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L’ERMES, ORFEO E EURIDICE DEL MUSEO NAZIONALE DI NAPOLI di Armando Polito

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L’ERMES, ORFEO E EURIDICE DEL MUSEO NAZIONALE DI NAPOLI

di Armando Polito

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Com’è noto, la favola di Orfeo ed Euridice ha scatenato, grazie anche alle sue varianti, una ridda di interpretazioni ed ispirato letterati, pit-tori, scultori e musicisti di ogni tempo. Già la lettura più immediata (non per questo necessariamente più banale e superficiale) come e-saltazione dell’amore coniugale che si esprime anche nel non saper aspettare (per altri il gesto fatale di Orfeo è il simbolo del dubbio o, se si preferisce, del sospetto) costituisce un ottimo presupposto per giustificare la sua valenza di classico o, come oggi si usa dire, di ever-green. Ma è sul piano rappresentativo che voglio soffermarmi con ri-ferimento, particolare, sia pur sintetico, alla pittura e alla scultura e, più dettagliato, ad un reperto forse proveniente da Ercolano e attual-mente custodito nel Museo Nazionale di Napoli: il bassorilievo di Er-mes, Euridice e Orfeo. Le mie osservazioni avranno una finalità pura-mente estetica e prescinderanno dai problemi, forse insormontabili, di natura storico-archeologica1 che nel corso del tempo su quest’opera si sono più addensati che diradati. In altre circostanze ho avuto occasione di dire che il commento a qualsiasi opera d’arte co-stituisce una sorta di superfetazione culturale con i suoi addentellati concettuali e sentimentali e che probabilmente solo la poesia e la musica, in teoria, potrebbero fare a meno di ogni commento, laddo-ve la lettura per la prima, l’esecuzione per la seconda fossero in gra-do di esprimere compiutamente il messaggio dell’autore. ________ 1 Sulla provenienza e sul contesto del reperto e altro vedi all’indirizzo http://

www.vesuvioweb.com/new/article.php3?id_article=760&var_recherche=orfeo+e+euridice .

Si crede che l’opera sia la solita copia romana di un perduto originale greco di scuola fidia-

ca; qualche anno fa Erminio Paoletta in Le pietre dimenticate ricordano, Laurenziana, Na-

poli, 1993 pp. 628-643 ha sostenuto, tra l’altro, che si tratta di un capolavoro neoattico del-

lo scultore severiano Trefonio (lo stesso cui lo studioso attribuisce il sarcofago ritenuto di

Alessandro Severo e di sua madre Giulia Mamea custodito nel Museo Capitolino), “arrivato

nel Museo di Napoli, con altre due sculture gemelle, da arco ierogamico accadiese” ; lo

stesso studioso, poi, ne ha fornito un’interpretazione crittografica per la quale mitistorica-

mente Ermes rappresenterebbe “l’imperatore divinizzato Alessandro Severo, ucciso a Ma-

gonza il 24 marzo 235, che viene a prelevare la moglie Sallustia/Euridice, suicida nel 238,

strappandola al salvatore (e finto marito) Trefonio/Orfeo”. Tutte le foto relative al bassori-

lievo sono di Aniello Langella.

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È inevitabile, perciò, che alla parola, soprattutto quella scritta, sia affidato, comunque, il compito di partecipare agli altri gli esiti del nostro impatto con la creazione artistica e di rendere possibile l’incontro e, se proprio è necessario, anche lo scontro delle opinio-ni. Preliminarmente debbo dire che non conosco altra rappresenta-zione pittorica o scultorea del momento senz’altro più toccante dell’intera favola: quello del distacco definitivo. C’è chi, fra i pittori, ha privilegiato il momento iniziale del viaggio di ritorno dall’Averno al mondo dei vivi (Jean Raoux, Friedrich Rehberg

Jean Raoux 1720 circa

Friedrich Rehberg 1810

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e Rubens (per quanto riguarda quest’ultimo da notare l’occhio di Orfeo, che, da anatomicamente sinistro, appare già pronto ad es-serlo anche metaforicamente), chi ha colto l’istante successivo al momento fatale fondendo l’intensità drammatica dello sguardo di Orfeo con l’espressione consapevolmente disperata della sua spo-sa (Federico Cervelli), chi ha congelato la dissolvenza di Euridice

Rubens, 1635

Federico Cervelli (1625-1700)

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(Edmund Dulac e George Frederick Watts) quasi aspirata

dall’oltretomba (G. Kratzenstein-Stub); l’unico dipinto a me noto in

Edmund Dulac (1882-1953)

G. Kratzenstein-Stub 1806

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cui con i due protagonisti appare chiaramente anche Mercurio è

quello di Charles De Sousy Richetts, dipinto, a mio avviso, ambi-

guo proprio per la postura piuttosto abbandonata del messaggero

degli dei che sembra esercitare una vigilanza blanda, anzi nessuna

vigilanza, il che autorizzerebbe a supporre che vi sia rappresenta-

ta l’uscita, tranquilla, dall’Averno; tuttavia la postura di Euridice

con gli occhi chiusi e che dà l’impressione di aver appena interrot-

to il cammino e di essere in procinto, quasi, di tornare indietro,

nonché lo slancio di Orfeo, più vicino ad un’imprecazione che alla

celebrazione di un trionfo, non escludono che si tratti del mo-

mento immediatamente successivo al “fattaccio” (il che obblighe-

rebbe ad interpretare Ermes nel gesto di imporre ad Euridice il ri-

torno negli Inferi).

Charles De Sousy Richetts (1866-1931)

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Lascio, invece, al lettore il compito di interpretare il tema e di identi-ficare Ermes, Euridice ed Orfeo nell’opera di Jean-Claude Davreux e chiudo questa rassegna, che non ha la pretesa di essere esaustiva, delle rappresentazioni pittoriche con quella di Turi Volanti.

Jean-Claude Davreux 1994

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Turi Volanti 1992

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Anche la scultura sembra aver privilegiato un momento diverso della favola: così è in Peter Vischer II, in Antonio Canova, in August Rodin

Antonio Canova 1775-76

Peter Vischer II 1515 c.

Auguste Rodin 1893

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e nel contemporaneo Arno Breker, mentre, tra i viventi, il solo G. Abram sembra aver ripreso (pur nella evidente sfasatura cronolo-gica) il tema del nostro bassorilievo, anche qui senza la presenza di Ermes.

Arno Breker 1944

G. Abram

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In arte è sempre lecito fare confronti ed avventato, però, non far

seguire la sospensione del giudizio, ragion per cui non esalterò più

di tanto la scelta tematica, a quanto pare unica, del nostro ignoto

artista; mi limiterò solo a tentare di esprimere le mie emozioni sen-

za prescindere dagli aspetti tecnici, ben consapevole che ogni crea-

zione artistica è sottesa anche da scelte razionali fatte, magari, in-

consciamente. E comincerò proprio da queste.

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Che l’armonia compositiva risponda a precisi canoni geometrici è co-sa nota2. Parrebbe, così non essere casuale la collocazione delle tre figure racchiuse pressochè perfettamente in una circonferenza, il che, però, non impedisce all’occhio di notare, soprattutto nella parte superiore sinistra, una distanza, più spiccatamente tra i busti degli attori, maggiore di quella ravvisabile nella parte superiore più di cen-tro-destra che di destra (chiedo scusa per questo infelice e sacrilego prestito dal politichese…). E casuale potrebbe non essere pure il fat-to che un triangolo pressoché equilatero racchiude in sé lo sguardo dei due protagonisti e che la bisettrice BD rappresenti per questo ma soprattutto per le loro mani il punto di incontro/distacco.

_______

2 Due soli famosi esempi: per la circonferenza e il quadrato l’Uomo vitruviano di Leonar-

do, per il triangolo la Pietà di Michelangelo.

A

B

C D

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Da qui, proprio per le mani, una posizione dominante e privilegiata,

ad esprimere stupendamente: la sinistra di Euridice l’invito alla ras-

segnazione, scevro da qualsivoglia ombra di rimprovero3; la destra di

Orfeo il tocco delicato, struggente e consapevole dell’ultima carezza;

e poi opposti, quasi in disparte, da un lato il braccio destro in un

_____

3 Non posso non ricordare Ovidio, Metamorfosi, X, 60-61: : Iamque iterum moriens non est

de coniuge quicquam/ questa suo;quid enim nisi se quereretur amatam? (E già di nuovo

morendo non ebbe per il marito parole di rimprovero; e di che cosa avrebbe dovuto lamen-

tarsi se non di essere amata?)

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rassegnato abbandono della donna e la sinistra di Ermes stupen-

da interprete del rigore della legge che non esclude la partecipa-

zione, quasi pudica e discreta, al dolore altrui; dall’altro la sini-

stra di Orfeo che impugna, più che reggere, la cetra, il suo se-

condo amore diventato ormai inutile dopo che Ermes gli sta por-

tando via per sempre il primo.

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Dedicherò ora la mia attenzione a ciò che potremmo definire la di-

dascalia dell’opera: i nomi, in greco, dei tre protagonisti. È una pre-

senza normale, rinvenibile anche in alcuni affreschi pompeiani. Ciò,

però, che colpisce è il fatto che il nome di Orfeo (e solo il suo) è

scritto procedendo da destra a sinistra. Mi soffermerò appena sulla

questione, una delle tante, controversa circa l’originalità delle scrit-

te e dirò solo che per lungo tempo è prevalsa l’opinione di Giam-

battista Finati (Il regal museo borbonico, Napoli, Stamperia reale,

1842 pag. 296 : Oltre lo stile così detto secco e le pieghe parallele e

stese ci attestano l’alta antichità di questo bassorilievo i caratteri

voltati da destra a sinistra sulla testa di Orfeo E

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Non comprendo, però, per quale motivo gli altri nomi sono scritti

regolarmente. Oggi alcuni considerano le scritte aggiunte successi-

vamente (ma quando?), altri autentiche, anche se

“ritoccate” (sempre in epoca imprecisata). Aggiungo che, secondo

me, se ritocco c’è stato, esso è stato effettuato da due mani diverse,

come mostrerebbe la diversa grafia delle lettere comuni : (sigma),

E (epsilon), (eta), (ipsilon) e (ro) che ho evidenziato, rispet-

tivamente, con le circonferenze rossa, nera, azzurra, gialla e verde.

Nella seconda foto ho effettuato il capovolgimento orizzontale della

prima per rendere più agevole il confronto e a questa mi riferirò da

ora in poi. Cominciamo dal sigma: in 2 presenta linee decisamente

più arrotondate di quelle che mostra in 3; lo stesso avviene per ,

sempre in 2, nei confronti dell’analoga lettera in 4. Passiamo ad ep-

silon: la tendenza a piegare in 2 a sinistra (nell’originale 1 a destra) è

assente in 4, e in 2 il dettaglio non è giustificato da imperfezioni del

supporto che avrebbero obbligato a tale scelta; oltretutto, tale

vezzo coinvolge, sempre in 2, anche ro e la successiva fi.

1 2

3

4

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la successiva fi. Per la eta: non vedo in 3 e in 4 significative differen-ze nel tratto; la leggera inclinazione in 3 della prima eta rispetto alla seconda è irrilevante, a meno che non si voglia supporre che lo stesso nome sia stato tracciato “in sociètà”, ragion per cui riterrei che 3 e 4 sono della stessa mano, 2 di un’altra; il destino, poi ha vo-luto che la frattura in 4 coinvolgesse proprio ro (l’unica lettera co-mune ai tre pezzi...quando si dice la sfiga!) e la seconda ipsilon; nemmeno i segni residui di ro consentono di operare un confronto probante con l’analoga lettera di 2 e 3, mentre quelli di ipsilon con-cordano perfettamente con il tratto della prima. Rimane ro: per quanto appena detto l’unico confronto possibile è tra 2 e 3 e, ad es-sere onesto, non mi pare esserci una grossa differenza. Se fossi un epigrafista sarei già arrivato ad una conclusione ben più ricca dell’ipotizzata stesura a due mani, ma, siccome sono un inco-sciente, voglio finire in bruttezza e confessare la mia impressione, nella speranza che qualche competente dica la sua sull’argomento:

il tratto di E mi appare più elegante, sciolto e, addirittura,

nonostante il suo verso, meno arcaico degli altri due; tra questi ul-timi, poi, proprio quello di è, a mio modo di vedere, il più

rozzo. Non me ne voglia il messaggero degli dei, al quale ho già manifestato, credo compiutamente, la mia simpatia per la sua partecipazione umana alla dolorosa vicenda, fatto raro tra gli dei, rarissimo, specialmente oggi, tra gli uomini... Col voto in calligrafia finisce il discorso sulla didascalia, ma le con-siderazioni a tal proposito fatte saranno subito riprese per una sconsiderata operazione di criptofiloarcheologia: non me ne voglia, questa volta, dopo Ermes, anche Erminio Paoletta che di questa dis-ciplina è stato il benemerito inventore. Non tutti condividono (forse per invidia) le proposte dello studioso, che restano, comunque, originali ed affascinanti. Mi chiedo, allora, chi sarà disposto a condi-videre quelle di un pinco pallino, per giunta, forse, grottesche e re-pellenti. Nonostante questo, inizio il mio lancio senza paracadute...

