L’ALBA DI FLEURY DA UN’ALTRA...

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Romance Philology, vol. 66 (Fall 2012), pp. 211–308. 211 h L’ALBA DI FLEURY DA UN’ALTRA SPECOLA 1. Coordinate e metodo. Lalba par umet mar atra sol Poypas abigil miraclar tenebras Al suono evocatore di questi due versi, il lettore può essere riportato a quel chiaroscuro di significanti e significati che caratterizza le formule magiche o gli indovinelli, oppure può restare intimorito quando, pur non comprendendo appieno la significazione dell’intero dettato, percepisce come minacciose e irsute parole come atra o tenebras, intuisce qualcosa di misteriosamente orfico ed arcano in serie grafiche bizzarre e inintellegibili come Poypas e abigil, o, infine, rivolge il pensiero all’armonia alchemica di luce e tenebre e al melancolico sole nero che fu di Dührer prima che di Jung. Del resto, qualcosa di misterioso ed enigmatico questo distico ce l’ha: ripetuto tre volte in forma di refrain alla fine di altrettante strofette scritte in buon latino ecclesiastico, si presenta nel ms. latore in una veste che ha dato luogo alle più disparate (e spesso fantasiose) ipotesi interpretative, nessuna della quali, è da dire fin d’ora, ha escluso l’intervento emenda- tivo. Così, nel corso dei centotrenta anni passati dalla sua scoperta, per via della variazione polimorfica imposta dagli editori ad un testo già non chiaro di suo, il refrain di Phebi claro è divenuto un’alba amorosa o religiosa o guerresca, un canto di scolta, un inno pasquale, un grido disarticolato di gioia (quasi un giubilo), una khargia galloromanza. La discussione, poi, non è stata pacifica, anzi, in alcuni casi si è assistito a puntate la cui reto- rica, sarcastica se non violenta, avrebbe potuto richiamare alla mente il Letzter Kunstgriff della schopenhaueriana Kunst, Recht zu behalten (Frauen- städt 1864:34). Arrivati a questo punto, si potrebbe pensare che l’animata congerie d’ipotesi e l’animosità di taluni proponenti non lasci più spazio ad una se- ria riflessione e, del resto, non a caso, negli ultimi decenni la discussione Paolo Canettieri Sapienza Università di Roma

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Romance Philology, vol. 66 (Fall 2012), pp. 211–308. 211

h

L’ALBA DI FLEURY DA UN’ALTRA SPECOLA

1. Coordinate e metodo.

Lalba par umet mar atra solPoypas abigil miraclar tenebras

Al suono evocatore di questi due versi, il lettore può essere riportato

a quel chiaroscuro di signifi canti e signifi cati che caratterizza le formule

magiche o gli indovinelli, oppure può restare intimorito quando, pur non

comprendendo appieno la signifi cazione dell’intero dettato, percepisce

come minacciose e irsute parole come atra o tenebras, intuisce qualcosa di

misteriosamente orfi co ed arcano in serie grafi che bizzarre e inintellegibili

come Poypas e abigil, o, infi ne, rivolge il pensiero all’armonia alchemica di

luce e tenebre e al melancolico sole nero che fu di Dührer prima che di Jung.

Del resto, qualcosa di misterioso ed enigmatico questo distico ce l’ha:

ripetuto tre volte in forma di refrain alla fi ne di altrettante strofette scritte

in buon latino ecclesiastico, si presenta nel ms. latore in una veste che ha

dato luogo alle più disparate (e spesso fantasiose) ipotesi interpretative,

nessuna della quali, è da dire fi n d’ora, ha escluso l’intervento emenda-

tivo. Così, nel corso dei centotrenta anni passati dalla sua scoperta, per

via della variazione polimorfi ca imposta dagli editori ad un testo già non

chiaro di suo, il refrain di Phebi claro è divenuto un’alba amorosa o religiosa

o guerresca, un canto di scolta, un inno pasquale, un grido disarticolato

di gioia (quasi un giubilo), una khargia galloromanza. La discussione, poi,

non è stata pacifi ca, anzi, in alcuni casi si è assistito a puntate la cui reto-

rica, sarcastica se non violenta, avrebbe potuto richiamare alla mente il

Letzter Kunstgriff della schopenhaueriana Kunst, Recht zu behalten (Frauen-

städt 1864:34).

Arrivati a questo punto, si potrebbe pensare che l’animata congerie

d’ipotesi e l’animosità di taluni proponenti non lasci più spazio ad una se-

ria rifl essione e, del resto, non a caso, negli ultimi decenni la discussione

Paolo Canettieri

Sapienza Università di Roma

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si è polarizzata sulle soluzioni estreme: quella che vede nel refrain un’in-

serzione seriore a costituire un inno pasquale (Lazzerini 1979, 1985, 1986,

2000, 2001, 2004, 2008) e quella che vi legge qualcosa di assimilabile ad

una khargia mozarabica (Hilty 1981a, 1981b, 1995, 1996, 1998, 2000, 2001):

entrambe hanno interpretato refrain e testo latino come realtà essenzial-

mente autonome, mettendo quindi in discussione l’unitarietà originaria

del testo e hanno obliterato la soluzione, in larga parte condivisa fi no alla

fi ne degli anni ’70 del XX secolo, che metteva in relazione il refrain di

Phebi claro ai canti di scolta.

A me spiace dover riproporre un problema che è sembrato fanciul-

lescamente pedante, quello del metodo, spesso vilipeso dalla fi lologia

tradizionale non tanto perché insussistente, quanto perché dato nei fatti

per implicito: il fatto è che ritengo necessario, ancora una volta, fi ssare

dei puntelli sui quali si possa convenire o anche dissentire, ma che ren-

dano conto chiaramente dell’orizzonte ermeneutico e critico entro cui

ci si muove (peraltro qualcosa in proposito è stato già detto: cf. Chiarini

1974:10; Canettieri 2002).

In questo scritto proporrò infatti rifl essioni e alcuni materiali di ri-

scontro che vanno nella direzione di conservare nella sua integrità il testo

tràdito, alla luce di alcune considerazioni:

1. Nel testo latino le unità di scrittura corrispondono al lemma e ciò deve valere anche per il testo del refrain.

2. Nel testo latino non si hanno errori certi. Nell’unico caso in cui sem-bra possibile ipotizzare un errore, l’eziologia è chiarissima: anche per il re-frain varrà il principio per cui si emenda laddove è evidente la menda e si può dedurre la sua eziologia. Saremo dunque testualmente “garantisti”: il testo è buono fi nché non sarà dimostrato inequivocabilmente erroneo.

3. Negli inni latini la sintassi dei refrain è sempre molto semplice e normal-mente paratattica: vengono giustapposte frasi brevi o brevissime, ognuna delle quali è contenuta nel verso e generalmente ha valore semantico esortativo; man-cano del tutto gli enjambement, le tmesi e le separazioni di elementi linguistici coordinati mediante interposizione di elementi non coordinati: fi no a prova del contrario, anche il refrain di Phebi claro dovrà avere queste caratteristiche.

4. È indiscutibile che vi sia una comunanza lessicale fra testo latino e re-frain (Zumthor 1963): è dunque più che verosimile che il dettato e il senso del refrain debbano armonizzarsi quanto più possibile col dettato e col senso del testo latino. Quest’ultimo assunto richiede che si risponda a una domanda a mio avviso cruciale: che funzione ha il refrain in questo specifi co contesto? Da cui ne deriva direttamente un’altra: il testo è da considerarsi struttural-mente, tematicamente ed esteticamente unitario o il refrain è da considerarsi elemento allotrio, aggiunto posteriormente?

Dirò subito che il complesso delle ricerche, ove si valuti correttamente

e senza preconcetti tutta la bibliografi a preterita sull’argomento, indica

abbastanza precisamente la strada da percorrere. Sulla base di quanto i

miei predecessori hanno tracciato e con l’ausilio prezioso delle risorse

elettroniche oggi disponibili, tenterò quindi di fornire al lettore un qua-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 213

dro unitario, non senza ricorrere, laddove necessario, all’esercizio del dub-

bio: darò conto delle interpretazioni da me individuate fi no a oggi, che

non comportino interventi né sul testo, né sulle unità di scrittura, né sul

continuum sintattico e sulla scansione versale così come essa è indicata dal

codice latore. Tenterò di fornire ragguagli circa la lingua in cui è scritto il

refrain, una lingua che ritengo modellata ad hoc sulla base di quella parlata

nel milieu monastico in cui il testo è stato allestito, con inserzioni di lemmi

circoscrivibili a quell’ambiente. Renderò partitamente conto delle inter-

pretazioni, per via di un commento puntuale, verso per verso e parola per

parola, sia del testo latino sia del testo romanzo e fornirò anche alcuni

spunti per una lettura allegorica differente da quelle già proposte o ad

esse complementare (Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld 1913, Lazzerini

1979, 1985; Kaps 2005). Cercherò di dimostrare l’unitarietà sostanziale del

componimento, nonché l’unicità dell’autore e dirò della funzione assolta

dal testo. Nelle conclusioni tenterò di collocare Phebi claro nel contesto che

gli è proprio e fornirò una proposta di attribuzione. La pars destruens, già

implicita nelle considerazioni di metodo, sarà volutamente esplicitata solo

nei limiti dei casi più rilevanti e comunque non toccherà le ipotesi già fal-

sifi cate dai miei predecessori.

Interpretando il refrain alla luce dei canti di scolta e delle albe proven-

zali, mi rifarò in vario modo al quadro tracciato da Jeanroy (1889), Rajna

(1887), Gorra (1901 e 1912), Bertoni (1921), Monteverdi (1952), Zumthor

(1984) e, non ultimo, a quanto ha scritto al riguardo Aurelio Roncaglia

(1948 e 1951b), l’indimenticato maestro a cui va il pensiero nel licenziare

queste pagine.

Fornisco qui di seguito una trascrizione diplomatica del testo, ricon-

trollata direttamente sul manoscritto (se ne veda la riproduzione fotogra-

fi ca in Meneghetti 1997:fi g. 9), e un’edizione, provvista di traduzione da

cui si possano desumere fi n da subito le coordinate esegetiche entro cui

mi sono mosso.

1.1. Trascrizione diplomatica.1] Phebi claro nondum orto iubare; Fert aurora lumen terris tenue2] Spiculator pigris clamat surgite; Lalba par um(et) mar atra sol3] Poypas abigil miraclar tenebras; En incautos ostium insidie4] Torpentesq(ue) gliscunt intercipere; Quos suad(et) preco clamat surgere5] Lalba part um(et) mar atra sol; Poy pas abigil miraclar tenebras6] Abarcturo disgregat(ur) aquilo; Poli suos condunt astra radios7] Orienti tendit(ur) septemtrio; Lalba part um(et)mar atra sol; Poy pas abigil

1.2. Edizione.Phebi claro nondum orto iubare,Fert Aurora lumen terris tenue;Spiculator pigris clamat: “Surgite!”

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L’alba par, umet mar atra solPoypas abigil, miraclar tenebras. 5

En incautos ostium insidieTorpentesque gliscunt intercipere,Quos suadet preco clama[ns] surgereL’alba part, umet mar atra solPoypas abigil, miraclar tenebras. 10

Ab Arcturo disgregatur Aquilo,Poli suos condunt astra radios,Orienti tenditur SeptemtrioL’alba part, umet mar atra solPoypas abigil, [miraclar tenebras]. 15

1.3. Traduzione.Non ancora sorto il chiaro raggio di Febo,Aurora porta alle terre un tenue lume;La scolta esorta i pigri: “alzatevi!”.L’alba appare, il mare nero bagna il suolo [oppure: il mare nero bagna il sole; oppure: il mare bagna il nero suolo]La sentinella stia attenta a scrutare le tenebre [oppure: Sentinella, alla veglia! Scruta le tenebre!]

Ecco che i nemici insidiosibramano catturare indifesi e sonnolentiquelli che la vedetta convince, gridando, a levarsi.L’alba appare, ecc.

Aquilone si dissocia da Arturo,Le stelle del cielo nascondono i loro raggi,Tende a Oriente il Settentrione.L’alba appare, ecc.

2. Il testo latino.

2.1. Le unità di scrittura e gli errori del testo latino. Nel testo latino

le unità di scrittura coincidono quasi sempre con il lemma. In quattro casi,

lo spazio fra le due serie grafi che non è abbastanza ampio da non lasciar

dubbi sulla possibile agglutinazione: al rigo 1 l’unità di scrittura forse è

lumenterris (così Rajna 1887:68, Frank 1994:58 e Kaps 2005, lumen terris per

Meneghetti 1997, fi g. 9), ma si consideri che il rigo è piuttosto schiacciato

lateralmente e che potrebbe quindi trattarsi di una necessità contingente

(cf. §2.2); al rigo 3 Rajna, Frank e Kaps leggono Enincautos, ma la separa-

zione sembra qui abbastanza netta (En incautos anche per Meneghetti);

al rigo 4 forse è da leggere Quossuad(et) (con Rajna, Frank e Kaps; Quos suad(et) per Meneghetti; anche qui il dato andrà messo in relazione con

la notevole lunghezza del rigo: cf. §2.2); al rigo 6 forse da leggere Polisuos

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(così Rajna, Frank e Kaps, ma Poli suos per Meneghetti). Unica eccezione

certa è l’unità Abarcturo al rigo 6, che corrisponde anche all’unico caso

presente nel nostro inno di preposizione seguita da sostantivo: in ciò il

testo si conforma ad una prassi ben attestata in altri testi latini con scriptio discontinua (Saenger 1982, 1990a, 1990b, 1997), oltre che in alcuni canzo-

nieri provenzali (Zimei 2009). Al riguardo Rajna (1887:83) annotava:

Finché si trattasse di Enincautos, Quossuadet, Abarcturo, non avremmo certo motivo di andar in traccia di una spiegazione diversa dalla consueta, che abbia qui ricevuto un’espressione grafi ca il fatto della proclisia. Sennonché cotale spiegazione non val punto per Phebiclaro, lumenterris, Polisuos. A prima giunta, si sarà portati a non vederci altro che i capricci di scrittura; ma quando si sia posto mente che i versi constano di dipodie trocaiche complete chiuse da una dipodia catalettica —trochei ritmici, si badi, non propriamente metrici— e quando si sia avvertito che i nostri raggruppamenti, così quelli notati dianzi, come questi altri, rispondono sempre ad una dipodia, si dovrà bene ridursi a conchiudere che in ciò appunto vada cercata la ragione della grafi a. Si sono scritte solitamente unite le voci che costituivano un’unità ritmica.

Il testo latino si mostra anche molto corretto: un possibile errore è

spiculator per speculator, peraltro spiegabile pensando a una grafi a mero-

vingica e comunque molto comune (cf. §2.5 ad loc.); più probabile l’erro-

neità della lezione rinvenibile al rigo 4, dove clamat sarà forse da emen-

dare in clamans, che ovvierebbe alla mancanza di congiunzione (Schmidt

1881:336; Rajna 1887:68, n. 2). L’eziologia di questo errore sarebbe chiara:

clamat sugere per clamans surgere, con probabile titulus per la nasale nell’an-

tecedente, potrebbe essere dovuto alla memoria, da parte del copista, del

quasi identico sintagma del v. 3, clamat surgite. Il verbo nella medesima

forma è del resto attestato, come si vedrà, anche nel più importante inter-

testo di Phebi claro, l’Ales diei nuntius di Prudenzio (cf. §2.4).

2.2. Un testo avventizio. Si tratta di un testo avventizio (Signorini

2009), copiato da una mano databile fra la fi ne del X secolo e gli inizi del

successivo (Bischoff 1984:263, n. 12) sulla colonna destra, rimasta libera,

della c. 50v del codice vaticano Reginense 1462, un manoscritto databile

tra la fi ne dell’VIII e l’inizio del IX secolo, proveniente con ogni verosi-

miglianza dall’abbazia di Fleury-sur-Loire (Mölk 1969) e contenente gran

parte dell’opera di Fulgenzio e una serie di notae iuris. Nella carta che ci in-

teressa le notae iuris sono copiate una alla volta e con relativo scioglimento

sulla colonna di sinistra, in una minuscola libraria di tipo merovingico

molto più grande e ariosa: le righe della colonna di sinistra sono quindi

di lunghezza del tutto disuguale l’una dall’altra. Per Phebi claro, invece, in

ogni riga, perfettamente allineata a quella della colonna di sinistra (ciò

che comporta una scrittura che utilizza la precedente rigatura), vengono

copiati due versi, separati da punto e virgola, con l’eccezione della settima

e ultima riga, in cui viene copiato, sempre con punto e virgola di separa-

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zione metrica, anche l’inizio del verso successivo (coincidente con il se-

condo verso del refrain volgare).

È di rilievo che il copista si sia preoccupato di giustifi care a sinistra

tutt’e sette le righe iniziando a copiare molto a ridosso della fi ne della

prima riga della colonna di sinistra. La giustifi cazione a sinistra ha effra-

zioni visibili alla quinta e alla sesta riga, in corrispondenza di un’evidente

minor lunghezza del testo della colonna di sinistra; si noti, peraltro, che la

quinta riga è l’unica a contenere entrambi i versi del refrain, mediamente

più lunghi di quelli latini.

Il trascrittore, sicuramente molto abile dal punto di vista grafi co, ha

interesse per l’impaginazione e quindi per la giustifi cazione a sinistra e

a destra del testo; per quanto riguarda quella di sinistra, il nostro copista

ha collocato il suo primo rigo molto vicino alla fi ne della prima riga del

glossario, i cui lemmi, evidentemente, non sono tutti di uguale lunghezza:

ciò ha comportato la necessità, in alcuni casi (ll. 3, 7), di far rientrare

leggermente la giustifi cazione o, in altri casi (ll. 2, 4–6), di separare il te-

sto aggiunto dall’originario mediante un consistente spazio bianco. Nella

settima riga il copista sembrerebbe essersi riallineato alla giustifi cazione

consueta, per via della maggiore ampiezza del testo copiato sulla colonna

di sinistra. Essendo ancora più lungo il testo della colonna di sinistra nella

riga successiva (l’ottava nel ms.), il copista ha probabilmente preferito co-

piare nella riga precedente solo l’inizio del refrain, per non scompaginare

la giustifi cazione e l’armonia estetica del testo copiato: se l’ultimo verso

fosse stato copiato integralmente nella riga successiva, la scrittura sarebbe

giunta all’incirca fi no alla fi ne della seconda unità di scrittura (part) del

rigo precedente, con sfasatura dell’andamento binario e con obliterazione

della regolarità di scansione dei secondi versi. Si noti, infatti, che la spa-

ziatura fra i versi è più ampia nelle ultime tre righe e che, di conseguenza,

anche i versi interni alle righe sono stati considerati, pur in subordine,

elementi in serie da giustifi care a sinistra. Sembrerebbe, infi ne, che il co-

pista abbia cercato di far rientrare comunque il suo testo all’interno dello

specchio di scrittura, che, come si è visto, è stato sforato solamente per

l’ultima riga e questo potrebbe essere il motivo per cui egli non ha previ-

sto la copiatura oltre la settima riga.

I dati che abbiamo addotto hanno a nostro avviso un certo rilievo,

poiché: 1. implicano una certa progettualità nella copia e una ricerca di

armonia nell’organizzazione dell’impaginato; 2. fanno ritenere che il

testo dell’antigrafo coincidesse nella sostanza con quello copiato nel no-

stro codice, fatto salvo il terzo refrain, che forse lì era riportato per intero;

3. possono aiutarci a comprendere la ragione delle serie grafi che even-

tualmente agglutinanti di cui si è detto nel paragrafo precedente. In par-

ticolare al rigo 1 la vicinanza di lumen e terris potrebbe esser dovuta alla

volontà del copista di non fuoriuscire dallo specchio di scrittura (si noti

che, per la medesima ragione, nel rigo 2 la scrittura diviene più piccola e

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serrata). Lo stesso potrebbe valere per En incautos della terza riga (pure

caratterizzata da un ductus molto serrato) e per Quos suadet del rigo 4, che

contiene la porzione testuale più ampia delle prime sei, e per um(et) mar dell’ultima riga.

Queste considerazioni, infi ne, ci permettono di escludere che il testo

sia mutilo per ragioni materiali e che ci sia stata un’intenzionale abbre-

viazione del terzo refrain, analoga a quella che si ritrova di norma nei te-

sti profani provvisti di ritornello: il copista ha semplicemente cercato di

distribuire quanto più armonicamente possibile i quindici versi di Phebi claro su sette righe, fornendo al testo e a ciascun verso interno una giusti-

fi cazione a sinistra e ha distribuito il testo cercando di adattarlo alla parte

scritta in precedenza. D’altronde non si può escludere che nell’antigrafo

il refrain fosse abbreviato e che proprio per questa ragione il copista abbia

accodato l’ultimo verso al precedente (anche perché, essendo l’ottava riga

del testo originario particolarmente lunga, avrebbe di nuovo, e in maniera

più consistente, rotto l’allineamento della giustifi cazione a sinistra).

Riporto, infi ne, qui di seguito quanto mi scrive Maddalena Signorini

(che ringrazio) circa l’impaginazione:

Il testo dell’Alba (c. 50v) appare decentrato rispetto alla pagina del ma-noscritto nel suo complesso poiché è addossato alla prima colonna, conte-nente l’ultima porzione delle Notae iuris (cc. 39v–50v). L’anomalia può essere spiegata rilevando da un lato un sostanziale disinteresse del copista per l’im-paginazione complessivamente intesa rispetto al supporto ospite; dall’altro, al contrario, una forte attenzione nei confronti della disposizione del ‘suo’ testo. Va infatti sottolineato che le pagine che contengono le Notae iuris, in conseguenza della particolare natura di tale testo, presentano un tipo di ri-gatura anomalo, adattato alle circostanze. Il disegno, rigato a secco, prevede una colonnina ai due lati dello specchio di scrittura, due colonne separate da un intercolumnio e ciascuna divisa in due in maniera asimmetrica, così che la parte di sinistra risulta sempre più stretta della destra. Poiché il trascrittore delle Notae iuris ha utilizzato solo la prima colonna —e dunque la sua scrit-tura si ferma sempre prima (o subito prima) della riga che giustifi ca a sinistra l’intercolumnio— il copista dell’Alba, anziché far iniziare il componimento, come sembrerebbe più consueto, nella seconda colonna, allinea il suo testo giusto al di là della stessa linea di giustifi cazione sinistra dell’intercolumnio creando così nella pagina, appunto, un forte sbilanciamento a sinistra della zona occupata dalla scrittura. Tuttavia questa scelta inconsueta si giustifi ca considerando che in tal modo il copista riesce a utilizzare nella maniera mi-gliore la rigatura preesistente: l’interlinea che poteva sembrare troppo am-pia per una scrittura di modulo così minuto è invece perfettamente sfruttata dall’inserimento della notazione musicale sovrapposta al testo; i due versi appaiati sul rigo, come consueto nella trascrizione della lirica sino al pieno XIV secolo, si dispongono perfettamente e in maniera simmetrica, il primo, nella nuova colonna costituita da intercolumnio e prima metà della colonna B del manoscritto originario; la seconda, nell’altra metà della stessa colonna B. Ne è prova il fatto che i secondi versi di ciascun rigo rispettano sempre una giustifi cazione di sinistra costituita da quella linea mediana che dimezzava la seconda colonna originaria.

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2.3. La metrica del testo latino. Il testo latino di Phebi claro è costituito

di tre strofe, ciascuna di tre versi di endecasillabi ritmici che presentano

il rarissimo schema 4p 7pp (notazione di Norberg 1958). Il primo emisti-

chio, cioè, è sempre costituito di quattro sillabe con cadenza parossitona e

il secondo di sette sillabe con cadenza proparossitona. Si consideri che la

terminazione proparossitona nelle Gallie era pronunziata con due accenti,

uno sulla terzultima e uno sull’ultima. Così l’andamento ritmico del verso

sarà il seguente: òoòo òoòoòoò. Le strofe, così lette, presentano anche la

rima: in -e nelle prime due strofe e in -o nella terza (nel secondo verso la

rima -os è imperfetta). La struttura rimica del componimento fa pensare

ai testi della lirica profana romanza strutturati su coblas doblas con strofe

in numero dispari e in particolare al tipo, ben attestato soprattutto in

area galego-portoghese, con sole tre coblas. Sarebbe necessario uno studio

sistematico su questo procedimento in ambito liturgico, ma è certo che

la struttura con coblas doblas è attestata, in maniera ugualmente asimme-

trica, almeno in un altro componimento provvisto di bilinguismo latino/

occitanico, oltre che di refrain: parliamo del notissimo inno natalizio In hoc anni circulo (tràdito dal ms. parigino BN lat. 1139), dove l’appaiamento ri-

mico riguarda le prime quattro e le ultime due strofe del testo latino (con

l’eccezione quindi di due sole strofe), tanto che Meneghetti (1997:182) ha

potuto rilevare che “nell’inno latino le serie di versi monorimi che cos-

tituiscono la prima parte di ciascuna strofe cambiavano terminazione

ogni due strofe (le strofe apparivano cioè, per usare la posteriore ter-

minologia trobadorica, doblas)”. Questo dato potrebbe deporre a favore

dell’incompletezza di Phebi claro, che risulta asimmetrico metricamente,

oltre che troppo breve e lacunoso dal punto di vista del contenuto (cf.

§§2.3 e 2.4). Non è invece chi non veda che la struttura rimica aaaX (dove X sta per il refrain) ci riporta, come nel caso di In hoc anni circulo, alla

forma defi nita ‘zagialesca’. Ulteriore consonanza con l’inno sammarzia-

lese si ha nella forma metrica del verso: 4p 7pp Phebi claro, 7pp In hoc anni circolo. Bilinguismo, utilizzo del refrain, organizzazione strofi ca (oltre che,

aggiungerei, due timbri rimici), tipologia zagialesca della strofe, accomu-

nano quindi questi due componimenti.

Quanto al metro di Phebi claro, c’è da aggiungere che esso è stato uno

degli elementi che hanno fatto pensare a Lazzerini (1979:167–169) che

l’origine del testo latino potesse essere insulare, in particolare irlandese

e che fosse antecedente al refrain, considerato dalla studiosa un’inserzione

seriore. In effetti è da dire che il verso 4p 7pp differisce marcatamente dal

tipo normale dell’endecasillabo ritmico, che mostra una cesura dopo la

quinta o dopo la sesta sillaba. Secondo Herren (1974–1987, 2:224) “The

4p 7pp appears to be a Hiberno-Latin innovation, with several examples

datable to the seventh century”. I testi in questione, quasi tutti noti già

a Norberg (1958:118), sono l’Oratio pro itineris et navigii prosperitate, attri-

buita a San Gildas (PAC 4, 618; Bischoff 1984:154–161), la Lorica s. Gildae

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L’alba di Fleury da un’altra specola 219

Sapientis (AH, 51, 262; Herren 1974–1987, 2:76–93), il Canon Evangeliorum

(Esposito 1912:3–5) e una parafrasi ritmica del Carmen Paschale di Celsio

Sedulio (Meyer 1917). Phebi claro mostra però una regolarità prosodica as-

sente in tutti i testi insulari, che presentano invece numerosissime altera-

zioni ritmico-prosodiche, probabilmente dovute alle peculiarità della ver-

sifi cazione del latino irlandese (Herren 1990). Tali alterazioni sono invece

assenti in quello che si può considerare il testo strutturalmente più vicino

a Phebi claro, il notissimo carmen satirico/potatorio sull’abate di Angers,

contenuto in un manoscritto veronese del IX secolo. Ne riporto due strofe

delle cinque complessive (PAC 4, 591):

Andecavis abbas esse diciturille nomen primi tenet hominum;hunc fatentur vinum vellet biberesuper omnes Andechavis homines.Eia eia eia laudesEia laudes dicamus Libero.

Iste malet vinum omne temporequem nec dies nox nec ulla preteritquod non vino saturatus titubet,velut arbor agitata fl atibusEia eia eia laudesEia laudes dicamus Libero.

Si noti, oltre al medesimo metro 4p 7pp di Phebi claro, scandito con

totale regolarità, la presenza di rime (sia pur meno regolari di quelle del

testo che ci interessa) e di un refrain di due versi asimmetrici 8p — 4p

6pp. Se il secondo verso del refrain è uno dei più antichi esempi di decasil-

labo (De Alessi 1972:102), il grido Eia e l’esortazione (alla lode di Bacco,

in questo caso) ricordano elementi strutturanti il tipo innico con refrain, che individueremo anche per il caso di Phebi claro (§3.1 e passim). Inol-

tre, la giustapposizione di due versi asimmetrici di cui uno “contenuto”

nell’altro, è elemento importante che assimila i due testi e che depone a

sfavore delle ipotesi di regolarizzazione metrica del distico (Rajna 1887:78,

ad esempio, ne faceva due decasillabi).

Questi dati, unitamente al fatto che l’Andecavis abbas è un testo cer-

tamente continentale, quasi certamente composto in Francia, d’ambiente

monastico o paramonastico, in un’epoca non lontanissima da quella in cui

è stato copiato Phebi claro, ci fanno ritenere che, fra i modelli metrici pos-

sibili, questo sia in assoluto il più vicino. Il fatto che sia un testo satirico,

d’ispirazione non immediatamente religiosa, è un dato che potrà avviare

nuove rifl essioni sulla natura e sul senso di Phebi claro.2.3. Genere e tema del testo latino. Non mi pare che possano più es-

servi dubbi sull’intima affi nità che Phebi claro mostra con gli inni mattutini

(Laistner 1881; Schläger 1895; Becker 1929; Scudieri Ruggieri 1943; Ortiz

1943–1944; Szövérffy 1964–1965, 1:361; Becker 1967; Lazzerini 1979, 1985;

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220 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Frank 1994; Meneghetti 1997, 1998; Lazzerini 2001; Kaps 2005), mentre

ben poco è stato detto sulla sua sostanziale estravaganza rispetto ai mattu-

tini canonici. Secondo Rajna (1887:86–87) la presenza della scolta induce

a supporre “una forma molto antica di Alba, che invitasse gli uomini a

destarsi per ragioni guerresche”, anche se poi (87–88) lo studioso, corret-

tamente, annotava: “Abbia pur qualcosa di guerresco, non sarà tuttavia in

quanto più o men guerresca che la nostra Alba fu trascritta nel codice ora

vaticano da una mano ch’ebbe ad esser quella di un frate benedettino. A

meno che il trascrittore non sia stato mosso da un semplice interesse artis-

tico e musicale, fu certo un’idea religiosa che dovette incitarlo. Il precetto

di non poltrire, del non lasciarsi cogliere dal giorno chiaro nel letto, era

gridato con molta insistenza dal cristianesimo ai fedeli, ed agli ecclesias-

tici soprattutto; per i monaci poi veniva ad essere imposto propriamente

dalla Regola”. Molti altri autori, poi, hanno parlato di Phebi claro come di

un testo “paraliturgico”, senza che questo concetto fosse esaurientemente

chiarito.

In questo paragrafo mostreremo il quadro ambientale di riferimento

in cui sembra necessario inserire il testo, nel paragrafo successivo mostre-

remo i modelli innologici indiscutibilmente più vicini e, soprattutto, trat-

teremo delle sostanziali differenze che sussistono fra Phebi claro, i suoi pre-

cedenti e, in genere, i testi affi ni. Il commento puntuale verso per verso

servirà per apprezzare più in dettaglio quel misto di convenzionalità ed

originalità che caratterizza il nostro testo.

Innanzitutto, credo che si debba concordare con Kaps (2005:60–63)

sulla necessità di inquadrare questo inno nel contesto benedettino fl oria-

cense al quale appartiene il manoscritto che ce lo tramanda. Si rammenti

che il tempo della preghiera era scandito secondo le ore diurne, cioè la

Prima (circa alle 6), la Terza (alle 9), la Sesta (alle 12), la Nona (alle 15), i

Vespri (al tramonto) e la Compieta (prima di coricarsi), mentre di notte la

tradizione delle vigiliae (i turni di guardia delle sentinelle) aveva dato vita

ai tre notturni, riuniti poi in un’unica celebrazione detta, appunto, vigilia

o nocturna laus, cui faceva seguito (e spesso era ad essa unito) il Mattutino

o Matutinorum solemnitas cioè le Lodi (all’alba). La Regula di San Benedetto

nel cap. 8 (De offi ciis divinis in noctibus) prescrive che durante la stagione in-

vernale, cioè dal principio di novembre sino a Pasqua, i monaci si sveglino

verso le due del mattino (“octava hora noctis surgendum est”), in modo da

prolungare il sonno un po’ oltre la mezzanotte e che il tempo che rimane

dopo l’uffi cio vigiliare venga da loro impiegato nello studio del salterio

o delle lezioni (“Quod vero restat post vigilias a fratribus qui psalterii vel

lectionum aliquid indigent meditationi inserviatur”). Invece, da Pasqua

sino all’inizio di novembre, l’orario deve essere disposto in modo tale che

l’uffi cio vigiliare sia seguito immediatamente dai mattutini, che devono

essere eseguiti al primo albeggiare (“sic temperetur hora ut vigiliarum

agenda parvissimo intervallo, quo fratres ad necessaria naturae exeant,

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L’alba di Fleury da un’altra specola 221

mox matutini, qui incipiente luce agendi sunt, subsequantur”). Nella fonte

più importante della Regula di San Benedetto, l’anonima Regula magistri, al capitolo De offi ciis divinis in noctibus si forniscono informazioni ancor più

analitiche al riguardo, anche in relazione al rapporto fra risveglio dei mo-

naci, uffi ci e gallicinium o pullorum cantus (PL 88, coll. 1000–1004).

I capitoli 9–17 della Regula di San Benedetto ci danno poi un elenco

dettagliato circa l’organizzazione dei vari uffi ci divini e chiariscono con

una certa precisione anche quali inni si debbano recitare e quando. Così,

per le vigiliae invernali è previsto che venga intonato un inno ambrosianum, che rientri cioè nel canone dei quattro certamente attribuibili a Sant’Am-

brogio. Lo stesso vale per il periodo estivo, durante il quale l’uffi cio not-

turno è quasi identico, ma, a causa della brevità delle notti, non vengono

lette le lezioni dal lezionario. L’uffi cio vigiliare della domenica e delle

maggiori festività, invece, è molto più lungo e per questo i monaci sono

esortati ad alzarsi prima (“Dominico die temperius surgatur ad vigilias”).

Durante l’uffi cio vengono cantati due inni: il primo è il Te Deum laudamus, intonato dall’abate verso la fi ne dell’uffi cio, il secondo è il Te decet laus cantato sempre dall’abate dopo aver letto i Vangeli e dopo l’Amen (“Qua

perlecta, respondeant omnes Amen, et subsequatur mox abbas hymnum Te decet laus, et data benedictione incipiant matutinos”). Il cursus dell’uffi cio

vigiliare della domenica e delle festività per il natalizio dei Santi è mante-

nuto identico in ogni stagione, salvo il caso (ritenuto deprecabile) in cui i

monaci si alzino più tardi, nella quale circostanza si abbreviano le lezioni

e i responsori.

