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L’INFERNO E RITORNO

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régis Jauffret

L’inferno e ritorno

Traduzione di Maria Moresco

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titolo originale dell’opera: Claustria Copyright © régis Jauffret/editions du seuil, 2012

Questo libro è un’opera di finzione. Le parole, le intenzioni, i sentimenti o i caratte-ri prestati ai personaggi si devono all’immaginazione dell’autore. non riflettono in alcun modo quelli delle persone in carne e ossa. il loro utilizzo è puramente fittizio e non sono da considerarsi reali. né essi né i fatti evocati vanno dunque ricondotti esattamente a individui o ad avvenimenti esistenti ora o esistiti un tempo, né testi-moniano di una realtà o di un giudizio sui fatti, sui personaggi o sui luoghi citati nell’opera. Questo libro non è altro che un romanzo, frutto della fantasia del suo autore.

realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

isBn 978-88-566-3105-0

i edizione 2014

© 2014 - eDiZioni PieMMe spa, Milano www.edizpiemme.it

anno 2014-2015-2016 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

stampato presso eLCograf s.p.a. - stabilimento di Cles (tn)

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a cinquantadue anni, colui che un tempo era stato il bam-bino roman fritzl era l’ultimo superstite del piccolo po-polo della cantina. La madre era morta, il fratello e la so-rella non erano arrivati ai quarant’anni. L’aria aperta li aveva uccisi lentamente, come un’esalazione tossica.

Da quando ne sono usciti, il 26 aprile 2008, la casa di amstetten è stata rivenduta sette volte. Quel giorno, ro-man aveva cinque anni. Per citare ciò che un giorno suo pa-dre aveva detto a un vicino, è entrata nella storia.

«Che storia?»sulle labbra gli si era disegnato un sorriso. Lo aveva in-

ghiottito subito come un boccone di cibo.

Ma le storie prima o poi si dimenticano, e l’ultimo pro-prietario di quel luogo aveva dichiarato fallimento. La di-scoteca aperta quindici anni prima non attirava più clienti. era finito il tempo in cui gli avventori si pigiavano contro il bancone lillipuziano di fronte alla pista da ballo che sem-brava concepita per dei nani. sotto un soffitto così basso che lo si poteva sfiorare con la testa, si festeggiava il com-pleanno di un amico travestiti da vampiri, il battesimo di un neonato che i genitori speravano di vedere un giorno brillare come Lucifero, il matrimonio di una coppia che, una volta andati via gli ultimi invitati, consumava le nozze rabbrividendo rannicchiata su un tavolo, nel punto preciso

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in cui in passato troneggiava il letto sul quale il padre aveva montato la figlia per un quarto di secolo.

negli ultimi tempi era già tanto se qualche vecchio ci andava ancora a bere una birra, per nostalgia della giovi-nezza, quando i media di tutto il mondo avevano invaso la cittadina per trasmettere fino in Cina e in australia le im-magini della casa dell’orco. restavano in attesa dei fanta-smi e poi, stanchi di non vederne apparire nessuno, allon-tanavano il bicchiere, si alzavano ubriachi battendo la testa contro i listelli di legno del soffitto, barcollavano nel labi-rinto e risalivano in superficie con occhi da pesce morto.

una mattina di dicembre, l’esplosione. il giorno prima, gli artificieri lo avevano trascorso a disseminare l’edificio di esplosivo. una deflagrazione sotto una valanga di neve, come non se ne erano più sentite dagli ultimi bombarda-menti alleati del 1945. una pioggia di mattoni, pietre, le-gno, cemento, con qualche pezzo della terrazza ancora ri-conoscibile in cima al mucchio. Poi il bulldozer che livella, spiana, liscia. nessun obiettivo a immortalare la scena. no-nostante l’anziano sindaco si fosse preso la briga di annun-ciare l’evento alle agenzie di stampa. Contava di andare a fare lui stesso qualche foto. si ammalò di raffreddore quella notte e restò in casa per paura del freddo.

roman si asciuga con la mano guantata i fiocchi caduti sugli occhiali. Vede a pochi passi un frammento della casa, ma non si fa avanti a raccoglierlo per poi sistemarlo sul ca-minetto del salotto come un pezzo del muro di Berlino. niente reliquie, la sua memoria ne è piena fino a vomitarne ogni notte nei sogni.

È risalito in macchina. Ha scorto nello specchietto re-trovisore l’insegna del defunto nightclub che continuava a lampeggiare alimentata da un pannello solare sul soste-gno appena scosso dall’esplosione. ormai le macchine parcheggeranno al di sopra della cantina che nessuno ha

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pensato di far saltare insieme al resto della baracca e che resterà come una sacca da incubo sotto la terra austriaca fino al giorno lontano in cui una scossa di terremoto la farà scomparire a sua volta.

oggi amstetten è una città verde, fiorita fin dalla pri-mavera, dove le strade sono percorse al centro da lunghi tappeti erbosi. si lascia la macchina in quel parcheggio a cielo aperto come ci si toglie le scarpe all’entrata di una moschea, prima di penetrare nel santuario i cui abitanti adorano il loro bell’ecosistema pedalando per far girare le ruote delle biciclette come mulini da preghiera.

