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1 L’Orso bruno marsicano: status attuale e problemi di conservazione Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali Corso di laurea in Scienze Naturali Candidato Ciccotti Alessia N°1308525 Docente guida: Marina Cobolli ANNO ACCADEMICO 2013/2014

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L’Orso bruno marsicano: status attuale e problemi di

conservazione

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di laurea in Scienze Naturali

Candidato

Ciccotti Alessia

N°1308525

Docente guida:

Marina Cobolli

ANNO ACCADEMICO 2013/2014

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“Non so bene perché, ma c'è qualcosa nell'orso che induce ad

amarlo"

J. O. Curwood

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RINGRAZIAMENTI

La riuscita di questo lavoro è stata possibile grazie all’aiuto e alla vicinanza di

molte persone. Desidero perciò ringraziarle tutte. Ringrazio la mia famiglia, in

particolare mia madre, che prima fra tutti, mi ha supportato nei momenti di crisi

e di voglia di mollare tutto. Ringrazio le mie amiche ed i miei amici che con le

loro parole e con i loro gesti mi hanno aiutata a superare delusioni con qualche

risata liberatoria. Ringrazio la professoressa Marina Cobolli che accettando il

tema della mia tesi, mi ha permesso di coronare un piccolo sogno. Ringrazio il

mio paesino, Scanno, che mi ha trasmesso la passione per la natura e per questo

splendido animale che è il simbolo del nostro paese, l’Orso! Ringrazio chi

andando via mi ha fatto capire che anche sola posso raggiungere cose che non

credevo possibili e che maggiormente mi hanno fortificata e resa quello che oggi

sono. Ringrazio i miei compagni dell’università che, anche se non vissuti a pieno,

hanno sempre trovato il modo di aiutarmi e di sostenermi durante gli esami.

Ringrazio infine me stessa perché forse, senza la mia cocciutaggine e la mia

voglia di portare a termine tutto ciò che inizio, questo giorno non sarebbe mai

arrivato.

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Indice

1. Introduzione

2. Ursus arctos Linnaeus,1758

2.1. Dati paleontologici e storici

2.2. Morfologia 2.2.1. Chiavi di riconoscimento delle sottospecie di orso

bruno presenti in Italia

2.2.2. Morfologia U. arctos marsicanus

2.3. Habitat

2.4. Alimentazione

2.5. Rapporti intraspecifici

2.6. Distribuzione geografica

3. Tassonomia e conservazione dell’orso bruno

marsicano

3.1. Variazione fenotipica del cranio

3.2. Supporto della genetica non invasiva

4. Strategia di conservazione

4.1 La sfida della conservazione

4.2 Linee di azione per salvare l’orso

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1.INTRODUZIONE

In questo elaborato verrà trattato lo status attuale dell’orso bruno marsicano e

la sua conservazione, in quanto sottospecie a rischio di estinzione. Dopo una

descrizione iniziale della morfologia, dell’habitat, della distribuzione, della

dieta e dei rapporti intraspecifici dell’orso dell’Appennino, si passa ad

analizzare due studi scientifici. Il primo, svolto dall’università la Sapienza di

Roma, riguardante la differenza fenotipica, in particolare della struttura del

cranio, di questo animale: importante per capire perché sia considerata una

sottospecie. Lo studio mette a confronto la struttura del cranio dell’orso

dell’Appennino con quelli delle Alpi, della Croazia e della Bulgaria. Queste

differenze morfologiche rinvenute, sono probabilmente dovute al lungo

isolamento e all’influenza di colli di bottiglia subiti in passato. Il secondo studio

svolto da Lorenzini et al. (2004), utilizzando la genetica non invasiva, ha

riscontrato che la variabilità genetica di questa popolazione è tra le più basse

mai rivelate per l’orso bruno europeo e nord americano. Anche in questo

studio, le cause vanno ricercate nell’isolamento e nei colli di bottiglia subiti in

passato. Il basso livello di variabilità genetica, così come la ridotta dimensione

effettiva della popolazione, sono aspetti assai preoccupanti che potrebbero

minacciare la sopravvivenza a lungo termine della popolazione di orsi

nell’Appennino. Non sono inoltre da sottovalutare il bracconaggio e il conflitto

con le attività umane, che rappresentano attualmente seri e urgenti problemi

da risolvere. Ecco quindi che l’elaborato si conclude con la descrizione di una

serie di strategie da attivare, per cercare di ridurre il rischio di estinzione di

una sottospecie che è stata scelta come simbolo del Parco Nazionale d’Abruzzo,

Lazio e Molise. Si suggerisce, quindi, di favorire l’aumento della popolazione

esistente attraverso l’implementazione di misure di conservazione più efficaci

e attraverso la corretta gestione dell’habitat. Allo stato attuale, si sconsiglia di

effettuare immissioni di orsi di altri popolazioni, per evitare l’estinzione

genetica della popolazione autoctona.

Il motivo che mi ha spinta ad interessarmi dell’orso, dipende dal fatto che

credo sia uno splendido animale, descritto alla perfezione da una frase detta da

un naturalista romano: “L’orso è un animale solitario e scontroso. Se ne sta alla

larga da tutti e, ovviamente, soprattutto dall’uomo, rintanandosi chi sa dove alla

ricerca di un silenzio e in difesa di una selvaticità, che gli sarà, in tempi di

turismo cialtrone, sempre più difficile da trovare. E quando le ultime residue tane

di silenzio e di selvaticità saranno spazzate via, anche l’orso sparirà”. La

mortalità di origine antropica è, infatti, attualmente il principale fattore di

rischio su scala locale. Limitare questo rischio vuol dire comprendere a fondo

le cause dei contrasti e del conflitto con le popolazioni locali e con le attività

antropiche, ma allo stesso tempo agire con determinazione per assicurare

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all’orso la tranquillità che gli spetta all’interno di un Parco Nazionale. È giusto

quindi dare all’orso la giusta attenzione che merita, perché è un simbolo, il

simbolo del nostro paese.

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2.URSUS ARCTOS LINNAEUS, 1758

Regno: Animalia

Phylum: Chordata

Classe: Mammalia

Ordine: Carnivora

Famiglia: Ursidae

Genere: Ursus

Specie: Ursus arctos

Alla fauna italiana fanno parte due distinte sottospecie di Ursus arctos:

- l’ U. arctos arctos Linnaeus, 1758 che si trova sulle Alpi centrali e orientali;

- l’ U. arctos marsicanus Altobello, 1921 che si trova nell’ Appennino centrale.

Poiché il tipo non è stato indicato tra gli esemplari della collezione Altobello, è

stato designato un Lectotypus da Vigna Taglianti nel 1995. Si tratta di una

femmina subadulta rinvenuta a Valle di Cerro – Collelungo (L’Aquila) il

31.7.1920. Attualmente il cranio si trova presso il Museo dell’ Istituto

Nazionale per la Fauna Selvatica, Ozzano dell’Emilia, scheda 3910, coll.

Altobello n.354, mentre la pelle naturalizzata è conservata presso il Museo di

Zoologia dell’Università di Bologna (n.100463)

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(2.1)DATI PALEONTOLOGICI E STORICI

L’orso Bruno comparve in Europa tra il Pleistocene inferiore e il Pleistocene

medio (Rustioni & Mazza, 1993). Essi presero il posto degli orsi etruschi , Ursus

etruscus, e dettero vita alla linea degli orsi delle caverne e alla forma tipica U.

arctos L., 1758. L'orso delle caverne (Ursus spelaeus), simile all'orso bruno, ma

più grande e massiccio, era molto diffuso durante l'ultimo periodo glaciale; era

una specie essenzialmente erbivora, che utilizzava abitualmente le grotte come

riparo, trovandosi così in competizione con l'uomo preistorico. L'aspetto

poderoso e le grandi dimensioni di questo mammifero hanno fortemente

influenzato l'immaginazione dell'uomo, fin dal paleolitico superiore: ne sono

testimonianza varie raffigurazioni rupestri, graffiti su osso, e perfino statue

d'argilla di grandezza naturale ricoperte con la pelle dell'orso ucciso,

importanti forme di culto diffuse tra le popolazioni umane dell'epoca glaciale.

