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L’ITALIA PUÒ CONTARE SU BANCHE SOLIDE Il sistema finanziario internazionale ha retto alla più grave crisi dal 1929. Gli interventi dei governi e della banche centrali hanno immesso forti liquidità sul mercato, la Banca Centrale Europea ha ridotto al minimo storico il tasso di riferimento, sono stati evitati fallimenti analoghi a quello della Lehman Brothers. L’Italia ha sofferto della crisi della finanza molto meno di altri paesi, grazie ad un sistema bancario solido, forte del risparmio delle famiglie e sottoposto a rigorosi controlli da parte della Banca d’Italia. Ma la crisi si è trasferita sull’economia reale, e sarebbe prematuro pensare che se ne sia già usciti. Molti problemi sono aperti, a partire dalle prospettive dell’occupazione. Quali le opportunità future per i giovani? Quale il peso dell’Europa nel nuovo scenario internazionale, dopo la costituzione del G20? E quale il peso dell’Italia nell’Europa? Il sistema bancario italiano sta svolgendo il suo ruolo a sostegno dell’economia reale, e non merita le accuse di cui è frequentemente oggetto. La qualità del credito non è una variabile indipendente; il denaro prestato appartiene ai risparmiatori e le decisioni di merito creditizio sono di competenza esclusiva della banca; se così non fosse si passerebbe ad un sistema misto di dirigismo e assistenzialismo, che non porterebbe lontano. Per quanto la riguarda, la Banca Regionale Europea, tra le più solide sotto il profilo patrimoniale, con un Core Tier 1 superiore al 13%, ha mantenuto una costante attenzione nei confronti delle famiglie e delle piccole e medie imprese, come è nella sua tradizione. Il modello federativo al quale si ispira il Gruppo UBI Banca conferma una volta di più la sua capacità di essere vicino al territorio, attraverso banche del cui Dna fanno parte la tradizione, la cultura e i valori delle Casse di Risparmio e della Banche Popolari, e al tempo stesso la competitività dell’offerta sotto il profilo qualitativo. Importanti novità nell’ambito del Gruppo UBI Banca, primo nella superclassifica 2009 di BancaFinanza per solidità, redditività e produttività: dal prossimo gennaio sarà operativa una ristrutturazione che coinvolgerà le otto banche con cui il Gruppo opera in tutta Italia. In un’ottica di ottimizzazione delle risorse e di razionalizzazione della rete, ad ogni banca corrisponderà un territorio di riferimento. La Banca Regionale Europea si concentrerà sul Piemonte e Val d’Aosta e sulla Francia, acquisendo le filiali delle altre banche del Gruppo presenti nella regione subalpina e nella prospettiva di un ulteriore sviluppo della rete. Una volta di più la banca conferma la sua capacità di guardare al futuro, in continuità con la sua storia.

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L’ITALIA PUÒ CONTARE SU BANCHE

SOLIDEIl sistema finanziario internazionale ha retto alla più grave crisi dal 1929. Gli interventi dei governi e della banche centrali hanno immesso forti liquidità sul mercato, la Banca Centrale Europea ha ridotto al minimo storico il tasso di riferimento, sono stati evitati fallimenti analoghi a quello della Lehman Brothers. L’Italia ha sofferto della crisi della finanza molto meno di altri paesi, grazie ad un sistema bancario solido, forte del risparmio delle famiglie e sottoposto a rigorosi controlli da parte della Banca d’Italia. Ma la crisi si è trasferita sull’economia reale, e sarebbe prematuro pensare che se ne sia già usciti. Molti problemi sono aperti, a partire dalle prospettive dell’occupazione. Quali le opportunità future per i giovani? Quale il peso dell’Europa nel nuovo scenario internazionale, dopo la costituzione del G20? E quale il peso dell’Italia nell’Europa?

Il sistema bancario italiano sta svolgendo il suo ruolo a sostegno dell’economia reale, e non merita le accuse di cui è frequentemente oggetto. La qualità del credito non è una variabile indipendente; il denaro prestato appartiene ai risparmiatori e le decisioni di merito creditizio sono di competenza esclusiva della banca; se così non fosse si passerebbe ad un sistema misto di dirigismo e assistenzialismo, che non porterebbe lontano. Per quanto la riguarda, la Banca Regionale Europea, tra le più solide sotto il profilo patrimoniale, con un Core Tier 1 superiore al 13%, ha mantenuto una costante attenzione nei confronti delle famiglie e delle piccole e medie imprese, come è nella sua tradizione. Il modello federativo al quale si ispira il Gruppo UBI Banca conferma una volta di più la sua capacità di essere vicino al territorio, attraverso banche del cui Dna fanno parte la tradizione, la cultura e i valori delle Casse di Risparmio e della Banche Popolari, e al tempo stesso la competitività dell’offerta sotto il profilo qualitativo.

Importanti novità nell’ambito del Gruppo UBI Banca, primo nella superclassifica 2009 di BancaFinanza per solidità, redditività e produttività: dal prossimo gennaio sarà operativa una ristrutturazione che coinvolgerà le otto banche con cui il Gruppo opera in tutta Italia. In un’ottica di ottimizzazione delle risorse e di razionalizzazione della rete, ad ogni banca corrisponderà un territorio di riferimento. La Banca Regionale Europea si concentrerà sul Piemonte e Val d’Aosta e sulla Francia, acquisendo le filiali delle altre banche del Gruppo presenti nella regione subalpina e nella prospettiva di un ulteriore sviluppo della rete. Una volta di più la banca conferma la sua capacità di guardare al futuro, in continuità con la sua storia.

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Una costante, nella cultura aziendale della Banca Regionale Europea, è data dal fatto che i Presidenti intervengono con scritti e dichiarazioni soltanto quando c’è davvero qualcosa da dire, in occasione di passaggi di rilievo strategico. Così è stato con la costituzione della banca, nel 1994, in seguito alla fusione tra la Cassa di Risparmio di Cuneo e la Banca del Monte di Lombardia; con il suo ingresso nel Gruppo Banca Lombarda e Piemontese, nel 1999, e con la successiva formazione del Gruppo UBI Banca, nato dalla confluenza nel Gruppo Banche Popolari Unite. La Banca Regionale Europea sta ora vivendo un nuovo passaggio importante, nel quadro del Piano di Ottimizzazione Territoriale del Gruppo, ispirato al principio “una banca, un territorio”: dal prossimo gennaio concentrerà la sua presenza sul Piemonte, la Valle d’Aosta e la Francia, dove sarà il marchio esclusivo di UBI Banca; acquisirà le filiali piemontesi delle altre banche del Gruppo e cederà le proprie filiali in Lombardia (dove manterrà una presenza a Milano, in particolare nel settore corporate) e in Emilia; trasferirà la sede della Direzione Generale da Milano a Torino. Il personale operativo in queste aree troverà le migliori prospettive di impegno in altre banche del Gruppo, che trarranno sicuramente vantaggio dalla sua collaudata esperienza e professionalità.

La lettura di questa svolta deve essere compiuta nel segno della razionalizzazione e dei valori. È di tutta evidenza, infatti, come la sovrapposizione di banche dello stesso Gruppo sulla stessa area territoriale determinasse diseconomie ed inutili concorrenze. Ma ancora più importante è il principio ispiratore, connaturato al modello federativo che caratterizza UBI Banca. Il Gruppo, infatti, opera attraverso otto banche fortemente collegate al territorio, determinate a non perdere il carattere distintivo delle proprie origini di Casse di Risparmio e Banche Popolari; la sinergia tra localismo e dimensione nazionale rappresenta il valore aggiunto, il vantaggio competitivo grazie al quale UBI Banca è al primo posto nella superclassifica 2009 di BancaFinanza e, quel che più conta, è vicina alle esigenze dell’economia reale.

I NUOVI ORIZZONTI DELLA BANCA REGIONALE EUROPEA

DI PIERO BERTOLOTTO

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Nella nuova definizione della sua area operativa, la Banca Regionale Europea troverà un rafforzamento della propria identità di banca del territorio, che ad alcuni, nelle aree di insediamento storico, in particolare nel Cuneese, era stata posta in dubbio, in seguito alla sua avvenuta espansione in altre regioni. In realtà, questa espansione è stata un successo imprenditoriale, motivato dalla volontà di cogliere tutto il potenziale di sviluppo di una banca fortemente capitalizzata e protesa verso nuovi mercati, qual era la Cassa di Risparmio di Cuneo. Nel corso dei suoi primi quindici anni, la Banca Regionale Europea si è affermata come una delle aziende di credito più solide, redditizie e produttive dell’Italia del nord-ovest, ha dimostrato di saper guardare al di là degli orizzonti di campanile. È cresciuta, inoltre, la professionalità del personale, che sa che l’azienda premia il merito ed al quale si offriranno ulteriori opportunità, in un contesto di crescita dell’azienda. Alla banca si aprono ampi spazi, in Piemonte; l’obiettivo è di acquisire nuove quote di mercato, rafforzando la leadership

in provincia di Cuneo e cogliendo le molte opportunità di sviluppo che si prospettano in altre aree della regione, in particolare a Torino, e in Francia.

Un dato importante è la decisione assunta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo di aumentare la propria partecipa-zione azionaria in Banca Regionale Europea dal 20% al 25% del capitale, con un investimento di 128 milioni di euro. È un atto di fiducia nel futuro della banca, da parte di un investitore istituzionale attento al tempo stesso alla redditività e all’interesse del territorio, che deve disporre di unaazienda di credito di riferimento. L’attuale crisi richiede al sistema bancario di svolgere un ruolo attivo per il rilancio dell’economia reale. Il sistema bancario italiano ha retto

bene, perché non ha inseguito la deriva della finanziarizzazione ed ha potuto contare sulla vigile presenza della Banca d’Italia; su impulso dell’ABI sta facendo la sua parte, attraverso iniziative efficaci quali la moratoria dei crediti delle piccole e medie imprese e la sospensione per un anno del pagamento delle rate dei mutui da parte di quanti abbiano perso il lavoro. Fermo restando che la valutazione del merito creditizio spetta alla banca, e ad essa soltanto.

IL Gruppo UBI Banca ha saputo essere a fianco delle famiglie e delle imprese, unendo i vantaggi della dimensione a quelli della reale vicinanza al territorio. La Banca Regionale Europea ha ovviamente aderito alle iniziative di sistema, a partire dalla moratoria dei crediti delle PMI, ed ha assunto proprie iniziative a fronte della crisi: finanziamenti alle PMI, attraverso convenzioni con asso-ciazioni di categoria e Confidi; programmidi microcredito; anticipazione della cassa integrazione straordinaria ai lavoratori delle aziende interessate. Abbiamo ragione di pensare che l’opinione pubblica abbia colto appieno l’importanza di questo passaggio nella storia della Banca Regionale Europea, e che vi siano molte aspettative nel senso del rafforzamento di banca del territorio. Il nome scelto nel lontano 1994 esprimeva una missione precisa e si è rivelato vincente ed anticipatore; ora, nell’ambito del Gruppo UBI Banca, a noi spetta il nuovo compito di presidiare un territorio al centro dell’euro-regione Alpi-Mediterraneo, di cui Torino è uno dei poli, insieme a Genova, Lione e Marsiglia. Come sempre, siamo pronti a percorrere i sentieri del futuro.

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LA BANCA REGIONALE EUROPEA SEMPRE PIÙ BANCA DEL TERRITORIO

La Banca Regionale Europea acquisirà da gennaio le quaranta filiali piemontesi delle altre banche del Gruppo UBI Banca, ed opererà con una rete di 224 sportelli, concentrati nella regione subalpina.Obiettivo: ampliare la quota di mercato ed assumere il ruolo di banca di riferimento del territorio.

UN FORTE INSEDIAMENTO IN PIEMONTE, LA DIREZIONE GENERALE E 16 FILIALI A TORINO

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Il mensile “BancaFinanza” ha pubblicato le classifiche dei gruppi bancari e degli istituti di credito italiani, in collaborazione con la società “Rating” srl. UBI Banca ha ottenuto un importante riconoscimento: è al primo posto nella superclassifica “Gruppi maggiori” (primo per solidità e produttività e secondo per redditività), precedendo la Banca Popolare Emilia-Romagna e Intesa-SanPaolo. La Banca Regionale Europea è al quinto posto nella superclassifica delle banche di media dimensione (terza sotto il profilo della redditività) e, nell’ambito del Piemonte, nella sua categoria è l’Istituto con il miglior posizionamento.

UBI BANCA E BRE AI VERTICI DELLA SUPERCLASSIFICA 2009 DI BANCAFINANZA

La classifica è stata realizzata in base alla elaborazione degli indici di bilancio 2008, con riferimento al grado di solidità, redditività e produttività, utilizzando per ciascuno dei tre aspetti un indicatore sintetico. L’indice di solidità considera come componenti principali la quantità di patrimonio e impieghi a rischio e la qualità del credito. L’indice di redditività considera il ritorno del capitale investito dai soci e del rendimento dell’attività netta dell’attivo fruttifero. L’indice di produttività si basa sul valore aggiunto per dipendente, tenendo conto della struttura dei costi operativi e del rendimento dei mezzi amministrati.

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Nell’ottica di provocare un aumento della massa della ricchezza nazionale, la regola generale è che il governo non faccia nè tenti nulla. Il motto o la parola d’ordine del governo in questo caso dovrebbe essere: stai tranquillo.Jeremy Bentham, Manual of Political Economy, capitolo 1

CORREZIONE O DEVIAZIONE?La crisi che stiamo subendo non è una singola malattia isolata, ma piuttosto l’interazione di tre malattie diverse, ognuna con il proprio carattere, dinamica e terapia: a) l’ora della verità per il deficit estero americano; b) lo scoppio della bolla immo-biliare e c) la grande paura. Possiamo dire che a) è alla base di b) che a sua volta è alla base di c). Le tre componenti interagiscono in diversi modi e finiscono con il generare una perturbazione glo-bale nel corpo dell’economia; tuttavia, si tratta di elementi distinti che devono essere oggetto di uno studio specifico. E’ necessario, dunque, analizzarli uno dopo l’altro per studiarne le cause, i sintomi e le rispettive terapie. Capiremo meglio il passato, il presente e il futuro se esaminiamo innanzitutto l’aspetto più profondo della crisi prima di interes-sarci agli aspetti più superficiali e visibili. Nella maggior parte dei commenti e dibattiti le differen-ze di opinioni girano - implicitamente o esplicita-mente - intorno a una domanda centrale: la crisi attuale rappresenta una correzione di un percorso sbagliato oppure una deviazione dalla giusta stra-da? In questo contesto, è opportuno dare a giusto/sbagliato il senso di sostenibile/insostenibile e non la connotazione normativa di socialmente e poli-ticamente desiderabile/indesiderabile. Secondo la “tesi della correzione”, la traiettoria post-crisi dell’economia globale dovrebbe essere diversa da quella del periodo precedente e la politica ha come compito quello di contribuire alla concezione e messa in opera di un nuovo percorso. Secondo la “tesi della deviazione”, invece, non è necessario modificare la traiettoria originale e la politica ha il compito di aiutare l’economia a ritornare sulla via precedente la crisi. Questo articolo fa riferimento alla prima tesi e sostiene che la correzione dovrà essere sostanziale.

LA CRESCITA SENZA RISPARMIOIl modello dell’economia americana di “crescita senza risparmio” e la sua dipendenza rispetto a due fattori: 1) la globalizzazione e 2) la situazionedel dollaro, sono all’origine della crisi.

Da molti anni la più grande e la più ricca economia del mondo ha smesso di risparmiare ed è diven-tata strutturalmente dipendente dai finanziamenti esterni. Dato che le spese pubbliche e private sono superiori alle entrate, il debito degli Stati Uniti nei confronti del resto del mondo non ha mai smesso di aumentare finanziando un alto livello di consu-mo pubblico e privato piuttosto che il capitale ne-cessario al pagamento degli interessi e al proprio rimborso. Nella stessa situazione, un’impresa, una famiglia o un altro paese sarebbero stati obbligati dal creditore a equilibrare entrate e uscite. Effettivamente, tutte le statistiche disponibili fan-no pensare che la dimensione e la durata del defi-cit americano siano senza precedenti: alcuni altri paesi si sono trovati ad affrontare crisi di fiducia per molto meno e hanno dovuto subire piani di aggiu-stamento. Come ha detto un giorno Hebert Stein, “Ciò che non è sostenibile, non durerà”. Tuttavia, sfidando tutte le leggi di gravità, l’economia ame-ricana è rimasta in piedi più a lungo di quanto non potessero prevedere il buon senso e le leggi fisiche. Effettivamente queste leggi non sono state rispettate per così tanto tempo che ormai si cerca-vano un sacco di argomenti sottili per sostenere che il buon senso non era una chiave di lettura adatta a spiegare quanto succedeva.I due fattori che hanno contribuito al perdurare di questa sospensione temporanea delle leggi della gravità economica sono stati la globalizzazione, con l’entrata in scena dell’Asia, e la situazione del dollaro. Per quanto riguarda il primo fattore, la libera circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali ha permesso di allargare il fossato geogra-fico tra risparmio e investimento e di finanziare massicce importazioni americane di beni manifat-turieri e di servizi esportabili dalla Cina e dall’In-dia, le cui economie conoscono una crescita rapida tipica di un processo di convergenza. Non sarebbe, tuttavia, corretto pensare che la loro crescita sia dello stesso tipo di quella registrata dalle piccole tigri asiatiche, cioè trainata dalle esportazioni. La percentuale di esportazioni rispetto al PIL cine-se e indiano è nettamente inferiore a quelle della Corea, di Hong Kong, di Taiwan e di Singapore negli anni della loro forte crescita. Nel caso di Cina e India, ciò che è enorme è la dimensione del paese, non la percentuale di esportazioni. A volte la dimensione anormale dei disequilibri mondiali viene presentata come la conseguenza di un “eccesso di risparmio” o di surplus asiatici

CAMBIARE PROSPETTIVATRE MALI DAI QUALI OCCORRE GUARIRE: IL FETICISMO DEL MERCATO, IL NAZIONALISMO, L’ILLUSIONE DEL BREVE TERMINE

DI TOMMASO PADOA-SCHIOPPA

Europa

una pazienza attiva. Malinconia e riscatto del Vecchio Continente

Italia una ambizione timida La veduta corta

La crisi dimostra che occorre scegliere una nuova strada e guardare più lontano. Lo scoppio della bolla immobiliare, la crisi finanziaria e il panico che ne sono conseguiti non devono nascondere che le cause profonde dei recenti sconvolgimenti sono legate agli squilibri economici globali e ad un modello di crescita che prescinde dal risparmio. Pertanto occorre individuare i tre mali dai quali è necessario guarire: il feticismo del mercato, il nazionalismo e l’illusione del breve termine.

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eccessivi. Tuttavia, dal punto di vista storico è piutto-sto l’indebitamento esterno dell’economia più ricca e più avanzata al mondo che pare eccessivo. Il secondo fattore che ha contribuito alla sospen-sione delle leggi economiche di gravità è stata la situazione del dollaro americano. Com’è possibile che l’espansione monetaria eccezionale abbia potu-to sostenere così a lungo il sistema di “crescita sen-za risparmio” senza che questo lanciasse un avverti-mento significativo e, meno che mai, un meccanismo di correzione? Perchè non è suonato l’allarme? In una situazione normale, il ritorno alla disciplina avrebbe preso la forma di una perdita di valore interna e/o esterna della moneta. Tuttavia, per gli Stati Uniti e il dollaro la situazione era tutto meno che norma-le. L’inflazione dei prezzi interni al consumo è stata mantenuta a un basso livello grazie ad un’offerta il-limitata di merci e servizi a basso prezzo dall’Asia. Per quanto riguarda il tasso di cambio, la svaluta-zione del dollaro è stata ritardata e attutita dall’ap-petito, apparentemente insaziabile, che provavano i paesi con surplus, per i titoli finanziari emessi in dollari; tre decenni dopo l’abbandono di Bretton Woods, la maggior parte di loro aveva ancora un tasso fisso con il dollaro. Nel mondo precedente al 15 agosto 1971, i paesi con un surplus avrebbero potuto convertire in oro la maggior parte delle loro entrate nette di esportazione (come fecero la Ger-mania, la Francia e l’Italia all’epoca) diminuendo la disponibilità del metallo prezioso e provocando un aggiustamento. Oggi, invece, il ruolo dell’oro è gio-cato dal debito del governo americano che possiede miniere inesauribili.Fino allo scoppio della bolla, quasi nessuno aveva un motivo per lamentarsi di questa dinamica in-sostenibile. Gli Stati Uniti erano la locomotiva di uno straordinario periodo di crescita internaziona-le e l’appetito per i titoli in dollari sembrava tanto inesauribile quanto le miniere del debito pubblico. Perfino la stessa dialettica “politica” tra creditore e debitore non riusciva a farsi strada. Forse per la Cina essere il principale creditore della superpotenza americana aveva un valore politico più importante del rischio finanziario del titolo in sé tanto da la-sciarlo tranquillamente deprezzare. Qualunque sia la ragione che sta dietro a questo comportamento, non c’era nessun premio di rischio importante per i titoli in dollari. Nella corsa al rendimento, erano i ti-toli nel portafoglio degli investitori ad aumentare di prezzo piuttosto che gli articoli nel paniere dei con-sumatori poiché c’era troppo denaro per un numero insufficiente di beni. Ovviamente la differenza tra un’inflazione del “paniere” e quella del “portafoglio” è che la prima impoverisce tutti mentre la seconda arricchisce tutti, almeno nel breve periodo. Tutta-via, le leggi economiche della gravità hanno finito per prevalere nuovamente. E quando l’ultima bolla, quella immobiliare (piuttosto che quella di un bene meno fondamentale per l’economia come la tecno-

logia all’epoca di internet) è scoppiata, questo ha scatenato un processo di aggiustamento che andrà probabilmente oltre l’effetto limitato di un ciclo al-talenante. È probabile che raggiungerà lo strato geo-logico profondo da cui è partita la scossa attuale.Non si è mai visto che un disequilibrio esterno si corregga senza una svalutazione della moneta e un rallentamento dell’economia e più è grande il dise-quilibrio, più la correzione sarà profonda e lunga. La correzione del massiccio deficit esterno ameri-cano, che avrebbe dovuto avvenire tempo fa, è alla base della crisi dei subprimes. Di questo fatto non siamo ancora veramente coscienti.

LO SCOPPIO DI UNA BOLLALa seconda componente della crisi, lo scoppio della bolla immobiliare, cominciata a fine 2006, sembra a prima vista soltanto un altro episodio della lunga serie di cicli economici altalenanti del dopo Bretton Woods, inaugurati dalla crisi del debito in America Latina. In effetti, l’andamento assomiglia molto a quello di altre crisi recenti che, a loro volta, seguiva-no il modello classico delle crisi finanziarie descritte nei libri di storia. Tuttavia, attenersi a questa analo-gia sarebbe un’interpretazione riduttiva. In questa crisi, la combinazione di molteplici fattori ha creato un mosaico complesso e ineguagliabile. La bolla dei subprimes ha una natura globale e si-stemica senza precedenti. Essa è partita dal centro dell’economia mondiale, a differenza dei precedenti episodi, avvenuti nei paesi emergenti come Messico, Argentina, Corea, Indonesia e Russia. A differenza delle precedenti crisi in cui il centro era negli Stati Uniti, come quella delle casse di risparmio, le istitu-zioni che sono oggi nell’occhio del ciclone sono le istituzioni finanziarie americane più grandi e quelle più interconnesse con il resto del mondo. Inoltre, lo scoppio della bolla ha delle conseguenze econo-miche e sociali eccezionalmente importanti. Esso ha delle ripercussioni economiche poiché distrugge ciò che è stato negli ultimi dieci o quindici anni il mo-tore essenziale della crescita economica americana: la forte propensione delle famiglie a consumare. Questo boom del consumo si appoggiava a sua vol-ta su un rialzo continuo dei prezzi dell’immobiliare. Quest’ultimo costituiva la principale fonte di nuova ricchezza per le famiglie americane medie. In questo periodo, i nuclei famigliari americani han-no preso poco a poco l’abitudine di spendere non solo i profitti in capitale che erano già stati genera-ti, ma anche quelli previsti da un futuro rialzo del prezzo dell’immobiliare. Gli istituti di credito hanno incoraggiato questo comportamento. Osservatori e uomini politici elogiavano l’accesso di famiglie a basso reddito a questa forma particolare di ricchez-za, tanto più che essa permetteva di controbilan-ciare la riduzione delle tasse ai ricchi invece che ai poveri, così come le disuguaglianze crescenti di reddito. Le conseguenze sociali del crollo dei prezzi

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dell’immobiliare sono profonde. Milioni di famiglie americane a basso reddito stanno scoprendo ora che la loro “ricchezza” non era che un’illusione e devono far fronte improvvisamente a una riduzione drammatica del loro livello di vita. Inoltre, i contratti ipotecari per natura incitano fortemente i debitori ad abbandonare la propria casa se il valore scende al di sotto del montante dell’ipoteca. Si tratta forse di un metodo facile per uscire da un debito non solvi-bile, ma è causa di un doloroso sradicamento sociale e psicologico. Infine, lo scoppio della bolla immobi-liare ha un alto livello di complessità in materia di tecnica finanziaria che è difficile da padroneggiare nella fase dell’assemblaggio dei prodotti finanziari e ancora di più nella fase dello smontaggio. Per colpa dell’insufficiente controllo da parte della direzione delle imprese private e delle autorità pubbliche di regolazione e di supervisione, si è permesso che cer-ti elementi come la “concessione, poi cessione del credito” o le incitazioni perverse inserite nei modi di remunerazione dei manager o la natura pro-ciclica delle norme di regolazione e di contabilità e gli abu-si commessi dalla agenzie di rating si trasformas-sero in un cocktail esplosivo che nessuno è stato in grado di smorzare. Perfino lasciando da parte le relazioni strette tra le altre due componenti della crisi (l’ora della verità per il deficit estero americano e la grande paura), lo scoppio della bolla immobi-liare porta una sfida economica, sociale, finanziaria e politica ben più grande di tutti gli episodi prece-denti di instabilità finanziaria che abbiamo subito nel corso degli ultimi decenni. Nessun’altra bolla ha mai combinato insieme così tante sfaccettature. Non esiste nessun manuale di sopravvivenza per attra-versare questo tifone.

LA GRANDE PAURA Depositando il proprio bilancio, il 15 settembre 2008, Lehman Brothers ha aggiunto un ulterio-re drammatico shock a una crisi che in un anno e mezzo aveva già colpito i mercati e i dirigenti poli-tici. Quel giorno avvenne l’impensabile. Pressoché tutti gli operatori degli Stati Uniti e del mondo in-tero pensavano che Lehman fosse troppo grande e avesse troppe ramificazioni per fallire. Ci credevano talmente che erano disposti a prestarsi denaro l’un l’altro senza particolari controlli. Questa facile con-discendenza era già stata messa in discussione dallo shock dell’agosto 2007 ed è stata completamente distrutta quando Lehman dimostrò che l’idea che fosse “troppo grossa per fallire” era sbagliata. In quel momento, il denaro e il credito smisero praticamen-te del tutto di scorrere. Con la morte di Lehman, la crisi si è diffusa ben più ampiamente di prima nel settore finanziario mondiale ed ha colpito anche la cosiddetta “economia reale”. Un grande numero di istituti del mondo intero avevano nel proprio porta-foglio passivi e prodotti della banca che era appena crollata. Una volta scatenata, la paura si è propagata

rapidamente dal settore del credito ai mercati bor-sistici. La “corsa”, tuttavia, non si tradusse in una coda di vedove e orfani agli sportelli delle banche per convertire i propri depositi in liquidi, ma nell’in-tervento di finanzieri molto arguti che bloccarono le linee di credito, misero liquidità in riserva nei pro-pri registri e rifiutarono di finanziare nuovamente crediti scaduti. Eravamo passati improvvisamente da un appetito vorace per il rischio ad una avver-sione totale. In quanto sentimento collettivo, la paura era irrazionale. Dal punto di vista di ogni operatore preso individualmente, invece, era perfettamente ra-zionale seguire l’accecamento del gregge. Nello stes-so modo in cui una ricchezza immaginaria, creata dall’euforia del mercato, può essere resa reale da coloro che sono capaci di scegliere il momento op-portuno per entrare e uscire, così la ricchezza reale può essere distrutta da un panico irrazionale. Una società altrimenti sana può essere condotta al fallimento se il pubblico crede a false voci sul suo stato di salute. Questo è particolarmente vero quando si parla di istituti finanziari e soprattutto di banche particolarmente indebitate che prendono a prestito a breve termine per imprestare a lungo termine. Non si può venire a capo della paura col-lettiva se non con la presenza, all’esterno della folla presa dal panico, di una forza potente e raziona-le che riesca a fermare il gregge prima che si getti dall’alto di una roccia. È ciò di cui sono incaricate per definizione le autorità pubbliche come le ban-che centrali, i supervisori, i ministeri del tesoro e i parlamenti. Se il gregge non lo fa da solo, è compito di queste istituzioni riportare l’ordine con la loro autorità. Rappresentano l’ultimo bastione.

