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L’antifascismo nella storia italiana del Novecento di Guido Quazza Alcune osservazioni metodologiche e con- cettuali Anni fa, nel momento più duro della pole- mica storiografica sul fascismo, mi accadde di definirlo 1’ “esame di coscienza” degli ita- liani. Esame di coscienza in quanto la vitto- ria del fascismo e il suo lungo dominio poli- tico, economico, sociale e, entro certi limiti, culturale del paese costrinse gli italiani, pro- prio per il suo carattere complessivo di co- scienza autoritaria, a porsi, sia negli atteg- giamenti esterni, sia nei convincimenti inter- ni, il problema della propria identità non so- lo come popolo ma anche come singoli. Mi- noranza durante la dittatura di Mussolini, gli antifascisti furono il ‘movimento’ che, col pensiero e con l’azione, più contribuì a formare la coscienza alternativa, la coscien- za democratica degli italiani attraverso una costante opera di contrapposizione al ‘pote- re’ ispirandosi ai ‘valori’ di libertà e di giu- stizia dentro il quadro d’una lotta che ben presto divenne prima europea e poi mondia- le. Una lotta che toccò altissimi momenti di interezza umana, coniugando intelligenza e cuore, lucida visione del vivere civile e forte coraggio di scelta del sacrificio personale e di gruppo, come nel 1919-1926, nel 1943- 1945 e poi, in circostanze meno sanguinose, nel 1960-1976. Si può affermare con sicurezza che la cre- scita etico-civile dell’Italia trova il suo ner- bo, sotterraneo o aperto a seconda della lati- tudine o totalità del potere fascista, nell’an- tifascismo. Anche se i suoi frutti tangibili, quelli economici, sociali e istituzionali — questa nostra repubblica — sono ben lonta- ni dalle speranze dei militanti della prima fa- se, della seconda e della terza. Il filone co- stante è nel campo economico la difesa del- l’eguaglianza come principio costante da estendere nella realtà di tutti giorni, nel campo sociale l’elevazione del grado di au- tocoscienza del cittadino come parte di un tutto, nel campo istituzionale lo sforzo di al- largare la partecipazione del singolo al go- verno di sé e degli altri. Il tutto mediante la cultura — non solo come costruzione di nuovi e più attenti e meditati saperi — e a un tempo verso la cultura come controllo di sé nel presente e per l’avvenire: una lunga marcia, di almeno settant’anni, per conqui- stare un nuovo migliore rapporto tra società e stato rispetto ai tempi della nascita del se- condo e alla condizione della prima fin dal- l’età delle rivoluzioni del Settecento. La dimensione cronologica occupa, a me Pubblichiamo la relazione di Guido Quazza al convegno “Attualità dell’antifascismo. Le ragioni di una scelta lon- tana”, Cuneo, 7-8-9 dicembre 1989, ringraziando l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia per aver consentito l’anticipazione del testo. Italia contemporanea”, marzo 1990, n. 178

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L’antifascismo nella storia italiana del Novecentodi Guido Quazza

Alcune osservazioni metodologiche e con­cettuali

Anni fa, nel momento più duro della pole­mica storiografica sul fascismo, mi accadde di definirlo 1’ “esame di coscienza” degli ita­liani. Esame di coscienza in quanto la vitto­ria del fascismo e il suo lungo dominio poli­tico, economico, sociale e, entro certi limiti, culturale del paese costrinse gli italiani, pro­prio per il suo carattere complessivo di co­scienza autoritaria, a porsi, sia negli atteg­giamenti esterni, sia nei convincimenti inter­ni, il problema della propria identità non so­lo come popolo ma anche come singoli. Mi­noranza durante la dittatura di Mussolini, gli antifascisti furono il ‘movimento’ che, col pensiero e con l’azione, più contribuì a formare la coscienza alternativa, la coscien­za democratica degli italiani attraverso una costante opera di contrapposizione al ‘pote­re’ ispirandosi ai ‘valori’ di libertà e di giu­stizia dentro il quadro d’una lotta che ben presto divenne prima europea e poi mondia­le. Una lotta che toccò altissimi momenti di interezza umana, coniugando intelligenza e cuore, lucida visione del vivere civile e forte coraggio di scelta del sacrificio personale e di gruppo, come nel 1919-1926, nel 1943-

1945 e poi, in circostanze meno sanguinose, nel 1960-1976.

Si può affermare con sicurezza che la cre­scita etico-civile dell’Italia trova il suo ner­bo, sotterraneo o aperto a seconda della lati­tudine o totalità del potere fascista, nell’an­tifascismo. Anche se i suoi frutti tangibili, quelli economici, sociali e istituzionali — questa nostra repubblica — sono ben lonta­ni dalle speranze dei militanti della prima fa­se, della seconda e della terza. Il filone co­stante è nel campo economico la difesa del­l’eguaglianza come principio costante da estendere nella realtà di tutti giorni, nel campo sociale l’elevazione del grado di au­tocoscienza del cittadino come parte di un tutto, nel campo istituzionale lo sforzo di al­largare la partecipazione del singolo al go­verno di sé e degli altri. Il tutto mediante la cultura — non solo come costruzione di nuovi e più attenti e meditati saperi — e a un tempo verso la cultura come controllo di sé nel presente e per l’avvenire: una lunga marcia, di almeno settant’anni, per conqui­stare un nuovo migliore rapporto tra società e stato rispetto ai tempi della nascita del se­condo e alla condizione della prima fin dal­l’età delle rivoluzioni del Settecento.

La dimensione cronologica occupa, a me

Pubblichiamo la relazione di Guido Quazza al convegno “Attualità dell’antifascismo. Le ragioni di una scelta lon­tana”, Cuneo, 7-8-9 dicembre 1989, ringraziando l’Istituto storico della Resistenza in Cuneo e provincia per aver consentito l’anticipazione del testo.

Italia contemporanea”, marzo 1990, n. 178

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pare, un periodo più lungo di quello solita­mente considerato: l’intero secolo che va or­mai verso il tramonto. Un periodo nel qua­le, contrariamente a quanto si dice dai no­stalgici del fascismo e dagli amanti del quie­to vivere, l’antifascismo è il fulcro, in Italia almeno ma non solo, dell’intera attività pubblica degli uomini e delle donne. Co­scienza attiva d’ogni avanzamento, come di­cevo, luogo di costruzione d’una Italia di­versa, ‘anima’ vorrei dire di una qualità umana migliore non limitata ai gruppi diri­genti ma fatta propria potenzialmente da tutto il popolo, dalla ‘gente’ come oggi si ama dire. Il decennio trascorso ha visto, al contrario, nella gente il trionfo del privato. Ecco, dunque, il problema se l’antifascismo sia vivo o sia morto. Di qui la mia relazione deve partire per rispondere, risalendo alla lunga storia e alla lunga durata dell’antifa­scismo.

