L’Abito di Pettorano

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COLLANA IL FILO CHE C’È SOMMARIO 5/ PRESENTAZIONE 7/ IL RESTAURO E IL RECUPERO DELLABITO DI PETTORANO SUL GIZIO VISSUTO COME LAVVENTURA DI UN INTERO PAESE 11/IL PRIMO INCONTRO E I TESTIMONI 15/ ABBIGLIAMENTO TRADIZIONALE ABRUZZESE 18/ METODI E STRATEGIE DI STUDIO 22/ STORIA DELLABITO FEMMINILE DI PETTORANO SUL GIZIO 25/LE QUESTIONI ICONOGRAFICHE ATTRAVERSO DESCRIZIONI ED IMMAGINI 27/ LIMITI FILOLOGICI DELLA RAFFIGURAZIONE 29/ ERUDITI E VIAGGIATORI 34/ FOTO, RITRATTI E CARTOLINE NEL NOVECENTO 39/ DESCRIZIONE DEL FEMMINILE E DEL MASCHILE 41/ VOCABOLARIO 42/ TESSUTI E TINTURA 49/ IL GRUPPO DI LAVORO 50/ COMPOSIZIONE DELLABITO FEMMINILE 63/ L’ABITO MASCHILE 67/ BIBLIOGRAFIA 69/ COLLABORAZIONI E RINGRAZIAMENTI

description

Cata UdA, abito tradizionale, pettorano

Transcript of L’Abito di Pettorano

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COLLANA Il fIlo che c’è

Sommario

5/ PreSentazione 7/ Il restauro e Il recupero dell’abIto dI pettorano sul GIzIo

vIssuto come l’avventura dI un Intero paese

11/il Primo incontro e i teStimoni

15/ abbigliamento tradizionale abruzzeSe

18/ metodi e Strategie di Studio

22/ Storia dell’abito femminile di Pettorano Sul gizio

25/le questIonI IconoGrafIche attraverso descrIzIonI ed ImmaGInI

27/ limiti filologici della raffigurazione

29/ eruditi e viaggiatori

34/ foto, ritratti e cartoline nel novecento

39/ descrIzIone del femmInIle e del maschIle

41/ vocabolario

42/ teSSuti e tintura

49/ il gruPPo di lavoro

50/ comPoSizione dell’abito femminile

63/ l’abito maSchile

67/ bibliografia

69/ collaborazioni e ringraziamenti

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Centro d’Antropologia Territoriale per il TurismoUniversità G. d’Annunzio

Francesco Stoppa

NOUBS EDIZIONI

Maria Paola Lupo

l’AbIto tRADIZIoNAle di PettoRANo sul GIZIo

Comune di Pettorano sul Gizio

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Grazie allo studio ed alla ricerca del Prof. Francesco Stoppa del Centro d’Antropologia Territoriale dell U. d’A., svolta in collaborazione con i cittadini di Pettorano sul Gizio, si è potuto procedere alla manifattura

dell’abito femminile, vera perla della Conca Peligna per la peculiarità e l’orgogliosa bellezza, e di quello maschile che oggi possiamo riammirare a Pettorano.

Il recupero degli Abiti tradizionali pettoranesi, nella storica vestitura borbo-nica, esprime la volontà di evitare che i dettagli materiali e culturali di questi abiti vadano persi o siano tramandati in modo inesatto oppure solo considerati come oggetti folcloristici.

Il processo di ricostruzione filologica, durato circa tre anni, non rappresenta l’espressione di un semplice interesse per l’”antico”, oggi di gran moda, ma la vo-lontà di un recupero storico e documentato di un patrimonio materiale ed immate-riale da consegnare alla collettività e alle generazioni future.

La bellezza dell’abito femminile deriva anche dalla capacità di mani sapienti di pettinare e vestire la donna ed è per questo che ringrazio tutte quelli che, grazie al ricordo di un mondo che rappresenta le radici della nostra cultura e della nostra identità, hanno collaborato e continuano a collaborare in modo che l’abito esprima tutta la sua regale maestosità quando viene indossato.

A tal proposito mi preme di porre l’accento sull’impegno e l’ardore che la Si-gnora Lina Schiappa ha profuso in tutto questo tempo e che con passione si rende sempre disponibile tutte le volte che l’abito deve rappresentare Pettorano.

L’obiettivo è stato raggiunto grazie all’interesse del vicesindaco Josè Berarduc-ci che in maniera “silenziosa” ha condotto quest’iniziativa avendo sempre creduto nel recupero e restauro filologico dell’abito maschile e femminile di Pettorano sul Gizio.

Un ringraziamento inoltre, all’Associazione Pro-Loco di Pettorano che custo-disce con cura alcuni abiti che vengono indossati in occasione di manifestazioni, concorrendo a far conoscere ad un pubblico sempre più ampio l’abito tradizionale pettoranese.

Il Sindaco di Pettorano

Dr. Feliciano Marzuolo

presentazIone

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Il restauro e Il recupero dell’abIto dI pettorano sul GIzIo vIssuto come l’avventura dI un Intero paese

di Francesco Stoppa

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Il titolo di questo capitolo può far nascere il dubbio di un equivoco o di un’esagerazione, ma non si tratta né dell’uno né dell’altro. è invece il racconto di un avvenimento e di una ricerca che ha coin-

volto un piccolo paese caratterizzato da una certa nobiltà monumentale, che conserva la sua tessitura urbanistica inviolata e che ora sta ulteriormente recuperando le proprie piazze, i palazzi, i mulini e le gualchiere. In questo salvataggio ispirato non solo dalla bellezza dei luoghi e delle cose, ma an-che dalla constatazione dei pericoli che esse corrono di andare perse, si è pensato subito a un emblema di Pettorano: l’abito tradizionale femminile. Questo abito, che in passato aveva attratto l’interesse dei viaggiatori, degli scrittori e degli illustratori, aveva smarrito molte delle sue caratteristiche e peculiarità e, per questo, il suo splendore si era andato via via offuscan-do. Il suo restauro ha riconsegnato a Pettorano l’aspetto glorioso che esso doveva avere nella prima metà dell’Ottocento e all’Abruzzo un pezzetto di conoscenza della sua storia. Purtroppo ben poche collettività abruzzesi si preoccupano del patrimonio materiale e immateriale legato alle proprie tradizioni; Pettorano invece è un ottimo esempio di sensibilità e volontà di recupero documentato dell’abito tradizionale.

Questo volumetto non vuole essere una semplice raccolta di immagi-ni e frammenti letterari né, tantomeno, una trattazione “dotta”, ma si pre-figge di illustrare semplicemente e analizzare concretamente l’evoluzione dell’abito tradizionale e popolare; sfatare e smascherare i falsi luoghi comu-ni e presentare un esempio metodologico. Ciò non tanto per gli esperti del settore ma per tutti quanti vogliano riavvicinarsi culturalmente e material-mente all’abito stesso. Per questo motivo si è rinunciato al richiamo formale di figure e bibliografia che è comunque disponibile per il lettore che volesse approfondire. Si è riesaminata la sua funzione sociale, la sua origine e uso, il ruolo condizionante e l’importanza che esso rivestiva nella vita quotidia-na. Sono riaffermati i valori di una tradizione storica millenaria scaturita e plasmata dalle caratteristiche fisiche del territorio e dalle sue risorse econo-miche e culturali. Si sottolineano tali significati come segno d’identità nella prospettiva di un completamento delle ricerche finalizzate al recupero della tradizione abruzzese e alla qualificazione dell’offerta turistica e culturale.

premessa

Abiti della Conca Peligna(Sulmona, 1890)

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l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo10

Il primo incontro reale con l’abito femminile di Pettorano sul Gizio è avvenuto nel giugno 2006, prima lo conoscevo solo tramite alcune foto e per i racconti della mia amica Donata Berarducci in Graziani,

nata a Pettorano. Ma già ne ero rimasto affascinato, come tutti, per l’im-ponente acconciatura e per il busto dall’architettura aggettante. L’impulso a iniziare una ricerca filologica venutomi dal vicesindaco Josè Berarducci, si è consolidato solo dopo aver visitato questo borgo situato sopra la conca di Sul-mona, sulla vecchia via napoleonica per Roccaraso. Mi sono, infatti, entusia-smato dell’ambiente, dell’atmosfera, delle peculiarità del paesaggio naturale e antropizzato e dalle rustiche prelibatezze gastronomiche, come la “polenta rognosa” e i “mugnoli e cazzarielli” ma anche e soprattutto, della sfida che mi si presentava: sottile e complicata nel dover far combaciare e selezionare tante informazioni di così disparata qualità e origine. Un’altra prova era data dal carattere dei Pettoranesi che è schietto, attentamente critico e austero quando si tratta di parlare delle proprie tradizioni.

Imboccata la strada dello studio delle testimonianze e dei reperti materiali, anche se frammentari e di epoca e provenienza diverse, subito si è creata un’intesa riservata ma aperta al confronto, con alcuni abitanti del paese. Durante una del-le prime riunioni convocate con l’aiuto e l’intermediazione di Carmelina “Lina” Schiappa, ho incontrato una bella modella in “costume” locale, le signore che l’hanno vestita hanno ripercorso i rituali e i gesti antichi della vestitura e dell’ac-conciatura circondandola con assorta saggezza manipolatoria come se fosse stata una giovane sposa o forse una principessa. Nonostante la scena fosse affascinan-te la mia percezione iniziale è stata sfocata, l’abito non mi ha comunicato quello che un vero abito tradizionale usualmente comunica. Si trattava, infatti, di una copia recente, privata degli attributi funzionali e degradato, come spesso accade, a spoglia folcloristica. Anche le interviste all’inizio mi sono apparse confuse e contraddittorie, il che non era certo una sorpresa; ormai la percezione dell’abito, anche nelle comunità che lo detengono, è diluita al punto da entrare in contrasto con le stesse evidenze fornite dai reperti. Reperti originali poi non ce ne erano molti. Tuttavia, dopo aver illustrato i motivi e i metodi della ricerca, durante gli incontri successivi sono emersi i primi originali quando, durante e dopo il rac-conto, i testimoni hanno sentito la necessità di agganciare la loro memoria a quel determinato oggetto che quindi doveva essere vero, autentico.

Le testimonianze orali sono state particolarmente utili per ricostruire la “sapienza” legata all’abito tradizionale e chiarire alcuni usi funzionali di parti scomparse con il tempo e il cambio economico/culturale, fornendomi

In tre anni di lavoro ho accumulato molte informazioni su questo abito e ora il quadro è abbastanza completo da poter essere raccontato in questa pubblicazione. Ho utilizzato gli appunti, i documenti e i reperti rintracciati a Pettorano sul Gizio (AQ) e in molti altri luoghi, nonché nei ricordi perso-nali di tanti Pettoranesi. Assicuro che tutte le informazioni e le testimonian-ze degli anziani di Pettorano sono state tenute nella dovuta considerazione sebbene sia stato necessario vagliarle, confrontarle con la realtà oggettiva dei reperti e con i dati riscontrati nella letteratura; si è ovviamente consi-derato e confrontato quanto è noto di abiti coevi e geograficamente vicini, come per esempio quelli viciniori di Pacentro e Sulmona, e quelli di “stra-da” come Scanno e Pescocostanzo.

Dopo questa introduzione generale e le considerazioni necessarie alla metodologia di studio e la storia dell’abito, seguono una presentazione de-gli aspetti legati alle sorgenti documentarie scritte e iconografiche, curate da Maria Paola Lupo, e la descrizione delle copie filologiche che sono esposte permanentemente a Pettorano, compreso il lessico specifico. La consulta-zione di tali copie è possibile ai Pettoranesi, agli abruzzesi in Italia e nel mondo se, come spero, questo lavoro sarà poi esportato presso le comunità residenti all’estero, laddove fossero concesse dalla Regione Abruzzo le ri-sorse necessarie.

Il prImo Incontro e I testImonI

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l’aggancio con la storia e rendendo quindi possibile la ricerca filologica e la documentazione sperimentale. In questo caso lo studio strutturale e l’inter-pretazione delle modifiche funzionali subite dai reperti garantiscono che si tratta di capi ancora in uso quando l’abito non aveva ancora perso le sue pre-rogative sociali e l’uso continuativo, garanzia di autenticità del reperto. Nelle case di Pettorano sono ancora reperibili con una certa facilità panni da capo di varia fattura, tovaglie e busti, numerosi esemplari di camicie e grembiuli spesso pesantemente rimaneggiati. Oltre agli esemplari reperiti a Pettorano, di cui molti sono copie conservate alla Proloco, sono stati studiati i reperti conservati al Museo delle Genti d’Abruzzo (un originale incompleto, tre bu-sti), al Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma (due originali completi ma integrati con rifacimenti in antico). Un altro esemplare si trova al Museo del Costume di Sulmona (una copia non filologica e incompleta).

