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L’ALto MedioevoArtigiani e organizzazione manifatturiera

a cura di Michelle BeGHeLLi e P. Marina de MARCHi

Atti del Seminario Arsago Seprio, Civico Museo Archeologico

(Viale Vanoni, Arsago Seprio, Varese) 15 novembre 2013

BraDypUS.netCOMMUNICATING

CULTURAL HERITAGE

Bologna 2014

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Un copertina: dettaglio di un frammento in stucco dal Museo degli Stucchi di Santa Maria Maggiore di Lomello (fotografia di Mauro Ranzani) e disegni dalla locandina del Seminario (Cristiano Brandolini).

Progetto grafico e composizione: BraDypUS

ISBN: 978-88-98392-08-7

Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere una copia della licenza visita il sito web http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/4.0.

2014 BraDypUS Editorevia Aristotile Fioravanti, 7240129 BolognaCF e P.IVA 02864631201http://bradypus.nethttp://[email protected]

Questo libro è stato pubblicato grazie al supporto delComune di Arsago Seprio - Assessorato alla Cultura.

Si ringraziano Roberta Scampini, Segreteria del Comune di Arsago Seprio, Alessio Marinoni, storico del tessuto - New York University e tutto il personale del Museo e i volontari del Comune di Arsago Seprio.

Comune di Arsago Seprio Assessorato alla Cultura

Si ringrazia inoltre Aredat (Associació per la Recerca, Estudi i Difusió en Antiguitat Tardana), Barcelona, per l’impegno nella diffusione del volume.

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L’ALto MedioevoArtigiani e organizzazione manifatturiera

a cura di Michelle BeGHeLLi e P. Marina de MARCHi

IntroduzioneMichelle Beghelli, P. Marina De Marchi7

La scultura altomedievale. Ateliers, artigiani itinerantie tecniche di produzioneMichelle Beghelli

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I frammenti di decorazione a stucco della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello. Note sulla tecnica e sui materialiMichela Palazzo

27

Tradizione e innovazione nel vasellame da cucina e dispensain Italia settentrionale fra età tardoantica e altomedievo.La manifattura dei recipienti e i loro legami con leabitudini alimentariAngela Guglielmetti

35

La produzione dei pettini altomedievali a più lamellein osso e cornoP. Marina De Marchi

53

Tessitura e abbigliamento in ambito longobardo.Studio, ricerca, sperimentazioneCristiano Brandolini

71

Bibliografia89

PrefazioneMartino Rosso, Assessore alla Cultura del Comune di Arsago Seprio5

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È con estremo piacere che presento questo volumetto che contiene gli atti della giornata di studi tenutasi al Civico Museo Archeolo-gico di Arsago Seprio il 15 novembre ultimo scorso.Trovo, infatti, che fra tutte le attività del museo la ricerca sia fra le più importanti e, parimenti, credo che sia dovere morale che i risultati di questi studi non restino proprietà esclusiva di chi li ha condotti, ma debbano essere divulgati.Un ulteriore motivo di compiacimento per questa iniziativa risiede nel fatto che si inse-risca in un più ampio progetto pluriennale di studio e revisione degli allestimenti che ab-biamo cominciato lo scorso anno e che ha, ad oggi, coinvolto le sezioni romano-imperiale e quella longobarda.Ringrazio la Regione Lombardia per il pre-zioso contributo, che ha permesso tale attivi-tà museologica e museografica.

Prefazione

Infine non posso tacere, vista la contingen-za storica nella quale viviamo, l’importanza della trattazione di un argomento così inte-ressante come quello delle attività artigianali. L’abilità “del fare”, la capacità manifatturiera e la creatività che ci contraddistinguono fin dall’antichità devono essere riscoperti e pos-sono diventare stimolo ed esempio, con nuo-ve forme e tecnologie, per il tempo presente e futuro.Ringrazio sentitamente gli autori e l’editore, i collaboratori, i volontari del Civico Museo Archeologico e il personale dell’Assessorato alla Cultura per il loro impegno e il loro lavo-ro, non solo in questa iniziativa editoriale, ma durante tutto l’anno.