Comincio con un’affermazione che è l’as­sunto del mio discorso: checché ne dicano non soltanto i fascisti — ciò è ovvio — ma anche gli opportunisti, i consumisti, molti moderati e addirittura qualche sfiduciato fra coloro che in passato seguivano la bandiera del grande movimento contro il fascismo, l’antifascismo, resta, a mio parere, con for­me in parte diverse ma con un nocciolo cen­trale intatto, l’alternativa del secolo quanto alle forme via via assunte dal rapporto fra società e stato, specialmente in Italia ma an­che nell’Europa, dalla cui storia quella ita­liana non è nettamente separabile. E nel mondo, dalla cui storia non è — lo ripeto sebbene debba essere fin troppo chiaro — non è separabile quella dell’Europa. Per questa ragione mi pare necessario prender le mosse, per cogliere le origini della contrap­posizione tra antifascismo e fascismo, dal momento nel quale il rapporto fra Europa e mondo cambia, dal tempo nel quale entra in crisi l’egemonia plurisecolare del vecchio continente.

Secolo, si disse tante volte e diventò un

luogo comune, delle nazionalità, l’Ottocen­to; secolo delle guerre e delle aggregazioni non solo internazionali ma mondiali con­temporaneamente legate all’insorgere delle autonomie, il Novecento. Secolo, ancora, della fede nel progresso come motore e risul­tato della volontà di successo economico e di primato politico della borghesia indu­striale, l’Ottocento. Secolo dell’inquietudine morale e della sfiducia psicologica di massa, come esiti dello scontro continuo fra nazioni e imperi e come graduale costante sposta­mento dalla dimensione politica alla dimen­sione privata dentro un quadro di ricerca spesso ossessiva dell’autonomia del singolo e delle etnie, il Novecento. Due definizioni troppo vaste e generiche per servire a vaglia­re eventi di lunga durata, è certo. E tuttavia non completamente inutili a fissare limiti di massa entro i quali muoversi su un tema così ampio e arduo come quello affidatomi per aprire il convegno. Un tema che, per quanto lo si voglia circoscrivere all’Italia, ha in real­tà un orizzonte planetario e una natura per un verso tipica del ‘grande’, del ‘macro’, per l’altro del ‘piccolo’, del ‘micro’. Nel vasto e nel generico le due definizioni servono qui unicamente a stabilire il tempo di cerniera fra due età nel quale nasce, prima ancora di esplodere, quello che chiamerei senza esita­zioni il conflitto del secolo. Se si guarda alle date, non c’è dubbio che si deve parlare di premesse, poiché il fascismo italiano sorge il 23 marzo 1919 e l’antifascismo subito dopo, cominciando a esplicitarsi nel corso del 1919-1920. Una ventina d’anni, dunque, dai primi germi, che spuntano tra la fine del­l’Ottocento e i primi del Novecento.

Prima di dare inizio a questa sommaria corsa sull’antifascismo nella storia italiana del Novecento si impone qualche cenno ai criteri metodologici e concettuali della ricer­ca dei momenti fattuali principali, poiché la ricerca è generale e non analitica, è selezione obbligata entro una massa enorme di ele­menti. Dati costitutivi, loro evoluzione e svi­

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luppo, fasi temporali sono i contenuti di ba­se, per così dire, e da essi non si può com­pletamente prescindere, ma in questa sede essi devono essere assunti in una misura ele­mentare per non perdere quel tutto pura­mente propedeutico che il programma del convegno inevitabilmente prescrive. Il meto­do di scelta sarà di non chiudere il discorso — come è tradizionale — entro un’analisi delle idee generali di antifascismo e fascismo via via coniate dall’alta cultura e neppure soltanto entro lo studio delle idee ‘ricevute’ dalla cultura popolare rifusa e al contempo vivificata dall’immaginario collettivo quale si è formato nei secoli, per non dire, quanto ai suoi termini e fondamenti religiosi, nei millenni. Le autorappresentazioni dovranno essere considerate nel dare e avere delle ete- rorappresentazioni e, nella ineludibile rapi­dità di una relazione congressuale, usate co­me materiale spesso sottinteso di una storia dei due protagonisti dello scontro nella qua­le essi si compenetrano tanto più quando i protagonisti nelle loro individuali incarna­zioni si allontanano, pur in un quadro di massa, dalla consapevolezza razionale degli esponenti e capi. Le ‘idee’ non possono esse­re dimenticate, ma, insomma, devono essere riflesse o addirittura immerse quasi omeopa­ticamente nelle specifiche rappresentazioni di queirimmaginario che, solo, le converte in ‘forze’ nel concreto svolgersi della vita- storia. Né le idee né l’immaginario, mi pare, sono tuttavia sufficienti a capire che cosa è stato ed è l’antifascismo e quali siano — co­me suona il sottotitolo del convegno — le ragioni di una scelta lontana. Ogni scelta — è troppo chiaro — nasce da un atto di vo­lontà, e un atto di volontà è anche ‘caratte­re’, spesso ‘passione’. E mai come quando la scelta comporta una lotta e la lotta un ‘pagar di persona’. Il nesso fra teoria e pras­si è sempre così stretto, nella storia dell’anti­fascismo, da giungere a un ‘comportamen­to’ che pone l’azione al primo posto rispetto al pensiero. L’antifascismo sia nei singoli