Il lavoro di documentazione ai fini della ricostruzione della copia filolo-gica, oltre che sui reperti originali, si è basato sia su un filtraggio incrociato tra copie più o meno antiche, sia sulle testimonianze orali e, in modo più marginale, sul patrimonio figurativo e sugli scritti. La ricerca sul campo e la realizzazione della copia filologica dell’abito femminile sono stati condotti per gradi, capo dopo capo, a partire dalla tintura fino alla tessitura e alla cuci-tura, tutto fatto manualmente, hanno richiesto un anno e mezzo di lavoro e si sono conclusi nel dicembre 2007. La prima “uscita” dell’abito femminile, nel giorno di San Biagio, è stata un momento corale di festa popolare benedetta dal rito antico e sacro delle candele incrociate della Candelora. Un evento simbolico perché Sande Biašə è anche il protettore dei lanari e dei cardatori dato che con i loro pettini di ferro Egli fu scarnificato durante il martirio, e di lana è quasi interamente fatto l’abito di Pettorano se si esclude la grande to-vaglia in accia mista e la camicia di lino o cotone, anche esse frutto del lavoro di filatura e tessitura delle “nonne” di Pettorano.

Ogni decisione, ogni errore, ogni traguardo raggiunto è stato condivi-so e verificato con il gruppo di lavoro dei Pettoranesi, coordinato da Lina Schiappa, senza il cui impegno e dedizione e accorta opera di mediazione non sarei mai arrivato al bandolo della matassa (in abruzzese lu capefilə), seb-bene l’abito sia perfettibile e ancora necessiti dell’aggiunta di accessori vari. Committenza, sostegno economico e morale, fiducia incondizionata mi sono stati costantemente forniti dall’Amministrazione Comunale, dal Sindaco Dr. Feliciano Marzuolo e in particolare dal vice Sindaco Dr. Josè Berarducci, cui vanno la mia stima e la mia gratitudine.

Lina Schiappa

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L’abito tradizionale si configura come uno dei più cospicui tesori della cultura immateriale del popolo abruzzese. Perché immate-riale? Perche lungi dall’essere dei semplici oggetti, gli abiti tradi-

zionali rappresentano una summa della memoria e della cultura, nonché il segno distintivo di una società che affonda le sue radici in vicende millena-rie. In Abruzzo alcuni luoghi hanno mantenuto, per fenomeni di isolamen-to geografico o conservatorismo economico e culturale, abiti di foggia bor-bonica, seppure leggermente evoluti, fino alla fine dell’Ottocento. Queste sopravvivenze che si manifestano a “pelle di leopardo” comprendono per esempio: Scanno, Pettorano, Pescocostanzo, Alfedena, Pietracamela, Castel del Monte ecc. Anche qui però l’abito andava via via impoverendosi degli attributi funzionali e, nel Novecento, finiva per diventare una spoglia fol-cloristica di nessun interesse storico e culturale. In altri luoghi si perdeva perfino la memoria dell’abito borbonico perché precocemente sostituito da un tipo d’abito popolare “globale” che si diffuse in quasi tutto l’Abruzzo (e in Italia) dopo l’Unità d’Italia, con poche varianti da luogo a luogo.

Se della grande tradizione e varietà degli abiti tradizionali abruzzesi, una cui visione è fornita dalle acqueforti, dalle litografie e dai “guazzi” set-te-ottocenteschi, pochissimo sopravvive materialmente; d’altra parte non possiamo certo accontentarci dei costumi folcloristici che niente hanno a che vedere con il significato dell’abito tradizionale e che anzi lo mortificano e lo trasformano in sottocultura.

La deperibilità intrinseca degli abiti abruzzesi, quasi tutti realizzati in lana, e il fatto che costituendo un patrimonio personale esclusivo venivano inumati con il proprietario, ha fatto sì, complice anche il gusto del pittoresco e del collezionismo e la necessità di magnificare il popolo italiano, che anche le raccolte più antiche e sostanziose (es. quelle celeberrime di Zamponi e Mai-nardi del 1910 al Museo di Arti e Tradizioni Popolari di Roma) contengano numerose integrazioni ed aggiunte spurie e forse qualche indulgenza all’esa-gerazione. Inoltre quasi mai tali “originali” sono disponibili in Abruzzo e presso le collettività locali, essendo stati dispersi fuori Abruzzo.

Sebbene i saggi sull’argomento siano numerosi, dotti e puntuali (cfr. biblio-grafia), non sono di solito affiancati da una proposta di recupero e inserimento dell’abito in un contesto pratico tradizionale. Quanto al tentativo di realizza-zione di copie filologiche, per quanto si sia messo impegno e buona volontà nel “copiare” gli originali, il risultato è stato modesto ed è mancato totalmente il reinserimento e riutilizzo funzionale, a parte il caso di Pietracamela.

abbIGlIamento tradIzIonale abruzzese

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l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo16 l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo 17

è ora di restituire concretamente agli abruzzesi questo patrimonio la cui eredità, passata a cori e sagre, e a rifacimenti di fortuna non abbastan-za suffragati da ricerche scientifiche, è stata mistificata e svilita in maniera indecorosa. L’abito tradizionale “abruzzese” è stato identificato con una di-visa di maniera, sciatta, paradossale, ridicola, oltre che vuota di contenu-ti sia interiori che esteriori. è necessario provvedere con estrema urgenza ed efficacia al riconsolidamento del patrimonio sia virtuale che materiale dell’abito tradizionale e di ciò che lo accompagna (gioielli, amuleti e acces-sori) non affidandosi ad attività estemporanee ma fondate sulla continuità e su centri di ricerca e di diffusione culturale locali e coordinati sul territorio. Estremamente importante è la condivisione democratica e trasparente negli scopi e l’applicazione sperimentale alla rivitalizzazione delle tradizioni e non estrinsecata attraverso azioni “calate” dall’alto ma attraverso un lavoro gomito a gomito con le collettività che sono proprietarie, destinatarie e, infi-ne, i gestori finali e di diritto di tale patrimonio. Per questo è importante che gli enti nazionali si confrontino alla pari con gli enti locali in quest’azione.

Al momento sia alcuni comuni (Pietracamela, Bucchianico, Guardia-grele, Manoppello) che alcune associazioni (a Chieti, Spoltore, Pianella, Tos-sicia) stanno avvicinandosi all’idea di recuperare il loro abito in un contesto più ampio dell’uso spettacolare, ma necessitano di metodologie e strategie culturali e tecnici di riferimento e di supporto. I ricercatori dal Centro di Antropologia Territoriale dell’Università G. d’Annunzio hanno chiaro in mente che siamo molto vicini a un punto di non ritorno e che un imponente sforzo collettivo è necessario se vogliamo salvare almeno una parte del pa-trimonio e rimetterla a disposizione degli Abruzzesi. Il lavoro sul territorio in via di svolgimento fino dal 2001 ha portato alla riscoperta graduale di molti aspetti pratici non noti della cultura dell’abito in Abruzzo e ha spo-stato su un piano pratico gli studi teorici consentendo la ricostruzione delle prime copie filologiche.

L’abito tradizionale ha un riferimento strettamente diretto con la so-cietà e l’economia che lo ha prodotto ed è una pagina di storia e di cultura non scritta cui si deve rendere giusto merito. Non dobbiamo pensare a esso come un bene fine a se stesso perché invece nel suo mutare ha registrato cambi geografici delle rotte commerciali, dei canali di scambio culturale e del cambio socio economico fino a restarne vittima, insieme alle altre tradi-zioni. Il significato, le funzioni, i simboli degli abiti tradizionali abruzzesi di epoca borbonica e del loro successore, il popolare tardo ottocentesco, si

sono trasferiti altrove nel quadro del cambio culturale e della scomparsa della società tradizionale. La storia di questo processo è un fortissimo para-metro per la ricostruzione e la comprensione di certi valori tipici e univer-sali della Tradizione.

L’unico modo per una collettività di riappropriarsi del patrimonio le-gato all’abito è di produrre copie filologiche realizzate il più possibile con i materiali e i dettagli originali anche nelle parti non visibili. Ciò consente poi di rifare in loco altre copie da ridistribuire per usi sia privati che pub-blici contribuendo a dare concretezza a un’idea che altrimenti non corri-sponderebbe più alla realtà. Molto importante è che i giovani si accostino con orgoglio e ammirazione all’abito e che si ricominci a indossarlo almeno ad eventi pubblici o privati importanti: feste religiose, matrimoni, piuttosto che a sagre e parate.

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Si comincia dall’abito femminile che assume aspetti più vistosa-mente peculiari e specifici del luogo e che meno ha subito modifi-che almeno fino all’Unità d’Italia. Cioè corrisponde alla posizione

nella società ancestrale della donna, più saldamente legata alla famiglia, alla casa, al territorio e a cui era quasi sempre preclusa, pena l’isolamento dall’ambito sociale cui apparteneva, la possibilità di un contatto diretto con consessi sociali più allagati.

La ricerca sperimentale è integrata dallo studio delle note dotali e dell’iconografia attraverso un controllo incrociato con cui è possibile recu-perare ulteriori informazioni e riempire eventuali vuoti di conoscenza me-diante il confronto con zone cronologicamente e geograficamente vicine. Le note dotali, seppure con linguaggio tecnico e a volte astruso e con occhio più all’apprezzamento della consistenza e del valore economico che altro, ci elencano una serie di capi e di accessori senza entrare però nei dettagli sartoriali. Si pone l’enfasi sui pezzi “buoni”, mentre in caso di corredi poveri si dice “la donna con tutti i suoi panni”, oppure solo con quelli che indossa. L’abito base in Abruzzo consiste, in epoca borbonica, di una camicia in lino, pochi altri accessori intimi, un busto su cui si agganciano le sottane e la gon-na sia in fibre vegetali e/o animali, plissate e molto ampie, maniche staccate con ampi risvolti al polso e allacciate con nastri, giacchina, ampi grembiuli, scialli, panni per il capo di solito consistenti in una tovaglia ripiegata. L’abito femminile in genere aveva colori indaco, rosso, verdone, giallo nei toni caldi dei coloranti vegetali e minerali naturali e arricchiti da numerosi bottoni e ganci in argento oltre a nastri e coccarde. La foggia è estremamente variabile, anche se l’Abruzzo si distingue per busti ampi e alti e scarsezza di pizzi e ricami, imponente invece è l’oreficeria che era parte integrante dell’abito.

L’abito maschile è meno variabile e ciò è dovuto al fatto che i maschi si spostavano molto per motivi commerciali, di richiesta di lavoro manua-le stagionale in aree esterne e, ovviamente, per la transumanza. Un abito dalle caratteristiche troppo marcate avrebbe stimolato rivalità territoriali e l’aggressività etnica oltre a ledere il senso di fiducia e di “simile” necessari a rinsaldare i patti e gli scambi commerciali. Insomma avrebbe stimolato la xenofobia. Esistono anche abiti di corporazione o funzionali a determinati mestieri o situazioni come quello dei pastori, dei lanaioli, dei briganti etc. L’abito maschile comprende camicia o casacca, mutandoni, pantaloni ampi al ginocchio, ghette, giarrettiere, fascia, panciotto, giacchetta corta o lunga con faldine e abbottonatura semplice o doppia, fazzoletto da collo e da capo,

cappa e cappello. Esistono varianti festive e quotidiane. Le calzature erano alti zoccoli in legno e cuoio per le donne e scarpe chiodate con fibbia per i maschi (a volte anche per le donne e arricchite da fiocchi) che in antico non avevano la destra e la sinistra. Babbucce, cioè un tipo di scarpa a pantofola chiusa e un po’ alta dietro, più elegante. Cioce e calze con suola imbottita con stracci e trapunta con refe erano riservate a usi e circostanze specifiche come lavori campestri o domestici o al legnatico.

La ricerca si è svolta attraverso alcune fasi sperimentali che hanno ri-guardato il reperimento di capi interi o frammenti di essi, presso privati ed Enti sia in Abruzzo che a livello nazionale e internazionale. Tali esemplari sono stati schedati e classificati, la loro origine verificata e si è tentata una datazione in base alla fattura, ai coloranti usati e ai tessuti. La datazione si avvale di alcuni parametri di riferimento, per esempio la constatazione dell’uso di unità di misura borboniche, es. pollici e palmi, uso di tinture na-turali locali come la robbia e il guado o importate come la cocciniglia e l’in-daco, produzione nell’ambito familiare come filatura e tessitura manuale, presenza di accessori o materiali d’importazione (pizzi, merletti, tessuti jac-quard); finissaggi come la gualcatura e la zimbatura, introduzione di tessuti “industriali” o semi-industriali, presenza di colori all’anilina, uso di mate-riali locali, ricami, stratificazioni e accomodature attestanti l’uso funzionale (es. funzioni fisiologiche, gravidanza, allattamento oppure censuali) o per-sonale nel tempo (rattoppi, allargature). Altri aspetti riguardano i segni e i simboli trasmessi dall’abito che riguardano la nubilanza, lo stato maritale, il lutto, la vedovanza, la festa, la devozione a un Santo, le consuetudini locali ecc. Tutti questi aspetti aiutano non solo a verificare l’autenticità ma anche l’età e l’ambito di produzione sia geografico che economico-sociale. Si pro-cede poi allo studio delle varianti e delle fogge maschili e femminili legate allo stato civile, al censo, alle occasioni del ciclo calendariale e vitale.

è importante ricostruire il modo in cui l’abito si indossava, si portava, si disponeva durante il lavoro o la quotidianità, come ci si sedeva, i cam-bi stagionali, la pioggia e il freddo e il caldo. Il modo in cui si aveva cura dell’abito, la sua pulizia, l’uso degli accessori. In questo modo è possibile fornire una storia completa non solo dell’abito ma anche della cultura viva che lo ha prodotto e ne ha sostenuto l’uso nel tempo.

Il lavoro della ricostruzione di copie filologiche mobilita esperti delle tradizioni in tutta la filiera che va dai settori produttivi tradizionali, agli usi magico-religiosi, alla filatura delle fibre alla tintura naturale ai tipi di tessi-

metodI e strateGIe dI studIo

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ture, all’antica sapienza sartoriale molto complessa e agli accessori (fibbie, ganci, spille) e ai gioielli e amuleti che contengono una serie di simbolismi profondi. L’abito tradizionale femminile, a differenza di quello maschile, è stato evoluto attraverso un affinamento di codici simbolici, attribuibili al ruolo sociale e al sito geografico, e di funzionalità per le attività femminili che dovevano durare tutta una vita. L’angolo verticale e orizzontale cui è possibile muovere le braccia, l’altezza che raggiunge la gonna durante una rotazione, l’inclinazione del busto, il portamento del capo sono limiti fisici, oltre che morali ed estetici, imposti dall’architettura sartoriale e dal peso dell’abito. D’altra parte veli, grembiuli, sopraggonne, fazzoletti diventano elementi attivi sia con valenza estetica che simbolica. Indossare un abito tradizionale implica l’assunzione di una postura che definisce non solo una condotta “morale” ma anche uno stile dinamico e posturale accettato dalla comunità detentrice dell’abito stesso. Una ricostruzione filologica non può prescindere da questi fattori né d’altra parte esistono dubbi che il gusto mo-derno possa influenzare la ricostruzione fino alla snaturazione dello stile e del codice dell’abito tradizionale favorendo contaminazioni completamen-te avulse dalle regole tradizionali. Poiché è noto che lo stile si conserva solo per breve tempo dopo che le regole sociali e gli oggetti materiali di cui era espressione sono svaniti, è necessario porre un limite o chiarire il significa-to dell’adozione di “tenute e uniformi di maniera” e cioè i cosiddetti abiti folcloristici.

Dopo l’Unità d’Italia le fogge di epoca borbonica sopravvivono a pelle di leopardo mentre in tutto il resto d’Abruzzo si afferma l’abito popolare postunitario. Quest’ultimo conserva alcune caratteristiche tipicamente po-polari che lo differenziano nettamente da quello aristocratico e dell’alta bor-ghesia. Tuttavia esso segna il passaggio a una produzione che utilizzava sia materiali extra domestici che domestici perpetuando così la tradizione, ma aveva perso ormai il connotato geografico conservando solo alcuni caratteri distintivi del luogo di confezionamento. Questa foggia è l’unica che ancora sopravvive nella memoria dei più anziani avendola vista indossare a geni-tori e nonni. è così che, se nelle zone montane si conserva l’uso delle lane, in quelle costiere e collinari si affermano il cotone e la seta, in dipendenza dell’organizzazione economica locale. L’abito popolare rappresenta il pun-to di arrivo dell’evoluzione secolare dell’abito tradizionale e il suo tramon-to, avvenuto dopo la prima guerra mondiale, e i successivi flussi migratori sanciscono il concludersi della storia dell’abito abruzzese.

Al centro della foto la marchesinaLucilla Curato in abito albanese di Villa Badessa. Si notano nel gruppo abitiscannesi e abiti della zona di Caramanico.

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l’abito di Pettorano si colloca oltre che tra i più interessanti abiti abruzzesi, per la sua affascinante struttura sartoriale, anche tra quelli più a lungo sopravvissuti funzionalmente in Abruzzo.

L’immagine dell’abito è stata però penalizzata rispetto a quella della vici-na Scanno, in mancanza di altri motivi più nobili, per l’assenza di una sua diretta relazione con il turismo. La deperibilità dei materiali utilizzati per la gonna, il busto e il grembiule, realizzati in lana (o più raramente in seta), facili vittime del tempo e dei parassiti una volta che l’abito è stato smesso, rende estremamente difficile il reperimento di originali. Più facilmente con-servate sono altre parti, e specie la biancheria, realizzata in canapa e lino. Oggi possiamo ragionevolmente affermare che non esiste più un solo ori-ginale completo, mentre numerosi esempi di singoli capi di abbigliamento sono stati reperiti e studiati sia presso privati che presso Musei. Anche la demarcazione del territorio d’uso di quest’abito non è facile. Nel tempo gli autori e anche la memoria dei testimoni hanno sentito l’esigenza di confi-narlo alla città di Pettorano, ma in realtà la sua distribuzione tradizionale sul territorio era più sfumata sebbene nelle contrade circostanti dominas-sero varianti di foggia determinate da scelte di gusto. Il materiale raccolto consente di analizzare l’abito in un arco di tempo che va dalla seconda metà del XIX secolo alla metà del XX.

Non sappiamo se l’abito rinascimentale di Pettorano abbia subito una drastica modifica nel tempo, in quanto non esistono originali o immagini di esso: è però probabile di sì. A Scanno, per esempio, il cambio è stato im-pressionante: dai colori sgargianti e dalla foggia “esotica” si è passati a un severo stile “vittoriano” e all’uso di colori scuri. A parte le dicerie popolari (oggi si direbbe “leggende metropolitane”) sulle ragioni di tale cambiamen-to, è presumibile che ciò sia dovuto in parte all’applicazione delle leggi sun-tuarie emanate dopo i gravi terremoti che colpirono l’Abruzzo tra il 1703 (L’Aquila) e il 1706 (Majella), quest’ultimo in particolare disastroso anche per Pettorano. Con tali leggi si cercò d’imporre l’uso di stoffe semplici e grezze, come la tela e la saja di lana, e di colori poco appariscenti, mentre sete e merletti furono generalmente vietati. L’uso della canapa imbiancata invece del lino e la generale mancanza di decorazioni lussuose nell’abito di Pettorano sono probabilmente una diretta conseguenza di tali limitazioni oltre che scelte di gusto analoghe a quelle avvenute a Scanno. Invece so-pravvivenze degli antichi fasti rinascimentali sono forse le note di colore date dall’uso della robbia e dell’indaco (guado) che tuttavia erano ottenute

da essenze locali e quindi economiche e di regime domestico. De Stephanis riporta anche un accessorio importante, il grande spillone usato per fermare l’acconciatura, in oro e pietre semi-preziose.

Difficili da interpretare sono le note dotali, perché avendo altri scopi non riportano quasi mai gli aspetti sartoriali e d’uso degli abiti ma piuttosto la loro consistenza economica e quella degli accessori e degli ornamenti. Compaiono però anche qui accenni a stoffe pregiate d’importazione. Cer-tamente l’abito prima della metà del 1800 era più colorato dell’attuale. In ogni caso la ricerca presente si è concentrata sulla foggia di metà secolo, quando oramai si era persa nozione dell’eventuale abito precedente. Tale foggia ci appare sostanzialmente intatta fino ai primi due decenni del XX secolo. Le donne del paese portavano i capelli con una corta frangetta e bellissimi orecchini e collane a grani d’oro. Gli orecchini consistevano in un enorme cerchio la cui parte inferiore era piena di stelle e fiori appesi ognuno a un cerchietto separato. Le donne usavano stringersi la tovaglia intorno al volto per pudore o se non volevano farsi riconoscere. Ai piedi calzini rossi e viola fatti a maglia e con la pianta trapuntata col refe a mo’ di suola oppure alti zoccoli o pantofole. Le donne in lutto portavano un velo nero sopra la tovaglia da capo.

Tramontato l’interesse del ventennio fascista, che organizza e utilizza a fini populisti le mostre di abiti tradizionali e le rassegne di folclore regionali e nazionali, l’abito viene relegato a situazioni di circostanza. Si è conservato qualche raro ritratto e le foto delle ultime anziane in abito tradizionale che già allora si contavano sulla punta delle dita. A partire dal II dopoguerra, l’abito tradizionale scompare molto rapidamente; subentra una sensibile standardizzazione e impoverimento e infine una deriva legata ai folclorismi dei cori e alle corali. Nelle cartoline ritoccate dell’epoca si vedono ancora i lacci e i pendenti in oro, ma sono al contempo presenti alcuni paradossi, come le solite conche abbinate alla foggia festiva. Le preziose sete e la lana “zimbata” a Sulmona non ammettevano la più piccola goccia d’acqua, nes-suna donna una volta indossato l’abito da festa sarebbe andata alla fontana. Inoltre compaiono zinali sul modello di quelli lavorati al tombolo di Pesco-costanzo, già meta di turismo di massa.

Questa è l’immagine oleografica che si sostituirà alla realtà storica nella memoria dell’abito.

storIa dell’abIto femmInIle dI pettorano sul GIzIo

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2

le questIonI IconoGrafIche attraverso descrIzIonI ed ImmaGInI

di Maria Paola Lupo

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Quando si parla di abito, il primo impulso è tentare di focalizza-re un’immagine dello stesso, ricorrendo alle fonti iconografi-che che, nell’ambito dell’abbigliamento popolare, sono spesso

strettamente legate alle arti minori o locali. In Abruzzo la produzione più significativa di tal genere si ha dal Settecento in poi con la ritrattistica, le scene di genere, le incisioni, le stampe ed infine la fotografia storica.

Dedicandosi all’analisi delle varie rappresentazioni dei costumi abruz-zesi e in particolare dell’abito tradizionale di Pettorano si resta a volte in-terdetti, in quanto l’iconografia del soggetto rappresentato varia nel susse-guirsi delle molteplici raffigurazioni, a volte quasi totalmente. La motiva-zione principale di tali modificazioni illustrative risiede nel fatto che, come fa notare Elisabetta Silvestrini nel saggio “Repertori Iconografici dell’abbi-gliamento popolare e del costume in area abruzzese”, in Costumi Diversi di alcune popolazioni de’ Reali Domini di qua del Faro, la destinazione commercia-le di molte di queste opere ha frequentemente alterato, se non ignorato, il rapporto diretto con i soggetti raffigurati. Le serie iconografiche venivano riprese e rielaborate da diversi autori senza più alcun contatto diretto con la realtà rappresentata; accadeva, infatti, che le immagini dei costumi si allon-tanassero a ogni nuova versione dall’immagine originale.

Non si vuole, dicendo ciò, sminuire il valore documentario di queste raffigurazioni, ma piuttosto segnalare una necessità di contestualizzazione di questi repertori, così come è stato fatto da più studiosi.

Le raffigurazioni di realtà contadine dei paesi dell’allora Regno di Na-poli e soprattutto dell’Abruzzo divengono una vera e propria pittura di ge-nere, a volte su committenza, come nel caso della produzione dei pittori Alessandro D’Anna e Antonio Berotti che, su richiesta di Ferdinando IV di Borbone, a partire dal 1783 documentarono i costumi del Regno; in altri casi, per interesse personale, i disegni che si trovano nei diari di viaggio del Grand Tour, come testimoniano i ritratti di Estella Canziani nel suo Attra-verso gli Appennini e le Terre degli Abruzzi.

Queste scene, quindi, invadono tutti campi della produzione artisti-ca, soprattutto ottocentesca, arrivando dagli acquerelli alla ceramica, dalla scultura ai pannelli ricamati.

Proprio da questi ultimi mi piace partire per la nostra analisi. L’ope-ra è inserita nell’importante catalogo della mostra Napoli-Firenze e Ritorno tenutasi tra Palazzo Pitti a Firenze e il Museo Duca di Martina a Napoli a partire dal settembre del 1991 sino al febbraio del 1992. Viene subito notata

lImItI fIloloGIcI della raffIGurazIone

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l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo28

la raffinatezza di stile e la preziosità del manufatto e quindi l’uso privato dello stesso, ma non è questo il particolare d’interesse in questa sede, quan-to l’immagine del costume di Pettorano che se ne ricava, quasi del tutto identica a quella dell’acquerello intitolato Uomo e donna del paese ti Pettura-no, pescatore del lago Funico, provincia dell’Aquila, firmato Luiggi del Giudice facente parte della collezione del Museo Barbella di Chieti e pubblicato nel libro Il Costume popolare Abruzzese tra ‘700 e ‘800 (Acquarelli e Tempere). Il pannello ricamato è datato intorno al 1810 e l’acquerello XIX secolo. L’abito che vediamo è per molti dettagli differente da quello che viene descritto da Pietro De Stephanis in Pettorano, nel Il Regno delle due Sicilie, tomo IV Vol. XVI, pag. 82, Notizie su Pettorano: foggia di vestire edito nel 1853, e dalla Canziani nell’opera già citata, scritta nell’autunno del 1913.

Il De Stephanis dà apparentemente una minuziosa descrizione della donna di Pettorano, riportata poi anche nel Poliorama pittoresco, a. XVII (1856-1859) pag. 49-50: Stringono alla vita un bustino coverto di

panno blu o di somigliante colore, fregiato sul petto di nastri o di laccetti di seta e oro; e vi si appiccano le maniche in simil modo fregiate, per mezzo di lacci con nappe o con fiocchetti pendenti pur di seta e oro. Vesti ampie e folte di piegature, con un nastro all’estrema falda, o con trina a mezzagamba ondeggian loro sul piede; e sopra la veste cingono un grembiale (senale o mantera, come esse dicono) di seta e lana bianchis-simo; comechè abbiano alcune cominciato ad usarli di altra tela colorata, ed anco di seta le più bizzarre. Ricopre il seno la candidissima camicia che fin alla gola si stringe ornata di merletti più o men belli e sottili. Nell’acconciatura dei capelli sulle tempia imitano le donne civili. Covronsi il capo di bianca tela di canape o di lino che chiama-no tovaglia, larga intorno a tre palmi, e lunga quasi otto, alle cui estremità lasciano pendente una larga penerata. Si distende questa tela sul capo in maniera che la metà scenda larga alle spalle, le quali ne sono coverte fino alla cintura; l’altra metà dinanzi ripiegata tre volte per lungo dalla fronte in giù, nuovamente si rovescia sull’altra parte che covre le spalle; onde la persona dalla testa fino al busto è come chiusa in una cornice o nicchia di candidissimo lino, che rende le forme più leggiadre, e più vivace il colorito del viso. Calzano scarpe comuni, ed ordinariamente fanno uso ancora dell’an-tico zoccolo italiano. Solean pure nel verno cingere sulla veste un copertoio, perlopiù rosso, di lana, piegato in due a coda di rondine ma di presente ne è rimasta l’usanza pressoché alle sole vecchie. Continuano però a porsi nel capo sulle tovaglie, in tempi piovosi un pannicello di lana chermisino o di altro colore, che chiamano fasciatrelle.

Usano per ornamenti orecchini di svariata figura, rosari e filze di pallini d’oro intorno al collo, e collane e monili dello stesso metallo; alle mani anella con pietre o senza, e altri simili fregi muliebri.

In generale le donne pettoranesi si compiacciono di una lindura e di una pu-litezza non ordinaria: le loro camicie, le tovaglie son sempre di bucato, e riunite in chiesa o nelle processioni ei si par di vedere un piano di neve che ondeggi.

La descrizione del De Stephanis illustra questo particolare vestito ico-nograficamente identico al disegno della Canziani nel quale, tuttavia, non sono presenti i particolari decorativi. Nel Poliorama la rappresentazione del De Stephanis avrebbe dovuto essere resa figurativamente dal disegno ese-guito da Mattej che, tuttavia, come da nota del redattore, riprodusse l’abito indossato da un fantoccetto che la figlia del De Stephanis donò alla rivista. La realtà da segnalare, quindi, è che il disegno fatto da Mattej non solo non è una riproduzione fedele del testo di De Stephanis, ma una interpretazione

erudItI e vIaGGIatorI

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rispondente al gusto del pittoresco e fortemente influenzata dalle tempere Lorenesi, modello sulla base del quale è stata prodotta tutta l’iconografia dell’abito borbonico.

Il De Stephanis insiste molto sull’immagine di candore che il vestito tra-smette, caratteristica quasi completamente assente nelle raffigurazioni artisti-che finora descritte nelle quali si perde anche parte del fascino dell’abito dato dal particolare copricapo a lenzuolo. Da notare inoltre il fatto che nella colle-zione del Barbella è presente un altro acquerello, di mano anonima, denomi-nato Uomo e donna del paese del lago Fugino Provincia del Aquila Abruzzo Ultra in cui le vesti sono del tutto simili a quelle dipinte da Del Giudice nella foggia, mentre variano leggermente nel colore e nello sfondo in cui non vi è il lago.

Altra descrizione del nostro abito la troviamo nel diario di una viaggia-trice inglese: Anne MacDonnel, In the Abruzzi, Londra, 1908. La MacDonnel visita la Valle Peligna nei primissimi anni del ‘900 e, sebbene citi Pettorano solo di passaggio, propone una raffigurazione degli abiti di Pettorano visti al mercato del sabato di Sulmona insieme a quelli di Introdacqua, Pacentro e Roccapia: “I costumi di Pettorano, più di ogni altro contribuiscono a rendere splendida questa scena: essi sono stupendi ed audaci nei loro colori: verde, rosso e porpora nel corpetto e nel grembiale, mentre i copricapo che indossano le donne sono bianchi e dietro scendono fin sotto la cintura. Nei ricami e nei nastri c’è un tocco di giallo o di arancio e qualche altra nota di colore vivace nelle calze e nei merletti del busto. Le collane di corallo rosso e d’oro e gli orecchini pesanti, enormi e di rozza fattura, fanno risaltare il viso dalla carnagione scura, il petto ed il collo nudi”. Questa descrizione, come quella del De Stephanis, sembra restituire una grande vivacità cromatica, anche se nel testo sono riscontrabili alcune imprecisioni sulla percezione dei dettagli e dei diversi abiti. Purtroppo Amy Atkinson, accompagnatrice della MacDonnel, con il compito di redigere la parte iconografica, non ritrasse mai la donna di Pettorano con il suo abito.

Vi è inoltre un’altra descrizione nella quale gli elementi esposti risulta-no essere gli stessi del De Stephanis, ovvero quella fatta da Marisa Colaiaco-vo, in Il vestiario della Valle Peligna, in Atti del VII Congresso Nazionale delle tradizioni popolari, Firenze 1959, e riportato nel volume Costumi Popolari D’Abruzzo di Vincenzo Accardo e Franco Cercone edito nel 1982. La tavola XXIII illustrativa dell’abito di Pettorano mostra un’acquaforte di Bartolo-meo Pinelli che raffigura un abito molto simile all’acquarello del Barella ma che, come nel caso del Mattej, si discosta dalla descrizione fatta nel narrato dalla Colaiacovo.

“A Pettorano poi il costume tanto caratteristico e interessante era molto differen-te dagli altri in tutti gli elementi dell’abbigliamento all’infuori per gonna e sottogonna che, come ho già detto, non presentavano mai differenze. Una delle caratteristiche che rende certi di trovarsi di fronte al singolare costume è la grande tovaglia candida di lino, copricapo delle donne (la tuaglie). Per poter capire com’era portata si immagini una tovaglia stirata e piegata per lunghezza in quattro parti. Sulla testa era ripiegata in modo che un’ estremità can la frangia cadesse un po’ oltre le spalle risultando in larghezza metà dell’altra che invece scendeva lunga e larga oltre la schiena. Poiché tale tovaglia, data la sua pesantezza, non si sarebbe tenuta sulla testa si fermava o con un lussuoso spillo d’oro o con un lungo fazzoletto di seta o velluto d’estate e di lana in inverno. Al candido bianco della tovaglia si associava il bianco altrettanto candido della camicia (camiscia) tutta chiusa, lunga fino al malleolo di cui si vedevano solo le spalle e maniche. La scollatura tonda poco ampia, solo capace per entrarvi la testa, era ornata di alto merletto, cucito relativamente lento. Aveva bassa l’attaccatura delle maniche che erano lunghe, a volte terminanti col polso, a volte senza. In estate in ge-nere si portavano sempre rimboccate mentre in inverno erano coperte da maniche di lana che si attaccavano alle bretelle del busto (ju-bust).

Questo aveva forma molto caratteristica. Molto alto, superava abbastanza l’altez-za del petto. Sul davanti era molto ampio sì da lasciare un grande spazio dalla camicia al busto. Sul dietro era altrettanto alto ma aderente e dal davanti al dietro sui lati si riabbassava. Aperto sul dietro si chiudeva poi per mezzo di un laccetto infilato negli occhielli. Due bretelle piuttosto lente partivano dall’estremità laterali e poggiavano sulle spalle. La loro funzione non era di trattenere il busto ma di appuntarvi in inver-no, le maniche. II colore di questo era, quasi sempre nero. La fodera, che si vedeva, per-ché largo sul davanti, era di colore vario e per di più veniva cambiata spesso poiché si logorava ed insudiciava con facilità. Come già detto, la gonna (la vonna) molto ampia, era anticamente tessuta con lana e cotone, in tinta unita scura e a pieghe. A un lato coperta dal grembiule vi era una apertura in cui si introduceva la mano per trovare una tasca completamente staccata molto grande e legata alla vita. Il grembiule (lu zenale) era anch’esso scuro ed ora le poche donne ma vecchie che indossano il costume tradizionale, l’hanno ampio e con le tasche onde eliminare quella interna.”

La rappresentazione dell’abito fatta da Pinelli, che si trova a corredo del testo, si manifesta non fedele all’originale pettoranese, ma piuttosto una rivisi-tazione, anche se di mano più raffinata, delle tavole del Barbella.

Le descrizioni novecentesche sono naturalmente tutte incentrate sulla par-ticolarità dell’abito dovuta alla tovaglia-copricapo come in Paolo Toschi, Invito al Folklore Italiano, le Regioni e le feste, 1963. pag. 95: “L’emozione vera, viva e im-

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provvisa la provai a una ventina di chilometri da Sulmona, traversando Pettorano sul Gizio. Sedute su basse scalette di mattoni o su rozze sedie impagliate davanti alle porte di modeste case basse, stavano le donne, con aria matronale le anziane, con civettuola grazia le fanciulle, filando, sfaccendando, chiacchierando, nei loro stupendi costumi tra-dizionali. La bianca, grande tovaglia sul capo faceva risaltare il nero corvino delle chio-me, rendeva più intenso il nero vellutato delle pupille: il busto stretto alla vita e l’ampia gonna davano a tutta la persona un senso aggraziato e solenne insieme.”

Oltre alle preziose parole del noto antropologo Toschi mi sembra signi-ficativo riportare la descrizione delle donne di Pettorano fatta nella guida edita dall’Ente Provinciale del turismo nel 1942 su L’Aquila e provincia: Il costume delle donne di Pettorano sul Gizio tuttora indossato dalle donne con orgo-glio, è senza dubbio uno dei più belli d’Abruzzo e con l’ampia mantiglia candida che copre il capo e scende sulle spalle suggerisce alla mente remote parentele orientali.

Cascella Cascella

VisentiniCascella

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Alle parole dei cronisti del Novecento fanno da eco le fotografie storiche delle donne in costume, qualche dipinto e qualche gra-ziosa e ingenua statuetta. C’è poi una profusione di cartoline

turistiche che attestano per lo più il consolidarsi degli aspetti folcloristici dell’abito che ormai è diventato un “costume” da indossare solo per le pose fotografiche o durante le sagre paesane. Questo materiale è eterogeneo e la sua interpretazione deve essere legata strettamente al contesto che lo ha prodotto e alla qualità dell’autore. Infatti, l’iconografia novecentesca si con-serva per sopravvivenza piuttosto che per selezione, come invece è avvenu-to in precedenza e quindi i soggetti non possono essere trattati per categorie storiche.

Le “figure da presepe” di G. Avolio e G. Angelilli, terracotte policrome, ritraggono gli abiti della Valle Peligna e danno un’immagine d’assieme dei colori e degli atteggiamenti in chiave quasi caricaturale, ma contengono in-dicazioni sulla presenza e foggia di alcuni accessori come gioielli, usi quoti-diani, utensili e cromatismi dei vari capi d’abbigliamento. Sono un grazioso reperto di arte minore senza la pretesa e l’artificiosità di una rappresenta-zione ideologica ed erudita ma bensì piuttosto verista.

Le cartoline, rare nella prima metà del Novecento e per lo più simili al repertorio delle foto di feste religiose e altri eventi, a Pettorano cambiano sostanzialmente “look” a partire dagli Anni Sessanta. Un’ampia e manipo-lata raccolta di soggetti ad uso del consumo turistico appare ad opera di V. Iacozza e L. Marzolini, 1954-55: qui l’ambientazione curata ed artificiosa denota l’ispirazione da rotocalco e l’influenza dell’autore nell’introduzione di capi ricercati ed “esotici”. Manca assolutamente il maschile, al più appa-re qualche fanciullo, quasi a sottolineare che solo la bellezza muliebre, che in ambito populista è verginale o materna, è degna del timbro postale e di propalare l’immagine dell’Abruzzo altrove. Cominciano quella retorica e quell’“uso pubblicitario” del corpo femminile che ben presto infurierà nei caroselli televisivi. A questo proposito non trattiamo qui l’uso televisivo o cinematografico dell’abito di Pettorano perché qui le alterazioni della visio-ne diventano così soggettive da meritare una trattazione a parte che travali-ca gli scopi di questo lavoro.