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Platone, il mito della caverna, the myth of the cave. Pri-gionieri che della realtà non vedranno mai altro che om-bre di figure umane proiettate sulla parete della grotta in cui sono incatenati. nel sotterraneo le uniche immagini del mondo esterno che i bambini hanno visto sono quelle ca-dute dal cielo, portate fino a loro dal cavo dell’antenna.

il mito ha attraversato ventiquattro secoli per incarnarsi in questa piccola città austriaca, con la complicità di un in-gegnere esperto in cemento e con quella involontaria dello scozzese John Baird, inventore nel 1926 del primo televisore.

Mi sono recato sul posto alla fine del novembre 2008. un buco grigio nella Bassa austria circondato da foreste e montagne. un luogo come un altro per dare la vita e vivere la propria senza dolori né estasi.

Ho incontrato roman all’ospedale Mauer-amstetten, dove, dopo aver sfrattato tutti i malati, le autorità ospita-vano la famiglia sotterranea per proteggerla da giornalisti e paparazzi. Quella mattina, neanche l’ombra di un poli-ziotto, i media si erano stancati di assediare la fortezza.

ero arrivato in taxi. L’autista parlava un po’ di inglese.«Ha un pallone?»«sì.»Ha riso. non ho osato dirgli che volevo regalarlo a ro-

man.

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«Questa storia è una brutta pubblicità per la nostra città» ha detto.

«Ma è comunque pubblicità.»sei mesi dopo, un ristorante vicino al palazzo di giusti-

zia di sankt Pölten, dove si celebrava il processo a fritzl, avrebbe ribattezzato la famosa scaloppina di maiale austriaca con il nome di Wiener fritzl, forse per dargli del porco, o magari per regalare ai giornalisti venuti a seguire il processo il delizioso brivido di masticare un brandello del corpo dell’orco. Le autorità sono state informate di questa mancanza di gusto, e a malincuore il ristoratore ha dovuto togliere la locandina che aveva incollato al vetro.

Mi sono infilato un camice bianco che avevo acquistato il giorno precedente. Ho aspettato nascosto dietro un abete. si è aperta una porta. ne è uscito un infermiere. roman lo seguiva con una tuta da sci rossa e dei Moon Boots verdi. Portava ancora occhiali dalle lenti affumicate per proteg-gere dalla luce del giorno i suoi fragili occhi di bambino degli abissi. sorrideva. L’infermiere si dava grandi pacche sulle spalle per scaldarsi. gli ha detto qualcosa prima di al-lontanarsi a fumare una sigaretta.

Ho lanciato la palla. Lui ha guardato verso l’abete. sono uscito dal mio nascondiglio, alzando la mano in segno di pace come fanno i capi indiani nei film western. non è parso sorpreso di vedermi. Da quando lo avevano tirato fuori dalla cantina si era visto comparire davanti talmente tanta gente!

Mi sono avvicinato. nel calciare la palla è scivolato. si è rialzato un po’ goffamente, un grosso cosmonauta infa-gottato nella tuta e negli stivali spaziali. gli ho lanciato di nuovo la palla. abbiamo fatto qualche passaggio. un po’ per volta diventava più agile. Correva nella neve. Magari aveva già dimenticato il piccolo secchio di plastica riempito di fiocchi di neve mezzi sciolti che un giorno di dicembre il padre aveva portato nel sotterraneo. un regalo fugace che aveva ricordato loro la brina del congelatore.

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L’infermiere è tornato verso di noi sputando fumo. scambiandomi per un collega mi ha salutato con un cenno del capo che gli ho subito restituito.

«Willst du eine Zigarette?»Ha tirato fuori il pacchetto dalla tasca.gli ho risposto ja, ja.«Sie arbeiten in diesem Krankenhaus?»non ho capito la domanda, e del resto non sono nean-

che sicuro che me l’abbia fatta. Mi è parso di ricordarne il suono la sera, ed è stato il portiere dell’albergo a credere di riconoscere quelle parole: «Voleva sapere se lei lavorava all’ospedale».

avevo risposto all’infermiere con un semplice ja, ma sta-volta il mio accento mi aveva tradito. si è messo a urlare talmente forte che roman è fuggito via. Mentre lui gli cor-reva dietro, sono scappato.