dr. Martino Rosso

Assessore alla CulturaComune di Arsago Seprio

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Per diverse ragioni, l’artigianato e le tec-niche di manifattura nell’alto medioevo rappresentano un tema di studio attraen-te. L’interesse per il periodo è divenuto evidente, in Italia, solo nell’ultimo cin-quantennio, se non ancora più di recente, mentre altre epoche possono contare su una tradizione di ricerca ben più ricca e ra-dicata: sono numerosi, dunque, gli aspetti ancora da esplorare. Tutto ciò si inserisce, inoltre, nel contesto di studi odierno, nel quale i progressi delle scienze rendono possibile una profondità di analisi precedentemente impensabile: le moderne tecniche stratigrafiche di sca-vo implicano la ricerca e l’individuazione anche di minuscoli frammenti in materiali deperibili, che poi, grazie ai passi avanti nel campo del restauro e della conservazione, possono essere preservati e sottoposti ad analisi di laboratorio, che talvolta rivelano dati incredibilmente puntuali, dalla crono-logia dei manufatti (come nel caso della dendrocronologia per il legno) alla rico-struzione dei colori e dei motivi decorativi

introduzione

degli abiti (come nel caso di minuti lacerti di tessuto). Ulteriori vantaggi provengono dalle tecniche d’indagine offerte dall’uti-lizzo del microscopio elettronico, che permette di rilevare anche la più modeste tracce di lavorazione su reperti finora poco considerati in Italia: questo avviene per i tessuti, per i materiali in osso e corno, per la pietra, ma non solo. In questo percorso, è bene sottolinearlo, le capacità professionali dell’archeologo, sia al momento dello scavo sia durante il successivo studio dei mate-riali (i quali vanno contestualizzati in un quadro più esteso e aggiornato del singolo sito, interpretando poi i dati che ne risulta-no) restano comunque fondamentali. Le nuove tecniche analitiche hanno anch’esse contribuito ad una visione più ampia dei reperti e della circolazione dei manufatti, delle mode e dei modelli, degli artigiani: ciò ha coinvolto discipline di-verse, in sostanza modificando la “menta-lità” degli studiosi e costringendoli ad una maggiore interdisciplinarietà che interessa la storia della produzione alle diverse scale,

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L’Alto Medioevo. Artigiani e organizzazione manifatturiera

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locale e regionale, sovraregionale. In questo senso si è scelto significativamente di intro-durre il risultato di ricerche condotte sulla manifattura di ceramica e di arredi liturgici, per mettere in luce, nei limiti del possibile, sia le modalità produttive sia gli ambiti di smercio e distribuzione dei prodotti.Tale atteggiamento metodologico, che può sembrare ovvio, incontra ancora oggi alcune resistenze, che si coniugano in mol-teplici forme a seconda della classe dei materiali. Ne è un esempio la produzione scultorea altomedievale, il cui studio impli-ca l’analisi sia delle tracce di lavorazione sui manufatti, sia delle fonti scritte per quanto riguarda l’organizzazione delle botteghe artigiane: aspetti tutt’ora trascurati nella maggior parte delle pubblicazioni scientifi-che (e perfino ritenuti irrilevanti da alcuni) ma che invece, se studiati su ampia scala e integrati con i dati relativi al tipo di pietra impiegato e alla distribuzione sul territorio europeo di forme e tipologie decorative, potrebbero dare risultati interessantissimi, come le numerose ricerche sulla scultura romana hanno mostrato. Quest’ultimo ar-gomento vale, sempre a titolo di esempio, anche per i pettini e i reperti in osso, spesso

rinvenuti in contesto funerario in territo-rio italiano, ma solo di rado oggetto di ap-profondimenti che riguardino le tecniche di produzione (manifattura, assemblaggio, trattamento delle materie prime), e che sia-no contestualizzati in un quadro più esteso e aggiornati ai più recenti risultati delle ri-cerche europee.È sembrato, pertanto, importante alle cu-ratrici di questo volume offrire un contri-buto al dibattito sul tema delle tecniche manifatturiere, tanto più se l’occasione della pubblicazione di un volume deriva da una giornata di studi rivolta non solo agli addetti ai lavori, ma anche e soprattutto agli studenti, agli appassionati e ai curio-si. Un’iniziativa nata dalla convinzione che tutti debbano poter essere informati degli sviluppi del settore che per professione si occupa di archeologia e storia. Si ringraziano sentitamente, per questo, l’Amministrazione comunale di Arsago Seprio che ha promosso il seminario e tutto il personale del Civico Museo per la grande e cortese disponibilità dimostrata.