Un discorso molto diverso va fatto per le “cartoline” di Basilio Cascella che rimangono tutt’ora una delle testimonianze più importanti della tradi-zione abruzzese. Cascella dedica alla donna di Pettorano tre immagini: una nella serie dei Costumi Abruzzesi serie di 12 cartoline realizzate nel 1901,

un’altra nella serie L’Abruzzo del 1915, si suppone composta di 10 cartoli-ne (e nella serie Usi e costumi abruzzesi, composta da 12 cartoline anch’essa del 1901, la cartolina in questione è intitolata Il farro). Nelle immagini di Cascella l’abito è del tutto fedele all’immagine che, dopo un’attenta ricerca filologica e bibliografica, possiamo dare come acquisita.

Abbiamo visto in questo breve excursus come vi sia stata una duplice iconografia dell’abito pettoranese nei secoli, anche se rimangono due doman-de: dove è nato l’errore di rappresentazione che rendeva l’abito di Pettorano quasi del tutto identico ad altri borbonici che possiedono una tovaglia-copri-capo, anche se con le dovute differenze, o simili per la foggia delle maniche e della mantera? Come ad esempio gli abiti della zona marsicana. E dove sia conservato il disegno originario ed originale a cui si sono ispirati tutti gli al-tri? Ad oggi, però, ciò che si può affermare con sicurezza è la permanenza nel corso dei secoli di questo stupendo abito e del fascino che esso ispira.

foto, rItrattI e cartolIne nel novecento

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Cartoline

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descrIzIone del femmInIle e del maschIledi Francesco Stoppa

Donne al telaio (da “Pagine Abruzzesi” di Paolo Tosti)

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è molto interessante che Giammarco (1985) attribuisca alla don-na una funzione di continuità culturale, di memoria e sottolinei che le donne conservino la fonetica delle generazioni precedenti;

tuttavia i termini di stretta pertinenza e uso femminile sono subordinati nelle raccolte lessicali forse perché appunto composte da maschi che poco condividevano o comprendevano questa cultura femminile. Le viaggiatrici inglesi si soffermarono sempre di più, grazie anche alla loro naturale incli-nazione allo scambio col mondo femminile, sul linguaggio e le sfumature psicologiche delle donne abruzzesi, sulle vestiture e sui gioielli e a loro sia-mo debitori di una visione meno misogina e sessista dell’abito tradizionale femminile.

La maggior parte dei termini si riferisce agli usi e agli oggetti agricoli e alle altre attività produttive, alla toponomastica, alla fitonomia e zoonomia, ma anche agli aspetti meteorologici, infine al cibo e al mondo immaginario. Ancora consistente è la terminologia relativa agli usi domestici, alla tessitu-ra e tintura, molto più scarsi sono i rimandi a termini propri dell’abbiglia-mento femminile e alla gioielleria. Tuttavia, la raccolta lessicale dei testi-moni indica che in realtà esiste un’ampia terminologia specifica per le parti dell’abito femminile. All’opposto quello maschile gode di minor attenzione e peculiarità. Qui di seguito viene riportata una piccola raccolta dei termini più usati e frequenti a Pettorano che riguardano più o meno direttamente l’abbigliamento.

vocabolarIo

PettoRANo

accə: tela in canapaangenejə: gancettiarittè: ripiegarebròšcə: collana con ciondolocammišcia: camiciacatana: tasca o borsetta intimacauzette: calzettoniciavattə: pantofolecierrə: frangiafasciatrellə: panno da capo in lanafazzulettə: fazzoletto da capomerlettə: merletto

pèdela: salvataccopetitə: zoccoliruocelə: rotolo di telaschiettə: tela di canapa o linoscupejə: sagginasuttanə: sottogonnatuvaijə: tovaglia da capo in acciavecognə: panno di raso di lanavonnə: gonnavustə: bustociavattə: pantofolezòllə: fiocco

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Per quanto sia ormai impossibile ripercorrere la manifattura di un abito allo stesso modo come avveniva fino a un secolo fa tuttavia è importante avvicinarvisi tentando anche l’uso di filati, tinture

e tessiture manuali. Purtroppo, alcuni dettagli del processo, che è noto nei suoi caratteri generali, sono andati persi insieme a molte “ricette” segrete e di uso locale. Altre fasi della lavorazione erano legate a una filiera che non può essere riprodotta in maniera domestica e che era legata a procedure semi-industriali. La capacità di tingere omogeneamente le grandi quantità di fila-to necessarie alla confezione dell’abito pone oggi anche numerosi problemi sebbene esistano molti laboratori, per lo più amatoriali o artigianali, che sono in grado di tingerne quantità minori. L’abilità manuale della filatura non è solo un fatto tecnico ma anche in gran parte pratico. I materiali primi come la lana greggia o anche filati di pura lana sono quasi impossibili da trovare. Anche i filati semi artigianali contengono ormai una percentuale di fibre sin-tetiche, spesso non dichiarata, che rendono possibile la filatura a macchina a una velocità prima impensabile. Questo altera irrimediabilmente la presa del colore naturale consentendo solo di avvicinarsi ma non di raggiungere ap-pieno l’effetto originale usando tinture naturali. L’uso dei coloranti artificiali consente invece un notevole avvicinamento sebbene i toni siano leggermente diversi ed occorrano numerosi bagni di tintura e sbiancanti con conseguente pericolo di rovinare le fibre. Anche la tessitura pone dei problemi: un tempo, l’utilizzo di capi di filato ritorti a mano, la mancanza di additivi e i processi di finissaggio producevano tessuti piuttosto duri e compatti, una caratteristica ora generalmente indesiderata nell’industria tessile. Invece in passato l’uso di tessuti gualcati o trattati con grasso ed olio per renderli più compatti e idro-repellenti era comune. Oggigiorno, la larga dominanza dei telai da maglieria invece di quelli a spola limita moltissimo la possibilità di utilizzo di tessuti industriali e quindi ciò rende molto difficile reperirne di adatti sul mercato anche quando si tratta di tessuti non operati. Il dover ricorrere a processi ar-tigianali di tessitura e tintura aumenta il costo delle stoffe usate anche oltre dieci volte il costo di un buon tessuto industriale. Per questo motivo, tessitura e tintura e cucito a mano sono riservati alle copie filologiche mentre si può tranquillamente chiudere un occhio per le copie private purché siano il più fedele possibile agli originali filologici almeno come somiglianza e fattura sebbene realizzati a “macchina” e con tessuti industriali.

La lavorazione delle fibre tessili, la tintura, e la cucitura degli abiti erano es-senziali per la soddisfazione delle necessità familiari primarie e fino a quando

tessutI e tIntura

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l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo44 l’abIto tradIzIonale dI pettorano sul GIzIo 45

è prevalsa un’economia di autosufficienza il lavoro femminile era determinan-te per tutte le necessità materiali della famiglia. Lavorare le fibre tessili per la produzione di tessuti da corredo e per capi di vestiario era un’attività praticata diffusamente sia nelle case contadine che in quelle artigiane. La conduzione di queste attività contribuiva al bilancio familiare e, inoltre, determinava il grado di considerazione in seno al “vicinato”. Tutti i filati tradizionali sia di origi-ne vegetale, come stoppa, canapa e lino che animale, come lana e seta, erano prodotti, trattati e tinti nell’ambito famigliare o in ambiti di riferimento socio-economico ristretti. I processi di tessitura e di finitura, specie questi ultimi, ri-chiedevano invece anche l’intervento di competenze e mezzi esterni.

Le donne di Pettorano erano abili filatrici e tessitrici dei caratteristici teli di accia (Pet. accə). Fino ai primi del Novecento ancora si mettevano a macerare (Pet. mərəcà’) nell’acqua gli steli di canapa (Abr. cànnava), poi si sfilacciavano per battitura con la scòtola (Abr. ‘mmaccaturə), si mettevano alla conocchia (Abr. cunòcchiə) e si filavano avvolgendoli sul fuso (Abr. vertécchiə); si passava quindi al telaio (Abr. telarə) per la tessitura e, infine, si portavano i tessuti alle tintorie di Sulmona, ad es. al lanificio Santarelli. Con la canapa (a volte mista a cotone) si tessevano lunghi teli di due palmi (53-54 cm) che venivano poi assemblati per ricavarne le lenzuola che entravano nella dote delle spose. I capi in fibra vegetale antichi in genere sono deformati per estensione e misurano più che da nuovi; viceversa le lane. I sacchi per farina, grano e frumenti vari erano realizzati in robusta tela a trama molto stretta (Abr. tərlicə), con ripetizioni di strisce colorate (Abr. marchiòlə) di diverso spessore che in opportuna combinazione caratteriz-zavano i proprietari. Sempre con la canapa si realizzavano i teli per i “sacconi” riempiti con le brattee del granoturco, realizzati a strisce colorate in bianco e azzurro, e quelli per stendere al sole i fagioli da seccare o il frumento da asciu-gare dopo il lavaggio. Venivano chiamati “coperte di lenze” e realizzati con strisce e ritagli di tessuti vari (specie cimose) tenuti insieme da una trama di canapa lavorata al telaio. Per completare il quadro relativo alle attività tessili della zona, comunque, bisogna anche evidenziare che sin dai primi decenni del 1800 si era diffusa l’industria della seta, che era divenuta un settore importante dell’eco-nomia locale, ma l’attività serica restava arretrata come procedimenti tecnici e ferma ai semilavorati. Più della seta merita una particolare attenzione la lana che, come già detto, ha occupato una posizione di rilievo in una economia locale pastorale. Le operazioni lavorative seguivano le fasi tradizionali che, partendo dalla cardatura, anche impiegando il Dipsacus fullonum o cardo dei lanaioli, allo scopo di purgare la lana dalle impurità (non facili da eliminare completamente

e che tanto tormentavano poi chi avrebbe indossato i capi), di districare ed alli-neare le fibre; la filatura, eseguita con il fuso o con il filatoio a pedale, la tintura in matassa, la tessitura.

I neri osservati negli abiti recenti di Pettorano sono tutti legati a produzioni di tessuti industriali e non danno nessuna garanzia di veridicità; nei busti anti-chi e nelle numerose toppe ritrovate nei musei si osservano toni di nero-blu, o blu che venivano raggiunti attraverso bagni multipli di coloranti organici na-turali che comprendono: il legno di campeggio (Haematoxylum campechianum), la robbia (Rubia tinctorum), la noce comune (Juglans regia), la ginestra dei tintori (Genista tinctoria), la camomilla per tintori (Anthemis tinctoria), l’ornello (Fraxinus ornus). Si usavano, poi, le foglie di peperoni (per il verde), la pianta di pomodoro (per il giallo scuro), i frutti maturi di Melograno (per l’arancione), il legno di gel-so (seccato e triturato, forniva un giallo stabile) o le sue bacche nere (per un vio-la-lilla meno stabile), la pellicina di cipolla (per un colore rosato), il ginepro (per colori dal bruno-oliva al rosso-viola), il papavero (per il rosso) oppure il thè, il nerofumo (Pet. fejìne) o il mallo di noce, per impartire colorazioni scure, ma non si riusciva ad ottenere il nero intenso richiesto da prevalenti esigenze di lutto. Infatti, il nero assoluto non era un colore facilmente disponibile e molto costoso fino all’avvento dei colori chimici all’anilina, tant’è vero che era considerato di gran lusso e proibito dalle leggi suntuarie (che fanno riferimento al colore negro). Altre indicazioni segnalano, infine, anche l’impiego di ortica, rosa canina, ver-basco, corteccia di Mandorlo, di ciliegio, di pino, di abete per preparare tinture casalinghe (Abr. šchiappə). Si metteva tutto nei grossi calderoni di rame riempiti di acqua e si faceva bollire per ore, rimestando frequentemente per evitare ete-rogeneità di colorazione dei tessuti. Certo, i risultati erano modesti e la gamma di colorazioni molto limitata, ma anche i costi erano limitati e sopportabili per le scarse disponibilità economiche della gente comune. Così si riusciva ad operare, tra le mura domestiche, almeno sui vestiti da lavoro e sui capi che dovevano essere pratici e non eleganti.

L’indaco orientale (Indigofera tinctoria) era sicuramente importato in Abruz-zo in pani di forma conica, mentre veniva abbondantemente coltivato il suo suc-cedaneo locale: il guado (Isatis tinctoria). Il colore più usato, prima dell’anilina, perché facilmente disponibile e, a un prezzo accettabile, era il nero ottenuto con il legno di Campeggio (Abr. scotano, legne) o i suoi succedanei, la corteccia di Ontano e la fuliggine, molto meno stabili e intensi, tuttavia. La pianta del cam-peggio è una leguminosa del Messico. Si utilizzava la corteccia tritata da cui si ricava un pigmento colorante che va dal nero-viola al nero-blu che viene stabi-

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lizzato con solfato di ferro (vetriolo verde). è stato utilizzato fino a dopo la prima guerra mondiale per tingere di nero le lane già scure di natura (lana “carfagna”). Il legno di campeggio può essere utilizzato in combinazione con l’indaco o il guado. Quest’ultimo è il colore più antico conosciuto; l’estrazione del pigmento colorante avveniva per fermentazione, e per poter tingere le stoffe occorreva un lungo processo chiamato “colorare al tino”.

Sono emerse anche indicazioni circa l’impiego mordenzante del tanni-no e del solfato di ferro, dell’aceto e del cremor tartaro. La cognizione delle modalità d’uso del cremor tartaro era legata anche alle informazioni fornite dai venditori (Pet. rasciarə). Fino al Novecento, i venditori ambulanti di cre-more (Pet. rascə) erano una figura familiare in paese. Dalle testimonianze risulta che l’operazione di tintura delle fibre e dei tessuti fosse demandata, già all’inizio del secolo scorso, alle tintorie della città di Sulmona che già vantava una prestigiosa attività manifatturiera. Nel Novecento si introdus-sero colori commerciali in bustine delle ditte Super Iride e Aquila, prodotte a Prato, già sede della più fiorente industria tessile e laniera italiana.

Le piante tintoree utilizzate per l’abito femminile di Pettorano sono il legno di campeggio e il guado per il blu nero e la margherita dei tintori per il giallo. La robbia è stata usata per le fasciatrelle rosso-aranciate. Un colorante di origine animale, la cocciniglia è stato usato per ottenere il carminio e il fucsia. La lana è stata sgrassata e mordenzata nel bagno caldo di vetriolo azzurro (solfato idrato di rame) e aceto. Il processo è stato effettuato in tino di rame per evitare alte-razione dei colori delle tinture. è stata poi eseguita un’immersione nel bagno di campeggio. Un terzo bagno è stato effettuato aggiungendo al campeggio il vetriolo verde (solfato idrato di ferro). Infine le matasse sono state lavate con sapone e sciacquate. La tintura al tino del guado (o dell’indaco) è l’operazione più complessa. La lana è posta nel bagno di indaco disciolto con carbonato sodio e idrosolfito di sodio (in realtà si usava la fermentazione organica per eliminare l’ossigeno invece dell’idrosolfito e le urine). Questo bagno di colore giallastro consente all’indaco di penetrare nella fibra, poi quando la fibra viene tolta dal tino assume, a contatto con l’aria, il tipico colore blu. Si fissa poi con aceto e si sciacqua. La lana mordenzata con rascia (cremor tartaro) e allume di rocca è stata tinta con la robbia per i toni del rosso aranciato. Successivamente alla tintura e tessitura dei tessuti al telaio abruzzese, questi sono stati sottoposti a un processo di finissaggio detto gualcatura. Il tessuto, posto sui subbi, è stato rullato nel mangano che è una grande macchina che muove un monolito pe-sante 8 tonnellate che compatta la stoffa.

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Parallelamente al gruppo di Pettorano che ha reperito le informa-zioni e verificato i capi, anche in assemblee pubbliche, man mano che venivano prodotti, un gruppo di lavoro stanziato nel Chietino

si occupava di realizzare il filologico. Ogni dettaglio della copia, ricostruito in base alla ricerca, è stato quindi realizzato da mani sapienti di sarte esperte che sono partite da prototipi e poi sono arrivate agli indumenti definitivi lavoran-do con le stesse tecniche e modalità casalinghe della tradizione e interamente a mano. Anna Iezzi, la capo sarta, si è circondata e confrontata continuamente con testimoni esperti che provenivano da un area montana simile a quella di Pettorano, Castel del Monte, e che mantenevano ancora viva la memoria di molti dettagli e modi di fare. Altri elementi di conoscenza e sapienza sartoria-le sono stati messi a disposizione da Maria Antonietta Capotosto, direttrice dell’Associazione Arti Antiche di Guardiagrele, specializzata nel ricamo an-tico. La cucitura si è configurata come un lavoro di gruppo famigliare in cui le anziane interpellate consigliavano e revisionavano il lavoro delle giovani cucendo sotto il pergolato d’estate e accanto al fuoco d’inverno. All’abito han-no lavorato tre generazioni ripercorrendo la via antica della tramandazione, senza fretta e facendo e disfacendo più volte i prototipi finché non buttavano bene (Abr. arəcadè’). I bauli dei corredi antichi sono stati aperti e innumere-voli frammenti di tessuti manuali di vario genere sono stati reperiti e confron-tati, studiando i tagli, le attaccature, le asole, gli smerli, le impunture, i sotto-punti, i modi di steccare, le imbottiture, le fodere, il gusto negli accostamenti di tessuti e colori diversi, i bottoni e la disposizione dei ganci.

I capi realizzati su cartamodello e manichino sono stati conformati al fi-sico umano, la loro sovrapposizione e vestibilità è stata controllata numero-se volte mediante le prove con le modelle. Sono stati particolarmente curati anche gli aspetti pratici, come la presenza di tasche interne, allacciature e la biancheria. Ognuno di questi segreti ha resistito fino all’ultimo per poi essere svelato solo con le prove pratiche. Insomma, è stato necessario ricoagulare co-noscenze disperse tra decine di persone per poter rimettere insieme l’abito di Pettorano e si è utilizzato anche il patrimonio di conoscenza acquisito grazie alle precedenti collaborazioni con la storica del costume Giulia Mafai e della costumista Marina Sciarelli di Roma.

Questo procedimento garantisce che la copia filologica abbia molte, se non tutte, le caratteristiche dell’abito originale.

Il Gruppo dI lavoro

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Abbiamo chiarito che l’abito femminile di Pettorano, almeno nel-la foggia restaurata, appartiene a un interregno tra fogge bor-boniche e post unitarie. Rispetto agli antenati borbonici man-

cano i colori sgargianti, le vistose maniche col polsino risvoltato, la pedana colorata alla gonna e la profusione di nastri e passamanerie sul busto. Tutta-via il carattere dominante è quello borbonico, seppure attenuato, per cui si può affermare che esso rappresenta una sopravvivenza isolata seppure non unica nel panorama abruzzese. La copia filologica quindi, oltre a rispettare l’uso di tessiture manuale e di filati in lana, lino e canapa, ripristina alcuni indumenti, accessori, accorgimenti e l’uso di colori naturali persi nelle copie utilizzate a fini folcloristici.

L’abito di Pettorano, sebbene presenti affinità con quello di Pacentro, con la pesante gonnellona in panno tenuta su dall’ampio busto svasato avanti, è una variante significativa delle fogge locali, e veniva sempre in-dossato anche nei giorni di lavoro, insieme alla grande tovaglia da capo ripiegata tipica della valle Peligna. Nei giorni di festa comparivano ampi grembiuli (le mantére) che erano sostituiti da zenali più umili durante i lavori in casa e in campagna. L’abito femminile con le sue varianti, lavorativo-quotidiano, mezza festa e festa, oltre che nuziale e vedovile, è caratterizzato da numerosi indumenti, il tessuto di ognuno dei quali diventava più fine e prezioso a seconda dell’importanza della circostanza. Per esempio il lino sostituiva la canapa, la lana sostituiva la mezzalana e appariva anche la seta damascata. Numerosi dettagli e accessori ormai scomparsi nelle versioni re-centi sono stati ricostruiti in base agli originali antichi studiati. Altri aspetti dell’abito sono ipotizzabili in base alle descrizioni scritte; tuttavia, allo stato delle conoscenze attuali, risultano ampiamente ipotetici, quindi non è stato possibile inserirli, per ora, nella copia filologica.

Segue la descrizione dei numerosi capi d’abbigliamento nell’ordine in cui devono essere indossati.

BiancheriaLa biancheria intima come la conosciamo noi non esisteva. L’uso delle

mutande (Abr. cavezunittə) poteva venir addirittura considerato da donne “poco serie” oppure era riservato a stati fisici particolari. Le mutande sono fatte in doboletto o circasso (Abr. gargassə), ovvero ordito in lino e trama in cotone, a spina di pesce (Abr. ndərliccə) oppure operato a “noce di pesco” o “grano di pepe”, di foggia a calzoncini, arrivavano fino al ginocchio ed

erano aperte lateralmente, per cui venivano allacciate in vita avanti e dietro con laccetti. Il cavallo (Abr. funnèllə) non era cucito e quindi rimaneva aper-to. Non esisteva il reggiseno che era eventualmente sostituito da una “fa-scetta”. Le calze femminili (Pet. cauzette) erano realizzate ai ferri, corte sotto il ginocchio e legate con una fettuccia sempre in lana (Abr. zagarellə, żàgaijə), erano decorate con motivi a scacchi o righe, blu o bianche su un fondo di color ciclamino. Esistono tuttavia anche esemplari, forse più utilizzati per la notte (Abr. scarfùolə), molto decorati anche con elementi in tubolare o cor-doncino formanti decorazioni a rilievo decorrenti verticalmente e con colori contrastanti.

La camicia (Pet. cammišcia) con maniche, è realizzata in tela (Pet. ju šchjettə) di misto d’accia (lino e canapa) imbiancata oppure ghinea (cotone di poca qualità) o anche di doboletto. Si confezionava piegando in due un panno dell’altezza di circa 80 cm (3 palmi borbonici, 1 palmo borbonico = cm 26,45) e inserendo all’altezza dei fianchi un tassello triangolare (Abr. duvanèllə, cógnə) per lato. La lunghezza è variabile da cm 103 a cm 112 (ben sotto il ginocchio). Lo scollo è tondo e abbastanza ampio (circa 20 cm di diametro) da far passare il capo, tuttavia le donne sposate che allattavano avevano la camicia aperta avanti e chiusa da una spilla al collo. Una serie di 4 piegoline di cm 0,5 e lunghe circa cm 30, decorre sulla spalla dal lato dello scollo, sia anteriormente sia posteriormente restringendo l’ampiez-za alle spalle, la camicia veniva eventualmente ulteriormente aggrappata sulle spalle mediante una spilla per lato. La manica (Abr. manechə) è taglia-ta diritta e composta da un rettangolo di cm 20-25 x 40-50 e ha anch’essa un tassello triangolare sotto l’ascella di cm 15 x 15. La manica veniva cu-cita alla spalla mediante gruppi di pieghette fitte. La manica si restringe mediante piegoline nel caso si attacchi a un piccolo polsino con bottone, oppure è scampanata ma non troppo lunga. L’aspetto decorativo è assicu-rato da un pizzo valencienne (Abr. merlettə) a motivi fitomorfi e geometrici, sostituito in epoca recente da lavori con l’uncinetto, che veniva attaccato intorno allo scollo con punto a giorno in un giro singolo.

Sottanello (Pet. suttanə) ovvero una sottogonna in canapa (più tardi in cotone) oppure in circasso o pelosetto (mezzalana con armatura tipo cotone “dentro” e lana “fuori”), a seconda del periodo dell’anno. Più lunga della camicia, è di colore variabile dal bianco al blu, e può essere arricchita da un ricamo a telaio oppure da balze poste all’estremità inferiore.

composIzIone dell’abIto femmInIle

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Il bustoIl busto (Pet. ju vustə) è in 5 pezzi cuciti tra loro, 1 anteriore, due laterali

e due posteriori e modellato in modo da far sporgere la parte anteriore, alta fino a quasi 50 cm dalla vita, grazie a tre rinforzi triangolari interni. Il busto si allacciava dietro tirando verso l’alto un unico cordoncino (Abr. zòlla) pas-sato tra 8-9 ganci femmina (Pet. angenejə) in metallo sfalsati, a parte i primi due sotto e sopra che sono alla stessa altezza e rimaneva aperto di 3-4 dita. La palizzata interna è formata da fascetti di saggina (Pet. scupejə) impun-turati con refe tra due pezzi di accia di stoppa, la saggina è disposta obli-quamente nei pezzotti che decorrono sui fianchi del busto per migliorarne l’aderenza. Il busto non serviva tanto a modellare la vita quanto a sostenere e proteggere la schiena.

La parte inferiore del busto è una baschina o falda non steccata (Abr. tambanèllə) lunga circa 13-14 cm, formata da numerosi elementi di forma triangolare e trapezoidale, in modo che possano ripiegarsi e fare spessore. La falda serviva per sostenere le numerose gonne, affinché non stringessero sulla vita, e per migliorare anche l’effetto delle pieghe della gonna stessa. Infatti, il busto di Pettorano, a differenza di molti altri busti borbonici, non ha i cuscinetti a forma di salsicciotto (Abr. mmaštiellə) cuciti poco sotto la vita e che nel busto di Pettorano sono sostituiti dalla baschina (Abr. tambanèllə).