Ho raggiunto la strada senza fiato. Mi sono messo a ge-sticolare verso le macchine. una signora mi ha fatto salire sulla sua station wagon. a tutte le sue domande ho rispo-sto alzando il polso e dando colpetti con l’unghia sul vetro dell’orologio. forse convinta che quello strano infermiere stesse correndo a occuparsi di qualche caso urgente, ci ha dato dentro con l’acceleratore. Vedevo lampeggiare sul cruscotto la spia della riserva. Cinquanta chilometri dopo, si è fermata appena in tempo a una stazione di servizio. Me la sono data a gambe.

sono tornato a Vienna in pullman.Ho camminato. in quella città simile a una scenogra-

fia d’opera in cui non si fa altro che aspettare l’istante in cui si alzerà il sipario. il traffico simile al rumoreggiare de-gli spettatori che si accalcano nei corridoi in cerca del loro posto.

ero certo che dietro ogni angolo di strada avrei potuto incontrare Hitler. negli anni Dieci vagabondava proprio lì come un povero diavolo con le sue tre idee nere che avreb-

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bero potuto finire sepolte cinquant’anni dopo, nell’anoni-mato, insieme al suo corpo incartapecorito dalla vecchiaia. una vita simile a quella di tanti esaltati che hanno passato i loro ultimi anni urlando scemenze nella saletta posteriore di qualche caffè in compagnia di altri rincoglioniti della loro generazione.

Poi una misera sepoltura in una cripta senza pretese acquistata a credito, una follia ornata da una svastica ro-vesciata, frutto di un’intera esistenza di privazioni nella speranza di farsi notare nel grande cimitero in cui si dà se-poltura ai morti estate e inverno, a passo di carica, per an-darsi a gustare al più presto il rinfresco funebre.

Ma a venticinque anni ha lasciato la capitale del vecchio impero austro-ungarico. Quelle terre intrise di nostalgia dove la crudeltà era diventata un fantasma masochista e l’eroismo veniva considerato un lusso da signorotti di cam-pagna abbastanza degenerati da preferire la gloria all’avi-dità. La germania l’ha adottato come un cane rognoso.

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una volta fuori, roman aveva beneficiato di un’istruzione che lo stato aveva finanziato malvolentieri. L’intera fac-cenda era già costata anche troppo, e il lugubre turismo che un tempo era parso svilupparsi intorno ad amstetten era presto andato in fumo. a ogni modo non avrebbe mai potuto produrre abbastanza tasse da giustificare la spe-ranza di poter recuperare tutti i soldi spesi per quella fami-glia distrutta, estratta a brandelli dalla sua tana.

ricollocare altrove ottanta malati perché potesse usu-fruire di un intero ospedale si era rivelato rovinoso. all’ini-zio i ragazzi non sopportavano lo spazio. avevano paura dei campanelli, delle scale e soprattutto delle finestre che si af-facciavano sulla campagna, con quelle strade simili a canali su cui le macchine scivolavano verso l’infinito. si era reso necessario costruire in tutta fretta una replica della cantina, dove abitavano parte del giorno, della notte e a volte anche di più. una camera di ricompressione. erano come som-mozzatori risaliti troppo in fretta dagli abissi.

angelika avrebbe voluto conservare la cantina di am-stetten per potercisi rifugiare ogni volta che il peso e il fa-stidio della libertà le fossero divenuti insopportabili. una specie di seconda casa, uno spazio privato in cui poter ri-trovare quei ventiquattro anni in cui, sprofondata nell’or-rore, aveva così spesso conosciuto la gioia.

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i primi tardivi passi di Petra, il primo sorriso di Martin e il momento magico in cui roman aveva fatto tanto ridere il popolo della cantina riunito intorno a un pranzo pasquale trangugiando uno spaghetto come il mangiatore di spade che aveva visto il giorno prima alla televisione.

il mondo intero puntava il dito sull’austria, accusata di

ospitare ancora nel sottosuolo delle sacche di nazismo. una torma cosmopolita di inviati speciali incontrollabili, ficca-naso, annoiati per i mesi passati in una città senza attrattive, che si precipitavano ogni giorno alla conferenza stampa in cui poliziotti e magistrati li inondavano di notizie per pla-care la sete di quella mandria disidratata per aver pisciato troppo in fretta quelle del giorno prima. il vapore delle an-tenne satellitari saturava senza posa la stratosfera.

Quindici giorni dopo essere usciti, angelika aveva pre-teso che roman fosse immediatamente scolarizzato in-sieme a suo fratello Martin, che all’inizio dell’anno aveva compiuto diciott’anni. Da un giorno all’altro si erano ri-trovati entrambi nella stessa classe. un corso preparatorio in cui il primogenito faceva l’effetto di uno spaventapas-seri in un campo di bonsai. a protezione dell’edificio sco-lastico era stato messo l’esercito, una truppa che lo circon-dava a cerchi concentrici come una roccaforte. Paura delle foto, dei video, dei pettegolezzi, paura di un rapimento da parte di misteriose brigate dalle intenzioni tanto improba-bili quanto assurde.

erano rimasti lì appena una settimana, il tempo di spa-ventare i compagni con il loro aspetto allucinato, gli oc-chiali scuri resi stagni grazie a una guarnizione in gomma, la mania di spostarsi per il cortile a quattro zampe, di par-lare accovacciati sotto il banco, di infilarsi dentro gli arma-dietti e nei bagni bui come scarafaggi che solo l’oscurità poteva rassicurare.

si era finito per montare una tenda kaki, rivestita di co-

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perte di fortuna, un rifugio buio al margine del campo sportivo, dove gli insegnanti dicevano agli altri ragazzini che roman e Martin andavano a fare la siesta.

Poi, in piena notte, un rimpatrio a bordo di un’ambu-lanza smarrita in mezzo a uno squadrone di camion pieni di militari armati di fucile d’assalto di cui si indovinava la canna sotto il telone. e il ritorno in ospedale, da angelika e dalla loro sorella ancora in rianimazione.

L’ospedale aveva fatto da camera stagna, e drappelli di insegnanti e professori di ogni tipo si erano avvicendati ogni giorno per infondere in loro i rudimenti di un sapere su cui il primogenito sudava sette camicie, mentre roman più o meno assimilava quella zuppa. un po’ per volta di-ventava meno ignorante e si allontanava dalla stupidità in cui gli altri avrebbero vissuto fino alla morte. Ma la sua in-telligenza sarebbe rimasta goffa, come se nonostante tutto ci avesse tenuto a restare solidale con loro.

fin dal giorno dopo la liberazione dalla cantina, la po-lizia aveva organizzato all’ospedale incontri quotidiani. La nonna anneliese, angelika, i figli della cantina e i tre figli di sopra che fritzl aveva strappato alla madre per allevarli all’aria aperta tentavano di stringere un legame, mentre in terapia intensiva Petra lottava con la morte.

nel giro di pochi giorni angelika ha cominciato a tro-vare importuna sua madre. roman e Martin iniziavano a manifestare un certo affetto nei suoi confronti e lei andava ogni giorno a vedere Petra parlandone in modo sospetto, come se volesse appropriarsene.

i media avevano espresso dubbi sulla sua innocenza. La polizia non aveva trovato traccia del suo dna nella cantina, ma nessuno poteva pensare che non avesse notato i maneggi del marito, che portava giù le vettovaglie e riportava su l’im-mondizia.

facendo suoi questi legittimi sospetti, un mattino di

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maggio angelika ha puntato verso di lei in silenzio un in-dice accusatore. Davanti alla figlia muta, la vecchia si è mal-destramente difesa.

«tuo padre mi ha sempre terrorizzata. se gli avessi fatto la minima domanda mi avrebbe picchiata.»

«non l’ho mai visto attraversare il giardino con le borse della spesa. e anche se l’avessi visto? gli occhi possono sbagliarsi come le persone.»

«sentivo, certo, sentivo. Ma era impossibile che tu fossi laggiù, come puoi pretendere che credessi alle mie orecchie? se si dovesse fare attenzione a ogni cosa che si sente...»

«Mi aveva detto che eri al riparo in una setta. Mi sen-tivo rassicurata. Quando eri giovane tuo padre aveva tanta paura che ti drogassi. ti ha rinchiusa per proteggerti. Do-potutto, se non fosse stato per lui saresti già morta.»

sempre senza una parola, angelika aveva emesso il ver-detto. anneliese aveva capito che ormai le avrebbe im-pedito di vedere i sei figli avuti da suo marito. Con uno sguardo l’ha buttata fuori dalla stanza senza lasciarle nean-che il tempo di abbracciarli.

era uscita tutta fradicia di sudore. Con la paura di essere arrestata, di finire i suoi giorni in prigione. il viso scolpito nella pietra di angelika si era richiuso su una condanna senza appello, senza che avesse neanche bisogno di aprire la bocca sdentata per formulare il verdetto.

La madre era appena uscita barcollando sotto la piog-gia quando angelika ha chiamato il commissario generale della Bassa austria.

La settimana seguente, anneliese veniva esiliata sotto falsa identità in un paese sperduto del tirolo il cui nome è stato tenuto segreto fino alla sua morte, avvenuta dicias-sette anni dopo. il cambio di identità le era costato cin-quecento euro, nonostante lei avesse protestato nel tenta-tivo di tenersi il proprio, che era gratuito. Prima di essere

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mandata laggiù, aveva avuto giusto il tempo di lamentarsi con un gruppo di giornalisti imboscati davanti a casa sua.

«Certo che è triste aver tirato su dieci figli e non avere un soldo.»

secondo le istruzioni di sua figlia, non poteva più benefi-ciare della pensione del marito. ormai doveva accontentarsi della pensione sociale. La casa di amstetten era stata pigno-rata per riuscire a indennizzare almeno in parte le banche che avevano concesso prestiti a fondo perduto a fritzl affin-ché potesse realizzare i suoi fantasmi immobiliari.

L’immagine del padre austriaco era già abbastanza of-fuscata. L’esilio metteva fine alle noie giudiziarie di anne-liese. in questo modo l’icona della madre austriaca veniva preservata. Calpestarla avrebbe fatto passare la popola-zione del paese per un’orda di lupi.

un giornalista italiano aveva notato che fritzl portava i baffetti come il führer, e la notizia si era diffusa fino a rag-giungere i blog degli adolescenti della città. i padri baffuti si rasavano per paura di sembrare degli aguzzini.

il presidente della repubblica doveva rispondere a do-mande insolenti.

«Da noi in cantina si tiene il vino. in austria ci mettete i figli?»

Lui aveva detto di no. tutto il mondo aveva riso.

Per quasi un anno angelika ha diretto l’austria. La sua parola di martire era sacra quanto le sure del Corano.

Dalla sua postazione in ospedale pilotava i satelliti e le rotative di tutto il pianeta.

gli interrogatori di fritzl venivano resi pubblici solo quando li avallava lei. spesso li modificava allo scopo di consolidare le fondamenta della sua storia. all’inizio ha ri-cusato diversi poliziotti, subito sostituiti come fossero sem-plici comparse. il giorno in cui ha preteso che cessassero immediatamente le trasfusioni fatte a sua figlia, si è dovuti scendere a patti.

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«È il sangue di sconosciuti.»«non ne abbiamo altro.»«Datele il mio.»«i vostri gruppi sanguigni sono incompatibili e oltre-

tutto quello di sua figlia è rarissimo.»«Voglio incontrare i donatori.»il giorno dopo, la televisione di stato aveva trasmesso un

appello. un medico con indosso il camice aveva letto un comunicato con voce strozzata.

«una diminuzione delle scorte di sangue del gruppo aB negativo, conseguente a un’interruzione della catena del freddo, ci induce a chiedere con insistenza a chi ne sia por-tatore di telefonare urgentemente al numero che vedete ora sul vostro teleschermo.»

tre giorni dopo, nell’atrio dell’ospedale, una sfilata. an-gelika nascosta dietro la finestra di un ufficio. La sua mano si alzava, si curvava in avanti o oscillava da sinistra a destra per rifiutare un candidato. un poliziotto travestito da in-fermiere doveva fingere di misurare la pressione arteriosa dei bocciati e di rimandarli a casa con la scusa di un’iper-tensione incompatibile con il salasso.

sembrava che angelika scegliesse a casaccio sia le donne che gli uomini, e persino un vecchio che era riuscito a in-trufolarsi anche se aveva superato da molto tempo il limite dei settant’anni oltre cui l’europa vieta di donare il sangue. L’ematologo incaricato della raccolta era intervenuto.

«È impossibile.»«avrò ben il diritto di scegliere il sangue per mia figlia.»Lui aveva annuito a bocca aperta.

un mese dopo facevano alzare Petra ogni mattina. Due chinesiterapisti si occupavano di lei e si dedicavano a irro-bustirne la muscolatura. Petra aveva il viso grigio, occhiaie del colore dell’argilla, piccole mani smarrite all’estremità delle braccia come bacchette spezzate all’altezza del go-mito. un corpo di bambina e incollata all’osso una polpa

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mobile sotto la pelle. una bambola rotta, fragile, la cui cera pareva sul punto di sciogliersi.

non costruiva alcuna frase, solo parole alla rinfusa, sputacchiate con un raschio della gola. non rispondeva quando le chiedevano se sentiva male o se riusciva a fare uno sforzo per cercare di alzare un po’ di più la gamba. Le parole cadevano a cascata, all’improvviso, come se si fos-sero lentamente accumulate nella laringe.

un vocabolario misterioso, sassolini di linguaggio, fram-menti, sillabe invertite, mescolate, piccoli dadi lanciati a caso come se l’aria della stanza fosse un tavolo da gioco. un’infermiera incaricata di raccoglierli li mandava ogni sera a un linguista di salisburgo, alla ricerca di un em-brione di linguaggio.

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roman ha vissuto l’età adulta a Vienna. Lì si parla l’austriaco, un tedesco che a detta degli autoctoni è più me-lodioso. una lingua che lui parlava correntemente, nel mo-mento in cui la casa di amstetten esplodeva. se ancora gli capitava di lanciare un urlo improvviso o di camminare a quattro zampe, lo faceva tappato nel suo appartamento, da solo.

a cinquantadue anni aveva fatto tre tentativi di convi-venza. i primi due erano falliti senza giungere alla fine del primo mese. il terzo ha mancato di pochi giorni la data del primo anniversario. Con una contabile divorziata di fresco da un collega e madre di due figli.

Lei li obbligava a chiamarlo papà, ma quel titolo lo di-sturbava. ogni volta che sentiva la parola gli sembrava di diventare suo padre. un padre amato, che gli era stato tolto quando era uscito dal sotterraneo, un padre morto da molto tempo, cremato di nascosto perché nessuno potesse vedere su internet il fumo del suo cadavere dissiparsi nel cielo austriaco o rubare le sue ceneri per venderle in pic-cole buste come dosi di cocaina.

a roman piaceva giocare sul tappeto con i bambini. traduceva alla loro madre le parole di cui a volte non di-sponevano per esprimere a fondo il loro pensiero. a due e quattro anni, dicevano ancora molte cose con gli occhi,

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con le labbra chiuse ma ciarliere che si contraevano, si ac-cavallavano, si increspavano o diventavano fluttuanti come una duna. Lui sapeva leggere quei segnali come altri leg-gevano un elettroencefalogramma. un discorso muto, sot-tile, che ogni nuova parola a poco a poco cancellava, fino al giorno in cui per esprimersi avrebbero avuto solo il lin-guaggio, che avrebbe parlato al loro posto, e dietro le frasi loro si sarebbero disperati per quel vocabolario inflessibile, dal senso raggelato come una bolla al centro di un pezzo di ghiaccio, cifre con cui non si potevano costruire numeri all’infinito, sentenze rigide come assiomi, espressione della griglia che gli umani sovrappongono alla realtà.

anche gli adulti continuavano a parlare senza parole. roman osservava le folle vocianti, tutti quegli occhi che cianciavano all’insaputa delle coscienze raggomitolate, convinte di tacere quando non dicevano niente. nella can-tina, fratelli e sorelle stavano zitti per ore, e le emanazioni dei loro pensieri sempre sul chi vive si mischiavano conti-nuamente come odori nell’atmosfera viziata.

La sua effimera convivente era una persona comune, ma abbastanza informata da rendersi conto che roman aveva conservato come dei rizomi che correvano fino alla cantina. aveva piccoli piedi da bambino che sorreggevano un corpo adulto obeso e flaccido. un po’ per volta aveva avuto l’im-pressione di perderlo di vista. Quando cominciavano a liti-gare, si accorgeva che lui sembrava abbandonare la discus-sione. non emetteva altro che un testo artificiale di cui lui stesso non capiva nulla. in quei momenti i bambini gli te-nevano gli occhi incollati addosso e sembravano approvare qualcosa che lui emanava.

Lei lo sgridava. Lui cercava di difendersi.«non capisco di cosa mi rimproveri.»«emetti onde negative.»Lui taceva, abbassava la testa. i bambini fissavano la sua

calotta cranica.

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«Volete smettere di guardarlo? Credete che i capelli di papà possano raccontarvi una storia?»

non avevano più rapporti sessuali. Dormivano fianco a fianco sul letto. erano diventati differenti. Per fare l’amore bisogna assomigliarsi un po’.

una sera lei aveva lasciato l’appartamento. aveva aperto la porta e sceso a precipizio le scale insieme ai suoi mar-mocchi. aveva ritrovato la strada, l’aria aperta. roman non avrebbe mai saputo se fosse scappata da quella relazione con la stessa ebbrezza con cui lui decenni prima era scap-pato dalla cantina di amstetten. un’ebbrezza presto eva-porata, visto che aveva conservato la nostalgia del sotto-suolo. Della conchiglia che riempivano interamente come il giallo e il bianco di un uovo.

roman si era consolato della separazione davanti alla sua consolle per videogiochi, un’amica elettrica di cui par-lava la lingua. attraverso le vetrate del salone guardava il mondo scorrere rasoterra.

Quando roman era diventato maggiorenne, angelika aveva deciso che si sarebbe guadagnato da vivere. aveva chiesto aiuto al ministero della giustizia, che aveva usato tutto il suo peso per convincere la municipalità di Vienna a nominarlo aiuto giardiniere al castello del Belvedere. un impiego fantasma. Per tenerlo occupato, gli facevano pian-tare in primavera dei brutti fiori in un recinto vietato al pubblico. Doveva annaffiarli per tutta l’estate ed estirparli in autunno. D’inverno smuoveva la terra con una vanga. uno stipendio da fame, ridotto due anni dopo quando gli fu imposto il part-time.