Le curatrici

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introduzione

Mentre in età romana la produzione scul-torea, ampia e diversificata, comprendeva elementi di decorazione architettonica e statue a tutto tondo destinate a diversi àmbiti e ad edifici sia pubblici che privati, nell’Alto Medioevo essa si concentra quasi esclusivamente nelle chiese e nei monasteri.Gran parte delle testimonianze scultoree altomedievali rinvenute in Europa meri-dionale, occidentale e in alcuni territori dell’Europa centrale risalgono ai secoli VIII e IX e facevano parte sia dell’apparato decorativo degli edifici ecclesiastici (corni-ci, stipiti per porte e finestre, capitelli, ecc., in alcuni casi sarcofagi), sia del loro arredo liturgico (altari, fonti battesimali, recinzio-ni presbiteriali, cibori, amboni, ecc.). La recinzione presbiteriale cingeva e separava l’area riservata al clero dal resto della chie-sa, come succede ancora oggi per le icono-stasi delle chiese ortodosse (fig. 1); poteva essere di tipo alto (pergula), composta cioè di una zona inferiore con lastre e pilastri-

La scultura altomedievale.Ateliers, artigiani itinerantie tecniche di produzione

ni e di una parte superiore con colonnine che sostenevano un architrave, oppure di tipo basso (cancellum), semplicemente formata dai pilastrini e dalle lastre (dette plutei). Le recinzioni potevano essere ret-tilinee, con un solo accesso al presbiterio collocato frontalmente, o più complesse, ad esempio a π (pi greco), prevedendo di solito, in questo caso, più di un ingresso (generalmente uno su ogni lato). Il cibo-rio era invece una sorta di baldacchino in pietra posto sopra l’altare, mentre l’ambo-ne era una tribuna sopraelevata, dotata di un parapetto convesso, alla quale si acce-deva tramite alcuni gradini: il sacerdote vi si recava per la lettura dei testi sacri. Alle pergulae e ai cibori venivano appese corti-ne multicolori in tessuti preziosi, lampade in metallo o vetro, croci, icone, che cono-sciamo principalmente attraverso le fonti scritte e iconografiche; ben di rado, infat-ti, ne restano tracce tangibili (ad esempio i fori praticati sulla pietra per alloggiarvi i ganci destinati a sostenerle). Solo molto raramente questi resti scultorei sono giunti

Michelle BeghelliRömisch-Germanisches Zentralmuseum, Mainz - Forschungsinstitut für Archäologie

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fino a noi in buono stato di conservazione; quasi sempre vengono rinvenuti in fram-menti poiché, già a partire dal pieno Me-dioevo, le strutture di cui facevano parte vengono distrutte per ricavarne materiale da costruzione da utilizzare in occasione di rifacimenti o ristrutturazioni della chiesa. I frammenti potevano essere reimpiegati, per esempio, all’interno di un muro (fig. 2) o, nel caso delle lastre, potevano essere girati con la parte decorata nascosta alla vi-sta, sfruttando il tergo, liscio, in una nuova pavimentazione o come copertura per una tomba. I materiali, pertanto, devono essere studiati molto attentamente per capirne la funzione e la posizione, al fine di ricostrui-re gli elementi architettonici originari. Una delle caratteristiche più evidenti della decorazione di questi elementi scultorei è l’assoluta preponderanza di motivi geo-metrici o floreali, talvolta zoomorfi: tra il Tardoantico e l’Alto Medioevo, infatti, si assiste alla progressiva rarefazione dei sog-getti antropomorfi e delle scene narrative, ai quali vengono preferiti girali vegetali e soprattutto intrecci, anche estremamente complessi. Gli studiosi hanno dibattuto a lungo sulle ragioni di questo fenomeno, senza però arrivare a conclusioni definiti-ve condivise da tutti. Le origini della gran parte di tali ornamenti, comunque, vanno verosimilmente cercate nell’architettura di epoca classica e non, come è stato sostenu-to in passato, nelle culture cosiddette “bar-bariche” e nelle loro produzioni di orefice-ria. Decorazioni come i girali vegetali e gli astragali erano molto frequenti nei fregi di età romana, mentre le trecce erano diffusis-sime sui mosaici pavimentali; bisogna inol-tre tener presente che nell’Alto Medioevo i monumenti romani parzialmente o inte-ramente conservati erano, com’è ovvio, più

numerosi rispetto a oggi. Chiunque poteva passarvi accanto e osservarli quotidiana-mente, compresi, naturalmente, gli scultori, che probabilmente ne imitavano i modelli aggiornandoli al gusto contemporaneo.