militanti sia nel suo insieme, è un movimen­to, non un partito, ed è anche questa un’al­tra ragione per la quale preferirei parlare non di pensiero e azione ma di pensiero-a­zione. I diversi, e molti, antifascismi rendo­no forse impossibile, certo poco utile, una definizione unitaria e perciò compiuta e or­ganica: in questo, ancor più dei fascismi, i quali sono diventati, da movimenti inizial­mente, partiti, e hanno preso possesso dello stato derivando una teoria ufficiale dall’oc­cupazione dei meccanismi del potere quale prima esisteva. Tratti simili, come di recente ha ribadito Enzo Collotti, consentono di in­dividuare una teoria del fascismo pur nell’e­sigenza di non trascurare come importanti per l’indagine storiografica i caratteri speci­fici di ogni fascismo nazionale. Per l’antifa­scismo italiano neppure la vittoria del 1945 e l’occasione di dare una nuova costituzione al paese hanno consentito di raggiungere nei fatti, e tanto meno nella teoria, una defini­zione coerente complessiva. È giocoforza parlare, dunque, di comportamenti indivi­duali e di comportamenti di gruppo, se si vuole tentare un esame storiografico e non un’analisi di dottrine: lo impone il metodo della disciplina. Ecco perché io preferirei parlare, come premessa del discorso, di anti­fascisti più che di antifascismo, più di sog­getti concreti che di idee astratte, pur senza negare che si tratta di soggetti che condivi­dono molte posizioni comuni di ‘pensiero’. Soggetti, perché la loro ‘azione’ è frutto di­retto, concreto quant’altri mai ci direbbe Salvemini, delle scelte e delle opere di ‘per­sone’. Di qui l’esigenza di dar peso alle idee e rappresentazioni della vita che gli antifa­scisti-persone hanno sia come genesi del loro essere sia come sviluppo esistenziale, cercan­do — se e quando possibile — le influenze di gruppo, di classe, di nazione e i condiziona­menti dell’economia, delle istituzioni, dei valori civili generali. Non solo — e questo ritengo l’elemento distintivo più specifico per la storia di un movimento — ma in­

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fluenze e condizionamenti che gli antifasci­sti-persone fondono nel crogiuolo della loro singolarità facendone comportamenti da praticare in ogni ora e giorno e anno della propria vita. La sintesi operante, globale, di questi elementi, delle convinzioni e dei senti­menti fa degli antifascisti dei ‘praticanti’ di un modo d’essere uomini o donne verso se stessi, i familiari, gli amici, il collettivo in cui vivono che li distingue quasi a vista — se mi è consentito dire — e perciò insisto nel- l’affermare che il metodo da adottare in una ricerca meno veloce di questa si deve ade­guare alla linea che ho telegraficamente pro­posto. Se dal metodo si passa alle fonti e al loro uso, è fin troppo chiaro che esse debbo­no attingere non solo ai documenti del pen­siero filosofico, politico, sociale, economi­co, ma anche ai materiali riguardanti l’io e l’io profondo, cioè al percorso della psicolo­gia, così come ai documenti della biologia, dico sintetizzando, cioè il percorso del cor­po. Non continuo su questo terreno, ma concludo dicendo che lo studio dell’antifa­scismo se viene colto negli antifascisti si po­ne come una sfida squisitamente inter e transdisciplinare, la quale chiede nel suo stesso cammino lo sforzo di cogliere le arti- colazioni con la simbiosi e la simbiosi con le analisi differenziate: globalità e specificità.

Premesse europee dell’alternativa italiana

La crisi dell’Europa — dicevo — fra Otto­cento e Novecento. Inutile tentare un’analisi precisa. Basterà riferirsi al ‘pericolo giallo’, in prima approssimazione, come tipico caso di ‘rappresentazione’ della paura degli euro­pei di perdere la supremazia mondiale quali esponenti della supremazia bianca. Una paura che nasce da fatti ben noti: la sconfit­ta di Port Arthur subita nel 1905 dai russi a opera dei giapponesi; il suo congiungersi con l’avviso d’una possibile superiorità ma­rittima dell’impero del Sol levante e con la

improvvisa comparsa, alla luce della media­zione degli Usa a Portsmouth nel medesimo anno, di un imperialismo bianco sì, ma non europeo, ormai capace, col presidente Theo­dor Roosevelt, di una politica big stick ar­mata di navi da guerra (Cuba, Hawai, Sa­moa, porta aperta in Cina) e nutrita di una flotta commerciale già in grado di concorre­re con quelle europee. Il 1905 è anche l’anno dell’inizio della crisi interna zarista con la prima rivoluzione russa. Altrettanto, a fian­co della paura, è la coscienza culturale del­l’avvio a un cambiamento radicale. Il 1905 è pure l’anno dei quanta di Max Planck, cioè del nascere di quel senso della divisibilità del reale che prestissimo porterà alla teoria della relatività di Einstein e poi all’affermarsi di una visione dello spazio fisico lontanissima dalla fede nell’inesorabile necessità organica delle ‘leggi naturali’. Così come l’esplodere nell’arte e nella letteratura e poesia della prassi e del gusto di disintegrare i valori ‘vi­sibili’ su una strada che le varie filosofie del tempo codificheranno in quella sorta di ‘pensiero debole’ che si diffonde rapidamen­te con l’attacco frontale dell’idealismo al positivismo e, più in generale, con il diffon­dersi delle teorie dell’azione di Blondel e del­l’intuizionismo di Bergson. Mentre verismo e realismo cedono al simbolismo di un Ver­laine e di un Mallarmé, al sensualismo di un D’Annunzio, allo psicologismo di Proust, al futurismo di Marinetti, il reale figurato la­scia presto il passo al cubismo e al fauvi­smo. Addirittura la religione cattolica piega la sua compatta sicurezza e il suo dogmati­smo gerarchico al modernismo e Nietzsche dà una forma imaginifica a una “volontà di potenza” che si proclama “al di là del bene e del male” .

Dalla certezza razionale della fede nel progresso il passaggio al volontarismo e al­l’irrazionalismo si accompagna alla crisi del­la politica dell’equilibrio praticata da Bi­smarck che si traduce nella Weltpolitik del Kaiser Guglielmo II, pronta con prepotenza

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a sfidare il plurisecolare dominio dei mari della Gran Bretagna all’insegna del Naviga­re necesse est, vivere non est necesse. La “concurrence des ambitions” teorizzata da Montesquieu nel clima del secolo della ra­gione e sopravvissuta nel secolo delle nazio­nalità diventa scontro brutale di nazioni che vogliono imporre il proprio impero. La pau­ra del giallo è il segno di massa, nelle idee e nell’immaginario, di un’Europa che lancia la sua superiorità culturale ed economica dentro se stessa col conflitto fra le classi e con la guerra per il potere mondiale e, men­tre Benedetto XV si affanna a bollare 1’ “i- nutile strage” , inaugura la lunga “guerra ci­vile” che a tappe diverse sfocerà nella più terribile fra le guerre mascherata da guerra per la civiltà a seguito del dibattito sulla “fi­ne della civiltà” . È proprio il quadro che chiamar spirituale vuol dire accettare l’opi­nione dei cervelli “liberali” più acuti del ventennio dopo il conflitto, i vari Rolland, Benda, Huizinga, Croce, ma la sensibilità dello storico deve considerare l’espressione delle idee degli intellettuali anche insieme, o più, ai riflessi nell’immaginario di massa, ad esempio attraverso opere apocalittiche come Il tramonto dell’Occidente di Spengler o il Mein Kampf di Hitler. Attraverso espressio­ni, cioè, d’una cultura diventata preda e strumento della politica della forza, della violenza armata di un imperialismo che si sente, sia pure in forme e gradi diversi, po­sto in pericolo di vita dall’imperialismo americano e da quello giapponese.