Vengono inoltre fornite indicazioni circa le Lodi della Domenica

(“Quomodo matutinorum sollemnitas agatur”) e dei giorni feriali (“Pri-

vatis diebus qualiter agantur matutini”) e anche per questi uffi ci è pre-

visto un solo inno di stretta tradizione ambrosiana (“deinde lectio una

apostoli memoriter recitanda, responsorium, ambrosianum, versu, canti-

cum de Evangelia, litania et conpletum est”). Una certa libertà nella scelta

dell’inno è data solamente negli uffi ci delle ore diurne, dove è previsto

un “hymnum eiusdem horae” per l’uffi cio di Prima, Terza, Sesta e Nona e

Compieta, mentre per i Vespri è previsto, ancora una volta, solo l’ambrosia-num. Quindi nella schematizzazione di Righetti (1955:493, n. 28): “S. Be-

nedetto sembra distinguere due raccolte di inni. Gli inni fi ssi per la Vigi-

lia, le Lodi e il Vespro hanno per titolo Ambrosianum e sono i quattro che

la tradizione attribuisce a S. Ambrogio; la seconda raccolta è anonima;

egli la recensisce sotto il titolo Hymnus eiusdem horae e sono mutabili a se-

conda del giorno e della festa”. La prassi di denominare ambrosiani gli inni

composti da Ambrogio è certifi cata da Isidoro di Siviglia nel De ecclesiasticis offi ciis (6 De hymnis):

Sunt autem divini hymni, sunt et ingenio humano compositi. Hilarius au-tem, Gallus episcopus Pictaviensis, eloquentia conspicuus, hymnorum carmine

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fl oruit primus. Post quem Ambrosius episcopus vir magnae gloriae in Christo, et in Ecclesia clarissimus doctor, copiosus in hujusmodi carmine claruisse co-gnoscitur, atque iidem hymni ex ejus nomine Ambrosiani vocantur, quia ejus tempore primum in Ecclesia Mediolanensi celebrari coeperunt, cujus celebri-tatis devotio dehinc per totius Occidentis Ecclesias observatur. Carmina autem quaecunque in laudem Dei dicuntur, hymni vocantur. (PL 83, col. 743)

Quel che sembra certo, dunque, è che la regola benedettina non con-

templa l’elaborazione di specifi ci inni destinati al mattutino: secondo la

Regula, quindi, all’alba nei monasteri benedettini si dovrà cantare lo Splen-dor paternae gloriae di Sant’Ambrogio, cioè l’unico inno mattutino da lui

composto, un testo che ha poco a che vedere con Phebi claro. Ne riporto le

prime due strofe (AH 50, 5):

Splendor paternae gloriae,de luce lucem proferens,lux lucis et fons luminis,diem dies illuminans

verusque sol, illabere,micans nitore perpeti,iubarque sancti spiritusinfunde nostris sensibus.

Ciò non toglie che nella consuetudine si potessero elaborare pratiche

differenti. Si dovrà in futuro effettuare una ricerca nei Consuetudinari di

Fleury. Per ora possiamo fornire alcune interessanti indicazioni leggendo

la Regularis concordia Anglicae nationis monachorum sanctimonialiumque, opera

di Sant’Ethelwold, composta sotto l’infl usso dell’esperienza monastica di

San Dunstan e promulgata dal concilio di Winchester (975 ca.) per impe-

dire che la diversità delle consuetudini e l’ingerenza dei laici provocassero

divisioni e contrasti. Ethelwold, già nel Proemio, dice a chiare lettere di ri-

farsi alle consuetudini monastiche in uso nelle Gallie, in particolare quelle

dei monasteri benedettini di Gand e di Fleury (PL 137, coll. 475–476). Egli

prescrive inoltre gli inni da cantare in inverno (Qualiter ordo hymnorum tem-pore hiemali) e fra essi spicca, per il mattutino consuetudinario, l’Aeterne re-rum conditor di Sant’Ambrogio, che vedremo essere uno dei due principali

intertesti per Phebi claro (cf. §2.4), e, soprattutto, postula una maggiore li-

bertà rispetto alla Regula della Domenica, delle sollenità festive, del periodo

dell’Avvento, della Quaresima e del tempo della Passione:

A Kalendis Novembris, usque in caput Quadragesimae, unus teneatur ordo hymnorum, scilicet, ut in diebus brevioribus breviores dicantur hymni, et in longioribus productiores etiam hymni psallantur: id est, ut Dominica Vespera, O lux beata; ad Completorium, Christe qui lux es; ad nocturnas vero, Primo dierum; et ad matutinas dicatur: Aeterne rerum conditor. Omni vero tem-pore ad nocturnam, ad matutinam, ad vesperam, exceptis Dominicis et festi-vitatibus sanctorum, feriales more solito teneantur. Praeclaris vero et festi-vis solemnitatibus, hymni competentes, usu celebrentur consueto. Adventus

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L’alba di Fleury da un’altra specola 223

autem Domini, Quadragesimae, ac Passionis tempore hymni ejusdem cultus legitime decantentur, ita tamen ut non hymni de jejunio, sed hi qui per to-tum annum currunt, Dominicis diebus sive noctibus tempore quadragesimali celebrentur (ibid., coll. 485–486).

Fra le consetudini, peraltro, ne è riportata una in cui viene palesato

un procedimento responsorio bilingue, in questo caso greco-latino:

Quibus expletis per ordinem, statim praeparetur crux ante altare, inter-posito spatio inter ipsam et altare hinc et inde a duobus diaconibus. Tunc can-tent Popule meus, respondentes autem duo subdiaconi stantes ante crucem ca-nant Graece, Agios o Theos, Agios ischiros, Agios athanatos, eleison imas. Itemque schola id ipsum Latine, Sanctus Deus. Deferatur tunc ab ipsis diaconibus ante altare, et eos acolythus cum pulvillo sequatur, super quem sancta crux pona-tur. Antiphonaque fi nita quam schola respondet Latine, canant ibidem sicut prius, Quia eduxit vos per desertum. Idem vero respondeant subdiaconi Graece sicut prius, Agios, ut supra; itemque schola Latine ut prius, Sanctus Deus. (ibid., coll. 492–493)

La Regularis concordia ci documenta anche circa l’antichità di una

prassi consuetudinaria propria del periodo pasquale e interna all’or-

dine benedettino di Fleury, cioè quella di mettere in scena la Visitatio Sepulchri, prassi considerata dagli studiosi del teatro medievale alla stre-

gua di una pièce proto-teatrale (Avalle 1984:95–97): ciò valga a dimostra-

zione della dinamicità creativa del monachesimo fl oriacense, entro il cui

alveo l’elaborazione dell’inno bilingue non sarà certo da considerarsi

stupefacente.

È qui infi ne da notare che al capitolo 43 della Regula, San Benedetto

si occupa anche dei casi in cui i monaci arrivino tardi all’uffi cio notturno,

prescrivendo che coloro che arrivano dopo il Gloria del salmo 94 (che pro-

prio per questo motivo dev’essere cantato molto lentamente e con pause),

non occupino il proprio posto nel coro, ma si mettano in quella parte che

l’abate avrà destinato ai negligenti, perché siano veduti da lui e da tutti, e

vi rimangano fi no a quando, al termine dell’uffi cio, abbiano riparato di-

nanzi a tutta la comunità con una penitenza. Ciò perché questi ritardatari

si correggano per la vergogna di essere visti da tutti. Se, infatti, rimanes-

sero fuori del coro, qualcuno avrebbe la possibilità di tornare a dormire

o di sedersi fuori o di mettersi a chiacchierare, dando così occasione al

demonio; è bene invece che entrino.

Il motivo del sorgere, dell’alzarsi al momento opportuno è dunque

assolutamente fondamentale nella Regula del fondatore dell’ordine ed è

quindi del tutto naturale che il monaco sia esortato dagli altri monaci ad

alzarsi per tempo, affi nché non ceda alle tentazioni del demonio. L’esor-

tazione al levarsi e alla vigile attenzione è in effetti l’elemento peculiare e

ricorrente sia del testo latino di Phebi claro (surgite, surgere), sia, nella nostra

interpretazione, di quello romanzo (abigil, miraclar). Nella Regula magistri, al capitolo De hebdomadariis divini offi cii in noctibus, si parla esplicitamente

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del monaco preposto alla funzione di vegliare e chiamare i compagni

all’uffi cio notturno, il vigilgallus (nome composto da vigil e gallus!) e se ne

descrivono partitamente i compiti (PL 88, col. 1001):

Ideo enim excitatio duobus modis committitur: ut et vicibus vigilent, et si unus secundum carnis fragilitatem fuerit somno oppressus, alius forte vigi-lans constituta hora excitet negligentis collegae offi cium. Magna enim mer-ces apud Dominum est excitantium ad divinum opus, quos pro fama regula vigilgallos nominavit.

Quomodo ab eis fi eri debeat excitatioCum hora constituta psallendi jam nocti occurrerit, surgat in his duobus

qui inventus fuerit vigilantior, excitet lente negligentiorem collegam hebdo-madarum suarum. Et merito lente; quia adhuc non est petitum a Domino ab omnibus in oratorio, ut clausa in completoriis labia ab eo aperiantur nocte. Hos ergo ideo duos constituimus, ut invicem se suis vigiliis praeveniant. Ergo surgentes ambo vadant cum reverentia ad lectum abbatis, et ibi oratione facta dicant sibi lente hunc versum: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam; et complentes sibi lente, mox pulsantes pedes abbatis suscitent eum. Quo expergefacto, dicant simul, Deus: quo audito, abbas surgat intrans in oratorio, et percusso indice oret tandiu, quandiu universi fratres ingre-diantur, qui forte necessaria causa corporis occupantur. Quod si quis fece-rit satis diu abbatem protrahere orationem, quod non licet, cum tarde fuerit oratorio praesentatus, praepositos eorum culpa respiciat. Ideo enim diximus in prima oratione abbatis universos exspectari, et mox debere occurrere, ut omnes post inchoationem abbatis una voce scilicet petant a Domino aperiri labia sua debere in nocturnis, sicut omnibus communiter petentibus a Do-mino fuerant clausa in completoriis. Nam ingredientes oratorium tertio di-cant: Domine, labia mea aperies, et os meum annuntiabit laudem tuam. Ideo enim diximus tertio dici ab omnibus, ut ne quis frater modice tardius ingressus ab hac postulatione versus fraudetur. Post quem versum, postquam ab omnibus dictum, invitet et suscitet pastor oves suas per responsorium ad laudes Do-mini, dicens: Venite, exsultemus Domino, jubilemus Deo salutari nostro; ad cujus vocis dulcedinem vel divinum favum omnis quae non accurrerit apes, sciat se, evacuatam fructu mellis in spiritu, solam ceram corporis somno confi cere, futuro gehennae incendio concremandam.

In ogni caso, risulta evidente che entrambe le Regulae prevedono che

l’esortazione al levarsi sia rivolta ai monaci al momento delle vigiliae not-

turne, non per il mattutino, quando essi si dovevano considerare già al-

zati da tempo. Sotto questo rispetto, la funzione e il senso di Phebi claro si

spiega solo nel quadro di una regola già rilassata.

Un’altra questione di rilievo, infi ne, è quella del tipo di inno al quale

Phebi claro appartiene. Infatti si possono individuare due grandi gruppi, a

seconda dello scopo cui gli inni sono destinati (Fortescue 1910, s.v. hymn):

nel primo gruppo rientrano gli inni destinati al culto pubblico, comune

e uffi ciale (la liturgia in senso stretto), nel secondo quelli destinati alla

devozione privata.

L’innodia liturgica si può ancora dividere in due gruppi: quello in cui

rientrano gli inni della liturgia sacrifi cale della Messa, raccolti nei Messali

e nei Graduali, e quello in cui rientrano gli inni della liturgia della pre-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 225

ghiera canonica, che hanno il loro posto nel Breviario o nell’Antifonario.

Anche l’innodia non liturgica, propria della devozione privata, può essere

ripartita in due tipi, a seconda che l’inno sia destinato al canto o sia ese-

guito in silenzio, in meditazione e in preghiera.

Esclusi i tipi innodici non liturgici, sia nella varietà cantata (cantiones e

muteti), la cui prassi è invalsa più tardi, sia in quella funzionale alla recita-

zione devozionale in silenzio (rhythmi, pia dictamina, psalteria rhythmica, ro-saria rhythmica, offi cia parva, canzoni di glossa, ecc.), molto differenti e non

compatibili con la presenza della notazione musicale e del refrain, non c’è

dubbio che la varietà in cui rientra Phebi claro andrà ricercata all’interno

del primo tipo, quello della liturgia in senso stretto. Anche all’interno di

questo raggruppamento si può procedere senz’altro ad escludere i tropi antiphonales (interpolazioni poetiche o ornamentazioni di una lezione, in

genere la terza, la sesta e la nona), le sequentiae (strutturalmente differenti

dalla tipologia innodica in senso stretto, in quanto costruite su strofe e

antistrofe) e i tropi graduales, cantati solo dal coro come interpolazioni al

Kyrie, al Gloria, al Sanctus, all’Agnus Dei. Della tipologia di Fortescue 1910

restano dunque essenzialmente due tipi: quello degli inni in senso stretto,

che, inseriti nelle horae canonicae e recitati dall’offi ciante, prendono il loro

nome dalle rispettive ore (“ad Nocturnas”, “ad Matutinas Laudes”, ecc.) e

quello degli inni processionali (hymni ad processione), cantati nelle proces-

sioni prima e dopo la Messa e raccolti anch’essi nel Missale e nel Graduale.

Quasi tutti gli inni di questo secondo tipo sono provvisti di refrain.In questo secondo caso, la prassi innodica alla quale l’autore potrebbe

essersi ispirato è quella inaugurata da Theodulphus, abate di Fleury (ca 750–

ca 821), il cui inno Gloria laus fu inserito nella liturgia della Domenica

delle Palme e veniva cantato a Fleury, per consuetudine, alla fi ne della

processione: quando questa era arrivata alle porte del monastero, quat-

tro religiosi cantavano l’inno all’interno dell’abbazia, con le porte chiuse,

mentre all’esterno gli scolari ripetevano tutti, in coro antifonale, i versetti:

Pueri Hebraeorum portantes ramos olivarum, obviaverunt Domino, cla-mantes et dicentes: Hosanna in excelsis.

Pueri Hebræorum vestimenta prosternebant in via et clamabant dicen-tes: Hosanna Filio David, benedictus qui venit in nomine Domini. (Rocher 1865:321)

Non mancano del resto casi di processioni fatte dai monaci all’esterno

del monastero, tutt’intorno alle mura, a piedi nudi (Rocher 1865:324) e

non è quindi affatto da escludere che il nostro inno avesse una funzione

processionale.

Ugualmente, non si può affatto escludere che Phebi claro appartenga al

tipo innodico canonico (A1 nella tipologia di Fortescue 1910) e che rap-

presenti un progetto ambizioso di innovazione dell’innologia tradizionale,

anche se è indiscutibile che la presenza del refrain permetta di far rien-

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226 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

trare il componimento che ci interessa anche all’interno di un importante

sottogenere dell’innologia, quello, appunto dell’inno con responsorium: già

Ortiz (1943–1944:135) accostava Phebi claro alle frasi dell’Invitatorium del

Breviario romano, inframezzate alla recitazione di un salmo, con i ver-

setti lunghi del capitulum che prevedono la recitazione dei versi brevi di un

inno mattutino, ricordando la “disposizione strofi ca” con refrain. Si tratta

di un tipo strofi co che trova importanti corrispondenti in ambito profano

sia nelle chansons à refrain della lirica antico-francese sia proprio nelle al-bas trobadoriche, la cui peculiarità rispetto al resto della produzione li-

rica occitanica è proprio quella di essere composte, come Phebi claro, se-

condo il modello strofe + refrain ripetuto (Newcombe 1975; Smith 1976;

Doss-Quinby 1984:3): si tratta di un dato, a mio avviso, di fondamentale

importanza e ancora poco valorizzato nella determinazione dei rapporti

fra la nostra Alba bilingue e le albe profane e che può gettare nuova luce

sulle origini e lo sviluppo del genere alba nel Medioevo.

2.4. I principali intertesti. È estremamente signifi cativo che i due

intertesti principali di Phebi claro siano due inni notturni, l’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio e l’Ales diei nuntius (o Hymnus ad galli cantum)

di Prudenzio (Laistner 1881; Rajna 1887:88; Jeanroy 1889; Becker 1929;

Scudieri Ruggieri 1943; Roncaglia 1948; Kaps 2005:50–60). In entrambi,

il banditore del giorno è il gallo, a riprova del fatto che essi andavano can-

tati al gallicinium, cioè ancora a notte fonda. Ambrogio si rivolge all’Eterno

creatore dell’universo che governa la notte e il giorno e dà vita al mutare

delle stagioni e sottolinea che sta cantando il banditore del giorno, vigile

sentinella della notte profonda, chiarore notturno per i viandanti che di-

vide i turni di guardia della notte. Destata dal gallo la stella del giorno li-

bera il cielo dalla caligine (“solvit polum caligine”) e il navigante riprende

vigore e si placano i fl utti del mare (“pontique mitescunt freta”). L’inno

ambrosiano contiene, come il nostro, l’esortazione ai credenti affi nché

sorgano dal loro torpore: “Surgamus ergo strenue, / gallus iacentes exci-

tat, / et somnolentos increpat, gallos negantes arguit”.

Nell’inno di Prudenzio sempre il gallo, cioè l’alato nunzio del giorno,

proclama col suo canto che la luce è vicina e Cristo, che ridesta i cuori, ri-

chiama i credenti alla vita (“Ales diei nuntius / lucem propinquam prae-

cinit; / nos excitator mentium / iam Christus ad vitam vocat”). Cristo

invita i credenti a metter via i lettucci torpidi, sonnacchiosi e pigri e li

esorta a vigilare casti integri e sobri (“Auferte —clamat— lectulos / ae-

gros, soporos, desides: / castique recti ac sobrii / vigilate, iam sum pro-

ximus”). La voce del gallo è fi gura del supremo Giudice (“nostri fi gura

iudicis”), che invita a lasciare il sonno (“suadet quietem linquere”) per-

ché il giorno sta per venire, mentre gli uomini, coperti da orride tenebre

(“Tectos tenebris horridis”), stanno avvolti in pigre coltri. Il sonno è fi -

gura della morte eterna, il peccato, che come un’orrida notte, costringe a

giacere in greve torpore (“Hic somnus ad tempus datus / est forma mor-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 227

tis perpetis, / peccata ceu nox horrida / cogunt iacere ac stertere”). Ma

dall’alto viene ad ammonire la voce di Cristo che ricorda ai credenti che

la luce è vicina ed esorta la mente ad affrancarsi dal sonno (“Sed vox ab

alto culmine / Christi docentis praemonet, / adesse iam lucem prope, /

ne mens sopori serviat”). Al cantare del gallo, i vaganti spiriti maligni,

che si rallegrano del buio delle notti, atterriti si disperdono e svaniscono

(“Ferunt vagantes daemonas / laetos tenebris noctium, gallo canente ex-

territos / sparsim timere et cedere”), perché, quando si squarcia il velo

oscuro delle tenebre, la vicinanza della luce mette in fuga i ministri della

notte (“Invisa nam vicinitas / lucis, salutis, numinis / rupto tenebrarum

situ / noctis fugat satellites”).

Il signifi cato allegorico di quest’alata fi gura fu mostrato da Cristo a

Pietro, quando gli predisse che lo avrebbe rinnegato prima che il gallo

avesse cantato: il peccato, infatti, si compie prima che il banditore del

giorno porti la luce al genere umano e metta fi ne al suo peccare. Inoltre,

nell’ora del riposo, quando il gallo canta con un fremito di gioia, Cristo

risalì dagli Inferi e umiliò la baldanza della morte, sottomise la legge

dell’inferno: la forza del giorno, insomma, vinse la notte e la costrinse a

ritirarsi. Al mattino è necessario che cessino le malvagità, s’addormenti

la colpa tenebrosa, si stemperi il delitto portatore di morte, ma nel tempo

che resta al chiudersi del corso della notte è necessario che lo spirito resti

vigile e vegli operoso e saldo come una sentinella (“Vigil vicissim spiritus

/ quodcumque restat temporis, / dum meta noctis clauditur, / stans ac

laborans excubet”). L’inno si chiude con una duplice esortazione, ai cre-

denti e a Cristo. Infatti, poiché menzognere e futili sono le azioni fatte,

come dormendo, per la gloria mondana, il poeta chiede al credente di es-

sere continuamente vigile (“Sunt nempe falsa et frivola, / quae mundiali

gloria / ceu dormientes egimus: / vigilemus, hic est veritas”). A Cristo si

rivolge perché dissipi il sonno, spezzi le catene della notte, sciolga l’antico

peccato e porti luce nuova (“Tu, Christe, somnum dissice, / tu rumpe

noctis vincula, / tu solve peccatum vetus / novumque lumen ingere”).

In Phebi claro il nunzio del giorno è lo spiculator/preco, che sembrerebbe

avere la stessa funzione del gallo, cioè quella di rappresentare allegorica-

mente sia Cristo, sia, con la sua voce, il supremo Giudice. Alcuni versi sem-

brano calchi precisi. Si confronti: “Auferte —clamat— lectulos / aegros,

soporos, desides” con “Spiculator pigris clamat: ‘Surgite!’”, oppure “suadet

quietem linquere” con “Quos suadet preco clama[ns] surgere”.

Si noti però che sia l’Aeterne rerum conditor sia l’Ales diei nuntius sono

inni ad galli cantum, cioè notturni, da cantare al gallicinium, non mattutini

da cantare al diluculum. Una certa affi nità funzionale, oltre che un preciso

riscontro (cf. qui infra), si ha invece nell’innologia mozarabica, propria

di un culto certamente meno rigido, con l’inno Noctis tempus iam praeterit, cantato durante l’uffi cio mattutino della quarta Domenica di Quaresima

(AH 27, 30, In Laudibus):

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228 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Noctis tempus iam praeterit,Iam gallus canit viribus,Gallo canente spes redit,Aegris salus refunditur.

Somno gravati surgite,Cordis reatum pandite,Iesuque laudem dicite,Qui nos redemit sanguine;

Detto questo, risultano del tutto evidenti le differenze fra Phebi claro e

gli intertesti principali: sia nel testo di Ambrogio, sia in quello di Pruden-

zio, sia nell’anonimo inno mozarabico (come, del resto, in tutti gli inni

mattutini che ho potuto studiare), l’aspetto allegorico non è mai impli-

cito, esso anzi è sempre esplicitato il più possibile, tanto che Prudenzio

parla senza mezzi termini di fi gura. Inoltre, in tutti gli intertesti la fi gura

chiave del Cristo salvatore, del Cristo che risveglia gli animi dei peccatori,

è sempre menzionata a chiarissime lettere. Nei due bellissimi inni di Am-

brogio e Prudenzio, come nell’innologia successiva, niente resta implicito,

la funzione didascalica risulta essere anzi assolutamente preminente: tutti

gli inni che abbiamo analizzato contengono esplicite menzioni di Cristo,

della Vergine o del Santo di turno. L’assenza di tali menzioni in Phebi claro

ci fa ritenere che il testo sia mutilo della parte in cui queste menzioni

erano presenti. Questo dato potrebbe trovare conferma e riscontro in ciò

che abbiamo già notato nel paragrafo precedente: l’inno potrebbe essere

lacunoso di una porzione cospicua della parte fi nale (cf. al riguardo Rajna

1887:88–89 e n. 3).

Il commento puntuale che segue mostrerà, ben oltre i due casi analiz-

zati, l’estrema coerenza di Phebi claro con il sistema stilistico degli inni co-

evi e al contempo la sua estrema originalità rispetto ai canoni prefi ssati.

2.5. Commento al testo latino.vv. 1–2. Il momento della notte descritto è il matutinum, o più proba-

bilmente, il diluculum, universalmente considerato, non tanto come l’ini-

zio del giorno, quanto come l’ultima parte della notte. Cf. in proposito

Rabano Mauro, De rerum naturis, X, 7 (De septem partibus noctis):

Noctis autem partes septem sunt: crepusculum, [vesperum], conticinium, intempestum, gallicinium, matutinum, diluculum. [. . .] Gallicinium propter gallos lucis praenuntios dictum. Matutinum est, inter abscessum tenebrarum et aurorae adventum: et dictum matutinum, quod hoc tempore inchoante mane sit. Diluculum, quasi jam incipiens parva diei lux: haec et aurora, quae solem praecedit. Est autem aurora diei clarescentis exordium, et primus splen-dor aeris, qui Graece eos dicitur, quam nos per derivationem auroram vocamus, quasi euroram [. . .]. Gallicinium autem conversionem peccatorum signifi cat. Unde eodem tempore Petrus, qui Dominum negando in tenebris oblivionis erravit, et speratae jam lucis rememoratione correxit, et ejusdem verae lucis adepta praesentia plene totum, quidquid mutaverat, erexit. Hunc opinor gal-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 229

lum aliquem doctorum intelligendum, qui vos jacentes excitans et somnolen-tos increpat, dicens: Evigilate, justi, et nolite peccare. Matutinum ergo sive dilu-culum resurrectionis Dominicae tempus signifi cat, vel hominis a peccatis ad justitiae plenam conversionem. Unde Psalmista ad Dominum ait: Ad te de luce vigilo: et in matutinis meditabor in te, quia factus es adjutor meus (Psal. 72). Ad ip-sum vigilatur, quoties in mundi ambitione dormitur. Nam illa sic consequi-mur, si ista deserere festinemus. Bene autem adjecit: In matutinis meditabor in te (Psal. 107); et alibi: Exsurgam diluculo; quando tempus Dominicae resurrectio-nis eluxit, et tunc ejus laudes cerneret, quando genus humanum exemplo suae resurrectionis animavit. Matutinum judicii dies sive resurrectio mortuorum, ut in psalmo: In matutinis interfi ciebam omnes peccatores terrae (Psal. 100). Aurora est Ecclesia, eo quod post tenebras peccatorum luce fi dei illustrata sit, ut in Job: Et ostendisti aurorae locum suum (Job. 38). (PL 111, coll. 292–294).

Ma è Amalario di Metz a fornirci nel capitolo 5 del De ordine antiphona-rii, dove si tratta De matutinali offi cio quotidianarum noctium, la descrizione

più accurata e illuminante sulla questione:

Quoniam homo pars est mundi, apud Graecos appellatur mikrovkosmoı, id est, minor mundus: et ideo non immerito statui temporum comparatur tota series nativitatis humanae. Nox enim dicta est quod noceat aspectibus vel negotiis humanis, sive quia fures latronesque in ea nocendi aliis occasio-nem nanciscantur. Ignorantia mentis, quae solet evenire ex tenebris peccato-rum, comparatur nocti. [. . .] Talium mentes solet Christus propter suam mi-sericordiam intervenientibus meritis sanctarum, visitare quodammodo hora matutina. Matutinum est secessus tenebrarum, et adventus aurorae. Eo tem-pore sol appropinquat ad superiora, ut expellat tenebras a superfi cie terrae. Adveniente sole, vero, expellitur caligo ignorantiae a mente humana, sicut factum est super Petrum quando fl evit amare, et quando misit Deus Natham prophetam ad David, ut recognosceret peccatum suum. [. . .] Post matutinum tempus sequitur diluculum. Diluculum est quasi jam incipiens parva lux diei. Nisi haec pars pertineat ad noctem, non erunt septem partes noctis quas doc-tores enumerant, id est, crepusculum, vesperum, conticinium, intempesta, gallicinium, matutinum, diluculum. De eadem hora dicitur in Evangelio: Una sabbati valde diluculo veniunt ad monumentum. Eadem hora vocatur et mane. Scribit et Joannes de eadem hora: Maria venit mane cum adhuc tenebrae essent. Et Marcus, quod jam praetulit: Sero an media nocte, an galli cantu, an mane. (PL 105, coll. 1252–1253)

Lo stesso Amalario, nel capitolo seguente (PL 105, col. 1255), annota:

“Mane est quidam angulus noctis et diei. Diluculum et exortus solis mane

vocantur, ut praetuli, in Evangelio”.

Il riscontro scritturale da Giovanni è di grande importanza, in quanto

dimostra in maniera inequivocabile che il diluculum può esser considerato

come un momento della notte in cui le tenebre ancora non si sono dira-

date (cf. §3.3, la nota a miraclar tenebras).Da ultimo, a conferma, si noti il preciso riscontro con Phebi claro in

Censorino, De die natali:

Tempus, quod huic proximum est, vocatur de media nocte; sequitur gal-licinium, cum galli canere incipiunt, dein conticinium, cum conticuerunt;

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230 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

tunc ante lucem, et sic diluculum, cum sole nondum orto iam lucet. (Cholod-niak 1889)

Phebi. Febo ad intendere il sole si ritrova nell’innologia solo nel X sec.

e abbastanza raramenente. Simile la perifrasi nell’incipit dell’inno mattu-

tino AH 51, 109 In sanctorum Apostolorum. Ad Laudes: “Ortu Phoebi iam pro-

ximo / Hymnum dicamus Domino”.

iubare. In clausola anche in AH 2, 120 (De Sancto Sacerdote hymnus): “Benigna nobis hodie / Christi refulget gratia, / Solisque festa clarior /

Laetifi cat nos jubare”; AH 2, 133 (De portis supernae Jerusalem): “Auricolor

Chrysolithus / Scintillat velut clibanus, / Praetendit mores hominum /

Perfecte sapientium, / Qui septiformis gratiae / Sacro splendescunt ju-

bare”. AH 7, 132 (De sancto Benedicto): “Laeta dies / aureo jubare / cor-

ruscat / aethra nitentia”. Costrutto e stilemi quasi identici in un testo

di ambiente fl oriacense, AH 13, 23 (In Translatione s. Benedicti): “Cordis

amore credulus / Senis promissionibus / Noctem pervigil excubat, / Pre-

cibus coelum penetrat, / Hinc sanctorum reliquiae / Claro monstrantur

jubare. // Nondum sol per orbem suos / Coelo fundebat radios”.

Aurora. La menzione dell’aurora, più o meno personifi cata e trattata

in termini mitologici, è presente nell’incipit di numerosissimi inni (ne

conto una cinquantina in Chevalier 1892–1921), soprattutto mattutini: Cf.

già Gregorio Magno AH 51, 31 (Die Dominica ad Matutinas Laudes): “Ecce,

iam noctis tenuatur umbra, / Lucis aurora rutilans coruscat; / Nisibus

totis rogitemus omnes / Cunctipotentem” e, fra i più antichi e importanti,

si veda anche AH, 51, 5 (Die Dominica ad Matutinas Laudes): “Deus, qui caeli

lumen es / Satorque lucis, qui polum / Paterno fultum brachio / Praeclara

pandis dextera; / Aurora stellas iam tegit / Rubrum sustollens gurgitem,

/ Humectis namque fl atibus / Terram baptizans roribus”; AH, 2, 16, In ma-tutinis laudibus: “Aurora jam spargit polum, / Terris dies illabitur, / Lucis

resultat spiculum, / Discedat omne lubricum” (già addotto da Lazzerini

1979:144); AH 2, 46 (In matutinis laudibus): “Aurora lucis rutilat, / Coelum

laudibus intonat, / Mundus exsultat, jubilat, / Gemens infernus ululat”.

lumen terris. Sintagma identico in AH 19, 188 (De sancto Columbano):

“Nostris solemnis saeculis / Refulget dies inclita, / Qua sacer coelos Co-

lumba / Ascendit ferens trophaea. // Sed priusquam eum mater / In au-

ras lucis ederet, / E sinu solem prospicit / Terris lumen diffundere”.

v. 3. Spiculator. In questa forma compare sempre nel senso di ‘carne-

fi ce’ nell’innologia antica. La confusione fra speculator e spiculator non è

infrequente. Ad esempio nell’epistola di San Girolamo Ad Innocentium de muliere septies percussa (PL 22, col. 329): “Jam spiculator exterritus et non

credens ferro, mucronem aptabat in jugulum”, ma in apparato: “Vitiose

[Martianaeus] tamen legerat ille speculator pro spiculator”. Cf. anche Du

Cange, s.v. e FEW 12, 162: “Lat. speculator confondu à basse époque (Ter-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 231

tullien) avec spiculator ‘bourreau’ fut emprunté dans ce sens par la langue

lettrée”.

Lazzerini (1985) ha allegato riscontri per l’interpretazione allegorica

che vede nello speculator il predicatore e Di Girolamo (2009) l’angelo cu-

stode. Nella Vulgata troviamo una ventina di volte speculator, due volte spe-culatio e quattro specula e speculari: il senso di queste parole, apparentate

a specere, spicere, respicere è sempre strettamente legato a quello di specula, nel senso di ‘osservatorio, luogo d’avvistamento’. Mentre spicere, e respicere signifi cano soprattutto ‘guardare’, speculari riveste piuttosto la sfumatura

di ‘spiare, scrutare con attenzione’ e speculator equivale, generalmente, a

‘spia, guardiano, sentinella’ e traduce il greco skopóı.Nella patristica, e in genere nella letteratura religiosa mediolatina,

speculatio è spesso sinonimo di contemplatio, ma una signifi cazione parti-

colare è data dal fatto che questo lemma fi gura nell’etimologia tradizio-

nale del monte Sion. Nel Medioevo, per interpretare speculatio, si fa inter-

venire speculum, ‘specchio’, allorché si vuole trattare di una conoscenza

mediata dalla fi guralità o dalle similitudini, o si fa riferimento a specula, che designa un osservatorio, per individuarvi la peculiarità di una visione

dall’alto: speculator è allora applicato a coloro che sono incaricati di sorve-

gliare ed osservare il popolo di Dio, cioè i vescovi o i sacerdoti o, in alcuni

casi, lo stesso Cristo.

Nella maggior parte dei casi reperibili nella Patrologia il termine spe-culator è collegato per via etimologica a episcopus. Fra le prime attestazioni

troviamo il trattato De duodecim abusionibus seculi, attribuito a Cipriano o

Agostino (PL 4, col. 879):

cum episcopus nomen graecum sit, speculator interpretatur. Quare vero speculator ponitur, et quid a speculatore requiritur, Dominus ipse denudat, cum sub Ezechielis prophetae persona, episcopo offi cii sui rationem denun-tiat, ita inquiens: Speculatorem dedi te domui Israel. [. . .] (Ezech. 3, 17). Decet ergo episcopum, qui omnium speculator positus est, peccata diligenter atten-dere, et postquam attenderit, sermone, si potuerit et actu corrigere.