il cantiere e l’assemblaggio degli ele-menti di arredo

La fabbricazione e il montaggio degli ele-menti di arredo liturgico lapideo di una chiesa erano operazioni complesse che richiedevano elevate capacità di progetta-zione e coordinamento di differenti figu-re professionali. I dati su questi aspetti si ricavano sia dalle fonti archeologiche che da quelle scritte. Attraverso l’analisi detta-gliata dei frammenti lapidei, l’archeologo può comprendere come le diverse par-ti (pilastrini, plutei, colonnine, architravi, ecc.) fossero prodotte e assemblate tra loro e può individuare la tipologia degli origi-nari elementi di arredo liturgico, mentre testi scritti di vario genere (cronache, leggi, annali, biografie di sovrani e abati), benché non numerosi, offrono ragguagli sull’orga-nizzazione del cantiere e sull’attività degli artigiani. Come ha mostrato G. Binding attraverso lo studio delle fonti, il progetto generale e il programma iconografico dell’arredo liturgico e dell’apparato decorativo da re-alizzare all’interno della chiesa erano ge-neralmente affidati al vescovo o all’abate, che doveva anche occuparsi di procurare le materie prime e di reclutare gli operai e gli artigiani. Per migliorarne la stabilità, le recinzioni presbiteriali venivano spesso dotate di una zoccolatura di base, una sorta di cordolo interrato al quale si fissavano i pilastrini e i plutei, con ogni probabilità realizzato non

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MICheLLe BeGheLLILa scultura altomedievale: ateliers, artigiani itineranti e tecniche di produzione

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Fig. 1 (in alto a sinistra). Pergula di Molzbichl, Austria (da Karpf 2003)

Fig. 2. (in alto a destra). Frammenti reimpiegati. Sopra: Trento, Santa Maria Maggiore (fotografia di M. Beghelli); sotto: Aquileia, Santa Maria Assunta (fotografia di F. Celona)

Fig. 3 (a sinistra). Pilastrino da Herrenchiemsee, Baviera, con sca-nalature per la giunzione con i plutei (da Dannheimer 1980)

Fig. 4 (sopra). Schema del sistema di montaggio con grappe ed esempio di cancellum da Aquileia, Santa Maria Assunta. Si notano l’alloggiamento per la grappa ricavato nella pietra e tracce di piombo all’interno dei fori (fotografie di F. Celona)

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Fig. 5 (sopra). Frammento da Trento, Santa Ma-ria Maggiore. All’interno di un foro di montaggio (visibile a causa della frattura) restano tracce di ruggine dovute alla presenza di un piolo metal-lico (fotografie di M. Beghelli)

Fig. 6 (a sinistra). Un operaio altomedievale rinforza la giunzione di due elementi architet-tonici tramite l’uso di una grappa, fissata con il piombo (da micheletto 2005)

Fig. 7 (a destra). Gli strumenti dello scalpellino e del tagliapietre. 1: doppia ascia o ascia-martello; 2: piccone; 3: ascia-martello a tagli ortogonali (o, più piccola: scalpelli-na); 4: mazzetta; 5: punteruolo; 6: scalpello a lama dritta; 7: gradina; 8: scalpello a lama arrotondata; 9: squadra (da aDam 2011 [1984])

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dagli scalpellini o scultori, ma dai mura-tori. La forma originaria della recinzione presbiteriale si inferisce spesso proprio da questa struttura, della quale si possono in-dividuare archeologicamente i resti: solita-mente si riconoscono i fori quadrangolari per inserirvi i pilastrini (caratterizzati a loro volta da un’apposita appendice desti-nata ad esservi inserita), ma questi ultimi potevano essere ancorati alla zoccolatura anche tramite pioli metallici. In genere i pilastrini mostrano, sulle loro facce la-terali, una scanalatura longitudinale che serviva per assemblarli ai plutei, fabbricati a questo proposito con una corrispettiva sporgenza laterale secondo un sistema di giunture maschio/femmina (fig. 3). I plu-tei potevano venire uniti ai pilastrini anche attraverso grappe metalliche: questo me-todo si riscontra più di frequente nel caso di elementi dallo spessore contenuto, come quelli del cancellum in marmo di Santa Maria Assunta ad Aquileia (fig. 4). Pioli e grappe metalliche venivano usati anche per la messa in opera di ulteriori parti della recinzione presbiteriale: univano i pilastri-ni alle colonnine e le colonnine ai capitelli (sempre che questi elementi, come talvolta accade, non fossero fabbricati in mono-blocco), e servivano naturalmente anche per fissare il sistema di architravi che coro-nava tutta la struttura. Queste tecniche di montaggio si possono desumere attraverso lo studio dei fori presenti sui frammenti e le loro posizioni reciproche. Raramente i pioli e le grappe si conservano in situ per-ché il ferro è un materiale deperibile che nel sottosuolo umido tende a disgregarsi. Restano però, di frequente, tracce di rug-gine e di piombo, che veniva fuso e versato nei fori stessi a mo’ di legante, per miglio-rare la presa di grappe e pioli (figg. 4, 5 e 6).