Il “revisionismo” contro la “vittoria muti­lata” è per l’Italia solo un capitolo minore del revisionismo contro la spartizione del bottino fra gli alleati vittoriosi: le paci del 1919-1922 sono causa di nuovi conflitti per la cecità di fronte alle passioni e agli interes­si delle nazioni e delle etnie, oltre che per la sensazione ch’esse danno di una contraddi­zione lampante con i princìpi della Società delle nazioni e per la fine ch’esse, col tratta­to delle Nove potenze, decretano al vecchio

equilibrio marittimo. Poiché, inoltre, dopo il 1917 era sorta la grande speranza di un’Europa fondata sull’equilibrio fra le classi, diventa in quegli anni sempre più dif­ficile distinguere lo scontro fra gli stati dallo scontro fra le classi. Le scelte del rimedio ra­dicale debbono essere radicali. Destra e sini­stra, se sono divise al loro interno sul pro­blema del primo fra i due scontri, sono com­patte sul secondo.

In Italia i primi segni risalgono al Novan- totto e all’uccisione di Umberto I, e prodro­mi, sia pure più deboli, già si hanno quando è presidente del Consiglio Crispi. Non ri­prenderò, affidandomi alla memoria scola­stica dei più, i dati dell’ascesa, nel decennio giolittiano, del nazionalismo, del futurismo, delle riviste fiorentine animate da ostilità se non anche da disprezzo verso il neotrasfor­mismo rappresentato da Giolitti e il suo ‘buonsenso’, per altro sfociato nella violen­za colonialista. Dirò solo che le manifesta­zioni di piazza pro o contro l’intervento e le scelte belliche della monarchia aprono già con clamore di massa quell’età che, prepara­ta dall’autoritarismo spietato dello stato nel­la grande guerra, vedrà all’indomani della pace la nascita milanese dei “fasci di com­battimento”. Gli schieramenti per il potere forte, da una parte, e per la ribellione delle masse operaie, dall’altra, sono già in via di costruzione. E così la difficoltà a scegliere da parte degli intellettuali e dei ceti medi.

Il conflitto interimperialista europeo è dunque all’origine immediata, o quasi, del conflitto sociale in Italia. La posta è il pote­re. In una situazione virtualmente decisiva per la vittoria di classe l’impotenza del vec­chio ceto dirigente liberale e la ancora scarsa politicità del neonato partito popolare apre la porta a una destra più capace, nel suo im­peto volontaristico e attivistico, di imporsi con i mezzi di una violenza di tipo nuovo, coinvolgendo il grande potere economico e l’antico potere statale nelle sue varie artico­lazioni. Il diritto e dovere del più forte a go-

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vernare si impone di fatto e comincia a teo­rizzarsi più completamente usando i prestiti della ‘filosofia’ del nazionalismo mediata attraverso una parte dell’idealismo italiano. Gli intellettuali si dividono, anche dentro il vincitore del positivismo. Le forze che la so­cietà ha dato alla sinistra sono molto divise nelle loro rappresentanze parlamentari, cioè i partiti, e questi a loro volta sono profon­damente divisi al loro interno: non occorre ricordare riformisti, massimalisti, comuni­sti, cattolici di centro e cattolici di destra, e radicali e repubblicani. È vero che quelle forze sociali esplodono nel biennio rosso, ma non riescono a reggere alla crisi della ri­voluzione bolscevica e al contrapposto na­scere, in Occidente, della controrivoluzione, che in Italia è stata definita addirittura, ap­punto per la debolezza delle difese di sini­stra, controrivoluzione “preventiva”. Ecco, detto in estrema sintesi, il nascere in dram­ma dell’antifascismo, il suo originarsi con un grave handicap iniziale.

Già nel prologo manca una teoria organi­ca. Già l’azione è di singoli, di antifascisti- persone, non di un movimento organico. La tabe della divisione è nel sociale ma anche nell’etico-civile. E nel comportamento. Sto­ria dolorosa per chi vuole subito combattere perché dolorosa per l’intero paese, che scon­ta la ‘rivelazione’ dei mali antichi rimasti nel regno unitario sorto dall’impeto e dall’ac­cortezza dei protagonisti del Risorgimento.

Prima e seconda fase della scelta

La ‘situazione’, tale che di per sé impone una scelta rischiosa per lo spietato uso delle armi più feroci da parte delle squadracce fa­sciste e per la loro impunità derivante dai fi­nanziamenti e appoggi di vario tipo degli agrari, degli industriali, dei banchieri e, dal­la polizia, dai carabinieri, dall’esercito, così come da ministri e da magistrati, impone al­l’antifascista del 1919-1922 coraggio fisico e

soprattutto coraggio morale. Ancor più, fra l’ottobre 1922 e il 3 gennaio 1925, il control­lo via via completo dell’apparato statale da parte di Mussolini. L’assassinio di Matteot­ti, il 10 giugno 1924, è l’esempio più tragico, come tutti sappiamo, ed è la conseguenza immediata della sua denuncia dei brogli elet­torali e delle violenze dell’incipiente regime. In termini diversi, ma con la consapevole ac­cettazione d’essere un volontario adepto nel­la “compagnia della morte” , è la sorte di Piero Gobetti. Esito del coraggio nel respin­gere le imposizioni del fascismo governante sono le morti di don Minzoni e di Giovanni Amendola. Il sempre più largo controllo dello stato fa sì che l’antifascista non debba affrontare soltanto, come nel 1919-1922, la ‘situazione’, cioè uno stato di vita aperto a risposte con qualche margine di libertà di pensiero e di azione. Ora è il ‘meccanismo’ via via più spietato, quello che Silvio Tren- tin descrive in Francia con la limpida logica della sua cultura giuridica, che deve essere fronteggiato. E al coraggio fisico è necessa­rio si affianchi in sempre più larga misura il coraggio morale. Non è più possibile sperare che il fascismo duri poco; tanto meno, come Amendola e l’Aventino dopo la ‘crisi Mat­teotti’, che il re torni sulle sue alleanze che ne avevano fatto dall’ottobre 1922 un mo­narca fascista, o succube del duce. I capile­ga, i dirigenti del partito socialista, delle cooperative di lavoratori, dei sindacati era­no stati terrorizzati e spesso torturati e uccisi quasi senza che si fossero resi conto del peri­colo fascista, del resto non individuato nella sua pienezza né da Turati né da esponenti del socialismo, a eccezione di Matteotti. In­tellettuali come Croce e Salvemini avevano essi stessi stentato a capire la vera natura delle promesse dell’ “ordine” e della “legali­tà” manovrate da Mussolini con indubbia capacità tattica e con noncuranza di ogni coerenza e lealtà. Con Matteotti, e con sguardo più profondo, solo Gramsci aveva invano invocato il coraggio più duro, quello