QUALE CORREZIONE?Alla fine del 2008, la grande paura non era ancora terminata. Come un bambino dopo una crisi isterica, la finanza internazionale rischiava ancora di ricadere nella confusione a ogni momento al minimo rumore o contrattempo. Per evitare gravi danni all’econo-mia, era urgente che il sistema finanziario si rimet-tesse rapidamente a funzionare, così come è necessa-rio ristabilire l’afflusso di ossigeno al cervello dopo un attacco per evitare danni cerebrali irreparabili. Allo stesso modo, diventava ogni giorno più pres-sante curare anche le altre due malattie coinvolte nella crisi: la bolla dei subprimes e i disequilibri macroeconomici. Queste urgenze hanno creato due complicazioni principali: ogni malattia influisce sul corso delle altre due e dunque rimediare a una ri-schierebbe di aggravare l’altra. Per esempio, la pau-ra e il panico generale potrebbero causare una vera e propria paralisi dell’attività economica piuttosto che un semplice rallentamento necessario per inco-raggiare l’aumento del tasso di risparmio negli Stati Uniti e dunque per correggere i disequilibri macro-economici. A sua volta questa paralisi imporrebbe uno stimolo economico che spingerebbe gli Stati

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ancora di più verso un risparmio negativo che alla fine ritarderebbe la correzione dei disequilibri. Allo stesso modo, le iniezioni massicce di liquidità ne-cessarie per far ripartire i prestiti interbancari pre-sentano dei rischi simili a quelli di una politica mo-netaria eccessivamente espansionistica che all’inizio ebbe proprio l’effetto di gonfiare la bolla immobi-liare. Questi esempi dimostrano come la natura com-posita della crisi abbia creato un conflitto difficile da risolvere tra le necessità di una politica a breve termine e quelle di una politica a lungo termine. Il luogo comune che si sente sovente ripetere di una crisi, originariamente finanziaria, che è diventata economica solo in seguito, non è corretto. Le radici di questa crisi sono tanto a Main Street quanto a Wall Street. Il fatto vero è che per molto tempo c’è stato un disequilibrio economico fondamentale la cui cor-rezione è stata eccessivamente ritardata dalla bolla finanziaria. Quando questa ha finito per scoppiare, si è scatenato il panico sui mercati. Da questo con-segue che l’economia è trovata a far fronte simulta-neamente a tre sfide: la correzione dei disequilibri fondamentali, il disindebitamento dovuto allo scop-pio della bolla immobiliare e la stretta del credito causata da un’estrema avversione al rischio.L’analisi precedente dimostra come sia importante che la traiettoria dell’economia dopo la crisi sia ra-dicalmente diversa da quella che precede la crisi. È necessaria una correzione profonda e non un cam-biamento di percorso temporaneo. Questa corre-zione dovrà essere qualcosa di più che un normale aggiustamento di prezzo o di quantità, del tipo di quelli che avvengono normalmente grazie ai mec-canismi di mercato, senza per questo arrivare a so-stenere un cambiamento di regime completo. Serve qualcosa tra i due. Sappiamo che la forza del siste-ma di mercato non è tanto quella di evitare gli errori quanto permettere aggiustamenti in seguito. Il suo fondamento filosofico non è l’utopia di un’econo-mia senza difetti, ma l’accettazione della fallibilità umana. In un tale sistema, i prezzi sono il princi-pale strumento di aggiustamento. E i prezzi sono un moto perpetuo che si traduce attraverso cambia-menti e tendenze orarie, giornaliere, trimestrali e addirittura pluriennali. Tutti questi movimenti sono degli “aggiustamenti”, determinati da nuove infor-mazioni o dalla revisione di giudizi dati sulla base delle informazioni precedentemente disponibili. Ma l’importanza e le conseguenze di questo genere di aggiustamenti sono variabili. La maggior parte sono inoffensivi. Alcuni possono essere mortali per delle singole imprese, ma inoffensivi per il sistema. Altri possono colpire l’intera economia anche se non in maniera permanente. La parola “crisi” è appropria-ta quando l’aggiustamento è particolarmente turbo-lento e il ritorno a un percorso sostenibile è partico-larmente laborioso. Dove si situa la crisi attuale su questa scala? Non si tratta di un episodio ordinario di instabilità finanziaria, inevitabile in un sistema di

mercato. In realtà, la sua gravità oltrepassa quella delle crisi finanziarie che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. All’estremo opposto, non si tratta neppure, come alcuni sostengono, del crollo finale del capitalismo o dell’economia di mercato; non è, infatti, come la caduta del Muro di Berlino che ha segnato la fine del sistema di pianificazione centrale. È “solamente” la crisi finale di una forma particola-redi economia di mercato. Per salvare il sistema di mercato e renderlo al tempo stesso più funzionale e più accettabile per gli abitanti del mondo intero, dobbiamo identificare e correggere i difetti che han-no permesso al modello non sostenibile di “crescita senza risparmio” di prolungarsi così a lungo.

IDENTIFICARE I DIFETTIDue questioni diverse - corrispondenti a due fun-zioni distinte di gestione e di prevenzione di una crisi - fanno parte dell’agenda politica: come far uscire l’economia dal pantano attuale? Come rifor-mare il sistema economico e finanziario per evitare che tutto questo si riproduca? Prima di rispondere a queste domande è importante sottolineare meglio l’interazione tra prevenzione e gestione della crisi. Per riflettere alle riforme necessarie, è bene avere in mente che la crisi e le politiche adottate per farvi fronte forgiano di per se stesse una realtà nuova, cioè costituiscono da sole una sorta di riforma. Ed è con questa nuova realtà, non con la precedente, che deve fare i conti la pianificazione dell’avveni-re. Così si spiega la rinascita della banca universale con la trasformazione di Goldman Sachs, Morgan Stanley e American Express in società di holding bancarie o la caduta di Lehman e l’acquisto sull’orlo del fallimento di Bear Stearns e di Merril Lynch che hanno prodotto un’ulteriore concentrazione. In più, noi dovremmo avere ben presente che il compito di riformare il sistema comincia prima che il compito di gestione della crisi sia terminato. In effetti, di-verse azioni intraprese dalle autorità pubbliche per far uscire l’economia dal pantano sono state fatte avendo a mente il mondo successivo alla crisi e la pianificazione di questo mondo comincia ben prima della fine della crisi. Per fare un paragone con la Seconda Guerra Mondiale, è utile ricordare che le conferenze di L’Avana, di Bretton Woods e di San Francisco (che hanno elaborato il sistema del do-poguerra) si sono tenute mentre la guerra infuriava ancora. Le potenze che si combattevano in Europa, infatti, non avevano solo la semplice strategia di vin-cere la guerra, ma anche di ridefinire le frontiere del dopo-guerra. Infine, il sistema che la crisi ci lascia in eredità non dovrebbe essere considerato sacro da coloro che sono incaricati della ricostruzione suc-cessiva. In effetti, certi interventi pubblici richiesti e giustificati dall’urgenza dovranno essere rapida-mente invertiti una volta che la tempesta sarà passa-ta; le iniezioni di capitale pubblico e l’accettazione di collaterali dubbi da parte delle banche centrali

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sono buoni esempi al proposito. Uno degli obiettivi maggiori delle riforme è precisamente quello di evi-tare la ripetizione di certe misure indesiderabili che l’urgenza aveva reso necessarie. Lo stesso discorso si può fare per i cambiamenti strutturali prodotti dal-la tempesta, quali le nuove concentrazioni bancarie che hanno fatto apparire un nuovo grande numero di istituzioni giudicate “troppo grosse per poter fal-lire”. Possiamo avere buone ragioni per proseguire la de-concentrazione nel quadro della ricostruzione successiva alla crisi.Detto questo, nei prossimi paragrafi non discuteremo le numerose e molto pertinenti questioni tecniche che fanno parte del programma di riforma quali il ruolo dei regolatori, una nuova specificazione delle istituzioni sottomesse alla regolazione, le norme di contabilità, l’accesso ai meccanismi di finanziamento della banca centrale, le politiche di remunerazione dei manager e dei gestori di titoli, la dimensione pro ciclica dei meccanismi di regolazione, le agenzie di rating e le infrastrutture finanziarie. Parleremo, in-vece, di quelli che a nostro avviso dovrebbero essere considerati come i difetti principali che si sono svi-luppati nel corso degli ultimi tre decenni nel sistema di mercato. La forma concettuale con cui presenterò questi difetti potrà sembrare un po’ lontana dalla li-nea del fronte del dibattito attuale. Tuttavia, questa costruzione teorica è un modo di toccare la realtà vera e non una maniera per sfuggirvi. Io penso che questa crisi sia dovuta a tre fattori: il fondamentalismo di mercato, il nazionalismo e il “corto-termismo”. Nessuno di essi era sconosciuto prima dei recenti avvenimenti, nonostante non tut-ti siano stati o non siano considerati come dei pro-blemi. Sarebbe un’illusione pensare che i danni di questa crisi siano dovuti a degli aspetti nuovi e mi-steriosi della natura umana e dell’attività finanziaria. La peste non è stata provocata da un batterio scono-sciuto; la si sarebbe potuta evitare in larga misura con una profilassi ordinaria. Si sapeva che la cupidità è un fattore pericoloso che degenera facilmente in manipolazione e frode. Si sapeva che il buon fun-zionamento di un’economia di mercato si basa su un misto di azioni private e pubbliche e che la mano invisibile non produce prosperità collettiva se non opera all’interno di un quadro legislativo di rego-lazione e supervisione. Si sapeva pressapoco anche come questo quadro doveva essere costruito e opera-re. Il fatto che il lato pubblico dell’equazione sia stato considerato sempre di meno nel corso degli ultimi tre decenni costituisce un fallimento politico. Se gli attori privati sono riusciti a sottrarsi al controllo dei loro regolatori pubblici, è perchè i dirigenti politici li hanno lasciati fare, o addirittura hanno sminuito il ruolo di sorveglianza del mercato che ha il settore pubblico. Questo corrisponde a dire che è la politica e non tanto il comportamento naturale da biasima-re. Normalmente si considera che le mancanze della politica siano dovute all’eccessivo interventismo dei

governi, in questo caso, invece, sono dovute all’ec-cessivo lassismo. E’ giusto riconoscere che spetta alla politica e non al mercato correggere questi difetti. Non abbiamo ovviamente alcuna certezza che la po-litica possa risolvere tutti i problemi che sono sorti, ma non dubitiamo che la maggior parte dei cambia-menti necessari non possa derivare che dalla politica e non da un ordine spontaneo alla Hayek.

IL FONDAMENTALISMO DEL MERCATO O L’ABDICAZIONE DELLA POLITICAE’ soprattutto sul terreno del pensiero economico che si può trovare la più grande défaillance politi-ca alla base della crisi. Si tratta della convinzione sbagliata che il mercato, in particolare quello fi-nanziario, sia in grado di autoregolamentarsi e che quindi non sia necessaria una regolazione pubblica. Quest’idea radicale, che possiamo qualificare come fondamentalismo di mercato, è sostenuta dall’ala estremista del vasto movimento intellettuale a favo-re del mercato che ha guidato il pensiero e deter-minato la politica economica negli ultimi trent’an-ni. Questo movimento è comparso in reazione agli eccessi dell’interventismo politico e della sfiducia verso i mercati del periodo precedente. Nel corso dei cinquant’anni dopo la risposta sbagliata alla cri-si del 1929 e l’esperienza del New Deal, l’idea che l’intervento del governo sia un elemento necessario dell’economia di mercato ha subito un’evoluzione: dall’essere una provocazione è diventata un dogma per poi assumere il ruolo di quadro di riferimento della politica economica. Negli anni ‘50 l’intervento attivo del governo era ancora guardato con sospetto, ma verso la metà degli anni ‘60 esso era diventato la corrente di pensiero maggioritaria. L’interventismo, però, andò spesso troppo oltre, al punto da creare degli eccessi di attivismo politico che soffocavano la libertà economica e moltiplicavano le interferenze dello Stato e della burocrazia nel mondo degli affari.Verso la fine degli anni ‘70, la crescita debole, il ruolo crescente dell’inflazione e dei deficit pubblici provocarono l’inversione della bilancia. Il proces-so cominciò in Cile con gli economisti di Chicago ingaggiati da Pinochet e continuò con la salita al potere di Margaret Thatcher (1979) e di Ronald Re-agan (1980). Si finì per tornare all’idea di Jeremy Bentham che “l’interferenza [del governo] è allo stesso tempo necessaria e perniciosa” (è proprio in opposizione a quest’idea che Keynes aveva scritto The end of laissez-faire, la fine del laissez-faire nel 1926). “State tranquilli!” era il consiglio di Bentham ai governanti. “Il mercato lo fa meglio” fu il grido di guerra della crescente falange di nuovi volontari che combattevano - nelle università, nelle sale di mer-cato, nei comitati editoriali dei giornali, nei think tanks, nelle banche centrali, nei ministeri e diparti-menti dell’economia e nelle commissioni parlamen-tari - per meno governo, meno regolamentazione e per una selezione darwinista (anche se in campo

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scientifico alcuni di questi stessi volontari erano cre-azionisti). Il fondamentalismo di mercato ha assunto un gran numero di forme. Negli scorsi vent’anni, il programma politico per quanto riguarda i mercati finanziari è consistito essenzialmente nel cancellare le barriere regolamentari, resistere agli appelli che richiedevano norme per i nuovi attori, confondere i confini tra istituzioni autorizzate e non autorizzate e avvicinarsi a un ritorno alla piena libertà bancaria (free banking). La deregolamentazione era diventata il punto chiave, a volte perfino esclusivo, dei pro-grammi di politica economica. Scrive Alan Green-span: “[…] i nostri compiti di regolatori ci portano sempre di più a contare su un’autoregolazione simile a quella che emerse in una forma più primitiva, negli Stati Uniti negli anni 1850”. Un membro importante della Commissione Europea sostenne che “meno è più”. Le autorità politiche diventarono non solo non interventiste, ma vere e proprie attiviste della dere-golamentazione. Professavano perfino l’agnosticismo a proposito di temi economici essenziali come il tasso di cambio di equilibrio, il tasso di interesse naturale, l’inflazione e il livello di pieno impiego. La comples-sità del calcolo di questi concetti e di altri dello stes-so tipo serviva come argomento per escluderli dalla cassetta degli attrezzi della politica. La sola “realtà” era l’opinione del mercato; ogni tentativo di avere una visione politica costituiva un’interferenza illegit-tima ed era considerata come la prova indiretta di un’eresia. Tutto ciò rappresenta un’abdicazione delle autorità pubbliche (i politici come i funzionari) alle loro responsabilità istituzionali.I tre decenni nel corso dei quali la bilancia è passata da un attivismo eccessivo al fondamentalismo di mer-cato sono quelli in cui le istituzioni pubbliche (ban-che centrali, regolatori finanziari, ecc.) hanno con-dotto e vinto la battaglia per la propria indipendenza rispetto agli organi politici. Essi si sono battuti non soltanto sulla base della natura tecnica dei loro com-piti, ma anche per provare a resuscitare i principi del mercato. Forse non si era ben capito che l’emancipa-zione di queste istituzioni rischiava di sottometterle agli interessi degli ambienti d’affari, in particolare in un’epoca in cui il prestigio intellettuale e sociale del settore privato nascondeva la grandezza del servizio pubblico. E’ un peccato che così pochi responsabili pubblici conoscano la letteratura economica che trat-ta il rischio di “cattura del regolatore”. Purtroppo, un eccesso apre la via ad un eccesso opposto. Il totale abbandono da parte delle autorità pubbliche del loro compito di prevenzione della crisi ha contribuito a un crollo sistemico. La conclusione è che oggi le auto-rità pubbliche hanno smesso di credere al mercato e si allineano a importanti interventi pubblici. Ora che la bilancia è arrivata al punto estremo, coloro (come l’autore di quest’articolo) che preferiscono che essa sia in equilibrio, al centro tra l’anarchia economica e l’intrusione governativa, devono prepararsi per difen-dere ancora una volta i principi del mercato.

RIDURRE IL DIVARIO TRA MERCATO E POLITICHE NAZIONALILa seconda défaillance della politica all’origine della crisi va cercata dentro le istituzioni: si tratta del fossato, mai superato, tra il terreno d’azione del mercato e quello delle politiche pubbliche. Al posto di ridursi, questo divario è aumentato nel corso de-gli anni, rendendo la politica sempre più inefficace. Negli ultimi sei anni, il commercio internazionale si è sviluppato a un tasso medio annuo che è circa il doppio di quello del PIL mondiale. La mobilità internazionale dei capitali – che era praticamente nulla all’indomani della Seconda Guerra Mondia-le ed era stata repressa sotto Bretton Woods – si è poco a poco fatta strada e non ha oggi nessun osta-colo. Grazie alle tecniche dell’informazione e della comunicazione moderne, molti servizi, soprattutto quelli a forte valore aggiunto sono diventati espor-tabili. Non si passano le frontiere solo per commer-ciare prodotti finiti, ma anche durante il processo di produzione. Nonostante ciò, le istituzioni pubbliche necessarie al sostegno del mercato, a parte qualche minima eccezione, sono rimaste prerogativa degli Stati-nazione che interpretano la sovranità in termi-ni assoluti e rifiutano di riconoscere un qualunque altro potere sopra di loro. E’ evidente che in una tale situazione nessuna economia “interna” può soddi-sfare pienamente le condizioni necessarie al pro-prio buon funzionamento per mancanza di quella componente essenziale e necessaria che è la politi-ca. Grosso modo, questa componente che distingue l’anarchia dalla libertà economica comprende al suo interno un sistema di Stato di diritto (che include a sua volta l’elaborazione e l’attuazione delle leggi e delle norme, ecc.), la disponibilità di beni pubblici essenziali, l’autorità sul potere e le risorse necessa-rie al compimento della sua missione.L’economia interna è diventata planetaria. Un mar-ziano obiettivo, che sbarcasse sulla terra con un mi-nimo di conoscenze economiche di base troverebbe perfettamente normale che un mercato mondiale sprovvisto di politica sia instabile e funzioni male. Il campo d’azione di ciò che è “pubblico” dovrebbe per definizione corrispondere o oltrepassare quello degli attori “privati” del mercato. I circa duecento sovrani, cosiddetti assoluti, non sono “pubblici” che all’interno delle proprie frontiere. Sulla scena mon-diale, sono dei “privati”. L’assenza di un sistema di regole e di disciplina mondiale è evidente. I timidi comunicati pubblicati sistematicamente in seguito ai summit internazionali che dichiarano la necessità di correggere gli squilibri mondiali non sono mai stati seguiti né da pressioni reali né tanto meno da azioni chiare. Il Fondo Monetario Internazionale non ha il potere necessario che gli permetterebbe di sorvegliare e influenzare le politiche dei paesi più importanti. Nel settore finanziario, alcuni comita-ti internazionali di regolatori (Comitato di Basilea, IOSCO1, ecc.) e il Financial Stability Forum creato

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recentemente - per quanto ne sia lodabile lo sforzo - non hanno veramente modificato la frammentazione delle politiche. Essendo composti da rappresentanti nazionali, questi comitati sono sostanzialmente in-capaci di agire come poteri sovra-nazionali. Inoltre, le istituzioni finanziarie aggirano spesso le regole accettate internazionalmente, domiciliando i propri affari nei centri off-shore, dove la regolamentazione e la supervisione sono piuttosto lassiste. Nel campo monetario, la sovrabbondanza di liquidità interna-zionale e l’assenza di un regime di tassi di cambio stabilito hanno da tempo smesso di essere al centro dell’agenda delle discussioni internazionali. La com-posizione degli organi e dei forum internazionali ri-flette realtà del passato più che la situazione attuale e questo non ne favorisce la rappresentatività. Il na-zionalismo economico ha contribuito all’incubazio-ne delle perturbazioni e intralciato la gestione dopo lo scoppio della crisi. Sarebbe scorretto denunciare i difetti del nazionalismo senza riconoscere al tem-po stesso la grande difficoltà di farvi fronte. Anche il nostro marziano non tarderebbe a scoprire la com-plessità di una tale impresa. Ci culleremmo nelle illusioni se ci nascondessimo l’urgente necessità di ridurre il divario tra mercato e politica.

IL CORTO-TERMISMO O L’ILLUSIONE DEL TEMPOLa crisi trova, infine, le sue radici in una terza defail-lance dovuta alla particolare forma di mercato che ha dominato gli ultimi anni: il restringimento eccessivo degli orizzonti temporali nella condotta degli affari tanto privati quanto pubblici. Il corto-termismo – aspetto del nostro comportamento che appartiene più alle abitudini sociali che non alla sfera delle idee o delle istituzioni – dimostra che non abbiamo ancora imparato a dominare completamente il cambiamento rivoluzionario che la tecnologia moderna ha apporta-to alla scala del tempo.Il corto-termismo si è diffuso in tutta la società anglo-sassone e oltre. Il segno più evidente è la scomparsa del risparmio dato che questo rappresenta l’essenza stessa dell’incorporazione del tempo nelle decisioni economiche. Noi risparmiamo per l’avvenire, ma se il futuro non ha valore perchè non guardiamo al di là dell’oggi, allora perchè risparmiare? Il modello di “crescita senza risparmio”, descritto in precedenza, non può durare che con l’esistenza di qualcun altro che risparmia e presta; nel momento in cui il credi-tore chiede il rimborso oppure smette di prestare, la massima di Hebert Stein diventa vera. Un’altra prova della diffusione del corto-termismo è il restringimen-to dell’orizzonte temporale della politica economica e del processo politico in generale. I governi eletti non beneficiano più di tutta la durata del proprio manda-to; la loro legittimità de facto, e dunque la loro forza, dura solo fino a quando sono sostenuti dai sondaggi d’opinione, come se dovessero essere eletti in conti-nuo. Pianificare una politica economica pluriennale

è un investimento politico molto rischioso che pochi uomini politici osano fare ed è possibile, per altro, che la politica come professione non attiri gli uomini inclini a pensare a più lungo termine. Questo signi-fica che, per esempio, negli Stati Uniti dove il man-dato presidenziale dura quattro anni e la campagna elettorale almeno due, l’amministrazione in esercizio abbia bisogno di un’economia che non smette mai di crescere ed è pressoché obbligata ad agire con degli orizzonti di breve termine.Il cambiamento della scala temporale si manifesta anche in altri modi, apparentemente meno impor-tanti o semplicemente tecnici che però hanno giocato un ruolo rilevante nel preparare il terreno alla crisi. Il passaggio da un sistema finanziario fondato sulla banca a un sistema fondato sul mercato, lo sviluppo di un modello finanziario “concedi e poi cedi” e lo sviluppo della cartolarizzazione e degli strumenti ne-goziabili (la trasformazione del vestito finanziario da fatto su misura a prêt-a-porter) rappresentano tutti dei cambiamenti che incoraggiano dei calcoli economici fondati sul breve periodo. I titoli sono negoziati in permanenza in funzione dell’evoluzione possibile del loro valore di mercato nel futuro prossimo. La stima del loro valore a scadenza conta molto meno che in-dovinare quanto li valuterà il mercato qualche mese, settimana o perfino giorno dopo. Questo fenomeno è comparabile all’impatto dei sondaggi istantanei sulla politica. La remunerazione dei manager e degli am-ministratori delegati è fondata sui risultati a breve ter-mine. Le norme in materia contabile si fondano sul principio del corso di mercato, come se il “vero” valo-re di un’impresa fosse il prezzo a cui potrebbe essere liquidata oggi. La diffusione del corto-termismo non è una tendenza superficiale. Bisogna vederla come un elemento di un vero e proprio cambiamento antropo-logico, provocato da una variazione improvvisa del-la scala del tempo e dello spazio in cui viviamo. Nel giro di sei o sette generazioni (e ben più rapidamente all’esterno del mondo occidentale) una scala che era rimasta immutata nella mente umana per millenni, è stata improvvisamente trasformata dalla tecnologia. Questa, infatti, ha cambiato completamente il tem-po necessario fino a quel momento per produrre un bene, scavare un tunnel, spostare le persone e le mer-ci attraverso il pianeta, fornire le informazioni e fare un calcolo. Pensando al proverbio che esiste in tutte le lingue (“il tempo è denaro”), possiamo interpretare questo cambiamento come la concessione di un valo-re molto elevato a una forma monetaria particolare, il tempo. In termini di quantità di lavoro, trasporto o comunicazione, il valore di un’ora in questo nuovo mondo è uguale a quella che si dava nel vecchio mon-do a un mese, un anno o un decennio.Il corto-termismo è insidioso perchè non conside-ra i numerosi aspetti della vita umana e della realtà economica in cui la scala del tempo non è cambiata. E’ possibile che una prospettiva a breve termine pro-lunghi una bolla e ritardi il momento in cui i fonda-

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mentali economici si impongono da soli, ma non può prolungare indefinitamente ciò che non è sostenibile. Quando cerca di farlo, ciò diventa una forma di illu-sione temporale condannata a un risveglio difficile. La nostra velocità è passata da dieci a cento chilome-tri all’ora, ma i nostri fari illuminano sempre lo stretto tratto di strada. Dunque, quando alla fine gli ostacoli vengono illuminati sulla nostra strada, scopriamo che non abbiamo il tempo per frenare.Imparare a conci-liare la nuova e la vecchia scala del tempo è un com-pito che non tocca solo agli individui e alla istituzioni private, ma che bisogna inserire nell’agenda della politica. Certi lettori pensano forse che le carenze do-vute al restringimento degli orizzonti temporali siano un problema di ordine privato. Una riflessione più ampia, invece, fa capire come sia giustificato e sem-pre più necessario che la politica intervenga contro il rischio di essere privati di un avvenire. Per esempio, il pubblico ha un ruolo da giocare nella protezione delle risorse naturali e la gestione della redistribuzio-ne tra generazioni; si tratta in quel caso di esternalità legate al tempo, che i meccanismi ordinari di mercato non sono capaci di gestire. Dopo tutto, l’obiettivo di una costituzione è anche quello di difendere i futuri governi contro il rischio di essere privati delle proprie prerogative dai governi attuali. Occuparsi delle trap-pole del corto-termismo e riflettere ai mezzi istituzio-nali per incoraggiare un rapporto più equilibrato tra considerazioni a breve e lungo termine nel processo di decisione economica e politica degli attori privati come di quelli pubblici è una sfida importante. Gli avvenimenti degli ultimi due anni suggeriscono, tut-tavia, che non ne possiamo fare a meno.

È URGENTE CAPIRE 2009, il terzo anno di crisi comincia in un clima di incertezza e ansietà. I crac in successione e gli scandali finanziari non sono terminati. Lo sconforto si è impadronito del mondo intero. La produzione, il lavoro e il livello di vita sono colpiti. E’ vero che

fino ad ora non abbiamo ripetuto gli errori politi-ci che avevano precipitato il mondo in una lunga depressione dopo il 1929, ma questo non basterà ad evitare una diminuzione drammatica dell’attività economica. E la contrazione del commercio interna-zionale, che si vede in tutti gli ultimi dati, dimostra che è troppo presto per dichiarare che le peggiori esperienze degli anni trenta non si ripeteranno.Se finora abbiamo capito bene lo scoppio della bol-la immobiliare e il panico che si è impadronito dei mercati, abbiamo ancora difficoltà ad ammettere che i disequilibri macroeconomici e il modello di “crescita senza risparmio” sono le cause profonde dello sconvolgimento attuale. Però, non riconoscer-lo a pieno rischia di ridurre le opportunità di suc-cesso delle riforme. Questo articolo sottolinea le tre défaillance della forma particolare di economia di mercato che ab-biamo conosciuto nel corso degli ultimi tre decenni fino a questa crisi finale: fondamentalismo di mer-cato, nazionalismo economico e corto-termismo. La prima défaillance, una ricaduta negli errori passa-ti e ben conosciuti, è correttamente identificata e sarà probabilmente corretta. Dovremmo, però fare attenzione a evitare una sovra-correzione. Quanto al nazionalismo, gli economisti, gli specialisti di scienze politiche e gli storici ne hanno completa-mente analizzato la natura e indicato i rimedi. Le istituzioni create dopo la Seconda Guerra mondiale, a livello planetario e con maggior successo a livello europeo sono efficaci e costituiscono degli esempi promettenti per le riforme necessarie. La difficol-tà maggiore sta nella resistenza furiosa da parte del potere stabilito al cambiamento. Il corto-termismo, per ora meno ben capito, non può neanche esse-re riconosciuto come un fattore centrale all’origine della crisi. Ho provato a spiegare la sua importanza e perchè dovrebbe essere preso in considerazione in una politica di riforme.Riformare l’economia di mercato su scala mondiale è la condizione per far ripartire la prosperità, vin-cere la povertà e molto probabilmente preservare la pace. Inutile sottolineare a qual punto questo com-pito sia arduo. Ai responsabili politici tocca entrare in scena oggi. Noi ci troviamo in uno di quei rari momenti in cui l’argilla, con cui costruiamo i siste-mi, le istituzioni e le mentalità, si è ammorbidita ed è pronta a prendere nuove forme. È urgente capi-re la crisi attuale per poter dare una nuova forma all’argilla prima che essa si indurisca di nuovo, una forma capace di attraversare i decenni a venire. Le crisi ci aprono gli occhi, mentre i periodi normali hanno una tendenza a farceli chiudere. È per que-sto che le crisi rappresentano anche delle occasioni importanti.