«Così potrà riposarsi, e poi lei qui non serve granché.»il direttore gli aveva dato una pacca paterna sulla spalla

senza notare il suo dispiacere.aveva ventiquattro anni. Dopo mesi d’affitto non pagati,

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lo avevano sfrattato dal monolocale al pianterreno di una di quelle catapecchie di periferia costruite sotto l’occupazione sovietica nell’immediato dopoguerra. era riuscito ad abitare soltanto al pianterreno. gli bastava un primo piano per co-prirsi gli occhi. un capogiro, la paura di cadere nel vuoto, di essere afferrato e poi raccolto sul selciato col cucchiaino. era emigrato in una casa lontano dal centro, dove una donna delle pulizie ninfomane era riuscita alla meno peggio a svergi-narlo. un’esperienza che gli aveva stranamente ricordato una sensazione sgradevole di cui aveva conservato un confuso ri-cordo. uno dei ricordi nati nella penombra della cantina che non smettevano mai di zoppicare nei bassifondi della sua me-moria. Ma col tempo aveva finito per provare piacere con lei.

a marzo una giornalista della televisione di stato austriaca è andata a trovarlo al Belvedere. una donna alta e bruna, stretta in un completo grigio che a lui sembrava un imballaggio troppo lussuoso perché potesse sognare di avere un giorno accesso al corpo che ricopriva. Per prima cosa lei gli ha chiesto se la sua identità corrispondesse pro-prio a quella della persona che stava cercando. Lui ha ab-bassato il capo diverse volte.

«stiamo facendo un reportage su di lei.»«su di me?»si era puntato l’indice al petto come per denunciarsi.«Ho incontrato suo fratello e sua sorella, ma fanno di-

scorsi sconclusionati e farfugliano talmente tanto che ci vorrebbero i sottotitoli. in più hanno la pelle troppo bianca e delle specie di macchie scure disgustose che ci co-stringerebbero a sfocare la loro immagine durante la tra-smissione, per non perdere i budget pubblicitari di McDo-nald’s e Coca-Cola, che sono entrambi grossi inserzionisti.»

«ah, sì.»Provava vergogna per loro e anche per se stesso, visto

che erano uniti da un legame di sangue. immaginava un lungo cordone sanguinolento che li strangolava tutti e tre.

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«sarebbe troppo complicato, capisce?»«sì.»«allora sarà lei il filo conduttore del reportage.»«io.»«Mostreremo qualche immagine della casa e trasmette-

remo carrellate di vecchie foto che la polizia scattò all’epoca in cantina.»

tre mesi dopo il reportage era stato mandato in onda. all’inizio lo riconoscevano per strada. gli gettavano un’oc-chiata e subito voltavano la testa. a nessuno piacevano gli eroi di quella tragedia che aveva fatto tanto penare l’au-stria.

È trascorso un inverno e lui è ridiventato anonimo. a quel punto lo ha contattato una casa editrice londinese. un assegno a cinque zeri per dare la sua versione dei fatti. una somma che gli avrebbe consentito di acquistare il moderno appartamento nel centro storico di Vienna dove avrebbe vissuto fino alla morte. La gran Bretagna era sempre an-data pazza per quella storia crudele a base di stupri e bam-bini sequestrati. erano passati dieci anni da quando laggiù erano state pubblicate le memorie di angelika.

«Ma siamo convinti che non abbia detto tutto.»La versione dei fatti di angelika era stata presa per buona

senza che nessuno osasse rilevare le inverosimiglianze e le contraddizioni di quel testo sconvolgente. Quantunque non le avesse portato gioia e spensieratezza, la sua perma-nenza in cantina le aveva fruttato venticinque milioni di dollari in dividendi che l’avevano definitivamente liberata dalla necessità di guadagnarsi da vivere. Milioni di copie vendute, traduzioni numerose quasi quanto le lingue del mondo, svariati adattamenti cinematografici, tra cui alcuni premiati con l’oscar.

roman vedeva spesso angelika e i suoi fratelli del sot-terraneo, che temevano il giorno e vivevano ritirati alla luce delle lampadine nel mezzanino della loro casa di sa-

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lisburgo. Lui era l’unico dei bambini della cantina ad aver studiato. anche se non aveva ottenuto alcun diploma, era riuscito a diventare autonomo. angelika si guardava bene dal fornirgli il minimo aiuto finanziario. temeva che si la-sciasse andare e finisse come Petra e Martin, terrorizzato dal mondo. ogni estate lo portava in viaggio in qualche paese caldo, mentre gli altri restavano a casa, a cucinare le provviste che aveva lasciato loro, a ubriacarsi di televisione e ad aspettare la notte per uscire a prendere una boccata d’aria in giardino.

i ragazzi di sopra non si erano mai lasciati adottare del tutto dalla loro madre. una donna salita troppo tardi per cui provavano a denti stretti lo stesso affetto che si ha per una zia lontana. angelika avrebbe finito per prendere atto della loro indifferenza e li avrebbe abbandonati come si abbandonano degli amanti ingrati. una procedura che lo stato le avrebbe concesso come per farsi perdonare un’ul-tima volta di aver lasciato crescere il mostro sul suo suolo. Quanto ai ragazzi di sotto, quelli di sopra li avevano ben presto persi di vista. Come due stirpi antagoniste nate dal medesimo ventre.