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di ricorrere all’uso delle armi per vincere gli “assassini” .

La prima fase della storia dell’antifasci­smo aveva dunque mostrato che tempera­mento e comportamento dovevano congiun­gersi nel coraggio quotidiano per fronteggia­re a viso aperto il fascismo, e che non basta­va l’analisi della natura dell’implacabile ne­mico. Gli antifascisti-persone dettero nel 1919-1925 un’impronta al movimento, anco­ra minoritario, che non si sarebbe più can­cellata come segno essenziale di esso. La scelta lontana porta un marchio che non sa­rà più cancellato, neppure in tempi meno violenti. Azione più che pensiero, pur nel le­game originario di pensiero-azione, senza la particella congiuntiva “e” , fin dall’inizio della lotta. L’ambiguità della condizione umana, sulla quale Primo Levi scriverà pa­gine profonde a riguardo del più terribile de­gli “abissi”, la vita nel lager, diventa subito un nemico da combattere, forse il peggiore, e dallo scontro con essa viene la lezione del­l’intransigenza morale necessariamente ali­mentata dal coraggio — fisico e morale — delle scelte nette. Anche questo elemento — io credo — spiega la differenza radicale tra antifascismo e fascismo. Fornito, all’inizio, del coraggio degli arditi, soltanto fisico, il fascismo si dissolverà come neve al sole quando passerà dal controllo del potere alla perdita di esso, nel 1943, e ancora e più nel 1945 non avrà neppur l’ombra della volon­tà, col suo corredo di coraggio, di resistere alla sconfitta della repubblica di Salò. Po­chi, pochissimi, del resto, anche nel corso dei venti mesi dell’ultima sua esperienza di governo in Italia, saranno i combattenti ve­ri, disposti a sacrificare se stessi fino all’e­stremo, e saranno quasi tutti giovani offerti­si per entusiasmo ingenuo oppure per furore vendicativo al secondo regime mussoliniano.

Ed è proprio quando è diventata piccola minoranza dentro lo stato totalitario fasci­sta, che la scelta rivela il suo marchio più profondo, il suo tratto di azione intransigen­

temente dura. Mentre i ceti medi vanno sem­pre più cedendo e i contadini si appartano, non diverso in coraggio da quello degli intel­lettuali pionieri è l’antifascismo di quegli operai che non si lasciano incantare né sog­giogare dall’oratoria del duce e dal suo au­toritario comando. È vero che centinaia di migliaia di operai erano emigrati negli anni 1921-1922 e nel primo biennio del governo fascista, stanchi di essere vittime del manga­nello, dell’olio di ricino, del pugnale, del moschetto e timorosi per se stessi e per la fa­miglia, e si può discutere in sede storica se in loro la paura avesse vinto sul coraggio, mu­tando l’antifascismo in autodifesa esisten­ziale. Molti di essi, tuttavia, non cessano di militare contro il fascismo fuori d’Italia, e non pochi sono gli operai che, restando in patria, continuano, nelle forme più varie, a resistere alle pressioni del regime, mentre i contadini che difendono la propria autono­mia mediante l’appartarsi preparano, col fa­vore della relativa lontananza dai centri del potere assoggettati agli ordini del capo, i luoghi della guerra partigiana del 1943-1945. Intanto, pur se più comprensibile perché co­scientemente politica e internazionale ma non negabile come fatto di coraggio, la resi­stenza attiva dei comunisti punta, con l’au­dacia e l’intransigenza dei militanti di parti­to, a costruire nella clandestinità e nel carce­re il nucleo più compatto di un antifascismo che rimane, nell’insieme, movimento con aderenti singoli o di gruppo pronti a farsi aderenti liberi d’una schiera irriducibile.

Questa seconda fase dell’antifascismo è certo la più impegnata perché pronta in ogni momento a congiurare, a colpire, ad affron­tare condanne, carcere, torture, morte. La tesi di un largo consenso al regime trova confutazione soprattutto in questa fase. Il confronto fra il periodo dell’ascesa al potere e quello del potere conquistato, il primo ric­co di resistenza, ma in clima ancora libero, il secondo schiacciato da un controllo e una repressione resi capillari dal dominio fasci­

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sta sullo stato, è la sorgente decisiva per una discussione metodologicamente più cor­retta di quella sinora fatta. E a essa porta dati di fatto anche il confronto fra le cifre dei fascisti militanti e quelle degli antifasci­sti condannati al carcere o al confino: gli uni e gli altri alla pari come numero, circa 150.000. Inoltre, nella seconda fase si trova una forza, significativa per il futuro, di ela­borazione di pensiero. Nascono nuclei di oppositori che cercano una via antifascista diversa da quella dei vecchi schieramenti partitici. Ai seguaci di Gobetti e della sua intransigenza morale si affiancano, spesso in discorde concordia, i Rosselli, Giustizia e libertà, liberalsocialisti e socialisti coerenti pronti a giungere, nel 1934 e dopo, a patti d’unità d’azione con i comunisti. “Non mollare”, la lettera di Parri al suo giudice nel processo di Savona, la cospirazione di alcuni cattolici come Malvestiti con il suo Movimento guelfo d’azione sono soltanto alcuni segni fra quelli che possono essere ci­tati qui: ma significativo è che, sebbene il pensiero li muova a considerazioni e medi­tazioni, il tasto più toccato è quello dell’a­zione, come dicono addirittura i nomi scelti come bandiera. Fino a che, quando il pre­stigio del nemico sale in Europa e, con l’a­scesa di Hitler, giunge ad alleanze interna­zionali di natura ideologica fascista, la guerra civile in Spagna viene colta come oc­casione fondamentale per prendere le armi e con le armi affrontare nelle brigate interna­zionali non solo il fascismo di Franco ma anche gli italiani mandati da Mussolini con­tro i “rossi” nella terra iberica. È la prova suprema, nel ventennio, del coraggio nell’a­zione, e non a caso Carlo Rosselli lancia il suo davvero fatidico “Oggi in Spagna, do­mani in Italia” . A poco a poco l’antifasci­smo dei singoli diventa antifascismo dei gruppi, l’antifascismo del pensiero-azione diventa antifascismo armato, antifascismo dell’azione nella sua purezza e pienezza. L’ambiguità, pur nobile nell’ispirazione,