Questo accostamento allegorico, fondato su base etimologica, ricorre

in maniera più o meno dettagliata in numerosissimi trattati liturgici

dell’Alto e del Basso Medioevo. Si legga, ad esempio, quello, molto detta-

gliato e specifi co che abbiamo ritrovato nel De divinis offi ciis, attribuito ad

Alcuino (PL 101, col. 1235):

Episcopus Grece, Latine dicitur superintendens: epiv super skope§in in-tendere, hinc episcopus superintendens, id est supervidens: quia ipse debet supervidere vitam subjectorum suorum, qualiter credant, qualiter vivant, qualiter Dei praecepta custodiant. Antiquis temporibus in singulis civitatibus erant turres altissimae constructae: unaquaeque civitas habebat suam turrim, in qua stabat speculator assidue, ut a longe posset aspicere, si exercitus ve-

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niret ex aliqua parte; si videret exercitus venientem, nuntiabat statim regi, et praeparabantur omnes ad bellum contra hostem illum. Speculatoris illius similitudinem gerit modo episcopus: quia sicut ille stabat in altitudine turris, sic episcopus et presbyter debent consistere in altitudine virtutum. Sicut enim illa turriis caeteras domos excellebat, sic episcoporum et presbyterorum vita debet excellere vitam subjectorum: et sicut ille speculator nuntiabat adven-tum hostis, ut se praeviderent cives, sic episcopi et presbyteri debent annun-tiare populis sibi subjectis adventum nequissimi hostis diaboli, ut se praevide-ant, ne ejus laqueo capiantur.

Anche nell’Epistola 70 Ad Speratum episcopum, scritta nel 797, Alcuino

insiste specifi camente su questa metafora (PL 100, col. 242):

Quotidie operemur bonum, dum tempus habemus (Gal. 6, 10); ne nos tenebrae comprehendant (Joan. 12, 35), nec imparatos illa metuenda dies in-veniat. Tu vero pastorali pietate ac sacerdotali auctoritate, non solum meam suscitare litteris socordiam studeas, sed etiam omnibus te audientibus pia pa-ternitate, ut vigilent, praedicare non cesses. Si lingua sacerdotalis clavis est coelestis regni, decet ut guttur illius tuba sit aeterni Regis, dicente propheta: Clama, ne cesses; exalta sicut tuba vocem tuam (Isai. 58, 1). Quis se parat ad bel-lum, si praeco in castris non clamat? Quis hostibus succinctus in armis obsi-stit introitum, si speculator in celso turris fastigio dormit?

Per Onorio d’Autun, invece, lo speculator è, più in generale, fi gura del

sacerdote (Speculum Ecclesiae, PL 172, coll. 861–862):

Nobis dicitur a Domino: Fili hominis, speculatorem te constitui domui Israel (Ezech. 3). Speculator solet in alto stare, ut praevisos hostes possit civibus nun-tiare. Ecclesiae pastores vel speculatores sunt sacerdotes, quorum vita in alto virtutum debet locari, ut hostium adventus, id est daemonum vel viciorum impetui possit Christianis praenuntiari.

In un sermone di Pietro Cellense lo speculator, oltre a essere fi gura del

vescovo e del sacerdote, lo è anche di Cristo (PL 202, coll. 890–891):

unde hic dicit: Fili hominis, speculatorem dedi te. Quo se alio nomine toties in Evangelio appellaverit? quoties Filium hominis non succurrit memoriae? et hoc tam solemne nomen principaliter episcopis, secundario omnibus sacer-dotibus indulsit. Unde et episcopus superintendens, id est speculator interpre-tatur; et minores sacerdotes, qui licet non habeant plenitudinem potestatis, tamen vocati sunt in partem sollicitudinis, eamdem accipiunt sollicitudinem speculandi cum cura regendi populi. Hic vero Filius hominis de specula co-eli speculatur super fi lios hominum, ut videat si est intelligens aut requirens Deum; speculatur et conscientias omnium hic astantium bonae an malae sint, mundae an immundae, devotae an indevotae. Speculatur speculatorem utrum stet in specula sua totis diebus et totis noctibus, utrum clamet sicut leo fortiter. Hoc enim offi cium est speculatoris, vigilare, aspicere et clamare assi-due, et in sublimiori stare vel sedere. In vigiliis notatur sollicitudo, in aspectu sive contuitu lectio et contemplatio, in clamore praedicatio in altiori statione religio. Excludit sollicitudo negligentiam, lectio ignorantiam, contemplatio saecularium negotiorum curam, praedicatio excitat timorem et amorem divi-num, religio informat mores sibi commissorum.

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L’alba di Fleury da un’altra specola 233

Quest’ultima, complessa, che vede nello speculator ogni ministro della

Chiesa di Cristo, è l’interpretazione allegorica, già sostenuta da Becker, Su-

chier e Birch-Hirschfeld (1913:12–13), alla quale ritengo ci si debba rifare.

C’è però da sottolineare che il lemma è attestato molto raramente nell’in-

nologia del X secolo e in quella precedente e, per di più, in contesti che

presentano in genere scarsa attinenza con il nostro testo. L’occorrenza più

signifi cativa è quella di AH 2, 10 (In matutinis laudibus), inno che compen-

dia il Nox et tenebrae et nubila di Prudenzio: “Speculator adstat desuper, /

Qui nos diebus omnibus / Actusque nostros prospicit / A luce prima in

vesperum”, dove lo speculator è allegoria di Cristo (cf. glossa riportata in

PL 59, col. 794a: “Speculator, Christus, Iso.”), mentre al sacerdote rinvia

l’inno AH 31, 10: “Almus ille speculator / sacerdos in populo / Semper

astat super gregem, / pugnat contra impios, / Ut nec unam possit ovem /

rapere de gregibus”, dove, più che alla scolta, ci si riferisce al guardiano

del gregge di memoria scritturale.

“Surgite!”. L’incitazione ad alzarsi è già in Is. 60, 1: “Surge, illumi-

nare, Jerusalem, quia venit lumen tuum et gloria Domini super te orta

est”, vero e proprio archetipo, anche per l’interpretazione in chiave cri-

stologica (e utile anche per comprendere poi il senso di abigil miraclar: cf. §3.3. commento relativo e gli altri riscontri da Isaia) e poi in Paolo

Rom. 13, 11: “hora est jam nos de somno surgere”, Eph. 5 14: “Surge qui

dormis, et exurge a mortuis, et illuminabit te Christus”. Nell’innologia,

come abbiamo visto, entra fi n dall’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio:

“Surgamus ergo strenue! / Gallus iacentes excitat, / et somnolentos in-

crepat, / Gallus negantes arguit”. Analogamente anche nella prima strofa

dell’inno notturno Somno refectis artubus, attribuito allo stesso Ambrogio:

“Somno refectis artubus, / spreto cubili, surgimus: nobis, Pater, canenti-

bus adesse te deposcimus”.

L’esortazione ad alzarsi è anche nell’inno mattutino Primo dierum om-nium, attribuito a Gregorio Magno: “Primo dierum omnium, / quo mun-

dus exstat conditus / vel quo resurgens conditor / nos, morte victa, li-

berat. // Pulsis procul torporibus, / surgamus omnes ocius, / et nocte

quaeramus pium, / sicut Prophetam novimus”. Già individuato da Lazze-

rini 1979 il riscontro da AH 27, 30 (Dominica 4. Quadragesimae. In laudibus): “Noctis tempus iam praeterit, / Iam gallus canit viribus, / Gallo canente

spes redit, / Aegris salus refunditur. // Somno gravati surgite, / Cordis

reatum pandite, / Iesuque laudem dicite, / Qui nos redemit sanguine”

(già commentato supra).

Anche nelle albas trobadoriche ricorre di frequente l’invito al levarsi.

Cf. BdT 342, 1: “Or levetz sus, francha corteza gans! / Levetz, levetz! trop

avetz demoret, / qu’apropchatz s’es lo jors clers et luzans”; BdT 461, 203:

“Drutz al levar! / Qu’ieu vey l’alba e·l jorn clar”; BdT 409, 2: “Sus levatz /

drutz c’amatz”; BdT 156, 15: “Estatz sus elevatz / senhor, que Dieus amatz!”.

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234 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

BdT 76,23: “qu’ieu aug que li gaita cria:‘via! sus! qu’ieu vey lo jorn / venir

apres l’alba’”.

vv. 6–7. Per via delle condizioni della luce e dello stato non ancor vigile

degli uomini, il diluculum è il momento più propizio per attaccare una for-

tifi cazione. Numerosi trattatisti invitano a rafforzare la guardia e aumen-

tare la sorveglianza. Settia (2002:253) annota: “L’attacco sferrato ‘summo

diluculo’, cioè di primissimo mattino, consente di sfruttare le condizioni

della luce non appena esse si presentano con la probabilità di cogliere di

sorpresa un nemico non ancora pronto a difendersi” (cf. ivi: 254–255 nu-

merosi esempi di attacco in questo momento del giorno). Il senso allego-

rico è chiaro: Roncaglia (1948), a proposito del canto delle scolte mode-

nesi, allegava numerosi inni “Dove sempre, sotto le metafore guerresche,

si allude, com’è chiaro, alla difesa dal diavolo e dalle sue tentazioni, dagli

incubi, dalle fallaci lusinghe dei sogni, dal pericolo delle oscure rivincite

che il corpo si prende nel sonno dello spirito”. Anche secondo Becker, Su-

chier e Birch-Hirschfeld (1913:12–13) i nemici sarebbero i pensieri pecca-

minosi. Riscontri innologici in Di Girolamo 2009:85–86.

Quasi identico al nostro il passo dell’Expositio in Psalmos di Brunone

d’Asti: “Boni speculatores, qui assidue vigilant, ne quasi incauti ab hosti-

bus capiantur” (PL 164, col. 1005).

v. 8. suadet. Cf. il riscontro da Prudenzio addotto supra §2.4.

preco. Nell’Aeterne rerum conditor di Sant’Ambrogio, come si è visto, il

praeco diei è il gallo: “Praeco diei iam sonat, / noctis profundae pervigil, /

nocturna lux viantibus / a nocte noctem segregans”. Nell’innologia del X secolo, invece, il lemma fa quasi sempre riferimento a San Giovanni Bat-

tista, il praeco verbi per antonomasia. Fra i molti esempi cf. AH 2, 55 (De S. Johanne): “1. Praecursor alti luminis / Et praeco verbi nascitur, / Laetare,

cor fi delium, / Lucemque gaudens accipe”; AH 2, 122 (De decollatione Sancti Johannis): “3. Hic Dei praecessit unum / matre natum fi lium, / Tempo-

reque subsequente / praeco verax praeiit, / Mortis et praecursor ipsa /

morte primus concidit”; AH 14, 89 (In Nativitate s. Johannis B.): “1. Praeco

praeclarus sacer et propheta, / Regis aeterni paranymphus almus / Voxque

clamantis, Domino potenter / Dirige callem”. Cf. anche nota a spiculator.vv. 11–13. Riferimenti astronomici si incontrano anche in alcune albas

provenzali: cf. Di Girolamo 2009:85. La strofa presenta notevoli diffi coltà

interpretative, sia in ragione di varie polisemie testuali, sia per le nume-

rose possibilità interpretative della confi gurazione astronomica rappresen-

tata. La corretta lettura è tuttavia centrale per determinare la collocazione

stagionale dell’inno. Secondo Becker (1929), Zumthor (1984), Meneghetti

(1997, 1998) e Kaps (2005) le due perifrasi astronomiche rinvierebbero

al periodo postequinoziale e quindi l’inno sarebbe stato concepito per

essere cantato all’alba della Domenica di Pasqua. Un’analisi complessiva

dei tre versi ci porta, invece, a ritenere che la stagione confi gurata debba

essere l’autunno.

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L’alba di Fleury da un’altra specola 235

Ab Arcturo. Oggi con il nome Arturo designiamo la quarta stella più

brillante del cielo. Il nome deriva dal greco Arctouros, che signifi ca letteral-

mente Guardiano dell’Orso o Coda dell’Orso (ossia dell’Orsa Maggiore, la co-

stellazione in cui è contenuto l’asterismo del Grande Carro): in effetti, Ar-

turo si individua facilmente utilizzando le tre stelle del timone del Grande

Carro come guida, prolungandone la direzione per circa due volte la lun-

ghezza del timone stesso, come risulta evidente dalle mappe celesti ripro-

dotte in calce (fi gg. 4 e 5). Nella tradizione classica, da Plauto a Orazio, da

Plinio a Ovidio a Claudiano, Arcturus era una stella portatrice di tempesta

(procellosa): questa opinione trovava la sua ragion d’essere nel fatto che il

mare soleva essere tempestoso nel periodo dell’anno in cui Arturo sorgeva

la sera o tramontava al mattino. Così, secondo Vegezio (Epitoma rei milita-ris, 4, 39) la navigazione sarebbe sicura solamente “a die VI Kal. Iunias

usque in Arcturi ortum, id est in diem VIII decimum Kal. octobres”; in

seguito la navigazione diviene incerta “quia post idus septembres oritur

Arcturus, vehementissimum sidus”. Per Columella (Res rustica, 11 2, 21 e

43): “IX kal. Martii Arcturus prima nocte oritur, frigidus dies Aquilone vel

Coro, interdum pluvia [. . .] XI et X kalendas Iunias Arcturus mane occi-

dit, tempestatem signifi cat” (Rodgers 2010:433 e 439).

Il problema interpretativo, però, nasce dal fatto che già i latini

dell’epoca arcaica e classica con il nome Arcturus designavano sia la stella

che ancor oggi ha questo nome, sia la costellazione di Bootes, della quale

Arturo fa parte, e ben presto anche realtà astrali del tutto diverse: così Arc-turus, per via dell’affi nità onomastica, viene a designare la costellazione

di Arcton (già in Plinio, Naturalis historia 27, 33 “Arction aliqui potius Arc-

turum vocant”), nome con cui, peraltro, era possibile indicare sia l’Orsa

minore, sia l’Orsa maggiore (Gundel 1907:140). Tale polisemia si riscontra

anche nei Padri. Così, Boezio vedeva in Arcturus la stella che ancor oggi

porta questo nome e ugualmente, e più in chiaro, i suoi commentatori

d’epoca umanistica Giovanni Murmellio e Rodolfo Agricola nei Commenta-ria in Libros De Consolatione Philosophiae (PL 63, col. 1052):

Bootes. Arctophylax. Bootes oritur tertio idus Februarias, ut docet Ovi-dius in Fastis. Arctophylax autem interpretatur Ursi custos. Idem etiam ap-pellatur Bootes. [. . .] Dicitur etiam Arcturus, ut docet Lactantius gramma-ticus. Servius tamen scribit Arcturum proprie esse stellam in signo Boote, cujus ortus et occasus tempestates gravissimas facit . . .

Ma già Isidoro di Siviglia, nel De natura rerum, sulla base delle Scrit-

ture, fornisce un’interpretazione del tutto differente, assimilando Arturo

alle sette stelle del Grande Carro e quindi, allegoricamente, alla Chiesa

che rifulge delle sette virtù (PL 83, col. 998):

Arcturus est ille quem Latini Septentrionem dicunt, qui septem stella-rum radiis fulgens, in seipso revolutus rotatur, qui ideo Plaustrum vocatur, quia in modum vehiculi volvitur, et modo tres ad summa elevat, modo quat-

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236 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

tuor inclinat. Hic autem in coeli axe constitutus semper versatur, et nunquam mergitur. Sed dum in seipso volvitur, et nox fi nitur. Per hunc Arcturum, id est Septentrionem, Ecclesiam septenario virtute fulgentem intelligimus.

Con questa opinione concorda l’autore dell’Espositio interlinearis Li-bri Job, con la variante per cui le sette stelle del Carro rappresentano la

somma della Trinità e delle quattro virtù principali: “Arcturus ex septem

stellis constat: ita et Ecclesia ex fi de Trinitatis, et operibus quatuor princi-

palium virtutum consummatur” (PL 23, col. 1461).

Nel Commentarius in Amos prophetam, attribuito a Rufi no d’Aquileia,

Arcturus indica semplicemente la plaga del settentrione:

Notandum etiam illud, quod cum descriptionem aethereae informatio-nis vellet amplecti, astrorum vocabulis quatuor plagas, quae etiam Climata vocantur, expresserit: id est, Arcturo Septentrionem, Orione vero Australem, quae est e regione, constituens: diei autem et noctis vicissitudine, ortum So-lis, occasumque signando. (PL 21, col. 1076)

San Girolamo torna tre volte su Arturo nei Commentarii in Librum Job, trattando dei relativi passi del Libro di Giobbe: una prima volta nel com-

mento al versetto Ab interioribus egredietur tempestas, et ab Arcturo frigus, di

cui tratteremo parlando del lemma “Aquilo”, una seconda volta, solo en passant, glossando il versetto Qui facit Arcturum, et Oriona, et Hyadas, et inte-riora Austri (PL 26, col. 638 “Qui facit Arcturum, id est, primos in resurrec-

tione Ecclesiae”). Infi ne nel commento a Job 38, Numquid conjungere valebis micantes stellas Pleiades, aut gyrum Arcturi poteris dissipare?, da cui risulta evi-

dente l’identifi cazione di Arturo con il Septemtrio (PL 26, coll. 759–760) e

il numero sette con la settiforme grazia dello Spirito Santo:

Ait ergo Dominus ad Job: Numquid ut hae stellae junctae, et simul sint, tua potentia facere potuisti? Septentrionis quoque sive Arcturi circuitum, quem indesinenti gyro per sinistram plagam mundi in se feci recurrere, ut totus in se vadat semper et redeat: numquid tu poteris dissipare? [. . .] In hoc igitur coelo etiam stellae Pleiades, et Septentrionis, unam in se sacrae interpretationis continent formam. Ipse enim septenarius numerus septifor-mis Spiritus gratias in se demonstrat, quae in hoc micant, ipsique gratiarum spiritus in eodem fi rmamento coeli sunt fulgentes.

Rabano Mauro, commentando nel De universo ((9, 12–13) lo stesso ver-

setto, si pone sulla medesima linea interpretativa, leggendo, come Isidoro

di Siviglia, in questa costellazione che sembra non tramontare mai un’al-

legoria per la Chiesa, che mai è tramontata, nonostante le tribolazioni

patite (PL 111, coll. 272–273):

Pleiades autem et Arcturus quid signifi cent, in sententia qua Dominus ad beatum Job locutus est, animadverti potest. Ait enim: Nunquid jungere valebis micantes stellas Pleiades aut gyrum Arcturi poteris dissipare? [. . .] Arcturus vero ita nocturna tempora illustrat, ut in coeli axe positus per diversa se vertat, nec tamen occidat. [. . .] In Arcturo autem, qui per gyrum suum nocturna spatia non occasurus illustrat, nequaquam particulatim edita vita sanctorum, sed

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L’alba di Fleury da un’altra specola 237

tota simul Ecclesia designatur, quae fatigationes quidem patitur, nec tamen ad defectum proprii status inclinatur. [. . .] Potest ergo per Arcturum, qui a plagis frigoris nascitur, lex; per Pleiades vero, quae ab Oriente surgunt, testa-menti novi gratia designari. Quasi enim ab Aquilone lex venerat, quae tanta subditos rigiditatis asperitate terrebat, dum pro culpis suis alios praeciperet lapidibus obrui, alios gladii morte multari.

Pur se il Septemtrio non è esplicitamente menzionato, come negli al-

tri casi esaminati si tratta anche qui di una costellazione sempre visibile

(“non occasurus”) situata al Nord (“qui a plagis frigoris nascitur”, “Quasi

enim ab Aquilone lex venerat”, per cui cf. qui il commento relativo).

I brani (pochi e tardi) che troviamo nell’innologia riprendono quasi

testualmente il versetto di Job 38, accogliendo di fatto l’interpretazione

Arcturus = Septemtrio. Si legga AH 55, 92 (De sancto Bernardo Claraevallense): “Ad superna suspirantes / In aeterna luce stantes / Invocemus iubilo, //

Ubi Pliades micantes / Igne lucent, exsultantes / In fl uente rutilo; //

[. . .] // Gyrum dissipans Arcturi / Dator boni veri puri / Bernardum

eximium // Consummato transituri / Status cursu permansuri / Vocat

ad tripudium”; AH 64, 20: “Gyrum valens Arcturi terere, / Et, qui caelum

insignit sidere, / Lac exposcit et eget ubere”; AH 64, 784: “Cur, qui potest

Arcturum terere / Et qui solem dat signa currere, / Solus caelum sciens

disponere, / Vulneratur transiectus vomere?”; AH 64, 1018: “Tam nescires

verbis exprimere, / Quae sentires intus dulcescere, / Quam nequires Arc-

turum terere / Et Pliadas micantes iungere”.

Il complesso di questi riscontri mostra un’evidente polisemia del nome

Arcturus, in riferimento alla stella che ancor oggi porta il suo nome, ma

anche alla costellazione di sette elementi situata al Nord, sia essa il Grande

o, meno probabilmente, il Piccolo Carro. Per ciò che riguarda l’interpre-

tazione allegorica, Lazzerini (1985) ha ritenuto che Arcturus, inteso come

stella, sarebbe da intendersi come fi gura del Cristo vittorioso sugli Inferi

e “simbolo della Chiesa trionfante”. I riscontri addotti e i molti altri addu-

cibili fanno propendere per una doppia possibilità interpretativa: nel caso

in cui si veda in Arcturus la stella di Bootes, non sarà diffi cile scorgervi la

fi gura di Cristo, nel caso in cui vi si individui il Grande Carro, sarà gioco-

forza interpretarlo allegoricamente con la Chiesa.

Aquilo. Si tratta del vento gelido del Nord (cf. ad esempio Rabano

Mauro, De universo, 9, 25, De ventis, PL 111, coll. 281–282) e, per estensione,

dello stesso punto cardinale. Si noti che già Lazzerini (1985 e 1996) vedeva

in Aquilo l’allegoria delle forze del male, segnalando la raffi gurazione di

questo vento “con corpo umano e testa inequivocabilmente demoniaca” sul

basamento di un candelabro conservato nella cattedrale di Essen. Si tratta,

in effetti, di un’interpretazione estremamente diffusa. Rabano Mauro, ad

esempio, nel medesimo contesto ora citato, chiarisce inequivocabilmente:

Aquilo dictus eo quod aquas stringat et nubes dissipet: gelidus est enim ventus et siccus. Signifi cat autem vel diabolum vel homines infi deles, ut ini-

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238 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

quitatis abundantiam et defectum charitatis. Unde scriptum est in propheta: Ab aquilone exardescent mala super terram. (Isa. 14)

Nei commenti al versetto Mons Sion, latera aquilonis, civitas Regis magni del salmo 47, Aquilo è interpretato sempre come vento gelido del Nord,

latore di rovina e morte, ed è accomunato al diavolo. L’autore del Brevia-rium in Psalmos (Agostino o Girolamo) ritiene che il monte Sion raffi guri

la Chiesa e Aquilone il male di cui è congregata (cf. qui commento a disgre-gatur), quindi addirittura il diavolo:

Vel mons Sion: hoc est, sancta Ecclesia. De latere aquilonis: quia de malis est congregata. Unde dictum est: Ab aquilone exorientur mala quae sunt su-per terram. Hic aquilo diabolus, cui dicitur: Veni, aquilo, perfl a hortum meum (Cant. 4): hoc est, Ecclesiam tentationibus. (PL 26, col. 964)

Nelle Enarrationes in Psalmos (47) Sant’Agostino insiste sull’opposi-

zione, anche topografi ca, del monte Sion ad Aquilo (l’uno disposto al Sud,

l’altro al Nord) e chiarisce la ragione per cui è possibile intendere Aquilo

come fi gura del demonio:

Contrarius solet esse aquilo Sion: Sion quippe in meridie, Aquilo contra meridiem. Quis est iste aquilo, nisi qui dixit, Ponam sedem meam ad aquilonem, et ero similis Altissimo (Isai. 14, 13, 14)? Tenuerat regnum diabolus impiorum, et possederat Gentes servientes simulacris, adorantes daemonia: et totum quidquid generis humani erat ubique per mundum, inhaerendo illi aquilo factum erat. [. . .] Ideo et in alia Scriptura dicitur: Ab aquilone nubes coloris au-rei; in his est magna gloria et honor Omnipotentis (Job 37, 22). Magna enim gloria medici est, quando ex desperatione convalescit aegrotus. Ab aquilone nubes, et non nigrae nubes, non caliginosae, non tetrae, sed coloris aurei. Unde nisi gratia illuminante per Christum? Ecce, Latera aquilonis, civitas regis magni. La-tera utique, quia inhaeserant diabolo. (PL 36, col. 534–535)

In maniera non dissimile, nel Commentarius in LXXV Psalmos, attribu-

ito a Rufi no d’Aquileia, si spiega che il monte Sion è da interpretare alle-

goricamente come il popolo giudaico, mentre latera Aquilonis sta a signifi -

care le genti infedeli possedute dal demonio e Aquilone il torpore indotto

dallo spirito maligno:

Per latera Aquilonis gentes designantur, quae torpentes frigore infi deli-tatis a diabolo possidebantur. Pro eo, quod ventus Aquilo constringit in fri-gore, non incongrue Aquilonis nomine torpor maligni spiritus accipitur. (PL 21, col. 835)

La lettura che vede ogni male venire dalla plaga di Aquilone si ritrova

nella Vita Sancti Edmundi di Abbone di Fleury, importante per l’ipotesi at-

tributiva che forniremo infra al §4:

Denique constat, iuxta prophetae vaticinium, quod ab Aquilone venit omne malum, sicut plus aequo didicere perperam passi adversos jactus ca-dentis tesserae, qui aquilonalium gentium experti sunt saevitiam: quas cer-tum est adeo crudeles esse naturali ferocitate, ut nesciant malis hominum

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L’alba di Fleury da un’altra specola 239

mitescere: quandoquidem quidam ex eis populi vescuntur humanis carnibus, qui ex facto Graeca appellatione Anthropophagi vocantur. (PL 139, coll. 510)

Anche San Girolamo, nel commento In Zachariam prophetam ad Exsupe-rium tolosanum episcopum, opponendo Austro ad Aquilo, identifi cava questo

vento col demonio:

De his duobus ventis Ecclesia loquitur: Surge, Aquilo, et veni, Auster (Cant. 4, 16), ut Aquilone vento frigidissimo recedente, qui interpretatur diabolus, Auster calidus ventus adveniat, quem sponsa perquirens, ait: Ubi pascis, ubi cubas, in meridie (Ibid. 1, 16)? (PL 25, col. 1525)

Lo stesso San Girolamo nei Commentarii in Librum Job 36, insiste sulla

medesima interpretazione:

Et quia aliquando in Scripturis per fi guram Aquilo ventus, diabolus esse signifi catur: siquidem a Salomone Aquilo durus ventus dicitur: nomine au-tem dexter vocatur. A suis quippe dexter quidem dicitur, sed totus sinistri operis auctor est. (PL 26 col. 688)

Un riscontro interessante è quello che che troviamo al capitolo 37

della medesima opera, quando San Girolamo commenta il versetto Ab in-terioribus egredietur tempestas, et ab Arcturo frigus (vi abbiamo già accennato

nella glossa all’emistichio precedente): “Arcturus vero, quia in sinistra

mundi est constitutus, adversariam partem signifi cat: de cujus climate ven-

tus aquilo gelidus spirat contra meridiem” (PL 26, col. 741). Secondo Gi-

rolamo, quindi, in questo versetto il freddo che viene da Arturo è portato

da Aquilone, che spira dalla medesima plaga in cui è collocato l’astro (o la

costellazione) che, in questo caso, sta a signifi care la parte avversa, quella

demoniaca.

Anche nell’innologia Aquilone indica il vento (AH 4, 226; 5, 98; 6,

25; 8, 56; 10, 116; 10, 420; 20, 68; 24, 2; 24, 8; 29, 6011; 32, 53; 34, 42; 35,

2003; 37, 250; 38, 7; 39, 40; 39, 79; 41, 4088; 42, 52; 43, 90; 48, 361; 48,

371; 50, 377; 54, 221; 64, 403) e, per estensione, il punto cardinale da cui

esso soffi a, il Nord o il Nord Ovest (AH 5, 1; 6, 24; 7, 228; 8, 20; 10, 46; 14,

64; 17, 30; 22, 100; 23, 77; 25, 42; 28, 42; 37, 332; 43, 32; 50, 102; 50, 107;

50, 264). Concordemente con la tradizione esegetica patristica, Aquilone,

inteso come vento, sta a rappresentare il demonio o il male. In alcuni casi

tale signifi cazione si incontra in maniera autonoma o semiautonoma ri-

spetto alle due principali (AH 3, 3001; 8, 7; 8, 230; 11, 383; 21, 2006; 24,

56; 25, 56; 26, 68; 35, 6001; 36, 1001; 40, 280; 41, 2002; 41, 4001; 45, 4094;

46, 135; 49, 550; 55, 272). Anche negli inni, come nella patristica, l’oppo-

sitore di Aquilone, cioè il vento che a lui subentra e lo fa cessare, è l’Au-

stro, mentre Arturo non è mai menzionato. Uno fra le decine di esempi

(AH 34, 42): “Aquilone pulso, veni, / Hortum, auster, fl atu leni / Nostrum

perfl a caelitu”. Anche nell’innologia, infi ne, Aquilone è un vento pessimo

e nefasto in grado di bruciare, uccidendoli nel gelo, i fi ori della vita; a

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240 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

questo vento demoniaco il monaco intima di allontanarsi dal chiostro

della sua anima: “Dum rixatur aquilo / tempore brumali / Et aquas incar-

cerat / claustro glaciali, / Iam exspirant lilia / fl atu boreali, / Rosa pallens

moritur / frigore letali” (AH 50, 377); “Surge, aquilo pessime, / Ventus

urens nequissime, / Egredere de hortulo / Meo et claustro animae / Re-

cedens velocissime / Facto alibi nidulo” (AH 48, 386). Si noti, infi ne, che

Aquilone è menzionato anche nelle Mytologiae di Fulgenzio: “ideo Aqui-

lonis, venti fi lii, quia bona inquisitio spiritalis est, non carnalis” (Helm

1898:79).

disgregatur. Determinare il signifi cato preciso di questo verbo è im-

portante per comprendere a cosa faccia riferimento l’autore di Phebi claro

quando parla sia di Aquilo, sia di Arcturus. L’interpretazione più naturale

per Ab Arcturo disgregatur Aquilo, infatti, anche alla luce del luogo di San

Girolamo sopra addotto, è ‘Aquilone si dissocia da Arturo’, con Ab Arcturo

come ablativo di separazione e con probabile coscienza dell’etimologia di

disgregatur da grex (devo questo suggerimento ad Andrea Cucchiarelli, che

ringrazio). Ciò implicherebbe l’associazione del collettivo grex ad Arcturus, che quindi sarebbe costituito da una pluralità di enti da cui Aquilo si disso-

cia, ciò che avvalorerebbe, per l’interpretazione di Arturo, l’ipotesi di una

costellazione. Del resto, si ricordi il luogo del Breviarium in Psalmos in cui

Aquilo è visto come il male di cui la Chiesa è congregata e le numerosissime

attestazioni in cui Arturo è fi gura della Chiesa. A tal proposito si noti che

la coscienza etimologica è ancora ben presente in un Rosario del XV se-

colo (AH 6, 51): “Qui pastor est, / qui congregat / opus per subtile / Oves

suas, disgregat / quas peccatum vile, / Et in unum aggregat / clementer

orile, / Sicque sursum sublevat / ad coeli cubile”. Si consideri nondimeno

che disgregatur può anche essere interpretato come passivo e Ab Arcturo

come ablativo d’agente: in tal caso sarebbe Arturo a disgregare Aquilo e il

male che esso sta a rappresentare.

Alla luce di quanto esposto, abbiamo quindi due interpretazioni pos-

sibili, peraltro, vista l’insita polisemia di Arcturus, non inconciliabili:

1. Il vento Aquilone (o il Nord) si separa da Arturo (la stella); 2. Il

vento Aquilone (o il Nord) si separa dal Grande Carro. In tutt’e due le

interpretazioni, Aquilone si dissocia da Arturo, poiché l’uno e l’altro ven-

gono a trovarsi in posizioni differenti. Il senso allegorico, pur nella mol-

teplicità di letture, è chiaro: il male si dissocia (o è disgregato) da Cristo

(per la prima interpretazione) e/o dalla Chiesa (per la seconda).

v. 12. Questo verso di chiarissima interpretazione è stato troppo tra-

scurato dai commentatori in relazione al senso complessivo della strofe.

Esso, invece, ne rappresenta a mio avviso la chiave di volta. L’autore in-

framezza infatti le due notazioni astronomiche (cf. supra e infra) con

un’affermazione intesa a ribadire che il momento del giorno di cui si sta

parlando è l’alba. Tale notazione non avrebbe alcun senso se non fosse

funzionale ad una corretta interpretazione delle due notazioni astronomi-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 241

che. Il punto fondamentale è quindi questo: gli eventi stellari di cui si sta

parlando si verifi cano all’alba, anzi più precisamente al diluculum. Il sintagma astra poli è molto diffuso nell’innologia del IX e del X se-

colo: cf. AH 7, 53; 50, 132 e 141 (Rabano Mauro); 51, 185.

v. 13. Il lemma Septemtrio è rarissimo negli inni, dove è utilizzato quasi

sempre ad indicare il punto cardinale del Nord. Eccone le occorrenze:

“Occasus, ortus, aquilo, septentrio, / Tellusque pontus, oceani limites”

(AH 14, 64 e AH 50, 102); “In portae urbis medio, / Quae respicit septen-

trio” (AH 22, 491); “Ortus, occasus, aquilo, septentrion, / Caelum terra-

que, mare, fontes, fl umina” (AH 50, 107). In un solo caso, in un testo del

XIII secolo, Septemtrio indica la costellazione che ancor oggi porta questo

nome: “Astra septem, quae nunc Septentrio / Sursum levat et nunc defl e-

xio / Flectit Austri certo iudicio, / Nutus eius subsunt imperio” (AH 64,

295). Tuttavia è indubbio che in Phebi claro quest’ultima signifi cazione

è l’unica ammissibile, poiché il punto cardinale è per defi nizione fi sso,

mentre il contesto in cui questa parola è inserita fa riferimento a qualcosa

di intrinsecamente mobile (“Orienti tenditur”).

La questione da risolvere è quella del momento dell’anno al quale l’au-

tore di Phebi claro sta riferendosi: in primavera il Grande Carro raggiunge

il punto più alto sull’orizzonte, mostrandosi, capovolto, in direzione nord;

in estate appare visibile in direzione nord-nord-ovest, col timone verso

l’alto; in autunno raggiunge, a nord, il punto più basso sull’orizzonte,

sotto la Stella Polare; è solo in inverno che appare verso est, in verticale,

col timone rivolto verso il basso.

Qui ci interessa il momento in cui il Carro è proteso ad Oriente nel

punto del giorno indicato al verso precedente, cioè quando gli astri na-

scondono i loro raggi, cioè, ancora una volta, al primo albeggiare: ebbene,

al diluculum il Carro si trova in quella posizione solamente nel periodo

dell’anno che va dagli inizi di agosto fi no a novembre (alla fi ne di que-

sto mese lo ritroviamo già in gran parte situato verso il Nord): Phebi claro

sarà stata concepita con ogni probabilità per un giorno di questo periodo,

quando cioè tutte le stelle che tradizionalmente indicano il Nord (il Pic-

colo, il Grande Carro e Bootes con Arturo) si trovano all’alba nettamente

protese ad Oriente e quindi “disgregate” da Aquilo, inteso sia come punto

cardinale, sia come il vento che da quel punto spira. Le fi gure riportate

qui in calce chiariscono, mi pare inequivocabilmente, questo dato.

Una controprova di quanto affermiamo l’abbiamo leggendo le istru-

zioni fornite da Gregorio di Tours nel De cursu stellarum, opera in cui di-

chiaratamente il cielo è osservato in funzione degli uffi ci divini:

Admiramur et illud, quod stellae oriente ortae decedunt occidenti et quaedam ex his in medio caeli apparentes, quaedam aquiloni propinquan-tes in circuitu rotentur nec rectam faciant viam, et quaepiam toto videan-tur anno, quaepiam mense, in quibus appareant, habeant defi nitos. De quo cursu, si deus iubeat, velim de quanto experimentum accepi, rationem ne-

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scientibus dare. Set nomina, quae his vel Maro vel reliqui indiderunt poetae, postpono, tantum ea vocabula nuncupans, quae vel usitate rusticitas nostra vocat vel ipsorum signaculorum expremit ordo, ut est crux, falcis vel reliqua signa: quia non ego in his mathesim doceo neque futura perscrutare prae-moneo, set qualiter cursus in dei laudibus rationabiliter impleatur exhortor, vel quibus horis qui in hoc offi cio adtente versari cupit, debeat consurgere vel dominum deprecare. (Haase 1853:15–16)

Gregorio descrive attentamente le varie stelle e costellazioni in modo

che sia agevole identifi care le fi gure celesti che via via si presentano prima

dell’apparire dell’alba (McCluskey 1998:106). Per le costellazioni, egli uti-

lizza dichiaratamente i nomi utilizzati dal volgo, identifi cati dall’astro-

nomo J. F. Galle nell’edizione di Haase (1853:42–49, ma vedi anche Berg-

mann e Schlosser 1987; McCluskey e van Gent 1987). In particolare, la

rubeola è identifi cata da Galle con Arturo:

Rubeola igitur et propter colorem, quem nomen signifi cat, et quod om-nibus mentibus conspicitur, Gallio auctore dubitari non potest quin sit Arc-turus, quem quae stella minor praecedere dicitur, ea in eodem sidere Boote est stella h. Arcturum vulgo carrum dici narrat Io. Ianuensis in Catholico s. v. haud scio an perperam Arcturum ponens pro Ursa maiore.

Di questa stella Gregorio scrive:

Haec stella in septembre oritur et matutino apparet, quae a quibusdam rubeola vocatur, tamen prius [in] initio apparet noctis et sic iterum oritur mane; ergo lucet in septembre hora I. in octubre horas II. in novembre III. in decembre et in ianuario VIII. in februario VIII. in martio VII. in aprile VI. in iunio IIII. in iulio III. in augusto II. set primum ut diximus, oritur; habet tamen aliam minorem, quae praecedit. (Haase 1853:17–18)

Dopo la fi gura della costellazione del Carro si legge:

De his stellis, quas rustici plaustrum vocant, quid dicere possumus, cum non ut reliquae stellae oriuntur aut occidunt? Set tamen quantum ex ipsis in-tellegimus, non silemus. A sapientibus septentrio vocatur propter numerum; unde et plaga illa, in qua habentur, a quibusdam ex eorum nomine vocita-tur: nos vero aquilonem dicimus. Apparent ergo haec stellae a parte aquilonis omni tempore. Cum in aestivo noctes fuerint breviores, istae humilius haben-tur et ad lucem thimonem ad occidentem faciunt; cum vero autumnum ver-sus profi cientes noctes crescere ceperint, et haec altiora continent caeli et sic usque diminutionem reiteratam noctium faciunt. Hoc tamen sciendum, quod in hieme adpropinquante lucem thimonem vertit ad orientem; noscendum etiam est illud, quod omnibus annis aequaliter oriuntur. (Haase 1853:23)

Questo passo chiarisce in maniera evidente il senso di “Orienti ten-

ditur Septemtrio”. Dopo aver enumerato le costellazioni a suo avviso più

importanti, Gregorio si sofferma a descriverle, mese per mese, nel loro

sorgere e tramontare notturno e mattutino:

Scripsimus de ortis vel occasibus sive cursibus stellarum, pauca signa, quot arbitrati fuimus suffi cere, praeponentes: nunc ea pandimus, qualiter ad

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L’alba di Fleury da un’altra specola 243

offi cium dei observandum possit devotio humana consurgere; et forsitan de-trahit aliquis, cur non a mense martio vel ab ipso nativitatis dominicae die sumpserimus exordium: noverit, quia stella, quae mense martio observatur, in alio oritur mense. (Haase 1853:24)

Inizia quindi a descrivere il cielo autunnale all’alba, sempre caratte-

rizzato dalla presenza della rubeola (Arturo):

September. In mense septembre oritur ergo stella splendida, quam su-pra rubeolam diximus, aliam prope se habens minorem praecedentem; ergo quando in septembre oritur, si signum moveatur ad matutinos, quinque psal-mos in dei laude concinere in antiphonis potes; iam vero si ad noctis vis si-gnum caeleste requirere, falcem observa, et cum in hora diei quinta advenerit, surge; certe si vigiliam perpetim celebrare volueris, si consurgas, cum stel-lae apparent, quas butrionem superius vocitamus, explicias nocturnos cum galli cantu. Octoginta psalmos in antiphonis, priusquam matutinos incipias, explicabis. Octuber. In octubre vero falcis illa cum oritur, mediam noveris esse noctem; deinde celebratos nocturnos cum gallorum cantu, nonaginta in antiphonis concinere poteris psalmos; deinde adtende rubeolam, quae cum hora diei venerit secunda, si signum ad matutinum moveas, decim poteris concinere psalmos. November. Mense novembre iam prolixioribus noctibus falcis hora noctis quinta oritur. Quod si sic consurgas, celebratos nocturnos gallique cantum, centum X psalmos psallere poteris. Rubeola vero cum hora tertia venerit, si signum sonet, nihilominus psalmos in antiphonis explicabis ad matutinos. December. Mense decembre falcis hora oritur quarta; si illa hora consurgas, dictis nocturnalibus hymnis vel galli cantu dupliciter, hoc est LX in his duobus cursibus psalmis, quia ante dominicum natalem maturius consurgere debes, tunc relicum psalterium in antiphonis decantabis. Signum ad matutinos si moveas rubeola, XXX psalmos expedite decantandum. Post eas oriuntur in hoc mense stellae illae, quae crucem maiorem praecedunt, quas w nominavimus, in quibus est una aliarum clarior ac lentior, quam com-modius poteris observare.

Nelle descrizioni celesti relative a Gennaio, Febbraio, Marzo e Aprile

la rubeola non è più menzionata, ma Gregorio disegna invece un’altra co-

stellazione, identifi cabile con la Lyra (cf. Galle in Haase 1853:44 “Ceterum

quae huic loco praeposita est fi gura non convenit cum alia ulla ex iis, quae

supra positae sunt; res tamen cogit, ut eandem esse fateamur, quae supra

est §44 Lyrae, quam omega Gregorius appellat; scilicet illo loco librarii for-

tasse culpa fi gura vitata est”) e chiarisce:

Ianuarius. Mense ianuarius post dictos nocturnos stellae ipsae oriuntur, inter quas, ut superius diximus, quae est clarior, observatur; si ad horam die tertiam venerit, si matutinos incipias, XV psalmos poteris psallere. Februa-rius. Mense Februarius quando oritur stella illa, quam inter stellas superio-res diximus clariorem, si nocturnos incipias, mediam esse intellegas noctem; cum stella ad horam diei quartam advenerit, si signum ad matutinos commo-veatur, XII psalmos poteris explicare. Martius. Mense Martio cum quadra-gesima advenerit, et maturius consurgere debes; quando stella est in hora II diei, si surgas, dicis nocturnos et galli cantum, quae dupliciter, ut superius diximus, hoc est in directis LX psalmos; quibus expeditis sallis in antiphonis XX psalmos et stella illa venit ad horam V diei; quod si sic inchoas matutinos,

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XXX decantatis cum antiphona psalmis lucescit. Aprilis. Mense autem aprile si adhuc quadragesima est, similiter observabis quae praeterita. Si tardius consurgere volueris, observabis stellam, quam inter eas quae signum Christi faciunt, diximus clariorem; quae cum orta fuerit, si signum commoveatur ad matutinos, octo psalmos poteris in antiphonis expedire.

Dal quadro tracciato risulta insomma del tutto evidente che, per Gre-

gorio di Tours, Arturo (la rubeola) era una stella fondamentale per deter-

minare come doveva procedere l’uffi cio ad galli cantum e il mattutino nel

periodo autunnale. Secondo McCluskey (1998:110):

Gregory’s instructions suggest that implicit in early Western monasticism was an institutional framework for the continued practice of astronomy. This kind of astronomy refl ected and reinforced the monastic values from which it sprang: obedience to the Rule, which provides a framework of uniform order, which the abbot or his representative observes to call his fellows to prayer.

I commenti della Regula di San Benedetto rifl ettono spesso l’interesse

dei monaci per le questioni astrologiche legate alla determinazione dei

tempi dell’uffi cio divino notturno e mattutinale. Già nel tardo IX secolo

il monaco Hildemar tentava di risolvere il passaggio della Regula (VIII,

1–3) nel quale è prescritto che in inverno i monaci debbano alzarsi nell’ot-

tava ora della notte. Hildemar notava infatti che questa prassi potrebbe

apparire eccessivamente rigorosa, poiché in inverno la notte può durare

fi no a diciotto ore e ciò signifi ca che, interpretando “ottava ora” a partire

dall’inizio fi sico della notte, all’apparire delle tenebre, i monaci avrebbero

dovuto alzarsi prima di mezzanotte e pregare dieci ore fi no all’alba. Ri-

solveva quindi la questione evidenziando che, agli equinozi, notti e giorni

hanno lo stesso numero di ore (dodici) e che Benedetto intendeva tale

schema come valido per tutto l’anno:

Quid est: octava hora surgendum est? —ac si diceret: nec ante octavam horam, nec post octavam, sed in ipsa hora octava surgendum est, v. gr. sicuti hic depictum est. Hoc notandum est, quia illa spatia sunt horae; nam virgae non sunt horae, sed fi nes horarum. Qui haec rationabiliter vult facere, ho-rologium aquae illi necessarium est. In hoc loco forte quaerit aliquis, quare K. Benedictus dixit: octava hora noctis surgendum est, cum December et Ja-nuarius menses in nocte habent horas XVIII et in die VI? Dure videtur di-cere, et contrarius est sibimet, cum hora noctis octava aliquando est minus de media nocte, aliquando etiam solummodo media nox. Cui respondendum est: nec dure dixit, nec sibi etiam contrarius est, quia, quamvis ipsa octava ali-quando existit ante mediam noctem, sicut diximus, aliquando in ipsa media nocte, tamen aequinoctium custodivit, quod aequaliter habet in die et nocte horas, i. e. XII in die, et XII in nocte, et juxta ejus rationem aequinoctii dixit in nocte horas XII et in die, maxime cum Dominus dicat: Nonne duodecim horae sunt dici? Cum enim dicit et jam, non est una pars orationis, sed duae, h. e. conjunctio copulativa, quae est et, et adverbium temporis; et jam dige-sti, i. e. decoetis cibis. Sciendum est, quia istud digesti ad cibum attinet, i. e. ad decoctionem ciborum, et per decoctionem ciborum attinet ad suffi cien-tem refectionem somni, quia, sicut dicunt multi, tamdiu non refi citur homo

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L’alba di Fleury da un’altra specola 245

somno, quamdiu non digeritur cibus. At ubi digestus fuerit cibus, tunc est refectio somni, et ipsa digestio non fi t plena ante mediam noctem. (Mitter-müller 1880:277–278)

Hildemar, poi, commentando la Regula XI, 11–13, nota che il monaco

che è stato scelto dall’abate per annunziare il tempo della preghiera deve

essere punito nel caso in cui svegli troppo tardi i confratelli; tuttavia, gli

spetterà una pena meno severa nel caso in cui le nuvole oscurino il cielo

e, dunque, nell’incertezza dell’ora, per la paura di dare il segnale troppo

presto, alla fi ne lo ha dato troppo tardi. Hildemar, qui, non menziona al-

cun altro metodo di determinazione dell’ora che non sia la contempla-

zione della volta celeste:

Quantitas, dixi, peccati, quia potest provenire, ut ad primam turmam fuisset dies; potest fi eri, ut ad secundam vel tertiam. Ac per hoc tantum major est negligentia, quantum plus cito facta est dies, et iterum tanto minor est negligentia, quantum plus dies tarde praeoccupaverit illud offi cium. Deinde etiam considerari debet affectus negligentis, quia potest fi eri pro somnolen-tia, h. e. quia multum amavit dormire et ideo tarde surrexit ad signum tan-gendum. Secundo modo potest fi eri, ut pro pigritia et delectatione jacendi, quia forte tempore congruo se excitavit, tamen pro delectatione et pigritia ja-cuit plus, quam debuit, et ideo postmodum signum tarde tetigit. Tertio modo potest fi eri, ut signum tarde tactum fuisset pro potatione vini, i. e. forte quia fl euthomatus fuit, aut pro caritate hospitis, quam solent monachi facere, bibit plus, quam debuit, et ideo tarde surrexit. Quarto etiam modo potest fi eri pro nubilo, quia, cum surrexit ante horam et pro nubilo stellam videre non potuit et timendo tangere ante horam tetigit post horam. Iste talis, qui causa nubili tarde tetigit signum, tautum ad matutinum satisfaciat; ille autem, qui pro po-tatione aut pigritia tarde tetigit signum, non solum ad matutinum, sed etiam ad primam vel tertiam satisfaciat. (Mittermüller 1880:288–289)

Analogamente, Pier Damiani nel De perfectione monachorum (17) racco-

manda che, quando le stelle non sono visibili, il signifi cator horarum, una

fi gura analoga a quella del vigilgallus di cui parla la Regula magistri, deve

cantare i salmi per notare il passare del tempo (PL 145, col. 315). L’ob-

bligo di calcolare il tempo guardando le stelle è anche nelle regole pre-

viste dalla riforma cluniacense, che specifi camente assegna questo ruolo

al sacrestano (McCluskey 1998:111). Del resto, sarà importate notare che

anche l’abate Abbone di Fleury, seguendo Macrobio, fornisce un sistema

di misura del tempo direttamente correlato alla rotazione delle stelle, ol-

tre che all’uso di una clessidra ad acqua (ibid.). È di sommo rilievo per la

nostra ricerca che questo abate “in the tenth century wrote several works

on astronomy, one of which he annexed to his new edition of the Compu-tus of Helperic of Auxerre” (Constable 1975:6). Del resto, un Horologium stellare monasticum (Constable 1975:17–18) descrive come osservare le stelle

dall’interno del monastero per determinare il tempo della preghiera

notturna e mattutinale durante l’anno (Poole 1915): secondo Dachowski

(2008:44) “The description of the monastery strongly suggests that this

work was written specifi cally for Fleury”.

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246 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Il periodo che meglio si attaglia alla recitazione del nostro inno è

quello fra l’autunno e l’inverno e alcuni indizi ci portano a ritenere che si

debba pensare ai giorni o alle settimane immediatamente precedenti l’Av-

vento. Si legga quanto scrive Amalario di Metz in proposito nel capitolo re-

lativo (De adventu Domini) del De ecclesiastici offi ciis (sottolineo gli elementi

utili per la comprensione fi gurale del nostro testo):

Scripsimus in superioribus libellis, in quinta hebdomada ac quarta ante nativitatem Domini, inchoari praeparationem adventus Domini [. . .] De or-dine saecularium possumus intelligere, quod lectio dicit in quinta hebdo-mada ante nativitatem Domini. Propter hoc dies veniunt, dicit Dominus et non dicent ultra, vivit Dominus qui eduxit fi lios Israel de terra Aegypti: sed, Vivit Dominus, qui eduxit et adduxit semen domus Israel de terra Aquilonis. Adduxit Dominus fi lios Israel de terra Aquilonis, quando de Babylonia reversi sunt in Judaeam: Sed melius adducit nostros bonos saeculares Dominus ad Judaeam, id est, ad veram confessionem de confusione Babyloniae, quando eos liberat de potestate diaboli et de corpore ejus. Hoc fi t per baptismum, quem habent saeculares fi deles et spiritales communem. Qui in animo patiuntur Aquilonis rigiditatem, membra diaboli sunt. [. . .] Offi cia cantorum et Presbyterorum quae celebrantur in sacramentario, et habent initium in quarta hebdomada ante nativitatem Domini spiritales per quatuor Evangelia ad potiorem per-fectionem excitant. Unde dicit Epistola, quae eodem die legitur. Scientes quia hora est jam nos de somno surgere: Nunc autem propior est nostra salus, quam cum credidimus. [. . .] Praeparationem nobis necessariam insinuat Paulus apostolus in memorata epistola, quae legitur quarta hebdomada ante nati-vitatem Domini. Nox, inquiens, praecessit, dies autem appropinquavit. Abji-ciamus ergo opera tenebrarum, et induamur arma lucis, sicut in die hone-ste ambulemus, non in commessationibus; et ebrietatibus, non in cubilibus et impudicitiis, non in contentione et aemulatione: sed induimini Dominum Jesum Christum? Sicut per plures et frequentiores nuntios movetur magis ac magis animus subditi ad sollicitudinem suscipiendi praelatum: ita renova-tione cantus movemur magis ac magis ad curam nostrae praeparationis in susceptionem Domini. Ideo octo dies ante Nativitatem Domini renovantur ferme tota note responsorii et antiphonae, ut per hoc frequentius nos excite-mur ad purgandas omnes quisquilias turpium cogitationum ac terrenarum, et dignum habitaculum, ornatum videlicet piis cogitationibus, paremus regi regum et Domino dominantium. (PL 105, coll. 1219–1221)

Risulta così chiaro perché nell’incipit dell’inno si dica che l’astro di

Febo non è ancora nato (“Nondum orto”) e si intende meglio la colloca-

zione temporale al diluculum, quel momento della notte, cioè, in cui le

tenebre non si sono ancora diradate, ma già si intravede il tenue lume

del giorno a venire: Cristo deve ancora nascere e il suo popolo è in attesa

dell’evento salvifi co. Le tenebre oscurano ancora il mondo, ma coloro che

sono preposti a vigilare ridestano i credenti e li salvaguardano dalle insi-

die del Nemico.

3. Il refrain. Data una risposta alla questione del “quando” dovesse

essere cantato Phebi claro, restano due ordini di questioni fondamentali da

risolvere: quello del rapporto fra testo latino e refrain e quello della moda-

lità di esecuzione dell’intero componimento. Abbiamo visto che uno dei

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L’alba di Fleury da un’altra specola 247

problemi principali su cui ha dibattuto la critica è quello della possibile

esogenia del refrain: la maggior parte dei critici ritiene che il refrain fosse

fi n dall’origine scritto in funzione di Phebi claro, o già in volgare o in un la-

tino già corrotto da vari barbarismi, pronto per essere vieppiù deformato

dalla trasmissione orale o scritta. Si è anche supposto che esso fosse un

canto popolare, o comunque un segmento testuale preesistente al testo

latino, e che quindi l’autore del testo latino lo avesse semplicemente inglo-

bato, come faranno più tardi i trovieri autori delle chansons avec des refrains (Doss-Quinby 1984), modellando il proprio testo in funzione di quello

(Zumthor 1963). Infi ne si è ritenuto plausibile che “l’uno e l’altro siano il

frutto di un unico atto creativo” (Chiarini 1974:20).

È evidente che la questione non è di poco momento: dalla sua solu-

zione dipende direttamente la corretta impostazione del problema delle

origini di uno dei più importanti generi lirici trobadorici, l’alba, così come

la questione dell’esistenza di canti popolari di tradizione orale e del rap-

porto che può essersi istituito fra la letteratura monastica in latino, la

letteratura popolare tràdita oralmente e la letteratura cortese in lingua

volgare. Lo vide bene già Pio Rajna (1887:86), che pur scartando l’ipo-

tesi (effettivamente molto poco economica) di Stengel (1885) secondo il

quale il testo latino era la traduzione di un’alba volgare preesistente, così

argomentava:

Per quel che spetta alla storia della poesia romanza in genere e della pro-venzale in ispecie, il non potersi la nostra Alba prendere come una tradu-zione, non nuoce per nulla. Se non è traduzione, imitazione, in senso molto largo, non di un determinato originale, ma di un tipo di composizione, vuol essere ritenuta di sicuro. Perlomeno è ben certo che un poeta erudito non poteva pensare a introdurre in un’Alba latina un ritornello volgare, se delle Albe volgari per intero non ne fossero esistite fi n d’allora. E dall’imitazione ci è dato argomentare di queste Albe qualcosa più che l’esistenza. Esse ave-vano come tratto caratteristico il ritornello, e un ritornello in cui appunto si ripeteva l’annunzio dell’apparire dell’alba, ponendolo in bocca ad una scolta; il che viene a dire che erano molto simili a quelle che nel medesimo territorio provenzale ritroviam poi nel secolo XII e nel XIII.

Direttamente legate, magari meno importanti da un punto di vista

critico, ma certo di non poco rilievo, le domande sulla funzione del bilin-

guismo in questo genere di testi: 1. Esiste un legame di senso fra testo la-

tino e refrain e in caso affermativo, quale? 2. Il testo latino è modellato sul

refrain, o, viceversa, il refrain è stato composto in funzione del testo latino?

3. È possibile che si tratti di un insieme organico fi n dall’origine? 4. Il bi-

linguismo ha una funzione stilistica, estetica o pratica?

Da quest’ultima domanda discende il secondo ordine di questioni:

quello che riguarda come e da chi dovesse essere cantato il refrain e quindi

quale dovesse essere il pubblico destinatario dell’inno. Secondo Picchio

Simonelli (1984:303) “sembra proprio che il testo sia stato concepito per

un canto a due voci: un coro di monaci, o di canonici, intonava le strofe

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248 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

latine e un coro responsivo, probabilmente il popolo o i novizi, intonava

il refrain. E anche la struttura antifonale imponeva una rispondenza rit-

mico-musicale tra le strofe e il refrain”. Con questa prospettiva concorda,

nella sostanza, Kaps (2005:69–70), la quale però preferisce vedere nell’op-

posizione strofe/refrain un problema di ordine stilistico ed estetico, piutto-

sto che pragmatico; se il refrain fosse cantato dal popolo o dai novizi o da

altri sarebbe quindi una questione secondaria: “Der Einsatz der Volkspra-

che erfolgt vielmehr aus stilistisch-ästhetischen Gründen, wie nicht nur

die engen thematischen Bezüge zwischen Strophen und Refrain, sonder

auch der Kontrast in Melodie und Harmonik aufzeigen können”.

Del resto, è stato più volte notata una differenza sostanziale fra il tipo

melodico messo in atto nel testo latino e quello, molto più semplice, del

refrain (Vecchi 1952:118; Hilty 1996:305–306). Secondo Kaps (2005:71)

“Aufgrund dieses starken Kontrast zwischen den Strophen und dem Re-

frain wurde in der Forschung die Hypothese aufgestellt, dass die Melo-

die des Kehrreims einem anderen Stück, das vielleicht sogar aus mündli-

chen, volk stümlichen Dichtung entnommen worden sein könnte, mit dem

neuen volkssprachlichen Text unterlegt wurde. Die inhaltlichen Paralle-

len, die zwischen den lateinischen Strophen der Alba bilingue und ihrem

Refrain bestehen, sprechen jedoch gegen die Tatsache, dass auch der Text

des Refrains aus einem volkssprachlichen Stück entlehnt wurde”. L’analisi

che segue mostrerà la congruenza dell’ipotesi di fondo di Kaps, pur preci-

sandone alcuni aspetti sostanziali.

Innanzitutto ricordiamo che una monodia eseguita da due cori semi-

indipendenti che interagiscono fra loro, cantando alternatamente, viene

detta in stile antifonale. In particolare, la salmodia antifonale (o innodia

se il testo è un inno) consiste nel canto di un salmo da parte di due gruppi

di coristi in maniera alternata (in contrapposizione allo stile responso-

riale, cioè il coro di fedeli alternato ad un “solista”, ossia il celebrante). Cf.

in proposito Isidoro di Siviglia nelle Etymologiae (6, 19):

Antiphona ex Graeco interpretatur vox reciproca, duobus scilicet choris alternatim psallentibus ordine commutato, sive de uno ad unum, quod genus psallendi Graeci invenisse traduntur. Responsorios Itali tradiderunt, quod inde responsorios cantus vocant, quod alio desinente, id alter respondeat. In-ter responsorios autem et antiphonas hoc differt, quod in responsoriis unus versum dicit, in antiphonis autem versibus alternant chori. (PL 82, col. 252)

L’ipotesi più probabile, insomma, è che il refrain di Phebi claro fosse

cantato dal coro in forma responsoriale rispetto al testo latino, cantato

con ogni verosimiglianza dall’abate.

Per ciò che riguarda il testo del refrain, mi sembra opportuno, prima

di fornire un’interpretazione, riepilogare le ipotesi fi no a oggi avanzate

(rassegne anche in Chiarini 1974, Zumthor 1985 e Lazzerini 2008), ana-

lizzandone l’incidenza. Non sono incluse nella rassegna le ipotesi netta-

mente interventiste, al limite dell’inverosimiglianza, come quelle di Laist-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 249

ner 1881, Camilli 1913 e Becker 1929; tutte le integrazioni proposte dagli

editori sono inserite fra parentesi quadre, la traduzione/interpretazione è

sempre in italiano e rispecchia quella dell’editore:

Schmidt 1881: “L’alba part umet mar atra sol / Poy pas’a bigil mira clar tenebras”: “L’alba attrae al di là dell’umido mare il sole, che attraversa obli-quamente il poggio; guarda come illumina le tenebre!”

Stengel 1885: “L’alba part umet mar atra sol. / Poy pas’a bigil mira clar tenebras”: “L’alba appare, il sole attrae l’umido mare, inclinato da una parte oltrepassa il poggio e rischiara luminoso le ombre”.

Rajna 1887: “L’alba part umet mar atras ol poy / pasa bigil miraclar tene-bras”: “L’alba, al di là dell’umido mare, dietro il poggio passa vigile a spiare per entro le tenebre”.

Monaci 1892: “L’alba part umet mar atra sol, / po y pasa Bigil mira clar tenebras”: “L’alba dalla parte dell’umido mare attrae il sole, poi che esso passa il Vigil (una montagna), ecco il chiarore nelle tenebre”.

Marchot 1900: “L’alba part, umet mar atrà sol; / po y pasa Bigil: mira clar tenebras”: “L’alba appare, il sole aspira l’umido mare, poi [il sole] passa il Vigil (una montagna), ecco le tenebre fatte chiarore”.

Gorra 1901: “L’alba par [l]u[nc] e[l] mar atras [e]l poy / pasa [‘l] [v]igil: mira clar[s] las tenebras”: “L’alba appare lungo il mare, dietro il poggio; passa la scolta: Mira, chiare sono le tenebre”.

Dejeanne 1907: “L’alba par tumet mar [e] t[e]r[r]a sol / Poy pasa bigil [v]ira[n] clar tenebras”: “L’alba appare, il sole colpisce con i suoi raggi il mare e la terra. Poi passa la sentinella, le tenebre si mutano in chiarore”.

Angeloni 1908–1911: “L’alba par, tumet mar atra sol, / po y pas abigi[t] miraclar tenebras”: “L’alba appare: gonfi a il nero mare, il sole, poi, in quella, disordinatamente qua e là caccia mirolucendo le tenebre”.

Novati 1908–1911: “atra[s] sol abigi[t] tenebras”; “il sole caccia le nere tenebre”.

Foerster 1911 [1932]: “L’alba par, umet mar atra sol. / Pos y pasa vigil, mira [ann]ar tenebras”: “L’alba appare, il sole attrae l’umido mare. Poi la sen-tinella fa il suo giro e vede l’oscurità andar via”.

Gorra 1912: “L’alba par [l]u[nc] e[l] mar atras l[as] poypas”: “L’alba ap-pare lungo il mare dietro le poypas ([una sorta di] torre edifi cata su una collinetta artifi ciale)”.

Marchot 1922: “L’alba par umet mar / atra[s] sol; [b]o[i’] y pas: / ‘Abigil, mira clar / tenebras!’”: “L’alba divide un mare umido attraverso la terra; / passa il boia: ‘sveglia, ecco le tenebre [fatte] chiarore’”

De Bartholomaeis 1926: “L’alb’apar tumet mar at ra’ sol. / Po y pas, a, bigil! Mira clar tenebras”: “L’alba appare, si gonfi a il mare a’ raggi del sole. Poiché (ora che) io (scolta) vi passo (nel cammino di ronda), deh, svegli! Ecco chiare le tenebre”

Vecchi 1952: “L’alba par (t)umet mar / at ra’ sol po y pas: / a bigil! mira clar / tenebras!”: “L’alba appare, si gonfi a il mare ai raggi del sole, poiché passo: deh! svegli! Ecco chiare le tenebre!”

Zumthor 1963: “L’alba, part umet mar, atra sol; / Poy pasa bigil: mira clar tenebras”: “L’alba, dal lato dell’umido mare, attira il sole. Poi passa la scolta: guarda le tenebre schiarirsi!”

Chiarini 1974: “L’alba part umet mar atra sol. / Po y pasa bigil miraclar tenebras”: “L’alba, al di là dell’umido mare, rompe l’oscurità. Poi, ecco, passa la sentinella a scrutare le tenebre”.

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250 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Lazzerini 1979, 1985, 1986, 1999, 2001, 2004: “L’alba par, tumet mar; atra[s] sol / poypas abigi[t] miraclar tenebras”: “L’alba appare, è gonfi o il mare, il sole discese nelle oscure fortezze a sbalordire le tenebre”. Figuraliter: “Il Cristo-sole reduce dalla discesa agl’inferi riporta la grazia e la vita (la Pa-squa, festa di primavera, coincide col risveglio della natura e la supremazia della luce sul buio)”.

Hilty 1981a, 19181b, 1995, 2000: “L’alba par(t), u me mar’ atra sol; / Po y pas, a bigil, mira clar tenebras”: “L’alba appare. Oh madre, egli si avvicina da solo! Poiché passo a lui, oh cielo, guardiano, guarda il chiarore come se fossero tenebre”.

Picchio Simonelli 1984: “L’alba par u met mar atra sol. / Poy pas abi-gil miraclar tenebras”: “L’alba appare dove il mare buio fa sorgere il sole. Di poco (l’alba) avanza vigile a far miracolo delle tenebre”.

Kaps 2005: “Lalba part umet mar atra sol / Poy pasa bigil mira clar te-nebras”: “L’alba appare, l’umido mare tira su il sole. Poi la vigilia è fi nita. Guarda come si rischiara l’oscurità”.

Paden 2005 [già in Lazzerini 1979:161–162] : “L’alba par, tumet mar, atra[s] sol / poy pasa, bigil, miraclar tenebras”: “L’alba appare, è gonfi o il mare: poi il sole passa, vigile, a sbaragliare le tenebre”.

Del resto, le proposte possono moltiplicarsi quasi all’infi nito, la messe

immensa delle combinazioni essendo garantita dalle seguenti ambiguità:

1. Il genere del componimento, a oggi: 1a. Un inno mattutino 1b. Un’alba amorosa 1c. Un’alba religiosa 1d. Un’alba guerresca 1c. Una khargia

2. La lingua del refrain, a oggi: 2a. Latino volgarizzato 2b. Galloromanzo: occitanico, guascone, francese, francoprovenzale 2c. Mischsprache

3. La discrezione delle serie grafi che, a oggi: 3a. part umet, par tumet, par u met 3b. atra sol, atras ol, at ra sol 3c. Poypas, Poy pas, Po y pas 3d. abigil, a bigil (con a talora agglutinata al colon precedente) 3e. miraclar, mira clar

4. Gli interventi sulle serie grafi che individuate, a oggi: 4a. umet] [l]u[nc] e[l], ume<t> 4b. atra] [e] t[e]r[r]a, atra[s] 4c. sol] l[as] 4d. Po] Po[s], [b]o[i’] 4d. pasa] pasa [‘l], 4e. abigil] abigi[t], -a [v]igil 4e. mira] [v]ira[n], 4f. clar] clar[s], [ann]ar

5. L’interpretazione della serie grafi ca, semplice o corretta, a oggi: 5a. par ‘appare’; ‘divide’, part ‘al di là’, ‘dalla parte’

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L’alba di Fleury da un’altra specola 251

5b. umet ‘umido’; tumet, ‘gonfi a’, ‘si gonfi a’, ‘colpisce’; [l]u[nc] e[l] ‘lungo il’; u met ‘dove mette’; u me’ ‘o mia’

5c. mar ‘mare’; mar’ ‘madre’ 5d. atra ‘attrae’, ‘attira’, ‘aspira’, ‘si avvicina’, ‘tira su’, ‘l’oscurità’,

‘nero’, ‘buio’; atras ‘dietro’, ‘oscure’, ‘attraverso’; [e] t[e]r[r]a ‘e la terra’; at ra’ ‘ai raggi’

5e. sol ‘sole’, ‘rompe’, ‘solo’; ol ‘il’; [e]l ‘il’; [la]s ‘le’ 5f. Poypas ‘fortezze’; Poy ‘poggio’, ‘poiché’, ‘poi’, ‘di poco’; Po y ‘poiché

io’, ‘poiché vi’, ‘poi vi’ ‘poi, ecco’; Po[s] ‘poi’; [b]o[i’] ‘il boia’; pas ‘passo’ (vb), ‘avanza’; pas’, pasa ‘passa’, ‘attraversa’, ‘oltrepassa’, ‘fa il suo giro’

5g. abigil ‘sveglia!’; a bigil ‘obliquamente’, ‘inclinato da una parte’, ‘deh, svegli’, ‘oh, gurdiano’; abigil ‘vigile’ (agg.), abigi[t] ‘cac-cia’ (vb), ‘discese’ (vb); bigil ‘vigile’ (agg.), ‘guardiano’, ‘sentinel-la’,’scolta’, ‘il Vigil’, ‘la vigilia’

5h. miraclar ‘scrutare’, ‘sbalordire’, ‘sbaragliare’, ‘far miracolo’; mira ‘guarda’ (imper.), ‘mira’ (imper.) ‘rischiara’ (3a pers. pres.), ‘vede’, ‘ecco’; [v]ira[n] ‘si mutano’; clar ‘come illumina’, ‘chiarore’, ‘lumi-noso’, ‘chiare’; [ann]ar ‘andar via’, ‘schiarirsi’

Per di più la varianza interpretativa, oltre al genere, alla lingua, alla

segmentazione grafi ca, all’integrazione testuale e all’aspetto semantico,

incide anche sul rapporto sintassi/verso.

Per ciò che riguarda la lingua, se partiamo dai dati certi e ci fondiamo

sulle unità di scrittura tràdite, dobbiamo constatare che essa contempla

quattro lemmi certamente “volgari” (L’alba, par, mar, miraclar [o clar]), due potenzialmente solo latini (umet, atra), due/tre di lettura ancipite (sol, [mira], tenebras) e due non immediatamente catalogabili (abigil e poypas), ma certamente non latini. Si consideri che atra da atraire è inammissibile

dal punto di vista metrico (è richiesto un accento sulla prima a), oltre che

linguistico, così come inammissibile per ragioni metriche e linguistiche

è atras, considerato da alcuni preposizione, dove in occitanico è attestato

solo come avverbio, con accento sulla seconda a. La nostra lettura renderà

conto della possibilità di leggere atra come volgare, ma umet, allo stato

delle ricerche, sembrerebbe irriducibile: questo comporta l’impossibilità

di sciogliere a priori l’ambiguità per i lemmi di lettura ancipite e di con-

siderare la lingua, comunque, composita o artifi ciale. Concordo quindi

con Chiarini (1974:13) nel considerare che “l’ipotesi meno avventurosa,

dato il divario linguistico esistente fra strofe e ritornello, è che questo ri-

produca abbastanza fedelmente il tipo idiomatico proprio della regione e

del tempo in cui verosimilmente il testo fu composto” e nel ritenere che

il “bilinguismo” latino/romanzo non riguardi solo la dialettica fra corpo

della strofe e refrain, ma vada esteso anche al refrain: in questo caso, però,

parleremo qui più propriamente di mistilinguismo, in una forma peral-

tro del tutto assimilabile a quella delle kharagiât mozarabiche (Chiarini

1974:16–20).

Qui di seguito riporto un prospetto con il numero degli interventi per

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252 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

ciascun editore: precede il numero relativo agli interventi sulle unità di

scrittura (non includo i casi in cui si verifi chi alternanza nel ms., ma con-

templo i casi in cui la discrezione della serie potrebbe essere dubbia, come

prep. + sost.), segue quello degli interventi sul testo e poi quello delle frat-

ture sintattiche del verso; fra parentesi, a titolo solo indicativo, la somma.

La sigla LNC indica che l’interpretazione linguistica e/o metrica non è

corretta per le ragioni discusse. Nella prima lista l’ordinamento è cronolo-

gico, nella seconda l’ordine va dal più oneroso al meno oneroso, facendo

precedere tutti gli interventi non corretti:

Ordinamento cronologico:Schmidt 1881: 2-0-1 (3) LNCStengel 1885: 2-0-1 (3) LNCRajna 1887: 3-0-1 (4) LNCMonaci 1892: 3-1-0 (4) LNCMarchot 1900: 3-0-0 (3) LNCGorra 1901: 4-8-1 (13) LNCDejeanne 1907: 4-5-0 (9)Angeloni 1908-1911: 2-1-1 (4) LNCMarchot 1922: 3-4-1 (diff. suddivisione in vv.) (8) LNCDe Bartholomaeis 1926: 5-0-0 (5)Foerster 1932: 3-4-0 (7) LNCVecchi 1952: 6-0-0 (diff. suddivisione in vv.) (6)Zumthor 1963: 3-0-0 (3) LNCChiarini 1974: 2-0-0 (2) LNCLazzerini 1979: 1-2-1 (4)Hilty 1981a ecc.: 3-1-0 (4)Picchio Simonelli 1984: 1-0-0 (1) LNCKaps 2005: 1-0-0 (1) LNCPaden 2005: 2-1-1 (4)

Ordinamento dal più al meno oneroso:Gorra 1901: 4-8-1 (13) LNCMarchot 1922: 3-4-1 (diff. suddivisione in vv.) (8) LNCFoerster 1932: 3-4-0 (7) LNCRajna 1887: 3-0-1 (4) LNCMonaci 1892: 3-1-0 (4) LNCAngeloni 1908–1911: 2-1-1 (4) LNCSchmidt 1881: 2-0-1 (3) LNCStengel 1885: 2-0-1 (3) LNCMarchot 1900: 3-0-0 (3) LNCZumthor 1963: 3-0-0 (3) LNCChiarini 1974: 2-0-0 (2) LNCPicchio Simonelli 1984: 1-0-0 (1) LNCKaps 2005: 1-0-0 (1) LNCDejeanne 1907: 4-5-0 (9)Vecchi 1952: 6-0-0 (ma diff. suddivisione in vv.) (6)De Bartholomaeis 1926:5-0-0 (5)Paden 2005: 2-1-1 (4)Lazzerini 1979: 1-2-1 (4)Hilty 1981a ecc.: 3-1-0 (4)

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L’alba di Fleury da un’altra specola 253

3.1. La sintassi e la funzione dei refrain negli inni cristiani. Nei testi

religiosi mediolatini il refrain ha forma paratattica, mancano la tmesi e

l’enjambement, la frase coincide con l’unità stichica. Una delle caratteristi-

che fondamentali dei refrain è quella di contenere un’esortazione, espressa

con l’imperativo o il congiuntivo esortativo. Si prendano i seguenti refrain

di due versi tratti da Norberg 1988:73 e da Norberg 1958:148-153: “Salva-

tor mundi Christus dei fi lius, / nobis ut fi at precamur propitius”; “Prece

pulsemus Christi matrem Mariam, / ut impetremus peccatorum veniam”;

“Adtende homo quod pulvis es / Et in pulverem reverteris”; “Venite et gau-

dete / nato Christo Domino” (con cadenza 6p, come il secondo verso del

refrain di Phebi claro, secondo la nosra lettura: cf. infra); “Miserere nobis”

(modello di refrain nelle preces mozarabiche, cantate in Quaresima); “Deus

miserere, Deus miserere, in peccatis eius”; “Deus miserere, Deus miserere,

miserere nobis pro peccatis nostris”; “Miserere Domine, Miserere Christe”;

“Supplicanti populo Christe miserere”; “Christe resuveniad te de mi pec-

catore”; “Miserere fi nis noster adest. Succurre Christe”; “In tremendo die

iudicii”; “In pavendo die iudicii”; “Penitenti Christe da veniam”; “Miserere,

mei piissime”; “Ab inferno Christe nos libera”; “Eia laudes dicamus Libero”

(nell’Andecavis abbas esse dicitur, poema parodico con lo stesso metro delle

strofe latine di Phebi claro); “Parce redemtor”; “Miserere, miserere, Deus

miserere”; “Veniam ei concedet peccata dele”; “Et miseratus parce po-

pulo tuo”; “Redemtor peccantibus miserere”. Unico caso con enjambement e tmesi nel medesimo verso: “Sanctus Iohannes baptista ad dominum /

deum pro nobis exoret altissimum”. Si noti che in tutti i casi si tratta di

esortazioni, generalmente rivolte al Signore, ma talora anche ai fedeli,

come esortazioni sono anche quelle dei seguenti refrain tratti dai Carmina Cantabrigensia: “Pater, nate, / spiritus sancte, / te laudamus / ore corde /

. . . vite / siti fragilitate” (7); “Imperatoris Heinrici / catholici / magni ac

pacifi ci / beatifi ca animam, / Christe” (9); “Henrico requiem, rex Christe,

dona perennem” (17); “Rex Deus, vivos tuere et defunctis miserere” (33).

Questa tendenza, peraltro, permane inalterata nel tempo, tanto che la

forma sintatticamente semplice del refrain si riscontra in tutte le cantiones natalizie del vol. 20 dell’AH e in moltissime di esse tutti i caratteri esami-

nati risultano patenti (cf. AH 93, 94, 98, 99, 100, 102, 118, 120, 121, 130,

131, 166, 177, 178, 179, 181, 186, 202, 209, 224, 276, 278, 288, 289).

3.2. Struttura metrica del refrain. Si tratta di un distico, in confor-

mità con molti inni (cf. supra) e con la maggioranza dei testi lirici antico-

francesi provvisti di refrain (Doss-Quinby 1984:35). L’interpretazione

dell’andamento metrico e ritmico del refrain dipende in parte dall’inter-

pretazione del testo e dall’individuazione della lingua in cui esso è scritto.

Se possiamo affermare con certezza che il primo verso è costituito di tre

versicoli trisillabi con cadenza ossitona e un accento secondario di prima

(L’álba pár —úmet már— átra sól), per il secondo verso non possiamo esser

certi che la scansione sia la medesima, poiché non conosciamo, se non

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254 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

congetturalmente, né il signifi cato né l’etimo di almeno due lemmi (Poypas e abigil) e perché il lemma tenebras è ancipite sia dal punto di vista lingui-

stico (latino-romanzo), sia all’interno della lingua latina: nella tradizione

innologica, ad esempio, è considerato nella maggior parte dei casi come

proparossitono, ma non mancano casi, sia pur più rari, di parossitonia (cf.

infra nota relativa). L’unico incontro vocalico presente, quello di Poypas, va considerato dieretico sia perché è contrassegnato da due note musi-

cali (Schmidt 1881:340; Restori 1892; Restori in Camilli 1913:417; Chia-

rini 1974:8; Kaps 2005:48), sia per ragioni linguistiche di cui tratteremo

nella nota relativa (§3.3). Invece, quale che sia il suo signifi cato, miraclar, per ragioni etimologiche risponde al paradigma ritmico individuato per

il primo verso (míraclár): tale dato non sarebbe contestabile neanche divi-

dendo l’unità di scrittura in due lemmi (mira clar). Se si tiene fermo questo

punto e si ritiene necessario che anche il secondo verso debba avere una

simmetria interna, allora Poypas dovrà avere la medesima struttura accen-

tuale e dunque per il ritmo complessivo del verso si danno due possibilità:

se tènebras è proparossitono (quindi la parola è da considerarsi latina clas-

sica), la seconda unità di scrittura andrà interpretata come abigìl e tutt’e

quattro piedi avranno la medesima struttura accentuale òoò di quelli del

primo verso, pur ripetuti per quattro volte (così Beck in Foerster 1932:268);

nel caso in cui si ritenga tenèbras parossitono (e che quindi la parola abbia

subito lo spostamento d’accento o che sia romanza: cf. commento rela-

tivo), allora la simmetria richiederebbe che anche abigil fosse parossitono

e il secondo verso dovrebbe avere una struttura trocaica: óo - óo - óo - óo

- óo - óo, a fronte della struttura dattilica del primo: óoó - óoó - óoó (così

Becker, Suchier e Birch-Hirschfeld 1913:12–13). In entrami i casi, dunque,

avremmo un distico (secondo la notazione convenzionale della poesia rit-

mica mediolatina, nel primo caso 9pp, 12 pp, nel secondo 9pp, 12p), però

solo nella seconda ipotesi il secondo verso sarebbe divisibile in due emi-

stichi simmetrici 6p + 6p. Quest’ultima struttura metrica è congruente

con quella di numerosi refrain presenti nell’innologia mediolatina. Il verso

di 9pp è quello del notissimo refrain “Adtende homo quod pulvis es / Et

in pulverem reverteris”, presente nel poema abecedario d’epoca merovin-

gica Audax es vir, iuvenis e poi in disparati componimenti ritmici medievali

(PAC 4, 495–496; Norberg 1958:148–149). Per ciò che riguarda il secondo

verso, già Norberg annotava che il tipo 6p si trova in numerosi refrain, sia

in forma singola (tipo Miserere nobis) ( Meyer 1914:165), sia in forma com-

posta. Norberg cita ad esempio due refrain ( Meyer 1914:138 e 165) presenti

nell’innologia mozarabica: “Deus miserere / Deus miserere / en peccatis

eius” (3x6p); “Deus miserere, / Deus miserere. / Miserere nobis / pro pec-

catis nostris” (4x6p). La forma 2x6p si trova attestata in uno dei Carmina Cantabrigensia (17) Lamentemur nostra, socii, peccata, seguita da un distico

8p + 5p. Del resto, per ciò che riguarda il complesso metrico, una forma

simile a quella del nostro ritornello, con una struttura che giustappone un

senario doppio ad un verso di poco più breve, in questo caso l’ottonario,

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L’alba di Fleury da un’altra specola 255

è rintracciabile in un canto di pellegrinaggio (PAC 4, 652): “Audi nos rex

Christe, / Audi nos Domine, / Et viam nostram dirige”.

Anche il novenario si trova appaiato a versi doppi parossitoni, in

questo caso settenari in una poesia profana di epoca merovingica (Bou-

cherie 1875:33): “Dum myhy ambolare / Et bene cogetare / Audivi avem

adclatire”.

Il refrain mostra al suo interno rapporti non indifferenti alla simbo-

logia e alla “mistica dei numeri” d’ascendenza neoplatonica e neopita-

gorica (Wallis 2005). I versicoli trisillabici, marcati peraltro anche dalla

partizione grafi ca, sono 7 in tutto, 3 nel primo e 4 nel secondo verso. Del

numero 7 parla S. Benedetto nella Regula XVII: “Ut ait propheta: septies

in die laudem dixi tibi. Qui septenarius sacratus numerus a nobis sic im-

plebitur, si matutino, primae, tertiae, sextae, nonae, vesperae completo-

riique tempore nostrae servitutis offi cia persolvamus, quia de his diur-

nis horis dixit: Septies in die laudem dixi tibi. Nam de nocturnis vigiliis

idem ipse propheta ait: Media nocte surgebam ad confi tendum tibi. Ergo

his temporibus referamus laudes Creatori nostro super iudicia iustitiae

suae, id est matutinis, prima, tertia, sexta, nona, vespera, completorios,

et nocte surgamus ad confi tendum ei”. Il sette, inoltre, nella sua composi-

zione di tre più quattro elementi rinvia al numero della Trinità e dei Van-

geli e, nel suo insieme, ai doni dello Spirito Santo (Koetsier e Bergmans

2004:182).

Il primo verso ha una base ternaria (3x3), il secondo una base binaria

(4x3 o 6x2): l’insieme risponde a quel principio di perfetta armonia dato

dalla fusione dei due “schemi” binario e ternario (Avalle 1988), e il rap-

porto si inverte se consideriamo le parole-unità di scrittura: 6 nel primo

verso (naturalmente considerando Lalba come una sola unità lessicale,

oltre che grafi ca) e 4 nel secondo, per un totale di 10, altro numero per-

fetto. A riprova di una ricercatezza formale dell’insieme che esclude che

il refrain sia il prodotto di un’evoluzione linguistica, si noti inoltre che nel

primo verso si hanno tre gruppi con una parola di due sillabe, seguita da

una parola monosillabica (2 + 1), nel secondo le quattro parole sono tutte

trisillabiche quindi: 2 + 1, 2 + 1, 2 + 1; 3, 3, 3, 3. Schematizzando:

7 versicoli3 sill. per versicolo3 × 3 sill. nel 1° verso4 × 3 o 6 × 2 sill. nel 2° verso10 parole in tutto6 parole nel 1° verso4 parole nel 2° verso3 parole di 1 sill. e 3 di 2 sill. nel 1° verso (2 + 1, 2 + 1, 2 + 1)4 parole di 3 sill. nel 2° verso (3 + 3 + 3 + 3)

Nella seconda ipotesi, inoltre, alcuni rapporti aritmetici potrebbero

collegare il numero dei piedi del refrain a quello della strofe latina. Qui in-

fatti abbiamo tre versi con schema ritmico óo - óo - óo - óo - óoó: quindi il

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256 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

tipo trocaico è ripetuto quattro volte in ogni verso, seguito da un proparos-

sitono con doppio accento. Secondo Chiarini (1974) i versi della strofe la-

tina “hanno un’andatura trocaica per la regolare successione delle sillabe

toniche e delle sillabe atone, con un tempo vuoto dopo l’ultima tonica”:

secondo tale interpretazione la struttura del secondo verso del refrain con

i suoi sei trochei sarebbe uguale, con la compensazione del tempo vuoto,

a quella della strofa.

Nel complesso ogni strofe presenta 12 “piedi” trocaici e 3 dattilici. Il

primo verso del ritornello presenta lo stesso numero di piedi dattilici (3)

e il secondo la metà dei piedi trocaici (6). Il numero dei versi della strofe

(3) e il numero complessivo di 33 sillabe (qualora l’inno si dovesse consi-

derare integro), sono di alto valore simbolico.

Insomma, sembrerebbe che sia il ritmo sia il numero delle parole

marchino una strutturazione a doppia base, ternaria e binaria, nel ri-

spetto delle strutture armoniche pitagoriche e della concezione platonico-

agostiniana dell’armonia dell’universo, di cui furono importanti fautori

sia Ugo di Cluny (Lazzerini 1985:31), sia Abbone di Fleury, il cui approccio

numerologico si rifà al De arithmetica di Boezio (Peden 2003:83–84). In par-

ticolare, per ciò che riguarda la simbologia del sette, Koetsier e Bergmans

(2004:181) annotano che “Abbo characterizes seven as the ‘virgin number’

symbolizing wisdom and the soul, because it is the only number less than

ten which is not a product or a factor of any other number less than ten”.

Questo argomento depone a favore dell’ipotesi dell’unitarietà del te-

sto (sostenuta da Zumthor 1963), nel senso che gli elementi volontaria-

mente allusivi alla simbologia dei numeri fanno pensare ad un autore

colto, con ogni probabilità il medesimo che ha composto il testo latino,

e militano invece a sfavore dell’ipotesi (sostenuta da Dejeanne 1907; An-

geloni 1908–1911; Camilli 1913; Becker 1929; Lazzerini 1979, 1985, 2000,

2001) che vede nel refrain una trasformazione nella direzione del volgare

di un originale latino.

3.3. Commento al refrain.L’alba par(t). La prima frase del refrain è quella che presenta meno

problemi d’interpretazione. L’alba è certamente lemma romanzo, la pre-

senza dell’articolo certifi ca senza ombra di dubbio tale lettura (Chiarini

1974). Si noti che, escluso questo caso, i sostantivi del refrain non presen-

tano l’articolo, coincidendo per questo tratto sia con i Giuramenti di Stra-

sburgo (Avalle 1966), sia con le Benedizioni di Clermont-Ferrand (Hilty

1995:29–30).

Per ciò che riguarda par, non è da sottovalutare la considerazione di

Lazzerini (1979:159, n. 55), secondo cui: “par con caduta della t fi nale, è pro-

venzale, mentre il francoprovenzale ne presupporrebbe la conservazione”.

Il sintagma è certamente tratto dall’usuale grido delle scolte per an-

nunziare l’apparire dei primi bagliori del nuovo giorno, come documen-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 257

tato inequivocabilmente da un passo della Guerra de Navarra, in cui il grido

è riportato in forma di discorso indiretto: “E quant venc lendeman que·l

gaita de la tor / Escridec autamentz que paria l’albor” (Berthe, Cierbide,

Kintana, Santano e Alli 1995:2, 123, vv. 1444–1445). Un altro dato ancora

troppo poco valorizzato, seppur più volte notato, è quello della coincidenza

di questo segmento testuale con il quarto verso del refrain dell’alba troba-

dorica Dieus, aydatz attribuita nei canzonieri a Bernart Marti o Raimon de

las Salas (Pulsoni 2006). La prima cobla di Dieus, aydatz introduce al tema

dell’alba: si richiede l’aiuto del Signore per gli uomini cari, dolci e veri-

tieri, e si richiede la pace nel momento in cui gli uccellini iniziano i loro

canti gioiosi e i gorgheggi. Nel refrain si ribadisce il fatto che sta giungendo

il giorno e richiede l’aiuto di Dio con medesimo sintagma (Dieu aydatz):

L’alb’e·l jornsclars et adornsven. Dieus aydatz.L’alba pare·l jorn vey clarde lonc la mare l’alb’e·l jorns par.

Poi entra in gioco la gaita, che invita gli amanti ad alzarsi e a conge-

darsi l’uno dall’altro con amore e baci (“Sus levatz, / drutz c’amatz, / que

sem pars / er bels jorns e gays / e·l comjatz / sia datz / ab dous fars / et ab

plazens bays”); li invita inoltre ad affrettarsi perché l’indugiare ormai è pe-

ricoloso: il marito della donna è vestito e munito di armi (“Enselatz / e pu-

jatz, / car l’estars / no·us er pro hueymays, / que·ls maritz / ay vist vestitz /

e ben garnitz”). Dopo il refrain la cobla successiva fa parlare la donna, che

invita la gaita alla veglia e alla guardia e rifi uta la separazione dall’amico:

nonostante le armi del nemico-marito, non si allontanerà dalle braccia del

suo amato. Invita poi la gaita a tacere e dissimulare il loro segreto (“Be

velhatz / e gaytatz, / gayt’ encars / que no.us er nuill fais. / Non crezatz /

per armatz / que jogars / del mieu amic lays, / qu’en mon bratz / jauzen

jatz; / mas l’afars / no.us iesca del cays; / s’autr’o ditz, / faytz n’esconditz /

soven plevitz”).

Nell’alba profana le insidie del nemico sono quindi quelle del marit. Le somiglianze fra Dieus, aydatz e Phebi claro non si limitano al sintagma

L’alba par, ma si possono estendere anche al testo latino e ad altre parti

del refrain stesso. L’attacco delle strofe è composto di tre versi di tre sil-

labe, coincide cioè con il modulo fondamentale del nostro refrain. Ecco lo

schema metrico del componimento:

aab c, aab c, aab c; ddd eea f f f f333 5 333 5 333 5 344 344 3445

Si noterà che lo schema aab di trisillabi è il medesimo del primo verso

del refrain di Phebi claro e che la consonanza si estende anche alla cadenza

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258 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

con vocale in -a. Si tratta di una cadenza che trae probabilmente origine

nel grido Eià vigilà, che ritroviamo nel canto delle scolte modenesi (cf.

infra). Del resto lo schema che ripete tre volte tre trisillabi è ben noto alla

tradizione occitanica. Le Leys d’amors, descrivendo l’enneasilabo, citano

due versi scomponibili anche in tre trisillabi in rima tra loro (testo Fedi

cit. in Pulsoni 2006):

E gayre no vezem uzar en novas rimadas d’aytal entricamen de bordos, quar non an bela cazensa. Empero ab rimas multiplicadas poyria be estar, et adonx [h]aurian bela cazensa, segon qu’om pot vezer ayssi en aquestz versetz, los quals hom pot tornar a .vi. sillabas. Et enayssi de dos bordos de novena sillaba pot hom tornar en tres bordos de seyzena:Lo mon veg mal adreg e destregQuar apleg franh hom dreg per naleg.

Moduli trisillabici, ripetuti tre, ma anche quattro volte si ritrovano nei

descortz occitanici e nei lais oitanici (Canettieri 1995:467–468 e 267–268),

testi di derivazione sequenziale e di natura soprattutto musicale. Dell’en-

neasillabo inteso come verso composto di tre trisillabi parla anche Dante

Alighieri, chiaramente con la terminologia propria della metrica italiana

(3 = 2’) (Canettieri 1999).

Anche nell’alba attribuita a Raimbaut de Vaqueiras Gaita be assistiamo

ad un procedere ritmico analogo a quello individuato, con i primi due

versi di ciascuna cobla che presentano il rarissimo enneasillabo composto

da un trisillabo ed un esasillabo e con il trisillabo riecheggiante anche

nel terzo, nel quarto, nel quinto e (al femminile) nel sesto verso (Riquer

1975:845–846):

Gaita be, gaiteta del chastel,quan la re que plus m’es bon e belai a me trosqu’a l’alba.E·l jornz ve e non l’apel;joc novelmi tol l’alba,l’alba, oi l’alba!

Gait’, amics, e veilh’e crid’e bray,qu’eu sui ricx e so qu’eu plus voilh ai.Mais enics sui de l’alba,e·l destrics que·l jorn nos faimi desplaiplus que l’alba,l’alba, oi l’alba!

Gaitaz vos, gaiteta de la tor,del gelos, vostre malvays seynor,enujos plus que l’alba,que za jos parlam d’amor.Mas paornos fai l’alba,l’alba, oi l’alba!

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L’alba di Fleury da un’altra specola 259

Domn’, adeu! Que no puis mais estar;malgrat meu m’en coven ad annar.Mais tan greu m’es de l’alba,que tan leu la vei levar;enganarnos vol l’alba,l’alba, oi l’alba!

Moduli identici si incontrano anche nella poesia lirica antico-fran-

cese, sempre in relazione al cantare delle scolte. In un testo anonimo

d’impianto lirico-narrativo (Linker 265, 1009), è messo in scena un pa-

storello mentre compone dichiaratamente un contrafactum del grido della

scolta (“contrefi st la gaite”) giustapponendo quattro versicoli trisillabici e

venendo quindi a formare una struttura metrico-sillabica identica a quella

del secondo verso del refrain di Phebi claro:

L’autre jour par un matin,sous une espinette,trovai quatre paistoriaus;chascuns ot muzete,pipe, fl ajot et fretel.La muze au grant challemelait li uns fors traite;por commencier le rivelcontrefïst la gaiteet an chantant c’ escriait:“si jolis, si mignos, com je suis n’iert nuns jai”.(Rivière 1974–1976:1, 78)

Moduli trisillabici si hanno anche, nella lezione di tre canzonieri

(PXH), nel refrain di un’altra pastorella che mette in scena una scolta, li guete Guis, mentre suona la lupinele:

En Pascor un jour erroiejoste un bois lez un larris.Truis pastoreaus aatis;dïent qu’il menront grant joie,et si avront le fretel,pipe et muse et chelemel,s’amie chascuns amis,et si ert li guete Guis,notant de la lupinele:“Vatendo, reviendo, si me di adandoqu’il mechant de do do do do dele”.(Tishler 1997:11, 991)

Un ultimo caso è quello dell’aube antico-francese Gaite de la tor, in cui

viene mimato attraverso l’emissione delle tre sillabe hu et hu il canto o il

grido della scolta o il suono dello strumento musicale da essa suonato per

dare l’allarme (Monari 2005:679–680 e n. 28):

Gaite de la tor,gardez entor

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260 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

les murs, se Deus vos voie!C’or sont a sejordame et seignoret larron vont en proie.Hu et hu et hu et hu!Je l’ ai veüla jus soz la coudroie.Hu et hu et hu et hu!A bien pres l’ocirroie.(Tischler 1997:13, 1147)

Va detto che nell’interpretazione corrente la serie “Hu et hu et hu

et hu” è trattata come un unico blocco fonico, ma ritengo che sia invece

necessario intravedervi due trisillabi ripetuti identici e uniti dalla con-

giunzione et, per via della strutturazione del penultimo verso delle strofe

III-VII, dove il trisillabo risulta ben isolato dalla parte portatrice di signifi -

cato proprio ed è riecheggiato dal verso immediatamente successivo (“Je l’

ai veü”, ecc.). Si veda, ad esempio, il refrain della terza strofa:

Hu et hu et hu et hu!Or soit teü,compainz, a ceste voie.Hu et hu! Bien ai seüque nos en avrons joie.

Questi dati metrici, a mio avviso, hanno fondamentale importanza,

poiché individuano nel procedere trisillabico del refrain di Phebi claro la

struttura tipica del canto di scolta, dando di fatto ragione alle tesi di Jean-

roy (1889:63–75), secondo cui l’Alba bilingue dimostrerebbe proprio che

già nel X-XI secolo esistevano canti popolari di scolta in lingua volgare, da

cui avrebbero preso spunto anche le albas profane. Non sarà di scarso ri-

lievo, allora, che si intravedano alcune consonanze fra Dieus, aydatz e Phebi claro riguardanti sia il piano del signifi cato, sia quello del signifi cante:

L’alba par L’alba pare l’alb’e·l jorns par L’alba parde lonc la mar umet mar

Altri riverberi incidono sul piano fonico / semantico:

vey clar miraclar (cf. infra la nota a miraclar)Sus, levatz, surgite

Altri ancora riguardano esclusivamente il signifi cato (cf. infra la di-

scussione su Poypas e abigil):

que·ls maritz ostium insidie (contesto bellico)ay vistz vestitze ben garnitz.Non crezatzPer armatzque jogarsde mon amic lays

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L’alba di Fleury da un’altra specola 261

Be velhatz abigil (esortazione alla veglia: cf. infra)E gaytatz, miraclar (esortazione alla guardia: cf. infra)gayt’; encars spiculator, preco, poypas

Infi ne si individuano alcune consonanze che riguardano le sonorità

vocaliche (qui in grassetto):

senher cars tenebrasque sem parsEnselatzBe velhatz

L’alb’e·l jorns atra solclars et adorns

Sus, levatz, tumet marsia datz miraclar

Nel complesso mi sembra che si possa affermare con buon margine di

certezza che Dieus aydatz rappresenti un controcanto profano del refrain di

Phebi claro. Ora, se è molto improbabile che il trovatore provenzale fosse

a conoscenza dell’inno fl oriacense, è però più che verosimile che l’autore

dell’inno abbia utilizzato materiali metrico-melodici e contenutistici che

circolavano nella Francia del Sud, con ogni verosimiglianza un canto di

scolta, abilmente rifunzionalizzato nella direzione mattutinale. Al mede-

simo canto (come vedremo la tradizione è molto compatta e resistente al

tempo), si sarà rifatto l’autore di Dieus, aydatz, applicando ad esso le varia-

zioni opportune per renderlo utilizzabile nel quadro di un’alba profana.

Se lì il protagonista è lo speculator - preco - poypas, la cui funzione è quella di

svegliare i pigri e di vigilare sull’arrivo dei nemici, qui è la gaita, incaricata

di mettere in guardia gli amanti e vigilare su di essi, nonché di avvertirli

del sopraggiungere del marito ostile e armato.

Aggiungeremo che la solidarietà fra i due testi può essere un ele-

mento da valutare nella discussione sull’attribuzione di Dieus, aydatz (Pul-

soni 2006): dati gli elementi intertestuali che abbiamo addotto, infatti, la

localizzazione in ambito guascone che proporremo per il refrain di Phebi claro (cf. infra), potrebbe essere un elemento che avvalora sia l’ascrizione

di quell’alba profana al trovatore Bernart Marti, vicino agli ambienti gua-

sconi di cui fu esponente di rilievo Marcabru (Roncaglia 1969a:40; Beg-

giato 1984:29–30), sia l’ipotesi di Roncaglia (1969b) circa la possibile

identifi cazione di Bernart Marti con Bernart de Saissac, trovatore la cui

collocazione geografi ca ben si armonizza con l’area linguistica meglio

compatibile con il refrain di Phebi claro.umet mar atra sol. Al rigo 2 leggo, con Meneghetti 1997, um& mar,

ma forse è da leggere um&mar, mentre escluderei um &mar di Frank 1994:

i due lemmi da sciogliere saranno quindi, con ogni verosimiglianza, umet e mar. In accordo con i principi sopra enunciati, non interverrei su umet, a

mio avviso da interpretare come 3a pers. sing. pres. del latino umeo o humeo, ‘essere umido, bagnato’. Più diffi cile, invece, interpretare umet come esito

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262 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

occitanico dell’aggettivo latino humidus, riferito a mar (interpretazione

che, come vide Rajna 1887, avrebbe a supporto Virgilio, Aen. V, 594 humida maria). . . . sarebbe umeda: l’esito provenzale atteso da HUMIDU latino è

infatti *umde (cf. ad esempio cobde da CUBITU), mentre l’unica forma at-

testata sembrerebbe essere il latinismo umit e, a1 momento, non è dato

individuare ragioni specifi che di un’evoluzione conforme a quella suppo-

sta. Inoltre, il sostantivo mar è molto più frequentemente femminile nelle

lingue galloromanze e, quindi, in linea di massima, sarebbe da attendersi,

piuttosto che umet mar, umda mar.Il verbo umeo, intransitivo in latino, è qui usato transitivamente proba-

bilmente per analogia con ardeo, suo antonimo della medesima coniuga-

zione, passato dall’uso intransitivo a quello transitivo già nel latino tardo e

ben attestato in questa forma nelle lingue romanze (Svennung 1941:130–

131; Norberg 1943:183; Ageno 1964:29–30; vedi in Norberg 1943:132–150

e Ageno 1964:28 e sgg. esempi del fenomeno in numerosissimi altri verbi).

La nostra è quindi una preziosa attestazione, che colloca anche umeo fra

quei verbi “monovalenti intransitivi del latino” che “tendono, per il lor

signifi cato, a passare fra i bivalenti, cioè a venir usati anche come tran-

sitivi”: si tratta di “verbi che indicano un processo, e lo indicano come

confi nato nel soggetto, ma talora vengono impiegati in riferimento a un

processo che si provochi esternamente al soggetto: cioè come transitivi,

o come causativi” (Ageno 1964). Nel caso di umeo del latino classico, il

processo di bagnare è confi nato nel soggetto e viene impiegato per un pro-

cesso esterno al soggetto, mentre umet dell’Alba bilingue rientra fra quei

“verbi passati a designare un’azione, un processo, un mutamento, ecc., che

l’oggetto effettivamente subisce (accrescere, ardere)” (Ageno 1964:28, n. 1).

Questa interpretazione presenta due problemi non insormontabili: 1. Si

tratterebbe dell’unico verbo morfologicamente latino nel quadro del no-

stro refrain (vs par, forse abigil, miraclar). 2. Sarebbe un hapax dal punto di

vista semantico. Entrambi i problemi, a mio avviso, si risolvono proprio

pensando al quadro più ampio del senso che ha il refrain in quest’inno

e del senso che ha in esso il volgare: l’utilizzo di umet in forma transitiva

ha l’evidente funzione di connotare l’eloquio nella direzione di un latino

imbarbarito, oltre che di un volgare più o meno farcito di latinismi: po-

trebbe cioè essere stato scelto proprio per marcare l’alternanza stilistica

fra il latino dotto dell’inno, cantato da monaci colti, forse dall’abate, e

quello barbarolettico del refrain, cantato dal popolo o da monaci indotti,

che avrebbero utilizzato al modo volgare un lemma raro e dotto del latino

classico. Del resto, della complessità dell’interpretazione di umeo, nella

sua signifi cazione attiva e passiva, testimonia la tradizione esegetica, da

Servio in poi, a commento di un luogo “aurorale” per eccellenza, Aen. 4,

7 (“umentemque Aurora polo dimoverat umbram”): paradigmatica, ad

esempio, la glossa a humens del Glossarium Ansileubi (Lindsay, Mountford

e Whatmough 1926:284): “h[umens] est quod facit humidum, non quod

fi t”, ma poi, s.v. humentes: “humidi sunt. humorem accipiunt” (e cf. anche

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L’alba di Fleury da un’altra specola 263

s.v. humectat: “inundat. inrigat”). Cf. anche Schol. Aen. 4, 7 “umens est quod

facit, umidum quod fi t”.

Anche su atra non è necessario intervenire: è stato proposto (Angeloni

1908–1911; Picchio Simonelli 1984) di riferire quest’aggettivo a mar, fem-

minile già nel latino dell’Itinerarium Antonini (III sec.) e in tutte le lingue

galloromanze. Si consideri, del resto, che “atrum . . . mare” è in Orazio

nel senso di ‘mare burrascoso’ (Sat. 2, 2, 16–17), ma qui si potrebbe anche

intendere che non è stato rischiarato dalla luce del sole.

Un’altra ipotesi è che atra debba riferirsi a sol e allora è necessario

pensare che si tratti di un maschile: da atrum l’esito regolare, ma inatte-

stato, sarebbe *adre e poi *aire. Ritengo però che le discrepanze di questa

forma dal nostro atra siano spiegabili su base linguistica. La mancata so-

norizzazione di t è spiegabile considerando che esiste una vasta regione

del dominio guascone in cui le consonanti latine c, p, t intervocaliche si

sono conservate fi no ai nostri giorni e che lo stesso trattamento ha avuto

luogo quando p e t si trovano nei gruppi consonantici pr e tr (si veda in

Rohlfs 1977:131 gli esempi di la latre < aratrum e Petraulo, petrusco, petreño

< petr-). Il centro di questa particolare pronuncia è dato dai parlari béar-

nesi delle valli d’Aspe e di Baréton, cioè nella regione a sud-ovest d’Olo-

ron, ma si trovano esempi in tutta la Guascogna, ciò che fa presumere che

questo fenomeno abbia abbracciato primitivamente una regione molto

più vasta. Troviamo qualche esempio nelle valli d’Ossau e nel Lavedan.

La parola betèt (< vitellum) è comune a quasi tutta la Guascogna occi-

dentale, mentre altre parole con questo trattamento si incontrano diffuse

in tutta la Guascogna, parte dell’Ariège, in Tarn e Tarn-et-Garonne e nel

Gers (Rohlfs 1977:130 e sgg).

Da questo punto di vista vi sono strette relazioni fra le valli béarnesi

e la regione limitrofa dell’Alta Aragona. La mancata lenizione è molto

diffusa nelle valli aragonesi di Biescas, Broto, Faulo e Bielsa. Ma anche

qui c’è una zona molto più vasta, che si estende verso ovest fi no al limite

basco-aragonese, dove si incontra ancora qualche esempio che permette

di concludere che anche nel Nord della Spagna questo trattamento do-

vesse essere molto più esteso. Documenti medievali dei secc. XI e XII ci

danno per le valli dell’Ebro (Saragozza, Rioja) pescato, collata, aripa, paco, ripera, copierto. Per la spiegazione del fenomeno Rohlfs ritiene che sia ne-

cessario supporre che la sonorizzazione, attribuibile al sostrato gallico,

sia restata ineffi cace nei territori dominati dall’elemento basco-aquitano.

Secondo Jungeman (1955:247) l’assenza del bilinguismo celto-latino in

questa zona è suffi ciente per spiegare il perdurare di queste consonanti

del sistema latino, anche se la possibilità di un infl usso basco non è da

escludere.

Per questo dato, come per quello relativo a umet, è estremamente signi-

fi cativa la coincidenza con un fenomeno linguistico che ritroviamo nelle

Benedizioni di Clermont-Ferrand, per le quali Hilty (1995:28) ha proposto

una localizzazione in area guascone sulla base della forma erpa per erba,

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264 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

ritenuto dallo stesso Hilty un ipercorrettismo riconducibile al medesimo

fenomeno che ci interessa.

Infi ne, per la grafi a -a utilizzata per indicare la vocale con timbro in-

distinto di appoggio al nesso -dr-, andrà considerato che essa è attestata in

ambito galloromanzo fi n dalle origini (Avalle 1966:80–81). Nei Giuramenti di Strasburgo, in particolare, troviamo la -a dopo nesso di dentale + -r- con

fradra per fradre e sendra per sendre. Secondo Avalle (1966:80) “Dato che la

A atona fi nale e intertonica e la vocale d’appoggio hanno dato in francese

il medesimo esito, e cioè una e prima sorda e poi muta, è molto probabile

che l’uso oscillante di -a, -e, -i, -o (la -u di deus sarà un latinismo), stia a rap-

presentare una reale incertezza nella rappresentazione di un fonema per

cui l’alfabeto latino mancava del segno corrispondente”. Si tratta, peral-

tro, di un tratto fondamentale per la localizzazione, tipico di alcuni testi

collocabili al confi ni fra area d’oc e d’oïl. Esso è presente nei documenti

più antichi dell’Angoumois, in particolare in un certo numero di carte

redatte nell’abbazia di Cellefrouin, a Nersac e ad Angoulême, nonché

nella Cronaca di Carlo Magno dello Pseudo Turpino, il cui autore era pro-

babilmente originario della Saintonge (Avalle 1966:109–115). Quest’area

geografi ca, collocata a ridosso della Gironda, individua un’area di confi ne

fra zona oitanica, limosino e guascone. Sempre secondo Avalle (1966:114)

“La distribuzione geografi ca di tali testi e documenti non è casuale, ma

sembra in qualche modo legata alla linea di confi ne linguistico fra le due

zone d’oc e d’oïl. Il fatto è importante e ci spiega il perché di questo cu-

rioso fenomeno: trattandosi di zona posta a cavallo fra le due aree lin-

guistiche d’oc e d’oïl, è naturale che i parlanti stabilissero mentalmente

l’equivalenza -e (langue d’oïl) -a (langue d’oc), e che pertanto, nel caso

di scambio fra i segni relativi, la -a venisse estesa indebitamente anche

ai casi in cui -e ha valore di vocale d’appoggio”. Tale spiegazione, però,

contrasta con il probabile valore fonetico dell’oscillazione predicato dallo

stesso Avalle. Sembra invece più probabile che all’altezza dei Giuramenti

di Strasburgo e poi anche nel X secolo, la vocale d’appoggio non avesse

ancora una precisa consistenza timbrica, e che potesse essere resa in ma-

niera differente, anche all’interno del medesimo testo (proprio nei Giura-

menti di Strasburgo, come noto, oltre a fradra è attestato anche fradre). Un

altro esempio emblematico dello scambio a/e è quello delle Benedizioni

di Clermont-Ferrand, dove troviamo evidente confusione nell’espressione

“tomides mans e tomidas pes”. In questo stesso testo, lo si è visto, abbiamo

anche il fenomeno dell’ipercorrettismo erpa che ha fatto pensare ad una

localizzazione guascone e, analogamente, troviamo madre, che rinvia in-

vece ai confi ni settentrionali dell’area d’oc. Le Benedizioni presentano in-

somma gli stessi tratti linguistici caratteristici del nostro componimento,

che potremo grosso modo trattare come sedimentazione stratigrafi ca di

tratti propri della zona occidentale della Francia, fra Angoumois, Limo-

sino e Guascogna.

In conclusione, possiamo affermare che l’aggettivo atra potrebbe es-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 265

sere un latinismo apparente, la cui funzione stilistica sarà stata, anche in

questo caso, quella di rimarcare la barbarolessi: la struttura del verso ri-

chiede infatti che atra vada riferito a sol, che nell’occitanico sta sia per

‘sole’, sia per ‘suolo’ e che quindi un aggettivo femminile o neutro plu-

rale del latino sia trattato come maschile nel contesto che ci interessa: un

barbarismo evidentemente reso possibile dal contesto linguistico e cultu-

rale al quale si è voluto far riferimento col refrain. È possibile che questo

elemento, congiunto all’uso transitivo di umet, non sia casuale, ma rientri

in un progetto culturale ben preciso, con ben precise fi nalità stilistiche e

registrali.

Abbiamo qui due sensi possibili. Nel primo caso il senso sarebbe: ‘Il

mare bagna la terra oscura’ cioè non ancora rischiarata dal sole. A riscon-

tro si può addurre l’inno di AH 2m, 32: “Nox atra rerum contegit / Terrae

colores omnium, / Nos confi tentes poscimus / Te, juste judex cordium”.

Oppure questo notissimo inno mattutino tratto dal Cathemerinon di Pru-

denzio (AH 2, 7): “Nox et tenebrae et nubila, / confusa mundi et turbida, /

lux intrat, albescit polus: / Christus venit; discedite. / Caligo terrae scin-

ditur / percussa solis spiculo, / rebusque iam color redit / vultu nitentis

sideris”. Se fosse buona tale interpretazione, infi ne, un intertesto interes-

sante sarebbe il mattutino AH 51, 5 (Die Dominica ad Matutinas Laudes), dove l’Aurora che copre le stelle (come in Phebi claro al v. 12), humectis fl ati-bus, battezza la terra con la rugiada mattutina:

Aurora stellas iam tegitRubrum sustollens gurgitem,Humectis namque fl atibusTerram baptizans roribus.

Il sintagma “atra sol” rinvierebbe così allo stilema, universalmente dif-

fuso, che fa riferimento alla terra nera (o “negra terra”), in contrapposi-

zione alla terra bianca, che, come vedremo meglio più avanti, dà origine

ad un toponimo proprio in Guascogna.

Anche se non impossibile, più onerosa è la seconda lettura, con atra

riferito a sol nel senso di ‘sole’. La sola attestazione coeva a me nota, in cui

il sole-Febo è avvicinato all’obscuritas marcata con l’aggettivo ater, peraltro

riferito al diavolo, è quella che troviamo in un Calendario inglese (British

Library, Cotton Julius A vi), databile alla prima metà dell’XI secolo: “15 kl

[MAR] Pisciculis Phoebus reclusus Zabulus ater. Sol in Pisce” (Temple

1976:62).

Certo, non è irrilevante notare: 1. che l’immagine del sole oscurato è

evangelica (Matt 24, 29: “statim autem post tribulationem dierum illorum

sol obscurabitur et luna non dabit lumen suum et stellae cadent de caelo” e

cf. anche Marc 13, 24–25; Apoc 6, 12); 2. che, ovviamente, si ritrova in vari

inni coevi al nostro; 3. che il sole nero è una delle più importanti icone

del sistema alchemico occidentale, oltre che della psicologia junghiana

(Marlan 2005); 4. che l’immagine del sole-Febo bagnato si trova nel De ae-

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266 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

tatibus mundi et hominis attribuita a Fulgenzio: “Perdit ignis naturam in im-

brem migratus, desudat humectus in radiis Febus, et ut divinitas impravit,

fl amma etiam pluere didicit atque in suis incendiis guttas habere se repen-

tina expavit” (Helm 1898:178). Pur tuttavia, in mancanza di più specifi ci

appigli scritturali, questi riscontri non sembrano ancora suffi cienti per av-

valorare una lettura in cui il sole scuro sia compatibile con la situazione

aurorale rappresentata nel refrain del nostro inno.

Poypas. Se è necessario considerare il refrain per blocchi sintattici

verso/frase e quindi privo di enjambement, uno dei problemi principali per

l’interpretazione del secondo verso è quello di comprendere cosa si celi

dietro la serie grafi ca Poypas e, di conseguenza, di determinare il soggetto

della frase. L’ipotesi che ci sembra più probabile è che l’unità grafi ca non

debba essere scomposta e che il lemma vada in qualche modo riconnesso

a poypia che troviamo variamente attestato in numerosi documenti medio-

latini (Du Cange, s.v.) e all’ugualmente attestato poype (o poëpe) del fran-

cese e del francoprovenzale (Gorra 1912; Lazzerini 1979; Lazzerini 1985).

Si tratta di un sinonimo di mota, “una specie di collinetta artifi ciale sulla

cui cima era edifi cata una casa quadrata, in origine di legno, con due o

tre piani, che poteva anche avere una torre. Intorno al colle si scavava un

fossato, e a una certa distanza si erigeva tutto all’intorno una palizzata,

che era alla sua volta circondata all’esterno da un altro fossato; e all’in-

giro interiormente poteva esser difesa da torri. Era questa costruzione,

del secolo nono, una forma assai primitiva di castello fortifi cato, che nella

storia dell’architettura ha grande importanza, perché da essa derivarono

poi i poderosi castelli cinti di mura del medio evo” (Gorra 1912:173). Il

lemma comporta un’evoluzione semantica analoga a quella di molti altri

toponimi, per cui il nome della ‘mammella’ (nel caso specifi co puppia)

viene attribuito ai rilievi naturali aventi forma sinusoide e quindi ai tu-

muli artifi ciali e naturali; di qui il termine viene utilizzato anche per si-

gnifi care, per traslato, ciò che sopra questi tumuli è edifi cato, in genere

fortifi cazioni, ma anche villaggi o accampamenti.

Questi rudimentali castelli erano generalmente denominati motte nel nord e nord-ovest della Francia e poypia nel Delfi nato, nella Bresse,

nella Dombes. Le poypias erano costruite in zona pianeggiante ed erano

interamente artifi ciali, distinguendosi così dalle mottes semiartifi ciali delle

regioni collinose e dai “reliefs aménagés” delle zone di montagna. Tutte

queste forme di fortifi cazione avevano in genere forma conica ed erano

dotate di una piattaforma adiacente, la bassa corte, con piano ellittico,

dove erano accolti i contadini e il bestiame del signore in caso di attacco.

Fortifi cazione e bassa corte erano protette da fossati (talora raddoppiati)

e in alcuni casi anche da rinforzi di terra e altri materiali provenienti

dai fossati. L’edifi cazione necessitava di un enorme lavoro, per la costru-

zione sia del tumulo principale, sia delle strutture annesse, bassa corte e

rinforzi.

Le poypas propriamente dette servivano soprattutto da posto di sicu-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 267

rezza e di sorveglianza. Si trattava cioè con ogni probabilità di luoghi in

cui, in origine, si collocavano vedette o sentinelle per prevenire l’arrivo

dei nemici e avvertire i difensori del forte: tutti i tumuli identifi cati con

questo nome o con nomi analoghi, infatti, sono sormontati da torri d’av-

vistamento. In numerosi atti, databili dal X al XIII secolo, che trattano

di scambi, acquisti e vendite di terreni e di feudi si specifi ca che si vende

tale e tale castello con la sua poypia. Secondo Jolibois (1846:133–134): “La

Bresse et la Dombes présentent un terrain plat et légérement ondulé. Au

moyen-âge, il était couvert de taillis et d’epaisses forêts; dans ces guerres

particulières de seigneur à seigneur qu’entretenait le régime féodale, l’en-

nemi pouvait, à l’abri des bois touffus, s’approcher des murs des châteaux

et les surprendre; il fallait donc près de chacun un lieu élevé d’où quelque

sentinelle pût donner du cor et avertir de l’approche de l’ennemi. Au lieu

que les autres provinces offrant un terrain moins plat et plus montagneux,

chaque seigneur pouvait placer son château au haut des collines ou sur la

pointe des rochers. Delà ou pouvait découvrir au loin l’arrivée de l’ennemi

et préparer sa defense”.

Il termine poypa (con le sue varianti grafi che e linguistiche) ben dif-

fuso nella piana alluvionale della regione Lionese, nell’Ain e nell’Isère,

insomma nel Delfi nato nella Bresse e nella Dombes, non è sconosciuto in

ambito occitanico e guascone. In particolare La Popie è un “mamelon ar-

rondi à l’O. de l’église de Saint Circ-La Popie, Lot, sur lequel sont les ruines

d’un chateau du XIIIe siècle” (Nègre 1990–1998, 2 = 1991, 1192 [22269]).

Il nome di “Guillelma de la Popia, mater Poncii de la Popia” compare in

alcuni documenti localizzabili nel Tarn, e numerosi altri personaggi pro-

venienti da Saint-Circ-La Popie “sur le Lot, à l’est de Cahors, localité qui

[. . .] s’impose comme indiscutable quand on lit que l’act a été dressé à

Calvignac, bourg très voisin de la Popie” (Amargier 1979:30–31). Secondo

Nègre (ibid.) “on dit [lò pò:pyo] = occ. pòpia ‘espece de fourgon pour ti-

sonner le feu (Tarn)’, dont le sens premier doit être celui du dérivé popel ‘mamelon, tetin’”. Ugualmente, con il nome La Popio (var. in La Paupio e

La Popeia) è designato in numerosi documenti un “chateau en ruines sur

une butte naturelle, com. Saint Avit Sénieur, Dordogne” (ibid. [22270]). In-

fi ne ritroviamo il toponimo Poupas in Tarn et Garonne (ibid. [22271]: “anc.

motte féodale sur un couteau; = prob. gasc. poupe ‘mamele’ + suff. augm.

-as ‘gros mamelon’”). Nel complesso, è chiaro che il medesimo termine,

usato per designare l’esatto equivalente della poypia di ambito francopro-

venzale, si riscontra nel Lot, nel Tarn, nel Tarn-et- Garonne e in Dordogne,

cioè in un’area molto compatta fra Ducato di Guascogna e d’Aquitania

(oggi Aquitania e Midi-Pyrenées). In particolare, Saint-Avit-Sénieur è un

comune situato nel sud del Dipartimento della Dordogne (nell’arrondisse-ment di Bergerac) nella regione dell’Aquitania. Ancora oggi si distingue

per la presenza di una grande chiesa della fi ne del sec. XI, parzialmente

fortifi cata, costeggiata dalle vestigia di un’abbazia di canonici regolari di

Sant’Agostino, edifi cata in onore di Sant’Avito. Situato in prossimità della

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268 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

valle della Couze, all’estremità di un altopiano, delimitato da due vallate

secche, sul cammino per Santiago de Compostela che parte da Vézelay,

il borgo è collocato su un sito che offriva facilità difensive sia ad ovest

sia a sud. In altri tempi il luogo, limitrofo all’abbazia cisterciense di Ca-

douin, era denominato “mont Dauriac”. Alla fi ne dell’XI secolo in questo

sito viveva una piccolissima comunità monastica custode della tomba di

Sant’Avito (Dubourg-Noves 1979). Ancor più interessante il caso di Pou-

pas, per via della brevissima distanza (meno di quaranta chilometri) che

lo separa dal monastero benedettino di Moissac, notissimo e importantis-

simo centro associato a Cluny dall’abate Odilone, tappa per il cammino

per Santiago de Compostela e fl orido centro di alta produzione innolo-

gica (Fraisse 2006).

Nel complesso, possiamo quindi dire che il termine poypa individua

bene le prime modalità di fortifi cazione e che può essere preso come

lemma comprensibile da un’ampia comunità linguistica, dalla Guasco-

gna all’Occitania, dalla Borgogna alla Savoia e al Delfi nato. Per ciò che

riguarda il signifi cato del termine presente nel nostro testo, è diffi cile sta-

bilire esattamente a quale stadio dell’evoluzione semantica ci troviamo: le

attestazioni che indicano in poypia una fortifi cazione già ben strutturata

sono tutte del tardo XIII secolo. Se è vero che questo termine “fi nisce a

un certo punto per identifi carsi con la fortezza cui serviva ordinariamente

di base” (Lazzerini 1985:26) e che non è casuale “l’analoga evoluzione di

podium, che nel latino medievale assume anche il signifi cato di ‘domus ru-

stica, curtis, praedium rusticum, castrum, castellum; maxime de iis quae

supra podium seu collem extructa sunt’” (Lazzerini 1985:153), nulla ci as-

sicura che nell’epoca in cui fu composta l’alba con il termine poypa si desi-

gnasse la fortifi cazione nel suo complesso e non semplicemente il tumulo,

turrifi cato o meno, che serviva da posto di osservazione.

Dal punto di vista grammaticale poypas può essere sia un femm. pl. da

poypa, sia l’esito occitanico di poypanus, cioè colui che abita, più o meno

temporaneamente, la poypa, termine in parte analogo a castelas < castel-

lanus (‘colui che abita il castello’). In questo secondo caso, l’area di loca-

lizzazione del nostro testo sarebbe ristretta, ancora una volta, all’occitania

propriamente detta e alla Guascogna, dove abbiamo tracce precocissime

e diffusissime della caduta di -n mobile. In Guascogna, in particolare, n fi -

nale (in posizione intervocalica) accorda con l’-n detta instabile dell’antico

occitanico e può scomparire del tutto in Béarn e in Bigorre, mentre in al-

tre zone resta nasalizzata la vocale fi nale (Rohlfs 1977:158). In ogni caso, il

termine va inteso come caso retto (nominativo o vocativo a seconda delle

interpretazioni: cf. infra).

Dal punto di vista dell’interpretazione allegorica, la poypa, collina

preposta all’avvistamento, sarà fi gura del monte Sion, il mons speculato-rius per eccellenza, allegoria della chiesa, fi n da Sant’Agostino, che ne

chiarisce esaurientemente il senso nelle Enarrationes in Psalmos (PL 37,

col. 1307):

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L’alba di Fleury da un’altra specola 269

Ut annuntietur in Sion nomen Domini. Primo enim premebatur Ecclesia, quando mortifi cabantur compediti: post illas pressuras annuntiatur in Sion nomen Domini, cum magna libertate, in ipsa Ecclesia. Ipsa enim Sion: non ille unus locus primo superbus, postea captivatus; sed Sion cujus umbra erat illa Sion, quae interpretatur Speculatio; propterea quia in carne positi vide-mus in priora, extendentes nos non ad praesens quod est, sed ad id quod fu-turum est. Ideo speculatio. Omnis enim speculator longe prospicit. Specula dicitur, ubi ponuntur custodes: fi unt istae speculae in saxis, in montibus, in arboribus, ad hoc ut de loco eminentiore longe videatur. Sion ergo specula-tio, Ecclesia speculatio. Unde speculatio? Longe videre, hoc est speculatio.

San Girolamo, nel passo delle Enarrationes a commento del versetto

Mons Sion, latera aquilonis, civitas regis magni, collega il monte Sion, allego-

ria della Chiesa da cui si osserva l’Eterno e si riconosce la Gloria di Cristo,

col diabolico vento Aquilone:

Aquilonis intelligibilis gravis est fl atus, qui prius tempestates asperrimas et procellas humanis movebat affectibus: coepit suos amittere, qui vexabat alienos. Gentem omnem everterat Judaeorum, nationes omnes suo revinctas tenebat imperio, ipsius erant latera; hoc est, aspirabant cum eo. Sicut enim principis latera dicimus stipatores ejus et comites, et sicut mulier latus est viri, eo quod morigera ei societate jungatur; ita latera erant diaboli, qui faciebant ipsius voluntatem. Ii ergo nunc sunt mons Sion, qui Deum speculantur aeter-num, et ipsi noctibus et diebus intendunt. Vide mihi Paulum cum perseque-retur Ecclesiam Domini, latus aquilonis fuisse: vide nunc cum legitur in Ec-clesia, montem esse speculatorium, per quem Christi gloriam cognoscimus, et videmus. (PL 14, coll. 1147–1148)

Lo stesso San Girolamo, nella Translatio homiliarum nove in visiones Isa-iae Origenis Adamantii, ci fornisce un indizio per comprendere la ragione

per cui l’abitante della poypa possa essere menzionato nel nostro testo

(PL 24, col. 929):

Habet autem ita: Et erunt signa et prodigia a Israel in Domino Sabaoth, qui habitat in monte Sion. Qui enim habitat in speculatorio, et in omni anima po-test conspicere veritatem, iste facit signa et prodigia per Salvatorem, et post Salvatorem per Apostolos, et ubicumque invenitur anima apta ministerio si-gnorum et prodigiorum Dei, sive juxta spiritalem curationem, sive sensibili-ter exhortando eos, qui veniunt ad fi dem, non est otiosus Deus, qui tunc fecit signa et prodigia, etiam nunc operari ea.

Chi abita nel Monte Sion, cioè il monte speculatorio, allegoria della

Chiesa (vulgariter: il poypas), può scrutare ogni anima e comprendere

quelle che sono più vicine al Signore. Si noti la perfetta congruenza di

questo riscontro con quanto scrive Amalario di Metz nel capitolo 76 (De responsoriis prophetarum) del De ordine antiphonarii circa i responsori da can-

tare nel mese di Novembre, quando si può supporre con buona verosimi-

glianza che l’inno dovesse essere cantato (cf. supra e infra):

In Novembri mense juxta morem Romanae Ecclesiae, in prima hebdo-mada cantamus responsorios de psalmis, in tribus sequentibus de prophetis. Non requiratur in prophetis ordo historiae: nec enim mos est prophetarum,

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270 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

ut ordinem historiarum sequantur: sed tactum Spiritus sancti, qui ubicun-que vult, spirat, et cum vocem ejus audieris, nescis unde veniat et quo vadat. Isti enim responsorii vice diversorum missorum, Spiritus sancti praemittun-tur ante adventum Christi. In nullis libris Veteris Testamenti toties reperitur admonitio Spiritus sancti ad populum, ut convertatur ad Deum, quoties in prophetis. Et ideo quia in proximo est, ut veniat salus mundi, id est in mense Decembri, ut eadem admonitio in Novembri mense frequenter celebretur, necesse est. Adveniente tempore, quod nominatur Adventus Domini, ea quae lucidius narrant de Christi nativitate leguntur et cantantur. Nemo prophe-tarum tam lucide et aperte prophetat de Christi nativitate, quantum Isaias. Propterea ipse legitur in adventu Domini. Quem statum sequuntur et respon-sorii, qui evidentissime reboant de nativitate Christi. Omnes prophetae de Christo prophetaverunt: idcirco in Novembri mense et eorum libri leguntur, et de ipsis sumpti sunt responsorii. (PL 105, coll. 1311–1312)

Il Poypas, ‘qui habitat in monte speculatorio’, allegoria del Monte Sion,

se visto nella chiave profetica di Isaia, è quindi fi gura centrale dell’Avvento

di Cristo: egli, oltre ad esortare i fedeli e a metterli in guardia contro le

tenebre del peccato ancora pervasive, riesce a vedere da lungi l’arrivo del

Salvatore. Particolarmente signifi cativo, infi ne, è il passo dell’Expositio in Psalmos di Brunone d’Asti che abbiamo già citato in quanto richiama an-

che letteralmente la seconda strofa dell’Alba: “Id ipsum signifi cat et mons

Sion, qui speculatio interpretatur. Boni speculatores, qui assidue vigilant,

ne quasi incauti ab hostibus capiantur”.

abigil. Per ciò che riguarda abigil si possono individuare due letture

che rispetterebbero, oltre che la serie grafi ca così come è tràdita, anche

l’unità di scrittura, fornendo nel contempo un senso del tutto armonico

con il contesto delle strofe latine e con la funzione esortativa che abbiamo

individuato come fondamentale negli altri refrain dell’innologia. Le due

letture, peraltro, si accordano con la duplice interpretazione prosodica

che abbiamo dato del secondo verso del refrain nel paragrafo 3.2.

Lettura 1. abigil è il congiuntivo presente, con valore esortativo, di un

ipotetico *avigilar, derivato dal latino advigilare ‘vigilare, far la guardia,

stare attento’, verbo tecnico perfettamente applicabile al ministerio dello

speculator / preco. Da un punto di vista linguistico c’è da dire che l’esito

occitanico sarebbe avelhar e che avremmo qui a che fare con una forma

intermedia fra latino e romanzo: si tratterebbe, in tal caso, di un ulteriore

uso idiolettico, proprio dello specifi co ambito monastico cui l’inno era in-

dirizzato. Del resto, non è da tacere che i due fenomeni linguistici che

distinguono il lemma attestato nel refrain dall’esito normale occitanico

si ritrovano entrambi nella Passione di Augsburg (X sec.). La mancata ca-

duta dell’intertonica trova riscontro in apenderaunt (v. 3 e v. 6), dove l’esito

normale sarebbe apendran (Hilty 1995:32) e in bat[e]raunt al v. 1 (l’inte-

grazione è in Lazzerini 1995:14). La i al posto della richiesta e chiusa si

incontra nel lemma acid del v. 4, dove l’occitanico vorrebbe aced (la le-

zione ab l’acid è ripristinata da Lazzerini 1995:14–15, nota 11 sulla base

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L’alba di Fleury da un’altra specola 271

della serie grafi ca oblaeid: secondo l’autrice, non si tratta “necessariamente

di un oitanismo, ma forse un rifl esso della scripta merovingica, come in

altri testi volgari arcaici, a cominciare dai Giuramenti di Strasburgo [dift < debet]”). La conservazione della postonica è inoltre in tomida nelle Be-

nedizioni di Clermont- Ferrand, dove l’esito normale occitanico sarebbe

tomda (Hilty 1995).

Particolarmente interessante è l’utilizzo di b per v che fa pensare a

un guasconismo o a un iberismo, magari proprio dell’ambiente monastico

mozarabico (Díaz y Díaz 1959, 1965), dell’autore o del copista. Infatti biso-

gna considerare che nella penisola iberica, in tutta l’area pirenaica e nella

Guascogna la confusione fra i suoni b e v era generalizzata sia in posizione

intervocalica sia in posizione iniziale già nel latino volgare d’epoca im-

periale e che quindi la differenza fra b e v in Guascone come nei dialetti

iberoromanzi e mozarabi di fatto scompare, dando luogo a confusione

grafi ca (Luchaire 1879:203; Baldinger 1962; Rohlfs 1977:128; Galmés

de Fuentes 1994:59). Peraltro, questa particolare pronuncia e la relativa

grafi a non è limitata alla Guascogna, ma si estende fi no all’Alvergna e al

Languedoc, anche se il suo vero centro è indiscutibilmente la Guascogna

(Ronjat 1932, vol. 2:2, 6). Già Rajna (1887:77) annotava che “in una vasta

regione provenzale, la quale abbraccia tutto il territorio sud-ovest, esten-

dendosi nientemeno che da Beziers a Bajona, da Montalbano ai Pirenei, il

v latino suona b”. Non è certo un caso che il betacismo sia rappresentato

grafi camente nella strofa guascone del discordo plurilingue di Raimbaut

de Vaqueiras BdT 392,4 (bos per vos e boste per vostre) e che in alcuni casi è

sospettabile persino in Marcabruno (Tavani 1986; Bec 1987; Conte 2003).

Si noti che questo dato linguistico, che ci porta verso la Guascogna, risulta

perfettamente congruente e anzi corrobora quanto abbiamo sostenuto in

proposito di atra e di poypas.Per ciò che riguarda la pertinenza con le strofe latine, abbiamo già

notato che la funzione dello speculator è la vigilanza. Del resto, la maggior

parte degli studiosi che hanno scritto sul refrain di Phebi claro, pur scio-

gliendo differentemente, hanno intravisto nella serie grafi ca abigil il lemma

latino vigil, interpretato appunto come ‘scolta’ (da ultimo Kaps 2005).

Sant’Ambrogio nell’Hexaemeron parla del “pervigil speculator” che sal-

vaguarda le mura della città dagli attacchi del Nemico (PL 14, col. 262) e

nelle Enarrationes in XII psalmos dice che i “Boni fi li Core” sono “pervigiles

specula mentis intenti” (PL 14, col. 1145).

Nel De confl ictu duorum ducum et animarum mirabili revelatione del mo-

naco Raniero di San Lorenzo leodiense i custodes delle fortifi cazioni, posti

nelle specole, hanno la funzione di vigilare (advigilabant) sull’accampa-

mento (PL 204, col. 83): “Castris interea custodes advigilabant, / In spe-

culis positi lustrabant omnia visu, / Prospectumque soli longe lateque pe-

tebant, / Cum procul adventare aciem cernunt numerosam”. Del resto,

il verbo advigilare, da cui si suppone possa dipendere abigil non è assente

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nell’innologia del X secolo. In un tropario del X secolo leggiamo l’inno

AH 34, 240 (De sancto Georgio): “Sancte Georgi, te / poscimus, quaerimus /

ac pulsamus, / nostris precibus / advigilare digneris”.

Si aggiunga che l’esortazione alla veglia, come ha notato Schläger

(1895) con vigilare o evigilare è scritturale: 1 Cor 15 34 “Evigilate, justi, et

nolite peccare”; Marc 13 33 “Videte, vigilate, et orate”, Marc 13 35–37 “Vi-

gilate ergo, quia nescitis, qua hora Dominus vester venturus sit. Illud au-

tem scitote, quoniam si sciret pater familias qua hora fur venturus esset,

vigilaret utique, et non sineret perfodi domum suam”; Luc 12 37 “Beati

servi illi, quos cum venerit dominus, invenerit vigilantes”.

Il congiuntivo esortativo è usato nell’inno attribuito a San Gregorio

Magno (AH 51, 24): “Nocte surgentes vigilemus omnes, / semper in psal-

mis meditemur atque / viribus totis Domino canamus // dulciter hymnos”.

Lo stesso Gregorio (Dialogorum libri quattuor III, 20, PL 77, col. 272) insi-

ste sul medesimo concetto, con parole richiamate nel testo latino di Phebi claro: “Laboriosum est valde atque terribile contra inimici insidias semper

intendere, et continue quasi in acie stare! Laboriosum non erit, si custo-

diam nostram non nobis sed gratiae supernae tribuimus, ita tamen ut et

ipsi, quantum possumus, sub eius protectionem vigilemus”.

Nel sermone De duabus civitatibus dei et diaboli di Ildeberto di Lavardin

la Gerusalemme celeste è così descritta (PL 171, coll. 864–865):

Nunquam est ibi nox, sed semper dies. Ait enim Joannes: Non erit in ea nox (Apoc. 21, 25) sed semper sunt ibi vigiles speculatores, de quibus Ecclesia in Canticis: Invenerunt me vigiles, qui custodiunt civitatem (Cant. 3, 3). Ipse etiam Dominus facit civitatem, et facit excubias, quia: Nisi Dominus custodierit civita-tem, frustra vigilat qui custodit eam (Psal. 126, 2). [. . .] Sunt ibi assidui praecones, qui eos sibi providere assidue hortantur. [. . .] Ipsa civitas est Ecclesia; [. . .] Non est ibi nox infi delitatis, de qua ait Apostolus: Nox praecessit, dies autem appropinquavit (Rom. 13, 12). Vigiles sunt episcopi, sacerdotes, et alii praelati, qui circa oves Domini vigilant. Praecones sunt praedicatores, quibus dicitur: Clama, ne cesses, quasi tuba exalta vocem tuam, et annuntia populo meo scelera eorum (Psal. 58, 1).