La fabbricazione degli elementi scultorei

Gli strumenti utilizzati dagli scultori e da-gli scalpellini sono rimasti pressoché i me-desimi dall’antichità ai giorni nostri (fig. 7); ciò che può modificarsi nel corso dei secoli sono invece le tecniche, ricostruibili tramite l’analisi delle tracce lasciate sulla pietra dagli strumenti. Tali tracce, logica-mente, sono più evidenti sulle superfici non decorate che dovevano rimanere nascoste alla vista (come il tergo o le facce laterali di lastre, pilastrini, ecc.), ma si riescono ad individuare anche sulle superfici decorate. I manufatti non finiti, infine, sono molto preziosi per individuare le varie fasi di la-vorazione dell’ornato.Lo studio delle tecniche di lavorazione della scultura altomedievale è un campo di indagine relativamente recente che si è andato sviluppando solo nel corso de-gli ultimi decenni. La scarsità del numero delle ricerche dedicate a questo argomento e l’assenza, in quasi tutte le pubblicazioni scientifiche, di fotografie o descrizioni dei segni di lavorazione (si tende infatti a con-centrare l’attenzione esclusivamente sulle decorazioni dei reperti) provocano note-voli difficoltà, soprattutto nel confrontare visivamente le tecniche impiegate su fram-menti lapidei provenienti da luoghi diversi. Per lo studio di questi aspetti è certo neces-sario l’esame diretto degli oggetti da parte dell’archeologo (essenziale ma talvolta tra-scurato ai fini di un più rapido studio svol-to attraverso il solo materiale fotografico!), ma preziose informazioni possono essere ottenute anche grazie all’analisi delle trac-ce di lavorazione da parte di restauratori e scalpellini. Il parere di ulteriori esperti è fondamentale per contribuire a incremen-

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tare le nostre conoscenze sulle tecniche di manifattura. Le grandi potenzialità di tali ricerche sono chiaramente dimostrate, ad esempio, dai risultati raggiunti sulla pro-duzione scultorea romana. Ciononostante, grazie ad alcuni autori che con i loro lavori hanno fornito altrettanti esempi metodo-logici, sono stati fatti alcuni passi avanti anche nella conoscenza delle tecniche scul-toree altomedievali. Una volta sbozzato il blocco di pietra nel-le dimensioni e nella forma desiderate con scalpelli e punte, la gradina veniva usata per levigarne e regolarizzarne le superfici (fig. 7,7). Se in epoca romana dopo questo passaggio si procedeva solitamente ad una successiva levigatura, a partire dall’VIII-IX secolo risulta molto spesso attestato l’uti-lizzo di questo strumento senza ulteriori ri-finiture, in particolar modo su pietre come il calcare e l’arenaria, mentre il marmo veniva talora rifinito con polveri abrasive. In alternativa alla gradina si poteva impie-gare, specialmente sulle pietre più morbi-de, il cosiddetto martello a punta o ascia-martello, cioè uno strumento somigliante ad un’ascia con una o due lame (fig. 7,1). Quest’ultimo lascia segni paralleli tra loro, mentre la gradina lascia una caratteristica traccia simile a un reticolato (fig. 8); talvol-ta si riconoscere la larghezza dell’utensile, come nel caso della fig. 8,3, dove ciascuna delle “strisce” visibili corrisponde a un pas-saggio dello strumento sulla pietra. Benché esso fosse quasi sempre impiegato senza ulteriori rifiniture sulle superfici nascoste alla vista, in qualche caso, per esempio sul fusto delle colonne (che era invece espo-sto), si procedeva comunque a una leviga-tura, di solito con polveri abrasive: in fig. 8,4 si osservano le sottilissime striature dovute a questa operazione, nonostante i