dell’interventismo dei Bissolati, dei Salve- mini, del giovane Parri e di non pochi anti- giolittiani perché antitrasformisti e antiop- portunisti come lui e come lui eredi spiri­tuali del coraggio e della fede patriottica de­gli uomini del Risorgimento, è ora davvero superata. Dal prologo si è giunti, attraverso le dure prove della grande guerra e le dela­zioni e le incertezze o gli errori del 1919- 1925, alla preparazione dello scontro e al coraggio pieno del non evitare il sacrificio di sé: la morte dei fratelli Rosselli è, se così è consentito dire, il blasone del tempo del­l’Asse Roma-Berlino e dell’incrudirsi barba­rico del regime con la persecuzione razziale e l’avvio inesorabile alla guerra.

Le diversità di posizione politica sono an­cora forti, ma i tentativi di trovare un terre­no comune lavorano proprio sull’azione co­mune, quasi che l’obiettivo supremo spin­gesse sempre più a superare le divergenze nel pensiero politico per operare secondo un’azione animata dall’ispirazione morale. Una sorta di primato dell’etica come pre­messa a battaglie destinate, nel fuoco del grande conflitto con fascismo e nazismo, a farsi via via etico-politiche mediante la cre­scita della persona dentro l’impegno stesso acceso dal conflitto nel corso del suo farsi. Intelligenza delle cose ma, ancor più, tem­prarsi del cuore in una fede ogni giorno più temprata. L’uomo, insomma, come stru­mento e fine dell’intera impresa di abbatte­re la tirannide negatrice della civiltà. Dalla percezione studiosa della crisi al senso del dovere di fare qualcosa per superarla. Dal­l’attivismo fine a se stesso del bernsteiniano “il fine è nulla, il movimento è tutto” , al termine dell’Ottocento, la terribile esperien­za della vittoria fascista aveva portato al movimento per un fine, quasi che l’irrazio­nalismo della pura “volontà di potenza” battezzato dall’esaltazione nietzschiana di Dioniso, il dio della violenza, contro Cristo, l’assertore della rassegnazione, del superuo­mo contro lo schiavo, avesse ritrovato pro-

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prio nell’antifascismo una sintesi nuova nell’ ‘amore’ armato dei cristiani pronti a offrirsi come ‘martiri’ dell’ “unica vera rea­zione, l’agire” , per dirla col filosofo tede­sco, smentito così nella sua tesi dell’amore sbocciato “dall’odio ebraico come sua ven­detta” . I documenti del coraggio e dell’in­transigenza morale perìnde ac cadaver sono molti, e non è necessario ch’io li citi a con­forto di questa interpretazione. Non pochi, neppure, quelli scritti da antifascisti mode­rati nell’azione piena ma limpidi nel pro­muovere la coscienza dei ‘valori’ civili senza nicodemismo e senza ambivalenze di lin­guaggio.

D all’opposizione alla guerriglia

In Italia, la terza fase dell’antifascismo, quella destinata a essere vittoriosa, germina dalla partecipazione del paese al conflitto, e conserva dapprima le timidezze della con­vergenza fra diversi. La natura degli ‘allea­ti’, le ‘democrazie’ occidentali da un lato, il monolito sovietico dall’altro con le sue ra­mificazioni clandestine e/o partitiche nei paesi dell’Ovest, incide sull’unità antifasci­sta in modi contrastanti e con effetti, per i primi due anni, di sostanziale paralisi nelle ‘alte sfere’ del paese. La scossa più esplicita è negli scioperi operai del 1943, come sap­piamo, ma lo sbocco decisivo per la caduta del regime è in un atto della monarchia, quello dell’arresto di Mussolini il 25 luglio. La precedenza dall’ ‘alto’ porta, con i qua­rantacinque giorni badogliani, a conseguen­ze di intorbidimento interno dell’antifasci­smo e a un esito del corso militare della guerra disastroso per l’antifascismo più de­terminato e coraggioso. Tuttavia, la non volontà del re e del maresciallo a staccare nettamente l’Italia dalla Germania nazista, prova eloquente di una politica che vuole strappare al fascismo il potere visibile, ‘le­gale’, e all’antifascismo la possibilità di ac­

cedere al governo, provoca, per la sua trop­po aperta falsità e doppiezza, il crollo dello stato in quanto tale e la ribellione di nuovi adepti dell’antifascismo, molto più numero­si di quelli del ventennio anche se politica- mente più immaturi, e ormai molto più ‘de­cisi’ a battersi volontariamente e fino in fondo.

I partigiani sono il nuovo antifascismo senza voler essere conflittuali col vecchio. E qui sta la forza dei combattenti contro il nazismo occupante e contro i fascisti suoi servi nella repubblica sociale governata da Salò. I partiti già antifascisti nel ventennio hanno la capacità di stimolare, ma la resur­rezione viene da un moto spontaneo di mas­se: di massa, certo, non nel senso del nume­ro dei ‘banditi’, ma in quello della loro ca­pacità di incunearsi, sia pure con graduali­tà, nel profondo della società italiana, nel­l’interno stesso della maggioranza della po­polazione. Anche gli intellettuali che erano stati traditori secondo Benda, si vanno pur con molta prudenza e lentezza allineando al nuovo corso contro quel fascismo che ave­vano servito; alcuni dei più giovani fra di essi, che avevano frequentato la scuola fa­scista, si mettono alla testa o almeno all’in­terno della “banda microcosmo di democra­zia diretta” . E portano l’antifascismo a tro­vare un obiettivo unico: vincere il nazifasci­smo con una guerra di liberazione anche a costo di una “guerra civile” perché lo scon­tro è diventato una “guerra di religione”, secondo l’espressione usata da Guido Calo­gero in un discorso del novembre 1944 nella Roma liberata. Se 1’80-85 per cento dei par­tigiani è antifascismo nuovo, la ragione non è in una coscienza politica piena. L’uomo partigiano si fa sul cambiamento dentro la guerriglia e sulla sua adesione alla “fraterni­té”, cioè a un internazionalismo non ideolo­gico ma quotidiano che è frutto della spon­taneità di vita, di quella specialissima vita che è l’attività giornaliera delle bande nei suoi attacchi, nelle sue imboscate, nel suo

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muoversi nei terribili rastrellamenti, nel suo fare ‘colpi’ nelle strade e nelle città, nel suo imparare a guidare il rapporto con la ‘gen­te’ in tutte le sue più variegate e al tempo stesso complesse articolazioni del ‘privato’ e del ‘pubblico’, per usare termini correnti in Italia da più di dieci anni. L’autonomia del singolo, l’autonomia della banda, l’autono­mia del nesso fra l’una e l’altra rispetto al­l’internazionale della resistenza: ecco la grande lezione storica. Ed essa — non va mai dimenticato — nasce non da una dot­trina politica generale acquisita da insegna- menti storici ereditati, ma da una scelta del­l’uomo intero che esce dall’esperienza del­l’individuo nel collettivo. Una scelta, scrive­vo molti anni fa, esistenziale, che, e nem­meno sempre, si farà politica.

La terza fase, nutrita di questo tipo di autonomia, non riesce, a liberazione avve­nuta, a vincere la battaglia dello stato e quella, strettamente congiunta per non dire condizionante, dell’economia. La “ricostru­zione”, sappiamo, fu una ‘restaurazione’. Contro la grande ‘rottura’ del 1943-1945, il 1945-1953 fu continuità sostanziale. L’ecce­zione, certo importantissima, della fine del­la monarchia non portò, neppure nella Co­stituzione varata alla fine del 1947, a quello stato delle autonomie che i più fra i parti­giani avrebbero voluto. La fine della politi­ca del Cln fu consumata già prima dell’ulti­mo mese del 1945, e la caduta del governo Parri ne fu il punto più clamoroso. Dalla “scuola del carcere” alla “scuola della ban­da”, due fonti diverse di un’Italia che, do­po il breve periodo del “governo di unità nazionale (1944-1947), scivola nell’accorto innesto del conservatorismo democristiano, nel conservatorismo sacerdotale sempre for­temente ancorato al tradizionalismo conta­dino. Ecco perché in questo trapasso, reso longevissimo dall’entrata, con De Gasperi, nel blocco di potere capeggiato dagli Usa, anche l’antifascismo ‘vittorioso’ è costretto dal ‘meccanismo’ della continuità e dalla

forza ‘obiettiva’ della ‘situazione’ a entrare in una nuova fase.

Da una nuova divisione a una nuova unità militante

Quadro internazionale, meccanismo interno giocato col peso del “Regno del Sud”, ab­bandono della lotta integralmente rinnova­trice o almeno riformatrice da parte del Pei, l’alleanza con questo del Psiup, lo sciogli­mento del partito più audace sulla via di una democrazia autonomistica, il Pda (si sa, anche per divergenze di politica generale al proprio interno): ecco le cause concorren­ti dal basso al ripristino del potere dall’alto. E, via via, alla non applicazione anche degli articoli più coraggiosi della Carta costitu­zionale, o al ritardo delle clausole sulle au­tonomie locali, con le conseguenze, nel campo istituzionale, di quel dominio dal centro che oggi tutti vediamo. Le differenze di classe diventano, già con la vittoria del 18 aprile 1948, l’elemento principale di quella che ho definito la quinta fase dell’an­tifascismo, dal 1948 al 1959: la fase che, forse, torna a vedere più diviso l’antifasci­smo. Diviso un po’ diversamente che nella prima fase, mancando la sfida tremenda del fascismo avanzante prima verso il governo poi verso il regime. Lo scontro fra il potere democristiano, con i suoi satelliti politici e i suoi sostenitori economici, e l’opposizione di sinistra si combatte nelle fabbriche ma in parte anche nelle aziende agrarie e, con mi­nor forza ma altrettanto eloquente signifi­cato, nella scuola e nella cultura, impegnata al più alto livello e in tutta la gamma delle sue espressioni, a curare la definizione di un rapporto con la politica più adeguato alla società complessa che sta crescendo e allo stato non più monopolizzato da un solo partito. È la stessa coinè della repubblica a esser messa in gioco, e la speculazione dei partiti sulla cosiddetta “unità della Resisten­

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za” incide a fondo, spesso con un uso spu­dorato dell’editoria, dei giornali, della radio e della neonata televisione, sulla vittoria del- l’una e dell’altra tesi, ancora una volta espressa dentro l’antifascismo, carico pu- troppo di una ufficialità che la guerra con­tro il fascismo non aveva nel ventennio con­sentito. La lotta del 1953 contro la “legge truffa” è un ultimo scatto dell’antifascismo contro il centrismo conservatore popolato anche di antifascisti ormai definitivamente acquisiti al moderatismo, non senza sguardi ai nostalgici del passato regime. Il boom economico, i fatti del 1956 nel mondo co­munista, i loro effetti sul Psi in lento cam­mino verso il centro-sinistra e sul Pei avvia­to con passo incerto ma ormai irreversibile verso la “via italiana al socialismo”: ecco le strade principali che portano alla sesta fase, quella fra il 1960 e il 1976.

È il tempo dell’antifascismo che si fa mili­tante, staccandosi dalla formula dell’unità dei “partiti costituzionali” per diventare un movimento di massa schierato a sinistra, con alleanze parziali e precarie di gruppi, di partiti e di movimenti moderati. Con un me­todo di lotta continua con forze sociali pri­ma prevalentemente operaie, poi, dal 1967- 1968, anche studentesche. Rinvio ad altre più particolareggiate relazioni di questo con­vegno l’analisi del significato di quell’antifa­scismo che fu subito chiamato militante.

