «Young, sei davvero un idiota!» «Cosa pensi di fare con lei?» chiese tornando serio. «Riportarla a casa.» Lui sollevò gli occhi al cielo non appena quelle parole lasciarono le mie labbra. Non che si aspettasse qualcosa di diverso, devo dire. «Dove?» chiese con un sospiro rassegnato. «Non lo so. Non me l’ha ancora detto.» «Che diavolo, Vì!» «È spaventata, va bene? Non posso mica obbligarla a parlare!» «E se fosse figlia di qualche ammiraglio inglese e ci trovassimo tutta la dannatissima flotta di Sua Maestà alle calcagna?» «Non dire idiozie, non lo possono sapere! Penseranno che sia morta! Noi la riporteremo a casa, saremo eroi!» spalancai le braccia cercando di dare maggiore enfasi a quella possibilità. Ma non sembrò per niente colpito da quel misero tentativo. Come sem-pre mantenne i piedi ben saldi per terra e la testa fredda. «Questo porto è un covo di ubriaconi, puttane e spie! Una giovane fan-ciulla inglese, bella ed elegante comprata a peso d’oro dal più stupido pirata che sia capitato sulla faccia della terra, che sei tu se non ti fosse chiaro, non è una cosa che succede tutti i giorni! Il mondo è più piccolo di quello che sembra!» «Andrà tutto bene!» dissi lentamente. «Dobbiamo partire subito. Ma soprattutto dobbiamo liberarci di lei il prima possibile!» «Credi che non lo sappia?» «Credo che tu ti stia cacciando in un guaio peggiore di quello che pen-savo! E mi stai trascinando con te! Me e tutta la stramaledetta ciurma!» «Cosa vuoi che faccia?» Lui si passò una mano sulla testa e mi fissò per un lunghissimo attimo addolcendo lo sguardo a poco a poco. Quando mi guardava in quel mo-do mi ricordava Francisco, mio fratello. Anche lui aveva lo stesso modo di cercare di farmi ragionare quando combinavo qualcosa da bambina per poi arrendersi e, semplicemente, limitarsi a proteggermi. Per

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l’ennesima volta mi ritrovai a pensare a cosa stesse facendo. Si era spo-sato? Aveva avuto figli? Si ricordava di me? «Solo, per favore, cerchiamo di risolvere questa faccenda nel minor tempo possibile! Magari cerchiamo anche di uscirne vivi!» Scosse la testa, quasi come se pensasse che fossero parole sprecate. «Adesso va-do alla locanda, Susan fa di nuovo il suo spettacolo stanotte! Ma tu par-la con lei, quando torno voglio avere una meta.» Annuii lentamente mordendomi il labbro inferiore. «Alex?» «Che vuoi, Vicente!» «Adesso sta riposando, posso parlarci domattina?» Lui mi guardò con la bocca spalancata, prima di fare un gesto di resa. «Fa’ quello che vuoi stupido idiota!» Si voltò per andare via poi si fer-mò quando era già a un paio di metri di distanza. «Sai qual è davvero la cosa divertente?» Lo chiese con un sorriso effettivamente divertito sulle labbra. «Dimmi» sospirai in attesa di sapere cosa gli fosse venuto in mente. «Che non te la puoi nemmeno portare a letto!» Sbuffai portando la mano sull’elsa della spada mentre lui si voltava per correre via saltando sulla scialuppa che l’avrebbe portato a terra. Lo vi-di che mi salutava con la mano mentre io mi appoggiavo all’albero ma-estro e sollevavo lo sguardo verso il cielo stellato. Improvvisamente mi chiesi dove diavolo avrei dormito quella notte. Chiusi gli occhi domandandomi cosa stessi combinando. Alla fine passai una notte agitata e scomoda, la seconda di seguito. Mi risvegliai con la schiena poggiata al timone, intorpidita e raffreddata. Sbuffai mentre mi alzavo sperando che nessuno mi avesse visto. Certo, avrei potuto sempre raccontare di essere stata troppo ubriaca anche solo per ricordarmi dove fosse la mia cabina, ma era meglio non attirare troppo l’attenzione. Alzai gli occhi al cielo trovandolo di quello strano colore indefinito che assume sempre prima dell’alba, quando la notte sta sparendo lentamente, ma il giorno ancora non si decide a farsi vede-re del tutto. Sospirai stirando tutti i muscoli della schiena prima di scendere verso le cucine. Presi il solito piatto in legno e un’abbondante razione di un formaggio fresco di capra. Trovai delle piccole gallette di mais che a me piacevano molto, sperando che anche a Elise potessero piacere, e la solita frutta. Per fortuna in quel porto si poteva trovare di tutto.

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Risalii verso la mia cabina e bussai piano. Non ottenni risposta, ma de-cisi di entrare comunque. La trovai addormentata nella sua solita posi-zione, sdraiata sul fianco sinistro con il cuscino posto di lato in modo da poterlo anche abbracciare. Posai il piatto sul mobiletto vicino al letto e mi fermai per valutare la situazione. Non sapevo se fosse il caso di svegliarla o se, magari, fosse meglio lasciarla riposare tranquilla. Era la prima volta che la vedevo con quell’espressione completamente rilassa-ta. Decisi di sedermi nella poltroncina che c’era al lato della piccola scrivania in legno. Sospirai soddisfatta notando quanto fosse incredi-bilmente comoda dopo due notti passate a dormire sul legno duro e u-mido del veliero. Allungai le gambe poggiandole sulla scrivania stessa. Pensai che avrei potuto chiudere gli occhi un attimo in attesa che Elise si svegliasse, per poi provare a parlare con lei e decidere il da farsi. Sospirai mentre sentivo i miei muscoli che si rilassavano. Sì, in fondo potevo chiudere gli occhi un attimo per riposarli. Mi sarebbe bastato un minuto. Non saprei dire quanto tempo dormii su quella poltroncina. So solo che quando riaprii gli occhi mi ritrovai una delle coperte del letto posata de-licatamente su di me e una voce dolce che canticchiava un motivetto inglese che non avevo mai sentito prima. E la cosa non era strana, io conoscevo solo le canzoni volgari che venivano cantate nelle locande o nelle lunghe giornate di navigazione solcando i mari. Mi sedetti di scatto e mi voltai incrociando gli occhi di Elise che aveva in mano uno dei miei libri. Quasi caddi dalla sedia nel tentativo di ren-dermi presentabile e di non sembrare una selvaggia. Sperai sul serio di non avere russato a causa della posizione strana nella quale mi ero ad-dormentata. Al suo lato vidi il piatto che le avevo portato per fare cola-zione completamente intatto e balzai in piedi. «Mi dispiace! Non vi piace? Posso andare a prendere qualche altra co-sa! Torno subito.» Mi accorsi dalla sua espressione accigliata poiché, probabilmente, stavo parlando con un tono troppo alto e troppo acuto. Storsi il naso irritata con me stessa e feci un passo per prendere il piatto e uscire rapidamente da lì. Anche perché ero sicura che la mia pelle stesse assumendo una tonalità innaturalmente rossastra ben visibile nonostante la mia carna-gione olivastra. «Mi piace» disse improvvisamente con quel suo tono dolce e delicato.

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«Oh, va bene» mi grattai la nuca indecisa sul da farsi. Perché diavolo non aveva mangiato se le piaceva? «Volevo aspettare che vi svegliaste, Vicente.» Quella era senza dubbio la frase più lunga che mi avesse rivolto da quando l’avevo conosciuta. E quella era la prima volta che pronunciava il mio nome. O almeno uno dei due. Mi trattenni dal sorridere compia-ciuta di me stessa. «Mi dispiace avervi fatto aspettare.» Lei scosse delicatamente la testa. «Sembravate stanco.» Mi schiarii la voce. «Avete appetito?» le chiesi. «Sì.» «Vi ho portato queste gallette di mais, sono le mie preferite.» Mi risedetti comodamente e iniziai a spalmare il formaggio sul pane avvicinandolo a lei. Lei ne prese uno e io immediatamente continuai la mia opera preparandole anche il secondo. Elise non mangiava e mi guardava. «Non mangiate?» le chiesi confusa. «E voi?» «Non preoccupatevi per me! Andrò dopo a prendere qualcosa in cuci-na.» Lei aggrottò le sopracciglia e inclinò la testa di lato scrutandomi. «Avete portato da mangiare per tutto l’equipaggio. Possiamo fare cola-zione insieme?» Finalmente, capii perché avesse atteso tanto e le fui grata per la fiducia che sembrava volermi accordare. Pensai fosse un buon punto di parten-za per poter parlare con lei. «Certo.» Annuii, incapace di aggiungere altro e la guardai con la coda dell’occhio iniziando a mangiare insieme. «Mi piace» disse guardando la galletta di mais. «In Inghilterra non c’è niente di simile. Mi portavano sempre il pudding nero per fare colazio-ne. Ma non lo mangiavo mai. L’avete mai provato?» Io mi ritrovai a fissarla a bocca aperta. Aveva iniziato a parlare con una tranquillità disarmante. Avrei potuto abituarmi al suono di quella voce. «No» dissi dopo un lungo silenzio rendendomi conto che si aspettava una risposta.

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«Voi non siete inglese, vero? Anche se lo parlate bene. Quel libro che stavo sfogliando credo che sia scritto in spagnolo.» «Sono spagnolo. Sono nato e cresciuto a Granada.» «E com’è?» «Calda!» risposi ridendo. «E piena di olivi! Avevamo un grande terreno poco fuori la città.» «Mi piacerebbe vederla.» «L’ultima volta che l’ho vista è stato cinque anni fa. Dalla piccola fine-strella della carrozza che mi ha portato verso il porto di Siviglia. L’ultima cosa che ho visto è stata l’Alhambra, il vecchio palazzo dei regnanti infedeli, che si stagliava contro il cielo limpido nella collina più alta.» Probabilmente dovette accorgersi che il mio tono era cambiato, tra-sformandosi in un sussurro malinconico, perché cambiò immediata-mente argomento. «Io sono nata a Jamestown2, la prima colonia inglese del Nuovo Mon-do» disse dividendo a metà una maracuja gialla e porgendomene una parte. «Cosa facevate in Inghilterra?» «Mio padre mi ha inviata lì sei anni fa per poter completare la mia for-mazione e conoscere la nostra Patria. Sono l’ultima della famiglia. Ho due fratelli maggiori e una sorella che si è sposata l’anno scorso. Non sono potuta andare al matrimonio.» Misi da parte il piatto e mi alzai per prendere la medicina chiedendole di mostrarmi i polsi in modo da poterle cambiare la fasciatura. «Com’è l’Inghilterra?» domandai mentre le pulivo delicatamente le fe-rite con un panno bagnato. «Fredda» rispose con un sorriso. Mi fermai per un attimo. Era decisamente la prima volta che la vedevo sorridere. «Ma non ho visto molto. Sono stata in un collegio privato alla periferia di Oxford» continuò guardando le mie mani che si muovevano sulla sua pelle ferita. «Stavo tornando da mio padre per fare il mio ingresso in società. Credo che voglia trovarmi un marito al più presto.» «Ho finito» dissi avvolgendo l’ultima benda.

2 Jamestown si trova nell’attuale Virginia.

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«Grazie» sussurrò. «Elise, vi riporterò dalla vostra famiglia.» Lei distolse lo sguardo mordendosi il labbro inferiore, come se fosse ancora indecisa se credermi o meno. «Davvero?» chiese infatti dopo un’attesa infinita. «Lo prometto.» Lei abbozzò un sorriso nuovamente. «Ditemi solo dove, parlatemi della vostra famiglia e io la troverò.» «Sono la figlia di Arthur Wollingfort, abbiamo terre…» Saltai sulla sedia a quel nome. «Cosa?» urlai incapace di trattenermi e mi pentii subito della mia rea-zione quando la vidi ritrarsi spaventata. Ritornai al mio posto lentamente e presi un profondo respiro per tran-quillizzarmi. «Scusate» le dissi. «Siete figlia di quell’Arthur Wollingfort?» Lei aggrottò le sopracciglia confusa. «Lo conoscete?» Non sapevo se stesse scherzando o cosa. Era impossibile non conoscere la famiglia Wollingfort. Era uno degli uomini più ricchi d’Inghilterra ed era stato tra i primi a espandere le sue terre anche nelle colonie del Nuovo Mondo grazie alla compagnia della Virginia di Londra. Si rac-contava che potesse competere con il Re stesso in quanto a proprietà. Se si era sparsa la voce che sua figlia era ancora viva, e in mano a dei pirati per giunta, avremmo passato davvero dei grossi guai. Ammesso che Alex non avesse deciso di scuoiarmi viva prima per averlo fatto precipitare in quel problema. «No, non lo conosco di persona. Ma il nome della vostra famiglia non può essere ignorato nel Nuovo Mondo e nemmeno nel Vecchio.» Lei sembrò sorpresa. Ed era ovvio. Era partita giovanissima per stare chiusa in una scuola privata dove le avevano insegnato soprattutto le buone maniere che una dama dell’alta società doveva conoscere per ot-tenere un matrimonio conveniente. Non c’era da stupirsi del fatto che non conoscesse del tutto l’importanza della sua famiglia. Aveva due fratelli maggiori che avrebbero ereditato l’impero e che, probabilmente, si occupavano già degli affari. Lei era solo una donna. La più giovane, per giunta. Arthur Wollingfort le avrebbe trovato un buon marito, a-vrebbe pagato la dote e si sarebbe dimenticato di lei. Ma se aveva sco-perto che era sopravvissuta all’attacco pirata, cosa davvero probabile

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visto quanto era potente, avrebbe senza dubbio mobilitato la flotta mili-tare inglese alla ricerca dello sfortunato vascello pirata che la teneva prigioniera. Avevo davvero bisogno di informare Alex. Dovevamo partire il prima possibile e arrivare alla terraferma. L’avrei portata nella mia proprietà e da lì saremmo andate dalla sua famiglia via terra, saremmo partiti dalla mia villa e avremmo proseguito in calesse. E, soprattutto, l’avrei ripor-tata a suo padre come Victoria Lopez. Mi alzai e le feci un inchino rapido. «Devo andare. Prepareremo il viaggio e salperemo il prima possibile.» Mi voltai ignorando il suo sguardo confuso che sentivo su di me. Avevo bisogno di trovare Alex. Sperai solo che non decidesse davvero di but-tarmi in mare per farmela pagare una volta sapute le ultime novità. Fine anteprima.Continua...