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Per tentare di capire un fenomeno bisogna pensare ad un altro più o

meno simile, la cui eziologia sia stata sufficientemente chiarita. Non

mancherebbero esempi di monete romane con leggenda greca scrit-

ta all’inverso (almeno secondo la lettura da alcuni proposta, da altri

contestata) e proprio Erminio Paoletta nel fascicolo n. 60 (marzo-

aprile 2004) di ACCA(I)DIA parla di un medaglione augusteo recante

la leggenda “ORAT-IUS continuante in lettura inversa con SUI4

TARO5”, interpretata così: ORAZIO (che chiede giustizia per sé) POR-

CO (del gregge di Epicuro) (e per il suo) CUSTODE. Per il Medioevo

ricordo l’Annunciazione (1434-1436) di Jan Van Eyck (nel dettaglio in

basso a destra, leggibile, detto dall’Angelo, AVE GRÃ[TIA] PLENA e,

dalla Vergine, con grafia non solo inversa ma anche capovolta,

(ECCE ANCILLA D*OMI+ÑI) ________ 4 Dativo di sus=porco; Epicuri de grege porcum (porco del gregge di Epicuro) Orazio si auto-definisce in Epistole, I, 4, 15. 5 Secondo l’autore dal greco , dativo di forma dorica per l’attico =

custode.

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Qui è evidente che la scrittura inversa ha la funzione prevalente di indicare la direzione della voce, anche se finisce formalmente per creare un chiasmo: AVE, il saluto, s’incrocia con ECCE, che è una pa-lese dichiarazione di disponibilità; GRÃ*TIA+ PLENA, l’effetto, con ANCILLA DOMINI, la causa. Le lettere capovolte, infine, sembrereb-bero far diventare sottomissione la precedente disponibilità. Per quanto riguarda il secondo esempio, quello del medaglione, se si accetta l’interpretazione di Paoletta6, bisogna intendere la scrittura inversa come un espediente per dare vita ad un vero e proprio gioco enigmistico, quello del palindromo, con richiami addirittura autobio-grafici e letterari, come s’è visto in nota 4. Appena appena sorretto da questi scarsi apporti, passo ora al nostro

bassorilievo. È fin troppo evidente che non vale quanto detto per

l’opera del Van Eyck; nè, d’altra parte, vi è ravvisabile un qualsivoglia

gioco di parola come nel medaglione. E allora? Nonostante abbia ap-

pena finito di cestinare le motivazioni emergenti dagli esempi ripor-

tati, gli stessi, tuttavia, mi tornano utili per due recupero: il primo,

dell’idea di direzione; il secondo di quella di allusione. Comincio dalla

prima. Oggi la nostra scrittura per lo più procede da sinistra a destra

per ogni rigo; tra gli esempi antichi il più noto è forse quello della

scrittura bustrofedica che procede nel primo rigo da sinistra a destra

fino al margine e nel rigo successivo continua in direzione opposta e

con rotazione delle lettere. _______

6 Qualche perplessità suscita in me non tanto il fatto che la forma dorica a quanto

so, non è attestata, quanto il dover supporre come base per le ulteriori allusioni un piano

criptologico di fondo che prevede la lettura di SUI TARO come se fosse scritta con caratteri

greci: (AL PORCO AL CUSTODE); la stessa scritta in greco, in caratteri minuscoli,

sarebbe stata ma la lettera maiuscola corrispondente a sarebbe dovuta

essere (trascurando lo iota sottoscritto) W e non O. La mia perplessità cadrebbe se in latino

si trovasse attestato un taro (dativo di tarus): ciò renderebbe plausibile la doppia valenza

scrittura latina/lettura greca, dal momento che il corrispondente latino del greco non

sarebbe potuto essere che o.

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Ritornando al nostro triangolo, si noterà come il lato a sinistra per

chi guarda crea una separazione fra i nomi di Ermes ed Euridice da

una parte e di Orfeo dall’altra, quasi a scandire due virtuali righi

successivi, il secondo dei quali comincia con la parola Orfeo bustro-

fedicamente incisa; è come se il senso della scrittura suggerisse

che per la donna e il messaggero degli Dei il viaggio verso la luce

finisce lì, per Orfeo, invece, inizia il percorso a ritroso verso un de-stino di sofferenza peggiore della stessa morte. Se non si tien conto del triangolo è come se il nome dei due sfortunati coniugi indicasse la direzione del loro ultimo reciproco saluto, quello di Ermes un ri-chiamo, pure per lui increscioso, al tragico rispetto della legge. Al di là di questa o quella interpretazione, resta, comunque, il mira-

colo senza tempo di un’arte sublime e mi chiedo, pur nella sospen-

sione del giudizio, se ci sarà mai chi non tremerà di fronte alla ten-

tazione di rappresentare di nuovo dopo tanti secoli proprio questo

momento di un mito che ancora oggi affascina e commuove.

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