Difficile negare, come fanno non pochi — filofascisti o amanti del ‘volemose bene’ o del ‘tutti siamo nella stessa barca’ — a parti­re dal 1965 o ancor più dal 1983 che quel quindicennio è stato almeno l’avvio a non piccoli cambiamenti in molti campi dell’atti­vità del paese, specialmente nel campo dei diritti del cittadino in quanto uomo. Diffici­le negare che il movimento antifascista è sta­to centrale nel preparare un rapporto diver­so fra stato e società. Difficile negare che l’importanza dell’antifascismo in Italia ha toccato allora il punto più alto, dopo la resi­stenza, nel processo di mutamento delle

strutture complessive e delle mentalità indi­viduali. E che il motore fondamentale è da ritrovare nello spirito e nella pratica della ‘lotta dura’ mossa da un entusiasmo sincero e attivissimo nell’azione se non nel pensiero. Non è negabile che l’antifascismo militante trovi nella ribellione dei giovani la forza per fronteggiare il neofascismo delle stragi orga­nizzate da gruppi clandestini e la strategia della tensione promossa dai detentori del go­verno. Dall’ampia e forte risposta ai timori e alle minacce di golpe si passa, con i succes­si dello statuto dei lavoratori nel 1970 e del divorzio nel 1974, con le vittorie elettorali del Pei nel 1975 e 1976, alla delusione e rea­zione verso la politica Andreotti-Berlinguer del compromesso storico, della rinnovata “solidarietà nazionale” .

Il Movimento ’77 procede col tempo del terrorismo rosso e con il ritiro nel privato. Il 1983, con il lancio fascista e moderato del centenario della nascita di Mussolini incide fortemente sul quarantesimo del 25 luglio e dell’8 settembre: anche la presidenza sociali­sta del Consiglio dei ministri inaugura una fase completamente nuova con l’incontro Craxi-Almirante. Sembra, fino a ora, che la resistenza non trovi più credito nella “classe politica”. L’antifascismo reagisce troppo poco. All’infuori dell’opera degli Istituti storici della resistenza e di qualche docu­mento dell’Anpi, il moderatismo defeliciano aiuta il fascismo a riprendersi. L’antifasci­smo come tale sembra tacere troppo e quin­di confondersi nella linea di contestazione coerente e dura. Non si può tuttavia negare che va a poco a poco riemergendo l’esigenza di riprendere coscienza del suo peso generale nella società e nel confronto politico. Da non molto è maggiore l’interesse per la pro­pria storia, la determinazione di “non di­menticare” né la guerriglia, né la resistenza dentro i lager nazisti, la cura di una memo­ria scientificamente attrezzata e documenta­ta. Di qui, anche, e più nell’ultimo anno, per la spinta del grande esempio dell’Est so­

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vietico, il crescere a opera dei nostri istituti e nel mondo giovanile di un rinnovato senso preciso dell’importanza di tornare con co­raggio all’antica scelta della difesa e affer­mazione della libertà e della giustizia. Scel­ta, con maggiore forza e nettezza, di un mo­do di vivere globale delle donne e degli uo­mini, misurata sulla prova della prassi col criterio della volontà e capacità di rischiare. Il coraggio e la coscienza di dover assumere responsabilità nei grandi e nei piccoli fatti sono, devono essere oggi i parametri del vi­vere antifascista. Non soltanto nel privato, ma nel pubblico. Contenuti, la lotta contro l’alienazione prodotta dalla ‘reificazione’ in­dotta dall’autoritarismo del sistema, forma specifica, nel presente, della ‘violenza delle istituzioni’. A questo ostacolo, sempre ul­trapotente, al cammino verso la libertà di sviluppo della persona umana, l’antifasci­smo porta un’esperienza molto lunga e col­laudata da scontri durissimi e dalla capacità di individuare le ragioni per le quali l’uma­nità, che nel 1969 seppe andare sulla luna e allora e poi costruire miracoli scientifici e tecnologici, non volle o riuscì a superare la degenerazione della corsa ai consumi. Di qui l’antifascismo può, col suo bagaglio, partire per migliorare la democrazia repubblicana radicandola con l’autogoverno del singolo, della famiglia, della comunità, con il supera­mento del marcusiano “uomo a una dimen­sione” e con la costruzione del governo da sé e per sé.

Conclusione provvisoria

E ora, una conclusione almeno provvisoria. Una lunga corsa, di quasi un secolo. Una vi­cenda di convergenze e divisioni frutto di de­bolezza con qualche momento di forza. Tra sconfitte e vittorie, una scelta che basa la sua vitalità e durata nell’essere un fatto morale prima e più organicamente che politico. In questo senso, più attuale che mai, perché

non solo l’Italia ma il mondo è entrato in un’età di risveglio dal basso nelle forme e con gli strumenti dell’autonomia, un’auto­nomia del singolo, un’autonomia etnica e so­ciale, nell’insieme geostorica. I giganteschi fatti dell’Est stanno assumendo sviluppi non diversi nel resto del mondo. Siamo all’inizio di una storia mondiale nuova? La mia spe­ranza è sì. Se essa è destinata ad avverarsi, l’antifascismo sarà più vivo che mai. Non avrà, forse, da affrontare con la guerra delle armi il suo antico nemico. Fatti recenti anche vicino a noi — gli studenti contestatori che si proclamano “antifascisti davvero”, oltre che “pacifisti e democratici”, per dare un solo esempio fra i tanti possibili — mostrano che lo scontro si può affrontare con le armi della ragione, del confronto morale inteso come confronto storiografico illuminato dall’etica e dall’educazione.

L’eredità della scelta “lontana” resta inte­grale nel suo fondo, nel suo vero, autentico significato civile e umano. I giovani, sebbene non possano per l’età conoscere i tempi duri della lotta tra antifascismo e fascismo, av­vertono, e in schiere crescenti, che anche la ‘pace’ permette di discutere i grandi ‘valori’, che la progettualità del cuore si può legare al­la progettualità dell’intelletto, ricostituendo quell’unità della persona che si era sognata prima nella dimensione politica, poi in quella delle due culture, ora in quella — carica di forza psicologica e anche religiosa — che in­veste tutta la natura dell’uomo. Der Letzte, l’ultimo, il ribelle senza nome impiccato in un lager nazista, deve restare nella memoria di tutti noi, non per la vergogna di cui parla Primo Levi, ma come il simbolo del militante ignoto che scelse l’antifascismo, il primo di un’avanguardia di coraggiosi in cammino verso una nuova storia d’Italia e del mondo nata in un tempo lontano ma non ancora fi­nita. Questo è il mio augurio, questa la mia speranza. Spero che sia anche la vostra.

Guido Quazza