Nei gacimenti wurmiani dell’area alpina, i resti di orso bruno sono meno

frequenti di quelli di orso delle caverne, che sarà sostituito completamente da

U. arctos nel corso del tardiglaciale (Cassoli & Tagliacozzo, 1991; Rustioni &

Mazza, 1993). Dal XV secolo si ritrovano i primi scritti che menzionano gli orsi

nella regione abruzzese. La presenza dell’animale viene segnalata a Sulmona

sulle montagne del Salviano (Avezzano), nel circondario di Scanno, nel

versante Teramano del Gran Sasso, sulla Majella e in valle Roveto ai confini con

lo Stato Pontificio. Poi, tra la fine del Settecento e gli inizi dell’ Ottocento, il

Giustiniani pubblica il suo lavoro sul Regno di Napoli nel quale sono riportate

diverse informazioni sulla presenza dell’orso nelle montagne abruzzesi. La

popolazione dell'Appennino centrale venne descritta come sottospecie, con il

nome di Ursus arctos marsicanus, da Giuseppe Altobello, un naturalista

molisano che studiò la fauna del Molise e dell'Abruzzo, nel 1921. I caratteri

allora individuati erano però di scarso rilievo e gli studiosi successivi

ignorarono l'orso marsicano e lo ritennero uguale alle altre popolazioni di orso

bruno. Il paleontologo Sergio Conti, potendo studiare nel 1954 un cranio

conservato nel Museo di Storia naturale di Genova, individuò alcuni caratteri

significativi, che confermavano la validità della sottospecie; ma la sua

pubblicazione era poco diffusa e poco nota. Il Toschi, nel suo volume della

Fauna d'Italia (1965), elencò infatti la sottospecie appenninica semplicemente

tra i sinonimi dell'orso bruno e ne sottovalutò il significato e l'importanza. A

partire dagli anni 1982-1984 il professore Augusto Vigna Taglianti svolse, con

vari collaboratori, una ricerca sulla sistematica morfologica degli orsi

abruzzesi, basata sui resti di esemplari raccolti e conservati dal personale del

Parco Nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise. Questa ricerca ha permesso di

definire la popolazione appenninica con nuovi caratteri morfologici più validi e

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costanti e di considerarla distinta a livello sottospecifico, rivalutando il nome

Ursus arctos marsicanus Altobello, 1921.

(2.2)MORFOLOGIA

(2.2.1)CHIAVI DI RICONOSCIMENTO DELLE SOTTOSPECIE DI ORSO

BRUNO PRESENTI IN ITALIA

- Cranio degli esemplari adulti simili nel maschio e nella femmina, allungato,

con fronte bassa; cresta sagittale poco elevata, con biforcazione anteriore;

fronte stretta, con apofisi sopraorbitale piccole e poco sporgenti; arcate

zigomatiche strette. Alpi centrali e orientali………………………..............................

Ursus arctos arctos Linnaeus, 1758

- Cranio degli esemplari adulti con marcato dimorfismo sessuale, corto, largo

e con fronte alta; nei maschi, cresta sagittale molto elevata , con biforcazione

posteriore; rostro breve; fronte molto ampia, con apofisi sopraorbitarie molto

grandi e sporgenti; arcate zigomatiche larghe. Appennino centrale

..…………………. Ursus arctos marsicanus Altobello, 1921

(2.2.2)MORFOLOGIA U. ARCTOS MARSICANUS

I maschi di orso bruno marsicano raggiungono un peso tra 130 e 200 kg con

un’ altezza di 180-190 cm in posizione eretta, mentre le femmine sono più

piccole e raramente superano i 120 kg. Il capo è massiccio, il muso è

schiacciato con un grande tartufo nerastro e le orecchie sono arrotondate di

dimensioni medio-piccole. Il cranio risulta compatto e non lascia molto spazio

al cervello che è 1/3 di quello umano. La pelliccia è formata da due tipi di pelo,

uno strato più corto a contatto con l’epidermide, che limita la dispersione di

calore, e uno più lungo che ha funzione protettiva. Gli orsi mutano il pelo ogni

anno, la pelliccia invernale viene completamente persa in estate e sostituita

completamente in autunno. Il mantello, marrone scuro, può variare dal bruno-

rossiccio a tonalità quasi nere. La colorazione non è quasi mai omogenea,

possono avere zone più chiare in genere sulle spalle e sul garrese. I giovani

hanno lo stesso colore degli adulti, anche se a volte presentano macchie più

chiare sulle spalle oppure un collare più chiaro. Gli arti sono grossi e forti. I

piedi anteriori hanno 5 dita e alla base si estende una callosità trasversale che

ricopre circa metà della superficie che poggia sul suolo. I piedi posteriori,

anch’essi con 5 dita, presentano una callosità estesa longitudinalmente che

occupa quasi tutta la superficie che poggia al suolo e raggiunge il tallone. Il

piede anteriore di un orso adulto è lungo da 23 a 28 cm e largo circa 21 cm,

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mentre il piede posteriore è lungo da 18 a 30 cm e largo circa 17 cm (Toschi,

1965; Brown et al., 1992). Il passo non presenta sovrapposizione di impronte e

misura 80-100 cm che durante la corsa diventano circa 150 cm (Brown et al.,

1992). Le zampe sono dotate di unghie, lunghe e robuste, che l’orso utilizza per

scavare, cercare cibo, arrampicarsi sugli alberi e per la sua difesa. La coda è

molto corta e seminascosta nella folta pelliccia nera. Gli occhi sono

relativamente piccoli, con iride bruna e pupilla rotonda. La femmina possiede 6

mammelle, due portate sul petto e quattro sull’addome. I denti non sono molto

lunghi, la formula dentaria è : I 3/3, C 1/1, P 4/4, M 2/3 = 42. I molari sono

grandi e con rilievi cuspidati marginali, i premolari inferiori e superiori sono

più o meno corrispondenti , piatti e piccoli con cuspidi appena distinti, il terzo

generalmente non è presente negli adulti. I canini hanno una base larga e

l’apice poco appuntito.

(2.3)HABITAT

L’habitat dell’ U. arctos marsicanus varia secondo le stagioni ed è condizionato

dalla ricerca di cibo e dalla presenza di luoghi tranquilli e sicuri. Va dai boschi

di conifere,querceti e faggete di montagna alle radure di fondo valle che

frequenta all’inizio della primavera, fino alle praterie di alta quota dove si

trasferisce nei mesi più caldi (Zunino & Roth, 1981; Roth & Osti, 1979). Le aree

di rifugio sono importanti nel periodo del letargo e dell’allevamento della

prole. Gli orsi cercano rifugio ai primi freddi e in Abruzzo questo periodo cade

tra gli inizi di dicembre e la fine di marzo. Di solito viene scelta una cavità nella

roccia in luoghi inaccessibili e tranquilli. In assenza di cavità rocciose, l’orso

scava direttamente il proprio rifugio, generalmente alla base del tronco di un

vecchio albero oppure al lato di un grande masso (Nowak & Paradiso, 1983). Il

letargo è una strategia messa a punto come soluzione ad un problema

energetico. Infatti in inverno l’orso spenderebbe più energia di quanta ne

otterrebbe dal poco cibo a disposizione. L’orso bruno però non entra in uno

stato di dormienza ma mantiene un buon livello di reattività agli stimoli

esterni. Può accadere che, in giornate non troppo fredde, l’orso esca dalla tana.

Le femmine con i piccoli anticipano l’entrata in tana in autunno e posticipano

l’uscita in primavera. Durante il letargo i parametri vitali decrescono e l’unica

riserva di energia per l’orso è garantita dallo strato adiposo accumulato

durante l’estate che regola la temperatura corporea e mantiene il metabolismo

basale. L’orso bruno è tendenzialmente solitario e la sua massima attività si

registra al crepuscolo e durante la notte. I maschi hanno un home range più

ampio delle femmine ed anche i loro spostamenti sono più ampi. In Italia,

probabilmente a causa dell’elevato grado di antropizzazione del territorio,

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l’orso tende ad evitare incursioni al di sotto dei 500 m sul livello del mare;

secondo osservazioni effettuate in Trentino (Osti & Flaim, 1993; Osti, 1992;

Osti,1994) gli orsi frequentano prevalentemente la fascia compresa fra 550 e

1600 m, anche se spesso scendono al di sotto di questa quota.

(2.4)ALIMENTAZIONE

Anche se appartiene all’ordine dei Carnivori, la dieta dell’orso si basa in

prevalenza su componenti vegetali che animali. La dieta vegetale comprende

erbe, foglie di arbusti, gemme, fiori, tuberi, funghi e frutta di ogni dimensione e

consistenza. L’apparato gastrointestinale è però poco differenziato e la

mancanza di enzimi deputati alla digestione della cellulosa gli consentono di

assimilare solo una piccola parte dei cibi vegetali ingeriti; è quindi costretto ad

assumere notevoli quantità di cibo per far fronte alle sue esigenze energetiche

e nutrizionali con un notevole impiego di tempo alla ricerca di alimenti. La

dieta animale invece riguarda un gran numero di invertebrati e

occasionalmente vertebrati che più che predati, vengono trovati già morti

grazie alle ottime capacità olfattive dell’orso. Oltre all’olfatto, l’orso viene

guidato anche dall’udito che è molto sensibile, mentre ha una vista

relativamente debole. Le api e il miele da esse prodotto sono un altro elemento

importante della dieta dell’orso bruno. La sua abilità di nuotatore lo porta

anche a nutrirsi di pesci. Nel periodo primaverile, in cui necessita

particolarmente di proteine animali, in quanto appena usciti dal letargo, si

verificano casi di aggressione di bestiame domestico (Fico et al., 1993; Osti,

1994) può capitare che predi pecore, capre e galline. Nel corso dell’estate la

dieta dell’orso si arricchisce di bacche e frutti. Carne ed insetti integrano

l’alimentazione estiva. In autunno l’orso, dovendo accumulare grasso per il

letargo, per portare a termine la gravidanza e per allattare la prole, trascorre la

maggior parte del tempo ad alimentarsi con cibi con un elevato apporto

calorico. Un esempio è la faggiola, frutto ricco di grassi e proteine. In autunno

la dieta comprende anche ghiande, mele, pere, sorbe e bacche di rosa selvatica.

(2.5)RAPPORTI INTRASPECIFICI

I rapporti intraspecifici tra orsi si limitano a scontri territoriali tra maschi, cure

parentali tra femmine e i loro cuccioli e ai rapporti sessuali durante i periodi di

accoppiamento. Le femmine con i piccoli evitano di incontrare maschi adulti

poiché essi possono divorare il loro stessi figli. Questo comportamento è visto

come un meccanismo di regolazione delle nascite, in quanto questa specie non

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possiede predatori naturali. Secondo Toschi (1965) il periodo degli

accoppiamenti dell’orso bruno cadrebbe tra aprile e agosto. Probabilmente è in

questo periodo che i maschi compiono lunghi spostamenti alla ricerca delle

femmine. Sia i maschi che le femmine possono accoppiarsi con più individui

nella stessa stagione riproduttiva, questo implica che nella stessa cucciolata

possiamo trovare piccoli di padri diversi. Le femmine diventano sessualmente

mature a circa 3 anni di età. L’ovulo fecondato, nelle prime fasi di sviluppo, può

arrestare la sua crescita ed entrare in un periodo di quiescenza o diapausa

embrionale. Questo fenomeno è una strategia evolutiva di alcune specie

animali, tra cui l’orso, che aumenta la probabilità del successo riproduttivo. In

questo modo la nascita dei piccoli cadrebbe in momenti favorevoli dell’anno, in

funzione della disponibilità di cibo e dell’assenza di fattori climatici avversi. La

gestazione dura 7-8 mesi e il parto avviene all’interno del rifugio invernale tra

dicembre e febbraio. I piccoli che possono nascere da una gravidanza vanno

all’incirca da 1 a 3 e vengono allattati per 3 o 4 mesi, dopodiché iniziano a

seguire la madre e raggiungono l’indipendenza a 2 anni di età (Toschi, 1965).

Alla nascita i cuccioli pesano da 200 a 500 g e vengono nutriti con il latte

materno ricco di grassi e sostanze nutritive. Durante gli anni che trascorrono

con la madre, i cuccioli cominciano a conoscere il territorio in cui si muovono e

le sue risorse. Questo periodo è quindi molto importante poiché permetterà

poi ai cuccioli di provvedere soli alla loro sopravvivenza, cercando cibo e zone

poco disturbate dall’uomo, maggiore fonte di pericolo. Non sono disponibili

stime accurate sul tasso di sopravvivenza dei piccoli e delle femmine adulte,

che invece sarebbe un importante fattore per la conservazione della specie. Gli

orsi bruni in cattività possono superare i 40 anni di età, mentre in natura non

riescono a superare i 15 anni (Osti, 1994). Ottimisticamente, in condizioni

favorevoli, si può ipotizzare che una femmina di Orso bruno inizi a riprodursi a

3 anni fino ai 20 anni, allevando ogni anno un piccolo. Ipotizzando un tasso di

sopravvivenza dei piccoli pari al 50-70%, circa 8-12 piccoli avrebbero la

possibilità di trasmettere il loro geni alla popolazione. Purtroppo però l’orso

bruno ha un tasso di riproduzione basso e questo dipende soprattutto dal fatto

che la femmina va in estro una volta sola l’anno e questo periodo dura dieci

giorni circa (Boscagli, 1988). Altre caratteristiche limitanti sono: il lungo

periodo di svezzamento e l’intervallo tra parti successivi che dipende dallo

stato di salute e dal peso della madre (Bunell & Tait, 1981) Il rapporto tra i

sessi in una popolazione di orso bruno è di circa 1 a 1. Questo rapporto però

varia a secondo del territorio in cui ci troviamo. I maschi infatti, avendo un

home range più alto, raggiungono aree in cui le femmine non si inoltrano e

questo comporta che in alcune aree si troveranno solo maschi.

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(2.6)DISTRIBUZIONE GEOGRAFICA

La presenza dell’Ursus arctos in Italia è limitata a tre frammenti dell’areale:

Fig1: distribuzione attuale dell’ Orso bruno in Italia.

- In una limitata zona delle Alpi Centrali oggetto di un programma di

ripopolamento con individui selvatici provenienti dalla Slovenia, in quanto

erano presenti solo 4 individui non più riproduttivi (Ciucci & Boitani, 1997).

- Un nucleo ancora instabile si sta riformando nelle Alpi Orientali grazie

alla colonizzazione spontanea di individui provenienti dalla Slovenia (Ciucci &

Boitani, 1997).

- Un nucleo costituito da un numero approssimativo da 30 a 50 individui

che risiedono nell’ Appennino centro-meridionale (Bologna & Vigna Taglianti,

1992).

Una indagine sulla distribuzione in epoca storica in Italia mostra che l’ U. arctos

marsicanus era diffuso nell’Appennino centro-meridionale, fino alla Campania

ed alla Puglia (Boscagli et al., 1995). In base ai dati di letteratura, riassunti ed

integrati da Bologna & Vigni Taglianti (1992) e Boscagli et al., (1995) si deduce

la presenza fissa dell’orso marsicano nei Monti Marsicani, nei Monti della Laga,

nei Monti Simbruini ed Ernici, sulle montagne della Maiella e del Molise

settentrionale. Per quanto riguarda il Gran Sasso, l’orso sembra essersi estinto

alla fine del XVIII secolo, mentre le ultime segnalazioni sui Monti Sibillini

riguarderebbero la fine degli anni ’30.

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3. TASSONOMIA E CONSERVAZIONE DELL’ORSO

BRUNO MARSICANO.

Nell’Appennino centrale l’orso vive in completo isolamento da almeno 400

anni. La popolazione attuale è ormai ridotta a poche decine di individui in

conseguenza del trend demografico fortemente negativo subito a partire dagli

anni ’80 (Posillico, 1996). L’elevato tasso di mortalità, spesso imputabile

all’uomo è una delle cause più preoccupanti di rarefazione per questa

popolazione ed è perciò necessario mettere in atto immediatamente degli

efficaci piani per la sua conservazione. Recenti analisi molecolari sulla

popolazione appenninica di orso bruno hanno reso evidente una bassa

variabilità genetica e una non significativa differenziazione genetica rispetto

alle altre popolazioni di orso bruno dell’Europa Occidentale. La popolazione

però presenta una differenziazione fenotipica tale da suggerire uno status

sottospecifico (Ursus arctos marsicanus).

(3.1)VARIAZIONE FENOTIPICA DEL CRANIO

Studi morfologici possono fornire dati importanti e complementari a quelli

molecolari, identificando caratteristiche fenotipiche uniche, facilitando

l’identificazione di unità evolutive che richiedono una tale attenzione per

quanto riguarda la gestione e la strategia di conservazione. È questo il caso

della popolazione appenninica di orso bruno. Gli studi portati avanti

dall’Università la Sapienza di Roma, per chiarire le relazioni fenetiche tra la

popolazione appenninica e il resto delle popolazioni europee, si basano su un

indagine sulla differenza di forma del cranio, facendo uso di un approccio di

morfometria geometrica, che ha permesso di distinguere le variazioni di forma

e di taglia e di interpretare i modelli di variazione in termini funzionali e

adattativi. È stato analizzato un campione di 63 individui adulti di orso bruno

provenienti dalle popolazioni di Alpi, Appennini, Croazia e Bulgaria, utilizzando

un set di 20 landmarks rilevati sulla norma dorsale del cranio e 19 landmarks

sulla norma ventrale. A causa della cattive condizioni di alcuni esemplari nella

parte ventrale, sono stati registrati solo su 56 esemplari. Infine, sono stati

raccolti 11 landmarks sui molari di 62 esemplari. Nell’analisi sono stati inseriti

anche 8 esemplari di orso polare (Ursus maritimus), specie geneticamente

affine ed utile per studiare il tasso evolutivo nelle popolazioni di U. arctos. La

matrice originale è stata trasformata attraverso GPA (Generalized Procrustes

Analysis). Le configurazioni così ottenute sono poi state analizzate con tecniche

di ordinamento e di classificazione, mentre la variazione delle dimensioni è

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stata studiata con l’analisi del centroid size (Colangelo et al., 2012). Il centroid

size è la misura usata per scalare una configurazione di landmrks in modo tale

che possa essere proiettata come un punto nello spazio (Kendall, 1981). Si

sono riscontrate significative differenze sia nella parte dorsale che in quella

ventrale del cranio dell’orso bruno marsicano. Il cranio è caratterizzato da un

aumento della distanza all’interno degli zigomi e un’espansione dell’apofisi

sopraorbitale, con conseguente allargamento del viso. Questo potrebbe

indicare uno spazio più ampio per il muscolo temporale che passa attraverso

l’arco zigomatico. Anche l’ampliamento della fossa temporale contribuisce alla

distinzione dell’ U. arctos marsicanus nella parte ventrale del cranio, mentre la

regione del palato appare invariata rispetto alle altre quattro popolazioni

studiate.

Fig2 : a) cranio di Ursus arctos marsicanus ; b) cranio di Ursus arctos arctos

La modificazione osservata a livello della scatola cranica potrebbe anche

essere correlata ai cambiamenti dei muscoli masticatori: questi non solo

implicano una possibile relazione con la direzione di movimento della mascella

e della forza occlusale, ma potrebbero anche determinare una deformazione

del cranio in una varietà di modi (Colangelo et al.2012). Un ruolo di abitudini

alimentari diverse è alla base delle modificazioni morfologiche del cranio degli

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orsi appenninici. Le differenze morfologiche e morfometriche del cranio

dell’orso bruno marsicano sono evidenti sugli individui maschi adulti, mentre

nelle femmine e nei giovani il cranio è simile a quello delle altre popolazioni

europee. I caratteri del cranio sono dunque questi: (1) marcato dimorfismo

sessuale, evidenziabile particolarmente dalla posizione della biforcazione e

dall’altezza della cresta sagittale; (2) cranio corto, largo ed alto; (3) maggiore

altezza della fronte; (4) maggiore brevità rostrale; (5) maggiore larghezza delle

apofisi sopraorbitarie; (6) maggiore larghezza delle arcate zigomatiche; (7)

minore costrizione post-orbitaria; (8) minore restringimento interorbitario;

(9) minore distanza tra canini e molari (Boitani et al. ,2003).

Fig3: a) cranio di Ursus arctos marsicanu, b) cranio di Ursus arctos arctos

I risultati di questo studio sottolineano come l’orso bruno marsicano,

nonostante la sua affinità genetica con altre popolazioni europee, sia

caratterizzato da un fenotipo significativamente divergente. Questa varianza

fenotipica è stata misurata rivelando le prove di un recente collo di bottiglia

nella popolazione appenninica. “Le distanze fenetiche osservate tra l’orso

marsicano e le altre popolazioni messe a confronto, variano da un minimo di

0.0536 ad un massimo di 0.0686. Questo livello di divergenza non solo è

maggiore di quello osservato tra le altre popolazioni europee provenienti da

Alpi, Croazia e Bulgaria (0.028-0.036), ma è anche superiore alla divergenza

osservata fra queste tre popolazioni e l’orso polare (0.0433-0.0464)”

(Colangelo et al., 2010). I risultati non escludono che il collo di bottiglia passato

e gli effetti di ibridazione abbiano contribuito all’origine di novità morfologiche

nell’orso bruno marsicano. Si ritiene, inoltre, che il collo di bottiglia e il

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progressivo isolamento sperimentato da questa popolazione abbia

notevolmente accelerato la sua evoluzione fenotipica sotto la pressione di una

selezione direzionale. Whitlock (1995) ha suggerito un modello di evoluzione

complesso, chiamato il “variance-induced peak shift” (VIPS) e, secondo questo

modello, l’evoluzione fenotipica adattativa è facilitata dalla deriva genetica. Se

la varianza fenotipica aumenta sufficientemente per qualsiasi motivo, allora

diventa facile per una popolazione evolvere da un picco adattativo all’altro.

Inoltre, secondo un modello di evoluzione, detto dell’isola, la maggior parte

delle specie di mammiferi continentali hanno la capacità intrinseca di evolvere

più rapidamente se sopravvivono in un paesaggio frammentato; e le specie che

hanno subito il cambiamento drammatico e rapido, nel loro ambiente, possono

aumentare il loro tasso di variazione morfologica entro pochi decenni. Infine,

va sottolineato che la varianza fenotipica riflette non solo la varianza genetica,

ma anche quella ambientale. Quindi, una riduzione della varianza genetica può

essere stata in parte compensata da un aumento della varianza ambientale, e

plasticità fenotipica, correlate a differenti condizioni ambientali. Questo può

spiegare una frazione della variazione osservata nell’ orso bruno marsicano.

Questi dati enfatizzano l’unicità evolutiva di U. arctos marsicanus, e

sottolineano l’importanza di integrare le analisi morfometriche nell’analisi

delle variabilità di specie e popolazioni a rischio.

(3.2) SUPPORTO DELLA GENETICA NON INVASIVA

I moderni metodi della genetica hanno ormai un ruolo di primissimo piano

nell’acquisizione di dati e informazioni indispensabili per la programmazione e

l’implementazione di strategia di conservazione a lungo termine delle

popolazioni di orso sia in Europa che in Nord America. La conoscenza di alcune

caratteristiche genetiche della popolazione, quali il livello di variabilità e

differenziamento, il grado di parentale tra gli individui, il tasso di

consanguineità e le ricostruzioni genealogiche, permette di sviluppare delle

strategie di conservazione più efficaci. La dimensione della popolazione è un

parametro demografico indispensabile da conoscere. L’orso è un animale

attivo per lo più la notte, può avere home range ampi, vive a basse densità in

habitat di montagna. Per questi motivi , il censimento di questa specie,

attraverso i tradizionali metodi di campo, può risultare poco attendibile (Mace

et al. 1994); tant’è vero che per l’orso appenninico a tutt’oggi non sono

disponibili stime certe della popolazione. Durante gli anni 1991-2003 sono

stati raccolti 100 campioni di orso provenienti da un’area di circa 500 km²

localizzati principalmente nell’Abruzzo meridionale. Di questi campioni, 11

erano costituiti da sangue o tessuto muscolare di individui catturati o ritrovati

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morti, mentre 89 erano ciuffi di pelo raccolto in giacigli, su tronchi di alberi da

frutto o su recinzioni metalliche di protezione. Inoltre sono stati raccolti

campioni di pelo da 5 animali vivi e da carcasse per permettere la validazione

del metodo. Nelle radici dei peli il DNA si trova in scarsa quantità ed è

degradato, per cui c’è una forte possibilità di ottenere risultati falsati se non si

valuta attentamente. “La caratterizzazione dei genotipi dai campioni di orso è

stata effettuata amplificando, tramite PCR, 12 loci microsatelliti. Per ogni

campione di pelo e per ogni locus l’amplificazione è stata effettuata in doppio

sia per gli omozigoti sia per gli eterozigoti. Il genotipo è stato registrato solo se

coincidevano almeno 3 genotipi su 4” (Lorenzini et al. 2004).

Fig 4: ciuffo di pelo di orso bruno marsicano.

Il test di Fisher è stato utilizzato per verificare che non ci fosse associazione

tra coppie di loci, ovvero che ogni locus venisse ereditato indipendentemente

dagli altri. Una popolazione che ha subito una recente diminuzione del numero

effettivo perde variabilità allelica più velocemente di quanto non ne venga

ridotta l’eterozigosi media (Luikart et al.,1998). Per verificare se la popolazione

di orso bruno marsicano sia stata recentemente soggetta ad un collo di

bottiglia, è stato applicato ai dati il test per ranghi di Wilcoxon. Il test valuta se

la stima dell’eterozigosi attesa in base all’equilibrio di Hardy-Weinberg (HW) è

significativamente più alta rispetto alla stima dell’eterozigosi attesa in base al

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numero di alleli presenti nella popolazione attuale, assumendo l’equilibrio tra

mutazione e deriva. Se questa differenza non è dovuta al caso, è statisticamente

molto probabile che si sia verificato un collo di bottiglia. Poiché il modello

mutazionale dei microsatelliti è molto complesso e nel genere Ursus è

sconosciuto, i calcoli sono stati effettuati seguendo tre possibili modelli: il

modello IAM (Infinite Allele Model), il modello SMM (Stepwise Mutation

Model) e infine il modello TPM (Two Phase Model). Questo lavoro è stato

svolto per verificare se i metodi della genetica non invasiva possono essere

applicati per stimare la consistenza della popolazione. I dodici loci

microsatelliti sono stati analizzati inizialmente in un gruppo di 11 orsi di cui

erano disponibili le carcasse o i campioni di sangue. Non sono stati evidenziati

problemi di contaminazione e i genotipi ottenuti dai peli e dai tessuti dello

stesso animale hanno sempre dato risultati coincidenti. Il DNA è stato isolato

con successo in 70 degli 89 campioni di pelo raccolti. Da 62 campioni è stato

possibile estrarre un quantitativo di DNA sufficiente per ottenere genotipi

completi. Ciò ha permesso di identificare 24 orsi diversi. Le stime di variabilità

genetica sono state calcolate separatamente per il gruppo di 11 orsi

sicuramente diversi e per quello dei 24 identificati come orsi diversi a

posteriori dall’analisi dei microsatelliti. La differenza nelle distribuzioni delle

frequenze alleliche nei due campioni non è risultata significativa (test di

Wilcoxon, P=0,809). Di conseguenza, le analisi successive sono state effettuate

su un campione totale di 35 orsi. Il livello di variabilità allelica è risultato molto

basso. Non è stata rilevata alcuna deviazione dall’equilibrio di HW per i loci

analizzati. Il test di Wilcoxon, utilizzato per verificare la significatività della

differenza fra le eterozigosi attese e l’equilibrio tra mutazione e deriva ha dato

risultati significativi per tutti i modelli mutazionali considerati (IAM, SMM e

TPM), confermando che l’orso bruno in Appennino ha effettivamente subito un

collo di bottiglia recentemente, cosi come viene evidenziato dalla struttura

genetica della popolazione attuale. I risultati di questo studio portato avanti da

Lorenzini et al. (2004) hanno evidenziato che la raccolta di campioni non

invasivi può fornire dati affidabili sulla variabilità genetica individuale e di

popolazione nell’orso bruno in Appennino, senza necessariamente dover

catturare animali e arrecare loro disturbo. L’analisi del DNA, estratto dai bulbi

piliferi, inoltre si è rilevata abbastanza semplice e la comparazione tra il

genotipo ottenuto dall’analisi dei tessuti e quello ottenuto dai peli dello stesso

individuo hanno dato risultati coincidenti. Tuttavia, se i campioni di pelo

venissero analizzati dopo molto tempo dalla raccolta, si deve pensare di

aumentare le ripetizione, in modo da determinare con più sicurezza la

consistenza minima della popolazione. Il depauperamento si riflette non tanto

sulla variabilità genetica media, quanto sulla variabilità allelica. Per l’orso

appenninico il massimo di variabilità allelica (3 varianti) è stato trovato in 1

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locus su 12, mentre in media, gli stessi loci in popolazioni diverse di orso bruno

hanno in genere da 5 a 9 alleli (Waits et al., 2000). Un valore di eterozigosi

attesa media di 0,71 e un numero medio di alleli pari 6,8 sono stati trovati

nell’orso in Scandinavia, una popolazione che ha subito di recente un marcato

collo di bottiglia (Waits et al., 2000). Rispetto a questi dati, è evidente che l’orso

in Appennino ha subito una severissima riduzione della variabilità genetica,

soprattutto in relazione al numero di alleli persi. Ciò indica chiaramente che

gran parte della variabilità allelica originale, evidentemente ancora presente

nella popolazione scandinava, è invece stata persa nell’orso appenninico, per

effetto della forte contrazione numerica e del protratto isolamento. La forte

riduzione numerica sembra essere la causa del depauperamento genetico

nell’orso appenninico, così come è stato evidenziato dall’analisi “bottlenck”, i

cui risultati sono stati gli stessi, indipendentemente dal modello mutazionale

ipotizzato per l’evoluzione dei microsatelliti. L’attuale struttura genetica della

popolazione è dunque la naturale conseguenza dei suoi trascorsi demografici.

Assumendo che il collo di bottiglia risalga alle ultime 2Ne – 4Ne generazioni

(dove Ne è la dimensione effettiva della popolazione), che il tempo

generazionale nell’orso sia pari a 10 anni, che NE/dimensione totale della

popolazione, sia pari a 0,20 – 0,30 (Harris e Allendorf, 1989) e assumendo che

12-18 orsi si riproducono effettivamente, un collo di bottiglia potrebbe risalire

a 240-720 anni fa. Questa recente riduzione numerica è verosimilmente dovuta

alla frammentazione e all’alterazione dell’habitat, nonché alla persecuzione

diretta, in ogni caso imputabile alle attività umane. Tuttavia, al momento, non

si possono escludere cause di carattere sanitario e problemi che interessano la

sfera riproduttiva. In conclusione, i dati sul DNA mitocondriale e nucleare di

questo studio portato avanti da Lorenzini et al. e di studi passati convergono

nel mettere in evidenza una ridotta quanto preoccupante variabilità genetica

nell’orso appenninico. Tuttavia, il grado di variabilità attuale, sebbene assai

limitato, permette comunque di individuare singolarmente gli animali usando

un numero relativamente basso di loci microsatelliti. Difatti, dall’analisi di 9.10

marker risulta una probabilità di identità pari a 1 su 100, vale a dire che nella

nostra popolazione ci aspettiamo di trovare per il solo effetto del caso 1 orso su

100 che ha lo stesso genotipo di un altro. Tale probabilità scende poi a 1 su 200

se si usano 11-12 loci. Il potere distintivo e l’affidabilità di un sistema di

marker dipendono ovviamente dalla dimensione della popolazione, ovvero dal

numero massimo d’individui che ci si aspetta di dover distinguere mediante il

loro genotipo(Paetkau,2003). Ecco perché il valore della probabilità di identità

pari a 0,01 è accettabile per stimare la dimensione di una popolazione che si

presumi non superi i 60 individui, come avviene per l’orso appenninico.

Lorenzini et al. (2004) hanno evidenziato che, nonostante il ridotto numero di

orsi della popolazione attuale, il tasso di inbreeding non è significativamente

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elevato e che la maggior parte degli individui non condividono relazioni di

parentela di primo grado, non sono, cioè, fratelli o genitore-figlio. Questi

risultati, sebbene inaspettati, trovano una probabile spiegazione nel fatto che il

campionamento degli animali copre un lasso di tempo superiore a dieci anni, e

che alcuni degli orsi analizzati vivevano in cattività e non si erano mai

riprodotti. La consanguineità non sembra dunque costituire un problema

urgente per l’orso appenninico. Tuttavia , gli aspetti genetici non sono da

sottovalutare ai fini della conservazione a lungo termine. Purtroppo, l’aspetto

genetico non è né l’unica, né probabilmente la più pressante minaccia alla

sopravvivenza di questa popolazione. Infatti dal 1980 al 1985 è stato registrato

un elevatissimo tasso di mortalità che ha ridotto la popolazione del 32-64%

(Posillico et al., 2002) e ne ha minacciato seriamente le capacità di ripresa

demografica nel breve periodo. Tra il 1991 e il 2002 la mortalità minima è stata

pari a 2,5 orsi/anno, e oggi la situazione è ancora più grave. Queste sono

comunque delle sottostime del tasso di mortalità reale, in quanto una parte

delle carcasse di orso non viene ritrovata. Inoltre, non è da sottovalutare il

fatto che la metà degli orsi trovati morti erano femmine, cosa che ha influito sul

potenziale riproduttivo della popolazione. In aggiunta, i problemi sanitari e la

costante presenza del bracconaggio, responsabile del 30% circa della

mortalità, possono aver rallentato la ripresa della popolazione.

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4.STRATEGIA DI CONSERVAZIONE

Preservare l’orso bruno marsicano vuol dire assicurare alla popolazione le

condizioni di persistenza a lungo termine, in un contesto che permetta alla

specie di espletare ed essere regolata da meccanismi di natura ecologica,

nonché di mantenere la flessibilità di adattamento a condizioni ambientali

potenzialmente mutevoli.

(4.1)LA SFIDA DELLA CONSERVAZIONE

Sebbene l’orso bruno sia una specie teoricamente protetta in Italia (Legge N,

157/92), in pratica è ancora molto perseguitata e, per questo, si auspica una

maggiore attenzione da parte delle autorità competenti nello sviluppo e nella

messa in atto d’efficaci misure di conservazione con particolare riferimento

alla prevenzione e alla repressione del fenomeno del bracconaggio per

minimizzare le perdite “non naturali” e alla conservazione dell’habitat dell’orso

in quantità e qualità sufficiente (Posillico et al., 2004). Come dice la stessa

presentazione del PATOM (Piano d’Azione per la Tutela dell’Orso Marsicano),

“l’efficacia dei piani d’azione si è spesso rivelata limitata, in particolare a

causa[…] del fatto che le indicazioni dei piani d’azione rimangano in una più o

meno ampia misura inapplicate” e ciò “risulta particolarmente rilevante nel

nostro Paese, il cui quadro legislativo non assegna un esplicito valore giuridico ai

piani d’azione. [...] La limitata implementazione dei piani d’azione finora prodotti

in Italia è anche dovuta al quadro amministrativo del nostro Paese,

caratterizzato da una estrema frammentazione dei ruoli e delle responsabilità in

materia di gestione della fauna selvatica“. Inoltre, non è da sottovalutare il

generale conflitto tra agricoltura-allevamento e fauna selvatica, che è

all’origine di alcuni abbattimenti illegali di orsi, benché i danni siano da

attribuirsi nella quasi totalità dei casi a cani, lupi o cinghiali ed esistono metodi

di prevenzione efficaci nei confronti della predazione da orso (Cozza et al.,

1996). Problemi genetici, demografici e ambientali tendono ad erodere le

capacità di persistenza delle popolazioni numericamente ridotte, come

appunto quella dell’orso bruno marsicano. Solitamente, l’effetto di questi

fattori non viene apprezzato in specie i cui individui sono piuttosto longevi,

come appunto nel caso dell’orso. Le tendenze negative vanno infatti

contrastate da subito, quando i fattori che agiscono sulla popolazione di orso

sono ancora deterministici, vale a dire quando il loro effetto può essere

contrastato intervenendo direttamente sulle cause. Se la popolazione di orso

dovesse invece oltrepassare una soglia minima, il rischio è che diventi

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vulnerabile, aumentando così i rischi di estinzione; in questo caso poi sarebbe

inutile intervenire. Oggi però non sappiamo come si pone la popolazione di

orso bruno marsicano rispetto a questa soglia minima (tecnicamente definita

MVP, dall’inglese minimum viable population) sebbene, da un punto di vista

teorico, il numero di orsi sia già ridotto ai minimi termini e la popolazione che

sopravvive nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise (PNALM) ha

variabilità genetica tra le più basse delle popolazioni di orso bruno presenti nel

mondo. Bisogna quindi cercare di comprendere la vera natura del problema e

darsi da fare, cercando di evitare l’estinzione. Le principali minacce che

mettono a rischio la sopravvivenza dell’ Ursus arctos marsicanus sono:

1. La mortalità di origine antropica, chiara indicazione di un livello di

protezione evidentemente inadeguato per una popolazione di orsi di ridotte

dimensioni;

Fig 5: orso marsicano trovato morto in Abruzzo

2. Conflitti con l’uomo, a causa dei danni economici che l’orso può causare

alle attività zootecniche ed agricole;

3. Perdita e frammentazione dell’habitat prediletto dall’orso, caratterizzato da

un’ elevata diversità ambientale e dalla presenza di vegetazione in grado di

fornire adeguato riparo e risorse alimentari, con la costruzione di

infrastrutture quali centri turistici, impianti eolici, insediamenti abitativi

che costituiscono una seria minaccia.

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4. La presenza di bestiame brado congiunta alla mancanza di una visione

d’insieme da parte delle istituzioni cui spetta la gestione del territorio,

permettono contatti ripetuti tra capi di bestiame, di cui non sempre sono

note le condizioni sanitarie, con l’orso, causando la probabile diffusione di

agenti patogeni potenzialmente dannosi per quest’ultimo.

5. Orsi problematici/confidenti, cioè orsi spinti, dalla ricerca di risorse

trofiche, a raggiungere i paesi e i casolari più vicini al loro habitat. La

frequentazione delle aree antropizzate, fenomeno che apparentemente nel

corso degli ultimi anni è andato intensificandosi, dipende da diversi fattori,

quali: le abitudini alimentari locali degli orsi, le modalità con cui vengono

praticate le attività agricolo-pastorali e l’abbondanza di risorse trofiche

naturali disponibili nell’area. Il conflitto, che questo comportamento

dell’orso innesca con le comunità locali, è inasprito anche dalla paura di

potenziali aggressioni. L’orso infatti sembra non aver più paura dell’uomo

anche se esso è la principale minaccia della sua estinzione.

Fig 6: l’orso Gemma e i suoi cuccioli a Scanno.

(4.2) LINEE DI AZIONE PER SALVARE L’ORSO

Facendo riferimento alle conoscenze disponibili sullo stato di conservazione

dell’orso marsicano e alle esperienze svolte nel passato da molti enti ed

istituzioni impegnati in programmi di conservazione della specie, il Ministero

dell’ Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare in collaborazione con

l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) hanno

stipulato delle linee strategiche per attuare il Piano d’Azione per la Tutela

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dell’Orso Marsicano (PATOM). Un piano d’azione deve essere redatto sulla base

delle informazioni disponibili sull’ecologia, sulla distribuzione e sulla

consistenza della specie in questione. Sebbene spesso tali informazioni non

sono esaustive, sono comunque sufficienti per identificare le principali minacce

che mettono a rischio la sopravvivenza della specie e definire le misure più

urgenti per la riduzione del loro impatto. La parte centrale di ogni piano

prevede la definizione di obiettivi chiari e realistici, volti ad assicurare la

conservazione della specie nel breve, medio e lungo periodo, e delle azioni

necessarie per realizzarli. Un’efficace strategia di conservazione prevede

inoltre una serie di verifiche periodiche dei risultati ottenuti e deve essere

flessibile e modificabile nel tempo in funzione delle mutate priorità. Le linee

strategiche del PATOM sono le seguenti:

1. Incremento della dimensione della popolazione, in quanto la dimensione

della popolazione è del tutto insufficiente ad assicurare la conservazione

della popolazione in tempi biologicamente significativi. È necessario

assicurare che i trend demografici della popolazione diventino

immediatamente positivi e si mantengano tali per almeno i prossimi dieci

anni.

2. Espansione dell’areale, dato che la popolazione attuale è essenzialmente

confinata all’area del Parco, che è del tutto insufficiente ad assicurare anche

le minime dinamiche naturali di una popolazione di orsi, come dimostrato

dagli home-range di alcuni maschi adulti che eccedono le dimensioni del

Parco e dai frequenti movimenti di dispersione di individui isolati che

cercano un’ espansione dell’areale su tutte le direzioni. È necessario

realizzare una graduale espansione dell’areale in grado di assicurare il

successo dei movimenti di dispersione e dei nuovi insediamenti.

L’Appennino centrale offre una vasta disponibilità di aree idonee, ma è

necessario assicurare che queste e le aree di connessione siano prive di

pericoli. È necessario pensare e agire per una popolazione appenninica di

orso, non più per una popolazione del PNALM.

3. Riduzione della mortalità, dato che i casi di mortalità antropiche sono

ancora a livelli inaccettabili per la conservazione e condizionano la

potenzialità di espansione della popolazione. È necessario un intervento

deciso su tutti i potenziali fattori di mortalità attraverso un programma di

emergenza che affronti tutte le problematiche legate a questo tema.

4. Orsi confidenti, cioè orsi che si abituano a frequentare gli abitati umani e le

fonti alimentari a loro strettamente connesse. È inevitabile non cercare di

risolvere questo problema in un piano che vuole conservare l’orso. È

necessario che sia scritto e realizzato un piano integrato su tutto l’areale

dell’orso per: a) ridurre la disponibilità e accessibilità a fonti alimentari

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vicine agli abitati, b) contrastare il nascente comportamento di confidenza. È

necessario che una piccola squadra di personale qualificato sia addestrata

alle tecniche già ampiamente collaudate su altre popolazioni di orsi, e sia

resa disponibile all’intervento immediato non appena si verifichi un caso di

confidenza.

5. Attività venatoria, limitata, in particolare, alla caccia al cinghiale in braccata.

È necessario che questa pratica sia progressivamente vietata in tutto l’areale

dell’orso, partendo direttamente con le aree critiche di presenza. Restano

invece ampiamente accettabili le altre forme di caccia eventualmente

contrattando flessibilità locali e limitate nel tempo per proteggere situazioni

temporanee di criticità.

6. Veleni di uso agricolo e bocconi avvelenati, i quali costituiscono uno dei

principali pericoli per la conservazione dell’orso per la mortalità provocata

in tempi, luoghi e quantità innaturali. È necessario un atteggiamento

radicale nei confronti di queste pratiche illegali su più fronti: a) normativo

con un inasprimento esterno delle pene per l’uso illegale dei veleni e una

nuova regolamentazione per la detenzione, b) educativo/informativo con

una campagna massiccia di divulgazione del problema, c) sociale con il

coinvolgimento delle associazioni di categoria e le organizzazioni venatorie

locali, d) ispettivo con più frequenti, efficaci e visibili interventi di verifica e

prevenzione presso soggetti a rischio.

7. Presenza antropica, dovuta alla dimostrata alta tolleranza dell’orso

marsicano verso l’uomo che non include il disturbo ripetuto di una massa

turistica concentrata nel tempo e nello spazio come quella che si sta

sviluppando per l’osservazione degli orsi, in particolare nelle aree di

alimentazione autunnale. È dimostrato lo stress degli orsi che in condizioni

di disturbo, riducono l’attività di alimentazione. Inoltre, una fitta rete di

strade permette l’accesso fino ad aree remote di turisti, cercatori di funghi,

raccoglitori di legna, cacciatori e facilita attività illegali. È necessario

eliminare questo fattore di disturbo e sottoporre a precisa regolamentazione

l’accesso a tutte le strade sterrate nell’areale dell’orso.

8. Conflitti con attività agricole e zootecniche, causati dai danni provocati

dall’orso alle attività agro-pastorali, che sono globalmente di limitata entità

ma localmente anche significativi. La loro gestione è disomogenea tra i vari

ambiti dell’areale e non è condotta con un criterio unificato. È necessario a)

uno sforzo più massiccio per estendere le misure di prevenzione dovunque

possibile (ovili, stazzi, arnie, coltivi), b) razionalizzare distribuzione e difesa

di orti e pollai alle periferie dei paesi, c) collegare queste azioni alla gestione

degli orsi confidenti, d) applicare un protocollo unico che informi le attività

di prevenzione e compensazione dei danni, e) realizzare un sistema di

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indennizzo che garantisca una verifica del danno entro 3 giorni e il

pagamento del compenso entro 60 giorni.

9. Controllo del comparto zootecnico, che è profondamente cambiato nel corso

degli ultimo 10-20 anni: sono cambiati i modelli economici (in relazione al

mercato dei prodotti e agli incentivi), i metodi di conduzione (pascolo brado

di bovini ed equini, mano d’opera non locale), le specie prioritarie (riduzione

degli ovi-caprini e aumento di bovini ed equini), i mercati di riferimento

(non più locali), i capitali impiegati (sostituzione di aziende locali con

operatori esterni). Inoltre il complesso sistema di autorizzazioni e controlli

sanitari è spesso inquinato da elementi di illegalità (certificati sanitari falsi),

incapacità (insufficienti mezzi e operatori per i controlli), superficialità

(affitti dei pascoli comunali). L’intero comparto zootecnico è largamente

fuori controllo anche all’interno del Parco dove non si conosce l’impatto del

pascolo brado sulla biodiversità e dell’orso in particolare (ridotta qualità dei

pascoli, bestiame brado fin nelle aree più remote, presenza diffusa di

carcasse di bestiame, trasmissione di malattie, competizione diretta con

bestiame, cani, operatori). È necessario rifondare l’intero comparto con un’

azione coordinata tra Regione, Comuni, ASL e aree protette. Nelle aree

critiche per la presenza dell’orso si deve realizzare una graduale riduzione

del pascolo brado, uno stretto controllo dello stato sanitario con l’esclusione

di animali potenzialmente pericolosi per la salute dell’orso, una

pianificazione concordata con i Comuni per l’affitto dei pascoli.

10. Informazione e uso delle risorse; l’informazione al pubblico, sullo stato

della specie e su ciò che è necessario fare per conservarla, è inquinata da

un’alta dose di dicerie, opinioni e interessi di parte. In un ottica di

trasmissione al pubblico di messaggi scientificamente corretti e trasparenti,

e di un efficiente utilizzo delle limitate risorse economiche ed umane

disponibili, è necessario costituire una fonte unica, autorevole, pro-attiva,

scientificamente e tecnicamente preparata che svolga una continua azione

divulgativa.

11. Specializzare gli operatori tecnici per la gestione della conservazione

dell’orso. Esso richiede un addestramento specifico su vari aspetti. È

necessario formare squadre di personale specializzato in a) trappolamento,

anestesia e cattura degli orsi, b) gestione degli orsi confidenti, c) controllo

dei danni al bestiame domestico e ai coltivi, d) controlli sanitari del bestiame

domestico, e) prevenzione e repressione dell’uso illegale di veleni, h)

formazione di squadre specializzate per l’anti bracconaggio.

12. Ottimizzazione delle risorse, dato che molte risorse tecniche ed

economiche sono state disperse senza un obiettivo solidamente ramificato

nella sua utilità e fattibilità. Un esempio ricorrente sono le azioni di supporto

alimentare, campetti e colture per l’orso realizzati anche se non esiste alcuna

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evidenza per supporre che l’attuale popolazione di orsi soffra di deficit

alimentari e che invece costituiscano spesso efficaci trappole ecologiche

attraendo l’orso in condizioni di maggior pericolo. In un ottica di

ottimizzazione delle risorse economiche disponibili è necessario costituire

un tavolo tecnico composto da tecnici di comprovato curriculum che possa

costituire un riferimento unico, autorevole, pro-attivo, scientificamente e

tecnicamente preparato per guidare e sorvegliare la congruità tecnica delle

azioni di conservazione

13. Autorità di gestione, dato che purtroppo il coordinamento tra enti e

istituzioni molto diverse tra loro, pur nella loro genuina comunità di intenti,

non è in grado di svolgere il ruolo pro-attivo e prescrittivo necessario alla

realizzazione di un impresa strategicamente impegnativa su tanti fronti

diversi come deve essere il Piano per la conservazione dell’orso marsicano.

Ogni ente ha limitazioni diverse (competenza territoriale, capacità tecniche,

possibilità economiche, livello di interesse, ecc.) e il coordinamento non è

sufficiente, né esiste alcun soggetto che, da solo, sia in grado di conservare

l’orso, nemmeno il PNALM. È necessario rilanciare la conservazione

dell’orso come un grande progetto di interesse e emergenza nazionale ed

affidarne la realizzazione ad un autorità di coordinamento della gestione che

abbia capacità di intervento su tutti i comparti sopra menzionati. In eventi

catastrofici o per grandi opere questa forma di gestione si è rivelata efficace,

e la conservazione dell’orso è ad un punto al quale non sono più ammessi

compromessi o tentativi. Qualsiasi forma di coordinamento alternativa

sarebbe necessariamente parziale e inefficace.

14. Monitoraggio, controllando la variazione nel tempo dei valori dei

principali parametri della popolazione di orsi e del suo ambiente. Questa è la

condizione essenziale ad una gestione adattativa della conservazione, in

grado di aggiustare azioni e obiettivi a seconda della efficacia delle azioni già

intraprese. È necessario che sia realizzato da subito un programma per

monitorare a) la dimensione della popolazione ogni 2-3 anni, b) la

produttività delle femmine, c) la mortalità, d) la disponibilità alimentare, e) i

danni alla zootecnica, amie e coltivi, f) l’atteggiamento dei diversi gruppi di

interesse verso la conservazione, g) la dispersione/frequenza della presenza

in zone periferiche dell’areale.

15. Ricerca scientifica, poiché il metodo scientifico è l’approccio metodologico

inevitabile per seguire con rigore un programma di raccolta dati sugli aspetti

ancora poco conosciuti della biologia dell’orso e tuttavia importanti per la

conservazione. È necessario continuare ed estendere il programma di

ricerca focalizzando obiettivi di diretta rilevanza per l’azione di

conservazione. In particolare, la radiotelemetria e la genetica non invasiva

costituiscono gli strumenti principali di ricerca.

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16. Risorse economiche, che nonostante la conservazione dell’orso abbia

assorbito, negli anni passati, una grande quantità di risorse comunitarie, il

risultato della spesa è stato deludente se non fallimentare. Per la

realizzazione di un impegno nazionale sull’ orso è necessario che siano

coordinati da parte delle autorità competenti i fondi economici disponibili in

modo da permettere lo svolgersi di tutti gli elementi strategici.

In conclusione quindi, se si vuole davvero salvare il nostro orso bruno

marsicano, bisogna con risolutezza e puntualità imprimere una seria svolta al

governo del territorio. Si parla di una popolazione di orsi con caratteristiche

genetiche e comportamentali uniche al mondo e non possiamo permetterci di

perderla. Per la sua conservazione quindi speriamo che il Ministro dello

Ambiente e tutte le Regioni interessate rispettino gli impegni presi

sottoscrivendo il PATOM.

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