segni del precedente trattamento a gradina non siano stati obliterati del tutto.Fitte tracce di scalpello sono invece fre-quentemente riscontrabili in corrispon-denza degli spigoli degli oggetti, come si osserva sul piccolo frammento in fig. 9. Relativo ad un pilastrino angolare, esso si è distaccato dall’area dove erano ricavate le scanalature per l’alloggiamento dei due plutei. Due delle superfici sono lavorate a gradina, le altre due (corrispondenti alle “pareti” delle scanalature) sono lasciate sbozzate, ma mostrano una piccola fascia che appare più liscia. Queste caratteristiche derivano dalla tecnica adottata per ricavare spigoli regolari nella pietra (sostanzialmen-te la stessa sia per i grandi blocchi che per gli oggetti più piccoli come un pilastrino). Dopo aver sbozzato grossolanamente le superfici di quelle che sarebbero diventate le facce dell’oggetto, infatti, si creavano gli spigoli (fig. 10): una fase di lavorazione tra le più delicate, durante la quale era maggio-re il rischio di scheggiare o fratturare il ma-nufatto. Lo strumento impiegato doveva quindi essere molto preciso: ci si serviva di scalpelli a lama piatta e molto affilata. Dal-le striature in diagonale visibili sull’oggetto in fig. 9, parallele e vicine tra loro, si può in-tuire quanto le scalpellate fossero frequenti e precise, ottenute esercitando poca forza per non rischiare di rovinare lo spigolo dell’oggetto. Una volta ricavati gli spigoli si procedeva poi a levigare la restante parte delle facce del manufatto, questa volta con la gradina. L’interno delle scanalature rea-lizzate sui pilastrini per l’assemblaggio con i plutei era invece lasciato grossolanamente sbozzato (cosa che, probabilmente, favoriva anche la tenuta dell’incastro tra gli elemen-ti). Nonostante si possano osservare segni simili a incisioni che potrebbero sembrare

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Fig. 8 (sopra). Segni di gradina sul tergo di fram-menti da Trento, Santa Maria Maggiore (1, 2, 3, e 4; sull’ultimo si riconoscono tracce di un trattamento con polveri abrasive. Fotografie di M. Beghelli) e da: 5: Frauenchiemsee, Baviera (da Dannheimer 1980); 6: Roma (da macchiarella 1976); 7: Como (da casati 2005)

Fig. 9 (a destra, in alto). Frammento di pilastri-no angolare da Trento, S. Maria Maggiore. Vi si riconoscono tracce di gradina e due diversi tipi di segni di scalpello (fotografie di M. Beghelli)

Fig. 10 (a destra, al centro). Squadratura di un blocco di pietra (da Ausbildung Steinmetz 1985)

Fig. 11 (a destra, in basso). Como, Sant’Abbondio (da lomartire 1984)

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Fig. 12 (in alto a sini-stra). Bardolino (Vr), San Severo (da Verona e il suo territorio 1964)

Fig. 13 (in alto a destra). Set di compassi e fili a piombo rinvenuti a Pompei (da aDam 2011 [1984])

Fig. 14 (a destra). Civi-dale del Friuli, lastra a timpano incompiuta (fotografia di F. Celona)

Fig. 15 (a destra, in basso). Dettaglio della lastra in fig. 14

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ottenuti con una punta, essi sono invece da relazionare agli angoli della lama dello scalpello piatto, utilizzato per ricavare la scanalatura e tenuto inclinato rispetto alla superficie lapidea. I diversi passaggi necessari a realizzare le decorazioni, che nell’Alto Medioevo sono quasi sempre a bassorilievo (il rilievo molto alto e la tecnica dell’incisione sono meno frequenti), sono noti non solo grazie all’analisi delle tracce degli strumenti, ma anche attraverso alcuni rari pezzi non fi-niti: la fortunata circostanza del loro ritro-vamento permette di seguire i diversi stadi della lavorazione.Si procedeva innanzi tutto ad abbozzare il disegno sulla pietra con una punta fine, for-se seguendo le linee previamente trasposte attraverso un cartone come avveniva per gli affreschi, anche se questa fase, per la quale mancano prove certe, è soltanto ipotizzabi-le. Linee rette parallele e distanziate tra loro potevano definire, ad esempio, la superficie da dedicare a una treccia, come nel caso di un frammento di Como (fig. 11), ma esiste-vano anche appositi compassi per incidere cerchi e linee curve, come si osserva su una lastra dall’area veronese (fig. 12). Pompei ha restituito un intero set di compassi e fili a piombo (fig. 13); speciali compassi dotati di una vite che permetteva di tenerne fissa l’apertura venivano usati anche per ripor-tare le misure: era questo, probabilmente, il metodo utilizzato per tracciare sulla pietra i disegni più complessi e caratterizzati da una struttura geometrica rigorosa come gli intrecci a cerchi annodati. Una volta definita, in questo modo, la struttura generale della decorazione si asportava, con uno scalpello, il materiale corrispondente a tutti gli spazi di risulta tra i nastri di un intreccio, tra le foglie o i