Rassegna

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LA “TEMPESTA PERFETTA” DELL’ECONOMIA GLOBALE

LA TEMPESTA FINANZIARIA E LA NECESSITÀ DI SOSTITUIRE IL BICCHIERE ROTTO Il dipanarsi della crisi finanziaria e il suo impatto sull’economia reale sono sicuramente noti ai letto-ri di questo Rapporto e non richiedono tanto una diligente cronaca, che si può ricavare da molte fonti, quanto una serie di sottolineature interpre-tative con lo scopo di mettere a fuoco quelle che, a parere di chi scrive, ne sono caratteristiche salien-ti. Una considerazione generale riguarda l’estrema complessità della crisi stessa, il suo muoversi su diversi piani, il suo interessare, spesso con col-legamenti inattesi, non solo i più vari aspetti del circuito economico ma anche gli equilibri sociali, politici e strategici. Tale complessità è un fattore distintivo del fenomeno che induce a classificarlo come «crisi di sistema» nel senso abbondantemen-te noto della storiografia braudeliana1; una simile crisi presenta prevalentemente problemi qualita-tivi anziché quantitativi e richiede un ridisegno globale anziché, secondo un’illusione corrente, pochi, semplici aggiustamenti tecnico-normativi. Non si tratta, infatti, di riempire un bicchiere che si è vuotato, ma di sostituire un bicchiere che si è rotto. Il carattere sistemico della crisi risulta chia-ro se si guarda ai meccanismi della sua propaga-zione, descritti con un certo dettaglio nello scorso Rapporto, e in particolare alla «rottura» del tradi-zionale contenitore dei mutui edilizi, ossia del cir-cuito mutuatario-banca mutuante2. Tale «rottura» avviene in favore di un più complesso meccanismo in cui si ha un «circuito finanziario» che «lavora» la «materia prima mutui» classificandola in base al ri-schio, alla durata e ad altri fattori, quindi la unisce con altre materie prime (ad esempio gli impegni di chi, acquistando con carta di credito, deve pagare alla metà del mese successivo) per confezionare poi un «abito finanziario» su misura per clienti come i fondi comuni di investimento, i fondi pensione, le società di assicurazione e simili. In conseguenza del fallimento di questo meccani-smo - ossia della sua effettiva incapacità di preve-dere con sufficiente precisione il livello di rischio

e di premunirsi contro eventuali cambiamenti -, nel circuito finanziario globale si inserisce una gran quantità di titoli «infetti». Come il paziente colpito da una malattia contagiosa, anche il ti-tolo «infetto» si trasforma a sua volta in veicolo di ulteriore propagazione della malattia. A diffe-renza delle epidemie di tipo sanitario, però, tale propagazione avviene in tre diverse direzioni che attribuiscono al contagio un carattere «esplosivo»: a monte - l’infezione si ripercuote pesantemente sulla credibilità dell’istituzione che ha emesso il titolo; riduce il valore degli altri titoli emessi dalla stessa istituzione e delle azioni che ne rappresen-tano il capitale; a valle - il valore del prodotto fi-nanziario derivato in cui il titolo stesso è inserito si riduce; si realizza così una «catena infettiva» che va a colpire titoli sempre più complessi; la-teralmente - vengono pesantemente colpiti anche i prodotti finanziari che hanno un collegamento con il prodotto finanziario infetto, ad esempio i credit default swaps, forma assicurativa usatissima dagli acquirenti di mutui subprime per protegger-si dalla possibile cattiva qualità del credito e dive-nuti con il tempo strumenti di pura speculazione, il cui ammontare, nei soli Stati Uniti, è pari a circa un terzo del prodotto lordo mondiale3. La stessa metafora del contagio e dell’epidemia può esse-re utilizzata per illustrare il comportamento delle autorità di vigilanza, ossia delle banche centrali. Come le autorità sanitarie del Seicento, all’inizio della crisi le banche centrali del Duemila dispo-nevano di conoscenze, strumenti di monitoraggio e poteri di intervento inadeguati. Non solo era loro ignoto l’ammontare iniziale dei titoli infetti,

IL XIV RAPPORTO DEL CENTRO EINAUDI SULL’ECONOMIA ITALIANA

SOTTO IL SEGNO DELL’INCERTEZZADI MARIO DEAGLIO

Il Rapporto sulla Economia Globale e l’Italia, curato dal Centro Einaudi e giunto alla XIV edizione, si propone come strumento utile a comprendere i meccanismi che hanno alimentato la crisi, le lezioni che ne derivano e l’evoluzione degli scenari futuri. Come sempre, il Rapporto guarda, oltre che all’economia e alla finanza, alle implicazioni sociali, politiche, ambientali, geo-strategiche dei processi globali. Una prima lezione è che l’epoca della “finanza globale” è tramontata, ma quella del “coordi-namento globale” degli stati sovrani non è ancora sorta. I paesi occidentali sono alle prese con l’esplosione dei debiti pubblici e con l’acuirsi delle tensioni in settori strategici quali l’aerospazio e il settore energetico, rispetto ai quali si registra uno sposta-mento del baricentro del pianeta da ovest verso est. Su questo sfondo tumultuoso, l’Italia può contare su bilanci e patrimoni delle famiglie più stabili rispetto agli altri paesi sviluppati, su un sistema bancario capace di giocare un ruolo cruciale nella ripresa, nonché su un indebi-tamento complessivo (dello Stato e delle famiglie) migliore della media. La lezione più importante è che le difficoltà che oggi accomunano il mondo offrono all’Italia un’occasione per recuperare il troppo tempo perduto.

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ma non avevano idee molto chiare sull’origine e sui meccanismi di trasmissione del contagio, nonché sui circuiti finanziari entro i quali tali titoli veniva-no scambiati. La profonda influenza esercitata da forme estreme di liberismo economico aveva infatti radicato la convinzione che la carenza di regole e la scarsità dei poteri di regolazione dovessero conside-rarsi, tutto sommato, un’ottima soluzione in quanto il mercato otterrebbe i risultati migliori quando si regola da solo. Coscientemente o no, il sistema ave-va tollerato il diffondersi di pratiche molto prossime all’evasione fiscale, dall’uso di conduit companies all’inserimento organico dei «paradisi fiscali» nei flussi finanziari internazionali; al punto che, nella sua relazione annuale sul 2007, il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi - altresì presidente del Financial Stability Forum, l’autorevole gruppo di studio internazionale incaricato di mettere a punto soluzioni agli sbilanci finanziari - denunciava con severità una situazione di scollamento normativo con pochi o nessun precedente negli ultimi decen-ni, situazione riguardante per di più l’intero sistema finanziario globale: “Le istituzioni finanziarie, e tra esse alcune delle maggiori banche internaziona-li, hanno dato ulteriore impulso a questo processo, con la creazione di una sorta di sistema bancario ombra, composto di veicoli specializzati nell’inve-stimento e nella provvista di fondi sul mercato dei prodotti strutturati di credito. Non consolidate nei bilanci delle banche e sottoposte nei maggiori cen-tri finanziari a requisiti contabili e prudenziali assai poco stringenti, queste entità operavano con presidi di capitale trascurabili, forti sbilanci di liquidità, un disallineamento estremo di scadenze tra attivo e pas-sivo, anche a causa di lacune nelle regole prudenzia-li precedenti Basilea II”4. Nel linguaggio estremamente misurato dei banchie-ri centrali, l’espressione «sistema bancario ombra» pesa come un macigno. Ed è proprio da questo si-stema ombra che deriva gran parte dell’andamen-to a ondate della crisi finanziaria, che ne costituì un elemento essenziale prima della sua estensione all’economia reale e che rese relativamente ineffica-ci le cure messe in atto dalle autorità.

LE TRE “ONDATE” DELLA CRISI FINANZIARIA Fatte queste premesse, è possibile distinguere tre «on-date», in parte sovrapposte, della crisi finanziaria. La prima è rappresentata dal contagio diretto - a monte, a valle e lateralmente - nel senso sopradescritto; co-mincia a manifestarsi, dopo alcuni segnali premonito-ri, nel pieno dell’estate del 2007, determinando perdi-te di qualche migliaio di miliardi di dollari, un ordine di grandezza che oggi sembra esiguo. La seconda «ondata» della crisi finanziaria giunge invece total-mente imprevista e colpisce un elemento essenziale del «sistema circolatorio» del credito, ossia il mercato

interbancario. È determinata dal diffondersi della sfi-ducia generalizzata di ogni banca nei confronti delle altre banche per il timore di rimanere infettate dal contagio, ossia di dovere registrare perdite improvvi-se e impreviste per il fallimento o anche la semplice difficoltà della controparte di rispettare puntualmente gli accordi che determinano i prestiti a breve e brevis-simo termine caratteristici di questo mercato. Un esempio stilizzato può chiarire il carattere de-vastante di una simile situazione. In tempi normali, una banca italiana che, alla chiusura degli sportel-li, si trovi in eccesso di liquidità, presta volentieri tale liquidità per la notte a banche asiatiche che puntualmente la restituiscono alle otto e mezza del mattino seguente, ossia al momento della riapertura degli stessi sportelli. È questa la nozione originaria del cosiddetto mercato overnight, poi estesa a tutti i prestiti tra banche, anche per poche ore, per sop-perire a necessità di cassa di brevissimo termine. Se esiste appena un sospetto che la controparte asia-tica «abbia difficoltà», ossia possieda una quantità apprezzabile di titoli infetti, la banca italiana, come misura cautelare, dichiara di non avere liquidità. Giapponesi e cinesi si comportano allo stesso modo con italiani, francesi e tedeschi, e di colpo il mercato si raffredda e si irrigidisce. Il taglio reciproco delle linee di credito diventa assolutamente normale, così come diventa assolutamente normale che, durante un’epidemia di influenza, la gente eviti di stringersi la mano e di circolare nelle strade; ma se la gente non circola nelle strade, l’attività economica si ri-duce, e se ogni stretta di mano rappresenta la stipu-lazione di un contratto, allora siamo in presenza di una riduzione dell’attività di concessione reciproca di crediti. L’irrigidimento non avveniva naturalmen-te nel vuoto, ma nel bel mezzo di un mercato finan-ziario le cui istituzioni erano generalmente quotate, sottoposte alla lente di ingrandimento di vari tipi di analisti: le conclusioni di costoro rimbalzavano sulle agenzie di notizie di Internet e su altri mez- zi di informazione. Ecco quindi verificarsi le prime, importanti cadute di Borsa, derivanti non già diret-tamente dai titoli subprime bensì dalla debolezza, vera o supposta, di banche e società finanziarie. Secondo le norme contabili ormai universali di Ba-silea 2, le perdite virtuali derivanti dalla caduta del valore di mercato di un titolo in portafoglio vanno di regola subito indicate nei bilanci trimestrali per le società che tale titolo detengono. In un mondo di estesissime partecipazioni, sovente incrociate, si apre così un ulteriore focolaio di contagio, in quan-to la perdita di valore di un titolo è al tempo stesso causa e conseguenza della perdita di valore di altri titoli. Le attuali norme, come è stato osservato, han-no un effetto «pro-ciclico», ossia tendono a estende-re e favorire il diffondersi sia dei profitti nelle fasi espansive sia delle perdite in quelle recessive. Si aggiunga poi che, sul mercato immobiliare ame-

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ricano, alle originarie perdite di valore delle case, solitamente di periferia, oggetto di mutui subprime, comincia a subentrare un calo generalizzato dei valori immobiliari. L’andamento in tempi lunghi dell’indice Case-Shiller - il più autorevole «termo-metro» del mercato immobiliare americano – mo-stra che dalla fine della Seconda guerra mondiale e fino al 2000 il prezzo medio delle abitazioni ne-gli Stati Uniti è rimasto straordinariamente stabile (tranne piccole impennate), assai scarsamente in-fluenzato dalle variazioni demografiche e da quelle dei costi di costruzione (figura 1). Per conseguenza, le banche avevano concesso volentieri prestiti pari al cento per cento della garanzia immobiliare e il loro atteggiamento non era mutato dopo la metà de-gli anni Novanta quando tale prezzo aveva preso a salire, prima lentamente e poi molto rapidamente, nell’errata convinzione - comune a tutte le «bolle» edilizie - che la crescita sarebbe continuata per un periodo di tempo indefinito, mentre il costo del de-naro sarebbe rimasto basso per un periodo di tempo indefinito5. Alla fine del 2007 comincia a verificarsi un rapido abbassamento dei valori di mercato (fi-gura 1) che impone, ai primi del 2008, l’iscrizio-ne a bilancio di altre perdite quando gli immobili sono utilizzati come garanzie collaterali. Tutto ciò contribuisce largamente a spiegare perché, a par-tire dal terzo trimestre 2008, si formano improv-visamente vere e proprie voragini nei bilanci delle banche che ne mettono a rischio la sopravvivenza. Le nuove perdite contribuiscono a determinare la necessità di interventi pubblici sempre più pesanti e sempre più difficili. Due decisioni, di segno op-posto, ebbero un carattere cruciale: gli osservatori infatti concordano nel ritenere che, nel settembre 2008, le scelte parallele del Tesoro degli Stati Uniti di lasciar fallire la grande casa finanziaria Lehman Brothers e di salvare invece il colosso assicurativo AIG abbiano portato a un aumento del grado di pe-ricolosità della crisi. Si determinò così un punto di svolta, nel senso di una minore credibilità nell’effet-tiva capacità delle autorità americane di mantenere il controllo complessivo della situazione. La tabella 1 fornisce una panoramica, parziale ma sufficiente-mente significativa, degli interventi pubblici relativi a grandi istituzioni bancarie e finanziarie nel perio-do settembre-novembre 2008.Quanto la decisione di lasciar fallire Lehman Bro-thers sia stata adottata in maniera veramente consa-pevole da parte del Tesoro degli Stati Uniti e quanto possano aver influito su di essa considerazioni di tipo elettorale (le presidenziali si svolsero poche set-timane più tardi, e gli americani assicurati con AIG sono diverse decine di milioni) non è naturalmente dato sapere. In ogni caso, emerge chiaramente da questo quadro un forte mutamento qualitativo nell’azione dei governi, non solo degli Stati Uniti ma anche di Gran Bretagna, Germania, Svizzera e Pa-

esi Bassi, ai quali si devono aggiungere quelli degli altri maggiori paesi avanzati, pur non direttamente coinvolti in crisi societarie di primaria grandezza. Di fatto, dopo Lehman Brothers nessuna istituzione bancaria o finanziaria importante viene più lasciata affondare, con la giustificazione che è «troppo gran-de per fallire» (too big to fail); spesso gli Stati inter-vengono in suo sostegno, con un atteggiamento che è stato definito «socialismo riluttante» dal giornali-sta politico americano Jacob Weisberg6. La «riluttanza» dei pubblici poteri ad azioni che in altri tempi non avrebbero creato alcun problema, ossia ad acquisire, direttamente o indirettamente, il controllo delle istituzioni finanziarie in difficoltà, deriva da quasi trent’anni di «ortodossia economica» sempre più collegata alle sopra citate forme estreme di liberismo economico. Keynes aveva scritto nella Teoria generale che «gli uomini pratici che si riten-gono completamente liberi da ogni influenza intel-lettuale sono generalmente schiavi di qualche eco-nomista defunto». In questa crisi finanziaria uomini investiti di funzioni operative della massima impor-tanza, cioè ministri e banchieri centrali e, più in generale, l’élite politico-finanziaria dei paesi ricchi, si sono rivelati intellettualmente succubi non solo di maestri dell’economia defunti magari da cento-cinquanta-duecento anni ma anche di economisti viventi che hanno tenacemente coltivato l’obietti-vo di «battere» il mercato finanziario, ossia ottenere costantemente risultati a esso superiori ideando il «titolo perfetto». Invece del «titolo perfetto», è stata creata la «tempesta perfetta».

FIGURA 1 PREZZI MEDI DELLE ABITAZIONI NEGLI STATI UNITI, 1987-2008

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CONCLUSIONI: GLI ESITI POSSIBILI

NON C’È BISOGNO DI MEDICI PIETOSI: UN ESAME DISTACCATO DELLA DINAMICADELLA CRISICome andrà a finire questa straordinaria crisi che ci sembra scappata di mano, almeno nel periodo iniziale, che cambia forma e aumenta di dimen-sioni ogni volta che si cerca di intervenire, che colpisce ormai duramente non solo il mondo, fino a poco fa dorato, della finanza, ma il cittadino nor-male con il suo posto di lavoro, i suoi risparmi, le aspettative per sé e per i figli? Vi è una forte pres-sione a fornire risposte scaramantiche. A chiedere agli esperti di rassicurare e confortare invece di descrivere i meccanismi della crisi e valutarne il possibile progresso. Il medico pietoso, però, non ha mai reso sani i suoi malati, anzi ha reso più purulente le loro piaghe. Per questo è importante una diagnosi a mente fredda, che richiede l’uso di qualche schema astratto e di un po’ di pazienza da parte del lettore. Occorre considerare subito che i fenomeni economici hanno spesso carattere cicli-co. Questo significa che all’analisi statistica molti di essi risultano soggetti - per cause sulle quali non c’è accordo tra gli studiosi - a oscillazioni che presentano elementi di regolarità. In particolare, l’andamento del prodotto interno lordo dei pae-si a economia di mercato ha mostrato nel tempo un’alternanza di fasi espansive e di fasi recessive, con una tendenza generale alla crescita. L’analisi congiunturale consiste largamente nella identificazione di questi andamenti e nella pre-visione degli sviluppi successivi. Con riferimento alla figura 2, una fase recessiva inizia, di regola, con un lieve calo produttivo dal livello massimo raggiunto nel periodo precedente (A). È spesso di difficile identificazione, specie ora che il peso del-la produzione industriale (nella quale da alcuni settori provengono segnali premonitori, riportati dai cosiddetti indicatori anticipatori) è fortemente diminuito. Spesso quindi l’inizio della crisi, ossia l’andamento nel tratto AB, viene scambiato per un’oscillazione casuale e si scommette ancora sul-la continuazione della crescita. È quanto avvenuto nei paesi avanzati nel secondo trimestre del 2008, quando non si prestò molta attenzione al leggero indebolimento congiunturale. Percorso il tratto da A a B, le economie precipitarono nell’abisso di una recessione severa, corrispondente al tratto BC, descritta nella figura 3. Le organizzazioni interna-zionali modificarono nettamente in peggio le pre-visioni produttive per l’intero 2009. Difficilmente la caduta può continuare ai ritmi del tratto BC, an-che per la grande quantità di misure di sostegno va-rate dai governi, e in effetti, a cominciare dall’aprile 2009, si sono visti alcuni segnali di rallentamen-to della discesa (tratto CD). Questi segnali furono accolti con un entusiasmo eccessivo; un giornale

TABELLA 1 SETTEMBRE-NOVEMBRE 2008, TRE MESI CHE HANNO CAMBIATO IL CAPITALISMO

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QUANTA ACQUA È GIÀ PASSATA SOTTO I PONTI DELLA CRISI?Non è possibile affermare che, arrivati all’estate del 2009, più della metà dell’acqua della crisi fosse già passata sotto i ponti. Per quanto non siano mancati segnali di attenuazione dei sintomi negativi, i segnali di ripresa produttiva non appaiono ancora generaliz-zati. E, anche se relativamente impossibile, non può essere del tutto scartata la possibilità di una nuova accentuazione della caduta. Uno sguardo ai comparti dell’economia reale all’inizio dell’estate 2009, con la bancarotta della General Motors e le pessime notizie dai settori dell’auto, del trasporto aereo e di molti beni di consumo, non consente di escludere che la crisi prenda il percorso indicato nel grafico con il tratteggio che passa per C’, segnalando una ripresa della caduta e dunque spostando in avanti nel tempo i punti D ed E, rispettivamente a D’ ed E’. Si tratte-rebbe di una “recessione a W” (double dip recession) il cui rischio è stato ripetutamente segnalato da Nou-riel Roubini, l’unico economista americano ad avere accuratamente previsto gli andamenti finanziari du-rante la crisi1. Semplificando al massimo, per Rou-bini, come per altri economisti, i governi si trovano tra l’incudine della deflazione e il martello dell’infla-zione: se adottano la cosiddetta exit strategy, ossia applicano una dose appropriata di severità fiscale dopo aver inondato il mondo di liquidità per salvare le banche, non vi sarà sufficiente forza nella ripresa della domanda, che potrebbe uscirne soffocata. Se invece non adottano alcuna exit strategy sarebbero i mercati finanziari a “punire” i governi riducendo il prezzo al quale sono disposti a scambiare un debito pubblico mondiale divenuto assai dubbio. In questo modo, la svalutazione del debito pubblico “ripulireb-be” i bilanci statali e ridurrebbe i patrimoni investiti in titoli di debito, ma consentirebbe alle economie di ripartire. Una cura, peraltro, estremamente bruta-le, con qualche analogia con quanto successe negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale soprattutto in Germania e in Italia. Su que-sta linea, in termini estremamente espliciti e duri, va segnalato l’intervento del 94enne premio Nobel Paul Samuelson, in un articolo pubblicato su La Stampa2 Samuelson afferma, tra l’altro, che “oggi gli studiosi di macroeconomia sono poco preparati per evitare i crack post 2007 [...] Continuano a blaterare di tra-sparenza e di obiettivi di inflazione, non si accorgono che Roma sta bruciando [...] Quello che più serve ora è dare impulso alle spese di impatto immediato. Adesso è troppo tardi per programmare spese a medio e lungo termine, per esempio nei lavori pubblici”.

americano rilevò che era come se gli occupanti di un aereo che sta precipitando si rallegrassero per la dimi-nuzione della velocità di caduta. Alla fine della primavera 2009, in effetti, per quanto la Borsa avesse reagito molto (troppo) positivamen-te ai primi segnali di rallentamento della discesa, la velocità complessiva del rallentamento produttivo risultava solo leggermente inferiore a quella del tri-mestre precedente, ma non vi era alcuna indicazione sicura che si fosse davvero in prossimità del sospira-to punto D, al quale ha inizio l’upturn, la svolta posi-tiva che, dopo numerosi rinvii, veniva generalmente prevista per il terzo trimestre. Cominciavano peral-tro a manifestarsi voci che descrivevano in termini pessimistici l’inclinazione - e quindi la lunghezza - del tratto DE: in sostanza, dopo una caduta rapida si potrebbe assistere a una ripresa lenta, molto lenta.Nella migliore delle ipotesi, le stime di inizio autun-no 2009 mostrano che i livelli pre-crisi (E) saranno raggiunti dai maggiori paesi nella seconda metà del 2010; con ipotesi più realistiche, occorre attendere il 2011. E solo quando si raggiungerà il punto E si potrà veramente dire di avere annullato, in termini generali, gli effetti negativi della crisi dal punto di vista della produzione, in quanto si sarà tornati al livello produttivo precedente; il costo della crisi in termini di mancata crescita potrà allora essere mi-surato come la differenza tra il livello AE e il profilo inferiore ABCDE corrispondente alla produzione effettivamente realizzata. Siccome la popolazione nel frattempo sarà aumentata, ci vorrà altro tempo per riportare il prodotto interno lordo per abitante al livello a cui era. E ulteriore tempo per realizzare una produzione aggiuntiva fino a compensare la minor produzione del periodo di crisi. La crisi, insomma, è una gran brutta bestia e deve passare molta acqua sotto i ponti perché si possa affermare che tutti i suoi effetti sono stati neutralizzati.

FIGURA 2 PUNTI CARATTERISTICI DI UNA CRISI CICLICA

FIGURA 3 LA FRATTURA STATISTICA DEL 2008(variazione percentuale del prodotto interno lordo rispetto al trimestre precedente)

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una politica energetica comune.

una politica comune dell’immigrazione.

una maggiore integrazione nel terziario.

lobbies status quo

UNIONE EUROPEA, LA (BELLA?) ADDORMENTATA

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Tre anni fa - nel 2006 - tutti sapevano che il debito estero degli Stati Uniti e il debito delle famiglie sta-tunitensi con il sistema finanziario non avrebbero potuto “andare avanti all’infinito”. Allo stesso tempo, seppure scettici per il lungo termine - i grafici di lungo periodo erano lì a mostrare la crescita irrefre-nabile del debito -, tutti osservavano estasiati i grafici di breve periodo - si vedeva che “le cose stavano an-dando piuttosto bene”. Le Borse continuavano a sa-lire. I rendimenti del debito pubblico erano stabili. L’investimento in obbligazioni private consentiva un ritorno maggiore rispetto a quelle pubbliche, ma la differenza era arrivata a essere modesta, segno che il rischio si era ormai ridotto. Anche i paesi meno virtuosi pagavano sul proprio debito un interesse appena superiore a quello dei paesi virtuosi. Tutto sembrava procedere per il meglio: all’orizzonte si ve-devano le nubi, ma non avevano la conformazione di quelle della tempesta. L’industria finanziaria, di suo, andava “a gonfie vele”: i profitti erano ricchi e i reddi-ti dei banchieri “brillanti” erano anche tanto ricchi. I profitti avevano molte fonti: quelle nuove erano il collocamento delle obbligazioni con “in pancia” i mutui ipotecari e il finanziamento in debito delle acquisizioni di imprese. All’apice della vanagloria - come possiamo oggi affermare con il senno di poi - c’era chi arrivava a sostenere che la Borsa degli Stati Uniti aveva ormai trovato il “moto perpetuo”. I free cash flows (gli utili più gli ammortamenti meno i dividendi e la variazione del capitale circolante - ossia, alla fine, la variazione della “posizione fi-nanziaria netta”) delle grandi imprese erano ormai positivi e cospicui e perciò potevano essere usati per comprare azioni proprie. Con i profitti aggregati sta-bili e crescenti e con le azioni in circolazione che di-minuivano, si aveva che gli utili per azione salivano. Salendo gli utili per azione, in un mondo di rendi-menti da obbligazioni ormai definitivamente stabili, la Borsa non poteva far altro che salire anch’essa.Tre anni dopo, si sta ancora cercando di uscire da una crisi finanziaria senza eguali dal secondo do-poguerra. La crisi è arrivata improvvisamente, nella primavera-estate del 2007, ma non sembrava grave. Nel successivo autunno le Borse avevano persino toccato i massimi (ossia, gli indici nominali con l’in-clusione dei dividendi erano al disopra del picco del 2000). Poi, ecco la caduta continua: prestigiose ban-che d’affari in fallimento, salvataggi privati e pubbli-ci, e via dicendo. Che cosa non ha funzionato?1. Per concentrarci solo sugli aspetti specifici dell’industria

PRO

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TORI ASCESA E CADUTA

DELL’INDUSTRIA FINANZIARIADI GIORGIO ARFARAS

La posizione di Samuelson è dissonante rispetto a quella della maggioranza degli economisti, ma oc-corre ricordare altre possibili debolezze del sistema, quali un eventuale e prematuro aumento del prezzo del petrolio e delle materie prime, legato a motivi prettamente speculativi. La speculazione, del resto, potrebbe essere alimentata dalle stesse grandi ban-che americane salvate dai soldi pubblici. Un’ulte-riore debolezza è insita nel sistema americano delle carte di credito, per le quali il rischio di un collas-so non può essere disinvoltamente trascurato. Ciò rende necessaria una cautela che talvolta i mercati finanziari sembrano dimenticare.

LA POSSIBILITÀ DI RIPARTIRE RAPIDAMENTEVa peraltro considerata la possibilità che le cure mes-se in atto, pur con tutte le loro debolezze, risultino efficaci. Si realizzerebbe così uno scenario che è sta-to definito quickfix (“rimedio rapido”), benché, con il passare dei mesi, esso appaia un po’ meno quick. Esso parte dal presupposto che, dopo tre/cinque tri-mestri di recessione dell’economia reale, le Borse si rianimino; la creazione di risorse finanziarie che ne risulterebbe sarebbe sufficiente a dare fiato alla domanda. In una variante di questa ipotesi, a tale domanda darebbero un contributo fondamentale i nuovi settori industriali legati alle energie alter-native, secondo i programmi della amministrazio-ne Obama, nonché la perdurante crescita dei paesi emergenti, toccati da un semplice rallentamento e non da una vera e propria caduta produttiva. L’ipo-tesi quickfix ha portato gli analisti finanziari e altri osservatori congiunturali a una ricerca frenetica degli indizi di una ripartenza dell’economia reale; tale ricerca ha permesso di individuare soprattutto segnali di un rallentamento della caduta produttiva, ma, a tutto il secondo trimestre 2009, mancavano ancora chiari segnali di inversione. Né essi erano discernibili nella calura d’agosto. L’aspettativa di tale inversione ha fatto sì che il discorso, venato di estrema cautela, del governatore Bernanke del 21 agosto3 fosse sufficiente a infiammare le Borse, scatenando un clima di euforia. Ammettendo che l’inversione si verifichi tra ottobre e dicembre 2009 nelle economie maggiori, va osservato che, nel cor-so del 2009, in ogni caso le stime sulla robustezza della ripresa che ne deriverà sono venute attenuan-dosi; la prospettiva di una ripresa ”pallida”, benché possibilmente duratura e in grado di divenire meno esangue nel corso del 2010, riscuote la maggioranza dei consensi in campo finanziario. Questo ha come conseguenza che le Borse debbano anticipare l’eco-nomia reale. Al momento di chiudere questo lavoro, l’incertezza è estrema ma una cosa appare ragione-volmente sicura: meglio aspettare a gridare vittoria, e lo spumante per il brindisi per il momento lascia-molo in cantina.

The risk of a double-dip recession is rising

Il deficit degli stati ci salverà,

Reflections on a Year of Crisis

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finanziaria, discutiamo tre cose: 1) gli incentivi ai dirigenti;2) il controllo del rischio; 3) le modalità con cui si valutavano le obbligazioni.Gli incentivi ai dirigenti. Qualcuno lungimiran-

te avrebbe potuto scommettere - «andando corto» - contro «le magnifiche sorti e progressive», ossia avrebbe potuto farsi prestare i titoli e venderli. Poi li avrebbe ricomprati a un prezzo inferiore, lucrando la differenza. Se in molti fossero «andati scoperti», i prezzi non sarebbero saliti così tanto, dunque la cri-si non sarebbe stata altrettanto grave. Scommettere contro mercati stabilmente in salita è però molto pericoloso. Se un gestore finanziario vende un titolo preso a prestito a 10 e questo va a zero, ha guada-gnato 10. Se però il titolo va a 100, ha perso 90. Se per qualche tempo la strategia non funziona e si manifestano perdite, il gestore vede il patrimonio affidatogli ridursi per effetto dei riscatti della clien-tela. È molto più facile che con un mercato stabil-mente in ascesa quasi tutti decidano di guadagnare «andando lunghi», ossia comprando titoli per tener-li. Alla fine, nel parlamento dei prezzi in salita non si crea un’opposizione; si crea piuttosto un sistema a partito unico in cui tutti fanno le stesse cose, an-che coloro che «non ci credono». Se tutti credono alle stesse cose, allora i prezzi salgono, e dunque si lucrano senza troppi rischi dei bonus cospicui. Evidentemente, ciò accade solo se gli incentivi sono calcolati sui risultati del momento e non su quelli di molti anni. Il controllo del rischio. Il problema, in questo

caso, è non aver tenuto conto degli eventi a bassa probabilità, quelli capaci di effetti devastanti. Gli eventi negativi maggiori ma improbabili non erano presi in considerazione. Dopo un periodo di pro-lungata stabilità, come quello durato dal 2002 al 2006, si era finito col pensare che ormai ci fosse una riduzione permanente del rischio. Si pensava in questo modo anche perché così si potevano as-sumere, credendo che fosse «scientifico», dei rischi maggiori, contando sul realismo delle distribuzioni di probabilità con «code sottili». Inoltre, si riteneva che i prezzi delle attività finanziarie fossero indi-pendenti (perciò, tecnicamente, si poteva «diversifi-care») e che andassero in direzioni opposte (perciò, tecnicamente, si potevano prevedere delle «coper-ture»). Altrimenti detto, semmai ci fosse stata una crisi, questa si sarebbe manifestata «localmente» e non «globalmente». È accaduto, invece, che i prezzi siano caduti insieme. E dunque che le protezioni dei portafogli non abbiano funzionato.Le modalità di valutazione delle obbligazioni.