Il rivestimento esterno del busto, in raso o panno castorino (Abr. vecognə), quasi sempre in lana nera o blu scuro, è fermato con sottopunti in modo da aderire alla palizzata e poi ripiegato verso l’interno delle cu-citure durante l’assemblaggio dei vari pezzi del busto. Il busto veniva poi foderato all’interno con una fodera quadrijè o a strisce che veniva risvoltata verso l’esterno per 0,5 cm alla base della baschina. Un pezzotto rettangolare (Pet. pəttinə) veniva a volte posto internamente all’altezza del seno in modo da poterlo cambiare, visto che questa parte si usurava e si sporcava molto. Questa parte interna del busto è visibile e quindi per motivi decorativi il pezzotto è a volte confezionato recuperando frammenti delle mantérə fe-stive di seta damascata. Più di recente si è usato il velluto preferibilmente rosso o rosso violaceo. Il busto poteva essere impunturato nei punti in cui era maggiormente sottoposto a tensione, per esempio ai lati dell’allaccia-tura. La parte anteriore del busto poteva ribaltarsi in avanti per facilitare l’allattamento, grazie alla flessibilità della saggina, e quindi le bretelle sono leggermente calate sulle spalle e fermate con ganci in metallo. Le maniche, come in tutti i busti abruzzesi antichi, sono staccate e legate con nastri e fioc-

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chi (Pet. zòllə), e quando si toglievano per lavorare o per il caldo si legavano dietro la schiena. Le maniche presentano due asole (Abr. nàsələ, pertósə) e 3 bottoncini decorativi (Abr. ciappùottə, ‘nemmèllə) vicino al polso che chiudo-no uno spacchetto di 7-8 cm di lunghezza. Il busto di Pettorano è senz’altro un esempio di foggia borbonica; a parte l’assenza di decorazioni, tuttavia gli esemplari sinora recuperati a Pettorano sono relativamente recenti e poco usati. I dettagli delle rifiniture sono spesso “tirati via” mentre la steccatura fatta di saggina e il taglio sono semplificati. I musei conservano invece ori-ginali molto logori e pieni di toppe (che danno un’idea della cromaticità del panno di lana che andava dal blu al nero violaceo. Come tutti i busti abruz-zesi è molto rigido ma non costrittivo, la presenza di pezzotti laterali, cu-citi inclinati, consente una presa anatomica e una flessibilità notevole, cosa certamente gradita a chi doveva lavorare indossandolo. Il busto serviva ad aiutare nel lavoro e non poteva essere la tortura che poi sarebbe diventato per le donne; al contrario reggeva il peso della gonna, aiutava a sostenere la schiena delle donne che portavano pesi e figli. I busti tradizionali non vanno confusi con la corsetteria ottocentesca a stecca di balena che aveva funzione completamente diversa e rimaneva nascosta sotto altri indumenti.

Guarnello e gonnaLa quantità di sottane, guarnelli e gonne dipendeva dalla disponibili-

tà economica oltre che dai rigori del clima di Pettorano. Il guarnello è una sottana con numerose pieghe e con balza decorata che in genere si lasciava vedere quando la gonna sopra di essa era rimboccata per motivi di praticità. In genere sono realizzati in accia di canapa e cotone o canapa e lino. L’uni-co originale conservato è invece in lana gualcata (panno castorino) tinta in robbia e con una modesta pedana ottenuta con un doppio giro di nastrino in velluto nero.

La gonna (Pet. vonnə) dell’abito di Pettorano è quella a pieghe bacia-te (Abr. cùtelə) tipica in Abruzzo, realizzata in panno in lana gualcata, blu notte, con allacciatura a sinistra chiusa da ganci metallici e nascosta tra le prime due pieghe. Non sono stati reperiti originali tessuti a mano, che era-no però sicuramente realizzati in tela o saja di lana piuttosto rigida a causa della gualcatura che contribuiva anche a serrare ulteriormente la trama e ad accentuare la naturale idrorepellenza e le proprietà antimacchia della lana naturale. La gonna è liscia avanti perché un affastellamento di pieghe sarebbe risultato ingombrante nel lavoro e inoltre esteticamente ininfluente

per la presenza dell’ampia mantéra. La parte posteriore invece ha un’archi-tettura sartoriale sapiente dove si concentrano le pieghe, ma non presenta lo strascichetto che si nota nell’abito scannese e altri. La cintura, alta tre cen-timetri, è foderata internamente a quadrijè e impunturata esternamente con motivo a onda. La gonna è fatta da 8 panni di 65-75 cm di altezza (tra due e tre palmi). è liscia avanti per cm 26 (un palmo) e prosegue dai fianchi con pieghe baciate, di circa 7,5 cm, convergenti posteriormente in numero di 14-16 per lato. Le pieghe convergono sopra a un cannello interno posteriore di circa 15-18 cm di larghezza (Abr. canalòtte). L’orlo interno della gonna è protetto dal salvatacco (Pet. pèdela), alto circa 26 cm (un palmo), una fodera di solito a quadrijè bianco-blu o bianco-verde, per proteggerla sia dai tacchi sia dallo strofinio col suolo. Una guarnizione di fettuccia di sbieco colorato (Pet. trenéttə) è cucita tra la fodera e l’orlo inferiore della gonna. La gonna era lunga fino al malleolo o anche poco più corta. Nelle gonne attuali di Pettorano la plissatura è stata sostituita da un tipo di piega morbida (Abr. canalòtte), certamente tarda e subentrata alle tecniche sartoriali tradizionali insieme ai tessuti industriali e ai coloranti artificiali. La perdita della plis-satura è un altro aspetto del trasferimento della tessitura a livello extrafa-migliare. Era, infatti, un processo integrato con la tessitura, la tintura e la confezione famigliare degli abiti.

La mantéraCompleta l’abito un ampio grembiule (Pet. mandérə) a fitte piegoline

o a pieghe in numero variabile baciate verso il centro dove è posizionato un cannello più grande. Essa copre metà della circonferenza della vita ed è lunga un po’ meno della gonna. Le più modeste sono in lana e formate da due panni da 65-75 cm (due o tre palmi) e sono allacciate mediante due lunghe stringhe che passano intorno alla vita e ricadono davanti tra le pie-ghe. Tutte le altre sono quanto mai varie e ricche, a quadrijè, a motivi flore-ali e di vari tessuti. Le mantére in taffetà operato di seta, damasco o cotone stampato, all’epoca una fibra costosa, erano per la festa; quelle in satin nero erano da lutto.

La tovaglia da capoL’acconciatura maritale consiste in una grande tovaglia (Pet. tuvaijə)

fatta d’accia di canapa e lino imbiancata con frange libere (Pet. cierrə). La tovaglia veniva sbiancata utilizzando liscivia caustica di cenere di legna, il

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rànno (Abr. culate, luscìjə), per 7-8 giorni. La notte si immergeva nella lisci-via mentre il giorno si lavava e si lasciava asciugare al sole. Può presentare un doppio o triplo marcafili (Abr. marchiòlə), ottenuto ingrossando la trama con un cordoncino, a circa 15 cm dalle estremità, ma spesso questi marcafilo non sono presenti. La tovaglia è alta da 80 a 82 cm (circa 3 palmi) e, misura da sette a sette palmi e mezzo (cm 185-198) cioè fino a circa 9 palmi con le frange lunghe da 22 a 23 cm per lato (in origine circa un palmo).

La tovaglia viene ripiegata umida, prima a metà nel senso della lun-ghezza, poi si liscia con la mano formando un bordino longitudinale per lato, di circa 3-4 cm. La tovaglia asciutta viene ripiegata in due in modo che i cierre arrivino quasi a combaciare l’uno con l’inizio dell’altro. Quindi il lembo interno piegato ancora in due falde verso l’interno, fermato con spille, imbastito (Abr. ‘nghjmá’, appunda’, ammaštì’) e poi risvoltato all’in-dietro (Pet. arittè). Il capo risvoltato della tovaglia scende oltre le spalle e un’altro fino alla vita. Per tenerla in forma sul capo, specie nei giorni di festa, in modo che rimanesse rigida e sporgesse molto anche lateralmente e fino oltre le spalle, si inseriva nella ripiegatura un pezzotto di tela piuttosto spessa e si acconciavano i capelli intrecciandoli con una fettuccia in modo da formare due crocchie (Pet. curnettə) piuttosto in alto sulla fronte su cui si agganciava la tovaglia con spille di sicurezza (Abr. spingulə dangresə). La tela per le tovaglie veniva tessuta lasciando libero l’ordito a intervalli regolari (Abr. pénerə, pèdenə, pétenə) per formare i cierrə, ripiegata in due nel senso della lunghezza e conservata in rotoli di tessuto (Pet. ruocelə)

La fasciatrellaLa fasciatrella (Pet.) è un telo di mezzalana, tessuto a ordito coperto,

ripiegato in tre nel senso della lunghezza e poi in due, lasciando la parte sovrastante più sporgente, che viene posta sopra la tovaglia. Si usava in inverno e/o per eleganza, ed era di colore robbia, indaco, verde o nero-violaceo per il lutto (tingendo una di altro colore con lo scotano o cam-peggio). Non sappiamo se il colore avesse un significato di appartenenza a una corporazione o altri significati. Unico altro elemento vistosamente colorato dell’abito oltre alla mantéra e alle calze e al guarnello, presenta due inserti (strisce di circa 1 cm) in filo di seta colorata arancio, rosa, giallo alle estremità. Nei modelli più recenti sono sostituiti da ricami, paillettes, appli-cazioni di passamaneria mentre la stessa fasciatrella è realizzata in velluto. Le fasciatrellə misurano circa 4 palmi di lunghezza e circa 2 palmi di altezza,

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e venivano fermate sopra la tovaglia con uno spillone, sulla fettuccia che legava i capelli.

Le nubili portavano in testa il fazzoletto (Pet. fazzulettə ‘ncapə) invece della tovaglia. La sposa al momento del matrimonio indossava uno scialle di mussola bianca ricamato o anche un velo di tulle ricamato. Durante il lutto un velo rettangolare di chiffon nero ricopriva e raccoglieva la tovaglia e le strisce colorate della fasciatrella venivano coperte con un nastrino di seta nera.

Sulla fronte fuoriusciva un boccolo (Pet. tirabacə), al centro sotto la piega sommatale della tovaglia. Tuttavia i viaggiatori nelle loro descrizioni par-lano invece di una frangetta probabilmente simile a quella sfoggiata dalle donne di Sulmona.

AccessoriLe calzature da strada quotidiane erano zoccoli in legno (Pet. petitə)

con tomaia di cuoio (Abr. cótə), aperta avanti, fermata da 5 chiodi a testa quadrangolare. Sono molto alti e realizzati ad ascia dal legno di faggio. De Stephanis nel 1853 scrive“… le donne di Pettorano, sogliono calzare zoccoli di legno… sanno usarli e camminare spedite e leggere”. Più comode erano le pianelle, di cuoio, chiuse alla punta (Pet. ciavattə), che si vedono ancora nelle foto fino agli Anni ‘60. Nei giorni di festa si usavano pure scarpe di cuoio con la linguetta o orecchiozzo, ripiegato per nascondere i lacci. Sotto la gonna si usava una sorta di tascapane (Pet. catana), che si allacciava in vita con una fettuccia e che conteneva oggetti utili o voluttuari di uso quo-tidiano.

GioielliLa ricerca nel campo della gioielleria tradizionale richiede competenze

specifiche ed esula dagli scopi di questo lavoro, eccetto per quanto riguarda gli ornamenti funzionali come bottoni e ganci, peraltro sempre realizzati in argento. L’ornamentazione veniva realizzata in oro di bassa caratura, co-rallo e ambra e altre pietre come il turchese e il quarzo citrino. A differenza di oggi i diamanti e altre pietre di gran pregio come il rubino erano poco utilizzate perché troppo costose e difficili da lavorare per la loro durezza. Erano molto usati invece vetri e cristalli che li imitavano. Durante la ri-cerca di reperti originali dell’abito, sono venuti alla luce diversi esempi di oreficeria consistenti per lo più in spilloni da capo, spille, lacci, orecchini e “saliscendi”. Certamente una ricerca più approfondita, e che tenga conto della discrezione e della prudenza del caso, potrebbe completare l’opera ri-

guardante l’abito femminile di Pettorano. Al momento in base alle informa-zioni raccolte e ai pochi reperti fotografati e all’iconografia, come pure per analogia con situazioni limitrofe, possiamo proporre una visione largamen-te ipotetica, ma indubbiamente suggestiva, dell’immagine di una donna di Pettorano quale poteva apparire ancora ai primissimi del Novecento in un giorno importante o di festa. Lo spillone in oro o argento con testa spesso a forma di ghianda o costolata o sfaccettata, in ambra, aveva un pendolino, di catenella a fiocchetto o una pietra gialla (citrina). L’altra ornamentazione consiste in un bròšcə, ovvero un doppio laccio in oro a maglie con penden-te lavorato a rilievo, una spilla “nodo d’amore” per chiudere la scollatura, una collana in corallo martellato (Abr. accannatora) o a grani in oro e grandi orecchini (Pet. reċċhinə) con pendenti a stelline e fiori, tipici di Pettorano e descritti da vari autori.

