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1 L’incognita del rischio La gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Studente/essa Valentina Roveri Corso di laurea Opzione Lavoro sociale Educatrice sociale Tesi di Bachelor Luogo e data di consegna Manno, settembre 2018

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L’incognita del rischio

La gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Studente/essa

Valentina Roveri Corso di laurea Opzione

Lavoro sociale Educatrice sociale

Tesi di Bachelor

Luogo e data di consegna

Manno, settembre 2018

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“Sogna, ragazzo, sogna, ti ho lasciato un foglio sulla scrivania, manca solo un verso a quella poesia, puoi finirla tu.” (Roberto Vecchioni, “Sogna, ragazzo, sogna”)

Un grazie speciale all’équipe del foyer Calprino per l’accoglienza, la professionalità e l’affetto dimostrato.

Ai ragazzi collocati per i vissuti condivisi,

per le risate, per avermi sostenuta con curiosità e motivazione nel corso della stesura della ricerca di tesi.

Grazie a Eleonora Gambardella per il sostegno, i consigli e la presenza costante.

Grazie, infine, alla mia famiglia e a coloro che, con una parola o con un gesto, hanno arricchito di valore il mio percorso professionale e personale.

Valentina Roveri

                      L’autrice è l’unica responsabile di quanto contenuto nel lavoro.

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Abstract

 L’incognita del rischio La gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare Il tema della seguente tesi è relativo alle rappresentazioni concernenti il modello non-punitivo e non-espulsivo da parte sia dei giovani collocati al foyer Calprino della Fondazione Amilcare, sia dei relativi educatori. Nello specifico sono state analizzate le prese di rischio dei giovani e le annesse assunzioni di responsabilità degli operatori sociali. Lo scopo del lavoro di ricerca è quello di andare ad approfondire e comprendere il modello innovativo vigente all’interno del foyer Calprino, generando un quadro della situazione attuale. Essendo tale concezione ancora in costruzione nella struttura specifica, il documento si auspica di valutarne la funzionalità e offrire spiragli di crescita futuri, soprattutto in ottica di gestione di comportamenti a rischio inconsapevoli e distruttivi. Gli obiettivi della ricerca sono i seguenti. In primo luogo si vuole fornire una revisione della letteratura concernente i concetti base della domanda di ricerca. In tal senso si fa capo ai concetti teorici cardine della Fondazione: L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen e il metodo Gordon di Thomas Gordon. Vengono approfonditi inoltre argomenti inerenti l’adolescenza, il rischio e i relativi stili educativi nella sua gestione all’interno della fascia d’età indicata. Secondariamente si propone di comprendere le rappresentazioni che gli adolescenti e gli educatori del foyer Calprino hanno riguardo al modello non-punitivo e non-espulsivo; soprattutto rispetto la presa a carico degli stessi in situazioni a rischio e, per i secondi attori citati, l’assunzione di responsabilità connessa a tali agiti. In relazione a quanto emerso dai racconti dei protagonisti, la ricerca mostra un’analisi in itinere su punti di forza e criticità del modello non-punitivo e non-espulsivo, per quanto concerne la presa a carico dei ragazzi in situazioni a rischio e possibili prospettive future. La tesi, quindi, si sviluppa in tre fasi: una puramente teorica atta a sviscerare i concetti della domanda di ricerca; la seconda che si occupa di raccogliere le rappresentazioni di ragazzi ed educatori del foyer, mettendo in luce risorse e criticità del modello; la terza mira a elaborare prospettive future al fine di approfondire maggiormente il tema proposto. Per un possibile sviluppo della ricerca sarebbe interessante andare a esaminare nello specifico i vari argomenti cardine emersi dalle interviste effettuate, quali, per esempio, l’antinomia tra libertà e limitazione per i ragazzi collocati in Centri Educativi Minorili e la sfera emotiva dell’educatore nella gestione del rischio. L’indagine di tesi ricorda all’educatore l’importanza di costruire progetti educativi in collaborazione con le persone che hanno l’esperienza dei vissuti. Senza l’apporto dei racconti dei diretti interessati, infatti, non sarebbe stato possibile delineare le specificità del modello.

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Indice

1. Introduzione ........................................................................................................................ 1

2. Contesto di tesi .................................................................................................................. 2

3. Revisione della letteratura ................................................................................................ 4 3.1 Il ciclo di vita dell’adolescenza ....................................................................................... 4 3.2 Il rischio nei giorni nostri ................................................................................................. 5 3.3 Il rischio in adolescenza ................................................................................................. 6

3.3.1 Fattori cognitivi ........................................................................................................ 6 3.3.2 Fattori sociali ........................................................................................................... 7 3.3.3 Altre teorie ............................................................................................................... 9

3.4 Stili educativi nella gestione del rischio ........................................................................ 10 3.5 La gestione del rischio al foyer Calprino ...................................................................... 11

3.5.1 Il metodo di Thomas Gordon ................................................................................. 12 3.5.2 L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen ............................. 14

4. Quadro metodologico ...................................................................................................... 18 4.1 Obiettivi della ricerca di tesi .......................................................................................... 18 4.2 Metodologia di ricerca .................................................................................................. 19

5. Risultati e analisi .............................................................................................................. 20 5.1 Comportamenti di adattamento disfunzionali ............................................................... 20 5.2 L’influenza nella fragilità ............................................................................................... 22 5.3 Il dialogo: un sostituto alla punizione ............................................................................ 23 5.4 Stare in relazione ......................................................................................................... 26 5.5 I risultati del modello non-punitivo non-espulsivo al foyer Calprino ............................. 28 5.6 La rete: una risorsa nel lavoro educativo con il giovane .............................................. 30

6. Conclusioni e riflessioni .................................................................................................. 33

Bibliografia Bibliografia libri Bibliografia articoli Bibliografia moduli scolastici Bibliografia tesi Sitografia

Allegati Allegato 1: intervista Antonio Allegato 2: intervista Giacomo Allegato 3: intervista Michela Allegato 4: intervista Francesca Allegato 5: intervista Giuseppe - educatore Allegato 6: intervista Simone - educatore Allegato 7: intervista Elisa - educatrice Allegati 8-11: diari

 

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1. Introduzione

La ricerca di tesi è stata sviluppata a seguito dello svolgimento di uno stage di pratica professionale, della durata di cinque mesi, all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Una costante che ha caratterizzato tale periodo e che, conseguentemente, ha portato al generarsi di numerose riflessioni, è relativa alla sovente assunzione di rischio di un’abbondante parte dei ragazzi collocati. Come si vedrà nell’approfondimento teorico che segue, la ricerca della trasgressione è un aspetto integrante della fase di vita presa in considerazione, pertanto è uno stadio necessario allo sviluppo di autoefficacia e autonomia (Bonino, 2005, p.14). All’interno della certezza che ogni essere umano sano percorra codesto frangente, contraddistinto dall’infrangere le regole, vi sono delle variabili malleabili, le quali potrebbero delineare il confine tra passaggio evolutivo funzionale e grave messa in pericolo della propria vita. A condizionare il concatenarsi di questi elementi che portano al risultato di un determinato rischio, entrano in gioco diversi fattori nell’accompagnamento dell’adolescente da tenere in considerazione. Da una parte vi è l’importanza dell’ascolto e dell’accoglienza per facilitare al ragazzo l’espressione della domanda d’aiuto all’adulto. Thomas Gordon, infatti, afferma che l’ascolto attivo “(...) invita una persona a parlare dei suoi problemi; facilita la catarsi e la liberazione dei suoi sentimenti ed emozioni; favorisce la conversazione con la persona che ha un problema; favorisce la sua esplorazione dei sentimenti più profondi; gli comunica la vostra intenzione di aiutarlo in qualche modo; e gli comunica che lo accettate così come è.” (Gordon, 1991, p. 71). Dall’altra bisogna prendere in considerazione il bisogno del ragazzo di essere confrontato con confini ben saldi. “Se un bambino, o un ragazzo, sente che i confini sono talmente fragili che li può abbattere, sarà insicuro e spaventato. Questo incoraggia la sua distruttività e non la sua creatività.” (Asha Phillips, 2008, p. 153). Vi sono diverse teorie, le quali verranno analizzate di seguito, volte a fornire al lettore una funzionale presa a carico dei giovani, a questo punto ci si domanda come concatenarle in un’armoniosa melodia e, probabilmente, la risposta più attendibile è da ricercare nei diretti interessati. Nello specifico, dunque, la ricerca vuole indagare il modello non-punitivo e non-espulsivo adottato dal foyer Calprino, andando a fissare il focus sulle rappresentazioni che i ragazzi hanno riguardo al rischio e alla sua gestione nel contesto rappresentato. Un quadro, quello del foyer oggetto di analisi, che sta costruendo mattone dopo mattone un modello e una filosofia basati sulle teorie innovative dichiarate. L’indagine, pertanto, è atta anche a fornire una valutazione in itinere, costituita da teorie attendibili, educatori e, soprattutto, ragazzi del foyer, per comprendere, almeno in parte, il lavoro che sinora è stato svolto. Per merito di tale operazione ci s’interrogherà sulla funzionalità del determinato approccio e i margini di miglioramento e di crescita rispetto ai bisogni dei ragazzi e alla conseguente gestione del rischio e assunzione di responsabilità da parte degli operatori sociali. Il quadro descritto viene incorniciato nella domanda di tesi che segue.

“Quali sono le rappresentazioni del modello educativo non-punitivo e non-espulsivo utilizzato al Foyer Calprino della Fondazione Amilcare da parte dei giovani collocati e degli educatori per quanto concerne l’assunzione di rischio dei ragazzi e le relative responsabilità degli educatori?”

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2. Contesto di tesi

“Saper accettare un altro «così come è» è veramente un atto d’affetto e d’amore; il sentirsi accettati significa sentirsi amati. E in psicologia abbiamo soltanto iniziato a capire il potere enorme del sentirsi amati: può influire nella crescita della mente e del corpo, ed è probabilmente la forza terapeutica più efficace che si conosca per poter riparare sia i danni psicologici che fisici.” (Gordon, 1991, p. 70). La suddetta citazione vuole introdurre il relativo capitolo, in quanto portatrice di un significato profondo nella relazione con l’altro. Dalla stessa, infatti, emerge un elemento fondamentale del lavoro educativo: l’accettazione, intesa quale gesto d’amore e di presenza. Un concetto portante all’interno del modello in vigore nel contesto sul quale poggia la seguente ricerca. È doveroso, perciò, in un primo momento, fornire una descrizione della cornice lavorativa ove è stato svolto il percorso di redazione della tesi: il foyer Calprino della Fondazione Amilcare. Quattordici anni dopo l’introduzione della Legge per la protezione della maternità, dell’infanzia, della fanciullezza e dell’adolescenza e un anno dopo l’entrata in vigore della stessa, la quale oggi prende il nome Legge per le famiglie, nascono gli arbori della Fondazione Amilcare. La medesima è, attualmente, rappresentata sul territorio da tre Centri Educativi Minorili (CEM) - foyer Calprino, foyer Verbanella, foyer Vignola - l’équipe ADOC, il progetto occupazionale AdoMani e il centro diurno SpazioAdo. Le finalità della Fondazione Amilcare si concentrano sul soggetto protagonista di ogni progetto, ovvero l’adolescente. Essa “intende svolgere attività di prevenzione, di protezione, di educazione, e di recupero di quella fascia di minorenni che, per motivi diversi, si trovano in un momento di difficoltà nel loro sviluppo e che talvolta non possono più vivere nel loro nucleo famigliare di appartenenza. Lo scopo principale è quindi quello di portare questi ragazzi allo sviluppo della propria personalità, anche in una dimensione spirituale, al riconoscimento ed alla scoperta dell’unicità del proprio essere e dei propri valori, alla capacità di vivere e convivere nella realtà sociale della nostra epoca.” (“Linee direttive Fondazione Amilcare”, p. 2). La nozione sulla quale si aggancia maggiormente Amilcare è la fiducia. Questa parola, conosciuta da chiunque padroneggi la lingua italiana, talvolta vede l’emergere di difficoltà nell’attuazione pratica. Il nuovo concetto di foyer, della non-espulsione e non-punizione1 proposto dalla Fondazione, mette in evidenza l’ascolto e l’accettazione incondizionata dell’adolescente e definisce che il primo passo per creare una relazione di fiducia è mettersi a disposizione del giovane. Tale concezione definisce, dunque, i binari da seguire al fine di generare fiducia reciproca tra ragazzi e operatori e, inoltre, si scopre essere in sinergia con le parole di Thomas Gordon citate alle radici di codesto capitolo, ove l’accettazione, oltre ad avere una funzione d’affetto, assume un valore terapeutico per le persone cui essa è rivolta. Il modello proposto riconosce, in aggiunta, il giovane in maniera olistica per rispondere nel modo più funzionale a ogni tipo di dubbio, richiesta, bisogno o interesse. Il collocamento avviene attraverso la segnalazione e la relativa stesura del Progetto Educativo da parte di una delle strutture principali nel campo minorile e familiare: l’Autorità Regionale di Protezione (ARP), il Magistrato Minorile e il Servizio Medico Psicologico (SMP).

                                                                                                               1 Gli esordi del nuovo modello sono stati applicati nel corso dell’anno 2016. A fine 2017 è stato dichiarato nelle Linee Direttive della Fondazione Amilcare che tutte le strutture applicavano la non-punizione e non-espulsione.

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A decidere, di seguito, la struttura collocante è la Commissione di Esame per gli Affidi presso Terzi (CEAT). Nello specifico, la struttura ad accogliere la ricerca di tesi è il Foyer Calprino. L’abitazione presa in considerazione si trova a Massagno e ospita attualmente, al suo interno e negli appartamenti messi a disposizione, nove adolescenti, di sesso sia femminile, sia maschile, che variano dai quindici ai diciannove anni. I giovani collocati nel foyer sono persone che hanno storie diverse fra loro, accomunate, però, da una fragilità determinata sia dal ciclo di vita che stanno vivendo, sia dai rapporti, sovente non funzionali, conseguiti nella propria vita, in special modo con persone significative appartenenti alla famiglia dalla quale sono stati momentaneamente allontanati. Le figure facenti parte della rete, indirizzate dalle finalità del lavoro educativo2, aiutano, sostengono e coinvolgono la persona, la quale diventa protagonista del proprio progetto individualizzato, donandole le basi necessarie per costruire una prospettiva futura fruttuosa. Concretamente, nella quotidianità del foyer Calprino, il giovane viene seguito e accompagnato in maniera costante e continua dalla coppia educativa, la quale permette al ragazzo, attraverso un approccio concertativo con progettazione dialogico partecipata3, di appoggiarsi sia alla figura femminile, sia a quella maschile a dipendenza della circostanza. Con i professionisti citati il protagonista del progetto effettua almeno un colloquio settimanale, all’interno del quale si genera uno spazio di dialogo atto a verificare l’avanzamento del progetto personale, con annessi desideri, dubbi, preoccupazioni, bisogni e proposte. Nella maggior parte dei casi del foyer Calprino, è presente una situazione temporanea, di lunga o breve durata, di tensione all’interno della famiglia, pertanto la Fondazione Amilcare lavora attraverso il modello sistemico sul fronte familiare, attraverso consulenze familiari e progetti che comprendono tutte le persone significative del giovane. Il motivo principale di questa modalità lavorativa è la consapevolezza che operando e comprendendo in maniera sistemica le fitte reti relazionali, si possa considerare la persona nella sua totalità.

                                                                                                               2 “Qualità di vita e salute, intese benessere psichico, fisico, sociale e spirituale; l’empowerment e l’autonomia, l’autodeterminazione, l’autoefficacia, l’autostima e la creatività; processi di integrazione, inclusione e partecipazione sociale; sviluppo della giustizia sociale, del rispetto dell’ambiente e dei contesti di vita.” (Maida, 2017a, slide 9). 3 Il processo di progettazione, nell’approccio concertativo o partecipativo, è “(...) costellato di decisioni che ne orientano il corso successivo e che sono anch’esse frutto di processi di negoziazione condotti tra i diversi attori implicati in funzione della loro posizione nell’organizzazione.” (Pozzobon, 1994, p. 14, cit. in Leone & Prezza, 2003, p. 42).

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3. Revisione della letteratura

3.1 Il ciclo di vita dell’adolescenza

Il termine adolescenza può essere scisso in varie definizioni, secondo la concezione generale e prendendo in considerazione la descrizione attribuita da un dizionario attendibile e universalmente riconosciuto, essa viene rappresentata nel “(...) periodo della vita umana, compreso tra i dodici e i diciotto anni circa, in cui si attua il passaggio dalla fanciullezza all’età adulta e si compie la maturazione sessuale (...)” (Garzanti, 2010, p. 46). Ritengo questa delineazione chiara e utile, ma è importante affermare che, in ottica di lavoro sociale, non è abbastanza approfondita e diventa indispensabile scavare più a fondo nel termine, in quanto l’adolescenza è una fase della vita estremante complessa, ricca di eventi di crescita e di conflitti interni ed esterni. Un momento nel quale il giovane si ritrova a dover gestire molteplici cambiamenti, che siano essi legati al corpo, alla mente o alla vita sociale. “Nel corso di questo processo destabilizzante e ristrutturante, sono tipiche delle oscillazioni dell’umore imprevedibili e incontrollabili. L’adolescente oscilla dall’esaltazione alla depressione (...); da un’iperespansione narcisistica (...), all’odio per se stesso ed alla disperazione (...).” (Tyson P. & Tyson, R. L., 1995, p. 406). Il minore vive, dunque, “controllato” da una sorta di bilancia, ondeggiando tra molteplici poli opposti e antinomie. In questo continuo movimento, tra un sentimento e l’altro, tra il bianco e il nero, si genera un caos interiore, difficile da controllare; il ragazzo, dunque, necessita di basi solide e capacità personali per far fronte alle frustrazioni. Quanto appena esplicato, porta la persona a dover elaborare situazioni nuove utilizzando, oltre alle possibilità attuali, le risorse e le capacità di adattamento apprese nei cicli precedenti. Capacità strettamente dipendenti dalla relazione instaurata con le figure significative che hanno accompagnato il fanciullo in tutti i suoi anni di crescita. Concetto da tener ben presente nel lavoro a contatto con i ragazzi, perché il rischio di giudicare la persona quale “cattiva” incombe molto più di quanto si creda e, per l’adolescente, potrebbe diventare un’etichetta scomoda da far togliere dagli altri e, ancor di più, da se stesso. È necessario ricordare, a tal proposito, che qualunque adolescente sarà spinto dalla voglia di trasgredire e di ricercare il rischio, considerato che questi comportamenti sono spesso legati al raggiungimento di “(...) obiettivi di crescita, personalmente e socialmente ricchi di significato (...)” (Bonino, 2005, p. 12). Non esiste, per cui, una persona cattiva o brava, ma modi diversi, definiti dalle esperienze passate, di affrontare le sfide e le decisioni che la vita ci pone davanti. Bisogna imparare a porsi con i ragazzi come fece, per esempio, il Sacerdote Claudio Burgio, il quale rispose così a un ragazzo che aveva rubato nella comunità di accoglienza Kayrós: “Non mi stupisco di questo gesto sbagliato, fa parte della tua storia, di quello che fino ad oggi hai respirato e perciò ti accolgo in comunità con grande gioia; ci dobbiamo dare del tempo, però, perché ancora non ci conosciamo, non ci fidiamo l’uno dell’altro, dobbiamo imparare a rispettarci...” (Claudio Burgio, 2010, p. 33). Diventa, pertanto, essenziale considerare tutti gli aspetti teorici legati alla fascia d’età, onde evitare di valutare superficialmente un individuo e attuare una spirale nella quale la vittima, in questo caso il minore, non supportato dall’adulto, non rispecchi nei comportamenti la propria persona, ma ciò che gli altri credano lui sia. “I comportamenti a rischio insomma, per quanto pericolosi e disturbanti, non sono segno di un fallimento nel percorso di sviluppo

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adolescenziale, né di un disadattamento patologico, ma sono la risposta che alcuni adolescenti danno ai compiti di sviluppo caratteristici dell’età nell’attuale momento storico e culturale” (Bonino, 2005, p. 14). Nel caso specifico del foyer Calprino, l’adolescente, oltre a dover affrontare le sfide che il ciclo di vita pone, si ritrova, in aggiunta, una mancanza a livello di risorse acquisite nell’infanzia e nel periodo precedente l’adolescenza. Deve fare uno sforzo non indifferente per sopperire alla fragilità che determinate relazioni, familiari e non, hanno generato in lui. Basti pensare al percorso istituzionalizzato affrontato da molti giovani della struttura, una strada che li ha portati, fin da piccoli, a dover abbandonare persone e luoghi conosciuti per andare verso l’ignoto di un istituto, poi di un altro e infine, talvolta, di un altro ancora. Un paradosso che porta il minore fragile ad affrontare circostanze che necessitano risorse ben salde. L’adulto che effettua il percorso insieme al giovane deve, perciò, imparare e allenarsi a non fermarsi alla devianza esercitata. È necessario, invece, che comprenda quali sono i bisogni adolescenziali che hanno portato all’atteggiamento preso in considerazione, per camminare al fianco del minore; né davanti né dietro, ma insieme.

3.2 Il rischio nei giorni nostri

Nella società post-moderna si sentono, sovente, termini quali Società dell’incertezza e Società del rischio (Sibilio, 2013, p. 27). Tali denominazioni sono strettamente collegate alle condizioni di vita degli abitanti del mondo occidentale. L’aria che circonda la popolazione è impregnata d’incertezza generale e precarietà lavorativa e privata. “Una società che respinge la stabilità e la durata, preferisce l’apparenza alla sostanza dove il tempo si frammenta in episodi «non è più un fiume ma un insieme di pozzanghere» (Bauman 1999), dove la salute degrada a fitness e dove addirittura la massima espressione della libertà sembra essere lo zapping tra i canali satellitari disponibili. La vita stessa non ha più la solida pesantezza della materia ma l’insostenibile leggerezza dell’etere, delle comunicazioni immateriali e l’esperienza appare sempre più frammentata, fugace, iperreale, vissuta per proiezione nei modelli spettacolari che i media ci propongono.” (Sibilio, 2013, p. 28). Il progettare ha lasciato spazio all’immediato e i bisogni sono stati sostituiti dai desideri. Nel 1930 Paul Mazur della Lehman Brothers, nella rivista Harward Business Review, scrisse: "We must shift America from a needs- to a desires-culture. People must be trained to desire, to want new things, even before the old have been entirely consumed. [...] Man's desires must overshadow his needs"4 . Le parole di Mazur sono state una profezia dell’epoca post-moderna, nella quale le persone sono spinte ad agire con poca consapevolezza o riflessione, ove i media e la propaganda tendono a inibire le necessità e ad accentuare i desideri, un paese in cui scegliere il rischio alla stabilità rientra nei comportamenti ordinari. Fattore che genera un certo livello di preoccupazione se si pensa che la decisione di imboccare un sentiero pericoloso piuttosto che uno sicuro possa dipendere “(...) dal non conoscere con sicurezza le conseguenze e i difetti nascosti nelle pieghe del tempo, che implicano anche la possibilità di perdite, materiali e psicologiche.” (Matini, 1998, p. 12). Oltre all’inconsapevolezza che porta le persone a

                                                                                                               4 Trad. : « Dobbiamo cambiare l’America da essere una cultura dei bisogni, a una cultura dei desideri. Bisogna insegnare alla gente a volere cose nuove, anche prima che le cose vecchie siano consumate del tutto. I desideri dell’uomo devono mettere in ombra le sue necessità. ». Paul Mazur, Harward Business Review, 1927 citato da. Häring, N. & Douglas N. (2012). Economists and the Powerful: Convenient Theories, Distorted Facts, Ample Rewards. Anthem Press, London, New York, New Dehli.

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prendere decisioni colme di fattori di rischio, vi è anche un malessere generale il quale, in una parte dei casi, sfocia nel timore del futuro e della realtà circostante, con la possibile conseguenza di una ricerca maggiore del rischio al fine di evadere da quell’inquietudine. Un esempio palese è quello relativo al gioco d’azzardo. I giocatori non son più “uomini animati da conflitti nevrotici (...) quanto soggetti privati di desiderio. Il cui loro principale movente sembra quello di «entrare in una zona», in una bolla e restarne immersi (...).” (Croce, 2016, p. 7). È doveroso affermare, in conclusione, che, nella breve cornice descritta del contesto che ci ospita, non bisogna dimenticarsi di inserire gli interventi che negli anni si sono studiati al fine di prevenire l’assunzione del rischio. Qui s’inseriscono, per esempio, l’introduzione della Peer Education5, ovvero l’educazione tra pari, e le varie campagne di prevenzione del rischio e di promozione del benessere.

3.3 Il rischio in adolescenza

Come trattato in precedenza, la ricerca del rischio aumenta d’intensità e di frequenza nel ciclo di vita dell’adolescenza (Bonino, 2005, p. 12). A influenzare tale condizione entrano in gioco l’evoluzione in ambito cognitivo e il contesto d’appartenenza, attuale e passato, del giovane. Il rischio “(...) può pertanto assumere valenze costruttive, orientate alla progettualità personale, oppure può riflettere scelte basate solo sull’emozione che tali condotte possono provocare, con esiti principalmente distruttivi.” (Zani & Cicognani, 2006, p. 10). Onde evitare di trasformare il rischio da evolutivo e costruttivo a esagerato, inconsapevole e distruttivo, è necessario, perciò, analizzare il concetto preso in considerazione e riportarlo all’interno di una ricerca empirica che ne svisceri i vari significati e ne valuti di conseguenza la più funzionale presa a carico. Il rischio è la “(...) possibilità di subire un danno, una perdita, come eventualità generica o per il fatto di esporsi a un pericolo; il pericolo stesso al quale ci si espone o in cui ci si può imbattere (...)” (Garzanti, 2010, p. 2145). Partendo dalla definizione esposta si nota come il rischio possa essere determinato sia da variabili prevedibili, quali, per esempio, scelte personali, sia da situazioni che incombono senza possibilità di scelta. Di seguito si analizzeranno tali fattori, soprattutto i primi citati, in connessione con la fascia d’età in analisi: l’adolescenza.