Non si possono studiare i bilanci degli emittenti titoli in modo serio e omogeneo senza incorrere in spese immense. Conviene allora che qualcuno li studi, e che ne studi molti per diversificare. L’investitore poi ha bisogno di un semplice voto che dia intelligenza

del rischio. Ecco la logica delle agenzie di rating. Ma queste di che cosa vivono? Se diffondono i risultati, nessuno le paga. Se, infatti, l’assicurazione X sa che l’assicurazione Y ha dei titoli dell’impresa Z con un ottimo rating, non fa altro che comprarli, e senza ul-teriori informazioni. L’informazione di chi produce rating non riesce a farsi pagare, a meno che non la paghi l’emittente titoli, che così crea il mercato per la propria offerta. L’emittente titoli pagherà volen-tieri la società di rating che lo giudica AAA piuttosto che quella che lo giudica A. Si forma perciò un’asta inefficiente, perché alla fine «passa» chi dispensa i risultati più generosi. Proprio come le università larghe nei voti, che trovano studenti disposti a im-parare meno in cambio di uno sforzo minore.La gran parte delle emissioni di obbligazioni con «in pancia» i mutui subprime aveva «voti alti», e tanto bastava perché finissero nei portafogli degli investi-tori. Per chiudere con l’esempio, le imprese alla fine hanno assunto gli studenti meno preparati credendo fossero dei «fulmini» perché a loro bastava guardare il voto di laurea. Le cause micro-economiche della crisi sono state: 1) la prassi volta a sfruttare gli «effetti di composi-zione» dei comportamenti omogenei dei dirigenti; 2) l’idea che la stabilità degli ultimi tempi fosse la stabilità per i secoli a venire; 3) i voti generosi che spingevano a comprare molte obbligazioni di nuova fattura senza farsi troppi pensieri.Questi, purtroppo, non sono problemi facili da ri-solvere. Nel primo caso, gli azionisti dovrebbero im-porre bonus calcolati su molti anni. Le grandi ban-che non hanno però gli azionisti di riferimento, ma tanti azionisti dispersi. In ogni modo, alcune banche potrebbero offrire bonus robusti per attrarre le per-sone che servono loro. Chi non li offre rischia, di conseguenza, di perdere competenze. Nel secondo caso, si potrebbero organizzare dei corsi di medita-zione sugli «eventi remoti», sapendo che, dopo qual-che anno di stabilità, tutti tornerebbero fra le brac-cia materne delle «gaussiane con le code sottili».Nel terzo e ultimo caso, si potrebbe pensare a un ente che dia i voti alle imprese, come si fa con i medicinali. A questa eventuale soluzione si posso-no muovere parecchie obiezioni, la principale delle quali è che potrebbero risultare favoriti certi settori e certe imprese per ragioni politiche.L’ente chiamato a giudicare le obbligazioni di un settore cruciale e in grave crisi, come quello auto-mobilistico negli Stati Uniti, quali voti darebbe?

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sestamento aumenta di 5 miliardi le disponibilità di competenza. In termini di pressione sul Pil, nell’in-sieme gli interventi governativi valgono approssima-tivamente il 3%. Ma è nostro giudizio che le misure governative svolgeranno prevalentemente una fun-zione di sostegno sociale e anche una funzione redi-stributiva. Serviranno cioè ad alleviare localmente e temporaneamente gli effetti della crisi, ma non a far-la terminare prima o a cambiarne i destini. Infatti, poiché sia i tre decreti sia la legge di assestamento trovano al loro interno la copertura dei fabbisogni, in termini macro-economici l’impatto netto sul Pil sarà modesto e limitato al fatto che chi riceverà qualche risorsa avrà una propensione alla spesa im-mediata più alta di quella dei settori cui le risorse saranno sottratte. Nonostante l’intervento governa-tivo abbia riguardato perlopiù la composizione del bilancio, l’indebitamento netto della pubblica am-ministrazione nel 2010 si assesterà intorno al 5% (1 punto oltre il parametro di Maastricht) e, quel che più conta, l’avanzo primario (ossia il saldo pubblico prima del pagamento degli interessi) non tornerà positivo prima del 2011, quando il debito pubblico avrà raggiunto il 118% del Pil - oltre 13 punti in più del livello pre-crisi (105%). In sostanza, l’Ita-lia è tornata a essere ben lontana dall’obiettivo 100 per cento, ossia dalla soglia che permette di rendere meccanicamente più rapido il rientro dal debito. In termini di politiche di bilancio, il risanamento nel 2011 sarà tornato indietro di sette anni. E sappiamo che il mancato risanamento è una delle ragioni del volo lento e basso del calabrone, dal quale vorrem-mo affrancarci.

COME SARÀ II 2010? PROVIAMO A VEDERE IL BICCHIERE MEZZO PIENONel breve periodo la crescita economica è dovuta all’andamento della domanda aggregata. Nel lungo periodo i fattori che la determinano sono però l’ac-cumulazione di capitale, la produttività e la crescita demografica. Proviamo a fare un esercizio di ottimi-smo: assumiamo che, un po’ per avventura e un po’ per fortuna, il calo di domanda aggregata cessi nel corso del 2009. I segni ci sono tutti. Inoltre, nei paesi emergenti la domanda sta già riprendendosi, e ben-ché il suo collegamento con il Pil italiano non sia così diretto, è tuttavia destinato a rafforzarsi. Allora, nel 2010 avremo una ripresa? Probabilmente no, o quanto meno avremo una ripresa limitatamente ai consumi rimandati del 2008-2009. È invece pro-babile che dal 2010 in poi l’Italia riprenda a volare come il calabrone, molto lentamente - un calabrone ammaccato -, e che si porti dietro un certo numero di disoccupati in più. Il punto è che per cambiare la quota di volo del calabrone non basta aspettare la fine della crisi. I consumi cinesi e brasiliani basteranno

IL GOVERNO, LA FINANZA PUBBLICA E LA PARTITA A SCACCHI DELLA CRISIAvete presente una partita a scacchi? Se uno dei vo-stri pezzi è “sovraccarico”, ossia se difende contem-poraneamente più caselle, le probabilità di vittoria diminuiscono bruscamente. La politica economica gioca da anni la sua partita in queste condizioni. I suoi pezzi sono sovraccarichi e così, qualche volta, la difesa non funziona. Come fare a inseguire la sta-bilizzazione del bilancio pubblico e la stabilizzazione del ciclo congiunturale attraverso la spesa aggrega-ta? Non si può, a meno di perdere di vista per un po’ uno dei due obiettivi. In altri termini, le politiche anticicliche costano e a volerle fare seriamente al-lontanano l’obiettivo del risanamento pubblico.La situazione di partenza (ossia pre-crisi) è nota. Il debito pubblico alla fine del 2008 era al 105% del Pil, appena 5 punti distante dalla soglia sotto la quale il risanamento diventerebbe un po’ più fa-cile. L’avanzo primario era del 2,4% del Pil e l’in-debitamento netto del 2,7% - dentro i parametri di Maastricht. Nel 2009 sui conti pubblici arrivano gli effetti della crisi. Il saldo primario di finanza pub-blica si deteriora di 4,7 punti percentuali del Pil e va in territorio negativo, a causa di una flessione delle entrate (-0,8% del Pil) e di una crescita delle spese (+3,4% del Pil).La crisi, insomma, incide sul sentiero del risana-mento pubblico prima ancora di assegnare al bilan-cio il compito di stabilizzare la domanda aggregata. In queste condizioni il governo, privo di margini di manovra sul fronte della spesa, si è trovato costretto a scegliere l’unica strada possibile: lasciar andare i saldi tendenziali di finanza pubblica per un biennio, rinunciando al sentiero del risanamento, e utilizza-re la politica di bilancio in chiave anticiclica, quasi prevalentemente attraverso la composizione delle po-ste di bilancio1. Le manovre si sono articolate in tre decreti - varati a novembre 2008, febbraio 2009 e luglio 2009 -, oltre a quelle previste dalla legge di as-sestamento del bilancio dello Stato. Il primo decreto si è focalizzato sulla spesa infrastrutturale e sul sostegno ai consumi dei ceti sociali meno abbienti; il secondo è ricordato per gli incentivi all’acquisto delle automobili; il terzo decreto ha riguardato essenzial-mente i tempi di pagamento delle pubbliche ammini-strazioni e il rafforzamento del sistema di ammor-tizzatori sociali pubblici per il biennio 2010-2011, oltre che la detassazionedel 50% degli investimenti strumentali delle imprese (cosiddetta Tremonti ter). Complessivamente, i tre decreti incidono su circa 25 miliardi di euro di risorse, mentre la legge di as-

LE CONSEGUENZEDELLA CRISIDI GIUSEPPE RUSSO

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per riempire a metà il bicchiere, ma non saranno sufficienti a riportare il tasso di crescita tendenziale del Pil strutturalmente oltre il 2%. Sulla crescita di lungo periodo non si agisce con la domanda: i fattori determinanti sono appunto l’accumulazione di capi-tale, la produttività e la demografia. In altre parole, servono riforme strutturali e non semplici rattoppi. Senza la pretesa di scrivere un ricettario di politica economica, la questione dell’accumulazione di ca-pitale in Italia ha due risvolti: c’è il settore pubblico e c’è il settore privato.Il settore pubblico è in ritardo nella produzione del capitale infrastrutturale del paese. La recessione ha ul-teriormente ridotto la quota di risorse destinata a investimenti, che nel 2005 valeva l’equivalente del 9,3% della spesa corrente e nel 2011 sarà scesa al 7,3%. L’accumulazione di capitale pubblico avviene troppo lentamente e allarga il gap infrastrutturale italiano. Secondo una recente ricerca, se l’Italia avesse la stessa dotazione di infrastrutture della Francia, il suo tasso di crescita sarebbe annualmen-te di 0,4 punti percentuali più alto. L’accumulazione di capitale privato avviene nelle imprese. Perché il risparmio si impieghi nelle imprese, a queste non occorre solo una ripresa dei volumi; esse hanno bi-sogno con tutta evidenza di una ripresa dei margini. La concorrenza internazionale non giocherà a favo-re, dunque è all’innovazione dei prodotti, dei servi-zi, delle tecnologie e delle forme organizzative che dovremmo chiedere questo risultato. Come è noto, l’Italia non è un campione delle politiche per l’in-novazione, eppure è da queste che ci si dovrebbe aspettare la costruzione di una base solida per la crescita di lungo termine. Inoltre, benché i mercati del capitale finanziario stiano evolvendo verso una compiuta maturità delle forme istituzionali, l’Italia continua a usare questi mercati più per la raccol-ta delle risorse che per le scelte strategiche. In altri termini, i mercati di Borsa e obbligazionario raccol-gono il risparmio e lo veicolano verso le imprese ma non indirizzano poi le strategie di investimento, sia a causa della scarsità di imprese quotate sia perché la contesa per il controllo, che pure apparterrebbe alla fisiologia del capitalismo, è in Italia un fatto raro, e qualche volta addirittura criticato, quando non osteggiato più o meno apertamente. I rimedi sono solo in parte normativi: servono gli incentivi affinché le imprese utilizzino tutti i mercati finanziari, e non solo o quasi esclusivamente il mercato dei prestiti bancari. La questione della produttività dei fattori chiama in causa la lentezza dell’adozione delle inno-vazioni che possono accrescere l’efficienza in molti settori, tra cui quello dei servizi. La forte crescita della produttività negli Stati Uniti degli anni No-vanta è stata dovuta all’adozione delle innovazioni dell’informatica e della telematica nel terziario (tra-dizionalmente il settore nel quale l’evoluzione della

produttività è più lenta). L’Italia deve ancora colmare questo ritardo. Si noti che si tratta di un ritardo sia tecnologico sia organizzativo e che, particolarmente nella pubblica amministrazione, colmarlo aprirebbe prospettive di vera e propria rivoluzione nell’eroga-zione dei servizi.Infine, la questione demografica. La modesta nata-lità è quasi impossibile da rimediare: va detto però che le politiche per la famiglia non sono quasi mai tra le priorità perseguite dai governi italiani, e che ci sarebbe ampio spazio per fare qualcosa di più efficace di quanto (non) fatto finora. La questione demografica si intreccia, per la verità, con numerose altre questioni: l’immigrazione, che non è mai diven-tata sufficientemente selettiva; l’internazionalizza-zione della scuola e dell’università (e l’attrazione dei talenti); infine, la questione sociale: in almeno metà del territorio italiano, a essere anormalmente bassi sono i tassi di partecipazione alla forza lavoro. Nel 2010 la congiuntura avrà esaurito la fase acuta. Avrà lasciato eredità spiacevoli, tanto in termini di disoccupati quanto in termini di deterioramento dei conti pubblici. Tuttavia, l’Italia potrà contare su bi-lanci e patrimoni delle famiglie comparativamente più stabili e meno esposti alla crisi e su un grado di indebitamento complessivo e delle famiglie miglio-re della media dei paesi sviluppati. Questo significa che potrebbe anche aspirare a un livellamento della domanda aggregata, con la fine della caduta, e ad-dirittura a una tiepida ripresa, trainata inizialmen-te dalle esportazioni. Da lì in avanti la crescita del Pil non arriverà semplicemente “girando l’angolo”. Ovvero, prima di girare l’angolo sarà opportuno ri-flettere sulle questioni strutturali. Il momento, del resto, dovrebbe essere propizio. Nel 2010 si svolge-ranno le elezioni regionali e mancheranno solo due anni alle successive consultazioni nazionali: il mo-mento giusto per organizzare un confronto politico sulle questioni di fondo della economia, sapendo che i meccanismi da cambiare o da accendere sono com-plessi e che i risultati richiederanno anni. La lungi-miranza, del resto, non è una qualità da esaltarsi nei periodi di difficoltà? Se non ora, quando?

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Il 2 settembre, presso la sede del Fondo Monetario Internazionale, a Washington, il vice governatore della banca centrale cinese, Yi Gang, e il direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, hanno firmato un importante accordo col quale la Cina ha sottoscritto nuovi titoli dell’FMI per un valore di 32 miliardi di Diritti Speciali di Prelievo pari a circa 50 miliardi di dollari1. Quello stesso giorno, il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, in visita a Pechino, ha detto che la politica di stimolo dell’economia condotta dal governo cinese nel 2009 ha contribuito ad evitare un peggioramento della recessione globale. Un rapporto della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina e i Caraibi (ECLAC), presentato a Santiago del Cile a fine agosto, ha sottolineato come l’economia della regione, duramente colpita dalla recessione, abbia ricevuto un notevole aiuto dalle importazioni cinesi di materie prime. “Siamo molto soddisfatti dei legami economici con la Cina”, ha detto il Segretario generale dell’ECLAC, Alicia Barcena. E, ancora, un rapporto congiunto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), pubblicato a metà settembre, ha affermato che il programma di rilancio economico varato dalla Cina per affrontare la recessione globale ha favorito la crescita dell’interscambio economico tra i paesi asiatici. Lo status della Cina quale emergente super-potenza è ormai riconosciuto. E così pure il suo ruolo crescente e ormai determinante nell’economia globale (e oggi anche per quanto riguarda l’uscita dalla recessione), in un processo storico che sta portando l’Asia, e in particolare la Cina, ad essere il futuro baricentro economico del mondo e non solo economico. La Cina è oggi la terza economia del mondo, dopo Stati Uniti e Giappone. Ma se il PIL viene calcolato in termini di “parità di potere d’acquisto”, essa è già al secondo posto, prima del Giappone. E quest’anno la Cina è salita al primo posto nella graduatoria dei paesi esportatori, avendo superato la Germania. Negli anni passati, per i media, la Cina era “l’officina del mondo”, in virtù della sua crescente produzione industriale destinata all’export. Il termine era in parte elogiativo, ma

CINA: UN CRESCENTE RUOLO INTERNAZIONALE

DI GIORGIO S. FRANKEL

anche, in parte, riduttivo nella misura in cui suggeriva che i cinesi fossero una manovalanza al servizio delle economie occidentali. Inoltre, l’India era definita “l’ufficio del mondo” (per lo sviluppo del settore dei servizi, e l’export di software), il che le dava un’immagine più elegante e, nell’ottica occidentale, la metteva un gradino sopra la Cina. Con la recessione globale, però, la Cina è diventata anche “il banchiere del mondo” grazie alle sue astronomiche riserve valutarie, stimate a più di 2.000 miliardi di dollari. E, in prospettiva, una grande potenza finanziaria. Eppure questo status di “numero due” mondiale aspetta ancora di essere in qualche modo formalizzato. Per la Cina, la sottoscrizione di titoli del FMI è, forse, in primo luogo, un modo sicuro di diversificare rispetto al dollaro le opportunità di investimento delle sue riserve valutarie. Ma è anche finalizzata a sostenere le istanze della Cina per ottenere un ruolo formale più rilevante nelle istituzioni internazionali, come appunto il Fondo Monetario e la Banca Mondiale, che secondo Pechino sono troppo condizionate dai paesi ad economia avanzata dell’area OCSE. Lo stesso vale per il G8 e il G20. Al summit del G8 che si è tenuto in luglio all’Aquila, non sembra sia stata prestata grande attenzione al discorso del delegato cinese Dai Bingguo sulla necessità di riformare il sistema monetario internazionale e ridimensionare il ruolo internazionale del dollaro2 . Così, è pos-sibile che nel firmare l’accordo col FMI i cinesi guardassero anche al summit del G20 fissato per il 24-25 settembre a Pittsburg, negli Stati Uniti.

L’anno scorso, ad esempio, la Cina annunciò il suo colossale programma di rilancio economico da circa 4.000 miliardi di yuan (equivalenti a quasi 590 miliardi di dollari) proprio alla vigilia del G20 di metà novembre a Washington, trovandosi così al centro dell’attenzione mondiale. In quell’occasione, alla cena di gala alla Casa Bianca, alla vigilia del summit, il presidente George W. Bush jr., in un palese omaggio ai nuovi, emergenti assetti globali, aveva alla sua destra il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva, e alla sua sinistra il presidente cinese Hu Jintao. La Cina era un vitale partner economico e commerciale degli Stati Uniti, e per di più investiva in buoni del Tesoro americani una significativa

Lo status della Cina quale emergente super-potenza è ormai riconosciuto, insieme al suo ruolo determinante nell’economia globale in un processo storico che sta portando l’Asia ad essere il futuro baricentro degli equilibri internazionali. Con la recessione la Cina è diventata “il banchiere del mondo”, grazie alle riserve valutarie stimate a più di 2.000 miliardi di dollari; data l’incertezza del destino del dollaro, la sua strategia finanziaria potrebbe mirare ad una riduzione delle riserve, con una politica di esportazione di capitali. La sfida decisiva è passare attraverso la recessione globale mantenendo un accettabile tasso di crescita economica. Intanto, si rafforza la collaborazione con i paesi produttori di petrolio, a cominciare dallaArabia Saudita, e nel medio termine non è da escludere l’ipotesi della creazione di una moneta unica asiatica.

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quota dei suoi surplus valutari contribuendo così a sostenere il dollaro. La stessa cosa faceva l’Arabia Saudita, numero uno mondiale del petrolio e da mezzo secolo stretto alleato economico e strategico degli Stati Uniti. E in effetti, alla cena del summit, il sovrano saudita Abdullah bin Abdul Aziz era seduto giusto al secondo posto alla sinistra di Bush, il che dava un’idea della notevole importanza globale che in quel momento gli assegnava la Casa Bianca. Ma Abdullah si trovava anche seduto a fianco di Hu Jintao, e ciò rifletteva di fatto (anche se certo non era nelle intenzioni degli addetti al protocollo della Casa Bianca) un processo politico ancora nelle sue fasi iniziali ma che potrebbe contribuire a cambiare gli equilibri del mondo, ovvero la nuova amicizia, e la crescente collaborazione economica e finanziaria tra Arabia Saudita e Cina. Nel gennaio 2006, Abdullah, per la sua prima missione all’estero dopo essere diventato re (nell’agosto 2005) scelse l’Asia, anziché gli Stati Uniti, con prima tappa a Pechino. Pochi mesi dopo Hu Jintao andò a sua volta a Riyadh, e vi è tornato nuovamente questoanno, in febbraio. Questi nuovi legami tra l’emergente colosso cinese ed il numero uno mondiale del petrolio non sono eccentrici ed occasionali ma riflettono un più generale, progressivo “spostamento” degli interessi economici dei paesi arabi del Golfo Persico, oltre che dell’Iran, in direzione dell’Asia, e in particolare della Cina. Non è difficile vedere che questo processo, per ora nelle sue fasi iniziali, può davvero cambiare radical-mente la geografia economica e politica del mondo. Quest’anno, in settembre, per sottolineare il ruolo ed il peso della Cina negli affari globali alla vigilia del G20 di Pittsburg, il presidente Hu Jintao è andato a New York per partecipare al summit globale sul clima, seguito dall’inaugurazione della 64ª sessione dell’Assemblea generale delle NU e da una riunione del Consiglio di Sicurezza. Da quando la Repubblica popolare cinese è stata ammessa alle NU, nel 1971 (al posto della Cina nazionalista, Taiwan), questa è stata la prima visita di un presidente cinese. A New York, Hu ha incontrato, tra gli altri, il presidente americano Barack Obama, che visiterà la Cina in novembre, ed il nuovo premier giapponese Yukio Hatoyama, da poco eletto e che vuole condurre una politica estera maggiormente focalizzata sui rapporti coi paesi asiatici. L’incontro tra Hu e Hatoyama anticipava di poche settimane il summit, fissato per il 10 ottobre, tra Cina, Giappone e Corea del Sud, focalizzato sulla futura cooperazione tra i tre colossi dell’Asia e dell’economia globale - un summit che potrebbe segnare una svolta nella storia dell’Asia con implicazioni globali di vasta portata.La sfida forse decisiva, oggi, per la Cina, è passare attraverso la recessione globale mantenendo un accettabile tasso di crescita economica.

In effetti, quando si dice “recessione globale” ci si riferisce soprattutto alle economie occidentali, mentre i paesi asiatici, ed in particolare la Cina, hanno continuato a crescere, sia pure più lentamente. A Pechino, il presidente della Banca Mondiale Zoellick ha detto che nel 2009 l’economia cinese potrebbe crescere quasi dell’8%. In precedenza la Banca aveva previsto una crescita del 7,2%. Poche settimane più tardi, l’Asian Development Bank (Banca asiatica per lo sviluppo) ha stimato che l’economia cinese crescerà dell’8,2% nel 2008 (contro una precedente proiezione del 7%), e dell’8,9% nel 2010. A Pechino, l’economista Yao Jingyuan, dell’istituto nazionale cinese di statistica, ha detto che una crescita dell’8% è difficile ma può essere realizzata. E il direttore aggiunto dell’Istituto di macroeconomia della Commissione per lo sviluppo e le riforme, Chen Dongqi, ha previsto, per il terzo trimestre, una crescita superiore al 10% (rispetto al terzo trimestre 2008), e quindi una crescita dell’8-9% per l’intero anno.Questi dati vanno presi con cautela. Primo, perché le statistiche cinesi non sempre sono ritenute affidabili. Secondo, perché sull’obiettivo di una crescita di almeno l’8% , nonostante il forte calo dell’export dovuto alla recessione globale, il governo cinese ha investito un enorme capitale politico e propagandistico: l’8% infatti è stato definito come il tasso minimo accettabile per assicurare una sostanziale stabilità economica e sociale. Per ora i dati ufficiali sono promettenti, con un crescita del 6,1% nel primo trimestre, e del 7,9% nel secondo. Ma, verso fine agosto, il premier Wen Jiabao ha avvertito che la ripresa non ha ancora basi solide. E il capo della programmazione economica Zhang Ping ha detto che la caduta della domanda estera rimane un problema grave per l’economia cinese, e che la disoccupazione è a livelli preoccupanti, e la domanda interna non è ancora un fattore abbastanza forte da sostenere la crescita economica. Altri economisti hanno sottolineato che il calo dell’export, in seguito alla recessione globale, è ancora a livelli preoccupanti. Dunque, la Cina si trova di fronte a moltepliciproblemi. In primo luogo vi è l’obiettivo fonda-mentale di ridurre la dipendenza dall’export e sviluppare la domanda interna, e in particolare i consumi privati. A livello internazionale si chiede anche alla Cina di riequilibrare il proprio commercio estero con un aumento delle importazioni. Tutto ciò è problematico perché l’aumento dei consumi privati richiede una riduzione della propensione dei cinesi al risparmio. Ma i cinesi devono risparmiare il più possibile perché nel loro paese non esiste quasi l’assistenza sanitaria pubblica. Un altro problema chiave della Cina è diversificare l’impiego delle risorse valutarie, il cui valore com-plessivo è stimato a più di 2.000 miliardi di dollari,

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oggi troppo esposte sul dollaro - una valuta il cui destino è molto incerto. La Cina, ad esempio, detiene buoni del Tesoro degli Stati Uniti per circa 800 miliardi di dollari. Oltre a ciò, le riserva valutarie sono, comunque, eccessivamente elevate. Dunque, la strategia economico-finanziaria di Pechino potrebbe mirare ad una riduzione delle riserve con una politica di esportazione di capitali. In breve, gli attivi monetari vanno trasformati in risorse “reali” quali materie prime, miniere, imprese da acquisire all’estero. E, infatti, nel 2009, in piena recessione globale, la Cina ha destinato somme enormi per l’acquisto di grandi imprese e altri interessi nel resto del mondo.Un’altra linea di notevole rilevanza strategica riguarda la modernizzazione e lo sviluppo delle infrastrutture, e oltre a ciò lo sviluppo delle capacità nazionali in alcuni settori ad alta tecnologia di importanza cruciale, tra cui l’industria aerospaziale. Così, ad esempio, la Cina aspira a diventare un leader mondiale in alcuni settori dell’industria energetica - dalle energie rinnovabili, quali ad esempio l’energia eolica e solare, al “carbone pulito”. Dunque, “l’officina del mondo” potrebbe presto diventare un “laboratorio tecnologico” di rango mondiale. Se tutte queste strategie avranno successo, la moneta cinese, lo yuan, per ora inconvertibile, diventerà sempre più importante. Da tempo, del resto, i cinesi parlano della necessità di riformare il sistema monetario mondiale, e soprattutto di ridimensionare il ruolo del dollaro. Finora, per la verità, non hanno ottenuto grande attenzione. Nel frattempo la Cina ha concluso accordi o intese di cooperazione valutarie con vari paesi asiatici e non asiatici. E così, se la Cina saprà uscire rafforzata dalla recessione globale, la riforma del sistema mone-tario richiesta dalla Cina, e non solo dalla Cina, diventerà una priorità della politica internazionale. Da tempo i paesi asiatici discutono della possibile creazione di un Fondo Monetario Asiatico (il progetto originale è stato proposto dal Giappone) e di una Unità di conto asiatica (ACU), analoga all’ECU di anni fa da cui nacque poi l’euro. Il consolidamento della cooperazione tra Cina, Giappone e Corea del Sud potrebbe accelerare il processo verso la futura creazione di una moneta asiatica, o comunque di un suo succedaneo preli-minare, cioè un “paniere” monetario relativamente stabile impiegato nell’interscambio tra paesi asiaticiC’è un detto secondo cui bisogna stare attenti a formulare i propri desideri, perché si rischia poi che questi si avverino. Oggi, il mondo occidentale desidera che la Cina esporti un po’ meno e sviluppi maggiormente l’economia interna. Se questi “desideri” si avvereranno, l’Occidente si troverà a che fare con una Cina più forte, più solida, e quindi anche più ambiziosa, di oggi.

L’INTERSCAMBIO ITALIA-CINA VISTO DA SHANGHAI

“Agli occhi dei cinesi l’Italia è il paese della moda, dell’arte e con un’ottima cucina; pochi sanno che ha un’economia industriale consolidata e all’avanguardia in diversi settori. Le aziende italiane vanno in Cina sulla base di diverse motivazioni. Alcune hanno i clienti lì e ritengono conveniente produrre in loco; altre,utilizzando materie prime provenienti dalla Cina, eliminano il rischio di fluttuazione dei prezzi e contengono i costi di produzione; altre ancora puntano allo sviluppo su altri mercati asiatici, partendo da quello cinese”. “Oggi i cinesi preferiscono andare in Francia, più che in Italia, per turismo o per fare shopping. Mi piacerebbe suggerire all’Italia una maggiore attenzione nel promuovere il vostro magnifico paese, intensificando gli sforzi per attrarre un maggior numero di turisti”.

In collaborazione con UBI Banca e con Interprofessional Network, Il Sole 24 Ore ha edito il manuale “L’impresa verso i mercati Internazionali: Focus Cina”, che fornisce una visione della strategia d’impresa, del marketing, della finanza, dell’organizzazione, delle problematiche tributarie e legali in genere nellainternazionalizzazione dell’impresa.

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ma non tocca solo le aziende italiane ma è gene-ralizzato e crea danni e disagi a tutti. Negli anni i Paesi europei e gli Stati Uniti hanno espresso la loro insoddisfazione e le loro preoccupazioni, facendo molte pressioni al Governo cinese: questo si è quindi trovato costretto a intervenire e ne-gli ultimi anni ha introdotto leggi e regolamenti per la protezione dei diritti di proprietà intellet-tuale, che ha successivamente ulteriormente im-plementato. Francamente molte aziende cinesi non conoscono il concetto del diritto di proprie-tà intellettuale e resta quindi difficile attendersi cambiamenti a breve nel rispetto delle nuove nor-mative. La prima cosa da fare per un’azienda in-teressata a questo mercato (in qualunque settore e con qualunque finalità operativa) è provvedere a registrare marchi e brevetti direttamente in Cina: in questo modo sarà più semplice controllare da subito la situazione, andando ad evitare spiacevoli inconvenienti.

In Italia è d’obbligo avere un occhio sempre posato sugli avvenimenti che avvengono in Cina e sulla sua economia. Per contro, come vedono i cinesi il nostro Paese?Di solito i cinesi conoscono l’Italia dalle riviste di moda e turismo e dalla presenza dei vostri più noti marchi esposti nei grandi magazzini. Le nuo-ve generazioni, nate dopo l’apertura della Cina negli anni ‘80, conoscono il vostro Paese anche grazie al calcio e sanno bene i nomi delle super star del vostro Campionato. La Ferrari è poi per noi sinonimo d’Italia! Negli occhi dei cinesi l’Ita-lia è il paese della moda, dell’arte e con un’ot-tima cucina. Pochi purtroppo sanno invece che l’Italia ha un’economia industriale consolidata e all’avanguardia in molti altri settori.

E possìbile ipotizzare che nel giro di qualche anno la moneta cinese (renmimbi) abbia libera circolazione alla stregua delle più importanti monete mondiali?E mia opinione che nel prossimo decennio la Cina cercherà di realizzare per gradi la libera cir-colazione della propria moneta (RMB): prima su base regionale (sono già iniziate le prime prove di convertibilità con il dollaro di Hong Kong) e, una volta maturate le condizioni, a livello mondiale. Essendo molto prudente, il governo cinese non renderà pienamente convertibile il RMB fintanto che le condizioni economico/finanziarie dell’eco-nomia del Paese non saranno mature.

Le esportazioni dell’italia verso la Cina sono stabili, da quasi un decennio, al 9% circa delle intere esportazioni dell’Europa dei 27.

Nel 2008, in occasione delle Olimpiadi, Pechino e la Cina sono stati al centro dell’attenzione del mondo intero. A distanza di un anno cosa si può dire che questo palcoscenico abbia lasciato agli operatori economici cinesi?I giochi olimpici sono stati un’ottima “vetrina” per mostrare al mondo il paese e il suo sviluppo eco-nomico. Come primo effetto hanno lasciato agli abitanti di Pechino il beneficio degli investimen-ti effettuati in infrastrutture (strade, ammoder-namento, pulizia, ecc.). Incredibili sono state le misure adottate per il controllo dell’inquinamento ambientale: per cercare di mantenere il cielo lim-pido, sin da molti giorni prima delle gare, alcune aziende hanno dovuto sospendere la produzione industriale per non inquinare. I controlli di sicu-rezza adottati per l’accesso degli stranieri, ma an-che degli stessi turisti cinesi alla città, sono stati talmente rigidi da far registrare una forte contra-zione dei flussi turistici in tutto il paese.

Risulta che spesso le aziende italiane stabiliscano in Cina unità produttive destinate, più che ad esportare i prodotti finiti, a commercializzare gli stessi sullo stesso mercato cinese che essendo di dimensioni gigantesche, permette ritorni reddituali interessanti. Alla base di tali strategie ci sono anche aspetti legati alla qualità dei prodotti?Le aziende italiane vengono in Cina per diversi scopi e con differenti strategie: potremmo divide-re i clienti che riceviamo nel nostro ufficio in 3 categorie: alcuni vengono in Cina perché i loro clienti sono già qui, e devono pertanto avvicinarsi a loro producendo in loco. Altri arrivano perché le materie prime che utilizzano provengono dalla Cina e aprendo una fabbrica in loco eliminano i rischi di fluttuazione dei prezzi e di disponibilità tipici nell’importazione delle materie prime, di-minuendo anche il costo di produzione, prenden-do così “due piccioni con una fava” (detto sino/italiano!). Il terzo gruppo è quello della “strategia del domani”: hanno la convinzione di sviluppare anche gli altri mercati asiatici, partendo e basan-dosi su quello cinese. Questi sono lungimiranti, credono nelle potenzialità di crescita e sviluppo dei paesi asiatici e nel fatto che quest’area geogra-fica sarà sicuramente dominante nel ventunesimo secolo.

Sono note, soprattutto in-Italia, alcune vicissitudini che hanno coinvolto importanti aziende italiane che hanno visto donare i loro prodotti. Le Istituzioni cinesì affrontano il problema? Se sì, come?Anche i nostri clienti parlano sempre delle imita-zioni e delle cosiddette “copie pirata”! Il proble-

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no di solito ha due strumenti per gestire l’inflazio-ne: uno è la possibilità di intervenire sul tasso di cambio, elevandone la flessibilità e, qualora neces-sario, incrementando il valore del RMB. L’altra leva è invece quella di aumentare la riserva obbligato-ria: nel 2007 gli istituti finanziari hanno dovuto au-mentare per sei volte il tasso d’interesse dei depositi in RMB e ritoccare dieci volte i limiti delle riserve obbligatorie. Il governo ha inoltre adottato misure amministrative - ad esempio sul contenimento del prezzo dei prodotti agricoli secondari - che han-no sicuramente avuto effetto positivo nel controllo dell’inflazione.

La Cina è uno dei Paesi che ha subito la crisi economica mondiale in misura ridotta rispetto a molti altri. In effetti la crescita del suo PII è ral-lentata ma non ha registrato un segno negativo. Come viene vissuto dagli operatori cinesi questo momento di recessione mondiale?Prima di analizzare il punto di vista delle aziende locali ritengo utile ricordare che il Governo ha va-rato un’importante manovra pubblica a sostegno dell’economia, aumentando gli investimenti pub-blici. Per stimolare la domanda domestica sono sta-ti stanziati 4 mila miliardi di RMB (1 euro = 9,75 Rmb), investiti nelle infrastrutture ferroviarie, auto-stradali e nel settore agricolo, oltre alla ricostruzio-ne delle Regioni colpite dal terremoto dello scorso anno. Nel 2007 e nei primi sei mesi del 2008, il governo ha adottato una rigida politica monetaria, controllando l’emissione di valuta, mentre nella se-conda metà del 2008, specialmente dopo settem-bre col declino dell’economia, è stata adottata una politica più flessibile, promuovendo una maggiore concessione del credito. Per passare al punto chiave della domanda è bene sapere che in Cina abbiamo due tipi di imprese, quelle a ‘partecipazione statale e quelle private. Le aziende ad azionariato pubbli-co sono attive nei principali settori quali energia, trasporti, telecomunicazioni ecc.; come si può facil-mente immaginare questi settori hanno ampiamen-te beneficiato delle politiche di incentivazione sta-tali e hanno ricevuto numerosi ordini di forniture relative ai progetti, di investimenti in infrastrutture commissionati dal Governo potendo facilmente ac-cedere al credito erogato dalle banche locali. Cost non è stato per le imprese private che essendo es-senzialmente orientate all’export, contribuendo in maniera relativa alla crescita del prodotto interno e per le quali l’accesso al credito bancario è decisa-mente contenuto, hanno pagato un elevato tributo alla recessione economica nonostante le misure di taglio dei dazi doganali adottati dal governo a soste-gno dell’esportazione.

Le importazioni in Italia dalla Cina, per contro, sono leggermente superiori e si attestano un po’ sotto il 10%. Questi valori farebbero presupporre una certa difficoltà italiana ad aumentare le proprie quote di mercato. Cosa potrebbe ancora essere fatto dalle Istituzioni italiane politiche, economiche, bancarie, ecc. per aumentare il grado di penetrazione in un mercato così vasto?Nei miei 12 anni di esperienza con le banche italia-ne, ho notato il cambiamento della proporzione tra esportazioni e importazioni nell’interscambio ita-locinese. Prima del 2000, specialmente negli anni ‘90, l’Italia esportava verso la Cina molto di più di quanto importava. In quegli anni molte aziende cinesi stavano modernizzando i propri impianti in-dustriali e grande era la domanda di macchinari, specialmente nel settore tessile. Successivamente, i produttori cinesi hanno cominciato a esportare i propri prodotti all’estero, Italia inclusa, utilizzan-do nel nuovo ciclo produttivo macchinari italiani e manodopera cinese a basso costo. Con lo sviluppo e la crescita dell’economia del Paese, i cinesi han-no incrementato molto rapidamente i consumi e raffinato le loro esigenze, riservando anche mag-gior attenzione alla qualità della vita! Da ciò nasce la necessità dello sviluppo di forme d’energia pu-lite, la ricerca continua di ridurre l’inquinamento ambientale, ma anche la “nascita” dell’esigenza di beni di consumo di alta qualità, di apparire e di possedere “status symbol”. A queste necessità sono legati settori nuovi all’interno dell’interscambio tra i nostri Paesi e varrebbe davvero la pena che l’Italia sapesse trarne maggior vantaggio. Oggi, ad esempio, i cinesi preferiscono andare più in Fran-cia che in Italia per turismo e per far shopping. Mi piacerebbe poter suggerire all’Italia di riporre maggior attenzione nel promuovere il vostro ma-gnifico Paese, intensificando gli sforzi per attrarre un maggior numero di turisti cinesi!

Negli ultimi anni la crescita del Pil cinese è stata spesso a due cifre. Per contro l’inflazione non è stata di entità trascurabile raggiungendo il 5,2% nel 2007. Come si sa la BCE è molto attenta alle dinamiche inflazionistiche ed opera sul mercato in modo tale da affrontare con tempestività l’eventuale tendenza al rialzo. Come affrontano, per contro, le Istituzioni cinesi le dinamiche inflazionistiche?I dati ufficiali presentano un livello di inflazione che, se paragonato al tasso di crescita dell’econo-mia, è ancora decisamente contenuto. Nella realtà dei fatti, i prezzi dei beni essenziali (es. alimenta-ri) sono sempre sotto controllo, mentre i rialzi im-pattano soprattutto beni non essenziali, oggetto di consumo da parte della emergente classe media. Per quanto riguarda la politica monetaria, il gover-

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Per dare pieno sostegno alle imprese, la Banca Regionale Europea, insieme alle altre banche del Gruppo UBI Banca, ha realizzato, in collaborazione con Confidi, speciali linee di credito differenziate per finalità. Questi finanziamenti posso-no prevedere l’utilizzo di agevolazioni finanziarie a valere su normative comunitarie, nazionali, regionali e provinciali con cui le banche del Gruppo sono convenzionate, rendendo così il costo dell’intervento particolarmente vantaggioso.

400% sostegno e sviluppoFinanziamento finalizzato a progetti di crescita dell’impresa me-diante la realizzazione di investimenti fissi, con immissione di risorse finanziarie da parte del titolare o dei soci dell’impresa per almeno il 25% dell’investimento.

dal titolare o dai soci dell’impresa.

Eventuali eccedenze rispetto al costo dell’investimento (per un massimo del 25% dell’importo dell’investimento stesso) potran-no essere utilizzate dall’impresa per esigenze di liquidità o di riequilibrio finanziario.

200% rafforzamento patrimonialeFinanziamento finalizzato a creare basi solide per rilanciare in-vestimenti e competitività delle imprese, attraverso il rafforza-mento della struttura patrimoniale e il riequilibrio delle fonti finanziarie.

dal titolare o dai soci dell’impresa.

100% sostituzione e aggiornamento impianti.Finanziamento finalizzato a promuovere l’aggiornamento o la sostituzione di impianti esistenti con nuovi modelli a più elevato contenuto tecnologico, di risparmio energetico, di si-curezza e di tutela ambientale.

comprensivo delle spese accessorie.

SOSTEGNO A PROGETTI SPECIFICIGrazie ad un costante ascolto delle esigenze delle imprese, svolto in collaborazione con le Associazioni di Categoria operanti sul territorio di riferimento, sono state inoltre sviluppate linee di credito che rispondono ad esigenze specifiche e differenziate per: -

coltura); -

riodo collegato all’attività corrente dell’impresa (ad esempio pagamento delle imposte) agli investimenti di lungo periodo;

NUOVA ENERGIA: MENO COSTI PER L’IMPRESA, PIÙ TUTELA PER L’AMBIENTEUbi Banca, da sempre attenta alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente, ha creato “Nuova energia”, una linea di finan-ziamenti assistita da specifiche coperture assicurative che con-sentono alle imprese di contenere i costi energetici tramite l’utilizzo di energia da fonti rinnovabili o il miglioramento dell’efficienza energetica

IMPIANTI FOTOVOLTAICIFinanziamento dedicato alla realizzazione di impianti fotovol-taici per la produzione/vendita di energia elettrica, usufruen-do degli incentivi riconosciuti dal Gestore dei Servizi Elettrici (Conto Energia). Importo: fino al 100% dell’investimento.Durata: 15 anni per prestiti chirografari e 18 anni per mu-tui ipotecari. Assicurazione “Scudo Speciale Energia” di UBI Assicurazioni a copertura di danni all’impianto o dei rischi derivanti dalla mancata produzione di energia.

FONTI RINNOVABILI E RISPARMIO ENERGETICOFinanziamento dedicato a sostenere la produzione di energia da fonti rinnovabili o a basso impatto ambientale (ad esempio energia idraulica, eolica, biomasse) e al miglioramento dell’effi-cienza energetica. Importo: fino al 100% dell’investimento.Durata: 12 anni per prestiti chirografari e 18 anni per mutui ipotecari.

LA BANCA REGIONALE EUROPEA ALL’ASCOLTO DELLE PICCOLE E MEDIE IMPRESEUBI BANCA E CONFIDI ALLEATI PER DARE PIÙ POTENZA ALLE PMI. ISTITUITE SPECIALI LINEE DI CREDITO DIFFERENZIATE PER FINALITÀ. SOSTEGNI AI PROGETTI FINO AL 400%

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Una Maddalena dolente e tenera nel contempo tiene con delicatezza d’amore profondo la mano abbandonata del Cristo morto. È seduto, il Signore martire, abbandonato, pare addormentato nel sonno di una stanchezza infinita. In primo piano un prezioso contenitore per l’unguento con cui detergere e profumare la salma. Dietro la figura principale un telo di lino (la Sindone?) scivola giù da un tavolo sul quale è posato un altro bacile dalle forme raffinate. Non è definito lo spazio; appare un interno e nel contempo un esterno dove, in alto a destra, è raffigurata la scena del “Noli me tangere”, successiva agli avvenimenti narrati nello spazio dominante. Un trucco narrativo, l’inserimento di una storia nella storia, frutto dell’intellettualismo colto, alla ricerca dell’effetto straniante e percepibile solo da un osservatore altrettanto addentro alle “cose d’arte”, al mondo delle conoscenza sacra e profana, tipico del ‘600.La tela intera è giocata sui toni bruni, le cui varianti, sapientemente graduate, creano le forme, delimitano gli spazi nell’insieme dei chiaroscuri che forniscono un senso di indeterminatezza.Si tratta del “Cristo morto e Maddalena” di Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano (Romagnano Sesia, 1573 – Milano, 1632), opera di datazione non sicurissima (probabilmente del 1626), attualmente di proprietà della Banca Regionale Europea, e fa parte del considerevole gruppo di dipinti (54) esposti alla mostra “Tra sacro e profano. Capolavori del XVII secolo nelle raccolte delle banche italiane”, ospitata al Musée National d’Histoire et d’Art del Granducato di Lussemburgo, che si è svolta dal 4 febbraioal 17 maggio scorso. L’evento, voluto dall’ABI di concerto col Ministero degli Affari Esteri e con le autorità del Lussemburgo, inaugurato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ha rappresentato una importante occasione per le banche italiane di far conoscere ancora di più, in particolare all’estero, il proprio patrimonio artistico. Collezioni frutto, in parte, di eredità, in alcuni casi da parte degli ex Monti di Pietà, ma molto di acquisizioni fatte dagli Istituti di credito stessi, proseguendo, in un certo senso, una tradizione di mecenatismo che affonda le sue radici molto addietro nel tempo: all’epoca dei grandi banchieri rinascimentali, in specie fiorentini e genovesi, veri e propri collezionisti “borghesi” che si affiancavano alla Chiesa e

LE COLLEZIONI D’ARTE DELLE BANCHE ITALIANE IN MOSTRA A LUSSEMBURGO

all’aristocrazia nel costituire quel vasto bacino di committenza che permise lo straordinario e plurisecolare sviluppo di eccellenza dell’arte italiana. Risponde anche all’esigenza da parte delle banche stesse di rendere “aperte” le loro iniziative nel settore. Come ricordato da Corrado Faissola, presidente dell’ABI, nell’introduzione al catalogo della mostra, “da sempre le banche italiane hanno raccolto opere d’arte antiche e moderne, hanno dato alla luce pubblicazioni di storia dell’arte e hanno finanziato importanti restauri dell’immenso patrimonio del nostro Paese, ma solo da pochi decenni hanno deciso che tutte queste attività avevano bisogno di un corollario fondamentale: la fruizione del pubblico”.

Nelle cinque sale del Museo del Lussemburgo dedicate all’occasione, è stata esposta una selezione di dipinti che testimoniano un periodo partico-larmente affascinante e stimolante della storia delle arti figurative: quello che va dalla fine del Cinquecento a inizio Settecento, dal Manierismo al Barocco fino ai suoi sviluppi più arditi. Un’epoca che vede un profondo cambiamento stilistico, con una attenzione sempre maggiore

Promossa dall’ABI, si è tenuta dal 4 febbraio al 17 maggio scorso, presso il Musée National d’Histoire et d’Art del Lussemburgo, la mostra “Tra sacro e profano. Capolavori del XVII secolo nella raccolta delle banche italiane”, inaugurata dal Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. La mostra ha esposto 54 dipinti appartenenti alle raccolte delle banche italiane, tra i quali il “Cristo morto e la Maddalena” di Giovanni Battista Crespi, detto il Cerano, di proprietà della Banca Regionale Europea.

DI FABRIZIO GARDINALI

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agli aspetti naturalistici, alla ricerca di una “grazia” estetica che accomuna i soggetti religiosi e devo-zionali a temi profani, quali la mitologia, intesa in senso allegorico e metaforico, e a temi più “privati” e di mera suggestione, come il paesaggio, la veduta, la natura morta, le scene di genere. Ciò è dovuto anche al nascere del collezionismo privato. Accanto alla Chiesa, che da sempre aveva utilizzato le immagini per diffondere le religione e gli esempi edificanti, specie verso il popolo, per lo più analfabeta, nuovi committenti sono l’alta aristocrazia, ma anche la piccola nobiltà e, appunto i grandi banchieri e mercanti, motivati sia da scopi di prestigio sia da raffinata cultura.Divisa in sezioni: “La forza del mito”, “Le grandi pale”, “Storie sacre: percorsi e protagonisti”, “Le allegorie morali”, “Storie sacre e santi”, “I volti della storia” e “Pittura e poesia”, la mostra ha documentato in particolare due grandi filoni: quello del naturalismo emiliano e quello del realismo caravaggesco. Come sostenuto dalla curatrice, Anna Lo Bianco,“ la selezione effettuata per la mostra ha voluto privilegiare quella pittura di storia che vede la figura umana al centro e che i tanti scritti sul collezionismo consideravano la più nobile espressione artistica. La raffigurazione dell’azione dell’uomo nella storia e nel tempo secondo precisi canoni di verosimiglianza e di unità di rappresentazione era chiamata anche la «grande maniera» dai viaggiatori stranieri del Settecento, per i quali costituiva la massima espressione della genialità italiana”.Ne è emerso un universo variato e fantasmagorico, dove si alternano le scene sacre col mito, come etica eroica, al ritratto, che è storia familiare, ma pure pubblica, politica e militare, realizzato da artisti notissimi, come Guercino o Lodovico Carracci, e altri meno conosciuti da grande pubblico, ma di elevatissimo valore. Con qualche pezzo di assoluta originalità, come “La Terra dona a Nettuno i bulbi del tulipano” del Sirani. Tema rarissimo ed erudito che testimonia l’amore per la botanica del tempo. La tela è, in effetti, una replica di un originale, perduto, di Guido Reni (del quale il Sirani era strettissimo collaboratore), usato per eseguire l’omonima incisione presente nel “De Florum cultura. Libri IV” di G. Battista Ferrari, pubblicato nel 1633 su commissione di Francesco Barberini, e considerato uno dei più importanti trattati di botanica del tempo. O il potentissimo “Il ciarlatano”, realizzato nel 1656 da Bernardino Mei, dove l’imbonitore, mago, truffatore, incantatore domina la scena, come una sorta di “divinità” malinconica e negativa, a ricordare la fallacia e la vanità delle illusioni umane, spesso fondate sul nulla che genera false speranze, il più delle volte malamente deluse.

DI CARLOTTA BECCARIA

LO STATO DI CONSERVAZIONEL’intervento di restauro sull’opera si è reso necessario per ridare una adeguata visione alla superficie pittorica, in molte aree pressoché illeggibile. Infatti una coltre opalescente ed uno strato di particellato atmosferico e di vernice alterata offuscavano ed attutivano la cromia dell’opera, tutta giocata sui toni dei bruni.La struttura tela-telaio era invece in uno stato di conservazione buono, il retro del supporto evidenziava un passato intervento di foderatura che mostrava ancora una adeguata capacità di sostegno e il telaio messo in opera risultava in buono stato di conservazione. La pellicola pittorica, durante le passate operazioni di foderatura, aveva subito un intervento di stiratura, eseguita con calore e pressione esagerati, che hanno attutito i rilievi materici del colore, cosicché

IL RESTAURO DEL CAPOLAVORO DEL CERANO

Pagina precedente: Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, Cristo morto e la Maddalena, collezione Banca Regionale Europea, Milano

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, Cristo morto e la Maddalena, particolare della mano dopo il restauro

In occasione della mostra “Tra sacro e profano. Capolavori del XVII secolo nella raccolta delle banche italiane”, tenuta a Lussemburgo dal 4 febbraio al 17 maggio, il dipinto del Cerano “Cristo morto e Maddalena”,di proprietà della Banca RegionaleEuropea, è stato oggetto di un accurato restauro, che gli ha restituito la bellezza originaria. Il restauro è stato curato da Carlotta Beccaria, che ne descrive i passaggi e le tecniche di esecuzione.

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risultavano leggermente appiattiti. La presenza di residui opalescenti di vecchi collanti non rimossi toglieva leggibilità alle lievi variazioni cromatiche delle terre; probabilmente durante le operazioni di consolidamento il collante proteico utilizzato non era stato rimosso adeguatamente e, al contempo, durante la foderatura il calore e la pressione esercitata avevano facilitato la migrazione del collante sulla superficie che con gli anni aveva assunto il tipico tono opalescente dato dal residuo di collante. Su questi residui erano stati effettuati degli interventi di ridipintura, con pennellate allargate sulla stesura originale, al fine di renderli meno leggibili ed interferenti.I numerosi restauri pittorici, appartenenti al passato restauro, erano facilmente rintracciabili a luce diffusa in quanto alterati e stesi con colore sordo e coprente ed anche con un’analisi a luce di wood in quanto la fluorescenza era violastra.La cornice lignea presentava numerose mancanze di doratura e in alcuni punti di modellato.

L’INTERVENTO DI RESTAURODato il buono stato di conservazione strutturale del dipinto ci si è dedicati all’intervento di pulitura che ha previsto l’esecuzione del test di solubilità acquoso, per la rimozione del particellato atmosferico e il test di solubilità per le vernici. Dopo aver verificato le prove sia a luce bianca che ultravioletta si è deciso di effettuare il primo passaggio di pulitura con tamponcini di soluzione di citrato all’1% in acqua demineralizzata a ph 7,5. Questo primo passaggio ha permesso di rimuovere

il grasso atmosferico e al contempo di mettere in luce la vernice sottostante, in questo modo si è potuto leggere in maniera più precisa la presenza delle alterazioni e dei restauri sottostanti.L’intervento è proseguito con la rimozione della vernice alterata con un solvente addensato in solvent gel di Ligroina al 60% e solvanol al 40%.La decisione di utilizzare un solvente gelificato è stata dettata dalla necessità di evitarne la veicolazione negli strati pittorici e nella foderatura e al contempo di solubilizzare, almeno in parte, grazie alle proprietà tensioattive di questo gel, la colla residua presente sulla superficie. Dopo aver ultimato il passaggio di pulitura abbiamo dovuto rimuovere alcuni restauri alterati, che non si erano solubilizzati nel primo intervento, e alcune opalescenze ancora residue. Le ridipinture più tenaci sono state rimosse con tamponcini localizzati di dimetilsolfossido al 5% e passaggio di etilacetato. Dopo la rimozione delle ridipinture si sono ritrovati brani di pittura originale che erano occultati fraintendendo la ve-locità esecutiva dell’artista con una mancanza di definizione, esempio la mano della Maddalena, una volta rimossa la pesante ridipintura è risultata perfettamente leggibile e molto più leggera.Nella parte inferiore del dipinto si sono recuperate delle foglie e dei particolari prima illeggibili, così come nella zona superiore sinistra si è ritrovato un tralcio di vite. Le opalescenze biancastre sono state rimosse con interventi localizzati e selettivi con un’emulsione grassa addizionata di citrato all’1% che ha solubilizzato le colle. Dopo aver rimosso i residui inseritesi tra tela e telaio con aspiratore apposito, il telaio ligneo è stato revisionato e disinfestato dagli insetti xilofagi.Le lacune sono state stuccate con gesso di Bologna e colla di coniglio e rasate a bisturi. L’intervento di integrazione pittorica è stato effettuato con colori a vernice da restauro a piccoli punti andando a colmare le lacune e smagriture ma rispettando la tecnica pittorica dell’artista fatta da veloci pennellate e dall’utilizzo della preparazione comefondo cromatico a riserva. La cornice è stata pulita e disinfestata dagli insetti xilofagi e la stesura dorata consolidata e pulita. Le lacune, dopo la stuccatura, sono state risarcite con bolo e oro in foglia. Per poter ricollocare il dipinto in cornice sono state messe in opera delle linguette metalliche di contenimento. L’opera a fine intervento ha recuperato una cromia più intensa e contrastata, giocata sui toni dei bruni. Per rendere perfetta-mente leggibile la bellezza delle stesure il dipinto necessita di luci appropriate che non si riflettano sulla superficie.

Giovanni Battista Crespi detto il Cerano, Cristo morto e la Maddalena, particolare della mano prima del restauro

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Nel programma ormai decennale di attività di studio e di allestimento di mostre sulla pittura dell’Ottocento, promosse dai Musei Civici di Pavia e sostenute dal contributo della Banca Regionale Europea, si inserisce, nell’autunno/inverno 2009, la grande rassegna “Impeto e poesia. Pasquale Massacra pittore romantico tra storia e mito”. Il titolo riprende il giudizio espresso sull’artista pavese dal noto critico e letterato Giuseppe Rovani che, a metà Ottocento, aveva individuato in Pasquale Massacra un protagonista della pittura italiana del Romanticismo storico, tutto impeto della creazione e poesia degli affetti, e l’aveva individuato quale geniale innovatore della pittura di istanza civile, portatrice di messaggi morali e etici e di un linguaggio formale antiaccademico e schiettamente cromatico.La vicenda umana ed artistica di Massacra si è circonfusa, già alla metà del XIX secolo, di un alone di leggenda: nato da famiglia popolana nel 1819, messo a bottega da un decoratore e qui scoperto dal noto incisore Cesare Ferreri, che gli insegnò i primi rudimenti dell’arte ma anche del vivere civile e sociale, Pasquale divenne in breve tempo pittore ormai apprezzato dall’aristocrazia e borghesia locale che gli commissionava dipinti di Madonne e Crocefissi per cappelle ed edicole funerarie, quadri, ritratti e nature morte, scene di genere da affrescare sui muri di cascinali e salotti cittadini: il suo stile molto fresco, spontaneo, ricco di colore e veloce nel tratto aveva molta presa sul pubblico cittadino, che amava questo giovane un po’ rozzo ma genuino e generoso, sempre disponibile per grandi imprese decorative in chiese e palazzi ma anche per la pittura di insegne di negozi, sagome intagliate per presepi, teloni da teatro, paracamini. Fu l’incontro prima con lo storico Pietro Carpanelli poi con il mecenate Giuseppe Marozzi ad orientare definitivamente l’arte di Massacra verso la sua espressione più matura, profonda e originale: quella della rappresentazione di soggetti storici - per lo più d’epoca medievale - nei quali si rispecchiavano situazioni, politiche ed anche personali, contemporanee.Nel celebre dipinto “La madre di Ricciardino Langosco in cerca del figlio morto”, esposto con grandissimo successo a Brera nel 1846 e allora salutato come il miglior quadro del Romanticismo storico, Massacra aveva infuso tutto il pathos

della guerra, della ricerca della libertà contro l’invasore anche a costo della perdita della propria vita, e del dolore causato alla propria famiglia, raccontando un episodio di storia locale del Trecento, analogo alla situazione della detestata oppressione austriaca cui egli, in qualità di patriota, si era più volte ribellato.L’ansia di libertà per la sua patria, l’insofferenza di ogni vincolo personale ed artistico, il rifiuto di una condizione privilegiata di artista al servizio di un facoltoso e generoso committente, il carattere focoso e irruente fecero sì che - proprio nel momento del riconoscimento generale delle sue doti artistiche e dell’ammirazione da parte di autorità quali Francesco Hayez - Massacra abbandonò la pittura e si dedicò tutto ad attività antiaustriache così da morire, a soli trent’anni nel 1849, in un agguato.Da allora egli venne celebrato quale il mitico pittore patriota avviato ad una fulgida carriera tra i grandi artisti della scena milanese, e invece colpito da un tragico destino: su di lui fiorirono leggende, in suo onore furono composti poemetti e rappresentazioni teatrali, il suo nome fu ricordato in lapidi apposte in città e nella Scuola di Pittura.

PASQUALE MASSACRA: GENIO ROMANTICO DELLA PITTURA PAVESE

Presso il Castello Visconteo, a Pavia, dal 25 settembre al 13 dicembre, è in corso la mostra “Impeto e poesia. Pasquale Massacra tra storia e mito”, organizzata dal Comune, con il sostegno della Banca Regionale Europea. Vi sono esposti una sessantina di dipinti - bozzetti, quadri, affreschi -, e disegni e cartoni, prodotti dal geniale artista del primo ‘800, scomparso nel pieno della giovinezza.

DI SUSANNA ZATTI

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Dall’alto: La madre di Ricciardino Langosco in traccia del cadavere del figlio ucciso nella espugnazione di Pavia per le armi di Matteo Visconti;

Donna in rosso;

a sinistra: Pasquale Massacra, Autoritratto

Dall’alto: Festa da ballo in una locanda;

Scena biblica

La mostra che i Musei dedicano a Massacra presso le Scuderie del Castello visconteo (dal 25 settembre al 13 dicembre), presenta oltre una sessantina di dipinti - bozzetti, quadri, affreschi - e poi disegni e cartoni conservati in collezioni pubbliche e private, da mettere in relazione anche con le opere lasciate da Massacra sul territorio pavese, quali la pala in San Michele, gli affreschi della cappella di S.Antonio nel Carmine, la Via Crucis nella parrocchiale di Trovo.

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L’uomo ha iniziato a manipolare l’argilla fin dalla preistoria: vasellami di uso quotidiano sono presenti, a partire dal neolitico, in tutte le culture.Con l’andare del tempo l’uso quotidiano della ceramica ha consesso spazio alla decorazione degli oggetti di consumo. E l’arte, in molte sue manifestazioni, si è avvalsa della terra per esprimere emozioni. Tale opportunità ha coinvolto la storia dell’arte a partire dalla statuaria greca e romana fino ad interessare i secoli più recenti grazie alle manifatture fiorenti in Italia e in tutta Europa.La ragione di questo interesse nasce dal fatto che l’artista che si accosta per la prima volta a questa materia prova il brivido e la curiosità della sfida, dal momento che egli non è in grado di dominare compiutamente ciò che gli fiorirà tra le mani. Il suo gesto sarà sempre sottoposto al vaglio e alla sorpresa del fuoco capace di modificare e di riproporre l’idea primitiva di armonia, di tonalità e di carattere complessivo dell’opera. Nel corso del Novecento molti artisti delle avanguardie hanno utilizzato le possibilità di questa tecnica per ampliare il proprio linguaggio e produrre opere complementari alla personale ricerca pittorica.

L’esposizione “Dipingere con il fuoco”, proposta a Mondovì nella sala espositiva di S. Stefano fino al 8 novembre 2009, è incentrata sul ruolo della Ceramica nella storia artistica del ’900. La mostra nasce dalla volontà del Comune di Mondovì di portare l’attenzione verso l’utilizzo della ceramica come forma d’arte fondamentale per la ricerca cromatica e plastica degli artisti. Il percorso espositivo si sviluppa a partire dai lavori di quattro artisti fondamentali del ‘900, come Wilfredo Lam, Asger Jorn, Lucio Fontana e Pinot Gallizio e si articola in quattro sezioni. La prima riguarda gli autori “Variamente Figurativi” tra cui spiccano i nomi di Agenore Fabbri, Aligi Sassu, Sandro Cherchi, Lele Luzzati e Ugo Nespolo. La seconda parte, dedicata ai “Surrealisti e ai Metafisici”, si apre con una serie di capolavori di Wifredo Lam con il concorso tra l’altro di Lucio del Pezzo, Gianni Dova, Gaston Orellana e Francesco Casorati. Gli espressionisti del gruppo “CoBrA” costituiscono la terza sezione e sono rappresentati dal fondatore del movimento, Asger Jorn, con sculture e piatti che evidenziano la straordinaria qualità del suo gesto.

A seguire Pinot Gallizio, Serge Vandercam e Sergio Dangelo. In ultimo è presente la sezione dedicata agli artisti “variamenti astratti e informali” che comprende i lavori di Antonio Recalcati, Emilio Scanavino e Pietro Consagra ed anche un’opera inedita di Lucio Fontana del 1958, dal titolo “Concetto spaziale”.

I visitatori possono ammirare più di 100 opere, eseguite dal 1958 al 2009 e suddivise tra vasi, sculture, piatti decorati ed elementi decorativi in genere. I manufatti provengono da collezioni pubbliche e private e dalla fabbrica di Ceramiche San Giorgio di Albisola, luogo privilegiato dagli artisti a partire dal 1960. La mostra è realizzata grazie al contributo della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo e della Banca Regionale Europea e con la collaborazione della Reale Mutua Assicurazioni, è visitabile gratuitamente dal martedì alla domenica, dalle 15.30 alle 19.00

DIPINGERE CON IL FUOCOLE CERAMICHE DI JORN, FONTANA, LAM, GALLIZIO E ALTRI ARTISTI DAL 1950/2009

Dall’alto: Lucio del Pezzo, Senza titolo, 1990;

Asger Jorn, Personaggio Lunare, 1972

Più di 100 opere: vasi, sculture, piatti decorati ed elementi decorativi in genere, esposte a Mondovì, fino all’8 novembre, in una mostra organizzata con la collaborazione della Banca Regionale Europea.

DI CRISTIANO ISNARDI

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Sopra: Hsiao Chin,Senza titolo, 1990;a destra:Ugo Nespolo, Dialogo di sordi, 2002

Dall’alto: Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1958; Pinot Gallizio, Senza titolo,1959;

Wilfredo Lam, Senza titolo, 1977;Aligi Sassu, Cavalli, 1955

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DI DON ALBERTO ROCCA

LA BIBLIOTECA AMBROSIANALUOGO DI INCONTRO TRA VERITÀ E BELLEZZA

Fondata nel 1609 dal cardinale Federico Borromeo, arcivescovo di Milano, è stata la prima vera biblioteca pubblica in Europa, aperta a tutti senza distinzione di ceto e di cultura. L’idea del Borromeo era di far comprendere al popolo come verità e bellezza siano strettamente collegate. Nella pinacoteca sono esposte la sua interacollezione di opere pittoriche, comprendente capolavori di Tiziano, Caravaggio, Raffaello e Brueghel, ed opere di Leonardo da Vinci. Nel 2008 è stata costituita l’Accademia, con lo scopo di fare dell’Ambrosiana un luogo dedicato a promuovere l’incontro e il dialogo tra diversi popoli e culture: ad essa faranno capo 800 studiosi da tutto il mondo.

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Federico Borromeo iniziò a coltivare il sogno di erigere la più grande biblioteca dell’epoca durante il suo soggiorno romano, durato dal 1586 al 1595. Nell’ambiente privilegiato della corte pontificia - della quale faceva parte, poiché fu creato cardinale nel 1587 – l’incontro con letterati ed artisti provenienti da tutta Europa, il suo interesse per la cultura e la bellezza poterono grandemente svilupparsi. In particolare, la frequentazione con l’ambiente oratoriano della Vallicella, fondato da San Filippo Neri, ben conosciuto e spesso frequentato da Federico, fu occasione della grande amicizia tra il Borromeo e il Cardinale Cesare Baronio, l’autore degli Annales, imponente opera storica basata sui documenti originali, scritta in risposta ai protestanti centuriatori di Magdeburgo, che avevano prodotto una serie di violenti attacchi contro la Chiesa cattolica e la sua tradizione.L’esperienza romana segnò, quindi, profondamente Federico Borromeo, non solo intelligente letterato, bensì pure raffinato appassionato d’arte; egli fu il primo cardinale patrono dell’Accademia di San Luca, quando ne era Principe - presidente il grande Federico Zuccari. Fu proprio a Roma che il Fondatore ebbe l’opportunità di acquistare dipinti di grande valore e di iniziare rapporti che poi saranno duraturi con numerosi esponenti del mondo dell’arte, quali Jan Brueghel e Paul Brill.

Giunto a Milano come arcivescovo, Federico poté finalmente mettere mano al suo sogno e procedette in duplice modo: nel 1604, fondò il Collegio dei Dottori composto da nove ecclesiastici con competenze in diverse discipline che spaziavano dalla teologia alla storia, dalle lingue orientali alle antichità classiche; “singuli singula” fu il motto ideato per il Collegio e che ancora oggi si può vedere ovunque in Ambrosiana: potremmo tradurlo così “a ciascun Dottore, una singola disciplina”. Nel contempo, ordinò che si facessero progetti per il nuovo edificio che doveva costituire la sede della Biblioteca, che venne inaugurata con grande solennità il giorno 8 dicembre 1609. Vorrei evidenziare due aspetti importanti: il Cardinale decise di non dedicare, secondo l’uso del tempo, la sua creatura a se stesso, bensì al Santo Patrono di Milano e la battezzò così Ambrosiana; inoltre, egli volle questa Biblioteca come pubblica, aperta a tutti senza distinzione di ceto o di preparazione culturale: unica condizione per l’accesso era quella di saper leggere e scrivere. Si tratta della prima biblioteca veramente pubblica in Europa, perché la Bodleian di Oxford era in realtà una biblioteca aperta solo agli universitari o da quanti erano accompagnati dagli universitari stessi. Inoltre, Federico aveva dato disposizione che a tutti fossero messi a disposizione gratuita-mente carta, penna, inchiostro e arena;

Nelle pagine precedenti, dall’alto:la Sala 5 della Pinacoteca, con il grande Cartone preparatorio della Scuola di Atene di Raffaello; la facciata ottocentesca dell’Ambrosiana; lo splendido finestrone della Sala 18; la collezione di bronzi dorati della donazione De Pecis, sempre nella Sala 18

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Dall’alto: i chiostri sul Cortile degli Spiriti Magni; la Sala 19, con dipinti italiani del XIX e primo XX secolo; pagina a fianco, dall’alto: la Madonna del padiglione di Sandro Botticelli;Il Musico di Leonardo

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come se ciò non fosse stato sufficiente, aveva anche voluto panche con possibilità di isolare i piedi dal pavimento e aveva disposto che ci fosse un grosso braciere per riscaldare la sala. Le parole di Federico Borromeo con le quali affermava di aver voluto compiere quest’opera dedicata “alla pubblica utilità, et al servitio di Dio” corrispondevano proprio a verità.

Al momento dell’inaugurazione, la Biblioteca Ambrosiana contava circa trentamila stampati e più di 10.000 manoscritti, suscitando l’ammira-zione e l’interesse di tutti i più grandi scienziati dell’epoca. Pensate che Galileo Galilei inviò una delle prime copie de Il Saggiatore esprimendo il desiderio che il suo volume potesse trovare collocazione nella “immortale libreria” Ambrosiana. Inoltre, l’Ambrosiana fu immediatamente riconosciuta come un luogo di grande serietà scientifica e prova ne è la prestigiosa donazione del marchese Galeazzo Arconati che, nel 1637, donò il Codice Atlantico ed altri dodici manoscritti di Leonardo da Vinci. Non pago di aver dotato

Due tra le sale più suggestive della Pinacoteca:sotto, la Sala 13, detta di Nicolò da Bologna; a destra, un particolare della Sala 12,o “dell’Esedra”, con il mosaico riproducente parte della miniatura di Simone Martini sul Virgilio appartenuto al Petrarca; in basso: La canestra di Caravaggio.

la città di Milano di una biblioteca strepitosa, nel 1618, Federico decise di donare alla Biblioteca la sua intera collezione di opere pittoriche, comprendente opere di Tiziano, Caravaggio, Raffaello e Brueghel, che anche oggi possiamo ammirare e sono tra i pezzi che non si possono perdere visitando Milano. L’idea del Cardinale era quella di far comprendere al popolo milanese come verità e bellezza fossero strettamente connesse. Del resto, Federico era convinto che la sua opera era “di utilità perpetua, et gloria di Dio grandissima, et cosa tanto cara ancora alle esterne nationi, non solo à l’Italia”.La storia diede ragione al nostro Eminentissimo Fondatore, così come ci piace ancora ricordarlo, e l’Ambrosiana vide tra i suoi dottori alcuni tra i maggiori letterati, quali Antonio Ludovico Muratori ad Angelo Maj e anche un Papa, Achille Ratti. Personaggi famosi si emozionarono davanti alle collezioni ambrosiane e, tra questi, ricordo solo Lord Byron, Ugo Foscolo, Oscar Wilde, Gustave Flaubert e Gabriele d’Annunzio.

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E oggi? La Biblioteca Pinacoteca Ambrosiana è più viva che mai e si è anche arricchita della Accademia: costituita dal cardinale Dionigi Tettamanzi con l’approvazione del nuovo Statuto il 20 marzo 2008 e coordinata dal Collegio dei Dottori, ha come scopo di fare dell’Ambrosiana un luogo dedicato a promuovere l’incontro e il dialogo tra diversi popoli e culture eterogenee. Gli Accademici - affermati studiosi e promettenti ricercatori - lavorano per studiare, custodire e promuovere lo straordinario patrimonio culturale dell’Istituzione attraverso convegni - i cosiddetti Dies Academici -, pubblicazioni e scambi che mirano a costituire una comunità scientifica a livello internazionale. Giusto per avere un’idea della portata scientifica dell’Accademia, basti pensare che, una volta raggiunto il pieno regine, essa conterà qualcosa come 800 studiosi da tutto il mondo. Proprio nel mese di settembre 2009, inoltre, il percorso espositivo della Pinacoteca si è ampliato, comprendendo ora tre ambienti davvero suggestivi e di una bellezza incantevole, sinora preclusi al pubblico: l’ex Sala Luini, ora Aula Leonardi, la Sala Federiciana, nucleo originario della biblioteca, ed il Peristilio. In questi tre ambienti, si propongono al visitatore opere di Leonardo da Vinci, come Il Musico, unico dipinto su tavola del grande maestro rimasto a Milano, ma soprat-tutto i fogli del Codice Atlantico, esposti per la prima volta nella storia in un ciclo sessennale di mostre tematiche. Perdersi tanti tesori di bellezza proprio nel cuore di Milano sarebbe un vero peccato!

A destra: la Sala Federiciana, nucleo originario della Biblioteca Ambrosiana; sotto: la sala 2; la Sala della Medusa a destra, in basso: la Sala 17

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Nell’autunno del 2009 il Museo Poldi Pezzoli presenterà in una mostra, dedicata alla produzione dei tessuti auro-serici nel ducato milanese all’epoca dei Visconti e degli Sforza, i risultati della prima fase di un progetto di ricerca relativo alla “Produzione Serica in Lombardia dal XV al XX secolo” (Progetto PSL) dell’Istituto per la Storia dell’Arte Lombarda (ISAL), che vede coinvolte insieme al Museo Poldi Pezzoli altre importanti istituzioni italiane ed europee. L’“arte della seta” a Milano è nata grazie a una precisa volontà del Duca Filippo Maria Visconti che nel 1442 invitò a corte due setajoli, un fiorentino e un genovese che, in cambio di uno stipendio, di privilegi ed esenzioni fiscali, portarono in città le maestranze, i macchinari e le materie prime necessarie per dare avvio alla “industria della seta”. Il caso milanese è unico nella storia della tessitura serica per la rapidità con cui, nel giro di un quarto di secolo, tutta la “struttura del lusso” si sviluppò fino a raggiungere i vertici della più alta qualità. Nel periodo sforzesco a Milano si realizzavano le sete più complesse e ricche mai prodotte - i velluti a disegno, i damaschi e i lampassi broccati con oro e argento - che venivano vendute in tutta Europa grazie a un’ampia rete commerciale. Finora erano stati attributi con certezza a manifattura milanese solo pochi esemplari, ma grazie alle analisi interdisciplinari - ricerche d’archivio ed esami scientifici - per la prima volta sono state identificate le caratteristiche tecniche di questi manufatti ed è stato possibile individuare altri tessuti e ricami milanesi ancora esistenti.

L’esposizione farà rivivere lo sfarzo della più ricca e potente corte della penisola italiana nella seconda metà del Quattrocento presentando circa cinquanta oggetti tra tessuti auro-serici, ricami in seta, oro e perle, abiti e paramenti liturgici,gioielli, dipinti e opere d’arte applicata che accompagneranno il pubblico alla scoperta anche del contesto politico, sociale e culturale della corte ducale milanese. Il percorso sarà articolato in tre sezioni: nella prima saranno esposti i tessuti araldici con disegno e colori personalizzati con stemmi, motti e imprese dei committenti appartenenti all’élite di potere.

Dal Museo Baroffio di Varese giungerà il paliotto con gli stemmi quartati Sforza-Este, esemplare raro di velluto a tre colori, broccato con fili d’oro, tessuto nel 1491 per commemorare il matrimonio di Ludovico il Moro e Beatrice d’Este e accanto a esso il Ritratto di Ludovico, appartenente a una collezione privata, che non viene esposto dal 1939. Nella seconda sezione il confronto tra velluti, lampassi e damaschi permetterà di chiarire che la perizia e la raffinatezza dei tintori e la duttilità delle sostanze coloranti rendevano impossibile distinguere a vista il rosso cremisi dal rosso granato, termini che indicano quindi la qualità della sostanza tintoria e non la tonalità di colore.

SETA·ORO·CREMISI SEGRETI E TECNOLOGIA ALLA CORTE DEI VISCONTI E DEGLI SFORZA

DI ANNALISA ZANNI

Lo sfarzo e l’innovazione tecnologica dell’arte della seta al tempo dei Visconti e degli Sforza sono al centro della mostra autunnale del Museo Poldi Pezzoli.(29 ottobre 2009 -21 febbraio 2010)

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Il disegno “a nodi vinciani” sarà presente in varie versioni di uguale disegno, ma provenienti da manifatture diverse; l’opulento disegno del “tronco che si divincola come griccia”, con un andamento serpeggiante, comparirà nelle vesti dipinte nel Ritratto di Francesco Sforza e nel Ritratto di Bianca Maria Visconti Sforza della Pinacoteca di Brera e potrà essere confrontato

in vari manufatti tessili, quali il paliotto regalato da Ludovico il Moro alla Basilica di Busto Arsizio. Correderanno la sezione altri suggestivi dipinti, come il Ritratto di Giovanni Francesco Brivio di Vincenzo Foppa del Museo Poldi Pezzoli e il Ritratto di dama di Giovanni Antonio Boltraffio della Collezione Borromeo, nei quali la matericità e lapreziosità delle vesti sono rese con estrema perizia.

La terza sezione illustrerà l’evoluzione del ricamo in Lombardia: il Baldacchino del Vescovo Pallavicino dal Museo Diocesano di Lodi mostrerà ricami preziosi come gioielli, adorni di perle e smalti; nel Piviale in lampasso del Museo Bernareggi di Bergamo si ammirerà un ricamo in seta e oro, simile a una pittura. E ancora, vari esempi mostreranno una lavorazione peculiare delle botteghe milanesi: l’uso delle magette, anelli d’oro o argento che, come precursori delle paillettes, impreziosiscono il grande paliotto di velluto nero con il Christus patiens del Museo Poldi Pezzoli, commissionato da Ludovico il Moro in occasione della morte di Beatrice d’Este nel 1497, e restaurato per l’occasione grazie a Vitale Barberis Canonico.

La mostra sarà realizzata grazie all’importante contributo di Banca Regionale Europea, che dal 2000 sostiene l’attività istituzionale ed espositiva del Museo Poldi Pezzoli, e che si affianca a quello del lanificio biellese Vitale Barberis Canonico, di Fondazione Cariplo, di Regione Lombardia, di Camera di Commercio di Como e Confindustria Como, di Camera di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura di Milano; con l’Alto Patronato del Presidente della Repubblica.www.museopoldipezzoli.org

Paliotto con stemmi quartati Sforza-Este, Varese,Museo Baroffioe del Santuario del Sacro Monte sopra Varese

A sinistra: Pianeta, Chiavenna,Museo del Tesoro di San Lorenzo

sopra: GiovanniAntonio Boltraffio, Ritratto di dama,Isola Bella, Collezione Borromeo

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Nella Pavia internazionale delle eccellenze nei campi della didattica e della ricerca scientifica, un nome si segnala da anni a livello mondiale nella formazione e nella ricerca nel settore della riduzione del rischio sismico: la Fondazione Eucentre. Creata nel 2003 dal Dipartimento della Protezione Civile, dall’Istituto di Geofisica e Vulcanologia, dall’Università degli Studi di Pavia e dall’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) di Pavia, la Fondazione Eucentre si è imposta col tempo fra i due o tre più importanti centri al mondo per la prevenzione e lo studio dei terremoti, come recita l’acronimo che la contraddistingue: European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering.Il suo creatore, presidente nonché anima è Gian Michele Calvi, professore ordinario dell’Università degli Studi di Pavia e direttore del Centro di formazione post-laurea e ricerca (nota come ROSE School) dell’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia. Il curriculum è di prima grandezza. Calvi ha ottenuto un master all’Università della California a Berkeley e un dottorato di ricerca al Politecnico di Milano. Editore associato del Journal of Earthquake Engineering, la più prestigiosa rivista mondiale di ingegneria sismica, è autore di più di duecento pubblicazioni tra cui il libro “Seismic Design and Retrofit of Bridges”, dedicato alla sicurezza anti-sismica dei ponti, edito negli Stati Uniti e tradotto in cinese e in giapponese, e di un volume sulla progettazione delle strutture per la prevenzione contro i terremoti, “Displacement-Based Seismic Design of Structures”, pubblicato dallo IUSS. Il campo di ricerca di Calvi attiene alla progettazione e valutazione di ponti in cemento armato e di edifici in muratura e cemento armato, in relazione agli aspetti sia numerici sia sperimentali. È coordinatore di diversi progetti internazionali nell’area dell’ingegneria sismica. Ha collaborato alla progettazione o alla valutazione sismica di diverse centinaia di ponti e strutture. È stato tra l’altro membro del gruppo di controllo del ponte Rion-Antirion (lungo quasi tre chilometri), una delle più gigantesche opere pubbliche in Grecia che unisce il Peloponneso alla Grecia continentale nei pressi di Patrasso, e ha progettato l’intervento di riparazione e rinforzo del viadotto a 119 campate nella località di Bolu in Turchia. Calvi è anche componente del consiglio direttivo dell’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica sperimentale.

PAVIA, CAPITALE MONDIALE DELLO STUDIO DEI TERREMOTIL’EUCENTRE DI GIAN MICHELE CALVI

DI SISTO CAPRA

Lo scienziato pavese è tra le massime autorità internazionali nel campo dell’ingegneria sismica. Presso l’Eucentre sono operative strutture che consentono la simulazione di terremoti catastrofici e sono valutate le capacità di resistenza di edifici anche a più piani. Un know how apprezzato in tutto il mondo e utilizzato al massimo grado in occasione del terremoto dell’Aquila del 6 aprile.

Il giornale di Socrate al caffè

Laboratorio di

gionalismo locale

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Tra i suoi più recenti impegni figura quello di responsabile della progettazione antisismica delle nuove abitazioni che dall’inizio di settembre sono consegnate ai terremotati dell’Abruzzo. Calvi sovrintenderà alle opere di prevenzione contro i terremoti nel recupero del centro storico dell’Aquila e delle decine di paesi coinvolti nel catastrofico sisma del 6 aprile. Eucentre ha varato, per conto della Protezione Civile, il progetto CASE (che significa “Complessi antisismici sostenibili ed eco-compatibili”), con il quale coordinerà la progettazione e costruzione di alloggi sicuri e belli per dodicimila persone, che saranno tutti finiti entro la fine del 2009.Una delle più avveniristiche strutture del polo universitario pavese del Cravino, che accoglie le facoltà scientifiche nell’area di Pavia Ovest, è proprio la sede della Fondazione Eucentre, una sorta di cubo magico, inaugurato alla presenza tra gli altri del capo della Protezione Civile Guido Bertolaso. Qui vengono simulati terremoti catastrofici e vengono valutate sperimentalmente le reazioni anche di palazzi di molti piani. La struttura sviluppata all’interno di Eucentre per la realizzazione di queste prove si chiama TREES Lab. Sono quattro i sistemi di sperimentazione installati: una tavola vibrante unidirezionale, un sistema di riscontro a tre dimensioni, un sistema di prova biassiale dinamico e un laboratorio mobile. Le strutture di Eucentre sono state utilizzate al massimo grado in occasione del terremoto dell’Aquila del 6 aprile. Il “signore pavese dell’anti-terremoti” è continuamente in giro per il mondo per tenere corsi e lezioni. È diventato una presenza fissa in Paesi come la Cina, il Pakistan, la Turchia, l’Asia ex-sovietica, gli Stati Uniti. Recentemente è stato insignito con una laurea honoris causa a Buenos Aires. Una nuova grande sfida di Eucentre è la partecipazione al bando europeo del programma d’azione Erasmus-Mundus 2009-2013, ora aperto anche ai corsi di dottorato. Alla squadra storica con le Università di Pavia, Grenoble e Patrasso e con lo IUSS di Pavia si è aggiunta la Middle East Technical University di Ankara, una delle migliori al mondo nel settore dell’ingegneria sismica. Sul piano internazionale si segnala anche la partecipazione di Eucentre a Milano Expo 2015, cui è seguito già un progetto per la prevenzione dei terremoti nei Caraibi orientali. La fondazione di Calvi, inoltre, sarà presente con un simulatore di terremoti all’esposizione di Shanghai 2012. La ROSE School ha creato anche un premio internazionale, che è stato assegnato per la prima edizione a Nigel Priestley, luminare statunitense dell’ingegneria sismica e sismologia.

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La ROSE School è in piena salute, con un numero di domande continuamente in crescita. Per l’anno accademico 2009-2010 i candidati ai corsi di master sono 722 e quelli ai corsi di dottorato 45, provenienti da ogni parte del mondo. Con il successo della scuola, è migliorata l’offerta logistica. In un palazzo del Seicento nel centro storico di Pavia, in via Porta, concesso in comodato alla Fondazione Eucentre dalla Curia vescovile, dove un tempo era un collegio intitolato a uno dei vescovi dei primi del Novecento, è attivo il moder-nissimo Collegio CAR (Collegio internazionale per la protezione civile “Cardinale Agostino Riboldi”), che nel primo anno di attività, il 2008-2009 (inaugurato dal vescovo Giovanni Giudici), ha accolto più di cinquanta studenti da oltre venti Paesi differenti, una trentina di docenti e oltre cinquanta tra ricercatori e studiosi del settore.

La chiesa barocca dei Santi Giacomo e Filippo, trasformata in auditorium con circa 130 posti a sedere, ha già ospitato alcuni eventi che ne hanno esaltato le grandi potenzialità in termini di suggestioni spaziali e architettoniche, di acustica, di suoni e silenzi. Nelle antiche cantine è stata ricavata la mensa-ristorante.Ma il Collegio CAR non bastava più. E così Gian Michele Calvi ha firmato una convenzione con un’altra storica istituzione pavese, la Fondazione Nascimbene, proprietaria di un edificio ancora in via Porta, che faceva anticamente parte del monastero di Santa Mostiola e che diventerà la sezione “Luigi Nascimbene” del Collegio, con un’ulteriore capacità di ospitare almeno venticinque ospiti. Pare fatto apposta che ciò sia accaduto mentre Eucentre si è aggiudicato il progetto GEM - Global Earthquake Model - formulato nell’ambito delle attività del Global Science Forum dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo).

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Dall’alto, in senso orario: Barolo, veduta del borgo antico; il suggestivo interno dell’Enoteca Regionale del Barolo nel Castello Falletti; due scorci del Castello Falletti

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ANTICHI CASTELLI E NOBILIVIGNETI DELLE LANGHEDI PIETRO GIOVANNINI

Un invito a visitare le Langhe, nella stagione migliore, alla scoperta di affascinanti itinerari culturali e gastronomici.

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Antichi castelli e nobili vigneti, recita un sobrio cartello sulla strada veloce che da Alba corre a Barolo; un cartello che nella sua essenzialità dice tutto, come il dialetto. Siamo nel cuore delle Langhe dove le famiglie astigiane di banchieri e mercanti come i Falletti, gli Asinari o i Del Carretto ebbero molti dei loro feudi, e dove eressero torri e castelli per riaffermare il proprio potere e controllare l’odiata nemica Alba. Ed è in questo “triangolo rosso” tra Barolo, Grinzane e Verduno che all’inizio del XIX secolo iniziarono gli studi e le ricerche per valorizzare quei vigneti così particolari, con un vitigno unico che si vendemmiava a fine ottobre tra le nebbie autunnali. Per carità il Nebbiolo e il Barolo esistevano già, ma più come un fatto alimentare senza attenzione alla qualità e alle tecniche di produzione e la terra era in larga parte proprietà di nobili che la facevano coltivare a “mezzadria”, con più attenzione ai cereali e alla frutta che non alle vigne. Poi a Verduno (e Pollenzo-Cinzano) giunse Carlo Alberto, un erede della linea cadetta dei Savoia-Carignano un po’ ribelle e un po’ sognatore, con una formazione francese e nessuna attesa per un trono lontano e improbabile. Malgrado le previsioni, sarebbe invece diventato Re, nel 1831, regalando al Regno di Sardegna uno Statuto costituzionale modello e due sconfitte militari che misero fine alle rivoluzioni del 1848-49. Intanto però si era accostato per primo ad una agricoltura scientifica, come usava da un secolo in Francia, iniziando sperimentazioni sullo Spumante con i fratelli Cinzano nelle Cantine di Santa Vittoria (tuttora meravigliose e incredibili, un tempo perfino set cinematografico e oggi simbolo della miopia dei nostri industriali), avviando una tenuta modello a Pollenzo (dove oggi, nell’antica Agenzia Agraria, troviamo l’Università del Gusto) e infine dedicandosi al Barolo a Verduno, su suggerimento della Marchesa Falletti. Resta nel castello juvarriano, oggi imperdibile cantina-albergo-ristorante di incanti e suggestioni, lo specchio autografato dal Re e da mezza nobiltà sabauda in occasione di una festa di due secoli fa. Invece a Barolo, la vedova dell’ultimo Marchese Falletti, senza figli, si divideva tra le opere di Pia Assistenza e il richiamo del proprio sangue francese: Giulia Colbert (pronipote del grande ministro del Re Sole) non sentiva la tradizione della nobiltà sabauda tutta guerra e diplomazia, né l’attitudine

all’ozio di tanti nobili di Corte per cui, accanto alle opere di Mutua Assistenza, le sembrava naturale - a lei francese - occuparsi di quei vigneti così difficili e però così gratificanti. Chiamò enologi da oltralpe e iniziò una produzione consacrata dalla spettacolare processione di 325 carrà di Barolo per le vie di Torino in omaggio al Re, una per ogni giorno dell’anno, dedotti i quaranta della Quaresima che la pia Giulia osservava rigorosamente. Così Carlo Alberto scoprì il Barolo e acquistò il Castello di Verduno. Infine nella vicina Grinzane, dove i Conti di Cavour avevano vasti possedimenti, il giovane rampollo Camillo, ribelle, giocatore incallito ma intelli-gentissimo, diventava Sindaco a soli 22 anni esercitando nel piccolo microcosmo quell’abilità politica che poi applicherà al Regno. Cavour aveva viaggiato molto, in Francia e Inghilterra, frequentava i cugini a Ginevra ed aveva una visione moderna del mondo, aperta all’innovazione all’industria e alle moderne tecnologie. In particolare l’agricoltura doveva essere “aggiornata” agli standard più avanzati: ecco dunque il Canale Cavour per l’irrigazione delle risaie, l’ampliamento del Porto di Genova, le ferrovie, il tessile…ma tutto questo più avanti quando avrà la responsabilità di governo.

Cimeli e memorie del Conte di Cavour, Camillo Benso, Sindaco di Grinzane per 17 anni; in basso: una suggestiva sala dell’Enoteca che ospita tutti i vini del Piemonte

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In alto: i Castelli di Langhe e Roero, si riconoscono Grinzane Cavour a sinistra e Roddi a destra. In fondo il Castello dei Roero di Monticello

Sopra: uno scorcio dell’imponente Castello del Conte, che da oltre 40 anni ospita l’Enoteca Regionale Piemontese;a fianco: il fantasmagorico torchio del Museo del Castello di Grinzane Cavour

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Per il momento però (siamo nel 1832) si limita a chiamare un enologo francese, Oudart, per avviare sperimentazioni sull’invecchiamento e l’affinamento di quel vino così speciale. Molti attribuiscono proprio a Cavour l’invenzione del Barolo moderno. Questa breve escursione tra storia e vino ci fa ben capire il fascino speciale che questi e altri castelli delle Langhe rivestono nel sistema turistico piemontese. Non si tratta solo di affascinanti manieri con le loro leggende e i loro segreti ma del cuore stesso del nostro piccolo “Risorgimento”, che non a caso passa per il vino, esempio di riscatto e di orgoglio nazionale (in questo caso piemontese).

Dall’alto: Govone, veduta dell’ingresso imponente del Real Castello;il Real Castello di Carlo Felice; la fontana con la facciata orientale; particolare di un trompe l’oeil dell’ingresso

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Da qualche tempo esiste un’associazione, CastelliDOC, che fin dal nome sintetizza appunto questa duplice caratteristica dei castelli delle Langhe. Al momento ne raggruppa otto, ma non si esclude una futura espansione (le Langhe e il Roero sono pieni di castelli!); sono Grinzane, Barolo, Roddi, Serralunga, Benevello, Mango, Magliano Alfieri e Govone. Giova ricordare che sia Barolo che Grinzane e Mango sono sedi di prestigiose Enoteche Regionali mentre numerosi musei sono attivi nelle varie strutture. In particolare tre investimenti importanti vanno subito citati: a Barolo è in corso di ristrutturazione il Castello (l’Enoteca del Barolo nelle cantine è invece aperta) con la creazione di un grandioso Museo del Vino multimediale a cura della Regione Piemonte; a Grinzane gli uffici dell’Enoteca Piemontese, dell’ONAF e dell’Ordine dei Cavalieri del Tartufo troveranno posto sotto il cortile del Castello con finestre sui meravigliosi vigneti, insiema ad un suggestivo centro congressi, mentre il Castello ospita già un famoso ristorante, lo stupendo Salone delle Maschere (con soffitto a cassettoni del ‘400) e il Museo dedicato al Conte di Cavour; infine Govone, residenza reale di Carlo Felice e Patrimonio dell’UNESCO nel circuito Residenze Sabaude (con Pollenzo e Racconigi in provincia di Cuneo) ha conosciuto un completo make-up delle facciate (imperdibile lo scalone d’onore) e del parco, impreziosito dai “grotteschi” di Venaria Reale.

Dall’alto: Benevello, il paese; Benevello, la piazza con la Parrocchiale e il Castello; i giardini retrostanti il Castello

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Nell’Orangerie, oggi in recupero, troverà posto un ristorante stellato seguendo un progetto che la Regione porta avanti in tutte le Residenze Reali (come a Pollenzo, Rivoli e Venaria). Curiosità salace: il giovane Jean Jacques Rousseau appena diciottenne, in grand tour in Italia fece qui da precettore ai figli dei Conti Solaro, regalando all’archivio del castello tutta una serie di disegni e illustrazioni. Con la cessione a Casa Savoia di Govone, l’archivio venne poi traslato nel contiguo Castello di San Martino Alfieri, dove per inciso venne scritto lo Statuto Albertino da Cesare Alfieri, ministro di Carlo Alberto e nel cui territorio, in frazione Saracchi, abitò Giuseppe Garibaldi con la terza moglie, l’astigiana Francesca Armosino, prima di trasferirsi a Caprera.

Guardando i restanti Castelli, il meno conosciuto è forse Benevello, un tempo utilizzato come collegio fondato dal Beato Francesco Fàa di Bruno, conserva poco della originaria struttura difensiva e si configura più come Palazzotto signorile in centro paese in attesa di destinazione. Benevello però situato in posizione strategica sullo sparti- acque della Valle Belbo a oltre 600 metri di altezza è luogo fresco e ameno ideale per soggiorni estivi, lontani dall’afa opprimente delle valli. Da Benevello possiamo correre sul confine tra Alta e Bassa Langa fino a Mango dove il Castello dei Busca è un gioiellino più rinascimentale che non medioevale con cortile e giardino, e un elegantissimo porticato interno. A breve dovrebbero trovare posto all’ultimo piano delle camere per i turisti mentre un ristorante occupa il piano nobile e l’Enoteca del Moscato il piano terra. Vale la pena ricordare una curiosità: Mango ospita proprio nei giardini del Castello l’unico monumento al cane, come migliore amico dell’uomo, in Italia…complice certamente il tartufo e l’indispensabile taboi, il bastardino instancabile e indispensabile per la cerca notturna del diamante grigio di queste colline. Da Magliano Alfieri, imponente castello barocco in mattoni che appartenne alla famiglia degli Alfieri di Asti, il cui l’illustre trageda Vittorio abitò, si domina l’intera valle del Tanaro da Alba ad Asti, oggi fortemente industrializzata e un tempo invece coperta di campi e orti grazie all’abbondanza di acqua. Il Castello ospita il Museo di Arti e Tradizioni Popolari, con l’interessantissima sezione dei Soffitti in Gesso ovvero una ricostru-zione esaustiva di una tipologia architettonica del Roero e del Monferrato per gli interni contadini (un altro lo trovate a Moncucco Torinese, vicino a Castelnuovo Don Bosco): al posto del soffitto a cassettone venivano usati dei bassorilievi di gesso (numerose le cave in zona) con scene agresti, sostenuti da lunghi travi sottili.

Dall’alto: Il borgo alto di Magliano Alfieri, dominato dal Castello affacciato sul Tanaro;il Castello di Vittorio Alfieri, facciata Nord-Ovest;la Torre di destra;gli stucchi del Salone degli Stemmi

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Dall’alto: Mango, panoramica del borgo dominato dal Castello;una veduta dell’elegante facciata in pietra di Langa del Castello di Mango;il monumento al cane, nel cortile del Castello dei Busca;l’Enoteca Regionale “Colline del Moscato”

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Esistono alcuni artigiani che ancora oggi riprodu-cono i pannelli come si può ammirare al vicino Castello di Cisterna d’Asti, dove ha sede il Museo di Arti e Mestieri di un Tempo, e nell’ottimo ristorante Garibaldi che ha appunto un salone ricostruito esattamente secondo le tecniche originali. Infine torniamo nella zona del Barolo per ammirare due castelli che hanno mantenuto un aspetto difensivo: Roddi e Serralunga. Roddi, poco dopo Alba ha un aspetto slanciato, quasi sentinella a guardia delle preziose colline del Barolo; domina il concentrico molto caratteristico con una mole imponente pur senza essere grandioso. In attesa di restauri, ospiterà a breve il Museo del Tartufo. Serralunga invece resta da sempre quello per cui è stato costruito: una fortezza imprendibile che doveva assicurare la sicurezza dei feudi dei Falletti. Nel corso dei secoli i Castelli di Castiglione e di Barolo vennero riattati a residenze eleganti mentre Serralunga mantenne l’aspetto originario, altissimo e triangolare con tre torri diverse, tanto da essere considerato uno dei migliori e meglio conservati modelli di fortezza medioevale del Nord Italia.

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A sinistra, dall’alto: Roddi, scorci del Castello; il Castello con la scarpa e il mastio di difesa

Dall’alto: Serralunga d’Alba, Castello dei Falletti, oggi monumento nazionale

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Monumento Nazionale per volontà del Presidente Einaudi (che era di Dogliani) il Castello conserva un fascino senza tempo, con le sue stanze spoglie dove i soldati contavano i giorni sui muri, la piccola cappella per pregare, il cammino di ronda sui barbacani, i pozzi segreti e i mille trucchi per resistere a ogni assalto. Tutti i manieri del circuito Castelli DOC sono ovviamente visitabili (info: www.castellilangheroero.it) come pure gli altri citati in questo articolo (tranne San Martino Alfieri). Inoltre tutti aderiscono al circuito Castelli Aperti delle province di Cuneo, Asti e Alessandria (info: www.castelliaperti.it) e sono sede di numerose iniziative estive come la rassegna “Castelli in Scena” e il festival “D’Incanto”. Infine l’ultimo progetto regionale prevede l’allestimento di strutture ludiche per bambini e di guide per scolaresche in molti manieri lan-garoli per favorire un turismo che giustamente tenga conto anche delle famiglie. E poi chi da bambino non ha sognato di esplorare un intero tenebroso castello medioevale?

Serralunga d’Alba, tre scorci del Castello dei Falletti

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PAVESE E LE LANGHE TRA MITO E STORIA

repéchage

Paesi tuoi Il popolano arricchito

incunabolo

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EATALY, UN’ECCELLENZA ITALIANALE TRADIZIONI DI LANGA, UNA VISIONE DI MARKETING MONDIALE DI PAOLA GULA

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Spiegare Eataly a chi non ci fosse mai stato non è un compito facile perché si tratta dell’unione di due realtà che, fino alla sua nascita, sul mercato italiano, sembravano assolutamente inconciliabili: il negozio alimentare di grandi dimensioni e l’alta qualità. Adesso è facile pensare che il successo dell’operazione fosse garantito, ma all’inaugurazione il suo ideatore, Oscar Farinetti, spiava con un po’ d’ansia le reazioni del pubblico. Capiranno? Non capiranno? Hanno capito. A distanza di quasi tre anni hanno perfettamente capito che è possibile trovare i migliori prodotti alimentari d’Italia e del mondo tutti insieme senza pagarli una follia, che gli stessi prodotti sono serviti in piccoli ristoranti a tema: il pesce, la carne, il pane e la pizza, la birra che forniscono l’opportunità di un pasto veloce, ma di alta qualità. Piatti unici freschissimi cucinati in modo da esaltare le materie prime che a Eataly si possono anche acquistare oppure gustare nel ristorante stellato di Guidoxeataly condotto da un grande nome della cucina piemontese: Piero Alciati. Adesso si sa quanto questa idea sia stata grandiosa e, a ben guardare, in giro per l’Europa si possono intravedere alcune fonti d’ispirazione come il reparto food di Harrods a Londra dove la formula è molto simile anche se il cibo è interpretato come un lusso, mentre l’offerta di Eataly vuole essere più “Easy and Friedly”. Ci sono dunque delle similitudini, ma la diversità da tutti i grandi store del nord Europa è soprattutto una: qui il cibo, oltre a essere venduto e servito, è anche spiegato. La didattica ha un ruolo fondamentale ed è espressa sia in modo diretto con laboratori e degustazioni, sia in modo indiretto, ad esempio con la biblioteca accessibile a tutti o la grande

ruota delle stagioni che accoglie i visitatori all’entrata e spiega in modo chiaro le produzioni nei diversi mesi dell’anno. “D’altra parte - spiega Farinetti - in un progetto del genere non poteva mancare dato che è dimostrato quanto scarsa sia oramai la percentuale degli italiani che conosce il ciclo stagionale della frutta e della verdura”.

Oscar Farinetti è riuscito a conciliare il negozio alimentare di grandi dimensioni e la qualità. Con una differenza in più, rispetto ad altre esperienze europee: presso Eataly il cibo, oltre ad essere venduto e servito, è anche spiegato, ed i prodotti del territorio sono al centro dellaofferta. Sono già operativi due punti Eataly a Tokio, presto le aperture a Roma e New York. “Il primo docente di marketing della storia” - a giudizio di Farinetti - “è la gallina con il suo “coccodè”. Perché, se la gallina e la tacchina fanno l’uovo, noi mangiamo solo uova di gallina? Perché la gallina fa coccodè e coccodè significa comunicare. Dire: io ho fatto l’uovo ed è buono: mangiatelo”. Eataly fa coccodè tutti i giorni.

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Come ha potuto l’uomo ritenuto, fino a qualcheanno fa, il guru della vendita degli elettrodomestici cambiare improvvisamente rotta, diventando l’inventore di un nuovo modo, tutto italiano, di commercializzare il cibo di qualità? Intanto si tratta in un ritorno alle origini perché suo padre era proprietario di un supermercato alimentare al Baraccone di Alba, l’Unieuro, da cui Farinetti prese le mosse nella vendita degli elettrodomestici e da cui fondò la catena che ne porta ancora oggi il nome. Fu questa conoscenza, mista a una attitudine commerciale senza paragoni, che gli ha lasciato intravedere la strada da intraprendere dopo aver venduto il colosso Unieuro all’inglese Dixons. “La parte più importante di un progetto è l’analisi - racconta Farinetti - ed è in questa fase che prima o poi si trova una breccia e dopo tre o quattro anni in cui ho osservato con attenzione il mercato del cibo in Italia, paragonandolo con quello del nord Europa, mi sono reso conto che la breccia era enorme”. Il prodotto più importante per l’umanità è il cibo e, per assurdo, è anche quello su cui ci informiamo di meno. Nella nostra società il 60% delle persone sa che l’abs è qualcosa che ha a che fare con i freni dell’automobile, ma meno del 35% conosce la differenza tra Grana Padano e Parmigiano Reggiano. In questo mo-mento esistono 121 modelli di telefoni cellulari alto vendenti e 230 varietà di mele eppure le caratteristiche dei telefonini vengono descritte in libretti dettagliatissimi, mentre per la frutta ci accontentiamo dell’indicazione della nazione di provenienza. I consumi degli italiani sono solo per il 25% dedicati al cibo e sull’argomento c’è molta ignoranza dovuta sia alla scarsa informazione offerta, sia al fatto che negli ultimi decenni sono radicalmente cambiate le nostre abitudini alimentari. Il tempo è diminuito e, di conseguenza, il modo di fare la spesa suddiviso tra grande distribuzione dove si trovano soprattutto prodotti industriali e piccoli negozi di “nicchia” dove le specialità alimentari di alta qualità sono proposte a prezzi decisamente elevati. Tutte incongruenze che hanno fatto capire a Farinetti che la breccia che stava cercando c’era e era di dimensioni ragguardevoli e la risposta è stata Eataly che ha aperto a Torino in un luogo emblematico, al Lingotto, riattando la sede dismessa e quasi in rovina della Carpano, storica azienda liquoriera piemontese, mettendo insieme tradizione e modernità. Oggi il 50% dei prodotti venduti sono piemontesi perché sono, prima di tutti, quelli da conoscere e promuovere nella loro terra e quando, nei prossimi mesi, aprirà Eataly a Roma saranno i prodotti laziali ad essere al centro dell’attenzione. Diverso il discorso per Tokyo, dove sono già aperti due punti vendita e New York, dove si inaugurerà a breve.

Lì ci sono tutte le regioni per raccontare cosa è veramente la nostra tradizione enogastronomica. Si punta sull’educazione insegnando il valore della cucina e dei prodotti italiani. ”Bisogna essere fondamentalisti per far conoscere la nostra tradizione regionale. Sono tantissime le mistificazioni dei prodotti italiani che circolanoall’estero ed è per correggere queste pessime abitudini che dobbiamo puntare su una corretta informazione insegnando al mondo come si fa la pasta, come si condisce, come si usa il lievito e l’olio extravergine”. Una ricetta semplice, ma di grande respiro nel rispetto dello stile di Farinetti in cui convivono le tradizioni di Langa e il mar-keting mondiale, come un uomo con i piedi ben piantati nella terra da cui proviene e la mente aperta ai cambiamenti del mondo, dove il primo docente di marketing della storia è la gallina con il suo “coccodè”: “Perché, se la gallina e la tacchina fanno l’uovo, noi mangiamo solo uova di gallina? Perché la gallina fa coccodè e coccodè significa comunicare. Dire: io ho fatto l’uovo ed è buono, mangiatelo!”.

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Che Eataly sia ormai divenuto un punto importante di riferimento non solo per l’industria alimentare, della ristorazione e commerciale in Italia ma anche per merceologie molto dissimili è un dato di fatto. Si parla di Eataly nelle università, nei convegni sulla pianificazione urbana, nei congressi e workshop di marketing. Io stesso l’ho fatto più volte in tutti questi contesti. Non è soltanto per un atto di stima nei confronti del suo geniale imprenditore Oscar Farinetti. Ma perché Eataly ha portato davvero una ventata di nuovo in tutti questi mondi. Non vi sono molti precedenti che uno spazio, per di più ubicato in brano non centralissimo di Torino, in un manufatto di archeologia industriale divenga per tutto il Paese un momento di dibattito e un obbligato benchmark non solo per la distribuzione alimentare o per la ristorazione ma per l’intera industria alimentare. Direi di più: per molti altri comparti merceologici. Definire Eataly è complesso e riduttivo: in sociologia la differenza tra spazio o territorio - che ha un significato soprattutto fisico geografico - e luogo - dove invece esiste e si manifesta una vita sociale e di relazione - è ben chiara e sempre più si usa la locuzione di Aries di “non luoghi” per indicare siti dove pure la gente si incontra, dove la frequentazione è anche elevata ma in cui è protagonista solo una “folla solitaria”(Riesman). Ebbene Eataly è un luogo dove si passeggia, si parla con gli amici, si trovano vecchi amici o si fanno nuove conoscenze, si comperano i cibi migliori che un’agricoltura non predatoria nei confronti dell’ambiente rende disponibili, marche di eccellenza con una maggiore insistenza per quelle del territorio e che non sono necessaria-

DAL LINGOTTO IL NEW DEAL DEL MARKETING DI GIAMPAOLO FABRIS

Eataly ha portato una ventata di innovazione nei mondi dell’industria alimentare, della ristorazione e della distribuzione. Propone i cibi migliori resi disponibili da un’agricoltura non predatoria nei confronti dell’ambiente e marche di eccellenza legate al territorio. È un luogo dove si impara, si viene a conoscenza dei nostri giacimenti gastronomici, si fa cultura alimentare, sempre all’insegna di una marcata socialità. E il libro Coccodèdi Oscar Farinetti è una summa preziosa del societing, il nuovo marketing dove il consumatore non è visto come soggetto da colpire, da catturare, ma come coproduttore e interlocutore con cui intessere un dialogo reale.

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Entrando da Eataly colpisce la scritta di Berry “mangiare è un atto agricolo” forse un po’ criptico all’inizio ma che trova una tangibile testimonianza, forse la più convincente delle dimostrazioni nelle storie che prodotti, layout, displastica, eventi raccontano. Dove allora il collegamento con il mondo rurale, con l’agricoltura assume un inedito protagonismo. I fenomeni di urbanizzazione/esodo dalle campagne; la brandizzazione di quasi tutto ciò che mangiamo - compreso il fresco, l’ortofrutta - hanno generato un diffuso cono d’ombra sul legame organico, strutturale tra agricoltura ed

mente le più note, si può pranzare scegliendo in tante diverse tipologie di ristoranti mangiando ciò che viene esposto all’insegna, sempre, di una marcata socialità. Ma soprattutto Eataly è un luogo dove si impara, dove si viene a conoscenza dei nostri giacimenti gastronomici, dove si fa cultura alimentare. È un succedersi di eventi, lezioni, conferenze, laboratori, dibattiti, assaggi che non hanno niente da spartire con una impostazione curiale o asettica di iniziative simili ma sempre all’insegna del ludico, l’entertainment, l’ironia, la provocazione intelligente.

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alimentazione. La marca ha finito per convogliare su di sé l’attenzione e l’interesse dei consumatori e si è resa, da sola, garante della qualità. La campagna, l’agricoltura hanno progressivamente perso di visibilità divenendo una sorta di anonimo silos da cui l’industria attinge a piene mani e con grande discrezionalità. Qualificando, e rendendo così attrattivo, il cibo che giunge sulle nostre tavole. Un processo quindi di crescente opacizzazione dell’origine del cibo che si è sviluppato in parallelo ad una perdita di attualità e di appeal del mondo rurale. Divenuto ormai, nell’immaginario collettivo, una sorta di reperto di cultura preindustriale destinato ad essere sommerso dai processi di modernizzazione. Fra i tanti meriti di Eataly vi è anche questo: di essere il più trasparente commercial possibile per la nostra agricoltura, di rivalutazione del mondo rurale.

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Un’ ultima considerazione. Quando mi si chiede, succede sovente, una esemplificazione pratica della transizione dal marketing al societing - una profonda rivisitazione di questa disciplina alla luce dei nuovi scenari, delle nuove consa-pevolezze del consumatore - sarei tentato di indicare Coccodè: il libro scritto da Oscar Farinetti sulla sua pubblicità - come una summa preziosa, una fedele interpretazione dell’auspicato new deal del marketing. Un libro quindi sulla pubblicità ma anche, l’autore ne sia o meno consapevole, il più illuminante esercizio di nuovo marketing, di societing. Dove il consumatore non è visto come soggetto da colpire, da catturare ma come coproduttore, interlocutore con cui intessere realmente un dialogo, con cui stabilire quella relazione tanto teorizzata dal marketing ma in realtà così poco praticata. Svolgendo in maniera ironica, divertente, garbatamente trasgressiva una funzione pedagogica, didattica senza mai la tentazione del paternalismo, in una delle aree cruciali per il nostro benessere come il mangiare. Una pubblicità che si rinnova ogni giorno e sempre basata su reason why, su evidenze immediatamente riscontrabili all’interno di Eataly. La pubblicità che diviene cassa di risonanza dell’ininterrotto fuoco di artificio di eventi e di innovazioni che si succedono ad Eataly praticamente ogni giorno. Mai spettacolo fine a se stesso ma sempre coerenti ed esemplificativi della filosofia e della vocazione dell’azienda.

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La foto della signora delle pulizie accanto a quella dell’architetto, quella del giardiniere vicino a quella dell’elettricista, quella dell’impresario edile a fianco di quella dell’albergatore. Cosa unisce tutte queste - ma ce ne sono anche molte altre! - immagini di figure professionali in apparenza così diverse tra loro, immortalate ciascuna nel proprio ambiente di lavoro ed esposte al Filatoio di Caraglio la scorsa primavera nella mostra “La Grande Fabbrica della Cultura. Lavoratori colti sul fatto”? Sono tutte persone che durante il loro impegno quotidiano, dedicato alla cultura, rimangono “dietro le quinte” e che l’obiettivo di Bruno Garavoglia ha riportato, per una volta, in un solo scatto, al centro dellaattenzione. Un’intuizione semplice quanto originale - la cui paternità è riconducibile al “pensatoio” giovane e fertile dell’associazione culturale Marcovaldo - che ben esemplifica la diffusa equazione statistica per cui ogni euro speso in cultura, ne frutta (almeno) altri sei. Si tratta del cosiddetto indotto, vale a dire la ricaduta dell’investimento culturale che attraversa la società come motore di sviluppo: un’economia reale basata sul lavoro concreto.Ma per ogni idea ci vuole un movente che la faccia scaturire, un’occasione per poterla concretizzare e - per renderla fruibile a tutti - una persona e un luogo capaci di darle pieno compimento.Nel nostro caso lo spunto - assai poco gradito - è arrivato dai tagli ai finanziamenti sulla cultura a cui sono stati costretti nel 2009 soprattutto gli enti e le amministrazioni pubbliche locali, nel tentativo di arginare la crisi economico-finanziaria globale in atto. L’occasione, invece, è stata l’iniziativa “Innamorati della cultura”, che ha visto gli operatori culturali di tutto il Piemonte scendere in piazza nel giorno di San Valentino per difendere il loro “fare cultura quotidiano” e contestare la scelta di “tagliare sulla cultura”, che, come si legge nel documento della manifestazione, “significa anche ‘tagliare’ posti di lavoro”.Bruno Garavoglia e il Filatoio di Caraglio, infine, sono stati il “chi” e il “dove” della mostra inaugurata dall’associazione culturale Marcovaldo, con la collaborazione della Banca Regionale Europea, il 28 febbraio 2009.

CULTURA: IL LAVORO DIETRO LE QUINTE

Dall’alto: operatrice delle pulizie,Silvia AndreisCaraglio

architetto,Alessandro MellanoCuneo

fotografo,Bruno Garavoglia

DI FABRIZIO PEPINO

Per una volta, al centro dell’attenzione artigiani, operai, professionisti, impiegati che lavorano per organizzare eventi culturali. Venti ritratti di Bruno Garavoglia, da sempre il fotografo di Rassegna, in una mostra inaugurata lo scorso 28 febbraio, presso il Filatoio Rosso di Caraglio, promossa dall’Associazione Culturale Marcovaldo, con la collaborazione della Banca Regionale Europea.

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Dall’alto: elettricistaFederico SturpinoTecno Line S.N.C., Centallo

albergatore,Sandra DoglianiSan Quintino Resort, Busca

restauratrice,Silvia DolceStudio Dulcinea, Fossano

a sinistra: grafico,Daniele MolinerisTipolitoEuropa, Cuneo

Dall’alto: giardiniere,Flavio MirettiMiretti Giardini, Busca

impresa edile,Domenico ToselliToselli Costruzioni S.N.C., Peveragno

assicuratori,Aurelio Cavallo e Claudio ParolaAssicurazioni Generali, Agenzia di Cuneo

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“L’intento - spiegano gli organizzatori – era quello di ribaltare, per una volta, la prospettiva abituale del settore: le opere d’arte sono state deposte dalle teche e dalle basi appositamente disegnate, gli attori e i personaggi di spettacolo sono scesi dal palcoscenico, per lasciare la scena alla nutrita schiera di artigiani, operai, professionisti e impiegati che rendono possibili le iniziative che il mondo della cultura propone. Guardando i venti ritratti umani e d’ambiente esposti, colpisce soprattutto il fatto che il numero di “addetti ai lavori” che solitamente si immagina abbiano realizzato una mostra o uno spettacolo è di gran lunga inferiore a quello reale, ritratto in una serie di figure che rappresentano le rispettive categorie, impossibile da elencare in modo esaustivo”. Bruno Garavoglia ha raccolto questa serie di scatti durante un viaggio tra i cantieri, i laboratori e gli uffici nel nostro territorio, “rubando” un po’ di tempo agli impegni professionali di ognuno. I personaggi sono stati rappresentati nel loro ambiente quotidiano, colti sul fatto nello svolgimento della propria attività, “disturbati” per un momento dall’occhio attento della macchina fotografica che ha voluto immortalarne l’aspetto più spontaneo. “È stata un’esperienza originale e piacevole - conferma lo stesso Garavoglia, fotografo torinese di lungo corso con una preziosa esperienza nel campo della fotografia industriale.- I soggetti da fotografare si sono mostrati sempre disponibili e sorpresi di essere, per una volta, sotto i riflettori. Al centro di ogni scatto ho sempre cercato di tenere la persona, contestualizzata nel suo ambiente di lavoro. Per questo non ci sono primi piani, ma sempre situazioni d’insieme. A ciascuno ho sempre chiesto di guardare dritto nell’obiettivo (una Nikon D700, ndr), di mettersi in posa e a loro agio, anche per non dare l’impressione che si trattasse di una foto rubata”. Piccola curiosità, tra i soggetti delle venti fotografie esposte al Filatoio c’è anche lo stesso Bruno Garavoglia, nelle vesti di fotografo al servizio delle iniziative culturali. Per potersi auto-ritrarre all’opera, Garavoglia ha eseguito lo scatto nella “sala degli specchi” del Museo del Cinema di Torino, nella “pancia” della Mole Antonelliana.

Dall’alto: tecnico informatico, Massimo PaneroBB Electronics S.N.C., Bernezzo

ristoratore, Bruno FeliceIl Portichetto, Caraglio

service audio e luci, Piercarlo Brignone Cuneo Music Service, Cuneo

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Dall’alto: tipografo, Alessio BottoTipolitoEuropa, Cuneo

guida museale, Jessica Boretto

costruttore/restauratore di arpe, Aldo Baudino Salvi Harps, Piasco

Dall’alto: allestitore, Ferdinando PellegrinoEdoardo Pellegrino S.N.C., Cuneo

trasportatore, Odino AchinoF.lli Milano e C., Cuneo

ferramenta, Paolo DegiovanniDegiovanni S.N.C., Caraglio

tour Operator, Mario de MartaBlu Piemonte, Cuneo

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Le amare considerazioni contenute nel Dulce bellum inexpertis, il proverbio commentato contenuto nella raccolta degli Adagia, sono tutt’oggi, cinque secoli dopo, di estrema, puntuale attualità. Dolce è la guerra a chi non l’ha provata: così recita il proverbio a cui Erasmo aderisce totalmente. L’autore scriveva del conflitto, allora in preparazione, contro i Turchi: ma la sua conclusione che non ci sia iniziativa “più empia e dannosa, più largamente rovinosa, più squallida e nell’insieme più indegna di un uomo” della guerra è ampiamente riconfermata dalla situazione attuale, dove non c’è spazio per la pace in nessun angolo del mondo. Si tratta, in sostanza, di un “omicidio collettivo”, reso ancora più spietato dall’impiego di macchine infernali (l’atomica, le armi nucleari) che sono una minaccia per la sopravvivenza dell’uomo. Sono tanti gli episodi atroci che ricordo della mia vita di cronista: ma è difficile dimenticare la decisione di Saddam Hussein di asfissiare con i gas la popolazione di una piccola città irachena accusata di aver “collaborato” con i ribelli indipendentisti kurdi.

La guerra, ricorda Erasmo nel suo saggio, è spesso alimentata dal fanatismo religioso. ”Noi cosiddetti cristiani, scriveva nel Cinquecento, trasformiamo ogni inezia in un pretesto di guerra”. Era vero quando la spada del Cristianesimo combatteva contro “i più spietati nemici della Chiesa”, contro i Filistei, i Nabucodonosor, Moabiti e Ammoniti “ai quali non bisogna dar tregua fino a sbaragliarli”. Ma il seme dell’odio (del male) non avrebbe potuto essere eliminato dal cuore dell’uomo neanche quando fosse condivisa la stessa fede: come è avvenuto recentemente nel sepolcro di Cristo, a Gerusalemme, dove ebbe luogo una furiosa colluttazione fra cristiani di sette diverse. Per Erasmo da Rotterdam, i grandi condottieri del passato erano dei mentecatti. Era “un matto da legare” Serse quando decise di invadere la

DOLCE È LA GUERRA A CHI NON L’HA PROVATALA PACE NEL PENSIERO DI ERASMO DA ROTTERDAM

Grecia con una sterminata massa di uomini: ma lo era altrettanto Alessandro Magno, che “aveva perso il lume della ragione” dopo che “una sfrenata febbre di gloria s’era impadronita di quel giovane cuore”. Ed è sorprendentemente cinica la valutazione di Seneca che definisce ambedue, “senza ambagi”, “briganti impazziti”.

Viene spontaneo chiedersi a questo punto su quale piedestallo collocare il “brigante” dei giorni nostri, Osama bin Laden, la cui impresa, conclusa l’11 settembre 2001 con l’assalto alle Torri Gemelle, potrebbe in qualche modo somigliare a quelle ricordate nel saggio di Erasmo, almeno per il fatto di essere state concepite e maturate nel segno della follia. Si va in guerra per vari motivi: c’è chi vi è spinto “da segreto odio, chi dall’ambizione, chi dalla ferocia”. Ma se ti attira il miraggio del guadagno, consiglia Erasmo da Rotterdam, “fa bene i tuoi conti. Non puoi dir di sì alla guerra, se ti accorgi di pagare un prezzo incalcolabile per un profitto molto minore e, per di più, insicuro”. Raggelante la conclusione del saggio, sillabata con parole che sembrano pescate nel pessimismo apocalittico dell’Ecclesiaste: “Se poi la guerra è assolutamente inevitabile - perché grande è il numero dei malvagi - allora dopo aver tentato tutte le vie, dopo aver bussato a tutte le porte per amore della pace, la soluzione migliore sarà disporre acché l’iniqua faccenda sia gestita per mano d’iniqui e sia portata a termine con il minimo spreco possibile di sangue umano”.

Per le Edizioni Umberto Allemandi & C è stato pubblicato un testo raro di Erasmo da Rotterdam, “Dolce è la guerra a chi non l’ha provata”. Il grande umanista del ‘500, fervente cristiano e amante della pace, nella imminenza di una crociata contro i turchi mette in guardia i suoicontemporanei dalla rassegnazione al concetto della ineluttabilità della guerra e sottolinea come “i più grandi mali si sono infiltrati nella vita degli uomini sotto la fallace apparenza del bene”. Il suo pensiero si ispira ai valori del mondo antico e al messaggio evangelico originario; nella guerra gli uomini perdono se stessi, perché perdono l’anima, e tutti gli estremismi vanno combattuti, in quanto irragionevoli.

Il volume propone il testo originale in latino con traduzione a fronte, e saggi introduttivi di più autori; Rassegna ne riprende i testi di Ettore Mo e di Annalisa Zanni. Il progetto editoriale è stato ideato e fortemente voluto da Felice Campanello, giornalista piemontese e uomo di cultura recente-mente scomparso,ed ha avuto il sostegno della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo.

LA GUERRA CONTINUADI ETTORE MO

Ma nemmeno malinconia. Una vita randagia

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Cinque secoli fa, il grande umanista amante della pace e fervente cristiano Erasmo da Rotterdam metteva più volte in guardia i suoi contemporanei dalla acquiescenza al concetto di ineluttabilità della guerra, spesso invocata in nome della affermazione della causa cristiana. Il grande filologo, che aveva curato una fondamentale edizione del Nuovo Testamento, pretendeva dai suoi fratelli di fede su questo argomento “uno sguardo insieme critico ed estetico”. Partendo dagli antichi maestri e dalle origini del mondo primordiale, Erasmo nel suo testo sottolinea come “i più grandi mali si sono infiltrati nella vita degli uomini sotto la fallace apparenza del bene”. Tra gli esempi indicati vi sono i concetti stessi di “eroe” e “capo”, apparentemente positivi, quando si tratti di riconoscimenti assegnati a chi difende i propri beni e le famiglie dall’assalto delle belve feroci.Per questo motivo se ne giustifica e insieme esalta questo comportamento, che viene assunto come modello nella narrazione delle vicende di alcuni dèi pagani. Grazie alle loro imprese all’insegna del confronto fisico e della sopraffazione di un contendente, essi riescono a eliminarlo spessocon esemplare crudeltà, giungendo alla fama e meritandosi l’alloro: così Marte ed Ercole, che per questo poté assurgere all’Olimpo, divenendo un dio.

È interessante l’analisi iniziale del grande umanista, che vede l’uomo dipendente dagli altri alla nascita e quindi non “attrezzato” alla guerra, anche perché è dotato, in modo esclusivo rispetto agli altri esseri viventi, di parola e ragione: così facendo “Dio ha posto l’uomo come immagine di se stesso: ne ha fatto una divinità terrestre, che deve sovrintendere a tutte le altre creature”. Questo ruolo dovrebbe distoglierlo da ogni ferocia e aggressività, in favore della pace che consente l’appagamento della passione per la conoscenza. Gli antichi hanno cercato la ragione della guerra - la risposta all’eterna domanda di quale dio abbia spinto l’uomo ad uccidere un suo simile - attraverso una serie di simboli. Essa sarebbe stata portata dagli Inferi tramite una delle Furie, Bellona (il cui nome deriverebbe da belua, cioè bestia feroce) costellata di serpenti, grondante sangue. A questa figura mitologica sarebbero da attribuire i grandi mali dell’umanità, che nello scorrere del tempo è passata dallo scontro individuale a quello collettivo, gui-

L’ICONOGRAFIA DELLA GUERRA DI ANNALISA ZANNI

Pagina precedente, dall’alto: Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, 1456 circa;

Francisco Goya, Il 2 maggio 1808, 1808

Dall’alto:Gustav Klimt, Pallade Atena, 1898;La vita è una lotta o il Cavaliere d’oro, 1904

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data dall’idea del coraggio, della contesa per la gloria, ma soprattutto spinta da motivi economici (il “sordido guadagno”). La guerra è “un omicidio collettivo” proclama fermamente Erasmo, che raggiunge l’abisso della crudeltà, l’ignominia più grave quando coinvolge l’azione del popolo cristiano. Rigoroso, incalzante accusatore della brama di potere, di ricchezza, che fu ed è caratteristica non solo dei pagani ma anche

(e forse ancor peggio) dei cristiani, l’umanista olandese analizza severamente gli argomenti escogitati per giustificare “questa manifesta pazzia”: tra di essi l’autodifesa rispetto all’aggressione, ma soprattutto la forza contro la forza, la guerra come giusta impresa se indetta da un principe sovrano, distorta interpretazione del Vangelo secondo i diritti del principio romano.

A questi argomenti Erasmo oppone le parole del Discorso della Montagna, la capacità di conciliazione, di trattativa tramite la ragione, accompagnate dalla consapevolezza dei costi in vite umane che il conflitto porta per entrambe le parti. I precetti contenuti nei Vangeli indicano non solo di non rispondere alla violenza con la violenza, ma anzi di fare del bene a chi fa del male; e la guerra non è mai considerata segno di giustizia divina punitiva. I cristiani, di fronte a tutto ciò, devono dar sempre prova di innocenza, carità, pazienza. Erasmo indica il percorso della ragione e dei principi che ha consegnato il Vangelo anche per far sì che papa Leone X, appartenente all’illustre casata dei Medici, cui egli dedicò l’edizione critica del Nuovo Testamento greco, abbia come obiettivo la pace nel mondo. Tutto questo mentre, di lì a poco, sarebbe avvenutala pubblicazione delle 95 tesi sulle Indulgenze da parte di Martin Lutero, con la sua conseguente scomunica; e la morte del papa nel dicembre del 1521. Un comportamento da buon cristiano dovrebbe piuttosto prevedere l’impiego di tutte le energie per far opera di proselitismo, per diffondere la dottrina cristiana: non come fanno gli ordini mendicanti di San Domenico e di San Francesco che, secondo Erasmo, a questo compito fondamentale si sottraggono.

Leonardo, Scaramuccia di cavalli e fanti, 1500 circa;

in basso:Raffaello (scuola), La Battaglia di Ponte Milvio, 1520-1524;

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Nella sua complessa analisi delle differenti situazioni che generano la guerra, seguendo il metodo dialettico, Erasmo propone di volta in volta interpretazioni/spiegazioni che passano dal piano della rigorosa razionalità a quello della passione, della moralità e della storia antica. Quando afferma che le guerre dei cristiani “na-scono o da insipienza o da malignità”, per odio segreto, per ambizione, per ferocia, egli analizza spesso anche i testi antichi, in particolare l’Iliade. L’analisi di Erasmo viene ripresa con grande attenzione anche nel recente testo di James Hillman Un terribile amore per la guerra, edito nel 2004 dallo psicologo di formazione junghiana, filosofo e scrittore americano, considerato esterno a tutte le scuole di pensiero e per questo motivo libero pensatore. Egli propone una tesi provocatoria che prende spunto, pur essendo una lettura “laica”, dalla prima parte del testo di Erasmo. Secondo questo autore la guerra è una pulsione primaria e ambivalente, come l’amore e la solidarietà: se non ne prendiamo coscienza, non potremo razionalmente opporci ad essa. Tesi quanto mai complessa per un verso e assolutoria della responsabilità individuale e collettiva, essa riprende temi cari alla mitologia pagana. Anch’egli ritiene che la guerra più simbolica sia quella narrata nell’Iliade, che vede l’inseparabilità di Ares e Afrodite, di guerra e amore, di morte e amore, che vengono ricomposti nel mito, sia pagano che cristiano (Caino e Abele). L’accettazione e l’elaborazione di questo concetto può condurre a una serie di scelte di compor-tamento, alcune delle quali indicate anche da Erasmo da Rotterdam, la cui grande modernità sta nell’aver cercato di analizzare razionalmente il comportamento dell’uomo, e soprattutto di avere indicato con grande rigore la strada che ogni cristiano deve percorrere di fronte a questo drammatico pericolo. Un’adesione la sua talmente compenetrata, che lo rende un implacabile accusatore di chi non applica i principi dettati da Cristo, che non sono sempre quelli seguiti dalla Chiesa Romana e dai suoi rappresentanti.

Non è quindi un caso che l’iconografia della guerra abbia spesso utilizzato immagini di dei ed eroi pagani, di forze primordiali incontrollabili, di figure mostruose che determinano e guidano i comportamenti umani. Nel Rinascimento le battaglie di Paolo Uccello e di Piero della Francesca negli affreschi della chiesa di San Francesco ad Arezzo, la battaglia del Ponte Milvio di Raffaello, alcuni disegni di Leonardo mostrano corpi di uomini e cavalli studiati con grande accuratezza anatomica, ripresi dalle figure eroiche della classicità rappresentate nelle sculture, nei basso-rilievi marmorei, nei bronzi. Nel secolo scorso la denuncia della crudeltà della guerra è avvenuta attraverso la rappresentazione spesso grottesca

dei signori della guerra ma anche degli straziati corpi abbandonati nei campi di battaglia di Otto Dix e dei maggiori rappresentanti dell’espressionismo tedesco, fino alle crude immagini dei reporter contemporanei che hanno vista in faccia la guerra, l’hanno documentata e ce l’hanno porta con immagini violente, che ci lasciano annichiliti e desolati. Ma perché, ci dobbiamo domandare, la guerra continua? Forse perché essa, più che l’incarnazione del male, è insita nella stessa natura dell’uomo? O perché chi la decide e la determina non la vuole mai guardare davvero in faccia?

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A sinistra, dall’alto:Käthe Kollwitz, Le madri, 1923;

Otto Dix,La guerra, 1950

Dall’alto:Henri Rousseau, Guerra, 1894;

Roy Lichtenstein,Whaam, 1963

Robert Capa,Il miliziano che cade,4 settembre 1936

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La Gazzetta del Popolo si è stampata quotidiana-mente e ininterrottamente per 133 anni, dal 16 giugno 1848 al 2 agosto 1981. Se vi aggiungiamo in epilogo, la riedizione sfortunata dal 1982 al 31 dicembre 1983, arriviamo a 135 anni di storia del giornale che come è noto cominciò nella Torino delle riforme carloalbertine e per iniziativa di un gruppo di “gentiluomini illuminati”: il nizzardo Giovanni Battista Bottero, ripetitore al collegio uni-versitario delle province di Torino; Felice Govean di Racconigi, la cui famiglia curava gli interessi e le proprietà del ramo Savoia-Carignano mentre lui, che aveva mancato il successo come commedio-grafo, si dedicava alle assicurazioni; ed una mezza dozzina di altri personaggi che si autotassarono raggiungendo la somma di sessantamila lire versa-ta come fondo anticipo spese (la carta e l’inchiostro arrivavano fa Parigi) al tipografo Vincenzo Arnaldi. Nel gruppo era anche il valsusino Norberto Rosa, procuratore del Re a Susa, aviglianese di origine, che collaborava al giornale Il Fischietto; e poi il battagliero Angelo Brofferio, commediografo asti-giano e acerrimo nemico di Cavour nel parlamento subalpino. In quell’ anno dei portenti, il 1848, si stampavano sedici periodici a Torino, tra cui: la Gazzetta Piemontese divenuta poi La Stampa, or-gano ufficiale del regno; Il Risorgimento di Balbo e Cavour; La Concordia diretta da Lorenzo Va-lerio e in mezzo a questi ultimi due, l’Opinione, uscita il 26 gennaio 1848, firmata dal monregalese Giacomo Durando che aveva coinvol-to nell’impresa l’avvocato Nicolò Vi-neis, futuro direttore del quotidiano cuneese La Sentinella delle Alpi. Più tardi si aggiunse l’Armonia, la voce dei cattolici, diretto dal teologo Mar-gotti, figura distaccata di pubblicista e polemista.

La prima sede della Gazzetta del Po-polo furono due stanze annesse alla tipografia Baricco e Arnaldi in via degli Stampatori nella Torino com-presa tra la contrada Monviso e la via Dora Grossa. Il tipografo non volle assumersi nessun rischio cosicché la proprietà e la gestione figurarono nelle mani di Bottero e Govean, una combinazione e una convivenza che si rivelò subito difficile: la Gazzetta era

LE VOCI DELLA GAZZETTA DEL POPOLO

Un libro ricorda i 160 anni dalla nascita del quotidiano, morto nel 1983,con i ricordi dei cronisti che vi hanno mosso i primi passi, sono diventati famosi e ne conservano una incancellabile nostalgia

un giornale decisamente monarchico, ma mentre Govean simpatizzava per una soluzione federale della unità italiana, così come proposta dall’abate Vincenzo Gioberti che aveva il merito di coinvol-gere nel suo progetto liberali e cattolici; Bottero parteggiava decisamente per la soluzione unitaria alla Cavour. Questo spiega le battaglie “neoguel-fe” del nuovo giornale che nel periodo iniziale era tenuto in mano da Govean, almeno fino alla ca-duta del governo Gioberti dopo la tragedia della repubblica romana. Quando Govean se ne andò il giornale fu firmato dal solo Bottero fino alla mor-te avvenuta nel 1897: era lui che si incaricava di stendere gli editoriali politici, ma anche vergare le notizie economiche e il “sacco nero” (le doglianze dei lettori per l’inefficienza dell’amministrazione sabauda) e persino le barzellette. Il giornale che era messo in vendita a cinque centesimi, ovvero un soldo, usciva in “un foglio di 27 centimetri per 36 piegato in due” (vale a dire quattro pagine) e raccolse fino a diecimila associati, con una vendita fino a quattordicimila copie in una città come Tori-no che l’architetto Juvarra aveva cercato di rende-re scenograficamente “capitale”, con il rettifilo dei suoi monumenti, ma che rivelata dietro le facciate di marmo settecentesco problemi gravi in quanto a salute pubblica e igiene,con la cloaca che correva a cielo aperto nella via Dora Grossa, (l’attuale via Garibaldi), dove i porci si muovevano nel fango, a due passi dal Palazzo di Città, ma soprattutto una

capitale. Torino, dove accan-to alle famiglie facoltose si muoveva una massa vessata dalle tasse per sostenere i dispendiosi progetti militari della Corte.Il formato scelto per la Gaz-zetta del Popolo era quello adatto alla macchina piano-cilindrica Marinoni da cui uscirono i primi numeri; quella stessa stampatrice che, ultracentenaria, era par-cheggiata nell’atrio sontuoso di corso Valdocco 2, terza e definitiva sede del giornale. Ora, restaurata e rimessa in funzione dall’Associazione Progresso Grafico di Torino con il finanziamento della

DI GIAN FRANCO BIANCO

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Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, si trova nel Museo Civico della Stampa in Mondovì, ospi-tato nel seicentesco ex convento dei Carmelitani Scalzi: è un vero tesoro per chi voglia conoscere storia, tecniche e curiosità della stampa tipografi-ca, prima dell’avvento della fotocomposizione e dei computer.

Nel ventunesimo secolo, la vecchia “Marinoni” ha ripreso a girare per stampare il primo numero della Gazzetta del Popolo sotto la losanga che includeva la parola: l’Italiano, come voleva Norberto Rosa e la data originale venerdì 16 giugno 1848 e l’aper-tura più volte citata: “Vicenza è caduta nelle mani del nemico”. Questo piccolo miracolo di ritorno al passato, è successo, il 24 e 25 maggio del 2008, celebrandosi i 160 anni dalla nascita del giornale, proprio a Mondovì città scelta per la lunga tradizio-ne nel campo dell’editoria. Già nel 1472, ovvero se-dici anni dopo l’invenzione dei caratteri mobili, un facoltoso signore, Baldassarre Cordero e il tipografo Antonio Di Mattia pubblicarono nel borgo piazza il primo libro stampato in Piemonte di cui si abbia-no notizie certe. In quei giorni del 2008 dedicati a Mondovì capitale della stampa, il proposito di Gior-gio Coraglia di ricordare anche la Gazzetta nel con-testo tipografico in cui era nata, si è ampliato, fino a tentare di percorrere i centotrentacinque anni di storia del quotidiano con una mostra di fotografie e documenti (La storia di carta) nella chiesa di santo Stefano a Breo; e con un convegno di studio sul ruolo della informazione locale dove faccia a faccia si sono visti editori e giornalisti impegnati a ideare un futuro pieno di progetti e speranze. In quella oc-casione la commemorazione della vecchia Gazzetta ha inevitabilmente convogliato a Mondovì, molti giornalisti “superstiti” del quotidiano dal dopo-guerra in poi, ognuno impegnato a riferire un fatto,

una circostanza od una curiosità per arricchire la storia del giornale. Un mix di nostalgia e anedottica che è sfociata un anno dopo nella pubblicazione Gazzetta del Popolo, 160 anni, le voci di dentro, vo-lume curato con diligente scrupolosità da Gianpa-olo Boetti e Mario Mercalli (cui si affiancava anche il compianto Cesare Roccati che del convegno sulla piccola editoria dei giornali era stato propugnatore e che è deceduto pochi mesi dopo, senza vedere l’uscita del volume edito dall’Associazione Cultura-le Progresso Grafico).

Il libro, duecentoquaranta pagine si dichiara subi-to dalla copertina che riporta come sottotitolo: le voci di dentro. Così dopo le necessarie pagine sto-riche introduttive che pescano abbondantemente dalla ricerca di Bartolo Gariglio, pubblicata nel 1987 dal Centro Studi Carlo Trabucco di Torino (Stampa e opinione pubblica nel Risorgimento. La Gazzetta del Popolo: 1848-1861) il libro pubblica le testimonianze di chi alla Gazzetta del Popolo ha lavorato. Solo Ito de Rolandis si riferisce all’ante-nato Giuseppe Maria De Rolandis per ricostruire la riunione quasi carbonara al caffe Diley di via Po nella fredda Torino del gennaio 1848, dove si ritrovò il gruppo che diede vita al giornale.Non sopravvivono molti ricordi, tranne quelli sto-ricamente tramandati, dell’epoca di via Stampatori che fu la prima sede. Di lì la Gazzetta traslocò nel 1853 in via Sant’Agostino e poi (1890) in piazza IV marzo a Torino dove ora campeggia il monu-mento a Bottero. È tuttora un edificio con ingresso nell’angolo squadrato che fino agli anni novanta del secolo scorso ha poi ospitato gli uffici della pretura di Torino. Nel 1930 comunque, il trasfe-rimento nella imponente sede di corso Valdocco dove la Gazzetta è prosperata, decaduta ed è morta domenica 2 agosto, nel 1981. Nell’ atrio di ingres-so, oltre alla citata macchina Marinoni ed il bureau del centralino, fu anche ospitata una statua bron-zea “la libera stampa” opera dello scultore Edoar-do Tabacchi regalata dal circolo San Salvario nel 1888 a Bottero con motivo dei quarant’anni di vita del giornale. Raffigurava il genio della libera stampa senza velo alcuno, che schiaccia il cappello di un prete. Nel libro vari giornalisti fanno riferi-mento all’andarivieni proprio di questa statua tra l’atrio d’onore, i corridoi semibui e i soffitti a se-condo degli umori che tiravano nella “proprietà”.

La Gazzetta era nata per essere “popolare” come dichiarava dal titolo; ovvero, destinata a gente che sapesse magari malamente leggere e scrivere ma fosse desiderosa di conquistare i suoi diritti di cit-tadino: “come ai tempi della rivoluzione francese - scrive Gianpaolo Boetti - il suo obiettivo (era) guidare la crescita popolare, dare e correggere idee, ed infine informare il nuovo cittadino”. Con

Il primo numero della Gazzetta del Popolo: venerdì 16 giugno1848

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queste basi la Gazzetta crebbe per tutto il nove-cento, numero dopo numero in consensi di let-tori e del rispetto dei politici e governanti. Tutto questo durò finchè durò Bottero. Dopo la morte del fondatore il giornale che già aveva appoggiato Crispi e la sua politica nazionalistica, cominciò a ripiegare, a perdere copie, a radicarsi sempre più nelle campagne piemontesi mentre in città comin-ciava ad essere superata dalla Stampa: anni in cui gli umori giolittiani si respiravano in giro e si as-sisteva all’affacciarsi delle nuove realtà politiche: i cattolici e i socialisti. La Gazzetta conservatricecombattè Giolitti e contro l’apertura ai cattolicisbandierava il vecchio stendardo anticlericale. Tutto inutile se si trattava di riconconquistare copie. Ma buono quando arrivò la battaglia interventista, in cui il direttore Delfino Orsi vedeva la prosecu-zione e il completamento del Risorgimento. Già nel 1918 la Gazzetta tornò a 180 mila copie vendute e nel dopoguerra divenne naturalmente il portavoce degli ex combattenti e reduci, dell’antigiolittismo, della piccola borghesia e dei nazionalisti (non è un caso che la Gazzetta ospiti in esclusiva la cronaca dell’impresa di Fiume, vergata dallo stesso Ga-briele D’Annunzio). Sono le premesse della svolta. Prima nella proprietà: che passa alla Società Editrice Torinese (Set) finendo così nell’orbita della Socie-tà Idroelettrica Piemontese, la SIP che gestisce la rete elettrica e i telefoni nel norditalia. In questo parastato ante litteram la Gazzetta sarà il foglio sostenitore del regime fascista come giorna-le generalista e vedrà nella direzione di Ermanno Amicucci una perfetta macchina di propaganda. Poca politica, ma servizi di grandi inviati, iniziative editoriali collegate; pagine sempre nuove (nasce il Diorama Letterario, vi collabora Pirandello) corrispondenti dall’estero, ammodernamento tec-nico di prim’ordine: le telefoto, le telescriventi; il grande ufficio stenografi organizzato dal capore-dattore Vincenzo Cima; fino alla rotativa capace di stampare duecentomila copie l’ora. È l’epoca della grande Gazzetta che raggiunse la tiratura straordinaria sfiorando il milione di copie nel 1936 con l’annuncio della nascita dell’Impero sui colli fatali di Roma.

Venne poi il crollo del fascismo che il direttore Amicucci aveva sostenuto in modo ideologicamen-te convinto (almeno finchè c’era stato Bottai) e poi in una simbiosi utilitaristica: riceveva appoggio e dava eco al regime. Venendo al dopoguerra, po-chi superstiti scrivono dell’epoca di direzione di Massimo Caputo; resta qualcuno della direzione di Francesco Malgeri (quando già si era assistito allo scorporo del giornale dal patrimonio Sip e il suo passaggio al senatore Teresio Guglielmone e alla DC); voci autorevoli scrivono dell’ epoca di direzio-ne di Arturo Chiodi, cattolico cresciuto alla scuola

di don Primo Mazzolari e Ugo Zatterin. Quasi tutti i testimoni del libro sono però stati assunti da Gior-gio Vecchiato, direttore per un decennio tra il 1964 e il 1974 e di Michele Torre (tra il 1975 e il 1981). Nomi come quelli di Bianucci, Claudio Donat Cat-tin, Ezio Mauro, Mondo, Tropea, Bramardo, Boetti, lo stesso Vecchiato, Piccinelli. Ancora negli anni sessanta la Gazzetta è sopra le centomila copie di diffusione ed è Malgeri a dare il via alle pagine locali che danno voce a sei province piemontesi, alla Val d’Aosta, a Pavia e alla Liguria di Ponente. A Cuneo e Novara, fino all’ultimo, la Gazzetta degli anni ottanta batteva in edicola La Stampa, ad Asti e in val d’Aosta la concorrenza era sul filo delle copie. Nel 1974, il giornale passato nell’orbi-ta Montedison di Cefis, fu chiuso dopo poche setti-mane, dall’editore Caprotti. Ma sopravvisse grazie al primo esperimento di autogestione in Italia che durò ben quattordici mesi e segnò la vita profes-sionale nonché l’esperienza umana di giornalisti e poligrafici. Si resistette finchè non arrivò un nuo-vo editore con la benedizione della sinistra DC di Donat Cattin e soprattutto con il direttore Michele Torre che era stato capo redattore centrale negli anni ruggenti di Giorgio Vecchiato ed era una vera macchina da guerra nel controllo della redazione.Nel 1981 una riduzione di formato e di pagine

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aveva sperperato lo spazio di diffusione che era ancora di 90 mila copie, ma Torre l’aveva accetta-to obtorto collo di fronte al passivo di quattro mi-liardi di lire, molto meno del passivo del Giorno e del Tempo per i quali Iri ed Eni pagavano senza batter ciglio. Erano anche i tempi in cui l’avvo-cato Agnelli sborsava miliardi per salvare il Cor-riere della Sera dalle vicende piduiste del Banco Ambrosiano. Ma a Torino c’era un ma. Lasciamo la parola a Mario Berardi che nei mesi convulsi del crollo della Gazzetta era giovane segretario dell’Associazione Stampa Subalpina, il sindacato dei giornalisti : “C’era l’ostilità della Fiat. - scrive Berardi - L’amministratore delegato Romiti non intendeva lasciare spazi ad un giornale che era stato dalla parte del sindacato nei 45 giorni della storica vertenza dell’autunno del 1980”. La Fiat non aveva però colpa del crollo editoriale della Gazzetta, ma la testa del giornale gli fu anche of-ferta sul piatto d’argento da una improvvida ini-ziativa dei poligrafici CGIL i primi a rivolgersi al Tribunale. “Gazzetta affondata dai giudici”, titolò l’ultimo numero, del 2 agosto 1981. Con un decimo dei poligrafici e un terzo dei giornalisti il giornale sarebbe sopravvissuto grazie alle moderne tecno-logie. Trenta giorni dopo poi, ironia della sorte, fu varata la legge sull’editoria che l’avrebbe salvata.

Di quella avventura ho avuto parte anch’io tra il 1973 e il 1981, prima come corrispondente da uno degli oltre mille comuni del Piemonte, quello di Fossano, e poi come cronista della redazione di Cuneo tra il 1975 e il 1981. Il numero telefonico era sei otto tre sette sette ed eravamo sistemati dove era stata l’agenzia della Cassa di Risparmio in piena piazza Galimberti. I nostri vicini erano la farmacista da un lato ed un negozio di pennel-li e vernici dall’altra. In mezzo le nostre vetrine. Sul marmo monu-mentale della facciata campeggiava la scritta in caratteri blu: Gazzet-ta del Popolo. Quando partivano

le ordinazioni, all’ora del caffè, Albino del caffè nazionale, attraversava la piazza, equilibrando il vassoio in mano. Solo il venerdì, tra le tazzine e il bicchierino di acqua e menta, si aggiungeva l’ cichet: segno che Beppe Isasca il corrispondente da Saluzzo era ancora una volta dei nostri e dopo aver chiuso in tipografia le pagine del Subalpino, il giornale dei liberali cuneesi, veniva in Gazzetta a sorseggiare il cognac e torturare la nostra se-gretaria tuttofare Silvana con interminabili arti-colasse sui processi celebrati la mattina stessa in tribunale a Saluzzo. Il salone che era stato della banca, aveva conser-vato la solenne presunzione della doppia porta a vetri e del bancone in marmo oltre il quale erano “accampate” le scrivanie e le telescriventi. Dal salone dei clienti si poteva accedere direttamen-te alla stanza che era evidentemente stata del direttore della filiale e che, nel giornale, era oc-cupata dal “capo”. Possedevamo anche un locale archivio ed il bagno, con finestra sul cortile. Una redazione da re, conquistata sulla piazza, a due passi dalla corte d’assise. A poche pedalate in bici dal Municipio, dalla Prefettura che ospitava anche il provveditorato agli Studi, la Questura, per non dire dell’Amministrazione provinciale. Di cos’altro avevamo bisogno? Quando sul finire del 1958 la casa madre di corso Valdocco, direttore Malgeri, varò le pagine provinciali della Gazzetta di Cu-neo e provincia, aprì il suo primo ufficio in via Statuto a Cuneo. Tutte le notizie venivano dettate per telefono a Torino; il fotografo Poetto spediva le foto con la corriera. In redazione erano passati Giovanni Bergese. Eraldo Giordana e Franco Col-lidà che alla fine rimase il corrispondente ufficia-le. Poi poco per volta la famiglia crebbe: ci fu il passaggio in piazza Galimberti. Dal 1976 i giorna-

listi a contratto erano quattro, due segretarie ed una ventina i corrispondenti e collaborato-ri, mal pagati o spesso ripagati con la passione di servire una testata che sentivano profonda-mente legata alla loro terra. Tra le voci di dentro della Gazzetta ci sono anche le confidenze del sottoscritto e quelle della segretaria Silvana Gollè Pilati anima instancabile di quelle giornate di passione furiosa per la notizia e perciò vedova inconsolabile ora che il gior-nalismo non sembra più essere quello per cui la Gazzetta era nata: un linguaggio semplice ed onesto, mani libere per giu-dicare i fatti, nessuna dipen-denza da leader o gruppi.

Sopra: una delle strisce più popolari della “Sezione per i piccoli”: le avventure del cronista investigatore Pio Percopo disegnato da Camerini, 6 giugno1932;

a sinistra: il domenicale della “Gazzetta”,25 gennaio 1925