Indumenti persiCon il tramonto dell’abito tradizionale, alcuni degli indumenti meno

indispensabili dell’abito di Pettorano sono andati totalmente persi. Tuttavia la loro diffusione è documentata in un’area molto vasta e omogenea, oltre che dalla logica dell’abito e del suo uso, e quindi dovevano essere presenti anche a Pettorano. Tra questi: il paliotto (dal Lat. Pallium) utilizzato nei co-stumi abruzzesi come coperta per le reni o il capo. Di questo ultimo indu-mento vi è traccia della descrizione in De Stephanis (1853), che accenna a una piegatura a “coda di rondine” e a un panno di color rosso. In genere era di forma rettangolare, realizzato in lana o mezzalana e con strisce colorate. Più difficile da documentare è l’esistenza di un giacchetto femminile. Tale indumento raramente è rappresentato nell’iconografia settecentesca perché gli autori dei ritratti viaggiavano nel periodo estivo quando evidentemente non era utilizzato. Tuttavia la presenza di bolerini o giacchini con baschina o senza, aperti avanti e con maniche cucite, è stata più volte notata nell’ico-nografia come capo “elegante”, e un originale è documentato per l’abito borbonico di Scanno, che d’altra parte anche nella versione ottocentesca conserva tale indumento (Scan. ju cummudinə). Nessuno a Pettorano se ne può ricordare e gli autori non ne parlano. Nell’abito popolare diffuso in Abruzzo nella seconda metà dell’Ottocento la “polacca” è sempre presente ma non si indossa d’estate quando uno scialle (Abr. štrapizzə) la sostituisce. è possibile che uno studio più approfondito delle note dotali ci consenta di attestare il suo uso a Pettorano, ove peraltro l’indumento non era più usato anche quando l’abito conservava la sua funzionalità.

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A differenza dell’abito femminile non ci sono vere e proprie “so-pravvivenze borboniche” dell’abito maschile. Questo è un fe-nomeno che in Abruzzo ha riguardato quasi esclusivamente

l’abito femminile che da sempre è stato, come abbiamo detto, più specifico e resistente ai cambiamenti rispetto al maschile. Se già in epoca borbonica il maschile aveva fogge relativamente poco peculiari di un determinato luo-go, ma più del tipo d’uso o censo, in epoca post unitaria il cosiddetto “abito spagnolo” tende a diluirsi e l’uso di braghe corte, dopo un breve periodo di transizione che comunque non va confuso con il periodo dei pantaloni alla zuava, scompare abbastanza rapidamente da far posto all’abito “civile” con pantaloni lunghi, panciotto e giacca e mantello.

Nelle foto di fine Ottocento a Pettorano e dintorni si vedono uomini che indossano braghe alla cavallerizza, ghiacchette corte (Abr. giacchettə) camicia aperta con collo a becchi o con tipico colletto con collarino (Pet. pestagne), panciotto (Abr. sciambrecchinə, còrpabbòttə, péndřə) aperto, ampia fascia, calzettoni in lana cannolè, scarponi con lacci e cappello a falda ton-da e cupola alta con tre ammaccature. A questa vestitura, d’inverno, si ag-giungevano una giubba e l’ampio tabarro (Abr. càppə) che li avvolgeva fin oltre le ginocchia. Questo abbigliamento si ritrova anche in alcune cartoline d’epoca successiva della zona di Chieti e nei quadri di Celommi e Michetti ed è la foggia che ha influenzato la tenuta maschile dei gruppi folcloristici. Tuttavia la ricostruzione dell’abito femminile si concentra al periodo pre-unitario, quindi la foggia del maschile è ricostruita per quest’epoca e cioè tra il 1810 e il 1850, periodo definito dall’iconografia di riferimento e dalle prime descrizioni scritte disponibili. Si è voluto dare quindi un “compa-gno” adeguato sia come sfarzo che come cronologia al femminile di Petto-rano che lo possa accompagnare soprattutto nelle circostanze in cui l’abito femminile viene “esportato” per rappresentare Pettorano.

Dice de Stephanis “Il vestimento dell’uomo è simile a quello degli altri con-tadini abruzzesi” e ancora “i contadini vestono calze bianche o di altro colore, calzoni, corpetto e giubbone. Il cappello è a cono tronco, alto men di un palmo, con falde piuttosto larghe“ (probabilmente intende gli uomini del popolo): quest’opinione è riportata da diversi autori e che cioè l’abito maschile è sempre stato uguale in tutti i paesi. Dice Dorotea (1853) “l’abito degli uomini non merita alcuna riflessione, essendo lo stesso nella maggior parte degli Abruzzi”. Questo però non deve indurre a credere che fosse sciatto o mancasse di ab-bellimenti e dettagli, anche se questi erano spesso molto pratici e legati a usi

l’abIto maschIle

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maschili. L’abito maschile in Abruzzo in epoca borbonica poteva avere delle ricercatezze o delle singolarità interessanti come per esempio lunghezze e ampiezze diverse dei vari capi, rifiniture come mostre di passamaneria, pic-coli merletti alla camicia, abbottonature semplici o doppie, camice con colli ridotti o ampi, e variamente tagliate.

Esistono numerose descrizioni sia scritte che iconografiche dell’abito maschile, da cui si desume che in genere esso consisteva di diversi capi e numerosi accessori. Tuttavia non abbiamo nessun originale borbonico ma-schile di Pettorano conservato e anche i dati iconografici si limitano a zone limitrofe, mentre poche altre notizie, specie sui tipi e i colori dei tessuti, si desumono da atti notarili.

composizione dell’abito maschile

I capi dell’abbigliamento maschile consistono nel giaccotto (Abr. giacchéttə, grippettə, giambergə), lungo a meta coscia o corto poco sotto la vita; pantaloni (càvəzə, pantalunə), corti poco sotto il ginocchio, chiusi in basso da bottoni o fibbie o lacci. Entrambi questi capi erano di panno castorino o anche di saja. Un panciotto (Abr. sciambrecchinə, còrpabbòttə) di varia foggia, anche in panno o in tela rigata. Tra i colori più frequenti dei panni era l’in-daco, il verde marcio, il carminio della cocciniglia o la robbia, il giallo, ma per i panciotti potevano essere usati anche tessuti multicolori. Le camicie erano in genere di doboletto, di varia foggia e allacciatura a metà torace, di solito di colore bianco, ampie con vari cugni e rinforzi (Abr. cógnə, duvanèllə) e abbastanza lunghe, indossate sopra i mutandoni in circasso anche colorati che spesso sbordavano oltre il bordo inferiore delle braghe con un merlet-tino (Abr. balzə). Completava l’abito maschile un’ampia fascia di lana (Abr. céntə) in vita a righe verticali sempre in genere con colori sul verde, indaco, robbia, lana naturale scura ecc e un cappello tondo a cono basso e falde piuttosto ripiegate, rezzole e bandane per i capelli, calze di lana chiara o rossiccia o indaco, tenute su da giarrettiere colorate o nastri, scarpe con fib-bia d’argento o orecchioli (Abr. papusce), a tacco basso, stivali e ghette, una giberna. In caso di pioggia o freddo indossavano una semplice coperta o un mantello di lana (Abr. càppə) in genere di tessuto gualcato in modo da renderlo compatto e idrorepellente. Il bavero della cappa è impunturato e guarnito di pelliccia spesso di lupo e chiuso da una fibbia suntuosa in argento (Abr. ciappə). In realtà alcuni elementi sono tipicamente maschili

come l’uso d’orecchini di foggia specifica che si riferiva o a un Santo di cui si era devoti o a proprietà magico-curative e infine corporativistiche, nume-rosi altri elementi in argento come bottoni, fibbie e ganci. Oppure anche i tatuaggi sulle braccia (Abr. mblémə), in genere a motivo religioso o amoroso o iniziatico. Il cappello veniva personalizzato attraverso i segni della fede o della superstizione ovvero decorato con: piume, fiori secchi, medagliette, immaginette, nastri etc. Non si deve dimenticare che un complemento in-dispensabile erano coltelli “genovesi” (mullettonə) e a volte pistole a pietra focaia con relativi contenitori di polvere, pallottole, stoppa etc. L’acciarino era anche indispensabile insieme alla pipa in coccio e canna.

La copia filologica femminile consiste nei seguenti capi:

1. Una fasciatrella in mezza lana, filato tinto con robbia, ordito in cotone, mar-che in seta colorata, tessitura a telaio manuale;

2. Una fasciatrella in mezza lana, filato tinto con guado, ordito in cotone, mar-che in seta colorata, tessitura a telaio manuale;

3. Tovaglia da capo in lino tessuta a mano;4. Parrucca acconciatura con cornetti e nastro;5. Spillone in argento dorato con citrino realizzata a mano;6. Bottoni a “zisetta” realizzati ed incisi a mano;7. Spilla ”nodo d’amore” in metallo dorato;8. Camicia in lino e cotone tessuta a mano, scollo guarnito con pizzo valencien-

ne antico;9. Busto steccato con saggina, in raso di lana gualcata realizzato al telaio ma-

nuale, tinta con campeggio, cucito a mano, ganci in argento realizzati a mano; 10. Maniche staccate in raso di lana tinta col campeggio e realizzato al telaio

manuale, bottoni in argento realizzati a mano, asole e rifiniture in filo di seta bordeaux fatte a mano;

11. Sottana in cotone guarnita da merletto;12. Guarnello in lana gualcata tintura all’anilina con pedana in nastro di velluto

nero;13. Gonna in lana blu tinta all’anilina;14. Una mantéra da festa in seta cruda tessuta a mano e stampata con timbri

lignei a mano e colore minerale blu;15. Una mantéra in tela di lana naturale gualcata;16. Una catana in saja di cotone naturale stampata a mano con timbro ligneo a

mano e colore minerale;17. Un paio di calze realizzate a mano con lana tinta anilina;

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18. Un paio di zoccoli di faggio e cuoio cotto realizzati a mano;19. Un manto in lana rossa con inserti marroni.

La copia filologica maschile consiste nei seguenti capi:

20. Un grippetto in lana bicolore;21. Un panciotto in lana “cotta” a righe e fodera in tela di cotone a righine;22. Un paio di mutandoni in saja di cotone color robbia con smerli;23. Un paio di braghe con profili;24. Fascia in lana a righe;25. Camicia in cotone antico con decoro a cordoncino;26. Un paio di calze in lana naturale;27. Un paio di scarpe con fibbia d’argento;28. Cappello in feltro marrone;29. Una scolla (fazzoletto da collo);30. Un cappuccio sottocapello.

bIblIoGrafIa consultata

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collaboratorI

Sartoria: Anna Iezzi - Chieti; aiuto sartoria: Viviana Chiacchiaretta-Chieti; tessitura: Valeria Belli - Cepagatti; realizzazione busto: Maria Antonietta Capostoto e Rosa di Mar-tino - Guardiagrele; zoccoli: Enzo d’Ippolito - Chieti; calze: Maria d’Arcangelo - Chieti; ori e argenti: Gianpiero e Fabio Verna - Pescara; gualcatura e stampe manuali a timbro: Antica Stamperia Marchi - Sant’Arcangelo di Romagna; acconciatura: Cinzia d’Arcange-lo - Chieti; merletti antichi: Helen Merz Antique Lace - Germania; tinture naturali: Wool Traditions - New Mexico; Foto: Giuseppe Casmiri e Bruno Imbastaro. Revisione del testo: dr. Mario d’Alessandro, prof. Lia Giancristofaro, dr. Ornella di Tondo.

rInGrazIamentI

Si ringraziano il Sindaco Feliciano Marzuolo, e l’Amministrazione Comunale di Pet-torano sul Gizio, che hanno sostenuto economicamente la realizzazione della copia filolo-gica. Ma il più grande ringraziamento va al vice-sindaco Josè Berarducci, per la passione per il suo paese, il sostegno morale e materiale e in ogni occasione, e Lina Schiappa, indo-mita paladina e“tramite” indispensabile con i proprietari storici e custodi della sapienza dell’abito: Donatina Berarducci, Dora Berarducci, Margherita Bonitatibus, Maria Grazia Ciccolella, Michele Ciccolella, Maria D’Alesio, Oreste Federico, Giorgio Ciccolella, Filo-mena Monaco (Zia Memena), Maria Orsini, Margherita Schiappa, Donata Suffoletta e Mariella Vitto Massei. Si ringraziano Guido de Panfilis per le informazioni sulle sorgenti iconografiche del sec. XX, inoltre per la consultazione del materiale in loro possesso il Mu-seo delle Genti d’Abruzzo, nella persona del Dr. Ermanno de Pompeiis, il Museo delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma, nelle persone dei Dr. Stefania Massari e Arch. Paolo Maria Guarrera, il Museo del Costume di Sulmona, nelle persone del Dr. Colaprete e Signor La Porta, e infine la pro-loco di Pettorano. Non posso dimenticare le mie amiche Giulia Mafai e Marina Sciarelli che hanno tanto contribuito alla mia formazione nel campo del settore specifico dell’abito storico, e Adriana Gandolfi che mi ha avviato e fatto comprendere l’im-portanza dello studio filologico finalizzato al reimpianto della tradizione. Enzo Spera ha fornito cortesemente materiale bibliografico generale e inediti. Infine ringrazio anche quelli che non hanno creduto nel mio lavoro e lo hanno criticato, mi è servito da sprone per fare meglio e mi ha impedito di adagiarmi sulla gloria della soddisfazione di vedere rifiorire l’abito giorno dopo giorno.

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© Noubs EdizioniFinito di stampare nel mese di maggio 2009c/o Litografia Brandolini (Chieti Scalo)Grafica e impaginazione: Blufactory (Chieti)Foto copertina e foto pagg. 2/24/60/61/62: blufactory