Tale interpretazione allegorica risulta ancor più chiara nel sermone

De custodibus Jerusalem civitatis sanctae, attribuita ad Ugo da San Vittore, a

commento di Isai. 62 (PL 177, coll. 1003 e 1006):

Super muros tuos, Jerusalem, constitui custodes; tota die et nocte in perpetuum non tacebunt. Qui reminiscimini Domini, ne taceatis, et ne detis silentium ei, donec stabiliat, et donec ponat Jerusalem laudem in terra (Isai. 62). Jerusalem civitas san-cta et civitas sancti, sancta Ecclesia est, cujus rex ei peregre profi ciens prae-posuit custodes ac speculatores, qui eam die ac nocte custodiant, et a malo defendant. Sunt ergo diversae speculae et diversi speculatores, imo specula-torum ordines, qui in diversis locis sanctae civitatis praesideant, hostes ar-ceant, cives custodiant. [. . .] Debent ergo sancti speculatores in alto sedere per spiritualem conversationem, vigilare per circumspectionem, circuire per sollicitudinem, tubis clangere per praedicationem, fi stulas infl are per conso-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 273

lationem, citharizare per bonam operationem, cantare per gratiarum actio-nem. Et haec omnia facere debent die et nocte, id est in prosperis et adversis. Unde et ipse Isaias, cujus haec verba quae praeposuimus, de seipso dixit: Su-per speculam Domini ego sum jugiter per diem, et super custodiam meam ego sum stans totis noctibus. Donec, inquit, stabiliat et donec ponat Jerusalem laudem in terram (Isai. 21)

Il verbo evigilare, che come si è visto è presente nelle Scritture in

forma imperativa, non è assente nell’innologia. Nell’inno AH 25, 44 (De sancta Barbara), del X secolo, lo troviamo nell’invitatorio Ad Matutinum: “Virgineae prolis / ad laudes evigilemus / Et veri solis / ortum iubilis re-

sonemus”. Nell’Hymnus Mediae Noctis AH 27, 79, tràdito da codici coevi al

nostro si legge:

Iesu, defensor omniumProtector et mirabilis,Suetum noctis advenit,Et nos sopore deditiIn tuo sancto nomine,Qui custos et defensor es,Evigilemus spiritu,Ut mereamur lampades;Cantores tuos, Domine,Quos iubes nocte surgereAd invocandum nomen tuum,Quod nobis est laudabile.Quem omnis terra metuitPro tanta magnitudine,Sequamur in tua laude,Quod pie, sancte, praecipis.Hymnorum cantus resonetDe corde te credentium,Sequamur cuncti gaudiiPromissa sancti spiritus.Clamor in nocte factus est,Iesus ingressus ianuisEvigilantes provocatIntrare sancta regia.

Fra gli inni riconducibili all’XI secolo troviamo l’occorrenza di evigilet an-

cora in AH 7, 71 (In Resurrectione DN.): “Eoa lux / occurrat octava, / quae

est et prima, / evigilet, / qui dormierat / et potum mortis biberat, / det

tristi mundo gaudia, / qui ejus tulit peccata”.

Interrogandosi sul senso del canto delle scolte modenesi, Roncaglia

(1948:31) si domandava: “Non è del resto lo stesso termine di vigilia una

metafora tolta dal linguaggio militare, e ricalcata sull’uso militare romano

la divisione della notte in tre vigiliae e connesso il tutto alla concezione

della vita come continua battaglia e militia Christi?”. Amalario di Metz,

nel De Ordine Antiphonarii, trattando De numero lectionum et responsoriorum suprascriptarum noctium ci chiarisce, oltre al senso e all’origine militare

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e scritturale delle vigilie notturne, anche la funzione che aveva l’esorta-

zione rivolta al popolo di Cristo tramite il responsorio a partecipare alle

vigiliae:

Addiscimus ex vigiliis militaribus, ad quid instruamur ex tribus lectio-nibus et responsoriis. Dicit sanctus Ambrosius: Imitare milites istius saeculi, et te militem esse Christi existima. Armiductores constituerunt in militia sua dormientibus militibus castra tueri per tres vigilias in nocte. Quarta autem est in matutinali tempore, quando nos matutinos cantamus. In memoratis tribus vigiliis vigiles constituti sunt, qui custodiunt militum dormientium corpora, et supellectilem eorum. In militia saeculari vicissim dormiunt milites, et vi-cissim vigilant. In Christianorum vero militia dictum est in Evangelio Marci: Quod autem vobis dico, omnibus dico, Vigilate. Tres lectiones et tres responsorii per quotidianas noctes insinuant sanctae plebi, clerum Ecclesiae Dei ad hoc esse intentum ut admoneat per lectionem, hoc est, suam doctrinam et per responsorium, hoc est, clamorem non parvum mentis praedicando et exhor-tando populum Dei ad vigilias, si Dominus domus repente venerit, sero an media nocte, an galli cantu, an mane, ne inveniat eum dormientem. Si enim venerit Dominus domus secundum Lucam, in secunda vigilia, et si in tertia vigilia venerit, et pulsanti confestim aperitur, beati sunt servi illi. Haec est intentio cleri Dei, ut si quis gravi somno addictus, in prima vigilia negligens exstiterit, in secunda vigilia solerti cura exspectet Dominum revertentem a nuptiis: Quod si etiam in secunda vigilia negligens exstiterit, saltem in tertia vigilans inveniatur. Notandum est, quod unaquaeque anima fi delis quacun-que die exuta fuerit corpore, septimam sabbati recipit, et resurrectio sancto-rum corporum octavam diem exspectat: ita quaecunque anima evigilaverit a gravi somno negligentiae per curam ecclesiasticam, sive in prima vigilia, sive in secunda, sive in tertia, statim attingit matutinum tempus in quarta vigi-lia. Ut reor, sancta Romana Ecclesia hoc speciatim nobis insinuat per suam consuetudinem. Ipsa enim quotocunque ordine vel numero lectionum viderit maturam procedere, ut audivi, dimittit nocturnale offi cium, et incipit matu-tinale, periculosum est enim transgredi terminos patrum, hoc est, nisi aut in maturitate, juxta auctoritatem prophetae David surgamus, aut juxta consue-tudinem nostrae fragilitatis, in gallicinio. (PL 105, coll. 1251–1252)

Nel medesimo testo Amalario di Metz spiega che la vigilia con l’invi-

tatorio rivolto al popolo, giusta il precetto scritturale, va fatta solamente

a mezzanotte, e non durante la prima vigilia, riservata esclusivamente ai

chierici (col. 1306):

Primam [vigiliam] solet apostolicus facere in initio noctis, quae fi t sine invitatorio, quoniam ea hora non invitatur populus ad vigilias. Populus enim invitatur ad vigilias ea hora noctis de qua dicebat David propheta: Praeveni in maturitate, et clamavi. Si quis vult discere quae sit illa hora, legat sanctum Augustinum super psalmum decimum octavum, invenietque ibi maturitatem esse positam pro media nocte. Ea hora ingreditur clerus et populus ad secun-dam vigiliam, et cantatur invitatorium.

Queste parole sembrano quindi escludere che l’esortazione alla veglia

mattutinale ad galli cantum possa essere diretta al popolo: si tratta piutto-

sto di una prassi tutta interna al clero e agli ordini monastici. Un passo

di Gregorio Magno nell’Expositio in Librum B. Job (VI, XIII, 3) è invece

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L’alba di Fleury da un’altra specola 275

fondamentale per comprendere il senso del rapporto fra testo latino e re-frain. In esso infatti si chiarisce come sia necessario che colui che chiama

i dormienti alla veglia vigili innanzitutto su se stesso e che, per fugare le

tenebre del peccato, egli sia nello stato della più pura perfezione (PL 76,

col. 532):

Qui alios ex offi cio adhortantur, prius se in bonis operibus exerceant. Est adhuc aliud in gallo solerter intuendum, quia cum jam edere cantus parat, prius alas excutit, et semetipsum feriens, vigilantiorem reddit. Quod patenter cer-nimus, si sanctorum praedicatorum vitam vigilanter videamus. Ipsi quippe cum verba praedicationis movent, prius se in sanctis actionibus exercent, ne in semetipsis torpentes opere, alios excitent voce; sed ante se per sublimia facta excutiunt, et tunc ad bene agendum alios sollicitos reddunt. Prius co-gitationum alis semetipsos feriunt, quia quidquid in se inutiliter torpet, sol-licita investigatione deprehendunt, districta animadversione corrigunt. Prius sua punire fl etibus curant, et tunc quae aliorum sunt punienda denuntiant. Prius ergo alis insonant quam cantus emittant, quia antequam verba exhorta-tionis proferant omne quod locuturi sunt operibus clamant; et cum perfecte in semetipsis vigilant, tunc dormientes alios ad vigilias vocant.

Ut recte suo munere defungantur praedicatores et doctores, habent a Deo. Sed unde tanta haec doctori intelligentia, ut et sibi perfecte vigilet, et dormien-tes ad vigilias sub quibusdam clamoris provectibus vocet, ut et peccatorum tenebras prius caute discutiat, et discrete postmodum lucem praedicationis ostendat, ut singulis juxta modum et tempora congruat, et simul omnibus quae illos sequantur ostendat?

Dunque, l’abate che chiama alla veglia ed esorta i monaci a fuggire

dalle tenebre del peccato, dovrà essere egli stesso nella condizione della

più completa perfezione e vigilare, in primis sulle proprie azioni. Questi

riscontri, nei quali si esorta (exortare, invitare, vocare) alla veglia liturgica

(ad vigilias), aprono la strada alla seconda interpretazione.

Lettura 2. abigil è un’esortazione diretta alla veglia, analoga, quanto a

senso e a costrutto, al nostro all’armi o all’erta e coincidente nella sostanza

col grido registrato nel canto delle scolte modenesi (Roncaglia 1948:7–8),

dove ritroviamo in effetti tutta una serie di elementi testuali coincidenti

con varie peculiarità del nostro inno:

O tu qui servas armis ista moenia,noli dormire, moneo, sed vigila.[. . .]Nos adoremus caelsa Christi numina:Illi canora demus nostra iubila,Illius magna fi si sub custodiaHaec vigilantes iubilemus carmina:“Divina mundi rex Christe custodia,sub tua serva haec castra vigilia”[. . .]Te vigilante nulla nocet fortia,Qui cuncta iugas procul arma bellica.[. . .]

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Fortis iuventus, virtus audax bellicaVestra per muros audiantur carmina,Et sit in armis alterna vigilia,Ne fraus hostilis haec invadat moenia.Resultet haecco comes: “eia, vigila!”Per muros: “eia, dicat haecco, vigila!”.

L’esortazione riecheggiante che le scolte si ripetevano a vicenda lungo

le mura della città è espressa qui con l’imperativo vigila e preceduta dal

noto grido di giubilo e di guerra eia. Era questo il tipico richiamo che le

scolte mettevano in atto per verifi care se il compagno era ancora vigile;

esso doveva essere estremamente diffuso se ancora Gonzalo de Berceo,

in altro tempo e in altro luogo, ne riprende la forma essenziale (Dutton

1975:8–9):

¡Eya, velar! ¡Eya, velar! ¡Eya, velar!Velat, aljama de los judíos,¡eya, velar!,que non vos furten al Fijo de Díos.¡Eya, velar!Ca furtárvoslo querrán,¡eya, velar!,Andrés e Peidro et Johán.[. . .]Don Philipo, Simón e Judas,¡eya, velar!,por furtar buscan ayudas.¡Eya, velar!Si lo quieren acometer,¡eya, velar!,¡oy es día de parescer!¡Eya, velar!¡Eya, velar! ¡Eya, velar! ¡Eya, velar!

Mi sembra qui di estremo interesse il fatto che l’esortazione sia

espressa con l’infi nito, come nell’alba profana BdT 461, 203 dove è però ri-

volta al levare, al sorgere, ma ugualmente gridata dalla scolta (qui gaita):

Quan lo rossinhols escriaab sa par la nueg e·l dia,yeu suy ab ma bell’amiaios la fl or,tro la gaita de la torescria: “drutz, al levar!qu’ieu vey l’alba e·l iorn clar”.

Torneremo su questo dato linguistico nel commentare il lemma se-

guente, miraclar. Qui si noti solamente che il grido delle scolte “eia, vigila!”

può essere metricamente scandito come un doppio trisillabo a cadenza

ossitona (e-i-à // vi-gi-là): anche se trattato come bisillabo nel canto delle

scolte modenesi, la scansione trisillabica di eia è attestata nel conductus

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L’alba di Fleury da un’altra specola 277

sammarzialese Ex Ade vitio (Lazzerini 1979:152; Stevens 1986:61). Il refrain

di Phebi claro, come abbiamo visto, procede in maniera del tutto consona a

questo sistema ritmico, sia nell’andamento trisillabico, sia nella timbricità

della maggior parte dei versi, che presentano, fi n dall’attacco, la termina-

zione in -a (L’alba par, umet mar, Poypas, miraclar, tenebras). Se quest’ipotesi

è vera, allora avremmo a che fare con una perfetta rifunzionalizzazione,

al limite del contrafactum, del grido d’allerta delle scolte che dalla tarda

latinità si protende fi no alla fi ne del Medioevo e forse oltre.

L’esortazione alla veglia si trova, oltre che in negativo nel primo refrain

dello Sponsus (Avalle e Monterosso 1965: “Gaire no.i dormet”), anche nella

forma di un controcanto profano, nelle albe trobadoriche, fi n da Gaita be, gaiteta del chastel, attribuita a Raimbaut de Vaqueiras, (BdT 392, 16a; Bergin

1956:10; Riquer 1975:846): “Gait’, amics, e veilh’e crid’e bray”. Puntuale

il riscontro nell’alba religiosa di Falquet de Romans, BdT 156,15 (Arveil-

ler-Gouiran 1987:13), contenente tutte le esortazioni e tutti gli stilemi pro-

pri di un inno mattutino: “Vers Dieus, el vostre nom e de sancta Maria, /

m’esvelharai hueimais, pus l’estela del dia / ven daus Jerusalem que·ns es-

senha quec dia: / estaitz sus e velhatz, / senhors que Dieus amatz, / que·l

jorns es aprosmatz / e la nuech ten sa via; / e sia·n Dieus lauzatz / per nos

e adoratz / e·l preguem que·ns don patz / a tota nostra via”.

La locuzione Poypas abigil sarebbe qualcosa di molto simile al nostro

Sentinella, all’erta, “Grido di guerra, col quale si chiamavano i soldati sotto

l’armi. Non si usa più che nelle piazze forti, e di notte, per evitare ogni

agguato; viene dalla parte diritta, e si ripete dalla sentinella in questa

maniera: Sentinella, all’erta; e nel caso in cui la sentinella a sinistra non

risponda collo stesso grido, se ne dà immantinente l’avviso concertato”

(Dizionario della lingua italiana [Padova: Tipografi a della Minerva, 1827]). Francesco Guerrazzi ci offre una bella rappresentazione dell’echeggiare

di questi gridi:

“All’erta sto!” —urla una scolta— “All’erta sto!” —risponde un’altra— “All’erta sto!” s’intende ripetere da cento voci a mano a mano digradanti nella lontananza, fi nché per troppo spazio vengono affatto a mancare. Tale è l’uffi cio delle sentinelle ad ogni quarto d’ora che passa. “Ecco —riprende il Baglioni— così gli anni si chiamano passando; così dopo la vita succede la fama, dopo la fama nulla; noi siamo l’eco dell’eco, ombre di sogno”. (Gua-landi 1836:2, 237)

L’esortazione abigil deriva dal lat. ad vigilium, dove vigilium è sino-

nimo di vigilia ed è attestato già in Varrone, nel De lingua Latina 6, 80

“Visenda vigilant, vigilium invident” e nelle Saturae Menippeae 105: “ut eius

consilio potius vigilium adminicularem nostrum”. Tale lemma ha dato

luogo, mediante prefi ssazione, a pervigilium, che, oltre alla veglia notturna

continuativa, indicava la festa sacra primaverile in onore di Venere, rap-

presentata, appunto, nel Pervigilium Veneris, poemetto anonimo peculiar-

mente provvisto di refrain (“Cras amet qui numquam amavit quique amavit

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278 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

cras amen”: cf. Cucchiarelli 2003). Se vigilia in latino poteva avere il senso

concreto di uno specifi co ‘turno di guardia’, vigilium neutro è probabil-

mente più antico e maggiormente diffuso a livello popolare (tanto che Er-

nout e Meillet 1932:s.v., sulla base di vigilium, ipotizzano un antico neutro

collettivo *vigilia ‘le temps de veille’).

Il termine advigilium si ritrova anche, come sinonimo di matutinum e

in forma lessicalizzata, nella Vita Ezonis, una cronaca del X secolo di am-

biente benedettino (Du Cange s.v., ripreso poi in numerosi lessici di set-

tore), anche se qui l’integrazione proposta dall’editore non sembra certa

(AS, Maii 5, col. 54c: “sed semper solennibus, usque quo·integrum decan-

taretur, hymnis et suis (ut solebat) placitis nimium Deo precationibus in-

tentus, fi xus eodem loco permansit”, così commentato: “Interpolator ad integrum: sed non displicet Advigilium, sumptum pro Laudibus, quæ Matu-

tinum seu Vigiliarum Offi cium per tria Nocturna divisum claudunt. Ora-

tio autem Dominica post decantatos singulorum Nocturnorum Psalmos

secreto recitatur, ante cujusque Nocturni Lectiones: quod iis solis nota-

tum volui, qui Sacrorum Ordinum expertes divini Offi cii ritus ignorant”):

si noti, nondimeno, la simmetria fra questo monastico advigilium e il pervi-gilium classico.

Non si può del resto escludere che abigil derivi direttamente dal fre-

quentissimo ad vigiliam o ad vigilias (cf. supra), utilizzato qui in forma

apocopata per ragioni metrico-ritmiche (troncati della fi ne sono normal-

mente gli ordini militari, come, in italiano, “presentat arm”, “fi anc arm”,

“spall arm”, “fronte a sinist”, “fronte a dest”, “fi anc sinist sinist”, “fi anc

dest dest”) o che nasca per simulare il riecheggiamento circolare per le

mura dell’esortazione canonica, vigila!, di cui dice il canto delle scolte

modenesi.

Si tenga presente, infi ne, che la forma bigil per vigilia è ben atte-

stata nell’antico inglese, nello scozzese e nell’irlandese (Lytteil 1877:140;

O’Reilly e O’Donovan 1864:62; Carnie 2008:158; per vigil Ernout e Meillet

1932, s.v.) e che ciò potrebbe essere un interessante indizio della vicinanza

dell’autore ad ambienti anglosassoni (cf. infra). Nel complesso possiamo

quindi formulare più di un’ipotesi plausibile che giustifi chi questa forma

a partire dalla canonica esortazione alla vigilanza che le scolte rivolge-

vano a se stesse o alla popolazione.

miraclar tenebras. Il verbo miraclar va interpretato (con Rajna

1887:78–79) come denominale da miracle, inteso nel senso di ‘donjon’

(LR 4, 239) e con signifi cato identico a quello di mirador ‘Ausichtsturm,

Wachturm’ (SW 5, 284), miranda (FEW 6, 3, 152; Du Cange, s.v.) e mira

(FEW 6, 3, 153). L’equivalenza di miracle e mirador è dimostrata dai tre passi

della Chanson de la Croisade Albigeoise in cui compaiono i due termini:

E aquels del capdolh eisson al miradorAl comte de Monfort mostreron de la torUna senheira negra ab semblan de dolor.(Martin-Chabot 1931–1961:2, 154, lassa 163, vv. 58–60)

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L’alba di Fleury da un’altra specola 279

E cant lo jorns s’esclaira e pren la resplandorS’en es ichitz l’avesques fora al parlador;Cavalier e borzes e li baro ausorI vengon de la vila e van al miradorE l’avesques e l’abas e·l prebost e·l prior(ibid. 2, 226, lassa 175, vv. 5–10)

Aisi s’aparelharon e son aperceubutz,Que guarnirs e combatres lor es jois e salutz;Lo retendirs dels grailes les deport’e desdutzE·l sonetz de las trompas, tro que pareis la lutz.Pero ilh de la vila lor an tals gens tendutzQue·l capdolh e·l miracle son aissi combatutzQue lo fust e la peira e lo ploms n’es fondutz.(ibid. 2, 156, lassa 164, vv. 5–11)

Annota FEW (1967:6, 3, 156, n. 18) “In der endung vielleicht durch

afr. habitacle m. ‘habitation’ beeinfl usst; vgl. mlt. miralium ‘poste frontière

d’observation’ [. . .]. Die erbwörtliche entwicklung dieses wortes dürfte im

ortsnamen Montmirail (Marne und Sarthe) vorliegen, im 12. Jh. als Mons Miraculi bezeugt [. . .] und von Longnon als ‘poste d’observation militaire’

interpretiert”. Nègre (1990–1998, 1991, 2:1125 [21103]) indica inoltre i se-

guenti toponimi del sud della Francia, riconducibili al medesimo etimo e

al medesimo signifi cato: “Mirail, com. la Réole, Gironde; du Miralh, 1276;

= occ. miralh ‘miroir’ (FEW 6, 2, 151b), c.a.d.: ‘objet qui attire les regards

comme un miroir’. Le Miral, com. Poyols, Drôme; campus dou Mirail, 1517”,

cui si aggiungeranno le zone denominate Mirail o Le Mirail presso Borde-

aux, Marcellus, Tolosa, Lantosque, Baumont, e per la Savoia, Méraillet ‘Ha-

meau de la commune de Beaufort’ (Gros 2004:276). In tutti questi casi il

signifi cato dell’etimo proposto va evidentemente corretto: non si tratta di

luoghi “che attirano gli sguardi come uno specchio”, ma di antiche posta-

zioni di guardia. In particolare sul primo, presente nei pressi de La Réole,

torneremo diffusamente nelle conclusioni. Produttivo anche il toponimo

dal femminile *miracula: cf. Nègre (1990–1998, 1991, 2:1125 [21105])

“Mirailhe, com. Coudon, Aude; chateau de Miralhe, 1148, chateau de Montmi-rat, 1185, Montmija, 1781; = occ. miralho, attesté au sens ‘brillante comme

un miroir’ (FEW 6, 2, 152a), qui a dû avoir le même sens que occ. miralh

= ‘miroir, objet attirant les regards comme un miroir’. Miralhes, com. La-

grasse, Aude; de Mirallas, 1119, de Mirallis, 1287”, cui si può aggiungere

A la Miraille, presso Grignols, Gironde. Anche in questi casi il signifi cato

dell’etimo proposto va corretto.

Per ciò che riguarda la storia della semantica di mirari, si consideri

(FEW 6, 2, 155):

mirari lebt in allen romanischen sprachen weiter. Die ursprüngliche bed. ‘sich verwunden’ ist nur in rum. mirà v.r. erhalten. Die andern romanischen sprachen kennen nur die jüngere, ebenfalls lt. bedeutung ‘aufmerksam be-trachten’, so ait. mirare ‘guardare, contemplare’ (13. jh.), kat. sp. pg. mirar ‘re-garder, épier’ und im Galloromanischen [. . .]. In der bed. ‘spiegel’ stehen

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sich die formen auf -atorium und -aculum gegenüber, wobei -atorium im nordfr. schon in vorliterarischer zeit lt. speculum vollständig verdrängt hatte. [. . .] Von einem eigentlichen nebeneinander der beiden typen miralh, mirail, mi-rador, miroir im apr. und afr. kann nur mit ein einschränkungen gesprochen werden, da der eigentliche nordfr. typus nur miroir ist und die vereinzelten -ail-formen ebenso aus dem apr. entlehnt sein können wie etwa ait. miraglio. Umgekehrt könnte apr. mirador wie ait. miradore ‘miroir’ (13. jh. Monaci), mi-raturi (13. jh.) als kommerzielle bezeichnung aus Nordfrankreich erklärt wer-den, da diese ablt. auf -atorium nur in okzitanischen dialekten erhalten ist, die nordfr. einfl uss offen stehen. Zudem ist die in der troubadourlyrik häufi g auf-tretende übertragene bedeutung ‘modèle, example’ nur bei apr. miralh nicht aber bei mirador bekannt

Sempre in accordo con Rajna (1887:79) si noterà, in aggiunta e a con-

ferma di quanto qui sostenuto, il sistema parallelistico che si viene ad in-

staurare fra i derivati di specio /spicio e quelli di miror, nel momento in cui

molti dei secondi sono passati nel latino volgare e nelle lingue galloro-

manze a sostituire i primi:

spec- mir- -ere -ari/-arelatino specere ‘guardare, osservare’ latino mirari ‘meravigliarsi, stupirsi,

ammirare’ mediolatino mirare antico occitanico mirar ‘guardare,

osservare, spiare’ antico francese mirer ‘guardare atten-

tamente, contemplare, ammirare’

-ator -ator——— (v. specul-ator) latino mirator ‘ammiratore’ antico occitanico miraire

‘ammiratore’

-atoriu -atoriu——— (v. specul-atorius) latino volgare miratorius antico occitanico mirador ‘torre di

vedetta, specola’ ‘tournelle placée au sommet du donjon’

-anda -anda——— mediolatino miranda ‘donjon, tour

de guet’ antico occitanico miranda

antico francese mirande ‘donjon, tour de guet’

antico italiano miranda ‘belvedere’ (anche come toponimo)

-abundus -abundus——— (v. specul-abundus) latino mirabundus ‘preso da stupore’

-atio -atio——— (v. specul-atio) latino miratio ‘meraviglia, stupore’

(v. spec-ulatio)

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L’alba di Fleury da un’altra specola 281

mirac--ula / -ulum -ula / -ululatino miraculum ‘prodigio’ antico occitanico antico francese

miracle ‘miracolo’latino specula ‘specola latino volgare *miraculu, *miracula ‘specola’ antico occitanico miracle, miralh,

miralha ‘specola’ Bearn pun mirau ‘belvedere’

latino speculum ‘specchio’ latino volgare miraculum ‘specchio’italiano specchio, antico antico occitanico miralh, antico occitanico espelh francese mirail ‘specchio’

-ulari -ularelatino speculari ‘osservare, latino volgare *miraculare spiare, sorvegliare’ ‘osservare, spiare, sorvegliare’ antico occitanico miraclar, miralhar

‘osservare, spiare, sorvegliare’ delfi natese e altri dialetti occitanici

miraillà ‘guardare’ Gers miralhà ‘guardare allo specchio’ Bearn ‘rifl ettere in uno specchio’

-ulator -ulatorlatino speculator ‘osservatore, ——— (v. mir-ator) antico spia di guerra, occitanico = gaita antico francese =

guete ‘guardia, scolta’

-ulatio -ulatiolatino speculatio ‘spionaggio, contemplazione’ ———

-ularium -ulariumlatino specularium ‘specchio’ ———

-ularis -ularislatino di specchio ———

-ulativus -ulativuslatino speculativus ‘speculativo’ ———

-ulatorius -ulatoriuslatino speculatorius ‘di esplorazione, ——— (v. mira-toriu) di osservazione’

-ulabundus latino speculabundus ‘che sta in ——— (v. mir-abundus) osservazione, di vedetta’

In questo contesto l’utilizzo del termine miraclar per l’osservazione

dall’alto propria dello speculator appare perfettamente congruente: è la

perfetta sostituzione in volgare di speculari. Del resto, ancora il poeta béar-

nese Roger Lapassade utilizza il termine miralhar esattamente accepito

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nel senso di ‘guardare da lontano, ammirare’ (Per noste edicions, Ortez,

1992):

Lo moment qu’ei passat de miralhar l’estela,de cossirar l’amor au temps de primavèra,lo moment de prestir hens lo pialòt d’argèlal’esconuda Beutat: que dromi quan m’apèra

Si ricorderà, a rinforzo della tesi qui sostenuta, il passo sopra citato

di Pietro Cellense in cui si esplicita qual sia l’uffi cio della sentinella: “Hoc

enim offi cium est speculatoris, vigilare, aspicere et clamare assidue, et in

sublimiori stare vel sedere”; i primi due termini, vigilare e aspicere sono

l’equivalente di abigil e miraclar.Per ciò che riguarda l’uso dell’infi nito con funzione esortativa, ab-

biamo già detto che esso si incontra in almeno due testi riferibili alla scolta

ed è ben attestato sia nello spagnolo antico (Beardsley 1921:85–86), sia nel

francese sia nel provenzale (Meyer-Lübke 1890–1906:3, §528; Diez 1872:3,

203; Luker 1916).

Nelle albe occitaniche si individuano vari riscontri dell’invito rivolto

alla gaita a compiere il proprio uffi cio principale, quello di scrutare,

espresso col verbo gaitar: fi n nell’incipit nella già citata Gaita be, gaiteta del chastel, con reiterazione nel primo verso della seconda cobla: Gait’, amics, e veilh’e crid’e bray, dove si noteranno i tre cardini portanti dell’uffi cio dello

speculator di cui parla il Cellense (gaitar = aspicere, velhar = vigilare, cridar =

clamar). Si legga anche il primo verso della terza cobla: “Gaitaz vos, gaiteta

de la tor” (ma qui nel signifi cato di ‘guardarsi da’). Infi ne è da notare che

nell’alba profana di Cadenet, BdT 106, 14 troviamo la gaita che esorta se

stessa a gaitar e a cridar:

S’ieu en vil castelh gaitavani fals’amors i renhava,fals si’ieu si no celavalo jorn aitan quan poiria,car volriapartir falsa drudaria;et entre la leial gengait’ ieu lialmene crit, quan vei l’alba.

Anche nell’aube trovierica Gaite de la tor, di cui abbiamo già parlato, la

gaite viene invitata a far la guardia sulle mura del castello: “Gaite de la tor, /

gardez entor / les murs, se Deus vos voie”.

Un’attestazione, infi ne, è nel Fiore, son. 32, dove il grido della “scolta”

è “Guarda, Guarda” e dove abbiamo anche una preziosa conferma dell’uti-

lizzo del corno come strumento proprio della guardia (ed. Contini 1984):

Gelosia andava a proveder le porte,Sì trovava le guardie ben intese

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L’alba di Fleury da un’altra specola 283

Contra ciascuno star a le difeseE per donar e per ricever morte;E MalaBocca si sforzava forteIn ogne mi’ sacreto far palese:Que’ fu ‘l nemico che più mi v’afese,Ma sopra lui ricad[d]or poi le sorte.Que’ non fi nava né notte né giorno?A suon di corno gridar: “Guarda, guarda!”;E giva per le mura tutto ‘ntornoDicendo: “Tal è putta e tal si farda,E la cotal à troppo caldo il forno,E l’altra follemente altrù’ riguarda”.

Utilizzo peraltro confermato anche dal corrispondente passo del Ro-man de la Rose (ed. Lecoy, 1965–1970, vv. 3971–3884), dove al corno si ag-

giungono cennamelle e buccine, ma anche fl auti e cornamuse:

Male Bouche, que Dex maudie!or soudoiers de Normandie.Cil garde la porte detrois,et si sachiez qu’aus autres troisvet sovent et vient. Quant il setqu’il doit la nuit faire le guietil monte le soir as quarniauset atempre ses chalumiause ses buisines et ses cors;une foiz dit lais e descorze sons noviaus de controvailleas estive de Cornoailleautre foiz dit a la fl aütec’onques ne trova fame jute.

In conclusione, mi sembra che i riscontri addotti, sia innologici, sia

patristici, sia inerenti alla poesia profana trobadorica, trovierica e antico-

italiana rinviino compattamente ai tre compiti principali della scolta (nel

nostro testo il poypas): innanzitutto quello di vegliare (nel nostro testo reso

con abigil), quello di scrutare in lontananza (nel nostro testo miraclar) e

quello di gridare (clamat, clamans nelle strofe latine del nostro testo).

L’ultimo lemma da commentare, tenebras, anche se non presenta pro-

blemi interpretativi, apre una questione di non poco rilievo sul piano pro-

sodico. Se, infatti, sarà da accettare l’interpretazione che vede in abigil un congiuntivo esortativo (da advigilet), per ragioni di simmetria interna

al secondo verso del refrain (cf. supra), tenebras dovrà essere considerato

parossitono, conformemente a tutte le parole del latino volgare in cui il

gruppo muta cum liquida non fa più posizione (tenébrae, colúbra, tonítru, in-tégra, cathédra, ecc.). Del resto, tenébras certamente parossitono per ragioni

metriche è in un testo scritto da Oddone di Cluny, autore ritenuto “as-

sai prossimo, per tempi e per luoghi, all’autore dell’Alba” (Lazzerini 1985:

20–21, n. 5):

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Iste veternosas, quas texit origo, tenebrasPerfi diaeque chaos fi dei splendore fugavit.(Swoboda 1900:5, vv. 199–203)

Nella maggioranza dei casi presenti nell’innologia tenebras è da consi-

derarsi proparossitono, anche se non sono pochi i casi in cui è certamente

parossitono. Ad esempio, fra i testi del IX secolo, si hanno circa 20 occor-

renze del lemma, di cui tre parossitone (e sempre nella forma all’accusa-

tivo plurale):

Cera, domus mellis. Iam cetera turba colentumNigrantes tenuat vario splendore tenebras,Ubertat stuppas, fervet discordia concors,Ut, dum sacra pio peraguntur mystica ritu,Aemula sidereis vigilent funalia fl ammis. (AH, 50, 165)

Tu pater es veri, verus Deus, omnia verax,Te verum Dominum cuncta creata probant.Ergo fuga densas, o lux immensa tenebras,Detege mendosos luminis ore globosNon confundantur miles te principe pacis. (AH, 50, 175)

Deleas nostrum facinus, precamur,Nosque conserva, benedicte princeps.Mentium furvas supera tenebras,Lux pia mundi. (AH 50, 231)

Anche fra i testi del X secolo si registra un esempio certamente

parossitono:

Aeternus et clemenscreaturaeopifexorbem terrae,Mundum tenerentcum tenebraeet aquaeindiscretae. (AH 49, 612)

Insomma, la parola tenebras se interpretata come latina, sarà prosodi-

camente “ancipite” (parossitona o proparossitona), se interpretata come

galloromanza sarà di necessità parossitona.

In conclusione, ritengo di poter interpretare gli ultimi due versicoli

del refrain come esortazione, rivolta al poypas, cioè alla scolta, a vigilare

con la massima attenzione e a scrutare le tenebre. Il diluculum è quindi

visto dall’autore di Phebi claro, oltre che come fi gura di preannunzio del

Verbo e della Resurrezione di Cristo, anche come il momento di massimo

pericolo per gli attacchi del Nemico, sia esso quello reale o quello della

fi guralità cristiana.

4. Conclusioni (con un’ipotesi attributiva). Per comprendere le ra-

gioni della polisemia che si è frapposta all’interpretazione corretta di Phebi

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L’alba di Fleury da un’altra specola 285

claro, sia nella sua parte latina, sia in quella “volgare”, bisognerà rifl ettere

su un dato addotto da Aurelio Roncaglia (1948:36), che a proposito del

canto delle scolte modenesi notava come nel medioevo il compito delle vi-giliae murorum, o vigiliae civitatis dovesse essere assolto da laici e da chierici

indistintamente: “l’uso delle vigiliae murorum doveva esser familiare a un

chierico non meno che l’uso delle vigiliae liturgiche”. Si ricorderà del resto

il passo in cui Amalario di Metz dava prova di perfetta coscienza della

derivazione delle vigiliae liturgiche dalle vigiliae militari romane e ad esso

si aggiungerà l’epistola 18 di Gregorio Magno, allegata dallo stesso Ronca-

glia, contenente le esortazioni che il papa rivolge al vescovo di Terracina,

Agnellus, perché provveda a far sì che nessun chierico si sottragga alla

vigilanza delle mura cittadine (PL 77, coll. 921–922):

Quia vero comperimus multos se a murorum vigiliis excusare, neque per nostrae vel Ecclesiae suae nomen, aut quolibet alio modo, defendi a vigiliis patiatur; sed omnes genealiter compellantur, quatenus, cunctis vigilantibus, melius auxiliante Domino, civitatis valeat custodia procurari.

I documenti storici provenienti dai monasteri confermano tale as-

sunto: i monaci di veglia, ci dice ad esempio un documento riportato dal

Du Cange (s.v.) e già addotto da Gorra (1901:506–507) “debent omni

nocte vigilare, et Vigilias cum clava invicem notifi care. Id est is, qui vigilias

facit, debet clavae percussione subinde se vigilare indicare, quod etiam-

nunc faciunt vigiles in Berfredis seu turribus urbium sub regni confi nia”.

Non si dovrà, nondimeno, in alcun caso interpretare il nostro testo come

semplice canto di esortazione alla veglia pura e semplice: abbiamo visto

che esso fornisce invece una pluralità di signifi cazioni. Il diluculum sarà

quello reale, quello in cui il monaco deve vigilare in attesa del mattutino

e quello in cui il vigilgallus suona il signum di raccolta in vista dell’uffi cio,

ma sarà anche il momento del giorno di massimo pericolo, quello in cui la

scolta del monastero deve stare nella massima allerta. Il Nemico sarà rap-

presentato da Normanni, Ungari e Saraceni che in quest’epoca predavano

i monasteri più ancora che le fortifi cazioni esclusivamente laiche, ma sarà

anche il Demonio, che attacca il fedele ancora dormiente di prima mat-

tina, procurando inaspettate tentazioni della carne: la militia Christi e la

militia vera e propria sono, insomma, anche per il nostro inno, le due facce

della stessa medaglia.

Ci si può chiedere a questo punto quale senso abbia, in questo conte-

sto, il bilinguismo e se esso sia da considerare una manifestazione della

natura paraliturgica di Phebi claro o sia piuttosto un ricercato —raffi nato

diremmo— espediente stilistico, con una sua fi nalità specifi ca.

In linea generale, è da dire che i sostenitori dell’ipotesi di un effetto

stilistico ricercato, si sono concentrati sulle affi nità fra Phebi claro e le khara-giât mozarabiche. Sempre Aurelio Roncaglia (1951b), notava che il nostro

testo presenta “al termine d’ogni strofa latina, un ritornello che assomma

la ricorrenza dell’efuvmnion col carattere (e l’estensione) di elemento stro-

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286 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

fi co terminale, proprio del refrain nel senso che a noi ora interessa, e pre-

senta inoltre, per curiosa coincidenza (ma sarà poi solo una coincidenza?),

anche la regolarità linguistica della khargia”. Per Roncaglia, quindi, l’uti-

lizzo del refrain, il bilinguismo, l’utilizzo di linguaggio infantile, l’oscurità

stessa del dettato accomunerebbero kharagiât e Alba bilingue. Sulla mede-

sima linea interpretativa si sono posti Chiarini (1974), Zumthor (1984) e

Hilty (1981a, 1981b, 1995, 1996, 1998, 1998, 2000). Del resto, non mi pare

sia stato notato che inni in qualche modo assimilabili a Phebi claro, non per

il bilinguismo, ma per la loro natura anche pratica, con evidenti fi nalità,

si trovano proprio nella liturgia mozarabica. Si legga ad esempio l’Ymnus de sterilitate pluvie (PL 86, coll. 921-922), dove si noti, oltre al ricorrente e

insistito betacismo, anche la buona qualità linguistica e la fi nalità eviden-

temente arcaica di invocare l’aiuto divino per far piovere su una regione

arida:

Squalent arva soli pulbere multoPallet siccus aer terra fatescitNulla roris onus nulla venustasQuando nulla vires gratia fl orumTellus dira sitit nescit arorisFons iam nescit aquas fl umina cursusErbam nescit humus nescit aratrumMagnorum rupta patet turpis iätuEstu ferbet humus igneus ardorIpsas urit abes frondea ramisFessis tecta negant pulbis areneSicco dispuitur ore viantis

A quest’inno fa da pendant l’Ymnus de ubertate plubie:

Obduxere polum nubila celiAbsconduntque diem sol [sole] effugato,Noctes continuas sidere nudasEt lune viduas carpimus olim.Ether dira micat igne corusco,Concusoque tremit cardine mundus,Celi porta tonat, raptaque credasAxis etherei vincla resolvi.Excrescunt pluviis equora ponti,Nec fi nes proprios iam freta norunt,Terrarum tedio fl uctuat unda,Errabunda secat arva carina.

Appigli di natura storico-documentaria che avallino tale ipotesi, del

resto, non mancano. Le affi nità fra forme e temi propri della letteratura

arabo-andalusa e quelli caratterizzanti la gran parte dei testi delle origini

romanze e della paraliturgia sammarzialese (dal X all’XI secolo) sono ben

note, evidenti e garantite non dalle corrispondenze di un solo elemento

del sistema, ma dal sistema nella sua interezza: se il bilinguismo del nostro

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L’alba di Fleury da un’altra specola 287

testo si può ricondurre alla matrice fondamentale delle kharagiât mozara-

biche, la sua forma strofi ca (aaaX), come quella dell’inno bilingue latino/

limosino In hoc anni circulo, di molti versus sammarzialesi e della maggior

parte dei primissimi componimenti lirici profani scritti in provenzale ha

analogie sostanziali con lo zagial praticato nella Spagna non ancora ricon-

quistata dai cristiani (Roncaglia 1949, 1951a, 1951b; Pollmann 1965; Me-

neghetti 1997:184–185). Rapporti fra monaci d’area iberica, di rito moza-

rabico, e monaci legati più o meno direttamente a Cluny o a San Marziale

di Limoges sono addirittura certifi cati, come è anche evidente l’osmosi

e la circolazione di uomini e idee fra i due mondi arabo-musulmano e

romanzo-cristiano (Roncaglia 1949:92; Meneghetti 1997:183–184).

L’infl uenza dell’innologia mozarabica su Phebi claro, peraltro, spieghe-

rebbe bene la ragione della ripresa massiccia di motivi da quello che ab-

biamo defi nito il suo principale intertesto, l’Ales diei nuntius di Prudenzio,

autore ispanico presentissimo in tutti i codici dell’innologia mozarabica

(AH 27:35–41) e l’utilizzo di motivi tipici dei notturni Ad galli cantum in un

inno mattutino (cf. supra).

La nostra lettura comporta, è evidente, che l’inno sia stato composto

da un autore di eccellente cultura classica, patristica, innologica, e con

buone conoscenze in fatto d’astronomia, tanto che non si può non dare

ragione a Bertoni (1921), quando, rifi utando l’interpretazione di matrice

romantica, annotava: “Anche questo componimento [. . .] non può essere

popolare: troppe sono le immagini classiche, troppa è la pulitezza della

frase e l’eleganza dello stile, perché non si debba attribuirlo alla penna di

un dotto conoscitore della poesia latina”. Sulla stessa linea interpretativa

si poneva, in maniera circostanziata, Picchio Simonelli (1984). Del resto,

l’affi nità con le kharagiât per ciò che riguarda il bilinguismo, aveva por-

tato Chiarini (1974:20) ad opinare che “se il ritornello fosse stato reperito

dal poeta nella tradizione popolare romanza, esso non potrebbe essere

che interamente volgare. Il suo bilinguismo esclude dunque quella even-

tualità, anche se nulla vieta di supporre che in esso siano rifl uiti materiali

di tipo tradizionale, come in moltissime kharagiat non propriamente po-

polari, ma popolareggianti”.

La nostra lettura del refrain di Phebi claro comporta inoltre vari indizi di

natura linguistica che fanno pensare che l’autore potesse essere origina-

rio dell’area sudoccidentale della Francia, o che comunque il testo avesse

subito in qualche modo un’infl uenza dei parlati di quest’area linguistica:

i lemmi atra, poypas, abigil e miraclar sono tutti compatibili con un’area lin-

guistica riconducibile alla parte occidentale dell’Occitania. Contatti speci-

fi ci fra i monaci dell’abbazia fl oriacense e quelli d’area guascona non man-

carono. Famosissimo è il caso del monastero di La Réole, che deve il suo

nome proprio alla Regula di San Benedetto e che fi n dal VII secolo rientrò,

pur fra alterne vicende, fra i priorati dell’abbazia di Saint- Benoît-sur-Loire

e ne divenne presto il più importante (Rocher 1865:42, 67 e 332–333). Del

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resto, altre propaggini di Fleury in Guascogna non mancano: durante

l’amministrazione dell’abate Amalberto (978–985) “l’abbaye étendit sa

jurisdiction dans les provinces du midi de la France par la fondation du

monastère de Pontons, sur le bords de l’Adour, au diocèse d’Acqs, mona-

stère qui, après la translation des reliques de saint Maur, prit le nom de

Saint-Maur de Pontons. Ce lieu dépendait de la Réole, qui elle-même reve-

lait directement de Fleury” (Rocher 1865:152). Il monastero de La Réole

rappresenta un trait-d’union perfetto fra Fleury e gli ambienti ispanici di

rito mozarabico e costituisce quindi un ottimo punto di riferimento per la

localizzazione di Phebi claro:

4. Facile Floriacenses monachi libros ex Hispania sibi petere poterant; nam eod. tom. VIII Galliae Christ., col. 1541, de Mummone, sive Mummo-leno, abbate Floriacensi saeculo VII dimidiato, haec narrantur: “Hunc dum in Hispaniam voti causa tenderet, Burdigalae mortuum tradunt in mona-sterio Sanctae Crucis. Forte in illas partes profectus fuerat ad ordinandum proximum Regulae monasterium, quod ante Normannorum tempora Floria-censibus subjectum fuisse instrumentum ejus restitutionis docet”. Regulense monasterium in Vasconia erat, de quo agitur in Vita S. Abbonis. Verum in his diutius immorari non vacat. (PL 81, coll. 819–820)

Una serie di constatatazioni di ordine storico e geografi co avallano tale

ipotesi e sostanziano le parole dell’inno di precisi riferimenti. Innanzitutto

andrà considerato che a La Réole esiste ancora il toponimo Mirail, un

tempo Lamothe du Mirail (Girault de Saint Fargeau 1837:174), a riprova

del fatto che abbiamo a che fare con una motte (Lapouyade 1846:299–300):

La sommité la plus remarcable de la commune est le mamelon du Mirail: c’est un petit tertre conique, arrondi, dont la tête, couronnée d’un moulin à vent, se fait remarquer au loin. Du haut du Mirail, l’oeil plonge sur une vaste étendue du bassin de la Gironde. La fl euve, large et majestueuse, décrit une ligne pareille à celle qui embrasserait, en partie, l’arène d’un immense amphitéatre. A l’orient s’étendent les riches plaines de Bourdelles et de La-mothe-Landerron. La fl èche aiguë du clocher de Sainte-Bazeille se détache au loin sur les collines azurrées de l’Agenais. Sur la rive gauche du fl euve ap-paraissent, dans le lointan, les hautes plaines du Mas-d’Agenais, de caumont, de Marcellus et de Meilhan. Près de Hure on remarque les cultures variées de la haute et de la basse plaine. De distance en distance pyramident les clochers des églises de Hure, de Fontet, de Loupiac, de Blaignac, de Puybarban, de Floudès, de Bassanes, de Barie, de Mazerats, de Castets; et tout à fait à l’occi-dent se dessinent les piles et les culées du pont de Langon. C’était sur la haute plaine de la rive gauche que passait l’ancienne voie romaine de Bordeaux à Agen. Encore, du coté de l’occident, on découvre les coteaux de Frimont, de Saint-Aignan et la ville de La Réole aux vieux murs démanteleés. Au nord de ce son des vallons et des coteaux, dont l’aspect assez triste présente un contraste frappant avec beau paysage méridional.

La descrizione di Lapuyade è perfettamente coerente con quanto ab-

biamo detto circa la forma delle poypas. Lo stesso Lapouyade (1846:308–310)

ci parla delle rovine di una villa d’epoca romana, la villa Pontesia, poi de-

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L’alba di Fleury da un’altra specola 289

nominata “de la Recluse”, che si trovano all’immediato ridosso della cima

del Mirail: “L’emplacement de cette villa était on ne peut mieux choisi.

Qu’on ne représente une grande et riche habitation située à mi-côte, pro-

tégée contre les vents du nord par le coteau du Mirail et par les tertres qui

l’accompagnent”. Intorno al Mirail doveva sorgere anche l’antica Squirs

e il monastero dove soggiornò e fu ucciso Abbone di Fleury (Lapouyade

1846:310–311): in tutta la zona ovest della città, infatti, e in particolare pro-

prio sulla cima della collina si sono ritrovati numerosi manufatti d’epoca

medievale “des tombeaux en pierre, de diverses grandeurs, contenant des

agrafes, des molettes d’éperon en cuivre, et des monnaies” (Lapouyade

1846:311). Questo toponimo, in origine probabilmente Miracle, e la sua

posizione si accordano perfettamente con ciò che abbiamo detto circa

l’origine e il senso del verbo miraclar.Si consideri inoltre che La Rèole si trova in quell’area fra Dordogna e

Garonna nominata ancor oggi “Entre-deux-Mers”, già nel X secolo “Inter

duo maria”. Ciò si accorda con quanto abbiamo detto circa l’interpreta-

zione del doppio versicolo “umet mar atra sol”: la notazione ci riconduce

cioè ad un dato di ordine materiale, pratico. Si legga ancora quanto scrive

Jouannet (1837:46) su una fonte che si trova proprio sul Mirail:

L’Entre-deux-mers, où les sources d’eau vive se présentent en grand nom-bre, renferme plusieur fontaines intermittentes ou intercalaires, situées pour la pluspart dans le voisinage d’une ligne qui serait conduite du point où les marées cessent d’être sensibles sur la Dordogne, au même point sur la Garonne.

A Gironde, rive droite de la Garonne, au confl uent du Drot et de la Ga-ronne, sur une sommité calcaire, le puits situé au bas du bien de Boutaud est sensible au débordement des deux rivières.

Près de la Réole, même rive, sur la partie moyenne et méridionale du tetre du Mirail, à trois lieues environ du point où le dernier fl ot des marées se fait sentir, il existe une fontaine que l’on croit sensible aux fl ux et refl ux.

Su questo fenomeno cf. anche Lapouyade (1846:304): “Une seule

source, située vers la partie moyenne et meridionale du Mirail, peut méri-

ter quelque attention. A l’écoulement de ses eaux succède une suppres-

sion, plus ou moins prolongée, qui a induit des esprits, amis du merveil-

leux, à croire qu’elle communiquait avec la mer, et participait du fl ux et

refl ux qui caracterise la marée”.

Inoltre, come noto, in quest’area geografi ca si assiste al fenomeno del

mascaret (il nome è guascone), una brusca sopraelevazione dell’acqua di

un fi ume o di un estuario provocata dalla marea montante nel momento

delle grandi maree. Si produce all’imboccatura e nel corso inferiore di

alcuni fi umi quando la corrente è contrastata dal fl usso della marea mon-

tante: una grande massa d’acqua marina si dirige allora verso l’estuario

del fi ume (spinta dalla marea) e lo risale, creando un fronte turbolento di

grande violenza. Nella regione dell’Entre-deux-Mers questo fenomeno è

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290 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

particolarmente visibile sulla Dordogna, intorno a Vayres e sulla Garonna

fra Langoiran e Podensac. Pur se meno forte, a La Réole, le acque della

Garonna esondavano praticamente ogni giorno (Lapouyade 1846:304).

Ancora, sulla produttività in questa zona del toponimo che trae ori-

gine dalla forma della mammella, che abbiamo visto essere all’origine del

nome poypa si potranno leggere le righe di Jouannet (1837:47): “A Ruch, au-

tre commune de l’Entre-deux-mers, au lieux du Tait (ou Tet), le roc, dans une

infractuosité duquel est placée la fontaine dite la Font-de-la-Poupe, présente

à l’extérieur des concrétions auxquelles on trouve quelque ressemblance

avec des mamelles. Cette ressemblance, remarquée très anciennement, à

en juger seulement par l’étymologie du nom de la fontaine (Pupa), donna

lieu à une superstition qui n’est pas entèrement effacée: quelques femmes,

pour être meilleures nourrices, vont encore boire à la Font-de-la-Poupe”.

Non solo, ma abbiamo anche notizia precisa di un episodio altamente

signifi cativo che ci permette di avanzare un’ipotesi abbastanza solida di at-

tribuzione del nostro inno. L’episodio in questione è narrato da Aimoino

di Fleury, un monaco di origine perigordina, allievo di Abbone, l’abate

che dal 998 al 1004 resse il cenobio fl oriacense e che abbiamo più volte

menzionato nel corso del nostro commento (Riché 2004): i due erano le-

gati da vincoli d’amicizia e di affi nità culturale, tanto che alla morte di

Abbone Aimoino ne scrisse una dettagliatissima biografi a, la Vita Sancti Abbonis Floriacensis (PL 139, coll. 387-414). Aimoino ci narra che i monaci

guasconi del monastero La Réole erano caduti nel più deplorevole lassi-

smo e che quindi l’abate fu costretto a intervenire: egli considerava come

un dovere fondamentale quello di ricondurre alla regola cenobitica tutti i

monasteri collegati alla casa madre di Fleury. A La Réole, però, sembrava

davvero diffi cile riformare i costumi e ricondurre all’originario rigore

monaci che conducevano una vita ritenuta scandalosa e che erano noti

per il loro spirito violento e ribelle: Abbone, a chi gli chiedeva di recarsi a

La Réole per riportare al più presto nel monastero la Regola del fondatore,

rispondeva che sarebbe partito quando avrebbe avuto il coraggio di porre

fi ne alla sua vita: era infatti diffusa da molto tempo una superstizione, se-

condo cui nessun abate di Fleury sarebbe mai tornato vivo da quel luogo.

Aimoino ci fornisce queste informazioni, insieme ad una relazione detta-

gliata in cui chiarisce l’origine dell’infl uenza che Fleury aveva su La Rèole

(PL 139 col. 406):

cap. xvi. Regulae monasterium reformaturus adit. Suos ibi relinquit. Est in illis partibus [i.e. in Guascogna] monasterium quoddam Squirs, ut fertur, antiquitus nominatum; a modernis, contrario nunc vocabulo, Regula vocitatum. Nulla quippe religionis norma, nulla aut rara bonae conversatio-nis saltem vestigia usque ad haec in eodem loco apparuere tempora. [. . .] In quo loco, tam ab ipso venerabili Richardo quamque a duobus ejus successo-ribus, Amalberto ac Oylboldo, diu multumque elaboratum est, quo vere is lo-cus, per habitatorum conversationem, vocabulo uteretur suo; nec quidquam utilitatis actum. Post quos dum hic vir beatus Abbo regiminis adeptus esset

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L’alba di Fleury da un’altra specola 291

gradum, quibusdam sibi persuadentibus quatenus eo profi cisceretur, respon-debat cum joco se illuc iturum quando eum satietas cepisset vitae. Ferebatur denique nulli praedecessorum ejus post iter Guasconiae diu vivere licuisse.

Abbone, com’è ovvio, non mancò ai suoi obblighi di abate e partì per

la Guascogna, dove incontrò i conti Bernart e Sancho, fi gli del duca Gu-

glielmo, alla cui generosità Fleury doveva la restituzione del monastero de

La Réole. Dovette però ben presto ripartire, senza esser riuscito ad intra-

prendere la riforma e a ripristinare l’osservanza della disciplina; lasciò lì

alcuni monaci del suo monastero, ma anche loro si accorsero ben presto

che, se volevano rimanere in vita, era meglio andar via. Abbone, sospet-

tando che essi avessero agito con pusillanimità, designò altri frati per ten-

tare l’impresa; ma anche in questo caso le continue vessazioni dei confra-

telli guasconi costrinsero i fl oriacensi a ripartire.

Abbone prese allora una decisione estrema: pur persuaso d’andare

a morire, si assunse la responsabilità di tornare di persona, facendosi

accompagnare da tre religiosi fra i più ferventi: Remigio, Guglielmo e

lo stesso Aimoino. Nella Vita Sancti Abbonis le tappe dell’iter sono minu-

ziosamente annotate. La compagnia passò sulla strada per numerosi mo-

nasteri: quello di San Cipriano di Poitiers, quello di Charroux, quello di

Nanteuil-Saint-Benoit, vicino a Larochefoucaud. Fece poi soggiorno ad

Angoulême.

I quattro monaci andarono poi a visitare presso il castello di Albaterra

un signore denominato Giraut, zio di Aimoino. Il giorno dopo traversa-

rono il piccolo fi ume Ille (Ella) e giunsero a Villafranca, dove lo stesso

Aimoino era nato e dove ancora risiedeva la madre Aunedruda, sorella del

signore di Albaterra, Giraut:

cap. xviii. Domi a Giraldo exceptus et a matre Aimoini. Nam, dum ad castrum, cui Albaterra [Aubeterre] nomen est, tendere de-liberassemus, repente dominus ipsius castri nobilis vir, nomine Giraldus, post tergum nostrum celerrime adveniens apparuit. Qui dum inquireret quinam essemus, et beatum patrem nostrum Abbonem adesse cognovisset, gaudens ob ejus praesentiam, ait ad eum: “Dominum, inquiens, fi demque meam testor, me admodum gaudere quod te, domine, videre merui; nam bonitas et sapien-tia tua universo nostro pervulgata sunt orbi. Unde, si tuae placet benignitati, hospes tibi ero in hac nocte perliberalis, cuncta victui necessaria tribuens”. Fecit ut dixerat, et usque ad noctem permanens, etiam in obsequendo, famuli fungebatur offi cio. [. . .] Porro nos eadem die qua de Albaterra promovimus, transmeato Ella [Ile] fl umine, una cum beato Abbone, in villa, quae Ad-Fran-cos dicitur, hospitati sumus. Suscepit nos inibi genitrix mea, memorati militis Giraldi consanguinea, vocabulo Aunenrudis, cum quanta potuit humanitatis exhibitione.

I quattro monaci proseguirono poi il loro viaggio, attraversando la

Dordogna e le gole di un pericoloso torrente, il Droth, e infi ne, dopo aver

percorso orribili cammini, arrivarono a La Réole. L’acceso rigetto della

riforma da parte di quei monaci guasconi era ulteriormente alimentato

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292 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

dall’antipatia per i “francesi” del Nord della Loira. Ogni minimo parti-

colare era argomento di polemica. Così, i rozzi servitori del monastero si

mettono a questionare con quelli dell’abate a proposito del foraggio per le

cavalcature dei fl oriacensi. Abbone subito convoca i suoi e li esorta a sop-

portare tutto con pazienza e si propone di richiamare l’attenzione su que-

sti fatti del conte di Guascogna e del suo advocatus loci per il monastero.

Sabato 11 novembre del 1004, Abbone celebrò con grande devozione

le solennità festive della messa di San Martino e poi, quel giorno come

il seguente, si recò a perlustrare il monte in cui era situato il monastero,

lodando e ammirando non solo la solidità di quel luogo, ma anche le fon-

damenta degli edifi ci più importanti:

Erat ea die celebris universo orbi beati pontifi cis Martini Turonici solem-nitas, et sanctus vir magna cordis ac corporis alacritate missarum festiva cele-bravit solemnia. Qua die et sequenti, quae Dominica fuit, idem Dei famulus Abbo, post sancti sacrifi cii per seipsum oblationem ac corporis refectionem, montem in quo monasterium situm est undique perlustrans, laudare simul ac mirari non solum loci fi rmitatem, verum etiam maximorum quae inibi fue-rant aedifi ciorum fundamenta coepit.

Prendendo spunto dalle visite dell’abate, Aimoino ci fornisce preziosi

ragguagli sulla posizione del monastero: era situato sulla sommità di una

montagna, e circondato da altre tre colline a est, a nord e a ovest, men-

tre la Garonna lo lambiva a sud, in una profonda e pericolosa valle. Ad

oriente e a occidente, fra un monte e l’altro, scorrevano in angustissime

gole due fonti, denominate dai Franchi Mosella e Mosa: poco lontano da

qui Aimoino credeva di poter riconoscere anche il palazzo di Cassignol,

che Carlo Magno aveva abitato e dove, impegnato in una spedizione con-

tro i Saraceni in Spagna, aveva lasciato la moglie incinta di Ludovico il

Pio, che qui nacque. La posizione de La Rèole rendeva questo castrum dun-

que di diffi cile accesso per i nemici, se non dal lato Nord, dove era stata

costruita una robusta torre con pietre quadrate, che ora mostrava solo le

tracce delle sue rovine. Guardando ammirato quello e gli altri edifi ci di-

roccati, sorretti comunque per i lati scoscesi del monte dalla ferma tena-

cia del cemento, gli viene allora fatto di dire ai compagni, non senza una

punta d’orgoglio: “qui sono più forte del re mio signore, possedendo una

cittadella in una contrada in cui il suo potere è così poco rispettato”:

Horum itaque locorum situm, a sancto viro laudatum, succinctim litteris mandare opportunum fore credimus. Monasterium Regulae, in honore prin-cipis apostolorum Deo dicatum, in monte est positum. Qui videlicet mons a tribus lateribus, orientali, aquilonali et occidentali, aliis cingitur montibus; a meridie Garonna vallatur fl umine periculosaque vallis voragine. Ab oriente inter ipsum et alterum montem vallis existit perangusta, per quam fons meat, quam incolae Mosellam nuncupant; simili modo ab occidente alterius fontis rapido alluitur cursu, cui Mosa nomen est. Haec nomina a Francis illis im-posita aestimantur, qui a Magno Carolo ad tuitionem provinciae ibi relicti

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L’alba di Fleury da un’altra specola 293

sunt. Non longe quippe ibi abest palatium ipsius magni principis Cassino-gilum, sed quasi tribus milliariis, in quo idem imperator uxorem suam, Lu-dovici Pii matrem, gravidam reliquit, dum contra Sarracenos expeditionem in Hispaniis ageret. Quod et Heinardus vitae illius relator scribit, et nos in libro miraculorum sancti patris Benedicti breviter expressimus. Locus sane Regulae ob supra dictam positionem non facile hostium patuisset accessui, nisi ab aquilone parva ei adjaceret planities, cui conditor municipii vel, ut quidam volunt, civitatis, turrim quadris lapidibus exstructam opposuit, quae nunc ruinarum tantummodo suarum indicia praefert. Igitur tam hujus quam caeterorum aedifi ciorum dirutos parietes, et per devexa totius montis latera propter fi rmam caementi tenacitatem dependentes, homo Dei conspicatus admiransque, laeto nobis arridens vultu, infi t: “Potentior, inquiens, nunc sum domino nostro rege Francorum intra hos fi nes, ubi nullus ejus veretur domi-nium, talem possidens domum”.

L’attenzione e la sorpresa di Abbone riguardo alle modalità di forti-

fi cazione del monastero e del borgo ad esso collegato spiegano bene la

ragione per cui l’abate avrebbe deciso di pensare al refrain del suo inno

come contrafattura di un canto di scolta. Il giorno della festa di San Bri-

zio (era martedì 13 novembre) un monaco guascone, Anezan, descritto

da Aimoino come perfi do e infi do, lo stesso che aveva acceso la rissa per

la biada di pochi giorni prima, riaccese gli animi. Uno dei servitori dei

monaci di Fleury, profondamente irritato dalle ingiurie che i monaci gua-

sconi rivolgevano contro l’abate suo maestro, arrivò a assestare sulla te-

sta di un palafreniere de La Réole un colpo di bastone così violento che

quello cadde a terra mezzo morto. La mischia divennne generale. Abbone,

ci dice Aimoino, nonostante la diffi coltà della missione, non era venuto

meno alla sua vocazione intellettuale: stava scrivendo, componeva alcune

ratiunculae relative al computus, era quindi provvisto di calamo, inchiostro

e pergamena, insomma dei materiali scrittorii con cui avrebbe potuto an-

che comporre Phebi claro. Sentendo i tumulti e le grida esce dal monastero

per sedare la rissa. Uno dei Guasconi corre verso di lui e lo uccide con un

colpo di lancia:

Interea vir Domini Abbo, intra claustrum monasterii residens et qua-sdam computi ratiunculas dictitans, tumultuantium clamore exaudito, foras ab inferiori montis parte progreditur, et ad reprimendos suos, qui superiora occupaverant loca, festinans, ab uno adversae partis satellite lancea tam va-lide vulneratur in laevo lacerto ut interiora costarum adactum penetraret ferrum.

Bernart, duca di Guascogna, vendicò la sua morte, i sedici servitori

furono trattati con bontà dalla duchessa Rosemberga, che procurò loro

i mezzi per tornare a Fleury, dove si apprese la fatale notizia proprio il

giorno della festa della Tumulazione di San Benedetto, nel mese di dicem-

bre. Odilone, abate di Cluny, il più intimo amico di Abbone, venuto per

prender parte alle celebrazioni si unì nel pianto ai confratelli fl oriacensi.

Quel che avviene dopo riguarda il processo di santifi cazione dell’abate,

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294 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

festeggiato solennemente il 13 novembre a La Réole, dove il corpo fu inu-

mato di fronte all’altare di San Benedetto e dove restò fi no al 1476. I re-

ligiosi di Fleury inviarono a tutti gli abbati dei monasteri di Francia e ai

fedeli un’enciclica, per raccomandare alla compassione e alle preghiere di

tutti l’anima del loro padre.

Aimoino ci ha lasciato anche un breve regesto dei miracoli compiuti

da Abbone post mortem (PL 139, coll. 413–414), nei quali si sottolinea al-

meno due volte come il miracolo della guarigione dalla cecità si compia

durante l’uffi cio del mattutino.

Abbone potrebbe essere un eccellente candidato per l’autoria dell’Alba

di Fleury. Abate in un periodo perfettamente compatibile con quello in

cui l’inno è stato scritto, Abbone, già molto prima della sua elezione, era

stato praepositus scholaribus del monastero, del quale elevò le scuole al più

alto livello facendone un vero foyer di studi religiosi, scientifi ci e letterari.

Egli stesso, del resto, aveva compiuto gli studi a Fleury, dove apprese i rudi-

menti della lectura, del canto, della grammatica, della dialettica e dell’arit-

metica. Ma allorché divenne responsabile degli studi dell’abbazia si recò

a Parigi, a Reims e ad Orléans dove acquisì nuove conoscenze in fi losofi a,

in astronomia (la disciplina prediletta nella quale ebbe un maestro d’ec-

cezione, Gerberto) e in musica. Tornato a Fleury, dette agli studi abbaziali

nuovo impulso e aggiunse al cursus studiorum le discipline che aveva ap-

preso: la competenza in queste materie spiega bene l’insistenza nei detta-

gli astronomici e la qualità della musica e della metrica di Phebi claro.Fu poi chiamato presso il monastero inglese di Ramsay, un tempo fa-

moso per la qualità del suo insegnamento, ma che allora aveva bisogno

di qualcuno che ne riorganizzasse gli studi e ne elevasse la qualità. Do-

veva essere curiosissimo, in ogni campo, tanto da distinguersi persino

per le sue notazioni etnologiche e per l’attenzione per le lingue straniere.

Nella Vita Sancti Eadmundi Abbone riporta persino parole dell’antico in-

glese, mostrando in questo una propensione per la citazione in lingua al-

lotria che ben potrebbe armonizzarsi con quella dell’autore dell’Alba di

Fleury:

Quod ut factum est, res dictu mirabilis et saeculis inaudita contigit. Quippe caput sancti regis, longius remotum a suo corpore, prorupit in vocem absque fi brarum opitulatione aut arteriarum praecordiali munere. Vespillo-num sane more pluribus pedetentim invia perlustrantibus, cum iam posset audiri loquens, ad voces se invicem cohortantium et utpote socii ad socium alternatim clamantium: “Ubi es?”, illud respondebat designando locum pa-tria lingua dicens: “Her, her, her!”, quod interpretatum Latinus sermo expri-mit: “Hic, hic, hic!” (PL 139, col. 515).

Si fa chiaro anche il cerchio entro cui si può collocare l’origine di

Phebi claro: nel quadro più ampio del tentativo di ricondurre alla Regola be-

nedettina i monaci guasconi, Abbone avrebbe pensato anche ad un inno

mattutino, da recitare durante una festività autunnale, forse nella prima

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L’alba di Fleury da un’altra specola 295

domenica dell’Avvento, probabilmente durante una processione fuori o

dentro le mura cittadine. Il rituale prevedeva una scansione verticale della

recitazione: l’abate cantava il canto in latino e i monaci guasconi, forse

uniti alla popolazione del borgo, rispondevano con il refrain in volgare. Il

latino per Abbone doveva rappresentare il livello alto, quello dell’abate,

venuto a riportare le giuste costumanze, il volgare il livello basso, quello

del popolo e dei monaci, certo non esentati per la loro incultura dall’esor-

tare il padre alla continua veglia; chi canta il testo latino sta, forse anche

fi sicamente, in alto e canta da solo, chi canta il refrain volgare sta in basso

e canta coralmente. L’abate incitava i suoi monaci e la popolazione a sor-

gere, a destarsi dalle tenebre del peccato, ricordava loro la pericolosità

delle insidie del nemico. I monaci, dal canto loro, lo esortavano, col ritmo

e le parole delle scolte, a mantenere alta la guardia, a scrutare le tenebre,

per essere pronto a combatterle. Le parole del refrain, intessute di barbari-

smi, raccolti da Abbone negli ambienti monastici guasconi (e non solo) ri-

cordavano un iter, un percorso di vita: quello che aveva portato l’abate dal

monastero di Ramsey al viaggio per la Guascogna, ricordavano la tappa

ad Albaterra (la ruminatio di quel nome avrà prodotto il contrario atra sol), patria del fedele allievo Aimoino, con la mimesi dello strano linguaggio

ivi parlato. Quelle parole arcane ricordavano altresì la prossimità con i ter-

ritori della Spagna, ancora in gran parte da riconquistare alla cristianità.

La raffi natissima struttura metrica e ritmica di quel refrain alludeva alla

Trinità, ai Vangeli, allo Spirito Santo. La terza strofe, con le sue precise no-

tazioni astronomiche, chiariva che il periodo era quello che preconizzava

l’Avvento imminente, alla maniera del Profeta Isaia.

Un progetto di grande ambizione, ma anche di grande ironia, quello

di Abbone, il tentativo di scrivere un inno mattutino canonico, giocando

sul barbarismo e la barbarolessi. Un progetto che, probabilmente, non fu

mai portato a termine: l’uccisione del grande abate fl oriacense per mano

del barbaro guascone spiega, tragicamente, l’incompletezza di un testo nel

quale si riesce comunque ad intravedere il tenue lume della nuova poesia.

Sigle

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D6028.indb 295 1/15/13 8:32:23 AM

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296 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

PAC Poetae Latini Aevi Carolini (Dümmler, Traube, Winterfeld e Strecker 1881–1923)

PL Patrologia Latina. The full text Database. http:/pld.chadwyck.co.uk/

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304 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Le immagini qui riprodotte sono state elaborate con il software Stellarium.

Fig.

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L’alba di Fleury da un’altra specola 305

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306 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

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L’alba di Fleury da un’altra specola 307

Fig.

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308 Romance Philology, vol. 66, Fall 2012

Fig.

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