3.3.1 Fattori cognitivi

L’articolo pubblicato nel 1998 in Animazione Sociale della psicologa Claudia Matini “Adolescenza e assunzione di rischi” apre la visione a quattro principali funzioni cognitive. Le stesse caratterizzano la fase dell’adolescenza e la relativa capacità di resistere o meno al mettersi in situazioni di pericolo. In primo luogo troviamo l’egocentrismo adolescenziale e l’illusione di vulnerabilità. In questa particolare fase della vita il giovane canalizza la maggior parte dei propri pensieri su lui medesimo. “L’adolescente scopre in questo periodo di poter riflettere sul proprio pensiero e diventa profondamente consapevole di se stesso. Questa acuta concentrazione su se stesso e la capacità di pensare al pensiero degli altri lo fanno arrivare alla conclusione che egli è al

                                                                                                               5 “Persone con un interesse comune vengono formate a sviluppare conoscenze e specializzazioni appropriate e a condividere queste conoscenze, in modo da informare e preparare altri e diffondere competenze e abilità simili all’interno dello stesso gruppo di interesse” (Svenson, 1998)

 

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centro dell’attenzione altrui come lo è della propria.” (Matini, 1998, p. 14). Il ragazzo, perciò, si preoccupa in maniera particolare del pensiero che terze persone gli attribuiscono e cerca in molteplici modi di apparire agli occhi degli altri esclusivo e originale. “Egli crea una favola personale secondo la quale la sua unicità lo pone al di sopra di ogni pericolo.” (Matini, 1998, p. 14). L’egocentrismo lo porta, inoltre, a percepire di avere il potere di superare qualsiasi limite che lo affligge, ingannando se stesso e convincendosi riguardo la propria invulnerabilità. Con la maturazione, le esperienze di vita a livello affettivo e sociale, il ragazzo esce dall’illusione creata avvicinandosi maggiormente alla realtà che lo circonda. “Il pubblico immaginario si modificherebbe sempre di più per avvicinarsi a quello reale e la favola personale svanirebbe grazie alla nuova consapevolezza di essere come gli altri, raggiunta mediante lo stabilirsi dell’intimità, cioè del contatto mutuo e della confidenza, con un'altra persona (Elkind, 1967).” (Matini, 1998, p. 14). Secondariamente nell’articolo viene citato il ragionamento possibilistico. Questa funzionalità è strettamente influenzata da “valori oggettivi” e “percezioni soggettive.” (Matini, 1998, p. 15). In alcuni casi è presente un ritardo nello sviluppo delle capacità logiche di potersi immaginare le conseguenze relative alle varie possibilità di scelta. In questo caso il giovane rappresenterà con difficoltà il futuro annesso a una determinata scelta, valutando in maniera disfunzionale vantaggi e svantaggi inerenti alle scelte che può prendere. “Se questa abilità è insufficiente o manca del tutto, il ragazzo valuterà solo gli aspetti immediatamente evidenti del suo problema e la decisione non sarà equilibrata dal punto di vista logico (Miller, 1989).” (Matini, 1998, p. 15). In aggiunta ai primi due fattori cognitivi esplicati vi è il ragionamento probabilistico. Il limite principale in adolescenza concernente a tale funzione è relativo al fatto che “considerano le probabilità di un evento come cumulative e non indipendenti, come di fatto sono.” (Matini, 1998, p. 15). Alla base di questo pensiero, in sintesi, vi è la convinzione che più raramente ci si metterà in pericolo, meno saranno le probabilità che la messa a rischio porti a una conseguenza negativa. La difficoltà di utilizzare la metacomunicazione come capacità di autoregolazione è il quarto elemento che emerge per quanto concerne la messa in pericolo degli adolescenti. “Con questo termine ci si riferisce sia alle conoscenze e alle convinzioni individuali circa la mente umana, sia alle strategie di autoregolazione mediante le quali teniamo sotto controllo la nostra attività”. (Matini, 1998, p. 15). Concretamente è, da un lato, la capacità di informarsi riguardo a un determinato rischio, quindi “(...) come attività di controllo della propria capacità cognitiva”. (Matini, 1998, p. 15). Dall’altro lato è l’esperienza di adattamento che si svolge al fine di “acquisire una maggior conoscenza di se stessi” (Matini, 1998, p. 16), pertanto è una “(...) attività di controllo e di adattamento delle proprie competenze cognitive e sociali (...).” (Matini, 1998, p. 16). In tal caso diventa necessario riuscire a distinguere i rischi che fanno parte dell’evoluzione e del bisogno di sperimentare ordinario, dalla dannosa ricerca estrema del pericolo.

3.3.2 Fattori sociali

Per quanto concerne i fattori sociali, gli attori principali che verranno analizzati sono la famiglia e il gruppo dei pari. La famiglia assume un ruolo fondamentale e determinante nella crescita dell’adolescente. Secondo la teoria dell’attaccamento di John Bowlby (1969) le interazioni che intercorrono, nei primi anni di vita, tra il bambino e la figura adulta di riferimento predispongono le basi attraverso le quali il primo soggetto citato costruirà un particolare stile di attaccamento e

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organizzerà rappresentazioni mentali relative a sé e agli altri. Grazia Attili nel libro “Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente” (2009) differenzia quattro tipologie differenti d’attaccamento. Quello sicuro, nel quale la figura di attaccamento è stata in grado di rispondere in maniera adeguata e attenta alle richieste del bambino con la conseguenza che crescendo, lo stesso, avrà una buona fiducia personale e negli altri e percepirà la realtà esterna come rassicurante. L’attaccamento insicuro-ambivalente, ove la figura di riferimento, caratterizzata dall’utilizzo di comportamenti insensibili e imprevedibili, tende ad ignorare le richieste del bambino. Quest’ultimo non potendo anticipare e controllare le reazioni dell’adulto preso in considerazione, crescerà con la sensazione di non essere sempre degno d’amore e con una bassa fiducia in se stesso; percepirà, inoltre, la realtà esterna quale pericolosa e gli altri come inaffidabili. In terzo luogo, rispettivamente, troviamo l’attaccamento insicuro-evitante. Nel caso citato, la figura d’attaccamento tenderà a evitare d’interagire con il bambino, lo stesso crescendo, dunque, avrà la percezione di non essere degno di essere amato e, vedendo gli altri come rifiutanti, tenderà ad avere fiducia solo in se stesso. L’ultima tipologia d’attaccamento si riferisce al disorganizzato. In questo caso il riferimento materno agisce in maniera maltrattante, abusante o psichiatrica. Il bambino, crescendo, percepirà la figura d’attaccamento quale bisognosa d’aiuto, che spaventa e che è spaventata. Valutando gli altri come persone minacciose, il soggetto avrà sovente delle reazioni aggressive e imprevedibili. Partendo dalle considerazioni teoriche proposte si nota come l’assenza di basi sicure e l’impossibilità di sviluppare determinate risorse sociali attraverso il primo canale di socializzazione possano, in alcuni casi, costituire un importante deficit anche nelle fasi successive all’infanzia. Un rischio tangibile, nel caso di un attaccamento diverso da quello sicuro, è di una difficoltà maggiore nel processo d’individuazione adolescenziale; con la possibile conseguenza di assunzione di comportamenti pericolosi e trasgressivi atti a differenziarsi in maniera più netta dalla figura d’attaccamento primaria. Per quanto concerne il ruolo della famiglia, infatti, “(...) è stato ripetutamente dimostrato come il grado di controllo e di sostegno famigliare (dimensioni di base dello stile educativo genitoriale, cfr. Maccoby e Martin, 1983), e il coinvolgimento dei genitori nell’educazione dei figli, sono associati alla maggiore o minore propensione dei giovani al rischio e alla devianza” (Cicognani, 2004, p. 11). La famiglia, nei confronti del giovane adolescente, deve perciò elaborare un nuovo equilibrio tra vicinanza, affettività e controllo e indipendenza del ragazzo (Matini, 1998, p.17). “La capacità di dosare in modo equilibrato libertà e restrizioni è necessaria per favorire la maturazione e il processo di responsabilizzazione del figlio” (Matini, 1998, p. 17). Durante un corso relativo i legami d’attaccamento tenuto da una consulente famigliare della Fondazione Amilcare, è stato dichiarato che nel caso specifico dei ragazzi collocati al foyer Calprino, spesso, i legami d’attaccamento con le figure primarie sono stati disfunzionali, maltrattanti, e non sicuri. In tal senso diventa fondamentale ricostruire le frammentazioni generate dalle carenze passate per creare basi più solide al fine di prevenire situazioni estreme di rischio e pericolo e poter, in seguito, progettare il futuro. Il mandato della Fondazione, come anticipato nei capitoli precedenti, comprende anche un lavoro raffinato con le famiglie. In tal senso l’obiettivo è quello di far riacquisire alle persone significative per il ragazzo il giusto valore, in modo da generare nelle relazioni famigliari una risorsa sulla quale il giovane potrà contare per la costruzione della propria autonomia e, quindi, del proprio futuro. Per quanto concerne il gruppo dei pari “(...) vi sono ricerche che hanno dimostrato un’associazione positiva fra sostegno sociale dei coetanei o amicizie intime reciproche e benessere psicologico (...)” (Cicognani, 2004, p. 12). Gli amici in adolescenza rappresentano

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uno dei canali sociali più importanti. Attraverso gli stessi il giovane ha la possibilità di assumere un ruolo differente rispetto a quello che ha avuto all’interno della famiglia sino a quel momento. In aggiunta, attraverso il confronto con i pari, il giovane inizia la sua emancipazione dai genitori e da’ avvio a uno dei processi fondanti del ciclo di vita preso in considerazione, quello concernente l’autonomia e l’individuazione personale. Bisogna, però, tener conto, nel quadro specifico, l’influenza del gruppo sul singolo, la quale può assumere una connotazione di crescita oppure, all’estremo opposto, di distruttività. “In diverse ricerche si è rivelato come l’influenza dei pari sia collegata all’attuazione di comportamenti a rischio da parte dell’adolescente (...)” (Matini, 1998, p. 17). È stato dimostrato, inoltre, che “Il tempo crescente trascorso con gli amici, in particolare se non impegnato in attività strutturate, è risultato associato a comportamenti a rischio per la salute (sigarette, alcolici, sostanze) (Bonino et al., 2003) e devianti.” (Cicognani, 2004, p. 12). A tal proposito diventa necessario considerare alcuni elementi che entrano in gioco nell’aspetto relativo l’influenza intra gruppale in adolescenza. Troviamo, infatti, il bisogno del giovane di guadagnare l’approvazione dei pari, talvolta anche attraverso l’attuazione di comportamenti pericolosi. Avviene, perciò, una sorta di processo di modellamento, ove il giovane osserva, apprende e ripropone i comportamenti messi in atto più frequentemente nel gruppo (Matini, 1998, p. 17). La ripetizione di tali condotte le fa apparire, agli occhi dei soggetti presi in considerazione, ordinarie e “(...) la percezione del comportamento a rischio come “normale” nell’ambito del gruppo (convinzione che sia condiviso fra i coetanei) costituisce un fattore predittivo dell’assunzione di rischio, così come le pressioni percepite dal gruppo” (Cicognani, 2004, p. 12). Uno dei fattori più preoccupanti riferito a quanto esplicato è che nel “(...) gruppo l’egocentrismo adolescenziale e l’illusione di invulnerabilità possono trovare conferme pericolose, essendo condivise da altre persone (Arnett, 1992a, p. 355)” (Matini, 1998, p. 17).

3.3.3 Altre teorie

Vi sono, inoltre, molte altre teorie applicabili su ogni fascia d’età, che spiegano in parte la decisione d’intraprendere una strada rischiosa piuttosto che quella più sicura. Nel suddetto capitolo ne verranno trattate due delle più emergenti. In primo luogo si approfondirà la teoria della dissonanza cognitiva elaborata da Leon Festinger nel 1957. All’interno dell’articolo di Mauro Croce “Il caso del gioco d’azzardo: una droga che non esiste, dei danni che esistono” (2001), la teoria viene approfondita legandola a un rischio molto presente ai giorni nostri, il gioco d’azzardo. L’autore afferma che “(...) è necessaria una coerenza (una consonanza) tra il dato cognitivo ed il dato mentale. Se il giocatore non riesce ad interrompere o regolare la propria attività e ne osserva i danni che questa comporta, si trova in una situazione di dissonanza cognitiva che crea una situazione di disagio e necessita di trovare modalità per eliminare tale disagio. Ciò può avvenire in due modi o attraverso la modificazione del comportamento (smettere o riuscire a limitare il gioco) oppure attraverso una modificazione cognitiva trovando delle giustificazioni, delle motivazioni, delle negazioni che permettano di continuare a pensare che il giocare non è poi così dannoso ovvero che potrebbe essere ancora più dannoso l’interrompere il gioco oppure ancora che non ne può fare a meno (perchè malato, infelice, debole, etc).” (Croce, 2001, pp. 14-15). Tale spiegazione può essere traslata ad ognuno dei rischi nei quali incorrono i giovani nel contesto storico attuale. Un esempio può essere riferito all’utilizzo del profilattico. I ragazzi sono ben informati sull’importanza che tale prevenzione assume nell’evitare di

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contrarre malattie sessualmente trasmissibili oppure nell’incorrere in una gravidanza indesiderata. Essi sono coscienti del fatto che si stanno assumendo un grosso rischio non utilizzando l’anticoncezionale e giustificano la propria azione annullando il rischio con frasi quali “queste cose non esistono”, “non accadrà mai a me”, “se c’è amore e fiducia non può succedere”, eccetera. La dissonanza cognitiva ci spiega che un determinato rischio verrà percepito di minor gravità attraverso la formulazione di una convinzione, non reale, che permetta di generare un equilibrio coerente tra comportamento e conseguenze negative che lo stesso può portare. La seconda teoria atta a spiegare, in parte, la presa di decisioni rischiose è la Teoria della reattanza psicologica elaborata da Jack Brehm nel 1966. “Quando ci viene tolta la possibilità di avere una certa cosa, la desideriamo di più, ma difficilmente ci rendiamo conto che è la risposta alla limitazione che ci viene imposta a causare questo aumento del desiderio: tutto quello che sappiamo è che vogliamo quella cosa. Tuttavia, abbiamo il bisogno di giustificare questo nostro desiderio e così cominiciamo ad attribuire qualità positive alla cosa desiderata.” (Milani & Croce, 2017, Slide 39). Partendo dalla definizione di tale teoria, i limiti e le leggi imposte possono generare nelle persone il contrario di quanto auspicato. Per questo motivo diviene importante considerare quest’aspetto nella gestione del rischio di adolescenti e in generale della popolazione, onde evitare che le limitazioni imposte invece che fungere da modello, divengano un confine da infrangere.

3.4 Stili educativi nella gestione del rischio

Per quanto concerne la dimensione del controllo rispetto agli stili relazionali dell’operatore sociale, Franta Herbert, nel testo del 2004 “Atteggiamenti dell'educatore: teoria e training per la prassi educativa”, distingue tre diverse categorie: atteggiamenti di tipo autoritario, atteggiamenti di tipo antiautoritario o permissivo e atteggiamenti di tipo autorevole. La prima classe citata contraddistingue un professionista che si posiziona a un livello di superiorità e, di conseguenza, distante relazionalmente dall’interlocutore. L’educatore è, inoltre, estremamente ligio e rigido rispetto a quelle che sono le regole istituzionali. Il non rispetto di una delle suddette porterebbe, nella maggior parte dei frangenti, la conseguenza di una sanzione o punizione. L’operatore antiautoritario o permissivo si posiziona alla pari dell’utente in questione, in tal senso elude specifiche responsabilità che gli spetterebbero. Il professionista si sottrae, in aggiunta, al conflitto con l’altro e si preoccupa che la persona con la quale lavora non incorra in frustrazioni di ogni genere e intensità. L’atteggiamento di tipo autorevole comprende relazioni caratterizzate da rispetto reciproco e definizione chiara e coerente dei ruoli in gioco. Il professionista che opera in quest’ottica, deve maestrarsi nell’oscillazione tra un polo e quello opposto, tra le cosiddette antinomie, in modo da formulare la risposta più adeguata alla situazione che gli si presenta dinnanzi. Per svolgere tale compito al meglio i suoi strumenti principali di lavoro sono l’osservazione, la dialogicità e la compartecipazione dell’altro. Nei giorni nostri, sempre più sovente, si sente parlare di un’educazione prevalente al permissivismo. “Si denuncia l’aumento dei comportamenti «difficili» e aggressivi, mentre si segnala lo speculare triste declino della autorevole capacità di contenerli (...)” (Cappello, 2004, p.66). Secondo l’autore preso in considerazione in questo estratto la causa dell’aumento di tale problematica si può riportare al fenomeno definito dallo stesso come l’atto di “liberare le emozioni” (Cappello, 2004, p. 67). Con il trascorrere degli anni uno dei

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cambiamenti principali avvenuti a livello educativo è relativo al fornire al giovane tutti gli strumenti necessari al fine di esprimere in piena libertà le proprie emozioni. Tale prospettiva ha permesso alle nuove generazioni maggiori probabilità di crescere acquisendo una buona autostima e autoderminazione; d’altro canto, però, è venuta a diminuire l’inibizione rispetto all’esprimere senza filtri le proprie emozioni, anche negative, nei confronti degli altri e dinnanzi agli altri. Il significato di libertà è, dunque, passato dall’avere “(...) piena facoltà di fare o non fare una cosa.” (Garzanti, 1998, cit. in Cappello, 2004, p. 68), al “(...) superare ogni forma di costrizione e di controllo, manifestare liberamente ciò che ognuno prova nel suo privato spazio emotivo, senza rendere conto a nessuno, a nessuna autorità che non sia la propria.” (Cappello, 2004, p. 68). Nel contesto odierno, perciò, operare con atteggiamento autoritario si rivela inefficace, in quanto l’interlocutore non darà importanza a nessuna autorità al di fuori di se stesso e risponderà, molto probabilmente, in maniera aggressiva (Cappello, 2004, pp. 72-73). La strategia in tal senso più efficace si rivela l’autorevolezza. “L’autorevolezza non impone un potere sull’altro (...), ma al contrario insegna a condividere il potere. L’autorevolezza coniuga quei due elementi che non possono sopravvivere né soli né isolati: la libertà e la giustizia.” (Cappello, 2004, p. 73). Prima d’imporre una regola, inoltre, come anticipato agli esordi di questo capitolo, sarà necessario instaurare, nel determinato caso con l’adolescente, una relazione affettiva e di fiducia. “Solamente ora, nel clima e nel contenimento della relazione affettiva, può prendere corpo la possibilità del controllo (...).” (Cappello, 2004, p. 69). Un altro punto di vista in merito, congruente in certi aspetti con quello appena analizzato, è quello di Thomas Gordon. Nel libro del 2001 “Né con le buone né con le cattive” ci rende attenti al fatto che “nella nostra società, i giovani infelici, carichi di risentimento e di rabbia, ribelli, e vendicativi non hanno avuto troppa libertà: al contrario, hanno avuto troppo controllo, troppa disciplina, troppe sofferenze e privazioni” (Gordon, 2001, p. 144). Oltre a quanto esposto aggiunge che neanche i soggetti “(...) che hanno genitori e insegnanti permissivi si sentono tanto bene: possono sviluppare sensi di colpa per il modo in cui trattano gli altri; spesso non si sentono amati (...) e spesso hanno problemi a formare amicizie (...).” (Gordon, 2001, p. 144). L’autore enuncia, dunque, la disfunzionalità sia dell’autoritarismo, sia del permissivismo e conferma il bisogno di trovare una strada alternativa a queste due estremità; l’autorevolezza, secondo le teorie riportate nella suddetta ricerca, sembra, pertanto, essere la via più efficace.

3.5 La gestione del rischio al foyer Calprino

Nel quadro teorico di riferimento della Fondazione assumono un’importanza rilevante il testo “Éduquer sans punir” di Roland Coenen e il metodo Gordon. La prima letteratura spiega dettagliatamente un fenomeno caratteristico degli adolescenti, soprattutto di quelli la cui vita non è stata sempre benevola. Il giovane in analisi pur avendo la consapevolezza della necessità di aiuto, non è in grado di formulare la domanda. I motivi sono riscontrabili nella spinta, della fascia d’età specifica, a volersi staccare ed essere autonomi dalla figura adulta; il timore di ritornare bambino agli occhi della persona adulta lo porta a velare la richiesta d’aiuto. Se l’operatore sociale non è in grado di cogliere tale comportamento sottile, il pericolo di creare danni irreversibili è alle porte. Partendo da questi principi, la riformulazione del progetto educativo della struttura vede come protagonisti l’educazione non-punitiva e la non-espulsione. Il metodo Gordon si rivela complementare e in sintonia con il pensiero di Coenen, tale approccio fornisce all’operatore delle modalità specifiche atte a creare una

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relazione di fiducia e di ascolto con l’educando. Scopo di tali filosofie è produrre una relazione funzionale e profonda con l’educando che permetta di cogliere il bisogno di aiuto non esplicitamente espresso, con il fine maggiore di formare le basi per costruire una struttura solida nella gestione delle responsabilità della maggiore età. Nei capitoli a seguire si sviscereranno tali concetti, cosicché si possa ottenere una visione più completa della specifica presa a carico.

3.5.1 Il metodo di Thomas Gordon

In America, a partire dalla fine degli anni ‘50, emersero nuove e innovative scuole di pensiero che ponevano al centro della propria filosofia l’individuo, le sue conoscenze e la sua storia. Nel 1961 fu fondata la prima associazione incentrata sulla psicologia umanistica6: American Association for Humanistic Psychology7. I maggiori esponenti di tale concezione furono Abraham Maslow, Carl Rogers e Rollo May. Il fulcro della teoria è che la persona in grado di trovare soluzioni per il soddisfacimento di un determinato bisogno è l’attore stesso, riconquistandosi il ruolo assunto in passato dall’operatore, e non più il professionista, in quanto il primo soggetto citato conosce meglio la propria situazione. In tal senso l’operatore assume il ruolo di facilitatore nel raggiungimento dell’obiettivo indicato, promuovendo, dunque, l’empowerment8 dell’interlocutore. Thomas Gordon, allievo di Rogers, sviluppò in maniera più approfondita tali concetti andando a formulare il metodo Gordon. Due degli elementi principali che lo psicologo in questione riprese e rielaborò furono la piramide dei bisogni di Maslow9, punto cardinale della sua idea, e le abilità relazionali e comunicative che il professionista deve apprendere, nel caso specifico in un contesto traslato da quello terapeutico di Rogers a quello educativo. All’interno di un contesto distinto, il qui ed ora della psicologia umanistica10, Gordon sviluppa nuovi significati che il termine bisogno può assumere. “Gordon, seguendo il pensiero di Maslow e rifacendosi a questa schematizzazione, ritiene che qualsiasi comportamento, sia da pensare come uno sforzo per soddisfare attraverso l’azione un bisogno. Quindi un comportamento non deve essere giudicato come buono o cattivo, ma solo come il modo che una persona ha trovato in un determinato momento per soddisfare un particolare bisogno.” (Frigerio, 2012, p. 73).                                                                                                                6 Anche detta Terza forza. “Secondo la terminologia introdotta da Maslow, la psicologia umanistica era la terza forza che andava a contrastare le due forze preesistenti: - la prima forza, cioè il comportamentismo, che sistematicamente escludeva il dato soggettivo della coscienza, la complessità e il divenire della personalità, in quanto inaccessibili allo studio scientifico inteso come analisi di dati quantificabili del comportamento. - la seconda forza, cioè la psicoanalisi, che riteneva il comportamento umano determinato essenzialmente dall’inconscio escludendo l’apporto dei valori, della creatività, della capacità di ogni individuo di guidare il proprio percorso di sviluppo personale.” (Frigerio, 2012, p. 15) 7 “(...) cominciarono a riunirsi per fondare un’associazione professionale che partisse da punti di vista più “umani”, puntando l’attenzione su temi quali: la valorizzazione e il rispetto della persona nella sua libertà, responsabilità e storicità, l’espressione - qui ed ora - dei sentimenti, l’autocoscienza, l’autodeterminazione, la spontaneità, il divenire, l’individualità, la creatività. Quale risultato nel 1961 fu fondata la American Association for Humanistic Psychology.” (Frigerio, 2012, p. 15). 8 “L’empowerment è un processo sociale, culturale, psicologico o politico attraverso il quale gli individui e i gruppi sociali sono in grado di esprimere i propri bisogni e le proprie preoccupazioni, individuare le strategie per essere coinvolti nel processo decisionale e intraprendere azioni di carattere politico, sociale e culturale che consentano loro di soddisfare tali bisogni. Attraverso questo processo gli individui riescono a percepire una più stretta corrispondenza tra i propri obiettivi di vita e il modo in cui raggiungerli, ma anche una correlazione tra gli sforzi compiuti e i risultati ottenuti.” (Maida, 2017b, Slide 8). 9 La piramide dei bisogni di Maslow è composta da cinque settori di gruppi di bisogni, ove per passare a un livello superiore di bisogni è necessario che quelli inferiori siano soddisfatti. I livelli sono: 1.Bisogno fisiologico 2.Bisogno di sicurezza 3.Bisogno di appartenenza 4.Bisogno di stima 5.Bisogno di autorealizzazione. (Maslow, 1954). 10 Si lavora sul presente: sulla relazione e comunicazione attuale, sui sentimenti percepiti e manifestati.

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Partendo da questo pensiero si trae una deduzione importante: parlare di un comportamento cattivo non è funzionale e costruttivo quanto parlare di comportamento disturbante per se stesso o per gli altri. Secondo le ricerche di Gordon “(...) disturbante è una valutazione personale di chi subisce l’azione e non ha niente a che vedere con chi l’agisce, persona che in quel momento non è magari consapevole degli effetti che sta inducendo nell’altro.” (Frigerio, 2012, p. 75). La soluzione più comune a un comportamento ritenuto cattivo è la punizione, un comportamento disturbante necessita, però, di ben altre modalità di affrontarlo e risolverlo. L’ostacolo principale, a livello comunicativo e relazionale, è il non essere in grado di riconoscere quando un determinato comportamento di qualcun altro intacca la propria integrità. La conseguenza più comune è che il fastidio, che l’azione altrui provoca internamente, conduce ad ascoltare inconsapevolmente se stessi e non l’altro, che in questo frangente è l’educando, e richiedergli, dunque, di eliminare l’azione stessa. La problematica è relativa al fatto che, così facendo, non si comprende qual è il bisogno che la persona sta cercando di soddisfare attraverso questo comportamento. La mancanza educativa, in tal senso, si riscontra nel fatto che non si è facilitato e supportato il soggetto nella ricerca di una soluzione più adatta al soddisfacimento del bisogno mancante. Una modalità che Gordon trova per far fronte a tale dinamica relazionale è l’ascolto attivo (Gordon, 1991, p. 73-74), il quale racchiude al suo interno determinate abilità e qualità, identificate da Gordon, che il professionista che lo mette in pratica deve avere (congruenza11, trasparenza12, indipendenza13, accettazione positiva e incondizionata14, empatia15, processo di cambiamento16). L’ascolto attivo permette al giovane di “(...) prendere coscienza dei propri sentimenti (...)” (Gordon, 2014, p. 41) e gli agevola “(...) il processo autonomo di soluzione dei problemi.” (Gordon, 2014, p. 41). Questa tecnica permette all’educatore di andare oltre al giudizio e alle emozioni che la persona gli trasmette, e gli consente di comprenderla in molte delle sue sfaccettature. L’ascolto attivo è un complemento al non intervento e all’ascolto passivo (Gordon, 1991, p. 76-77), vi è, infatti, l’aggiunta di feed-back i quali, attraverso la riformulazione di quanto è stato detto, rimandano all’interlocutore ascolto, accettazione e comprensione e gli danno la possibilità di capire se quanto ha riferito all’educatore è stato colto a pieno. “I passi dell’ascolto attivo possono essere sintetizzati come segue. L’educatore:

I. Osserva e ascolta II. Fa un’ipotesi

III. Comunica la sua impressione

                                                                                                               11 “(...) è la capacità di riconoscere, chiamandolo per nome, qualunque sentimento, emozione, bisogno si stia provando. La congruenza è percepita dall’altro come rassicurante e la persona congruente come degna di fiducia e affidabile.” (Frigerio, 2012, p. 92). 12 “(...) comunicazione senza ambiguità della persona che l’educatore è.” (Frigerio, 2012, p. 92). 13 “(...) consapevolezza di essere abbastanza forte come persona da restare indipendente e distinto da coloro che si desidera aiutare.” (Frigerio, 2012, p. 93). 14 “(...) è il paradosso di constatare che le persone accettate così come sono, desiderano svilupparsi, crescere e cambiare per essere al meglio di ciò che sono in grado, per mettere in atto tutte le proprie potenzialità.” (Frigerio, 2012, p. 93). 15 “(...) la capacità di entrare nell’universo dei sentimenti e delle concezioni dell’altro, vedendole dal suo stesso punto di vista.” (Frigerio, 2012, p. 94). 16 “(...) la capacità di guardare all’altro come ad un essere in sviluppo con modalità uniche e originali, diverse e indipendenti da quelle dell’educatore.” (Frigerio, 2012, p. 94).

 

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IV. L’altro conferma (ed eventualmente approfondisce) o corregge.” (Frigerio, 2012, p. 98).

I passaggi andranno ripetuti sino al momento in cui entrambi dichiarano un’equivalente comprensione della situazione. Tale operazione permette all’interlocutore, oltre a sentirsi accettato e capito, di analizzare più approfonditamente il problema, andando lui stesso, come anticipato, a formulare probabili ipotesi di soluzione dello stesso. Per quanto concerne l’adolescenza, ad assumere un evidente valore nell’apprendimento è l’esperienza; un ragazzo immagazzinerà più informazioni da un evento che ha vissuto in prima persona, piuttosto che da un insegnamento che gli è stato dato. Nel caso specifico l’ascolto attivo si pone anche come generatore di esperienza, ove il giovane, in prima persona, parla e ragiona rispetto alla propria situazione trovando delle soluzioni plausibili. Una conversazione di questo stampo risulterà, dunque, più efficace e duratura rispetto a un’altra nella quale il ragazzo interagisce passivamente alle riflessioni e soluzioni macchinate dall’operatore sociale (Gordon, 1991, p. 7).

3.5.2 L’educazione non-punitiva e non-espulsiva di Roland Coenen

Roland Coenen è uno dei pionieri sui quali la Fondazione Amilcare costituisce le proprie basi. Egli formulò la teoria dell’educazione non-punitiva e non-espulsiva, sviluppando la sua idea di antropologia dell’adolescenza, partendo sia dall’esperienza ottenuta in dieci anni di lavoro nel ruolo di Direttore all’interno della Tamaris17, sia attraverso la rielaborazione della teoria dell’evoluzione di Charles Darwin. All’interno del pensiero dell’illustre biologo Darwin, viene toccato il tema dell’adattamento: in ogni fase della vita l’essere umano trova delle strategie, al fine di adattarsi al contesto storico e sociale del quale prende parte. Ogni individuo, specialmente nella fase adolescenziale, ha il bisogno innato di vedere riflessa un’immagine gratificante di sé. Nell’adolescenza s’innesca una spinta interna, determinata dal senso di competitività, che porta la persona alla necessità di sentirsi parte integrante della società. Avviene una divisione in gruppi sociali distinti da caratteristiche varie (tipologia di musica ascoltata, interessi sportivi, appartenenza culturale, moda, eccetera); una sorta di selezione sociale e sessuale. La società giovanile si divide in due parti: la prima composta da coloro che sono riusciti a mettere in atto strategie funzionali al fine di adattarsi, acquisire valore e vedersi appartenere a un gruppo di soggetti e la seconda che racchiude al suo interno ragazzi che, per svariati motivi, come, per esempio, evidenti carenze affettive e di socializzazione, mettono in atto strategie di adattamento disfunzionali e talvolta pericolose. In questa categoria rientrano i giovani che incorrono in rischi inconsapevoli e distruttivi (abuso di sostanze illegali, scippo, violenza, eccetera) (Coenen, 2001, p. 144). “En d’autres termes, parteciper à la compétition qui construit l’image de soi est une priorité absolute pour les adolescents, et ceux d’entre eux qui, pour des raisons de développement, des raisons familiales ou des raisons psychologiques, n’entrent pas dans les jeux olympiques de l’adolescence, qui ne parviennent pas à marquer des points gratifiants, sont toujours des adolescents en difficulté, souvent des adolescents dépressifs, qui ne parviennent pas à s’aimer, et qui développent des stratégies d’adaptation compensatoires déficitaires, c’est-à-

                                                                                                               17 Clinica per adolescenti difficili a Bruxelles che vede quali punti cardinali, nell’operato educativo, la non-punizione e la non-espulsione. Hanno svolto una ricerca-azione sul modello dichiarato che è durata dal 1990 al 2000.

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dire des symptômes somatiques, psychologiques ou sociaux18.” (Coenen, 2004, p. 50). Al fine di far fronte alla problematica esposta, l’educatore assume un ruolo primario, quello di sostenere e aiutare il ragazzo nel recupero delle basi narcisistiche necessarie per creare in lui un’immagine di sé gratificante. In tal senso, l’operatore sociale deve impegnarsi a non cedere alla squalifica o alla stigmatizzatizzazione del giovane, considerando il comportamento distruttivo quale riflesso della sua personalità che inevitabilimente verrà giudicata cattiva, bensì ha il compito di accogliere, accettare e comprendere i comportamenti specifici come un tentativo del ragazzo di entrare in un gruppo sociale e sentirsi parte della società, per poi, in un secondo tempo, mostrargli nuove e più funzionali strategie di adattamento. Evidenziando tali considerazioni, Coenen giunge alla conclusione che sostituire la punizione con il dialogo e la relazione sia funzionale nel lavoro insieme ai ragazzi considerati difficili; sviluppa, dunque, l’educazione non-punitiva. Gli adolescenti si trovano in difficoltà nel confronto con la società odierna, sovente incorrono in quella che Coenen identifica come “le syndrome de fermeture”19 (Coenen, 2004, p. 70). Come verrà approfondito più avanti, tali individui faticano maggiormente rispetto ai loro coetanei a esprimere la domanda di richiesta d’aiuto all’adulto. Per questo motivo Coenen indentifica un limite concreto nel modello classico della pedagogia del contratto: “(...) toute aide qui repose sur un contrat négocié au départ est vouée à l’échec, pour la simple raison qu’elle crée un paradoxe impossible à dépasser: celui d’exiger au départ de la relation d’aide cela même qui doit en découler, c’est-à-dire des processus mentaux qui permettent à la demande d’émerger. La pédagogie du contrat porte donc l’inconvénient majeur d’inverser la conséquence et le préalable, ce qui, de toute évidence, est un non-sens logique.”20 (Coenen, 2004, p. 80). Una soluzione che l’autore individua concerne la non-dimissione. Come la teoria dichiara, molti giovani che vengono esclusi dai gruppi di selezione sociale e sessuale incorrono in comportamenti distruttivi quali meccanismi di difesa contro la selezione sociale. Questi giovani, ritenuti appunto difficili o in difficoltà, una volta allontanati dalla famiglia, faticano ad adempiere ai limiti e alle regole degli istituti per minori e per tale motivo, nel corso della loro storia, hanno avuto un percorso educativo frammentato. “La raison majoritairement invoquée est «le risque de mettre en danger l’équilibre même de l’équipe et du projet pédagogique». (...) On parle de l’enfant «boomerang» ou de l’adolescent «nomade» (...).”21 (Van Leuven, 2002, p. 16, cit. in Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 100). Sulla linea di questo pensiero Coenen ritiene che le continue frammentazioni nel percorso di vita di un giovane sono da considerare un maltrattamento istituzionale e, inoltre, dimettere un ragazzo a causa dei motivi per i quali è stato ammesso è incoerente rispetto agli obiettivi di un progetto pedagogico (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 101). La qualità e la durata del tempo della relazione educatore-ragazzo e la continuità, fungono, perciò, da

                                                                                                               18 Traduzione: “In altri termini, partecipare alla concorrenza che costruisce l'immagine di sé è una priorità assoluta per gli adolescenti e per quelli che, per motivi di sviluppo, per motivi familiari o psicologici, non entrano nei giochi olimpici dell'adolescenza, che non riescono a guadagnare punti gratificanti, sono sempre adolescenti in difficoltà, spesso adolescenti depressi, che non si amano e che sviluppano strategie d’adattamento compensatorie deficitarie, ovvero dei sintomi somatici, psicologici o sociali.” 19 Traduzione: “La sindrome della chiusura”. 20 Traduzione: “(...) qualsiasi aiuto basato su un contratto negoziato all’inizio è destinato a fallire, per la semplice ragione che crea un paradosso impossibile da superare: quello di richiedere all’inizio della relazione di aiuto ciò che deve seguire, cioè dei processi mentali che consentono alla domanda di emergere. La pedagogia del contratto ha quindi il principale svantaggio di invertire le conseguenze e il prerequisito, che, ovviamente, non ha senso logico.” 21 Traduzione: “La ragione più spesso invocata è «il rischio di mettere in pericolo l’equilibrio stesso dell’équipe e del progetto pedagogico». (...) Si parla del bambino «boomerang» o dell’adolescente «nomade» (...).”

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elementi fondamentali nel lavoro educativo; di seguito un breve esempio dell’importanza del non abbandono, tratto dall’esperienza vissuta al Tamaris, che rafforza tale tesi.

“Marc, cet ancien jeune du Tamaris, nous raconte avoir traversé une période difficile pendant laquelle il était entraîné par une bande de copains à commettre des cambriolages. C’est au cours d’un de ces vols que Marc s’est arrêté en se souvenant de son éducateur référent et en se demandant ce que celui-ci penserait de la situation. Pour lui, la durée de la relation avec son éducateur référent a permis d’intérioriser une expérience émotionnelle corrective pour résister à la répétition des passages à l’acte.”22 (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 107).

La non dimissione e la continuità relazionale rappresentano, quindi, un fattore di protezione e di sicurezza per il giovane collocato. Diviene, però, di fondamentale importanza, nella cornice descritta, che l’educatore svolga un attento lavoro critico e costruttivo rispetto a se stesso e alle proprie rappresentazioni per permettergli di operare in flessibilità nel qui ed ora: “(...) avoir une réflection active (...) ne jamais mentir sur ses sentiments.”23 (Coenen, 2001, p. 140). Questo per evitare di “(...) réagir dans l’émotion de l’istant et donc à répondre par l’agi nous aussi.”24 (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 102). Oltre alla difficoltà da parte dell’educatore di traslare le proprie emozioni da limiti a risorse, bisogna tener conto di un altro ostacolo citato in precedenza: la difficoltà dell’adolescente a formulare una domanda di aiuto all’adulto. In primo luogo, a portare al meccanismo di chiusura, giocano un ruolo importante i fattori fisiologici di crescita. Nella fase dell’adolescenza, i ragazzi hanno il bisogno di sentirsi autonomi dagli adulti. Chiedere aiuto a un adulto, nonostante l’evidente bisogno, è segno di fragilità e interrompe l’illusione d’indipendenza (Coenen, 2001, p. 137). La richiesta d’aiuto è più difficile da formulare da parte di un adolescente “(...) parce qu’elle est antagoniste du besoin impérieux de prouver sa force et sa capacité d’autonomie. En raison de cette nécessité à être, la demande d’aide est souvent vécue comme une étape contradictoire, infériorisante et blessante.”25 (Coenen, 2001, p. 137). Un secondo motivo, che porta alla chiusura del ragazzo, dipende dalla sua esperienza passata con il mondo degli adulti. “La fermeture de l’adolescent est donc, avant tout, une défense à l’éncontre d’une relation destructrice avec un adulte.”26 (Coenen, 2001, p. 143). Egli, dopo una serie di delusioni da parte degli adulti, non ha più fiducia in loro, non crede che possano seriamente aiutarlo nel suo processo di crescita. Per far fronte a tale lacuna l’educatore deve essere in grado di fornire al giovane delle esperienze positive, dimostrandogli che tra gli adulti non vi sono solo persone maltrattanti e portatrici di delusioni, ma anche coloro che possono fungere da sostegno e aiuto per lui. Il minore con sindrome di chiusura ha, quindi, evidenti carenze in due aspetti sociali e mentali “(...) l’estime de soi, et la confiance en l’autre.”27 (Coenen, 2001, p. 141). Il rischio maggiore in cui s’incorre quando questi due aspetti sono, per vari motivi,

                                                                                                               22 Traduzione: “Marc, un giovane lungodegente del Tamaris, ci ha raccontato di aver attraversato un periodo difficile durante il quale è stato addestrato da una banda di amici per commettere furti. Fu durante uno di questi furti che Marc si fermò ricordando il suo educatore di riferimento e si chiese cosa avrebbe pensato lui della situazione. Per lui, la durata della relazione con il suo educatore di riferimento ha permesso di interiorizzare un’esperienza emotiva correttiva per resistere alla ripetizione dell’atto.” 23 Traduzione: “(...) avere una riflessione attiva (...) mai mentire riguardo ai propri sentimenti.” 24 Traduzione: “(...) reagire nell’emozione del momento e dunque di rispondere anche noi attraverso l’agito.” 25 Traduzione: “(...) perché è antagonista del bisogno imperioso di provare la propria forza e la propria capacità di autonomia. A causa di questo bisogno, la richiesta d’aiuto è spesso vissuta come un passo contradditorio, inferiore e doloroso.” 26 Traduzione: “La chiusura dell’adolescente è dunque, prima di tutto, una difesa contro una relazione distruttiva con un adulto.” 27 Traduzione: “(...) la stima di sé, e la fiducia nell’altro.”

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carenti è il dover soddisfare questa mancanza attraverso gratificazioni istantanee e di breve durata, caratterizzate da azioni rischiose. “Avant toute chose, il est nécessaire de comprendre que le syndrome de fermeture (...) représente une situation anxiogène et dépressogène. Face à cet accident grave de l’évolution, les symptômes sont le plus généralement l’expression d’un mécanisme de survie imparfait. En ce sens, les conduites compulsives ont pour fonction de libérer la tension interne et d’offrir une gratification passagère, hélas, non satisfaisante dans la durée (vol compulsif, consommation de drogues, d’alcool, hypersexualité, fugue...).28” (Coenen, 2001, p. 143). In questo caso, per diminuire le messe a rischio da parte del giovane, non è funzionale agire sui sintomi che accusa, attuando per esempio punizioni, bensì diventa necessario agire sulla causa principale: trovare strategie per fornire al soggetto delle esperienze positive al fine di aumentare l’autostima e la fiducia verso gli altri. L’educatore, inoltre, dovrà sfruttare al meglio le proprie capacità osservative per cogliere i possibili segnali d’allarme ed evitare, dunque, di negare o non voler affrontare il problema: “(...) nous refusons d’entendre le signal d’alarme, de voir le danger.”29 (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 111). È importante tenere conto della diversità nel comportamento abituale del ragazzo al fine di affrontare attraverso il dialogo il possibile disagio ed evitare che lo stesso si protragga nel tempo sino a una messa in pericolo distruttiva. Coenen, infine, all’interno dello scritto “Éduquer sans punir” (2004), formula la sua idea di sanzione. L’autore afferma che per quanto concerne le trasgressioni meno gravi alle regole, quali, per esempio, non rispettare l’orario di rientro oppure le regole di convivenza, l’approccio più funzionale sia quello del dialogo, discutere di quanto accaduto e trovare insieme delle soluzioni per evitare che si verifichi nuovamente. Riferendosi, d’altro canto, alle trasgressioni più gravi (partecipare a risse, consumo o spaccio di sostanze illegali, eccetera) il ruolo dell’educatore è quello di mediare tra il ragazzo e le persone o servizi coinvolti, partecipando attivamente nel confronto tra il giovane e la società, consapevolizzandolo nell’assunzione delle proprie responsabilità e le annesse conseguenze (Coenen, 2004, p. 96). “Dans ce cas, notre position reste de confronter l’acteur aux lois de la société à laquelle il appartient, et le cas échéant, de signaler à la police le fait incriminé. La position de l’équipe est très simple à ce sujet: l’acte délinquant est un acte qui implique la société, et l’adolescent a dès lors une dette qu’il doit régler absolument.”30 (Coenen, 2004, p. 96).

                                                                                                               28 Traduzione: “Prima di tutto, è necessario comprendere che la sindrome di chiusura (...) rappresenta una situazione ansiogena e depressiva. Di fronte a questa grave carenza dell’evoluzione, i sintomi sono generalmente l’espressione di un meccanismo di sopravvivenza imperfetto. In questo senso, le condotte compulsive hanno la funzione di liberare la tensione interna e offrire una gratificazione passeggera, purtroppo, insoddisfacente nella durata (scippo compulsivo, consumo di droghe, di alcol, ipersessualità, fuga...).” 29 Traduzione: “(...) noi rifiutiamo di cogliere i segnali d’allarme, di vedere il pericolo.” 30 Traduzione: “In questi casi, la nostra posizione rimane quella di confrontare l’attore con le leggi della società a cui appartiene e, se necessario, di riferire alla polizia il fatto incriminato. La posizione dell’équipe è molto semplice su questo argomento: l’atto delinquente è un atto che coinvolge la società, e l’adolescente ha quindi un debito che deve assolutamente regolare.”

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4. Quadro metodologico

4.1 Obiettivi della ricerca di tesi

Per quanto concerne la definizione degli obiettivi d’indagine si è deciso di scomporre la domanda di tesi in tre fasi di ricerca. In primo luogo, si è realizzato un apporto teorico e contestuale che potesse approfondire e analizzare i concetti predisposti al fine di costruire l’interrogativo di tesi. In tal senso, all’interno della letteratura sono stati definiti i termini principali: la fase dell’adolescenza; il rischio in ottica sia generale, sia specifica in connessione al ciclo di vita; la dimensione di controllo; i concetti base del modello Amilcare. Lo scopo principale di tale fase è quello di coinvolgere il lettore fornendo nozioni atte alla costruzione di un significato comune della questione. Per merito dalla creazione della cornice entro la quale l’indagine si sviluppa, si provvederà a far emergere, all’interno del capitolo a seguire riguardante risultati e analisi, tre temi principali, nonché fulcro del distinto documento. Si cercherà di evidenziare le rappesentazioni dei giovani collocati al foyer Calprino in ambito di presa di rischio, congiungendo e connettendo tali vissuti al modello vigente nella struttura. Ci si occuperà di confrontare le storie dei ragazzi con quelle degli educatori operanti nell’organismo in analisi; apportando, inoltre, il punto di vista degli ultimi attori citati rispetto al carico di responsabilità assunto nella gestione di comportamenti a rischio. In terzo luogo si ipotizzeranno i punti di forza e le criticità del modello non-punitivo e non-espulsivo in relazione all’assunzione di comportamenti pericolosi in adolescenza, eseguendo un’attenta analisi che coniughi riferimenti teorici e rappresentazioni dichiarate da adolescenti e operatori sociali. All’interno della terza fase della ricerca, la quale si svilupperà nel capitolo conclusivo, si riassumeranno i concetti principali contenuti in ogni tappa del suddetto percorso; andando, inoltre, a porre un accento rispetto a possibili prospettive future al fine di aumentare la funzionalità nella presa a carico descritta. Tale fase si rivelerà fondamentale, in quanto non si prospetta di fornire delle risposte certe, bensì ha lo scopo d’introdurre e aprire nuove diramazioni e riflessioni verso possibili sviluppi della ricerca di tesi. In concreto gli obiettivi di tesi sono:

1. Ricercare riferimenti teorici concernenti i concetti base della domanda di ricerca (adolescenza, rischio, dimensione di controllo, fondamenti cardine della Fondazione Amilcare).

2. Comprendere le rappresentazioni che gli adolescenti del foyer Calprino hanno riguardo al modello non-punitivo e non-espulsivo; soprattutto riguardanti la presa a carico degli stessi in situazioni a rischio.

3. Comprendere le rappresentazioni degli educatori del Calprino riguardo il modello non-punitivo e non-espulsivo; soprattutto in realzione all’assunzione di responsabilità rispetto ai comportamenti a rischio dei giovani collocati.

4. In relazione a quanto emerso analizzare in itinere criticità e punti di forza del modello non-punitivo e non-espulsivo, per quanto concerne la presa a carico dei ragazzi in situazioni a rischio.

5. Ricercare, in relazione a quanto emerso, prospettive future concernenti il modello non-punitivo e non-espulsivo utilizzato nella struttura, per quanto riguarda la presa a carico dei ragazzi in situazioni a rischio.

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4.2 Metodologia di ricerca

L’elaborato di ricerca esposto nello specifico documento si dirama principalmente su due distinti canali di ricerca. Il primo, sviluppatosi nei capitoli antecedenti, è relativo alla ricerca puramente teorica. In tale sezione, attraverso una revisione narrativa31, si è cercato di fornire al lettore un ampio ventaglio delle teorie sociali che supportano e, in parte, forniscono delle plausibili risposte alla domanda di tesi dichiarata nel primo capitolo. La teoria è stata selezionata in un primo momento attingendo ad autori e testi che rappresentano le basi della filosofia presente in Fondazione Amilcare, quali, per esempio, Roland Coenen e Thomas Gordon. Si è svolta, successivamente, una ricerca più a largo spettro con lo scopo di fornire più punti di vista inerenti il tema. Le principali parole chiavi che hanno funto da fil rouge nell’indagine sono state: rischio, adolescenza, limiti, regole, non punizione, non espulsione, atteggiamenti educativi, ascolto attivo, accoglienza, trasparenza. Il mero materiale didattico, però, risulta incompleto se non arricchito con un complemento empirico. La direzione che si vuole proporre nei successivi paragrafi è relativa alla ricerca pratica ed esperienziale attuata nel front-line educativo con i principali attori presi in analisi: i ragazzi e gli educatori del foyer Calprino. L’analisi empirica avverrà, in prevalenza, dando voce alle persone citate attraverso un’analisi interpretativa fenomenologica32 che si avvale, nel caso specifico, degli strumenti dell’intervista semi-strutturata e di alcuni diari redatti durante un periodo di pratica professionale effettuato nella struttura. Essendo una ricerca qualitativa che indaga le rappresentazioni delle persone annesse al contesto di tesi, si è ritenuto più efficace proporre il metodo delle interviste semi-strutturate, al fine di permettere all’intervistato una manovra più ampia e personalizzata rispetto alle risposte fornite e agli argomenti specifici da approfondire. “L’intervista in profondità prende sul serio l’idea secondo cui sono le persone direttamente intervistate a conoscere meglio di ogni altro le loro esperienze e sono in grado meglio di ogni altro di riportare come si sono sentite in un particolare evento o circostanza. (Darling e Scott, 2002, p. 48)” (Carey, 2013, p. 135). I diari, inoltre, fungono da supplemento al fine di fornire al lettore una visione più ampia rispetto al capitolo inerente i risultati e l’analisi e alla situazione attuale al foyer Calprino. Tutte le interviste e i diari sono redatti in forma anonima, in primo luogo per tutelare educatori e ragazzi e, secondariamente, per consentire ai soggetti di esprimersi nella piena libertà e senza vincoli annessi alla privacy. Al fine di rispettare l’anonimato, i nomi dichiarati sono fittizi. Il target intervistato è rappresentato da giovani collocati, due femmine e due maschi, che variano dai sedici ai diciannove anni e dai relativi operatori sociali, un’educatrice e due educatori. L’analisi del materiale raccolto e le riflessioni correlate fungeranno da collante tra ricerca teorica e ricerca sul campo. La fase finale del lavoro sarà predisposta a ipotizzare, per mezzo dei dati raccolti, i passi successivi alla specifica ricerca di tesi. Si provvederà a incanalare il lettore verso possibili prospettive future al fine di analizzare più approfonditamente il modello in analisi e la gestione del rischio.

                                                                                                               31 “(...) è la modalità di analisi della letteratura utilizzata più comunemente nelle scienze umane e sociali. Consiste nella ricerca di materiale disponibile in fonti come riviste e libri oppure attraverso internet, ma senza seguire dei passaggi, una struttura o un insieme di procedure pianificati ed espliciti.” (Carey, 2013, p. 95). 32 “Trae origine soprattutto dalla psicologia e dalla sociologia e prende in considerazione le esperienze di vita più significative, partendo esplicitamente dalla prospettiva dei partecipanti.” (Carey, 2013, p. 70).

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5. Risultati e analisi

5.1 Comportamenti di adattamento disfunzionali

Al principio della relativa tesi è stato rilevato che l’incidenza di comportamenti a rischio inconsapevoli e distruttivi da parte dei giovani collocati al foyer Calprino è assai frequente. Coenen afferma che la messa in atto di tali agiti è correlata alla difficoltà che determinati ragazzi riscontrano nel trovare strategie funzionali all’adattamento alla società occidentale con la quale sono confrontati33. Attraverso le interviste effettuate ai protagonisti della ricerca empirica è stato possibile comprendere quali sono i rischi soventi in cui incorrono i ragazzi e, almeno in parte, le cause principali che generano tali sintomi. Sono stati intervistati quattro ragazzi (Francesca, Michela, Antonio e Giacomo) e tre educatori (Elisa, Giuseppe e Simone). “(...) per esempio siam tornate da Madrid io e **** (fa il nome di una ragazza del foyer) e volevamo subito tornare indietro e io mi sono mega depressa, era come un circolo vizioso che volevo andarci ma non ci riuscivo e alla fine non siamo riuscite a tornarci e sono caduta tipo in depressione. Io e lei ci siam tirate giù tipo ste cinquecento pastiglie e ci abbiamo bevuto su un sacco.” (intervista Francesca, p. 1) Francesca racconta una storia molto significativa, la quale si è conclusa con un’ingente assunzione di rischio: un comportamento atto a compensare un forte malessere che l’accompagnava da un determinato lasso di tempo. Analizzando approfonditamente tale storia emergono alcuni aspetti importanti. In primo luogo si capisce, prendendo quale base la teoria dell’adattamento di Darwin elaborata da Coenen34, che l’esperienza di Madrid, per la ragazza, ha assunto un significato profondo. Non si sa cosa esattamente abbia vissuto mentre era all’estero, ciò che, però, si può supporre è che in questo periodo lei abbia avuto modo d’investire positivamente su se stessa; è stata, dunque, un’esperienza che le ha permesso, per un breve momento, di sentirsi parte di un gruppo sociale e creare, di conseguenza, un’immagine gratificante di sé. Ritornata in Canton Ticino, Francesca ha faticato a riadattarsi alla solita vita, a sentirsi appartenente ai gruppi dei coetanei nella sua società d’origine e ha messo in atto una strategia d’adattamento disfunzionale e pericolosa per la sua incolumità. Dal racconto si percepisce che dall’inizio del malessere, al momento in cui ha assunto le pastiglie e abusato di alcol è passato un po’ di tempo. In questo intervallo, Francesca ha mostrato difficoltà a formulare la domanda d’aiuto agli adulti35, presumibilmente per i trascorsi non gratificanti con coloro che ha incontrato sino ad allora, e si è assunta appieno la responsabilità della sua sofferenza. Si può ipotizzare, rifacendosi ai concetti sinora approfonditi, che Francesca abbia inviato dei segnali d’allarme36 prima di passare all’agito specifico e, dunque, s’intravede nuovamente l’importanza dello strumento dell’osservazione nel lavoro educativo37. “L’osservazione, per un educatore professionale, è

                                                                                                               33 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 14. 34 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 14. 35 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 15.  36 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 17. 37 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 17.

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una funzione imprescindibile del proprio agire, una funzione che fonda e dà costantemente significato alle scelte operative” (Maida, Molteni & Nuzzo, 2009, p. 11). “La convivenza ti porta alcuni campanelli a suonare e quando si è attenti a questi segnali si cerca di affrontare questi discorsi, di chiedere al ragazzo cosa ne pensa di queste cose. (...) Direi così: attenzione ai segnali ed essere aperto a tutti i discorsi.” (intervista Elisa, p. 3). Elisa, un’educatrice del foyer Calprino, tocca anch’essa il tema dei segnali d’allarme. Lei aggiunge due particolari importanti. Utilizza, in primo luogo, il termine convivenza il quale porta inevitabilmente a pensare che Elisa, in questo caso, si riferisca a un periodo medio o lungo nel quale si ha la possibilità di conoscere il ragazzo e, conseguentemente, rilevare comportamenti non usuali da parte dello stesso. In questo senso la non-dimissione, con annessa la relativa continuità relazionale, sostenuta da Coenen38, potrebbe rivelarsi efficace al fine di avere una conoscenza più approfondita riguardo le abitudini delle persone con le quali l’educatore lavora. Secondariamente, la professionista invita gli operatori sociali a non rigettare i discorsi che i ragazzi portano. Capita, sovente, che i giovani presentino argomenti che possano riflettere nell’interlocutore imbarazzo, disagio, paura o una qualsiasi altra emozione che ha come reazione primaria il diniego; “(...) tematiche di violenza o aggressività suscitano comunque dei timori e delle paure che sono anche nostre (...).” (intervista Elisa, p. 4). È, però, proprio in tali occasioni che l’operatore deve essere attento a cogliere la richiesta d’aiuto nascosta nella profondità delle parole dell’adolescente perché, come sostiene Giuseppe, educatore del foyer Calprino, più i ragazzi ci portano racconti “(...) più un educatore può dare gli strumenti per limitare il più possibile questi rischi.” (intervista Giuseppe, p. 4). Rischi estremamente pericolosi come, per esempio, quello che ha raccontato Giacomo: “(...) ho derubato i tossici del parco Ciani.” (intervista Giacomo, p. 2), o l’assunzione di sostanze: “(...) mi capita di sentirmi a rischio o in pericolo quando magari mi innervosisco e piuttosto che parlarne, mi vien voglia di assumere sostanze.” (intervista Michela, p. 2). Rischi che possono portare a delle conseguenze infauste. La domanda, a questo punto, sorge spontanea: perché prendono queste decisioni pericolose? La teoria ha mostrato delle sfaccettature del tema; talvolta sono i fattori sociali39 o quelli cognitivi40 a influenzare la presa di decisione, altre volte, invece, si fa capo a teorie più generali41, come per esempio la reattanza psicologica o la dissonanza cognitiva, altre ancora si parla di un fattore normale della fase adolescenziale che viene accentuato da storie di vita di maltrattamento42, oppure è l’amalgama di tutti questi elementi. A questo punto, cosa ne pensano i ragazzi: perché preferiscono le scelte più rischiose? “(...) perché intrigano. Con la scelta sicura sai che arrivi a quello e invece con una scelta che non è sicura puoi arrivare a quello che vuoi tu, lo decidi tu il tuo traguardo.” (intervista Francesca, p. 2) “(...) amo scegliere quelle più rischiose perché so che mi portano a qualcosa che non so. Se scelgo qualcosa di sicuro so com’è, so cos’è. Se è qualcosa di rischioso non so niente, quindi sono curioso e scelgo quella strada lì.” (intervista Antonio, p. 2)

                                                                                                               38 Riferimento al capitolo 3.5.2, pp. 15-16. 39 Riferimento al capitolo 3.3.2, pp. 7-9. 40 Riferimento al capitolo 3.3.1, pp. 6-7. 41 Riferimento al capitolo 3.3.3, pp. 9-10.  42 Riferimento al capitolo 3.1, pp. 4-5.

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È, forse, allora, il bisogno di scoprire il mondo a indirizzare i ragazzi verso il rischio. Scoprire che non sono gli altri a decidere per loro, ma che possono intraprendere strade in autonomia, diverse da quelle che il mondo adulto ha scelto per loro. In questo frangente, dalle citazioni delle interviste, emerge il senso di onnipotenza43, quale fattore che contraddistingue l’adolescenza. Francesca lo dice chiaramente: facendo la scelta più rischiosa ha il presentimento di poter arrivare a quello che vuole lei. I motivi esposti, però, non sono gli unici da prendere in considerazione. L’età in analisi, infatti, vede attribuita una grossa importanza all’apporto dato dal gruppo dei pari, sia in ottica di sviluppo funzionale, sia nella presa di rischio44. Nel prossimo capitolo vedremo soprattutto l’ultimo aspetto citato: Quanto è presente l’influenza dei coetanei nella presa di rischio?

5.2 L’influenza nella fragilità

Una dinamica che si è osservata frequentemente durante la pratica professionale effettuata al foyer Calprino è l’influenza tra pari. I ragazzi collocati, in molti casi, vivono una grande difficoltà nel connettersi con i vari canali della società circostante (ambito lavorativo o scolastico, gruppo di amici, famiglia, eccetera). Tale condizione porta loro a generare un nucleo di appartenenza all’interno del foyer o con amicizie che, come loro, trovano strategie disfunzionali al loro benessere al fine di sentirsi parte di un sistema. Una problematica presente in foyer è relativa al fatto che la maggior parte dei giovani abitanti si trova temporaneamente in un periodo di fragilità e, dunque, questa fragilità li porta a trovare sicurezza all’interno di agiti pericolosi. Si fomentano a vicenda nella conduzione di comportamenti a rischio. “Il foyer da parte mia è un posto, detto in parole chiave, «esecuzione dei fallimenti per giovani», è un posto per falliti tutto qua. Uno che viene qua non respira aria buona capisci. (...) Gli altri ragazzi coinvolgono gli altri ragazzi a far uso di droghe, a dire che è meglio non trovare lavoro. L’essere non protetti o protetti, hai in mente, mettiamo caso uno pulito viene qua fa amicizia con non so uno come **** (fa il nome di un ragazzo collocato in foyer), questo gli offre una canna e poi interviene con la cocaina e così via. (...) In appartamento non sa dove sei e niente. Frequenti gente normale ed è finita lì.” (intervista Giacomo, p. 1). “(...) non sto più uscendo con nessuno e non vedendo nessuno vivo praticamente solo in casa, quindi mi sento anche più tranquilla. (...) Cioè, prima mi sentivo a rischio anche a uscire di casa perché magari incontravo la persona sbagliata e mi mettevo a rischio.” (intervista Michela, p. 2). In entrambi i racconti viene dichiarato che l’influenza di determinate compagnie possa incrementare la presa di rischio. Giacomo suggerisce una proposta valida per far fronte alla problematica della suggestionabilità all’interno di un foyer ove, immancabilmente, si ha a che fare con pari che stanno vivendo un momento delicato della loro vita e di conseguenza, come analizzato nella teoria, sono più propensi all’assunzione di scelte rischiose45. Lo stesso propone l’appartamento. Una possibilità già presente, in maniera limitata, al foyer Calprino.

                                                                                                               43 Riferimento al capitolo 3.3.1, p. 7.  44 Riferimento al capitolo 3.3.2, p. 9. 45 Riferimento al capitolo 3.1, pp. 4-5.

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Giacomo non è l’unico ragazzo ad aver manifestato tale bisogno nel corso della pratica professionale durata 5 mesi, anzi, le richieste in tal senso sono state parecchie. Anche Roberto, ragazzo di diciasette anni, infatti, ha parlato della questione affermando che la convivenza con gli altri ragazzi e la relativa influenza in comportamenti devianti non gli permette di costruire al meglio il proprio progetto individuale. “Esso ha più volte affermato che, da quando vive in foyer, è condizionato dalla convivenza con gli altri. Un giorno dopo pranzo ha raccontato all’educatore in turno che si sente il ragazzo meno compromesso all’interno della struttura e, per lui, non è sempre facile non farsi condizionare dal malessere o dai comportamenti degli altri. Ha detto di non sentirsi sicuro nel vivere con gli altri perché più volte è capitato che venisse coinvolto nel consumo di sostanze stupefacenti oppure in comportamenti devianti di altro genere.” (allegato 11: diario 4). Quanto espresso dimostra un alto livello di consapevolezza tra i ragazzi degli ostacoli che si possono incontrare quando si è fomentati dal gruppo. Un ruolo fondamentale che l’educatore deve ricostruire in quest’ottica è quello di riconnettere il giovane al tessuto sociale. Permettergli di attuare esperienze di vita, varie, atte alla crescita. “L’apprendimento stesso diventa un processo autogestito; si sviluppa a partire dall’esperienza, ognuno apprende facendo; la riflessione e la concettualizzazione partono dai fatti e dai vissuti delle persone e ad essi continuamente ritornano.” (Gordon, 1991, p. 7). L’adolescente deve, dunque, avere la possibilità di sperimentarsi in diverse relazioni sociali, anche e soprattutto al di fuori delle mura del foyer, deve avere la possibilità di conoscere e inserirsi in più gruppi per avere uno spiraglio che gli permetta di apprendere anche strategie funzionali d’adattamento46. Giuseppe afferma che “(...) non impari a comportarti in un certo modo perché te l’ha detto qualcuno, ma perché hai avuto la possibilità di sperimentare. Spesso e volentieri tramite l’esperienza le cose rimangono dentro di più.” (intervista Giuseppe, p. 2). Michela, ragazza collocata al foyer da fine 2016, conferma quanto affermato dall’educatore Giuseppe: “(...) i primi mesi che ero in foyer mi mettevo spesso in pericolo, ma ho imparato dall’esperienze passate.” (intervista Michela, p. 2). Si è visto come le probabilità di cadere in condotte pericolose è molto alta quando sì è in una situazione di difficoltà e in un contesto che amplifica e influenza nella presa di decisioni rischiose. Come gestire, dunque, nella pratica professionale tali scelte di vita?

5.3 Il dialogo: un sostituto alla punizione

Uno dei modi per rispondere alla domanda che ha ultimato il capitolo precedente potrebbe essere un’applicazione adeguata, ponderata e consapevole di limiti e regole. All’interno dell’apporto teorico si è notato come, nella fase evolutiva dell’adolescenza, vi sia la necessità da parte del giovane di vedersi confrontato con dei limiti47. Il ragazzo ha la necessità di scontrarsi con l’adulto al fine di formulare lui stesso la sua moralità e di trovare l’indipendenza dall’adulto. Gianluca, un ragazzo di sedici anni, rientrato in foyer alterato dal consumo di marijuana, porta un esempio concreto di necessità di avere dei limiti. Chiede, infatti, all’educatore che gli aveva espresso il suo disappunto di riprenderlo. “Non mi sono dimenticato che all’inizio mi hai detto che mi avresti voluto fare un cazziatone, ora che sto meglio, me lo fai per favore?” (allegato 9: diario 2). Hanno bisogno di sentire che l’adulto si preoccupa per loro, che attraverso il limite gli mostra che ci tiene al loro benessere. Gli                                                                                                                46 Riferimento al capitolo 3.5.2, pp. 14-17. 47 Riferimento al capitolo 1, p. 1.

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adolescenti sentono il bisogno che gli adulti “(...) con un semplice «Ti fa male», impediscano loro di fumare e di bere, perché pensano che abbiano il compito di proteggere (...) dalle cose «cattive». (...) Queste preoccupazioni fanno sentire ai ragazzi che ci si prende cura di loro.” (Phillips, 2008, p. 145). “Quando sono arrivato qua mi sono accorto che servono più regole. È vero che è bello il fatto che ci sono molte meno regole, che ti lasciano libero, che hai i tuoi spazi e tutto, però boh dall’altra parte dovrebbero contenerti, darti un limite perché se non mi dai un limite io vado oltre, vado dove cazzo voglio io.” (intervista Antonio, p. 1). Antonio ci racconta il suo vissuto in merito. Afferma che nell’istituto in cui era collocato precedentemente c’erano “(...) troppe regole (...)”, gli educatori erano “(...) troppo rigidi” (intervista Antonio, p. 1) e sperava di trovare un luogo nel quale ci fossero meno regole. Una volta arrivato al Caplrino, però, si è accorto che avere meno limiti lo ha destabilizzato. In un momento informale Filippo, un ragazzo di sedici anni, “ha detto che in svariate occasioni ha percepito che gli educatori gli hanno dato troppa libertà, ha usato la metafora del muro dicendo che il fatto di non avere conseguenze concrete alle sue azioni lo portano a sfondare alcuni muri che è importante rimangano in piedi.” (allegato 8: diario 1). In tal senso viene automatico domandarsi quali siano i motivi principali che spingono Antonio e Filippo a portare le suddette riflessioni. È necessario dichiarare che, da quanto emerso dalle interviste degli educatori del foyer, la struttura non è esente totalmente da limiti e regole. “Le regole principali sono dettate dagli aspetti legali, ovvero dettami che troviamo anche in un contesto non protetto, nella quotidianità.” (intervista Simone, p. 1). “(...) abbiamo delle regole ben definite, sono delle regole di rispetto e di convivenza.” (Intervista Giuseppe, p. 2). “(...) anche se ci sono queste regole poi c’è la gestione del momento in sé, non è visto come «hai sbagliato» (...) è importante andare a vedere il perché e cosa pensa il ragazzo (...) è più una modalità di affrontare quello che accade giornalmente con un’ottica più di relazione, di curiosità, di interessamento verso l’altro (...).” (intervista Elisa, pp. 1-2). “I limiti e le regole sono comunque presenti nella nostra struttura ma vi è la possibilità di modellarli individualmente rendendo partecipe ogni ragazzo nella loro costruzione e assunzione” (intervista Simone, p. 1). “(...) per esempio, se becco qualcuno a fumare una canna in camera, a dipendenza del ragazzo che becco cambia anche il mio modo di comportarmi perché cambia la dinamica relazionale.” (intervista Giuseppe, p. 3).

La cornice indicata rispecchia notevolmente quella presente al Tamaris48, ove sono presenti sia regole di convivenza, le quali diventano malleabili in annessione al ragazzo e alla situazione, sia regole più rigide che rappresentano anche quanto il giovane più incontrare nella società in cui è radicato. In tal senso la problematica è relativa al fatto che, secondo quanto affermato da Antonio e Filippo, le regole di convivenza e i limiti dettati dalla legge sembrano non essere sufficienti. Un’ipotesi rispetto a questa visione potrebbe essere che, dal momento in cui non esistono sanzioni o punizioni in risposta a determinati comportamenti

                                                                                                               48 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 17.

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devianti, il ragazzo non ha nulla da perdere, forse, in quest’ottica il dialogo, la comprensione, la trasparenza e l’osservazione possono non essere sufficienti a rispondere ai bisogni reali dei giovani collocati. Un altro motivo lo tratta Simone, egli afferma che “La mancanza di conseguenze scomode quali le sanzioni interne può inibire la velocità nel modificare gli approcci disfunzionali dei ragazzi. Le tempistiche della rete a volte non sono sufficientemente rapide affinché il giovane associ l’azione compiuta alla reazione ottenuta.” (intervista Simone, p. 1). Non bisogna però dimenticare, nella riflessione, altri passaggi delle interviste ai ragazzi che rafforzano l’utilità della non-punizione. Il minore stesso, Antonio, dichiara che, probabilmente, per via dei suoi vissuti e delle modalità relazionali sperimentate nella maggior parte della sua vita, ha una paura tale delle conseguenze da mentire anche di fronte all’evidenza. “Mento su qualsiasi cosa, anche se magari non ce n’è bisogno in quel momento io lo faccio. Sempre. Perché ho sempre paura di dire la verità. Ho paura delle conseguenze della verità (...)” (intervista Antonio, p. 2). Filippo esprime un certo disagio nel vedere che gli educatori non hanno le stesse reazioni che il padre aveva nei suoi confronti. “Gli fa strano che ci siano degli adulti che gestiscano le situazioni in maniera totalmente differente, rispetto a come fanno i suoi genitori, riferendosi soprattutto al papà. Lui, quando viveva a casa, era abituato ad essere punito per i suoi errori, con anche delle sanzioni abbastanza severe. Non vede come in altri modi si possa ottenere qualcosa da un giovane come lui che fa fatica a rimanere in una cornice di regole.” (allegato 8: diario 1). Anche Michela parla delle risorse che un modello non-punitivo può avere.

“(...) mi sento molto più a mio agio a parlare con loro degli errori che commetto. Prima tenevo più nascoste le cose per il timore di essere punita (...).” (intervista Michela, p. 1). “(...) anche se magari facciamo degli errori che potrebbero essere punibili, gli educatori cercano sempre di darci un’altra possibilità. Non senza farci pagare le conseguenze; aiutandoci a capire che abbiamo sbagliato sì, però che si può sempre rimediare.” (intervista Michela, p. 1). Gli educatori del foyer Calprino hanno espresso il loro pensiero al riguardo. “Non utilizzando un modello espulsivo o punitivo ho notato che i ragazzi si raccontano e portano molte più informazioni rispetto alle mie esperienze passate. (...) La sanzione tuttavia è anche un elemento che inibisce la comunicazione trasparente (...). (...) altri approcci che contemplano le sanzioni e in casi estremi l’espulsione, credo favoriscono la chiusura relazionale.” (intervista Simone, pp. 1-2). “Io ti porto a rispettare la regola, non perché hai paura che se non lo fai succede qualcosa, ma perché tu stesso capisci che può essere una cosa estremamente funzionale. Il rispettare la regola non è un punto di partenza, ma l’obiettivo.” (intervista Giuseppe, p. 3). “Quando ho iniziato a lavorare qua c’erano più regole, più struttura e anche più sanzioni e sentivi un senso di controllare (...). Era, forse, un sistema per far funzionare le cose però più un’illusione che altro, perché i ragazzi facevano le stesse cose che fanno adesso solo che, probabilmente, ne sapevamo di meno.” (intervista Elisa, p. 2). Da quanto emerso, quindi, la non-punizione è uno strumento che facilita i ragazzi nell’espressione della domanda d’aiuto all’adulto. Sono talvolta abituati ad aver vissuto, nella

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maggior parte della loro vita, modalità relazionali meno comprensive e più lineari (azione-conseguenza), da ritrovarsi increduli di fronte a reazioni che comprendono il dialogo e l’ascolto, legato sovente al metodo Gordon, e non la sanzione. È emerso dalle interviste che, all’interno del modello del foyer Calprino, è presente l’approccio individualizzato. Gli educatori ne parlano in ottica positiva, affermano che la flessibilità nelle regole, in base al progetto del ragazzo, possa essere una risorsa importante per far emergere la domanda d’aiuto. Se pur identificato quale uno dei modelli più funzionali nel lavoro sociale, in quanto avvalora l’unicità della persona, dalle dichiarazioni dei ragazzi emerge, però, un grande senso d’ingiustizia annesso a come vengono messi in pratica gli interventi individualizzati. Si potrebbe supporre che i sentimenti più negativi rispetto al modello possano essere connessi, in parte, a questa modalità educativa. “(...) dovrebbero comportarsi ugualmente con tutti. Se commettiamo lo stesso errore non capisco perché uno viene punito in un modo e l’altro magari non è neanche punito.” (intervista Michela, p. 1). “Qua c’è gente che si fa di droga però in appartamento ci finisce, cosa che dovrei essere io eppure non ci sono. Mi dà fastidio l’ingiustizia nel trattamento.” (intervista Giacomo, p. 1) Il non sapere come l’educatore reagirà rispetto a un determinato comportamento potrebbe rivelarsi destabilizzante per il giovane, generare in lui confusione e senso d’ingiustizia. Quest’ingiustizia si potrebbe tradurre in un sentimento di rabbia e ribellione, portando il giovane a incorrere in soluzioni rischiose. Il progetto individualizzato, dunque, se non ben delineato ed esplicitato, rischia di divenire un’arma a doppio taglio nel lavoro educativo. Questo capitolo ha sintetizzato le rappresentazioni rispetto alla non-punizione e ai progetti individualizzati. Si è visto quanto siano i ragazzi stessi a essere consapevoli riguardo all’utilità che rappresentano i limiti nel delicato ciclo di vita che stanno vivendo e come uno strumento efficace, quale il progetto individualizzato, possa avere al suo interno degli ostacoli ben definiti da prendere in considerazione. Si è analizzata, inoltre, la non-punizione in relazione alla sindrome di chiusura e si è delineata l’importanza che la stessa può assumere, ovvero concedere al ragazzo la possibilità di aprirsi senza il timore delle conseguenze che le dichiarazioni possano generare. Di seguito si approfondirà la non-dimissione, concetto cardine della presa a carico all’interno del foyer Calprino.

5.4 Stare in relazione

Per quanto concerne la gestione dei giovani collocati rispetto alla presa di rischio, all’interno del contesto indicato, ci si avvale, oltre che al dialogo in sostituzione alla punizione, della non-espulsione e della continuità relazionale. In tal senso ci si giova delle teorie formulate principalmente da Roland Coenen, il quale tratta l’argomento della frammentazione istituzionale. Esso afferma che, come analizzato nella revisione teorica, l’espulsione rappresenta un maltrattamento istituzionale e non permette al ragazzo d’instaurare delle basi di fiducia funzionali con la figura adulta. Filippo “ha dichiarato che per lui è importante sapere che gli educatori ci sono e lo ascoltano. Ha aggiunto che, rispetto ad altri istituti nel quale è stato, si sente più accettato e sicuro di poter parlare di vari argomenti. Si sente sicuro che qualsiasi cosa farà non verrà abbandonato, come spesso accaduto in passato.” (allegato 8: diario 1). Non è l’unico a vederla in questo modo, anche un’altra ragazza collocata afferma:

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“Mi stan dietro, mi fan sentire al sicuro, so che ci sono. Non è che se una volta faccio una stronzata loro non ci sono più, loro ci sono comunque.” (intervista Francesca, p. 2). Da Francesca emerge il senso di sicurezza: sa che qualsiasi cosa farà ci sarà una figura adulta pronta ad aiutarla. Queste citazioni racchiudono al loro interno un significato molto profondo, soprattutto prendendo in considerazione che la maggior parte dei ragazzi collocati ha con la figura primaria di riferimento un attaccamento disorganizzato49. La continuità relazionale, dopo una vita di delusioni e abbandoni, ha permesso loro di consolidare delle relazioni funzionali e durature con gli educatori. In questo caso, la modalità presa in considerazione permette loro di appoggiarsi a degli adulti, di vedere che c’è qualcuno che non scompare da un giorno all’altro lasciandoli nella sua solitudine e nei loro errori. Creare una relazione di fiducia solida con la persona, con la quale lavora l’operatore sociale, è uno dei prerequisiti fondamentali nella relazione educativa. Come approfondito nella teoria, l’adolescente accetta la persona e la relazione che ha con la stessa e non tanto la regola50. In questo frangente, dunque, la non-dimissione permette al giovane di creare queste fondamenta sicure e, di conseguenza, di affidarsi all’educatore e rispettare i limiti che hanno costruito e discusso insieme. Le parole di Antonio rappresentano una testimonianza cardine a rafforzo della tesi indicata: “(...) mi sento molto al sicuro a sapere che qualsiasi cosa possa fare, qualsiasi cosa io faccia so che ci sono gli educatori dietro (...). Se penso che non c’è nessuno che mi aiuta devo ricordarmi sempre che ci sono gli educatori, che sono sempre lì nonostante io spesso non me lo ricordo. Se sono in foyer sono tranquillo, so che non potrei fare niente di grave e so che se voglio fare una cazzata, vedo gli educatori e non la faccio (...).” (intervista Antonio, p. 1). Tale dichiarazione, che ricorda in parte l’esperienza di Marc al Tamaris citata nella teoria51, è segno che la continuità relazionale permette ai ragazzi di vedere negli educatori un punto di riferimento. Fabrizio ci rende attenti del fatto che è proprio nel momento in cui i ragazzi si mettono a rischio in maniera estrema e toccano il fondo che la figura adulta deve dimostrargli di essere presente e non allontanarsi. Lui, infatti, ha iniziato a fidarsi degli educatori proprio nell’istante in cui ha notato che anche in uno dei momenti peggiori della sua vita gli stessi sono rimasti. “Il fatto di non essere stato abbandonato nel momento in cui era stato collocato alla Clinica, probabilmente, ha permesso al ragazzo di fare un’esperienza positiva con la figura adulta che sino a quel momento, per i vissuti che aveva immagazzinato negli anni, risultava essergli ostile e inaffidabile.” (allegato 10: diario 3). Anche Simone, educatore del foyer, tratta il tema in coerenza con quanto esposto. “Il fatto di non mollare mai i ragazzi permette di poter costruire e trovare delle soluzioni molto più facilmente. La relazione ci permette di lavorare sulle sfumature rimanendo importanti anche quando la sfiducia nel mondo è molto marcata.” (intervista Simone, p. 3). Un altro aspetto importante toccato nella teoria relativa alla non-espulsione è quello attinente all’incoerenza di dimettere un ragazzo a causa degli stessi motivi per il quale è stato ammesso. Giuseppe esplicita tale problematica andando ad approfondire i rischi che s’incorrono nell’abbandonare il giovane. “Negli anni passati e in tanti foyer ancora adesso ad un certo punto, quando i ragazzi non riescono a star dentro ad alcune dinamiche relazionali o alle regole eccetera, si arriva ad avere un’espulsione, quindi il ragazzo che era collocato per cercare di stare meglio in un                                                                                                                49 Riferimento al capitolo 3.3.2, p. 8. 50 Riferimento al capitolo 3.4, p. 11. 51 Riferimento al capitolo 3.5.2, p. 16.

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certo modo viene dimesso e di conseguenza non c’è più la possibilità di aiutarlo. Il problema di questa dimissione è che poi non ci sono altri servizi proposti per aiutare il ragazzo e questo rimane, non dico abbandonato a se stesso, ma quasi oppure rientra in famiglia con le dinamiche che c’erano già prima e la cosa normalmente va a diventare cronica e non ci sono dei passi avanti.” (intervista Giuseppe, p. 1). Se uno degli scopi, quindi, del servizio sociale è quello di prestare sostegno e aiuto alle persone che ne necessitano, perché espellere proprio quelle che più di tutti gli altri sono in difficoltà? È un controsenso che vede la sua risoluzione nella non-dimissione. Stare, però, in relazione in maniera continua e di lunga durata con ragazzi in una situazione di difficoltà non è sempre facile. La frustrazione, il senso d’impotenza e l’incertezza sono fenomeni che hanno una ricorrenza frequente nel lavoro educativo.

“Si parla di ragazzi in momenti acuti di sofferenza e di passaggio all’atto e in quel momento era proprio una di quelle situazioni dove era anche una delle prime volte in cui vedevo delle tematiche del genere, quindi ero anche già spiazzata da tutta la sofferenza, dal dolore e, poi, dal cosa si doveva fare. Poi i ragazzi in quei momenti non è che fanno un passaggio all’atto e poi si fermano, sono ripetuti e vanno anche in escalation ed è lì che, per esempio, non ti sembra di poter proteggere con solo le mura del foyer un ragazzo, perché alla fine è anche lui che deve scegliere di stare qua e scegliere di essere accompagnato o meno. Ti senti un po’ impotente solo nell’accoglierlo nel prestargli le cure necessarie che lui accetta e queste cose qua.” (intervista Elisa, p. 3).

È proprio qui, nel quotidiano lavoro educativo, che ci si rende conto che ci sono dei tasselli più sbiaditi. L’incertezza nel non sapere come proseguirà il lavoro, l’incertezza nel non sapere come gestire una determinata situazione, l’incertezza nella conoscenza dell’altro. “Dopo un lungo cercare, ci siamo rassegnati, la tessera non c’è. Ma forse non è un male... è possibile tollerare quello spazio vuoto che ci impedisce di mettere la parola fine (...). È importante concederci almeno una tessera d’incertezza e permettere alla persona con cui stiamo lavorando di mantenere una sua area, grande o piccola che sia, di riservatezza.” (Maida, Molteni & Nuzzo, 2009, p. 207). L’operatore, dunque, deve essere in grado di rimanere, anche quando questo tassello viene a mancare, anche quando la frustrazione e l’incertezza si mostrano prepotentemente. Si ha il bisogno, talvolta, di costatare che vi sono stati dei risultati concreti che fanno ipotizzare all’educatore che la strada intrapresa è quella funzionale al ragazzo. Nel prossimo capitolo verranno approfonditi proprio tali risultati, i successi attesi e ottenuti dal modello dagli esordi sino ad ora.

5.5 I risultati del modello non-punitivo non-espulsivo al foyer Calprino

Dalle interviste emerge che, inizialmente, vi era un po’ di sconforto a causa dell’incertezza rispetto al futuro e alla possibile funzionalità del modello. Il progetto del nuovo paradigma era agli arbori e talvolta l’équipe faticava a comprendere quale fosse la strada più funzionale da intraprendere in tal senso. “È all’inizio che non capisci dove stai andando, poi quando incominci a vedere e sentire la direzione è un’altra cosa.” (intervista Elisa, p. 4). Si è notato, con l’introduzione del modello non-punitivo e non-espulsivo che i risultati tangibili ci sono, ma arrivano dopo un lungo intervallo di tempo; “(...) delle volte, (...) ci diciamo che non abbiamo ancora avuto abbastanza risultati positivi o risultati concreti e tangibili rispetto ai percorsi che

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abbiamo iniziato con questo modello e quindi effettivamente ti chiedi se si va verso dei concreti risultati o meno. In questo momento cominciamo a vedere qualcosa, ma delle volte ti chiedi come mai nonostante il modello tot. ragazzi sono ancora nell’agito, sono ancora nella presa di rischio dopo tanto tempo (...).” (intervista Elisa, p. 1). Un’ipotesi che si può formulare a tal proposito è riferita al fatto che, con l’introduzione della non-punizione, si è visto che i ragazzi sono meno restii a raccontare le proprie vicende, anche quelle più rischiose. Partendo da questo dato si può pensare che in passato il risultato era più un’apparenza. Nello specifico i giovani, come riferito dalle interviste, avevano gli stessi agiti, ma ne parlavano meno. Avevano, inoltre, tutti un’occupazione, che variava da un percorso formativo a un’attività lavorativa, ma tale impiego era dettato dal fatto che rappresentava una clausola per poter stare nel foyer: i giovani, che per più di un determinato lasso di tempo non si attivavano per far fronte allo stato di disoccupati, dovevano abbandonare la struttura. In questo caso ci si domanda se tale fattore fosse determinato da una presa a carico più funzionale oppure dal fatto che gli adolescenti, non restando all’interno della cornice normativa, venissero dimessi. Con l’introduzione dell’approccio in analisi si è cercato di seguire il concetto della piramide dei bisogni di Maslow52. Sulla linea di quest’ottica il progetto di vita della persona presa a carico incomincia con la soddisfazione dei bisogni primari, livello alla base del benessere, sino a crescere agli stadi superiori. Prendendo come linea operativa tale teoria, prima di poter sviluppare le risorse necessarie per ottenere e mantenere con buoni risultati un’attività professionale o scolastica è necessario avere una concezione di sé, intesa come gratificazione nella propria persona, soddisfacente. Giuseppe dichiara che “(...)spesso e volentieri il fatto che poi si arriva all’obiettivo noi non lo vediamo, perché magari sul momento quello che poi ci torna indietro è l’esatto opposto e dopo cinque o dieci anni scopriamo che le cose in realtà passavano e però in quel momento non si manifestavano ancora.” (intervista Giuseppe, p. 2). Si è notato, dalle riflessioni elaborate da Michela, appartenente al gruppo di coloro che sono presenti dagli esordi del modello, che ha integrato il dialogo quale strategia alternativa a comportamenti più reattivi. “(...) sono cambiata un sacco, anche modo di pensare.” (intervista Michela, p. 2). La stessa afferma che quando si sente a rischio piuttosto che assumere sostanze o aggredire l’altro sa che “(...) si può risolvere la situazione anche in altri modi. Parlandone. (...) Ragiono molto di più prima di fare le cose. Per esempio, prima, se uno in strada m’insultava io partivo e non me ne fregava niente, lo insultavo e magari arrivavo anche alle mani; adesso piuttosto che arrivare alle mani sorrido e vado avanti per non mettermi in casini inutili.” (intervista Michela, p. 2). Attraverso questo racconto si comprende che i ragazzi assorbono i comportamenti degli educatori: Michela ha appreso l’importanza del dialogo. Durante i cinque mesi di pratica professionale all’interno del foyer, più volte si è notato che i giovani collocati facessero tesoro delle modalità utilizzate dagli educatori. È capitato più volte di sentire da parte loro frasi e ragionamenti che erano stati detti precedentemente agli stessi dalle figure educative. Gli operatori, valutando i risultati ottenuti dalle interviste, sono un esempio per i ragazzi. Questo fattore, ipoteticamente, potrebbe voler dire che la relazione educativa ha delle forti basi di fiducia e il ruolo educativo è di fondamentale importanza nel fornire all’interlocutore delle strategie di adattamento differenti da quelle disfunzionali apprese in passato.

                                                                                                               52 Riferimento al capitolo 3.5.1, p. 12-13.

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Un altro elemento importante da tenere in considerazione è che i ragazzi, pur continuando, la maggior parte di loro, a mettersi a rischio negli agiti, vedano nel foyer un punto di riferimento. Quando è stato chiesto chi sono le prime persone che contattano quando si sentono in pericolo i ragazzi hanno risposto come segue. “Principalmente il foyer perché so che c’è ventiquattro ore su ventiquattro.” (intervista Michela, p. 3). “Dipende da che pericolo. Il foyer lo prendo molto come punto di riferimento.” (intervista Francesca, p. 2). “Dipende sempre. Se c’è polizia sarà il foyer, se parte una rissa sarà un amico.” (intervista Giacomo, p. 2). “Mio fratello perché è il primo a capirmi. (...) Poi ovviamente dopo mio fratello ci sono gli educatori.” (intervista Antonio, p. 2). Tali risposte fanno pensare, concludendo, che, probabilmente, i ragazzi, chi più e chi meno, hanno una visione rispetto al foyer e agli educatori di protezione. Questa riflessione è di fondamentale importanza, in quanto, pur essendo ragazzi che per molti aspetti rientrano nei soggetti con sindrome di chiusura, hanno la forza di chiedere aiuto e appoggiarsi al foyer. “Adesso se dovessi sentire di essere in pericolo o stare per mettermi in pericolo, mi sentirei molto più sicura a parlarne.” (intervista Michela, p. 2).

5.6 La rete: una risorsa nel lavoro educativo con il giovane

Attraverso le riflessioni scaturite nelle interviste, si è rilevato un tema importante non menzionato nella revisione teorica, ma che assume un ruolo fondamentale nella pratica educativa: il lavoro di rete. Nel suddetto capitolo si analizzerà il lavoro di rete e le varie sfaccettature che lo stesso può assumere all’interno del lavoro educativo nel progetto di vita del ragazzo, andando ad arricchire le rappresentazioni degli intervistati con apporti scientifici. Nell’operato quotidiano, all’interno del foyer Calprino, assume un ruolo essenziale il lavoro di connessione, condivisione e complementarità con la rete. Tale intervento collega le varie persone significative che attorniano il giovane collocato. “(...) settimanalmente inviamo una e-mail d’aggiornamento a tutta la rete del ragazzo, quindi dal ragazzo stesso, alla famiglia, all’assistente sociale, direttore, vicedirettore, eccetera.” (intervista Giuseppe, p. 5). Una delle teorie che supporta il lavoro di rete s’identifica nel modello sistemico53. La Fondazione Amilcare, come esplicitato precedentemente, crede fermamente nella circolarità degli eventi: non è la persona, in questo caso l’adolescente, ad avere un problema e,

                                                                                                               53 “Secondo questa teoria ogni organismo è un sistema: una totalità composta di parti interagenti tra di loro e tendenti all’equilibrio. Tra le parti di un sistema esiste un rapporto circolare cosicché il cambiamento di una di queste provoca una modifica delle altre e, quindi, dell’intero sistema. Si tratta di una teoria che sottolinea come un fenomeno possa essere compreso solamente se affrontato nella sua globalità. La spiegazione scientifica ad un problema va dunque rintracciata nell’organizzazione: nell’interazione che si stabilisce tra le singole unità che lo costituiscono. Tutto ciò permette di passare dal vecchio metodo scientifico fondato su una causalità di tipo lineare, fatto di rapporti causa-effetto tra variabile indipendente e variabile dipendente, ad uno nuovo basato, invece, su una causalità di tipo circolare, fatto reciprocamente.” (Gambini, 2007, p. 29).

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dunque, dover essere curato, bensì vi è una disfunzionalità nelle dinamiche relazionali vigenti nel suo sistema di socializzazione e, nella maggior parte dei frangenti, all’interno del nucleo famigliare. “Cette démarche est toujours très riche car elle augmente la quantité d’information pertinente sur la situation de même qu’elle permet au jeune, et selon le cas à la famille, de vivre ou revivre un investissement relationnel parfois éteint, lointain, sinon rompu depuis plusieurs années. Cette exploration va permettre de lever les risques liés à une définition trop réductrice de la problématique et déstigmatiser le jeune en replaçant ses comportements, ses passages à l’acte, mais aussi sa souffrance, dans un processus dynamique en lien avec son contexte et son histoire familiale.”54 (Marquebreucq, Menegalli & Nyssens, 2010, p. 107). In tal senso, implicare persone significative nel progetto del minore, come, per esempio, la famiglia, acquisisce due funzioni importanti. La prima è relativa al fatto che, ascoltando e facendo tesoro dei significati attribuiti alla situazione per merito di persone con ruoli differenti da quello educativo, ci viene concesso di avere una visione maggiormente ampia e olistica della storia del giovane e di quanto stia passando. “Da soli, si arriva solo fino a un tot., ma quando invece ci sono altri attori coinvolti che magari hanno anche diverse esperienze o anche ruoli diversi, ti possono dare quell’apporto in più che solo un’Amilcare o solo un educatore o solo un capo équipe o un’équipe non possono riuscire a dare, ma perché più teste sono meglio di una.” (intervista Giuseppe, pp. 5-6). Il secondo valore sostanzioso è annesso alla possibilità di trasformare la famiglia da limite a risorsa. Coinvolgere, per esempio, una mamma, la quale ha avuto difficoltà ad adempiere al suo ruolo, nella vita del figlio significa attribuirle valore, toglierle lo stigma di figura materna inadeguata e spronarla a diventare protagonista attiva nella crescita del ragazzo. A tal proposito una conseguenza positiva che si potrebbe verificare è il riavvicinamento tra familiari e adolescente. “Établissement d’un travail familial qui vise à restaurer les relations. Cette optique pose le postulat d’une non-substitution des parents. C’est la qualité réparatrice de la relation parent-enfant, qui constitue l’objectif principal du travail.”55(Coenen, 2001, p. 138). Per il ragazzo stesso, sapere che ci sono delle persone che dialogano e occupano parte del loro tempo per prendersi cura della sua situazione, è fonte di sicurezza. “Gli adolescenti devono sapere, «sentire» che c’è una rete educativa – pensata e realizzata per loro – e che al suo interno c’è connessione, c’è dialogo, con valori e obiettivi condivisi, pur nella diversità: solo così quella rete acquisisce, per loro, una reale capacità protettiva.” (Contini, 2012, p. 52). Sperimentare, inoltre, l’essere il protagonista, all’interno della rete, di ogni comunicazione trasparente che lo riguarda, è motivo di crescita e di responsabilizzazione: non sono gli altri a decidere per lui, ma lui è co-partecipe e responsabile nella formulazione e                                                                                                                54 Traduzione: “Questo approccio è sempre molto ricco perché aumenta la quantità di informazioni rilevanti per la situazione e consente al giovane, come alla famiglia, di vivere o rivivere un investimento relazionale a volte estinto, distante, se non interrotto da diversi anni. Questa esplorazione permette di ridurre i rischi legati a una definizione troppo riduttiva della problematica e de-stigmatizzare sostituendo il suo comportamento, i suoi passaggi all’atto, ma anche la sua sofferenza, in un processo dinamico legato al suo contesto e alla sua storia familiare.” 55 Traduzione: “Stabilire un lavoro familiare che punta a rinstaurare le relazioni. Questa prospettiva pone il postulato di una non-sostituzione dei genitori. È la qualità riparatoria della relazione genitore-figlio l’obiettivo principale del lavoro.”

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attuazione del progetto. Il lavoro che l’educatore svolge con il ragazzo deve permettergli di avere un copioso spazio di manovra, inteso “(...) come distanza che intercorre fra la strada che noi indichiamo e quella che loro a un certo punto imboccano e percorrono: perché sono in grado di scegliere, di essere protagonisti dei loro progetti, di cercare loro, la loro chance di felicità.” (Contini, 2012, p. 52). L’operatore sociale, d’altro canto, ha la possibilità di confrontarsi con professionisti competenti in svariati campi, i quali forniscono complementarità alla visione educativa e impiegano strumenti diversi nella lettura della situazione in analisi. “La complessità delle storie con cui lavoriamo, per essere affrontata, implica insomma l’intervento di più servizi, più operatori. Diventa sempre più necessario mettere insieme le diverse competenze. Mettere insieme le diverse competenze non vuole dire giustapporle ma integrarle, per arrivare a condividere tra operatori una rappresentazione del problema (o dei problemi) su cui si sta lavorando.” (Camerlenghi & D’Angella, 2008, cit. in Maida, Molteni & Nuzzo, 2009, p.15). Sia Simone, sia Elisa dichiarano che l’integrazione di professionisti specifici nei progetti di vita dei ragazzi è parte integrante del lavoro svolto nel foyer. “Se sappiamo che un ragazzo consuma, si lavora sì sull’astinenza, ma parallelamente anche su un consumo corretto attivando gli attori della rete pertinenti. (...) Noi non lavoriamo in sostituzione, dunque se ci sono dei professionisti più competenti su determinati argomenti s’interpellano.” (intervista Simone, p. 2). “Per esempio abbiamo già chiamato persone della rete esterna (...) tipo danno.ch, per parlare con i ragazzi e dare delle informazioni che sono proprio puramente preventive.” (intervista Elisa, p. 3). Un altro aspetto che vede il lavoro di rete quale una risorsa per l’educatore è la possibilità di poter condividere, in ottica di trasparenza, scelte e responsabilità con più professionisti. Tutti gli educatori esprimono nell’intervista un senso di tranquillità nel fornire in maniera trasparente tutte le informazioni alla rete esterna e nel sapere che all’interno dell’équipe e della Fondazione c’è condivisione e sostegno. Alla domanda: quando ti devi assumere una determinata responsabilità rispetto al rischio in cui incorre un ragazzo, cosa ti fa stare tranquillo? Hanno risposto quanto segue. “Sicuramente la condivisione con i miei colleghi, con il responsabile e con il direttore. (...) Magari sul momento in cui accade una cosa io vedo solo un aspetto, ma poi condividendolo ci sono anche altre persone che vedono altre cose e lì si comincia a tessere la rete di sicurezza rispetto a questa responsabilità e non ti senti solo (...).” (intervista Elisa, p. 3). “Nel ruolo di educatore mi fa stare tranquillo la trasparenza con i superiori e con la rete.” (intervista Giuseppe, p. 5). “Il fatto di informare sempre tutti permette di avere un’equa distribuzione delle responsabilità a seconda delle competenze specifiche da attivare.” (intervista Simone, p. 2). Dal suddetto capitolo è stata rilevata l’importanza della rete, sia a livello teorico, sia nel lavoro quotidiano al front-line della relazione. Si è notato quanto lo stesso possa attivare risorse indispensabili per la crescita del ragazzo e, inoltre, tutti gli educatori hanno dichiarato una grande utilità nella trasparenza con gli attori coinvolti, ragazzo stesso compreso, a livello di assunzione di responsabilità.

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6. Conclusioni e riflessioni

La specifica ricerca di tesi si è ramificata intorno al pilastro portante rappresentato dalla domanda da indagare: “Quali sono le rappresentazioni del modello educativo non-punitivo e non-espulsivo utilizzato al Foyer Calprino della Fondazione Amilcare da parte dei giovani collocati e degli educatori per quanto concerne l’assunzione di rischio dei ragazzi e le relative responsabilità degli educatori?”

Al fine di analizzare in maniera funzionale tale argomento, si è scisso il lavoro in tre fasi: una prima parte meramente teorica, relativa al capitolo tre; una che evidenziasse le rappresentazioni dei protagonisti dell’indagine, educatori del foyer Calprino e giovani collocati, situata all’interno del capitolo cinque; una inerente le prospettive future, la quale verrà sviluppata di seguito. Dall’analisi teorica effettuata si è notato quanto il rischio assuma forme e attuazioni differenti tutte accomunate dalla certezza che lo stesso sia una parte integrante della vita dell’essere umano. Non è evidente definire, dunque, i confini che separano comportamenti biologicamente funzionali, da altri dannosi e inconsapevoli. Il rischio, un’incognita dell’esistenza, un fattore indispensabile per sentirsi vivi e, allo stesso tempo, minaccia della vita stessa. Un’incognita influenzata anche dal contesto occidentale attuale, ove la società consumista, le pubblicità e la comunicazione persuasiva spingono la popolazione a ragionare meno approfonditamente e ad agire intraprendendo la strada che toglie le inibizioni e porta ai desideri e non più attraverso la soddisfazione di bisogni. Nella cornice descritta le persone più fragili, nel caso specifico coloro che stanno vivendo il ciclo dell’adolescenza, si ritrovano a dover far fronte all’ordinario disequilibrio adolescenziale in un ambiente che trasmette ben poche sicurezze. La risultante a tutto ciò è relativa alla messa in atto di condotte pericolose, soprattutto per coloro che non hanno avuto la possibilità di creare le risorse sufficienti nelle fasi di vita precedenti. Si è visto nell’elaborazione dei dati che, oltre a ciò, a influenzare il giovane ad assumere comportamenti rischiosi entrano in gioco anche fattori cognitivi, sociali relativi alla famiglia e al gruppo dei pari, e altre teorie che vedono il loro applicarsi in tutto il ciclo della vita. Uno dei motivi principali, secondo il pensiero di Roland Coenen, è inerente al non riuscire a rientrare nella selezione sociale e sessuale presente ai giorni nostri. Tali soggetti in difficoltà faticano a sentirsi parte integrante della società e, dunque, trovano strategie disfunzionali al fine di vedere la loro appartenenza in un gruppo. Nella parte teorica si è trattata la sindrome di chiusura, ovvero la difficoltà da parte di ragazzi disadattati nel chiedere aiuto. Questo fattore è da prendere in considerazione nella gestione del rischio distruttivo e inconsapevole al fine di trovare strategie per far emergere la richiesta d’aiuto alla figura adulta. Coenen, attraverso anche l’esperienza di ricerca-azione al Tamaris, ha sviluppato un modello educativo innovativo che permettesse continuità, apertura e trasparenza relazionale: il modello non-punitivo e non-espulsivo, fondamenta anche delle linee guida della Fondazione Amilcare. Thomas Gordon, a tal proposito, ha sviluppato un metodo che permettesse al giovane di sentirsi accettato e non giudicato e, quindi, gli permettesse di fidarsi e confidarsi con figure adulte di riferimento: l’ascolto attivo. Nel capitolo della ricerca e analisi si è apportato alla tesi un valore aggiunto dettato dalle esperienze e dai vissuti dei principali attori coinvolti. Sia i ragazzi, sia gli educatori hanno

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avuto modo di esprimere il loro pensiero riguardo all’assunzione di rischio correlata al modello non-punitivo e non-espulsivo vigente al foyer Calprino. La maggior parte delle informazioni ricavate è sostenuta dall’apporto teorico. È emerso che i vari comportamenti disfunzionali, quali, per esempio, l’assunzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti e la partecipazione a furti o risse, sono stati messi in atto in situazioni nelle quali i ragazzi faticavano ad adattarsi all’ambiente circostante e vivevano situazioni di malessere. L’influenza fra coetanei accomunati da fragilità è un altro tema che è stato toccato, soprattutto da parte dei ragazzi. Gli stessi hanno, infatti, dichiarato di essere particolarmente sensibili alle influenze esterne, le quali, nella maggior parte dei casi, portano all’entrare in situazioni di rischio. In aggiunta, è stata espressa una difficoltà nel parlare agli adulti dei propri problemi. In tal senso il modello non-punitivo e non-espulsivo si è rivelata una risorsa. I giovani collocati hanno il tempo e la possibilità d’instaurare relazioni di fiducia con l’educatore, dichiarano, infatti, di sentirsi meno vincolati nel raccontare all’operatore i propri vissuti, in quanto non hanno paura delle conseguenze. Anche gli educatori hanno affermato che, rispetto a un modello classico, vi è la possibilità di ascoltare realmente il giovane, utilizzando appieno lo strumento relazionale. Non si hanno, dunque, delle risposte prestabilite, ma si vive nel qui ed ora della relazione, destreggiandosi nel dialogo e nell’ascolto dell’altro. I ragazzi hanno dichiarato che un aspetto che apprezzano molto è relativo al fatto che, nonostante agiti estremi che mettono in atto, il foyer c’è sempre, non li abbandona. Un aspetto critico rilevato nell’attuazione del modello è inerente ai limiti. Sono i giovani stessi a dire che servirebbero più regole di convivenza e più limiti. Fattore di fondamentale importanza, che andrebbe affinato all’interno della struttura. Si è visto, comunque, che il foyer non è esente da regole, allora, forse, i motivi di tale bisogno sono legati a una difficoltà a entrare in una visione nuova di gestione delle trasgressioni, un’ottica che segue una linea più dialogica e comprensiva che punitiva. Nel discorso specifico non bisogna dimenticare che la dimensione di controllo assume una grande rilevanza nella gestione del rischio. La teoria, nel determinato frangente, afferma che l’autorevolezza sia lo stile educativo più funzionale, in quanto non è un’imposizione che viene formulata dall’alto, ma una costruzione partecipata, ove l’educatore non si astiene dalle proprie responsabilità. Ecco, quindi, che il ragazzo ha una partecipazione attiva nel proprio progetto di vita ed è protagonista all’interno della sua rete di riferimento. Gli educatori, in tal senso, hanno espresso più volte l’utilità della trasparenza nel comunicare le informazioni alla rete. Quest’operazione permette al professionista in foyer di sgravarsi dal peso delle responsabilità, di condividere dubbi e perplessità e di arrichirsi per merito di un lavoro complementare con le altre figure della rete. Per quanto concerne i risultati, è difficile stabilire in maniera oggettiva se il lavoro svolto sinora sia stato proficuo o meno. Il motivo principale rivelato è la piccola quantità di risultati tangibili, in quanto il lavoro attuale si basa su un’acquisizione graduale e rispettosa dei tempi del giovane rispettando i vari livelli della piramide dei bisogni di Maslow. I risultati più palpabili, quindi, come per esempio il mantenimento di un’occupazione stabile, tardano ad arrivare. È fondamentale esplicitare che la ricerca specifica si pone quale tassello iniziale predisposto a fornire un quadro generale della situazione presente al foyer Calprino. Prima di poter analizzare a fondo ogni complemento e sfumatura della gestione è necessiario fornire un quadro e una valutazione che rispecchi le rappresentazioni di chi in questo contesto ci vive quotidianamente. Il documento è, dunque, l’inizio e la base sulla quale, in seguito, costruire i vari temi annessi e rispondere ai bisogni emergenti. Diviene, dunque, sostanziale fornire al lettore delle

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prospettive di sviluppo della ricerca. Un’ipotesi di miglioramento della presa a carico specifica è relativa al trovare un equilibrio funzionale tra limiti e non-punizione. È emerso che i limiti sembrano non essere definiti in maniera eccellente. Non si comprende a fondo quando i ragazzi necessitino di flessibilità e quando, invece, di rigidità; hanno espresso, infatti, entrambi i bisogni. Sarebbe interessante, in prospettiva futura, effettuare una ricerca che si concentri sull’antinomia che oscilla tra libertà e bisogno di contenimento all’interno di un Centro Educativo Minorile, andando ad analizzare, in tal senso, i motivi profondi che hanno portato a giungere a questa dichiarazione. Tale ricerca di tesi non è riuscita ad andare a fondo all’argomento proposto, che si è rivelato, però, un punto cardine del lavoro educativo specifico. Un altro fattore che è affiorato dalle parole degli educatori e dalla teoria proposta è la funzionalità di una rete esterna presente e attiva. Essi affermano che all’interno della Fondazione c’è un alto livello di condivisione e comunicazione, elemento che, talvolta, non è così efficiente nel lavoro con la rete esterna (intervista Elisa, p. 4). Anche in questo frangente, per poter approfondire in maniera adeguata il tema, sarebbe stato necessario effettuare una ricerca più territoriale e meno specifica. Sarebbe arricchente conoscere i punti di vista al riguardo dei vari servizi coinvolti a confronto e complemento di quelli esposti dagli educatori del foyer Calprino e risalire a delle strategie comunicative soddisfacenti per tutti gli attori. La teoria analizzata e le interviste hanno espresso la necessità di creare nell’ambiente di vita del ragazzo un clima favorevole e accogliente. Quest’aspetto è indispensabile per il benessere sia dei giovani collocati, sia degli educatori operanti. Sarebbe interessante poter sviluppare in tal senso una riflessione che generi un collegamento tra buon clima, benessere degli educatori e benessere dei ragazzi, andando ad analizzare in maniera sistemica quanto e come i tre oggetti s’influenzano a vicenda. Una critica relativa alla ricerca di tesi è quella di non aver dato voce in maniera profonda alle emozioni degli educatori. Sarebbe stato interessante analizzare gli aspetti più umani della professione educativa, al fine di trovare delle strategie per trasformare l’emotività in una risorsa professionale. Bisogna ammettere, oltre a ciò, che il campione di ricerca, non essendo vasto, non ha permesso di delineare in maniera precisa le rappresentazioni. I limiti di spazio e tempo hanno influito sull’approfondimento della tematica specifica, non si è potuto infatti indagare maggiormente i vari sottoargomenti relativi alla presa a carico del rischio all’interno del foyer Calprino. Questo lavoro di tesi ha arricchito intensamente il mio bagaglio professionale, esperienziale e personale. È stato interessante andare a scavare nel mondo dell’adolescenza e comprendere un pizzico di una delle fasi di vita più intense e insidiose. La ricerca teorica mi ha permesso di ampliare le mie conoscenze al riguardo e l’analisi sul campo mi ha portata a dare valore e attribuire un significato a dei vissuti che, talvolta, purtroppo, vengono inseriti in uno stigma culturale e in pregiudizi dettati dalla società nella quale viviamo. Ho scoperto dei ragazzi che hanno il coraggio di sognare e rischiare per raggiungere i propri sogni. Dei giovani portatori di grande intelligenza e capacità riflessiva, i quali, nella loro schiettezza, sono riusciti a far emergere argomenti cardine che, sovente, all’interno del mondo degli adulti vengono celati da veli invisibili, ma spessi. Nel lavoro educativo si parla spesso di co-costruzione, co-partecipazione e creazione di significati condivisi; attraverso tale elaborato ho compreso la funzionalità di partire in primis dal vissuto delle persone con le quali lavoriamo, in questo caso gli adolescenti e gli educatori del foyer Calprino. La ricerca di tesi non è stato un lavoro puramente didattico, ma una profonda esperienza professionale e di vita.

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- Miller, P. H. (1989). Theories of adolescent development. In The adolescent as decision-maker (pp. 13-46).

- Sibilio, R. (2013). La formazione di fronte alle sfide del rischio e dell'incertezza nella

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- Van Leuven F. & Figueroa M. (2002) : Adolescence et déliaison sociale. Enfances Adolescences, 2, 13-40.

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Bibliografia moduli scolastici

- Maida, S. (2017a). Introduzione al lavoro sociale. Modulo "Il colloquio educativo”. Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, DEASS, Manno.

- Maida, S. (2017b). Introduzione al lavoro sociale PT2. Modulo “Teorie e metodologie dell’intervento sociale”. Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, DEASS, Manno.

- Milani E. & Croce M. (2017). Modelli di strategie persuasive per la prevenzione e la promozione della salute. Modulo “Nuovi territori dell’intervento sociale”. Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, DEASS, Manno.

- Roveri, V. (2017). Progetto auto-formativo. Modulo “Laboratorio di pratica

professionale educatore sociale”. Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, DEASS, Manno.

Bibliografia tesi

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Sitografia

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- Immagine copertina: Dominis, J. (1955). Sky Dancers. Chicago. Recuperato il

08.09.2018, da http://ibytes.es/la-arriesgada-actuacion-de-benny-y-betty-fox.html

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Allegati

Allegato 1: intervista Antonio

1. Quanti anni hai? Sedici.

2. Da quanto tempo sei collocato al foyer Calprino? Da più o meno sette mesi.

3. Vivi nel foyer o in appartamento? Vivo in foyer.

4. Cosa ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Trovo una cosa molto importante il fatto che gli educatori ti lasciano libero, qualsiasi cosa fai comunque ti vengono incontro, ma ti danno i tuoi spazi e ti ascoltano.

5. Cosa non ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Quando un ragazzo è incazzato, quando non va bene una cosa, gli educatori ci danno dentro, hai in mente, insistono tanto. Quando loro vedono che c’è una cosa che non va bene, insistono ancora di più invece che trovare, magari, una soluzione. In più dovrebbero esserci più regole di vita; ad esempio nessuno dei ragazzi cucina qua, nessuno fa le pulizie di suo, nessuno aiuta di suo. Sono cose normali della vita che nessuno fa e che andrebbero fatte. Anche gli educatori non li spingono a fare queste cose, cioè ovvio che se un educatore non ti spinge a fare questo il ragazzo non lo fa.

6. Cosa ne pensi dei limiti e delle regole? Prima ero al Von Mentlen, troppe regole, troppo rigidi cosa che a me non piaceva e sognavo un posto dove non c’erano regole, dove c’erano molte meno regole e sono arrivato qua. Quando sono arrivato qua mi sono accorto che servono più regole. È vero che è bello il fatto che ci sono molte meno regole, che ti lasciano libero, che hai i tuoi spazi e tutto, però boh dall’altra parte dovrebbero contenerti, darti un limite perché se non mi dai un limite io vado oltre, vado dove cazzo voglio io.

7. Quali sono le situazioni nelle quali ti senti a rischio o in pericolo? Quando son fuori dal foyer mi sento a rischio e in pericolo perché so che non ci sono gli educatori che mi appoggiano. Mi sento più al sicuro sapendo che gli educatori ci sono comunque. Se faccio fuori un casino, magari finisco nei problemi e c’è la polizia di mezzo, loro ci sono, mi aiutano e vengono con me. È come avere i genitori, da una parte. E lì mi sento molto al sicuro, a sapere che qualsiasi cosa posso fare, qualsiasi cosa io faccia so che ci sono gli educatori dietro, hai in mente. Se penso che non c’è nessuno che mi aiuta devo ricordarmi sempre che ci sono gli educatori, che sono sempre lì nonostante io spesso non me lo ricordo. Se sono in foyer sono tranquillo, so che non potrei fare niente di grave e so che se voglio fare una cazzata, vedo gli educatori e non la faccio, cioè mi passa, tra virgolette, la voglia. Quando son fuori io non ci penso, non

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penso a niente, non penso di avere qualcuno che mi guarda, che mi osserva, quindi faccio le cose senza pensarci e poi quando arriva il momento in cui sono nel pericolo non me ne accorgo.

8. Quali sono, secondo te, le situazioni in cui gli educatori pensano tu sia a rischio? Soprattutto quando fumo l’erba, pensano che io sia andato chissà dove, chissà oltre. Però non è mai così. Anche quando sono incazzato, quando sono incazzato loro pensano che io possa fare molto, però non faccio tanto. Cioè quando sono incazzato mi ritiro in me stesso e basta. E loro pensano che io da incazzato potrei fare molto, hai in mente, che potrei arrabbiarmi facilmente, però no, semplicemente mi chiudo in me stesso. Ovvio do le risposte così da menefreghista, rispondo come cazzo voglio agli educatori, però lo so che ho bisogno di stare da solo con me stesso, senza mostrare quanto sono incazzato, quanto magari sono deluso o quanto sono stanco o depresso.

9. A volte preferisci le scelte più rischiose a quelle più sicure? Se sì, perché? Sì, amo scegliere quelle più rischiose perché so che mi portano a qualcosa che non so. Se scelgo qualcosa di sicuro so com’è, so cos’è. Se è qualcosa di rischioso non so niente, quindi sono curioso e preferisco quella strada lì.

10. Chi sono le prime persone che chiami quando ti senti in pericolo? Mio fratello, perché è il primo a capirmi. In questo caso che non ci sono i miei genitori è mio fratello, dato che è sempre con me e lui è il primo a capirmi subito. In qualsiasi casino io possa finire lui è il primo a capirmi. Poi, ovviamente, dopo mio fratello sono gli educatori.

11. Quali strategie usi per proteggerti nelle situazioni di rischio? Boh, mento. Mento di brutto. Mento su qualsiasi cosa, anche se magari non ce n’è bisogno in quel momento io lo faccio. Sempre. Perché ho sempre paura di dire la verità. Ho paura delle conseguenze della verità, quindi preferisco mentire, nonostante qualcuno sa che sto mentendo, preferisco comunque mentire, invece che dire la verità e avere le conseguenze della verità. Cioè preferisco proprio quel lato dove la gente sa che sto mentendo in quel momento, lo sa che non è la verità quello che sto dicendo, però preferisco quello invece che dire la verità e ammettere magari.

12. In che modo ti senti protetto dal foyer quando sei in una situazione di rischio? Come ho già detto prima penso. Se sono in pericolo, se sono in rischio, se sono in dubbio, se mi sto per far del male o qualsiasi cosa, so che loro ci sono, hai in mente, anche se so che magari non potrebbero capirmi magari, però so che danno la loro disponibilità. Arrivano se c’è bisogno, chiamano se c’è bisogno. Fanno qualsiasi cosa per me e, quindi, sta cosa ci sta. Cosa che al Von Mentlen non c’era, quindi ci sono cose positive come cose negative sia al Calprino che al Von Mentlen.

13. Ci sono delle proposte che vorresti trasmettere agli educatori in modo da sentirti più protetto/a? Sì. Per esempio il fatto che di notte chiudono le porte, non mi fa sentire al sicuro, non è un posto sicuro questo se voi chiudete a chiave le porte. Avere le porte aperte che io

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scenda alle tre di notte a bere un bicchiere d’acqua o di succo e tornare su mi fa sentire a casa, quindi mi fa sentire tranquillo e a mio agio. Invece così non mi sento sempre a mio agio.

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Allegato 2: intervista Giacomo

1. Quanti anni hai? Diciassette anni.

2. Da quanto tempo sei collocato al foyer Calprino? Da un anno e mezzo. Nel dicembre del 2016.

3. Vivi nel foyer o in appartamento? In foyer.

4. Cosa ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? In generale va bene. Mi piace che se fai una cagata non vieni punito, sei autonomo a gestirtela, tutto qua.

5. Cosa non ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Ci sono delle cose, come per esempio una storia che mi è successa con l’estintore. Ho utilizzato un estintore, anzi, meglio dire, non solo io, però va beh, ho fatto solo un singolo spruzzo e devo pagare tutto l’estintore per aver fatto un singolo spruzzo. Mi da’ fastidio che se n’è parlato solo fra educatori per quanto pagare e non con me. Inoltre penso che c’è gente che in appartamento non ci dovrebbe stare eppure ci sta, e chi vive in foyer non se la gode come chi vive in appartamento. Perché chi è in appartamento ha più possibilità di scegliere gli alimenti settimanali e giornalieri e chi è qua no. Chi è qua non può invitare gente in camera quando in appartamento puoi invitare chi vuoi e tante altre cose. Io l’ho spiegato chiaro e tondo, il foyer da parte mia è un posto, detto in parole chiave, esecuzione dei fallimenti per giovani, è un posto per falliti tutto qua. Uno che viene qua non respira un’aria buona capisci. Io andavo al Vanoni e anche al PAO e l’aria che respiri li confronto a quella che respiri qua è totalmente diversa. Qua c’è gente che si fa di droga però in appartamento ci finisce, cosa che ci dovrei essere io eppure non ci sono. Mi da’ fastidio l’ingiustizia nel trattamento. Tre mesi fa ho chiesto di andare in appartamento ho anche inviato la lettera e mi hanno detto che i posti erano finiti eppure vengo a sapere un mese fa che un’altra ragazza entrerà in appartamento.

6. Cosa ne pensi dei limiti e delle regole? Ma boh, hai in mente nella mia vita avrò fatto una o due cagate grosse, però io adesso ho il lavoro, tra poco ho diciotto anni, avrò l’auto, questo è sicuro perché ho già i soldi per quella, e niente.

7. Quali sono le situazioni nelle quali ti senti a rischio o in pericolo? Il semplice fatto è questo, inizio la scuola e inizio l’apprendistato e il foyer non è un istituto cioè non ha dei regolamenti fissi in cui vieni seguito nello studio. Quando andavo al Vanoni finivo le medie e studiavo e poi passavo o meno l’esame. Qua non c’è questo. Non c’è l’accompagnamento scolastico. Tutto qua. E mi sembra logico che non ci sia

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perché hai in mente nessuno qua lavora, nessuno fa scuola dicono anche che da parte loro è meglio essere disoccupati, perciò.

8. Quali sono, secondo te, le situazioni in cui gli educatori pensano tu sia a rischio? Quando ho derubato i tossici del parco Ciani. Ci sono altre occasioni? Basta, tutto lì. Solo quello.

9. A volte preferisci le scelte più rischiose a quelle più sicure? Se sì, perché? Se devo rischiare rischio per qualcosa di grande, però di solito preferisco quelle più sicure.

10. Chi sono le prime persone che chiami quando ti senti in pericolo? Se interviene la polizia di solito dovrebbe essere il genitore, però in questo caso il genitore è assente e viene l’educatore di turno. Dipende sempre. Se c’è polizia sarà il foyer, se parte una rissa sarà un amico, capisci.

11. Quali strategie usi per proteggerti nelle situazioni di rischio? Dipende da situazione a situazione. Per esempio un tipo ti cerca con un coltello cosa fai? Beh se non c’entri niente chiami la pola.

12. In che modo ti senti protetto dal foyer quando sei in una situazione di rischio? Quando c’è un intervento della polizia, in quel caso, è vero non fanno molto, però ci sono gli educatori presenti. Magari durante un verbale la polizia è un po’ più calma nel dirti le cose. In foyer mi sento sicuro perché nessuno caga sto posto, nessuno ci pensa che sono qua. Se uno ti cerca rimani un po’ qua e poi basta.

13. Ci sono delle proposte che vorresti trasmettere agli educatori in modo da sentirti più protetto/a? Ma boh io l’ho detto. Mi stupisco ancora del perché non ho l’appartamento. Tutto qua. Gli altri ragazzi coinvolgono gli altri ragazzi a far uso di droghe, a dire che è meglio non trovare lavoro. L’essere non protetti o protetti, hai in mente, mettiamo caso uno pulito viene qua fa amicizia con non so uno come **** (fa il nome di un ragazzo collocato in foyer), questo gli offre una canna e poi interviene con la cocaina e così via. Magari poi tu lo stuzzichi quello lì, a lui gli gira e ti spacca la porta o ti deruba quello che hai e te lo spacca. In appartamento non sa dove sei e niente. Frequenti gente normale ed è finita lì.

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Allegato 3: intervista Michela

1. Quanti anni hai? Diciotto, diciannove ad agosto.

2. Da quanto tempo sei collocata al foyer Calprino? Dal quindici dicembre 2016.

3. Vivi nel foyer o in appartamento? Allora, teoricamente vivrei in foyer, però da quando ho il cane ho passato tre mesi da un’amica che è anche lei collocata in foyer e, attualmente, vivo dal mio ragazzo. Sto cercando appartamento tramite l’assistenza.

4. Cosa ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Boh, il fatto che comunque anche se magari facciamo degli errori che potrebbero essere punibili, gli educatori cercano sempre di darci un’altra possibilità. Non senza farci pagare le conseguenze; aiutandoci a capire che abbiamo sbagliato sì, però che si può sempre rimediare.

5. Cosa non ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino? Non saprei di preciso. Nel senso, anche non vivendo più lì non so neanche come sono adesso le cose, se son cambiate tanto da quando non vivo più lì. Cioè passo raramente di lì, quindi precisamente non lo so. E quando vivevi lì che c’era già il modello non-espulsivo e non-punitivo? Da una parte ci sta. Dall’altra, per esempio, io appena ero arrivata in foyer per dirti abbiamo portato via io e **** (fa il nome di una ragazza collocata in foyer) una torcia dalla cucina e ci hanno rotto le palle per una settimana dicendo che dovevamo riportarla giù. Poi appena **** (fa il nome di un ragazzo collocato in foyer) è arrivato ha portato su di tutto il camera sua e nessuno gli ha mai detto niente, cioè gliele han lasciate lì e anche quello non lo trovo giusto perché dovrebbero comportarsi ugualmente con tutti. Se commettiamo tutti lo stesso errore non capisco perché uno viene punito in un modo e l’altro magari non è neanche punito.

6. È cambiata la relazione con gli educatori dall’introduzione del nuovo modello non-punitivo e non-espulsivo? Se sì, come? Sì, mi sento molto più a mio agio a parlare con loro degli errori che commetto. Prima tenevo più nascoste le cose per il timore di essere punita, se si può dire così.

7. Cosa ne pensi dei limiti e delle regole? All’inizio non mi andavano molto a genio, ma ora sono molto più flessibili con le regole. Ce ne sono molte meno, ma sono più che sufficienti per una giusta e buona convivenza.

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E in generale, al di fuori del foyer, cosa ne pensi dei limiti e delle regole? Boh che alla fine ci stanno, sennò non so che mondo sarebbe senza limiti e senza regole. Per esempio uno girerebbe con una pistola spara a un altro perché gli sta sulle balle e va bene così. Però non sono d’accordo. Potrebbero essere anche lì, però, un po’ più flessibili; tipo sul fumare o così, alla fine finché lo faccio io e non vado a fare del male a nessun altro perché devi venire e darmi, per esempio, una multa. L’ho fatto io e non è che sono andata a spacciare, se è uno spaccio potrei dirti sì hai ragione, perché comunque faccio del male agli altri, però se me la fumo io non vedo il problema.

8. Quali sono le situazioni nelle quali ti senti a rischio o in pericolo? Adesso come adesso praticamente nessuna. Più che altro perché sono cambiata un sacco, anche modo di pensare. Poi non sto più uscendo con nessuno e non vedendo nessuno vivo praticamente solo in casa, quindi mi sento anche più tranquilla. A volte mi capita di sentirmi a rischio o in pericolo quando magari mi innervosisco e piuttosto che parlarne, mi vien voglia di assumere sostanze, però poi magari ripensandoci mi dico che non è quella la soluzione giusta e, quindi, che si può risolvere la situazione in altri modi. Parlandone. In ogni caso non mi sento più a rischio come prima. Cioè, prima mi sentivo a rischio anche a uscire di casa perché magari incontravo la persona sbagliata e mi mettevo a rischio. Adesso, però, mi sento relativamente più tranquilla.

9. Quali sono, secondo te, le situazioni in cui gli educatori pensano tu sia a rischio? Quando c’è un eccessivo abuso di droga. Per esempio loro si preoccupavano quando io mi drogavo eccessivamente con varie sostanze, anche solo pastiglie o canne. Adesso comunque ho smesso, tra virgolette, nel senso che le canne ogni tanto me le fumo, prima erano più paranoici sul fatto che fumavo le canne per via che fumavo troppo, però adesso che sanno che non consumo più così regolarmente sono anche più tranquilli. Trovo che rischi siano il sesso non protetto, la droga, violenza e robe simili. Nel mio caso credono anche che la situazione del cane sia un rischio, però non lo trovo molto corretto per via che comunque anche se esco e attraverso la strada in modo sbagliato è un rischio, però non m’hanno mai detto come attraversare la strada, quindi secondo me avere il cane non è un rischio basta tenerlo con testa e anche quando vado in giro farlo in modo adeguato. In ogni caso mi comporto bene quando sono con il cane, non è che faccio stronzate o lo faccio diventare aggressivo. Alla fine posso rischiare in vari modi e, quindi, non capisco perché mi rompono le balle solamente su alcune cose.

10. Sono aumentate le situazioni in cui ti sei messo in pericolo da quando è stato introdotto il nuovo modello? No, i primi mesi che ero in foyer mi mettevo spesso in pericolo, ma ho imparato dall’esperienze passate. Adesso se dovessi sentire di essere in pericolo o di stare per mettermi in pericolo, mi sentirei molto più sicura a parlarne. Quindi so che potrei anche evitarlo.

11. A volte preferisci le scelte più rischiose a quelle più sicure? Se sì, perché? Quelle più sicure, perché voglio evitare in tutti i modi di commettere gli stessi errori che ho fatto in passato. Ragiono molto di più prima di fare le cose. Per esempio, prima, se uno in strada m’insultava io partivo e non me ne fregava niente, lo insultavo e magari

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arrivavo anche alle mani; adesso piuttosto che arrivare alle mani sorrido e vado avanti per non mettermi in casini inutili.

12. Chi sono le prime persone che chiami quando ti senti in pericolo? Principalmente il foyer perché so che c’è ventiquattro ore su ventiquattro. Se sono cose meno gravi il mio ragazzo o, sennò, dipende anche la mamma o il papà. Dipende dalla situazione.

13. Quali strategie usi per proteggerti nelle situazioni di rischio? Evito di mettermi in situazioni che mi porterebbero a rischiare. Dipende anche dalla situazione.

14. In che modo ti senti protetto dal foyer quando sei in una situazione di rischio? Mi sento protetta a sapere che comunque a qualsiasi ora ci siete. Che sia alle due di pomeriggio o alle quattro di mattina chiamo e qualcuno risponde. Alla fine siete qua per noi e questa cosa mi fa sentire sicura e protetta.

15. Ci sono delle proposte che vorresti trasmettere agli educatori in modo da sentirti più protetto/a? No, così è top. Confronto ad altri posti o anche se vivessi con mia madre sarei più a rischio perché comunque mia madre ha anche una vita al di fuori e non è che c’è ventiquattro ore su ventiquattro perché magari lavora e non ci sono solo io a cui pensare, ma anche le mie sorelle. In foyer alla fine sono lì per lavorare, per cui so che ci sono e che fanno qualcosa, quindi va bene così.

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Allegato 4: intervista Francesca

1. Quanti anni hai? Diciotto.

2. Da quanto tempo sei collocata al foyer Calprino?

Da quasi tre anni.

3. Vivi nel foyer o in appartamento? In appartamento.

4. Cosa ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer Calprino?

È una buona cosa, perché secondo me aiuta i ragazzi a venirsi incontro, a decidere le cose insieme.

5. Cosa non ti piace del modello non-punitivo e non-espulsivo che c’è al foyer

Calprino? Che i ragazzi si permettono di fare troppo. Si dovrebbe fare, secondo me, quando arriva un ragazzo, bisogna essere più sul pezzo e fargli capire che il fatto di non esserci regole non è che ti permette di fare tutto è una cosa che deve essere tipo più graduale. Piano piano gli lasci più libertà al ragazzo secondo me.

6. È cambiata la relazione con gli educatori dall’introduzione del nuovo modello non-

punitivo e non-espulsivo? Se sì, come? E io di per sé ho visto solo due educatrici che sono rimaste perché tutti gli altri educatori sono cambiati, però con loro non ho visto nessun cambiamento.

7. Cosa ne pensi dei limiti e delle regole?

Che in sé non ci sono neanche tanti limiti è una cosa che appunto, come la domanda sopra, si decidono assieme. In generale, al di fuori del foyer, penso che sono belli, cioè nel senso, è brutto che ci siano dei limiti perché chi è che sei tu per darmi un limite, però son belli perché hai qualcosa da sgarrare. Hai qualcosa da superare, il limite lo superi. Secondo me tu dovresti metterti i limiti a te stessa come io dovrei metterli a me stessa, però di per sé non ci si riesce e quindi non si può fare.

8. Quali sono le situazioni nelle quali ti senti a rischio o in pericolo?

Al momento non ci sono.

9. Quali sono, secondo te, le situazioni in cui gli educatori pensano tu sia a rischio? E boh, per esempio siam tornate da Madrid io e **** (fa il nome di una ragazza del foyer) e volevamo subito tornare indietro e io mi sono mega depressa, era come un circolo vizioso che volevo andarci ma non ci riuscivo e alla fine non siamo riuscite a tornarci e sono caduta tipo in depressione. Io e lei ci siam tirate giù tipo ste cinquecento pastiglie e ci abbiamo bevuto su un sacco. In sé era per divertirsi però boh, abbiam capito dopo che non era una cosa molto, molto... e sì e il foyer ce l’ha fatto notare.

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10. Sono aumentate le situazioni in cui ti sei messo in pericolo da quando è stato introdotto il nuovo modello? Di per sé no.

11. A volte preferisci le scelte più rischiose a quelle più sicure? Se sì, perché?

Sì, perché intrigano. Con la scelta sicura sai che arrivi a quello e invece con una scelta che non è sicura puoi arrivare a quello che vuoi tu, lo decidi tu il tuo traguardo.

12. Chi sono le prime persone che chiami quando ti senti in pericolo?

Dipende da che pericolo. Il foyer lo prendo molto come punto di riferimento.

13. Quali strategie usi per proteggerti nelle situazioni di rischio? Mi chiudo in me stessa, cioè cerco di non coinvolgere le altre persone nel mio pericolo.

14. In che modo ti senti protetto dal foyer quando sei in una situazione di rischio?

Mi stan dietro, mi fan sentire al sicuro, so che ci sono. Non è che se una volta faccio una stronzata loro non ci sono più, loro ci sono comunque.

15. Ci sono delle proposte che vorresti trasmettere agli educatori in modo da sentirti

più protetto/a? Mmmh no.

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Allegato 5: intervista Giuseppe - educatore

1. Quale formazione hai intrapreso per lavorare nel sociale? La SUPSI. Ho fatto il Bachelor in Lavoro Sociale.

2. Da quanto tempo lavori nel sociale? Da quanto nel foyer Calprino? Nel sociale lavoro da sette anni, di cui quattro come supplente, e al Calprino da un anno e sette mesi.

3. Quali esperienze hai avuto nel sociale prima di arrivare al foyer Calprino? Ho lavorato sei anni al foyer Casa di Pictor, sempre con minorenni, due anni al PAO, in entrambi i posti come supplente. Ho fatto due anni in Prossimità, ho lavorato all’Area, sono stato il responsabile del recupero di licenza media per la Pro Juventute, ho fatto uno stage al Calprino e ho lavorato al Calprino.

4. Sai dirmi quali sono i limiti e le risorse del modello non-punitivo e non-espulsivo presente al foyer Calprino? Partiamo dai due termini non-punitivo e non-espulsivo, in particolare dal non-espulsivo. Negli anni passati e in tanti foyer ancora adesso a un certo punto, quando i ragazzi non riescono a star dentro ad alcune dinamiche relazionali o alle regole eccetera, si arriva ad avere un’espulsione, quindi il ragazzo che era collocato per cercare di stare meglio, in un certo modo, viene dimesso e di conseguenza non c’è più la possibilità di aiutarlo. Il problema di questa dimissione è che poi non ci sono altri servizi proposti per aiutare il ragazzo e questo rimane, non dico abbandonato a se stesso, ma quasi oppure rientra in famiglia con le dinamiche che c’erano già prima e la cosa normalmente va a diventare cronica e non ci sono dei passi avanti. La risorsa è proprio questa: non abbandoniamo i ragazzi, io non ti mollo, cioè, mi fai disperare e tutto quello che vuoi e io ci sono comunque, ti do la possibilità di avere un’esperienza relazione diversa da quelle che hai avuto in passato. Per esempio, il ragazzo è sempre stato abituato ad essere messo da parte, ad essere lui quello sbagliato, eccetera e con un modello di questo genere gli mando il messaggio che quello che sta facendo non va bene per lui e non per l’educatore, perciò io inizio a lavorare con lui e non lo escludo a priori. Gli faccio vedere che anche se certe cose sono solo atteggiamenti o son solo comportamenti non per forza devono portare a qualcosa di negativo anche poi in tutti gli altri. Poi non vuol dire che lui può rimanere così per sempre, perché fondamentalmente si fa del male, però se gli do la possibilità di fare esperienze eccetera, magari in un futuro cambia. Il limite è un limite che non riguarda solo i ragazzi ma anche l’operatore. Non è facile restare in relazione con questi ragazzi, cioè te ne combinano di ogni ed è la perdita del controllo del ragazzo che è quello che hai, invece, con un modello più classico dove controlli e dai regole passi a navigare solo in un modello più relazionale. Il piano relazionale è un piano in continuo mutamento, dove il contesto ha un’incidenza fuori di testa e anche il contesto stesso sta cambiando. Di conseguenza non hai delle sicurezze e non puoi valutare nell’immediato come stai facendo il tuo lavoro. Nel caso del foyer classico spesso e volentieri, quando uno fa qualcosa che non deve fare, tu hai già la risposta pronta che può essere la punizione. In un modello non-punitivo tu non hai questa tranquillità del dire se non fa quello che dico io, io posso mettere in atto questo e mi sento comunque un

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bravo educatore perché ho fatto quello che dovevo fare, no. Nel modello non-punitivo te la giochi sempre sul livello relazionale e quello che è importante è proprio il non mollare. La risorsa in questo, è che non sono io educatore che ti dico quello che devi fare con dietro la minaccia che ti succede qualcosa, ma sono io educatore che ti spiego cosa ti potrebbe succedere e non sono io che ti porto la minaccia, ma ti faccio capire che, se non fai una determinata cosa a livello di leggi, società e collettività, potrebbe succederti questo. Poi ti do gli strumenti in modo che tu possa decidere. Il massimo non sarebbe che i ragazzi non fanno determinate cose contro il loro progetto, il loro percorso, il massimo sarebbe che riescono comunque a farle, ma essendo coscienti di quello che stanno facendo o potendosi assumere anche le responsabilità. Un esempio che mi viene molto spesso in mente è quando si guida. Io sono una persona che non rispetta tanto i limiti, però sono estremamente cosciente di quello che può succedere e mi va bene e la stessa cosa è quello che dovrebbero fare i nostri ragazzi. Gli diamo uno spazio dove possono sperimentarsi senza che le conseguenze che arrivano sono troppo gravi, che quindi sarebbero invalidanti, e nello stesso tempo conoscere quali sono i limiti imposti più dalla società e decidere cosa fare. Non obbligherò mai un ragazzo a fare qualcosa, sei tu che decidi, sei tu che porti le cose. Trovo che questa è una grandissima risorsa per il futuro, perché non impari a comportarti in un certo modo perché te l’ha detto qualcuno, ma perché hai avuto la possibilità di sperimentare. Spesso e volentieri tramite l’esperienza le cose rimangono dentro di più. Un altro esempio è quando ti alzi al mattino ad aprire le finestre. Io sono sempre stato obbligato da mia mamma che mi dava castighi, ma non avevo mai capito perché dovevo aprire le finestre. Sono andato ad abitare da solo e, dopo tre giorni che non ho aperto le finestre, io ti assicuro che da quel momento in avanti ho sempre aperto le finestre e in un certo senso basterebbe che lei mi avesse fatto fare quell’esperienza che avrei capito fin da subito. Adesso, non è che i ragazzi sono collocati perché non aprono le finestre al mattino, però la stessa cosa la puoi traslare su diverse altre problematiche che invece ci portano. Un’altra delle grosse risorse nel modello non-punitivo è quanta attenzione l’educatore da’ alla relazione. Mi hanno fatto una solfa durante tutta la SUPSI che la relazione è importante, poi quando entri nel mondo del lavoro e ci si scontra con le regole, a volte, la relazione viene messa da parte per garantire poi il funzionamento delle regole, quindi poi magari c’è una dinamica relazionale dove puoi parlare anche ora e portare tanta roba, però viene troncata dal fatto che io, in questo momento, sono obbligato dall’istituzione a darti un castigo a scapito della relazione. Eliminando la punizione e giocandola sola sulla parte relazionale, non c’è una sicurezza che ti permette di arrivare da qualche parte, ma secondo per secondo analizzi la situazione e cerchi di dare la risposta più funzionale possibile per poi arrivare all’obiettivo. Il limite in questa cosa è che spesso e volentieri il fatto che poi si arriva all’obiettivo noi non lo vediamo, perché magari sul momento quello che poi ci torna indietro è l’esatto opposto e dopo cinque o dieci anni scopriamo che le cose in realtà passavano e però in quel momento non si manifestavano ancora.

5. Dove si collocano i limiti e le regole nel modello non-punitivo e non-espulsivo? Spesso e volentieri dall’esterno, quando non si conosce il modello che c’è al Calprino, salta fuori la storia che noi siamo un modello senza regole e senza regole richiama il fatto che i ragazzi possono fare quello che vogliono. Non è così, nel senso che noi abbiamo delle regole ben definite, sono delle regole di rispetto e di convivenza. Per

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esempio il fatto che bisogna tornare a una certa ora o che bisogna avvertire se non ci si presenta a cena, non si può fumare in camera, non si consumano stupefacenti, non mi puoi tornare ubriaco, eccetera. Tutte queste regole di base ci sono, poi sono estremamente traslabili a dipendenza di chi hai davanti, cioè con alcuni ragazzi possiamo permetterci, non di modificare le regole, ma di farle loro. La risposta a un determinato stimolo, per esempio, se becco qualcuno a fumare una canna in camera, a dipendenza del ragazzo che becco cambia anche il mio modo di comportarmi perché cambia la dinamica relazionale. Ci sono dei ragazzi che in quel momento senti che hanno bisogno di un’alzata e gli dai un’alzata della madonna, per poi riprendere il discorso dopo. Ci sono dei ragazzi che se io dovessi entrare e dargli un’alzata così, che è quello che normalmente ci si aspetta, chiuderebbero completamente la conversazione e, fondamentalmente, sì mi sento tranquillo con me stesso perché gli ho dato l’alzata, ma non si ottiene nessun risultato. Quindi tornando sui limiti e le regole, allora, in realtà, anche se non sembra, noi abbiamo regole un po’ per tutto, il grosso cambiamento è davvero che non c’è quella sicurezza della punizione. Io ti porto a rispettare la regola, non perché hai paura che se non lo fai succede qualcosa, ma perché tu stesso capisci che può essere una cosa estremamente funzionale. Il rispettare la regola non è un punto di partenza, ma l’obiettivo. Quindi ci sono regole che sono state decise e discusse, magari anche con i ragazzi, e sono ben scritte e strutturate, poi ci sono un’altra parte di limiti e regole che, invece, si strutturano a livello relazionale a dipendenza del ragazzo. Ci sono delle regole non dette, per esempio che i passaggi inutili in macchina non vengono dati, però possono essere completamente cambiate dal momento in cui cambia la situazione. Non avere alcune regole scritte aiuta tanto, perché puoi oscillare nel momento del bisogno e quindi ci sono dei momenti in cui posso permettermi di andare incontro al ragazzo e dei momenti che, invece, è più funzionale che ti dico di no. Come pure la regola del fumo che dice che sotto un tot. di anni non puoi fumare sigarette, però se in quel momento il ragazzo sta male, si sta aprendo e sta parlando tantissimo e chiede se può fumare una sigaretta, io metto sulla bilancia quanto è grave fumarsi una sigaretta in quel momento e quanto invece può far bene al ragazzo fumarla per continuare la conversazione, posso anche dire ok, metto un attimo da parte la regola per questo motivo e lo esplicito con il ragazzo, perché deve essere chiaro che è un’eccezione e ha un senso, in modo che possa poi continuare la conversazione con il ragazzo.

6. E la dimensione di controllo (atteggiamento autoritario/ antiautoritario / autorevole)? Se uno entra al foyer Calprino pensando di avere una dimensione di controllo, come è sempre stato inteso, farà fatica, perché non abbiamo una dimensione vera e propria di controllo. La dimensione di controllo si svolge tutta a livello relazionale, quindi non sono io che ti controllo guardando quello che fai e impedendoti di farlo nel momento in cui si sta svolgendo, ma io osservo e osservare significa anche solo ascoltare i ragazzi quando ti portano le proprie esperienze. Il nostro modello funziona tanto così: tu porti un’esperienza e la commentiamo insieme, ti faccio vedere magari dei lati che tu da solo non sei riuscito a vedere, come tu stesso mi fai vedere altri lati che io da adulto non riesco più a cogliere. Il controllo è poi l’incontro in questa dinamica relazionale, dove io non ho un controllo sul momento che qualcosa accade, ma ho un controllo in uno spazio

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molto più ampio e, man mano che tu svolgi quest’esperienza relazionale, ti fai sempre più un’idea di quello che sta succedendo, perché poi si entra in un concetto di trasparenza, hai la possibilità di intervenire in modalità tranquilla e tramite questo io non impedisco subito a una persona, per esempio, di fumarsi le canne, ma ne parlo così tanto che magari, dopo mesi che si argomenta, il ragazzo diminuisce e poi magari in un futuro smette del tutto o trova una modalità di consumo che sia consona alla propria vita. Quindi il controllo è figo perché arriva dai ragazzi, mi spiego sono i ragazzi che ti portano. Giustamente poi tutto ciò che accade all’interno del foyer c’è e lo vedi, però anche lì non arrivo a controllarti con un binocolo tutto quello che fai, osservo e poi ne parliamo. Per quanto concerne l’atteggiamento autoritario, antiautoritario e autorevole, me la gioco sempre sulla relazione. Posso averli tutti e tre, nella mia cassetta io non ho solo uno stile relazionale, ne ho tantissimi e a dipendenza di quello che trovo più funzionale alla situazione lo uso. Per esempio ci sono delle situazioni a rischio nelle quali divento autoritario.

7. Con l’entrata in vigore del modello non-punitivo e non-espulsivo hai l’impressione che i ragazzi collocati assumano più o meno rischi rispetto a prima? È molto difficile questa domanda, perché noi non possiamo sapere tutto quello che fanno i ragazzi fuori dal foyer o anche dentro al foyer, dato che non possiamo essere in tutti i posti nello stesso momento. Non ho l’impressione che si assumano più o meno rischi. Quello che percepisco è che condividono di più i rischi che assumono e che, di conseguenza si possono dare loro più strumenti per fargli assumere i rischi in modo più cosciente. Poi magari i rischi che assumo sono gli stessi, ma se ti assumi un rischio cosciente di quello che ti stai assumendo e con tutte delle informazioni che ti permettono di diminuire il meno possibile il rischio già ti stai assumendo il rischio in modo più consapevole. Quindi non posso dire che se ne assumono di più o di meno. Ci sono stati dei momenti in cui pensavo che i ragazzi si assumevano tantissimi rischi, ma perché me ne raccontavano tanti e quindi avevo la percezione che si assumevano tanti rischi e cercavo di dargli più strumenti possibili per evitarli e poi magari sei mesi dopo ti raccontano che il momento in cui non ti raccontavano niente facevano peggio. Più raccontano che se ne assumono più un educatore può dare gli strumenti per limitare il più possibile questi rischi.

8. Quali sono i rischi più frequenti in cui incorrono i giovani collocati? Allora, partirei dall’abuso di sostanze sia nel corto che nel lungo termine. La maggior parte dei ragazzi che sono collocati utilizzano una o più sostanze, da droghe leggere quali canapa eccetera, a sostanze anche molto più pesanti come anfetamine e cocaina. Spesso e volentieri i giovani non sono abbastanza informati sul consumo di queste sostanze, quindi le assumono un po’ alla cieca, infatti gli interventi che abbiamo fatto sono stati messi in atto per informare. Da qui mi collego un po’ alle dinamiche girano attorno alle sostanze, quindi le varie litigate, lo spaccio, lo smercio, il portarsi in giro grandi quantità di sostanze, l’aggressività che può nascere quando ci sono debiti. Questi sono tutti rischi che possono diventare grandi, perché dal momento che si litiga con uno spacciatore che magari è una persona di trentacinque anni e anche lui non sta benissimo con se stesso e magari gira armato capiamo che il ragazzo qualcosa rischia. Oltre alle sostanze ci sono rischi più a lungo termine. Tanti dei nostri ragazzi non sono ancora

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occupati e noi abbiamo un termine di mandato che arriva ai vent’anni e quando ci sono i ragazzi che partono a vent’anni e non hanno un progetto di vita a livello lavorativo, io lo vedo come un rischio poi per il futuro, perché dal momento in cui ti ritrovi da solo fare questi passi è molto difficile. Oltre a questo ci sono tutti i rischi legati alla famiglia, i nostri ragazzi sono stati comunque allontanati dalla famiglia e collocati da noi e non è evidente gestire le dinamiche che ci sono con i famigliari. In questo senso, nel momento in cui ci sono i diritti di visita e non ci siamo noi a mediare, ci si assume un rischio perché non si sa mai cosa può succedere. Uno dei rischi grandi in cui il giovani incorre è il chiedere aiuto. Spesso e volentieri i ragazzi non chiedono aiuto per paura di reazioni o di essere sgridati e si assumono sulle loro spalle dei rischi davvero giganti. Per esempio a un ragazzo cade fuori qualcosa da foyer, è notte e deve per forza recuperarlo, non sveglia l’educatore perché sennò lo sgrida perché sta facendo qualcosa che non devo fare e, piuttosto si cala dalla finestra con un filo.

9. Come prevenite un’eventuale esperienza rischiosa da parte dei ragazzi? Dando una diversa esperienza relazionale facciamo sì che i ragazzi siano un pochettino più trasparenti verso di noi. Essendo trasparenti abbiamo molte più informazioni dal loro punto di vista, che una delle cose più importanti, perché se voglio far passare un messaggio a qualcuno spesso e volentieri è più facile partire dal suo punto di vista, comprenderlo, accettarlo e poi aggiungere quello che posso darti io. In questo caso il ragazzo è molto più portato ad ascoltarti. Le informazioni che io aggiungo in questa idea, in questa condivisione che stiamo facendo, sono tutte portate per ridurre i rischi. Quindi se devo parlare di prevenzione dei rischi è l’ascolto, l’ascolto e la possibilità di ascoltarti e di farti aprire. Usare le capacità relazionali che l’educatore ha per far sì che il ragazzo incominci a fidarsi, ad aprirsi e a raccontare anche delle cose che nel modello più vecchio portavano a un’alzata di peso.

10. Quando ti devi assumere una determinata responsabilità rispetto al rischio in cui incorre un ragazzo, cosa ti fa stare tranquillo? Nel ruolo di educatore mi fa stare tranquillo la trasparenza con i superiori e con la rete. Quando c’è una situazione a rischio io avverto sempre il mio capo équipe e lui stesso mi può dire se sto andando nella direzione giusta oppure se sto per fare un errore e darmi un consiglio sul come agire. Lui stesso, a sua volta, può riferirsi alla direzione. La stessa cosa la posso fare anch’io, se il capo équipe per x motivi, non è mai successo, ma non dovesse avere una risposta, io stesso posso chiamare la direzione e condividere il rischio. Questa è una parte molto importante che mi fa stare più tranquillo. L’altra parte è che noi settimanalmente inviamo una e-mail d’aggiornamento a tutta la rete del ragazzo, quindi dal ragazzo stesso, alla famiglia, all’assistente sociale, direttore, vicedirettore, eccetera. Quindi descriviamo sempre cosa sta vivendo il ragazzo, come lo sta vivendo e cosa sta succedendo e, di conseguenza, con una situazione condivisa, se qualcuno ha un’idea o se a qualcuno non va bene qualcosa lo può dire e lo può dire quasi in tempo reale, perché nelle situazioni a rischio davvero gravi l’e-mail parte immediatamente, senza aspettare l’aggiornamento settimanale. Da soli, si arriva solo fino a un tot., ma quando invece ci sono altri attori coinvolti che magari hanno anche diverse esperienze o anche ruoli diversi, ti possono dare quell’apporto in più che solo un’Amilcare o solo un

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educatore o solo un capo équipe o un’équipe non possono riuscire a dare, ma perché più teste sono meglio di una. Quindi anche il fatto di poter condividere e l’essere estremamente trasparente con la rete mi tranquillizza tantissimo

11. Ci sono già state circostanze nelle quali ti sei sentito di non poter proteggere abbastanza un ragazzo? Perché? Penso tutti i giorni che lavoro, ma anche quando lavoravo in altri posti con il modello classico. Se al Calprino mi dicono cosa sta succedendo, ma non posso intervenire sul momento che accade, negli altri posti era un non mi dice cosa sta succedendo e di conseguenza non posso intervenire nel momento che accade. Ho degli esempi, come il ragazzo che mi ha fatto ventotto notti fuori in un mese solo e io, inizialmente, non sapevo cosa accadesse di notte e in quel momento mi sentivo di non poterlo proteggere. Nel momento in cui il ragazzo ha iniziato ad aprirsi, le faceva comunque le notti fuori, ma raccontava quello che succedeva, già mi sentivo un po’ più protetto perché potevo dargli alcuni strumenti. La percezione di non proteggere un ragazzo noi ce l’abbiamo spesso, ma anche perché sappiamo spesso cosa succede fuori. In un modello più classico magari si sa meno quello che succede fuori e si ha più la percezione di proteggerlo anche se forse non è così, infatti ogni tanto saltano fuori delle storie fuori di testa delle quali nessuno sapeva niente e nessuno se le immaginava.

12. Ci sono state circostanze nelle quali hai sentito che ti stavi assumendo un carico troppo grande di responsabilità? Perché? No, non mi sono mai sentito in questo modo, sono sempre stato molto tutelato da quelli che sono i miei superiori. Dal momento che per me il carico di responsabilità è grande e da solo mi sento di non poter prendere una decisione ho sempre qualcuno a cui riferirmi in tempo reale, anche se sono le tre e trentasei di notte io posso chiamare qualcuno e chiedere.

13. Ci sono dei consigli che vorresti dare al fine di sentirti più tutelato in merito alle responsabilità annesse ai rischi che si assumono i ragazzi? Avendo risposto no alla domanda sopra, è un po’ difficile rispondere a questa, perché da mio punto di vista la risposta ce l’abbiamo già. Il fatto che puoi condividere in tempo reale e avere delle risposte per me è già abbastanza. Quello che posso dare come consiglio è che se non ci si sente tutelati di dirlo. In équipe ci deve essere quella tranquillità e apertura che ti permetta di poter dire guarda in questa situazione non mi sento tutelato, mi sento a rischio, eccetera senza entrare nel trip del chissà cosa penseranno di me. Quindi se si riesce ad avere un clima di questo genere in équipe di conseguenza c’è qualcuno che ti può rispondere in tempo reale, penso che ci sia abbastanza tutela. Nel momento in cui l’educatore non ce la fa a fare quella cosa, perché siamo tutti umani e ci sono delle cose che ci toccano determinate corde, la possibilità di avere qualcuno che può prendere il tuo posto, che c’è ed è il responsabile, è tantissima roba.

14. Ci sono dei consigli che vorresti dare per far fronte o prevenire il rischio inconsapevole e distruttivo in adolescenza?

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Parlate, ragazzi parlate, parlate il più possibile. Se trovate dall’altra parte la persona che vuole ascoltarvi e può ascoltarvi e vi sentite ascoltati, fidatevi e parlate. Può succedere solo qualcosa di buono, magari in un primo momento è una merda quello che vi arriva addosso, ma dopo succederà solo qualcosa di buono. Quindi più condividete più cercate di farci capire come vivete voi le cose, perché ormai noi siamo cresciuti e tante cose non ce le ricordiamo più. Più cercate di fare questa cosa e più riuscite a tutelarvi, perché siete voi che state facendo il passo e quindi siete voi che vi tutelate dai rischi. Ragazzi siete piccoli, certe cose non le avete viste, come non le ho viste neanch’io, e quindi non potete saperle come spesso e volentieri magari non le sappiamo anche noi e se condividete qualcuno vi può aiutare.

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Allegato 6: intervista Simone - educatore

1. Quale formazione hai intrapreso per lavorare nel sociale? Ho portato a termine la formazione di operatore sociale alla SUPSI

2. Da quanto tempo lavori nel sociale? Da quanto nel foyer Calprino? Nel sociale ho cominciato a fare le prime esperienze di stage quando avevo tredici anni, diciannove anni fa. Al Calprino sono approdato a gennaio del 2018.

3. Quali esperienze hai avuto nel sociale prima di arrivare al foyer Calprino? Per quanto riguarda le esperienze professionali da educatore formato ho lavorato per due anni in un foyer della Fondazione Diamante, per tre anni come educatore di strada per la città di Lugano, tre anni in un foyer dell’OTAF di Sorengo e, appunto, dal gennaio 2018 al Calprino. In precedenza, ho svolto molteplici stage in diversi foyer e laboratori.

4. Sai dirmi quali sono i limiti e le risorse del modello non-punitivo e non-espulsivo presente al foyer Calprino? Non utilizzando un modello espulsivo o punitivo ho notato che i ragazzi si raccontano e portano molte più informazioni rispetto alle mie esperienze passate. Un potenziale limite è relativo alle risposte che vengono fornite ai comportamenti problematici dei ragazzi. La mancanza di conseguenze scomode quali le sanzioni interne può inibire la velocità nel modificare gli approcci disfunzionali dei ragazzi. Le tempistiche della rete a volte non sono sufficientemente rapide affinché il giovane associ l’azione compiuta alla reazione ottenuta. La sanzione tuttavia è anche un elemento che inibisce la comunicazione trasparente, in quanto se un giovane sa che raccontandomi di aver consumato rischia di essere sanzionato semplicemente non lo racconta. Alla figura adulta mancherà dunque un elemento importante per essere un sostegno funzionale al ragazzo. Sono altresì convinto che le informazioni che ci riportano i giovani sono molto spesso la punta dell’iceberg.

5. Dove si collocano i limiti e le regole nel modello non-punitivo e non-espulsivo? Le regole principali sono dettate dagli aspetti legali, ovvero dettami che troviamo anche in un contesto non protetto, nella quotidianità. Se dovesse verificarsi un’infrazione della legalità, segnaliamo sempre e comunque alla rete, non risultando conniventi con i ragazzi, questo in quanto uno dei principi della fondazione è la trasparenza. I limiti e le regole sono comunque presenti nella nostra struttura ma vi è la possibilità di modellarli individualmente rendendo partecipe ogni ragazzo nella loro costruzione e assunzione.

6. E la dimensione di controllo (atteggiamento autoritario/ antiautoritario / autorevole)? Partendo dal presupposto che l’ideale è un approccio autorevole nella relazione educativa, credo che il fatto di lavorare in totale trasparenza, informando sempre la rete, favorisca il mantenimento di questa modalità. Ad esempio se ci fosse un evento illegale, noi segnaleremmo immediatamente agli enti competenti, l’intervento autoritario dunque verrebbe fatto dal magistrato o dalla polizia così che l’educatore possa mantenere la

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relazione con il giovane accompagnandolo durante tutta la procedura. L’ottica è quella di non lavorare in sostituzione ai servizi già esistenti, mantenendo il nostro ruolo e le nostre competenze specifiche. A livello di atteggiamento educativo, rispetto anche all’approccio presente al foyer Calprino, ti collochi maggiormente nell’atteggiamento autoritario, antiautoritario o autorevole? Tendenzialmente punto sempre verso l’autorevolezza, tuttavia il controllo delle emozioni non è sempre scontato e non sempre è funzionale alla situazione che si sta affrontando. Fondamentale è fermarsi e chiedersi cosa si sta facendo e perché, per non rischiare di perdere in efficacia durante l’intervento. A volte anche un intervento di pancia può dare risvolti utili, ma come dicevo l’importanza a mio avviso risiede nella consapevolezza del proprio agito. Decidere di fare un intervento di pancia e non subirlo.

7. Per quanto hai sentito dire dai colleghi e dai ragazzi collocati, con l’entrata in vigore del modello non-punitivo e non-espulsivo hai l’impressione che i ragazzi collocati assumano più o meno rischi rispetto a prima? A mio avviso né più né meno. I rischi che si assumono sono uguali, è come emergono le conseguenze di quello che fanno a cambiare. I ragazzi tendono a sentirsi meno giudicati nel richiedere il sostegno degli educatori, perché sanno che comunque ci siamo e non li lasciamo soli; altri approcci che contemplano le sanzioni e in casi estremi l’espulsione, credo favoriscono la chiusura relazionale.

8. Quali sono i rischi più frequenti in cui incorrono i giovani collocati? Da quello che ho potuto osservare nei pochi mesi di lavoro gli eventi a rischio maggiormente vissuti sono relativi alle sostanze e alle armi. Io parto dal presupposto che la vita è una costante assunzione di rischio, a modificarsi è il bagaglio esperienziale a propria disposizione che fa sì di averne una ponderazione più o meno funzionale, consapevoli del fatto che il rischio non si può cancellare mai totalmente. A mio avviso in adolescenza il rischio maggiore è di non sperimentare, al pari di un’eccessiva sperimentazione inadeguata.

9. Come prevenite un’eventuale esperienza rischiosa da parte dei ragazzi? Si cerca sempre di fare prevenzione lavorando anche in ottica di riduzione del danno. Faccio un esempio. Se sappiamo che un ragazzo consuma, si lavora sì sull’ astinenza, ma parallelamente anche su un consumo corretto attivando gli attori della rete pertinenti.

10. Quando ti devi assumere una determinata responsabilità rispetto al rischio in cui incorre un ragazzo, cosa ti fa stare tranquillo? Mi fa stare tranquillo il fatto che lavoriamo in trasparenza, dunque, non nascondendo niente alla rete, gli attori che devono essere coinvolti vengono subito attivati. Il fatto di informare sempre tutti permette di avere un’equa distribuzione delle responsabilità a seconda delle competenze specifiche da attivare. Noi non lavoriamo in sostituzione, dunque se ci sono dei professionisti più competenti su determinati argomenti si interpellano.

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11. Ci sono già state circostanze nelle quali si è sentito di non poter proteggere abbastanza un ragazzo? Perché? Sempre perché il controllo assoluto del rischio non lo si può avere e, dunque, possiamo aiutare a gestire le situazioni, ma non possiamo evitare che accadano. I ragazzi spesso sono all’esterno del foyer, quindi confrontati alle dinamiche della vita reale e, da quel lato, non essendo presenti non possiamo fungere da mediatori.

12. Ci sono state circostanze nelle quali ha sentito che si stava assumendo un carico troppo grande di responsabilità? Perché? Sì, spesso può capitare quando si lavora nell’urgenza, il tempo per prendere delle decisioni è veramente breve, dunque a volte nell’immediato ci si assume la responsabilità di situazioni che sarebbe meglio delegare ad altri. Qui rientra un po’ tutta la difficoltà del nostro lavoro; ossia nell’urgenza ci si deve anche tutelare. Se due ragazzi si vogliono accoltellare in foyer, i secondi a disposizione per scegliere la modalità d’intervento sono molto pochi e la componente emotiva molto presente, dunque l’assunzione di rischio difficilmente è adeguatamente ponderata.

13. Ci sono dei consigli che vorrebbe dare al fine di sentirsi più tutelato in merito alle responsabilità annesse ai rischi che si assumono i ragazzi? Faccio fatica a rispondere perché è una domanda che dipende un po’ dalle variabili che sono in gioco. Ogni situazione è a sé. Bisognerebbe più che altro parlare della situazione specifica per vedere che consigli si possono dare, perché i consigli sono comunque legati al qui e ora e difficilmente generalizzabili.

14. Ci sono dei consigli che vorrebbe dare per far fronte o prevenire il rischio

inconsapevole e distruttivo in adolescenza?

Il consiglio è adottare il nostro principale strumento che è la relazione. Far sì che il giovane non si senta giudicato rispetto alle dinamiche in cui si trova coinvolto. Il fatto di non mollare mai i ragazzi permette di poter costruire e trovare delle soluzioni molto più facilmente. La relazione ci permette di lavorare sulle sfumature rimanendo importanti anche quando la sfiducia nel mondo è molto marcata.

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Allegato 7: intervista Elisa - educatrice

1. Quale formazione hai intrapreso per lavorare nel sociale? Ho fatto la SUPSI Lavoro Sociale con opzione Educatore.

2. Da quanto tempo lavori nel sociale? Da quanto nel foyer Calprino? Lavoro dal 2010, mi son diplomata nel 2009. Nel foyer Calprino lavoro dall’aprile 2014.

3. Quali esperienze hai avuto nel sociale prima di arrivare al foyer Calprino? Allora, durante la formazione ho fatto lo stage pre-formativo presso la Fondazione La Fonte, poi ho fatto uno stage presso la Fondazione Gabbiano, quindi tossicodipendenza, e il terzo anno ho fatto l’ultimo stage con il lavoro di tesi presso il Servizio Educativo Minorile della Magistratura dei Minorenni. Quando mi sono diplomata, mentre cercavo lavoro, ho fatto uno stage post-formativo al foyer Calprino di dieci mesi. Successivamente sono stata assunta in un istituto, che è sempre un CEM del Cantone e lì ho lavorato in un gruppo orizzontale, quindi di adolescenti, e poi in un gruppo verticale di minorenni, con bambini dall’asilo a alle medie.

4. Sai dirmi quali sono i limiti e le risorse del modello non-punitivo e non-espulsivo presente al foyer Calprino? Sicuramente le risorse sono un’accoglienza e un non giudizio del ragazzo, della sua storia e dei suoi gesti che permettono di entrare in relazione più facilmente e in maniera più trasparente e, si spera, più significativa. Io penso che questi ragazzi lo sentano e che all’inizio, magari, un po’ li depista perché non sono abituati, non l’hanno mai visto e comunque è una cosa nuova. I limiti è ancora un po’ presto per definirli, perché comunque, essendo che siamo in costruzione di questo modello, forse li sentiamo, ma non è che gli abbiamo dato proprio ancora una lettura definita. Magari, delle volte, i limiti sono più legati a noi educatori che ci diciamo che non abbiamo ancora avuto abbastanza risultati positivi o risultati concreti e tangibili rispetto ai percorsi che abbiamo iniziato con questo modello e quindi effettivamente ti chiedi se si va verso dei concreti risultati o meno. In questo momento cominciamo a vedere qualcosa, ma delle volte ti chiedi come mai nonostante il modello tot. ragazzi sono ancora nell’agito, sono ancora nella presa di rischio dopo tanto tempo e, quindi, è lì che ti dici sarà un limite il fattore, per esempio, del tempo nell’entrare in una modalità meno rischiosa?

5. Dove si collocano i limiti e le regole nel modello non-punitivo e non-espulsivo? È vero che adesso in foyer ci sono delle regole che sono molto limitate a quelli che sono i rientri serali o il consumo di sostanze o meno in foyer o comunque ai gesti, per esempio, penali che sono anche perseguibili penalmente. Non è che se un ragazzo infrange una regola inerente al foyer, per esempio, rispetto al devi tornare per mezzanotte, se torna a mezzanotte e mezza c’è la sanzione o il castigo come veniva pensata una volta. Cioè, anche se ci sono queste regole poi c’è la gestione del momento in sé, non è visto come “hai sbagliato”. Riferendoci, per esempio, sempre al rientro notturno, uno mi può tornare alle due di notte perché ha fatto la festa ed è tornato non in forma, alterato da alcol o altre cose, e quindi si parla di quello, del perché non sei arrivato per l’ora che ti ho chiesto o per l’ora che sai che il foyer chiude di notte. In questo modo ci si arricchisce di

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più si parla di quello che effettivamente il ragazzo ha vissuto, come la pensa e ci sta anche la responsabilità di quello che è successo. Come dirti, se tu rimani fermo sul fatto che non è tornato in orario punto e stop si perde tutto il contorno e diventa limitativo; non si guarda quello che ha fatto il ragazzo e il perché. Delle volte i ragazzi tornano in ritardo perché semplicemente hanno perso un bus, cosa che può anche capitare, piuttosto che è successo qualcosa a casa o che è successo qualcosa di significativo, quindi anche lì è importante andare a vedere il perché e cosa pensa il ragazzo. Non sempre abbiamo tutte queste risposte, però è più una modalità di affrontare quello che accade giornalmente con un’ottica più di relazione, di curiosità, di interessamento verso l’altro, alla fine viviamo nella stessa casa. Io non vedo limiti in questo, credo che parlare delle cose per quello che sono sia una risorsa e sia genuino.

6. E la dimensione di controllo (atteggiamento autoritario/ antiautoritario / autorevole)? Quando ho iniziato a lavorare qua c’erano più regole, più struttura e anche più sanzioni e sentivi un senso di controllare, se si può dire, quello che accadeva, però adesso, andando verso questo nuovo modello e vedendo un po’ come ci stiamo trasformando, ti rendi conto che la dimensione passata del controllo era quasi un’illusione. Era, forse, un sistema per far funzionare le cose però più un’illusione che altro, perché i ragazzi facevano le stesse cose che fanno adesso solo che, probabilmente, ne sapevamo di meno. È, comunque, impensabile pensare di poter gestire ogni aspetto qua dentro e quello che fanno i ragazzi anche fuori. Penso che la dimensione del controllo sia più una richiesta che l’esterno ci fa che una cosa che veramente si attua. Parlando di questo io mi sento più legata all’atteggiamento etico autorevole che autoritario o antiautoritario, perché penso che proprio con il nostro modello è il senso di quello che si vuole dare: la relazione, l’accoglienza, uno scambio reciproco costruttivo, eccetera.

7. Con l’entrata in vigore del modello non-punitivo e non-espulsivo hai l’impressione che i ragazzi collocati assumano più o meno rischi rispetto a prima? Secondo me non si può dire che assumano più o meno rischi. È che, probabilmente, adesso ce li raccontano di più perché non temono una reazione o comunque delle conseguenze da parte del foyer rispetto a quello che fanno. È anche vero che nel corso degli anni gli adolescenti portano problematiche e rischi diversi, agiti diversi, ecco, forse adesso agiscono anche di più e, quindi, sono questi i due aspetti: una volta non ce lo dicevano e assumevano gli stessi rischi di adesso oppure i passaggi all’atto sono aumentati perché adesso le problematiche in adolescenza sono anche cambiate.

8. Quali sono i rischi più frequenti in cui incorrono i giovani collocati? Il consumo di sostanze a più livelli, che sia la cannabis, l’MD, la cocaina, l’abuso di psicofarmaci o altre cose. Poi considero un rischio anche il fatto degli agiti che possono finire anche nel penale, quindi furti, aggressioni spaccio, eccetera. Nei rischi, ci inserisco anche l’autolesionismo e la sofferenza che ognuno si provoca sia tagliandosi o in altri modi.

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L’incognita del rischio: la gestione del rischio all’interno del foyer Calprino della Fondazione Amilcare

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9. Come prevenite un’eventuale esperienza rischiosa da parte dei ragazzi? Stiamo attenti ai segnali che ci danno. Quando vivi nella stessa casa con i ragazzi, condividi diversi momenti della giornata, dopo un po’ di tempo, magari, compaiono dei segnali che sia il sonno disturbato, l’alimentazione, il tornare in stato alterato ripetutamente. La convivenza ti porta alcuni campanelli a suonare e quando si è attenti a questi segnali si cerca di affrontare questi discorsi, di chiedere al ragazzo cosa ne pensa di queste cose. Dopo sta a noi, se si capta, per esempio, che c’è una certa necessità di parlare di sostanze o degli effetti che hanno, oppure notiamo che il nostro gruppo sta consumando tante sostanze si chiamano dei professionisti del tema. Per esempio abbiamo già chiamato persone della rete esterna che trattano queste cose, tipo danno.ch, per parlare con i ragazzi e dare anche a loro delle informazioni che sono proprio puramente preventive. Si passa sia dalla prevenzione sia dalla riduzione del danno, insomma si cerca di darglieli in contemporanea un po’ per evitare anche il giudizio del “ah, tu consumi quindi sei già un tossico”, sennò non si riesce ad avere una discussione sulla tematica. Come anche per la sessualità, è un discorso che arriva spesso e si cerca comunque di far vedere i rischi e i non rischi di un atteggiamento di avere rapporti sessuali protetti con partner sicuri e queste cose qua. Direi così: attenzione ai segnali ed essere aperto a tutti i discorsi.

10. Quando ti devi assumere una determinata responsabilità rispetto al rischio in cui incorre un ragazzo, cosa ti fa stare tranquilla? Sicuramente la condivisione con i miei colleghi, con il responsabile e con il direttore. Una condivisione che è anche una discussione del come si affrontano le cose, di quali aspetti si tengono da conto. Magari sul momento in cui accade una cosa io vedo solo un aspetto, ma poi condividendolo ci sono anche altre persone che vedono altre cose e lì si comincia a tessere la rete di sicurezza rispetto a questa responsabilità e non ti senti solo, che è molto importante qua dentro.

11. Ci sono già state circostanze nelle quali ti sei sentita di non poter proteggere abbastanza un ragazzo? Perché? Mi vengono in mente due situazioni. Si parla di ragazzi in momenti acuti di sofferenza e di passaggio all’atto e in quel momento era proprio una di quella situazioni dove era anche una delle prime volte in cui vedevo delle tematiche del genere, quindi ero anche già spiazzata da tutta la sofferenza, dal dolore e, poi, dal cosa si doveva fare. Poi i ragazzi in quei momenti non è che fanno un passaggio all’atto e poi si fermano, sono ripetuti e vanno anche in escalation ed è li che, per esempio, non ti sembra di poter proteggere con solo le mura del foyer un ragazzo, perché alla fine è anche lui che deve scegliere di stare qua e scegliere di essere accompagnato o meno. Ti senti un po’ impotente solo nell’accoglierlo nel prestargli le cure necessarie che lui accetta e queste cose qua.

12. Ci sono state circostanze nelle quali hai sentito che ti stavi assumendo un carico troppo grande di responsabilità? Perché? Nelle situazioni nuove e rischiose, dove comunque c’era il pericolo che il ragazzo si facesse male o che succedesse qualcosa di grande, lì m’interrogavo rispetto alla mia adeguatezza o inadeguatezza rispetto alla situazione e all’esperienza che avevo e se ero

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in grado di vedere tutte le sfaccettature. Quindi, lì magari il senso di responsabilità rispetto ai ragazzi mi pesava, era abbastanza pressante, comunque la sofferenza risuona abbastanza dentro. La responsabilità, secondo me, va legata anche alla questione della sofferenza che ti risuonano i ragazzi e che comunque spiazza anche l’educatore; in situazioni, per esempio, di abuso, di sofferenza psichica e cose del genere. Quindi sì l’ho sentito, ma non perché ero costretta nel mio ruolo, qua al foyer Calprino per esempio, ma perché ci sono tante cose che accadono contemporaneamente. Magari in passato, in altri posti, invece, potevo dire che la responsabilità scaricata sugli educatori, visto che non c’era condivisione e sostegno, era troppa.

13. Ci sono dei consigli che vorresti dare al fine di sentirti più tutelata in merito alle responsabilità annesse ai rischi che si assumono i ragazzi? Ne abbiamo parlato tanto quando abbiamo iniziato a cambiare il modello, più che altro, adesso che non abbiamo una situazione definita di modello o che comunque lo stiamo mettendo in atto con i primi tentativi e così, è un po’ questo che causa delle volte un po’ d’incertezza oppure un po’ di smarrimento. Però adesso che comunque è diventata più un’abitudine adottarlo c’è tanta condivisione, c’è più pratica e tutto quanto ti senti anche tutelato. È all’inizio che non capisci dove stai andando, poi quando incominci a vedere e sentire la direzione è un’altra cosa. Poi, ripeto, noi abbiamo la fortuna che c’è condivisione a tutti i livelli in Fondazione e sarebbe bello che questa condivisione non fosse solo interna, ma anche esterna perché lì sarebbe veramente la potenza del modello. Sarebbe ottimale che anche i coordinatori del progetto e tutti quelli che vengono tenuti sempre aggiornati si sentano anche loro parte di questa responsabilità condivisa e che non sia solo nostra.

14. Ci sono dei consigli che vorresti dare per far fronte o prevenire il rischio inconsapevole e distruttivo in adolescenza?

Sarebbe bello avere una di queste soluzioni veramente efficaci, ma alla fine penso che l’unico consiglio che posso dare agli educatori e così è di non aver paura di parlare degli argomenti che portano i ragazzi, perché veramente ne portano tanti. Alla fine tematiche di violenza o di aggressività suscitano comunque dei timori e delle paure che sono anche nostre, dobbiamo però riuscire a poter parlare di tutto con loro ad ampio spettro, senza timori e senza paura perché i ragazzi comunque lo sentono se sei una persona con cui ci si può confrontare e che non ci sono tabù nella relazione. Questo secondo me è una grande forza.

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Allegato 8: diario 1 In serata, durante un momento informale con Filippo, sono emersi alcuni aspetti interessanti rispetto al modello vigente al foyer Calprino. Filippo aveva da poco passato un periodo nel quale si era messo a rischio più volte. Abbiamo riflettuto insieme riguardo agli elementi che l’hanno portato a intraprendere in varie occasioni la strada meno sicura. Lui ha più volte riportato che all’interno del foyer si sente sicuro, perché la presenza dell’educatore lo limita nel prendere decisioni pericolose. Afferma che quando pensa di fare una cavolata, gli basta uscire dalla camera e vedere un operatore, in questo caso specifico faceva l’esempio del suo educatore di riferimento, che gli passa la motivazione a intraprendere l’azione distruttiva che aveva architettato. La conversazione si è declinata, come anticipato, verso quello che è il modello non-punitivo e non-espulsivo del foyer. Ha affermato che, dal suo punto di vista, il modo di lavorare degli educatori è positivo per certi aspetti, ma per molti altri non lo vede come una risorsa. Ha dichiarato che per lui è importante sapere che gli educatori ci sono e lo ascoltano. Ha aggiunto che, rispetto ad altri istituti nel quale è stato, si sente più accettato e sicuro di poter parlare di vari argomenti. Si sente sicuro che qualsiasi cosa farà non verrà abbandonato, come spesso accaduto in passato. Nonostante questo, però, sente una grossa mancanza nella struttura relativa al fatto che non vi sono delle punizioni. Ha detto che in svariate occasioni ha percepito che gli educatori gli hanno dato troppa libertà, ha usato la metafora del muro dicendo che il fatto di non avere conseguenze concrete alle sue azioni lo portano a sfondare alcuni muri che è importante rimangano in piedi. Ha esposto, oltre a ciò, alcuni collegamenti rispetto alla sua esperienza di vita. Gli fa strano che ci siano degli adulti che gestiscano le situazioni in maniera totalmente differente, rispetto a come fanno i suoi genitori, riferendosi soprattutto al papà. Lui, quando viveva a casa, era abituato ad essere punito per i suoi errori, con anche delle sanzioni abbastanza severe. Non vede come in altri modi si possa ottenere qualcosa da un giovane come lui che fa fatica a rimanere in una cornice di regole. Gli è stato chiesto cosa pensasse potesse essere meglio per lui e per una costruzione funzionale del suo progetto di vita. Ha risposto di non saperlo dire concretamente, però, sente la certezza di aver bisogno di una figura adulta che, quando lui fa qualcosa contro il suo benessere, gli ponga di fronte dei limiti ben precisi. Ha concluso il discorso dicendo che è contento della relazione che ha instaurato con gli educatori, si sente al sicuro in foyer, ma vorrebbe che a volte gli stessi parlassero di meno e agissero di più.              

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Allegato 9: diario 2 Una sera Gianluca è rientrato in foyer verso mezzanotte. Era visibilmente alterato. Ha dichiarato di essere stato a casa di un suo amico e di aver consumato grandi quantità di Marijuana. Faticava a stare in piedi e parlava sbiascicando, quindi gli è stato proposto di fumare una sigaretta di fuori, al fine di valutare meglio il suo stato di salute. Durante il discorso Gianluca si addormentava, non riuscendo a finire di formulare le frasi che iniziava. Ha destato molta preoccupazione perché le sue assenze portavano a pensare che avesse assunto anche altre sostanze oltre alla marijuana. L’educatore in turno ha rimandato al ragazzo con tranquillità che non era per niente contento dello stato in cui era rientrato in foyer e che lo avrebbe anche ripreso, se non fosse stato che era talmente “stono” che si sarebbe rivelato inefficace, in quanto, probabilmente, il giorno seguente non si sarebbe ricordato le parole dell’educatore. Poi si è iniziato a parlare di argomenti più leggeri e d’interesse di Gianluca. Nel corso della conversazione il ragazzo si è gradualmente ripreso sino ad arrivare ad essere discretamente lucido. A un certo punto, dopo circa un’ora che i due erano fuori a chiacchierare, Gianluca si è voltato verso l’educatore e gli ha detto: - “Non mi sono dimenticato che all’inizio mi hai detto che mi avresti voluto fare un cazziatone, ora che sto meglio, me lo fai per favore?” Il giovane, attraverso la frase pronunciata, ha fatto trasparire il bisogno di essere contenuto dalla figura adulta che aveva di fronte. L’educatore ha accolto il messaggio e l’ha ripreso per come era arrivato ad alterarsi dopo una serata passata con gli amici, spiegandogli che lo aveva fatto preoccupare perché aveva fatto qualcosa che andava contro al suo benessere e alla sua sicurezza. Poi il ragazzo è salito in camera accompagnato dall’operatore. ll tutto si è concluso con un abbraccio.

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Allegato 10: diario 3  Fabrizio è un ragazzo di 16 anni. Dopo poche settimane che è stato collocato al foyer Calprino ha iniziato a non dormire più nella struttura. Passava la maggior parte del tempo all’esterno con amici che, talvolta, avevano anche molti anni in più di lui. All’équipe erano giunte voci da altri giovani che Fabrizio si metteva sovente in pericolo. Era stato riferito, per esempio, che lo stesso era in possesso di un arma da fuoco e assumeva di frequente e con eccesso sostanze stupefacenti. Nel primo periodo è stato difficile creare le basi di una relazione di fiducia con lui, in quanto sfuggiva ad ogni contatto o vicinanza e si poneva in maniera aggressiva ed evasiva con la figura adulta. L’eccessiva assunzione di sostanze, in un dato momento, lo ha portato a non sentirsi più bene con sé stesso, a tal punto da incorrere in un esordio psicotico ed essere ricoverato alla Clinica Psichiatrica Cantonale. Gli educatori, in coerenza con il modello non-espulsivo del foyer Calprino e guidati dalla certezza che il giovane non va abbandonato, hanno sostenuto e accompagnato Fabrizio nel momento antecedente il ricovero, il quale era caratterizzato da un malessere forte che il ragazzo proiettava attraverso l’aggressività, lo hanno aiutato al costruire il percorso che potesse portare a un aiuto terapeutico e hanno continuato a seguirlo anche quando lo stesso è stato accolto alla Clinica Psichiatrica Cantonale. È stato proprio in quest’ultimo percorso descritto, nell’istate in cui Fabrizio ha sentito di aver toccato il fondo, che ha iniziato a fidarsi dell’educatore, in special modo degli educatori di riferimento. Ha iniziato a chiamare frequentemente gli operatori, a chiedere di andare a trovarlo e a raccontarsi. Il fatto di non essere stato abbandonato nel momento in cui era stato collocato alla Clinica, probabilmente, ha permesso al ragazzo di fare un’esperienza positiva con la figura adulta che sino a quel momento, per i vissuti che aveva immagazzinato negli anni, risultava essergli ostile e inaffidabile. In un’occasione specifica era andata in visita da lui un’educatrice e insieme si erano recati al Club74, atelier di musica nella Clinica. Per Fabrizio il momento era stato molto intenso a livello emotivo e il medesimo si era aperto con l’operatrice, raccontandole la sofferenza che provava in quel momento. Alla fine dell’incontro lui aveva chiesto se lei avesse calcolato queste ore con lui come lavoro e lei gli aveva risposto di no. Ha espresso di essere incredulo nel sapere che qualcuno potesse interessarsi a lui senza avere un doppio fine e ha ringraziato più volte l’educatrice.                    

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Allegato 11: diario 4  È da quando è stato collocato in foyer, a fine 2016, che Roberto fa la richiesta di poter andare in appartamento tramite la Fondazione. Esso ha più volte affermato che, da quando vive in foyer, è condizionato dalla convivenza con gli altri. Un giorno dopo pranzo ha raccontato all’educatore in turno che si sente il ragazzo meno compromesso all’interno della struttura e, per lui, non è sempre facile non farsi condizionare dal malessere o dai comportamenti degli altri. Ha detto di non sentirsi sicuro nel vivere con gli altri perché più volte è capitato che venisse coinvolto nel consumo di sostanze stupefacenti oppure in comportamenti devianti di altro genere. Dal suo punto di vista il fatto di mettere insieme tanti ragazzi che non stanno bene è controproducente. Effettivamente l’argomento che ha portato Roberto viene discusso e approfondito di frequente a riunione tra i membri dell’équipe. Molto spesso, infatti, ci si ritrova a dover gestire situazioni sfavorevoli dettate dalla difficile convivenza, accostando gli obiettivi dei progetti individuali che, nonostante siano prioritari, passano in secondo piano in quanto si lavora nell’emergenza. Per esempio capita sovente che i ragazzi rubino oggetti personali tra di loro e ciò porta a forti liti, nelle quali l’educatore ha il ruolo di mediare e tamponare i disappunti e l’aggressività. Altre volte, invece, quando i ragazzi si alleano, accade che si coinvolgano a vicenda in attività devianti come per esempio spaccio di sostanze stupefacenti, risse e furti. L’équipe, inoltre, trova che il progetto di Roberto sia idoneo a un proseguimento in appartamento, anche per permettergli di sperimentarsi nella vita autonoma. Roberto ogni qualvolta parla dell’influenza che hanno su di lui pari all’interno del foyer, trova quale soluzione la possibilità di proseguire il proprio collocamento separato dagli altri ragazzi che come lui sono in una situazione di difficoltà. Lui afferma che potrebbe proseguire il percorso verso il raggiungimento dei propri obiettivi di vita in maniera più efficace e senza distrazioni vivendo in appartamento. Tutti i ragazzi collocati attualmente in foyer hanno esposto lo stesso desiderio di Roberto, alcuni di essi, come per esempio Antonio, uno dei ragazzi intervistati, hanno chiesto di essere collocati in Amilcare proprio perché vi è questa possibilità. Purtroppo, però, il foyer non può rispondere ai bisogni emergenti dei ragazzi in quanto gli viene riconosciuta dal Cantone la possibilità di Adoccare (proseguire la presa a carico in appartamento) soltanto due giovani, limite numerico Cantonale che, eccezionalmente, il foyer Calprino ha già superato.