«Ci racconterà tutto quello che sa.»«non so.»«sarà supportato da tre autori e uno psicologo che si in-

caricherà di rinverdirle la memoria.»Dieci settimane di lavoro e alla fine un enorme mano-

scritto che era stato potato come un boschetto. il libro era uscito in gran pompa l’estate successiva.

«i best seller si fanno sempre uscire alla metà di giugno.»i media austriaci avevano boicottato il libro. in gene-

rale, stufa di quella storia logora i cui personaggi col tempo avevano assunto gli stessi contorni fantastici di una fiaba dei fratelli grimm, l’europa continentale non vi aveva pre-stato particolare attenzione. in gran Bretagna era com-parso qualche articolo sui tabloid, c’era stato un invito in

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tarda serata alla BBc, una trasmissione su un piccolo canale televisivo, e in sostanza vendite da fame.

«e, come se non bastasse, nessuna fiction in vista.»L’editore, furibondo, si era addirittura presentato a casa

di roman per sfogare il proprio livore.«aveva ragione lo psicologo quando diceva che lei si ri-

fiutava di parlare. Per farla confessare ci sarebbe voluta la tortura. se avesse accettato di aprirci le porte della sua me-moria, avremmo ottenuto un materiale più ricco, più con-sistente e probabilmente abbastanza nuovo e scandalistico da aumentare le vendite.»

abbattuto, roman guardava una doga del parquet.«Ci avrebbe evitato l’abisso finanziario in cui ci tro-

viamo per colpa sua.»se n’era andato lasciando a metà una frase.«il fallimento, ecco.»non lo aveva preso a pugni né gli aveva stretto la mano,

e aveva infilato nell’ascensore la sua corpulenza. Prima di ricordarsi che roman abitava al pianoterra, si era ritrovato nel seminterrato.

Per un momento roman aveva temuto che sarebbe stato costretto a restituire tutti quei soldi per coprire il deficit scavato dalla sua amnesia. Ma non aveva ricevuto alcuna ingiunzione.

un libro silenzioso, in cui non aveva biascicato altro che confidenze insignificanti. i redattori erano stati costretti a inventare. gli avevano fatto dire che suo padre gli leggeva il Mein Kampf ubriaco di birra, che aveva la croce uncinata tatuata sul petto e che anneliese a volte portava del cibo cucinato di sopra dentro gamelle nel cui doppio fondo aveva nascosto delle lime che loro non avevano mai potuto usare perché giù da basso non esistevano sbarre.

in realtà a lui non sembrava che sua nonna fosse mai scesa in cantina. non si ricordava più di lei. L’aveva vista così poco, ed era stata esiliata così in fretta. in seguito non

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ne aveva mai più sentito parlare. un giorno angelika era venuta a sapere che era morta, ma non era andata al fune-rale e i figli non ne avevano saputo niente.

roman non aveva parlato. Ma la sua collaborazione al libro aveva aperto la strada alla reminiscenza. ricordi se-polti uscivano dall’ombra. gli esplodevano uno dopo l’al-tro nella coscienza svegliandolo di notte. Momenti di feli-cità intorno a un albero di natale tagliato dal padre nella foresta e che avevano addobbato tutti insieme. i regali, che aprivano con la stessa gioia dei bambini cresciuti in libertà, e le candeline per i suoi cinque anni piantate nella torta al cioccolato preparata da angelika che lui aveva spento scoppiando a ridere tra gli applausi di tutta la famiglia.

si ricordava anche del freddo, dei lunghi giorni in cui pioveva sul telone che la madre sistemava come poteva sopra i letti, del sudore in estate, quando la temperatura si avvicinava ai quaranta gradi, e dell’oscurità, della sete, quando fritzl per punirli toglieva loro la corrente e l’ac-qua.

Per quanto scuotesse la testa o camminasse avanti e in-dietro per l’appartamento, per quanto corresse per la città deserta o si bagnasse il capo con l’acqua gelata come per raffreddarlo e rallentare il funzionamento del cervello, l’in-conscio continuava a espellere i ricordi come mattoni di cui a poco a poco la sua coscienza si serviva per ricostruire il pezzo di memoria che era sprofondato la notte in cui la polizia li aveva tirati fuori.

Più che mattoni erano cocci. una memoria sepolta che era esplosa come la casa di amstetten. Polvere e fulig-gine, come se il terrore potesse diventare incandescente e lasciarsi dietro della cenere. Le vittime sono deludenti, a volte i martiri non sono eroi. e poi quegli sprazzi di felicità. un’impressione di paradiso perduto, di spensieratezza, di festa, la certezza di aver conosciuto momenti di gioia pura, trasparente, luminosa, quella dei primi anni dell’infanzia.

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