fiori di un girale vegetale, ecc.: questo pas-saggio è chiaramente visibile in una lastra a timpano conservata a Cividale nel Friu-li (fig. 14). Vi si osservano un’ampia area centrale ancora tutta da lavorare, due croci ed elementi relativi ad un girale non rifiniti e una palmetta soltanto incisa, essendosi interrotta la manifattura prima che venisse rimossa la pietra tra questa e le trecce cir-costanti (fig. 15). Se gli spazi di risulta tra i nastri coincidevano con aree piuttosto am-pie, esse potevano venire ulteriormente le-vigate a gradina (fig. 16) e successivamente lisciate con scalpelli a lama arrotondata o polveri abrasive: in questo caso, ovviamen-te, è molto difficile leggere le tracce della gradina, che però talvolta si scorgono in prossimità degli elementi a rilievo, come è stato evidenziato a Trento e ancora a Como (figg. 17 e 18). Solo durante le fasi finali del lavoro si procedeva alla definizio-ne dei dettagli della decorazione, per esem-pio le nervature delle foglie o i cosiddetti “vimini” dei nastri degli intrecci: a questo scopo si utilizzavano punte e scalpelli (fig. 16) di diverse dimensioni che dovevano avere lame molto taglienti per definire con precisione i particolari più piccoli; tracce di scalpello di questo genere si possono osservare anche nella fig. 19 sul collarino e sulle volute del capitello (mentre il fusto della colonna in monoblocco è caratteriz-zato da segni di gradina). Altre due lastre a timpano da Cividale mostrano molto chia-ramente i diversi stadi di lavorazione dei dettagli dell’ornato (fig. 20): le S affrontate sono dapprima ricavate asportando il ma-teriale dal fondo (fig. 20,1), che poi viene levigato (fig. 20,2); in seguito vengono cre-ati, tramite un solco a scalpello, i vimini, procedendo poi alla realizzazione dei fori di trapano al centro delle volute. Nelle pri-

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me due immagini, soltanto l’astragalo inferiore è ultimato, ma il confronto con una terza lastra (fig. 20,3) suggerisce che la linea retta incisa a punta e ripassata a scalpello dell’area superiore definisse lo spazio da dedicare a un analogo elemen-to, in maniera simmetrica. Sugli archetti di una cornice rinvenuta a Trento (Santa Maria Maggiore) è documentato l’uso di un ulteriore utensile preposto alla defini-zione di dettagli ornamentali: si tratta di una sorta di stampiglio che, battuto sulla pietra, lasciava incisi piccoli cerchietti fo-rati (fig. 21). Benché la cornice tridentina non sia l’unico frammento altomedievale caratterizzato da queste decorazioni, esse non sono molto frequenti in scultura, essendo invece attestate più spesso sui gioielli e sugli elementi di abbigliamento quali fibule o fibbie. Del loro supposto carattere “germanico” o della loro origi-ne “tardoantica”, suggeriti da alcuni au-tori, c’è comunque da dubitare, dato che i cerchietti forati sono ripetutamente documentati a partire da periodi molto antichi, come dimostra già l’oreficeria etrusca. In epoca romana e fino al VI secolo circa, il trapano era uno strumento massiccia-mente impiegato nel realizzare le decora-zioni (basti pensare ai fregi floreali clas-sici o ai capitelli bizantini), ma nell’Alto Medioevo il suo uso si fa raro. Cionono-stante, se ne trova ugualmente un certo numero di testimonianze: fori con diffe-renti diametri potevano mettere in risal-to, per esempio, gli spazi tra i nastri delle trecce, dando loro profondità ed aumen-tando l’effetto di chiaroscuro (figg. 22 e 5). