L'archeologia italiana di fronte alla sfida dell'open data. Il MOD - MAPPA Open Data archive

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«La ricerca scientifica sostenuta dal Governo Federale catalizza gli avanzamenti innovativi che guidano la nostra economia». Con questa motivazione, nel 2012 Barack Obama ha dira- mato una Direttiva Federale che impone la pub- blicazione in formato open, cioè liberamente accessibile a tutti i cittadini, dei risultati delle ri- cerche scientifiche finanziate con denaro fede- rale. In questo modo chi paga, cioè la collettività, è messo a conoscenza delle ricerche realizzate e di conseguenza è in grado di utiliz- zarne i risultati. La convinzione che il “potenziale di ricerca” di un paese incide in maniera determinante sulla sua competitività, misurata come capacità di produrre innovazione e quindi di rispondere in maniera adeguata ai bisogni espressi dai cittadini, è ovviamente ben chiara anche alle istituzioni europee, che fin dal 2009 hanno varato i progetti OpenAIRE e OpenAIREplus,

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Ovvero come le politiche open rappresentino una necessaria innovazione per l'archeologia e un'utile strumento per superare la crisi.

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«La ricerca scientifica sostenuta dal GovernoFederale catalizza gli avanzamenti innovativiche guidano la nostra economia». Con questamotivazione, nel 2012 Barack Obama ha dira-mato una Direttiva Federale che impone la pub-blicazione in formato open, cioè liberamenteaccessibile a tutti i cittadini, dei risultati delle ri-cerche scientifiche finanziate con denaro fede-rale. In questo modo chi paga, cioè lacollettività, è messo a conoscenza delle ricercherealizzate e di conseguenza è in grado di utiliz-zarne i risultati.

La convinzione che il “potenziale di ricerca”di un paese incide in maniera determinante sullasua competitività, misurata come capacità diprodurre innovazione e quindi di rispondere inmaniera adeguata ai bisogni espressi dai cittadini, è ovviamente ben chiara anche alleistituzioni europee, che fin dal 2009 hanno varato i progetti OpenAIRE e OpenAIREplus,

Gabriele69
Timbro
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il primo dedicato all’open access (ovvero l'accesso senza restrizioni a monografie e articolipubblicati in riviste scientifiche), il secondo agli archivi open data (ovvero archivi di datiliberamente accessibili a tutti). Entrambi i progetti erano finalizzati alla creazione d’in-frastrutture digitali e meccanismi di sostegno per l’accesso aperto ai risultati dei progettiscientifici finanziati dall'European Research Council (ERC). Da quei progetti sono sca-turiti: - DARIAH, l'infrastruttura digitale di ricerca per le Arti e le Lettere, che si propone divalorizzare e sostenere la ricerca e l'insegnamento delle scienze umane e delle arti construmenti digitali scientificamente controllati, - Europeana, la biblioteca digitale europea; - Ariadne, un progetto tutt’ora in corso, che interessa da vicino gli archeologi perché,come il filo della fanciulla cretese da cui prende il nome, mira a collegare e integrare leinfrastrutture di dati di ricerca archeologica già esistenti allo scopo di orientare gli stu-diosi nel loro lavoro e contribuire a creare, nel contempo, una nuova comunità di ricer-catori capaci di sfruttare il contributo dell’Information Technology e ad incorporarlo neltradizionale bagaglio delle metodologie della ricerca archeologica.

La consapevolezza che un sistema della ricercaefficiente, non frammentato e privo di duplica-zioni genera benessere economico e coesione so-ciale si è dunque ampiamente radicata, tanto dadiventare uno degli obiettivi primari del nuovo,grande programma quadro che nei prossimi cinque anni impegnerà i migliori ricercatoridi tutta Europa, in tutti i campi del sapere, compreso il Cultural Heritage: Horizon 2020,che proprio in queste settimane viene “lanciato” presso tutte le istituzioni di ricerca eu-ropee e partirà nel prossimo anno. Tra le premesse di Horizon 2020 vi è infatti la con-vinzione che un approccio strategico all’innovazione e alla ricerca presupponel’ottimizzazione dell’impatto dei finanziamenti pubblici e che questo passa necessaria-mente attraverso una libera circolazione e un ampio utilizzo dei risultati della ricerca,da parte sia degli stessi ricercatori, sia del sistema produttivo e, più in generale, della so-cietà tutta: in questo modo è possibile superare il paradosso secondo il quale – comeha scritto John Wilbanks, direttore esecutivo del progetto Science Commons – «in un’epocain cui disponiamo delle tecnologie per consentire la fruizione dei dati scientifici a livelloglobale e di sistemi di distribuzione delle informazioni che ci consentirebbero di am-pliare la collaborazione e accelerare il ritmo e la profondità delle scoperte […] siamooccupati a bloccare i dati e a prevenire l’uso di tecnologie avanzate che avrebbero unforte impatto sulla diffusione della conoscenza».

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L’accesso aperto, gratuito, senza restrizioni e in for-mato interoperabile a dati e informazioni frutto delleattività di ricerca è inoltre essenziale per rinforzare larelazione tra scienza e società, per rinsaldare la fiduciacollettiva nella ricerca e per massimizzare, anche in ter-mini di consenso, il ritorno dell’investimento pubblicoin ricerca.

Non è possibile rinviare oltre una risposta soddisfacente alla richiesta di una liberacircolazione di ricercatori e idee che, con forza sempre crescente, proviene da una so-cietà in cui l’avvento, nel 1991, del world wide web ha prodotto una vera e propria rivolu-zione dei modelli di trasferimento e disseminazione della conoscenza. Una rivoluzioneparagonabile a quella prodotta, nel 1455, dall’introduzione della stampa a caratteri mo-

bili, che peraltro ebbe anch’essa non pochi illustri avversari:fra questi vi fu, ad esempio, Federico da Montefeltro, chevent’anni più tardi (un lasso di tempo singolarmente ana-logo a quello che separa noi oggi dalla nascita del www) di-sprezzava a tal punto i libri stampati – perché meno belli epregiati dei codici miniati – da vietarne l'introduzione nellabiblioteca ducale di Urbino, giungendo addirittura al para-dosso di far trascrivere a mano volumi già editi a stampa!Ecco: cerchiamo di non cadere oggi nello stesso anacroni-smo di Federico da Montefeltro.

Se poi le ricerche interessano i Beni culturali – che sonoun patrimonio pubblico, come sancisce l’art. 9 della Costi-tuzione italiana –, sono realizzate da studiosi alle dipendenze di Enti pubblici (Soprin-tendenze, Università, CNR), utilizzando strutture e strumenti pubblici e con finanzia-menti pubblici – fondi MiBAC, fondi MIUR, fondi di Regioni, Enti locali, fondi europei

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– la questione del libero accesso airisultati assume anche una dimen-sione etica: i fondi pubblici sonoalimentati dalle tasse della colletti-vità, che ha il diritto di sapere comevengono spesi i suoi soldi e conquali risultati, anche in termini dipubblica utilità.

In quanto stato dell’Unione eu-ropea, l’Italia ha partecipato ai pro-getti OpenAIRE e OpenAIREplus eparteciperà in forze – si spera – a

Horizon 2020. Nei fatti, però, qual è in Italia la situazione del dibattito sul libero accessoai dati della ricerca?

Dopo l’approvazione, nell’ottobre 2012, del Decreto Legge n. 179, più noto comeDecreto Crescita 2.0, che prescrive una rapida diffusione di archivi aperti in tutta la pub-blica amministrazione (compreso il settore dei Beni Culturali), la discussione sugli opendata si è fatta più viva anche nel nostro Paese. È di poche settimane fa il varo del DecretoLegge n. 91/2013, il cosiddetto Decreto Valore Cultura, che all’art. 2 prevede un pro-gramma straordinario per lo «sviluppo delle attività di inventariazione, catalogazione edigitalizzazione del patrimonio culturale, al fine di incrementare e facilitare l'accesso ela fruizione da parte del pubblico (anche attraverso l'utilizzo di appositi portali e dispo-sitivi mobili intelligenti). […] Lo svolgimento del programma s’inserisce nel quadrodelle indicazioni dell'agenda digitale europea […] attraverso azioni coordinate, dirette afavorire lo sviluppo di domanda e offerta di servizi digitali innovativi, a incentivare cit-tadini e imprese all'utilizzo di servizi digitali e a promuovere la crescita di capacità ela-borative adeguate a sostenere lo sviluppo di prodotti e servizi innovativi. […] I sistemidi conoscenza digitali si adeguano agli standard dei dati aperti e accessibili, così comedefiniti in base alla legge 9 gennaio 2004, n. 4, e al decreto legislativo 7 marzo 2005, n.82, e successive modificazioni e conseguenti disposizioni attuative, nonché in base agliatti dell'Unione Europea in materia di digitalizzazione e accessibilità in rete dei materialiculturali e in materia di conservazione digitale».

Per quanto riguarda l’Università, fin dal 2006 la CRUI (la Conferenza dei Rettori del-le Università Italiane) ha attivato una serie di politiche per l’apertura dei risultati dellericerche finanziate in ambito universitario, culminate con la possibilità per le Universitàdi pubblicare riviste elettroniche, libri, banche dati e tesi di dottorato ad accesso aperto.Il MiBAC, da parte sua,ha promosso recente-mente la realizzazionedel portale CulturaItalia,che intende essere un

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punto di accesso per la fruizione in rete delpatrimonio culturale nazionale, rendendodisponibili risorse e documenti provenientida archivi, musei, biblioteche, fondazioni,regioni, enti locali e altri enti pubblici e pri-vati: siamo però solo all’inizio e in ogni casoil portale contiene schede riassuntive, estre-mamente sintetiche. Nel 2012, inoltre, ilMiBAC ha aderito al progetto Wiki LovesMonuments, un concorso fotografico inter-nazionale che coinvolge cittadini di tutto ilmondo nel documentare il proprio patri-monio culturale attraverso immagini chepoi vengono caricate su Wikimedia Com-mons: senza l’autorizzazione ufficiale delMiBAC, infatti, in Italia nessuno avrebbepotuto partecipare a quel concorso, giacchégli articoli 107-109 del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio vietano di fotografare i BeniCulturali (se non per uso strettamente personale o per motivi di studio), a meno chenon si sia espressamente autorizzati dal Ministero stesso (ma basta dare un’occhiata asiti come Google images o Flickr per rendersi conto dell’anacronismo di questa prescri-zione!). In ogni caso, l’adesione del MiBAC al progetto Wiki Loves Monuments è stata in-credibilmente limitata e circoscritta: il MiBAC ha infatti fornito una lista di siti emonumenti “liberati”, cioè fotografabili, che definire ristretta è dire poco. In Sicilia, adesempio, questi siti e monumenti sono solo 211. Vi sono le cose più varie, dalla chiesadi San Bartolomeo a Scicli (ma solo all’esterno), alle mura di Randazzo, alla targa bron-zea a Giuseppe Garibaldi di Messina. Qui in provincia di Agrigento sono state autoriz-zate le fotografie di un solo sito, la Riserva naturale di Torre Salsa, nel comune diSiculiana. Per quanto riguarda i Beni archeologici, vi sono soltanto il Parco Chiafura aScicli, il Parco archeologico di Kamarina e gli Ipogei di Contrada Celone nel Ragusano,e infine l’Anfiteatro romano, Piano Barlaci, l’acquedotto Cornelio e il Museo Civico aTermini Imerese. Un’occasione senz’altroperduta non solo per gli studiosi, ma pertutti i siciliani: basta pensare, ad esempio, alfantastico traino turistico che, per il Ragu-sano, è stata la serie TV del commissarioMontalbano!

Infine non bisogna dimenticare i Fasti online, promossi dall’Associazione Internazio-nale di Archeologia Classica, con il loro da-tabase di scavi archeologici condotti dal 2000.

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Tuttavia siamo solo agli inizi e il ritardo rispetto al resto d’Europa è ancora moltomarcato. Basta dare un’occhiata all’inglese ADS, Archaeological Data Service, realizzato findal 1996 da un consorzio di dipartimenti universitari di Archeologia e dal Council forBritish Archaeology, con il coordinamento dell’Università di York, che raccoglie e rendeliberamente disponibile on line la documentazione degli scavi condotti dagli archeologiinglesi sia nelle isole britanniche, sia nel resto del mondo, Italia compresa: 1.100.000 re-cord di metadati, oltre 20.000 documenti inediti di scavi, oltre 700 diversi archivi, per

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dati ad aggiungersi alle sterminate documentazioni di scavo in formato cartaceo pro-dotte negli ultimi 40 anni. Inoltre l’affermarsi dell’archeologo come nuova figura pro-fessionale (proprio in queste settimane è in discussione una proposta di legge avanzatadai deputati Madia, Ghizzoni e Orfini, contenente «Modifiche al codice dei beni culturalie del paesaggio, in materia di professioni dei Beni culturali», in cui sostanzialmente èprevista l’istituzione di un registro nazionale dei professionisti dei Beni culturali, tra cuiovviamente gli archeologi) sta determinando una sempre maggiore esigenza di reperireinformazioni in tempi brevi e da parte di un numero crescente di soggetti diversi.

A questa esigenza, tuttavia, non ha corrisposto finora una maggiore accessibilità deidati. Ma dove si conservano i dati archeologici? - nella documentazione di scavo; si tratta dei cosiddetti “dati grezzi” (raw data), raccoltiin schede di Unità Stratigrafica e di quantificazione dei reperti, in tabelle di periodizza-zione e diagrammi stratigrafici, in planimetrie, sezioni e rappresentazioni grafiche divario genere, fotografie e registrazioni video, GIS e banche-dati, e infine in quella cheè comunemente chiamata la “letteratura grigia”, ovvero relazioni preliminari e diari discavo; - nelle pubblicazioni a stampa, in cui compaiono – com’è ovvio – soprattutto “dati in-terpretati” e solo pochi “dati grezzi”, quelli che l’autore ritiene significativi ai fini delladimostrazione delle proprie ipotesi interpretative.

Alla fine di ogni campagna di scavo, tutta la documentazione di scavo dovrebbeessere depositata dai ricercatori negli archivi delle Soprintendenze, dove dovrebbe poteressere consultabile. Tuttavia l’esperienza insegna che non è sempre così, giacché in molticasi i dati non sono resi noti, per non correre il rischio che vengano “scippati”, fino al-l’uscita delle pubblicazioni a stampa, che – quando escono – escono generalmente a di-stanza di anni, spesso di molti, troppi anni dalla conclusione dei lavori (anche più diventi). Questa prassi, purtroppo assai diffusa trasversalmente, presso qualunque tipo diricercatore (docenti universitari, funzionari di Soprintendenza, liberi professionisti), si

non dire della guida per GoodPractices.

Eppure quello dell’archeolo-gia è un settore in cui la neces-sità di aprire gli archivi si avvertecon particolare urgenza, ancheperché in questi anni si è avutoun aumento del numero delleindagini – dovuto in gran parteal diffondersi delle pratiche diarcheologia preventiva – che haportato alla produzione di unagrande mole di dati, spesso informato digitale, che sono an-

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terreno da edificare, piccoli scaviper la posa in opera di pozzetti...),che non giungono mai a essere pub-blicati perché ritenuti poco signifi-cativi, in quanto restituiscono datiframmentari e apparentemente in-spiegabili, ma che possono ricevereluce dal confronto con altri dati.

Frattanto il tempo passa e i datiinvecchiano, inutilizzati o sottouti-lizzati, mentre noi continuiamo aprodurne quotidianamente di

fonda su un malinteso principio di “proprietà” intellettuale che, entro certi limiti, èanche comprensibile, ma non certamente giustificabile, e che in ogni caso è cosa bendiversa dalla “paternità” intellettuale, che invece va tutelata meglio di quanto non av-venga oggi. È evidente infatti che, chi ha fatto lo scavo o il survey deve poter godere diun “diritto di prelazione” sulla pubblicazione del suo lavoro in forma integrale, un dirittoche però dev’essere limitato e definito nel tempo (un anno dalla fine dello scavo? due?cinque?): tutti sappiamo che le pubblicazioni archeologiche richiedono tempi lunghi,ma questo non deve impedire che i “dati grezzi” siano resi disponibili subito dopo lachiusura o anche la momentanea sospensione dell’indagine, in modo che possano essereutilizzati con finalità differenti o da prospettive diverse, ovviamente con tutte le oppor-tune garanzie di tutela della paternità intellettuale che le leggi italiane e internazionalioggi consentono. Ma la cosa ancor più grave è che, quando finalmente esce la pubbli-cazione a stampa, la documentazione di scavo viene in qualche modo percepita come“superata” e talvolta non giunge neppure negli archivi delle Soprintendenze, con la con-seguenza che la collettività viene privata per sempre di informazioni che scaturisconodall’osservazione diretta di quelle innumerevoli tracce di azioni umane o naturali che sisono stratificate nel terreno durante i secoli e che vengono distrutte per sempre nel mo-mento stesso in cui quel terreno viene rimosso con lo scavo archeologico. I dati conte-nuti in quei documenti rappresentano pertanto l'unico elemento di riproducibilità e diri-analisi del processo interpretativo: prendendo a prestito un’espressione del linguaggioinformatico, possiamo affermare che i “dati grezzi” sono il “codice sorgente” dell'ar-cheologia e pertanto la loro paternità intellettuale va riconosciuta e tutelata, cosa cheoggi di fatto non avviene (il che in parte spiega la scarsa propensione dei ricercatori aconsegnarli e i loro timori di venirne espropriati).

Una qualunque ricognizione negli archivi delle Soprintendenze, peraltro accessibilicon sempre maggiori difficoltà per via dei drammatici tagli di fondi e personale che inquesti ultimi anni hanno colpito il MiBAC, rivela in compenso la presenza di documentid’interventi “minori”, per lo più indagini d’emergenza di limitata estensione (strettetrincee per il controllo di condutture sotterranee, carotaggi finalizzati all’analisi di un

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o di redigere una VIArch (Valutazione di Interesse Archeologico) in assenza di dati aggiornati?E, di conseguenza, ha una ricaduta immediata su un modello di pianificazione territorialerispettoso dei resti sepolti. Ma c’è di più. Far uscire le informazioni dal chiuso degli ar-chivi tradizionali, dai laboratori di ricerca e dagli studi professionali, portare a cono-scenza della comunità che cosa si conserva sotto i suoi piedi, coinvolgerla e renderlapartecipe dell’importanza di quei resti, aiutandola a riappropriarsi, in un certo senso, diessi è strategico per far maturare nella coscienza collettiva la consapevolezza della ne-cessità di preservare le tracce del passato per le generazioni future: e questa è la migliorgaranzia per la loro tutela.

A questo dibattito, il progetto MAPPA – Metodologie Applicate alla Predittività del poten-ziale Archeologico, finanziato della Regione Toscana e realizzato dall’Università di Pisacon la collaborazione delle Soprintendenze per i Beni archeologici della Toscana e peri Beni Architettonici, Paesaggistici, Artistici, Storici ed Etnoantropologici di Pisa e Li-vorno, e inoltre della Direzione Regionale per i Beni culturali e paesaggistici della To-scana e del Comune di Pisa, ha offerto il proprio contributo in modo concreto,elaborando il MOD - MAPPA Open Data (www.mappaproject.org/?page_id=454) il primoarchivio archeologico italiano open data, inserito nella lista dei repositories consigliati dal“Journal of Open Archaeological Data” (http://openarchaeologydata.metajnl.com).

nuovi, spesso con costi molto elevati – specie inquesti tempi di crisi –, il cui uso però continua aessere limitato, nel migliore dei casi, a pochi opochissimi riutilizzi. E allora: ricicliamo i “datigrezzi”, lasciamoli liberi per altre analisi su scaledifferenti, per fornire risposte a domande di-verse o in relazione ad altre indagini, o ancoraper riutilizzarli con obiettivi differenti (ad esem-pio di valorizzazione turistica), sempre però nelpieno rispetto della paternità intellettuale di chiquei dati ha prodotto. E quegli stessi dati, aggre-gati in maniera diversa, produrranno nuova co-noscenza.

Nel caso dei dati archeologici, la questionedell’accesso acquista una particolare importanzanon solo per il progresso della ricerca, ma ancheperché la rapida circolazione delle informazionie la trasparenza dei processi di analisi, interpre-tazione e ricostruzione storica ha una ricadutaimmediata sull’efficacia dell’attività di tutela delpatrimonio archeologico: come si può pensaredi concedere un’autorizzazione all’edificazione

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quale si sono ricevute, incrementando così un processo virtuoso che un po’ alla voltaporta alla condivisione di quantità sempre maggiori di dati, secondo il principio del file

Nel MOD chiunque può pubblicare a proprio nome i dati dei propri scavi, in qua-lunque parte d’Italia essi si trovino. “Pubblicare” – ho detto – perché l’inserimento delladocumentazione archeologica nel MOD è una pubblicazione a tutti gli effetti, il cui di-ritto d’autore è tutelato da un codice DOI (Digital Object Identifier: ad es.10.4456/MAPPA.2013.21), che lega per sempre quei documenti al nome del loro autore(o dei loro autori) ed è riconosciuto a livello internazionale, esattamente come i codiciISBN (International Standard Book Numbers) delle monografie e ISSN (International StandardSerial Numbers) dei periodici: una pubblicazione – però – in tempi velocissimi, a costozero e, essendo on line, con un potenziale di disseminazione che nessuna forma di pub-blicazione cartacea potrà mai sperare di avere, specie in questi tempi di crisi, in cui bi-blioteche e studiosi riescono sempre meno a far fronte all’acquisto di nuovi volumi eriviste.

L’uso dei dati pubblicati nel MOD è consentito sulla base di due licenze Creative Com-mons, le licenze che, in tutto il mondo, rendono possibile il riuso creativo di opere del-l'ingegno altrui, nel pieno rispetto delle leggi esistenti nelle varie nazioni. La scelta dellalicenza spetta all’autore dei documenti: - il primo tipo, CC-BY, comporta esclusivamente l’obbligo, perchi intende riusare quei dati, di citarne l’autore e la fonte, esat-tamente come si fa per qualsiasi articolo a stampa o monografia; - il secondo tipo, CC-BY-SA (share alike), oltre all’obbligo di ci-tazione, impone anche di rilasciare le informazioni che si ela-borano, a partire da quei dati, nello stesso formato open con il

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sharing: “io ti do il mio lavoro in formato open e tu restituisci alla collettività il tuo nellostesso formato”.

Del resto, se si parte dalla considerazione che la pratica archeografica – sia essa fruttodel lavoro di ricercatori afferenti a strutture pubbliche, come le Università e le Soprin-tendenze, o di professionisti – è sempre e comunque un’attività di ricerca, dal momentoche produce dati unici e irripetibili, e che ogni buona ricerca si conclude con la divul-gazione dei dati, appare evidente come la divulgazione dei “dati grezzi” e della “lette-ratura grigia” debba essere considerata anch’essa una pubblicazione a tutti gli effetti,salvaguardando sia le competenze che la capacità professionale e l’impegno, anche tem-porale, profuso da chi quei dati ha prodotto con il suo lavoro sul campo.

Il MOD è nato utilizzando come primo set i dati archeografici e archeologici relativia indagini effettuate nel comprensorio urbano di Pisa. L’obiettivo, tuttavia, non è statorealizzare un modello verificato ed esportabile per la creazione di numerosi altri archivi,magari scarsamente comunicanti tra loro, bensì quello di proporre il MOD stesso comel’archivio italiano di dati archeologici grezzi, luogo virtuale e struttura digitale entro laquale possano finalmente trovare spazio tutti quei dati fino ad oggi inaccessibili in rete,come accade nell’ADS di York. Crediamo prioritario, infatti, non disperdere energie erisorse nella creazione di mille archivi locali, ma mettere a disposizione della collettivitàil lavoro già fatto.

A tale scopo, il MOD è stato strutturato in modo assai semplice. In esso tutti gli in-

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terventi archeologici, di qualsiasi tipo o dimensione – dal grande scavo alla piccola trin-cea per la posa in opera di cavi – hanno la stessa visibilità. Ogni intervento è identificatocon il nome della località dov’è stato realizzato, la tipologia e l’anno di esecuzione. Unascansione per macro periodi storici e tematiche archeologiche permette una prima som-maria classificazione dei dati, che aiuta ad orientare l’utente nella navigazione. Il campo“ricerca avanzata” consente di affinare la consultazione aggiungendo, ai campi tematicie cronologici, l’anno di intervento, le parole note all’interno del nome del file, il nomedell’autore e il formato del file da ricercare.

Per ogni singolo intervento sono presenti: - una pagina di introduzione, con una scheda sintetica di presentazione dell’indagine; - una pagina dedicata alla “letteratura grigia” (relazioni), con l’indicazione della modalitàesatta di citazione dei documenti;- una pagina contenente tutta la documentazione disponibile (dataset), suddivisa per ti-pologia (grafica, fotografica, compilativa).

In tutte le pagine rimangono costantemente visibili il codice DOI e il nome dell’au-tore (o degli autori), che sanciscono il riconoscimento della documentazione inseritanel MOD come effettiva pubblicazione scientifica, e inoltre il contatto principale al qualechiedere eventuali informazioni (solitamente l’autore), il nome dell’intervento e l’annodi esecuzione.

Il MOD è stato predisposto per accogliere documenti in qualunque formato sianostati redatti: dwg, pdf, jpg, csv, xml, xls e anche semplici scansioni di materiale cartaceo.

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fondamentale passo: cambiare la mentalità degli archeologi, che non sono abituati acondividere apertamente i dati da loro prodotti – per timore di esserne scippati, maanche per paura di essere criticati – vincendo la loro diffidenza affinché possano scoprirel’utilità e le immense possibilità che il file sharing può offrire. Ogni dato, infatti, ha un

proprio potenziale infor-mativo, ma se si mettonoinsieme tanti dati e li siincrocia con altri dati, ilpotenziale informativocresce in maniera espo-nenziale. Non solo: met-tere a disposizione deiricercatori grandi quan-tità di dati, processabiliautomaticamente, signi-fica traghettare l’archeo-

È sufficiente? No: siamo consapevoli chenon tutti i formati sono open source o machinereadable e che pertanto non tutti i documentiraggiungono gli standard definiti nel 2010dalla Open Knowledge Foundation, secondo laquale «un dato si definisce aperto se chiun-que è in grado di utilizzarlo, riutilizzarlo eredistribuirlo, al massimo con l’obbligo diattribuzione e condivisione allo stessomodo». Ma per l’archeologia italiana, oggi,è urgente e necessario partire! Partire conciò che abbiamo, nei formati disponibili,senza pretendere di “riscrivere” tutto; ini-ziare cioè a liberare dati e a far circolare in-formazioni. In altre parole, fare il primo e

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logia nel campo dei Big Data e immaginare di arrivare ad analisi su larga scala effettuate,come avviene in tutti gli altri campi della scienza, con metodi statistici e modelli mate-matici, che oggi in archeologia non possono essere impiegati proprio a causa del modoframmentato in cui vengono disseminati i dati. Un esempio di quali risultati si possanoottenere con queste metodologie di ricerca è costituito dalla Carta di potenziale archeologicodi Pisa e dalle ricostruzioni della città periodo per periodo, che sono state elaborate conun algoritmo creato appositamente nell’ambito del Progetto MAPPA, tutte consultabiliin formato open sul sito www.mappaproject.org.

Il MOD è ovviamente uno strumento ancora ampiamente migliorabile e proprio ilsuo utilizzo e gli input che verranno dagli utenti saranno di fondamentale importanzaper progettare gli sviluppi futuri: l’auspicio è infatti che il MOD, oltre ad essere un luogodi pubblicazione di dati, diventi anche un luogo di riflessione comune, secondo il col-laudato modello anglosassone che vede i fatti orientare le riflessioni e guidare le scelte,e non viceversa.

Il MOD vuol essere dunque anche un potente in-centivo a migliorare gli standard del nostro lavoro e amigliorarci, mettendo a frutto quanto di meglio ci offrela moderna tecnologia: e questo è il modo migliore percombattere la crisi che ci colpisce, come scriveva quasiun secolo fa, all’indomani della grande depressione del1929, Albert Einstein (Il mondo come io lo vedo, 1931):

«Non possiamo pretendere che le cose cambino, secontinuiamo a fare le stesse cose. La crisi è la piùgrande benedizione per le persone e le nazioni, perchéla crisi porta progressi. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla nottebuia. È nella crisi che sorgono l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie.

Chi supera la crisi, supera se stesso senza essere ‘superato’. Chi attribuisce alla crisi ipropri fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemiche alle soluzioni. L’inconveniente delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel cercaresoluzioni e vie d’uscita.

Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine. Senza crisi non c’è merito.È nella crisi che emerge il meglio di ognuno di noi, perché senza crisi tutti i venti sonosolo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla e tacere nella crisi è esaltare ilconformismo.

Invece lavoriamo duro. E finiamola una volta per tutte con l’unica crisi pericolosa,che è la tragedia di non voler lottare per superarla».

M. Letizia GualandiUniversità di Pisa

Dipartimento di Civiltà e forme del sapere

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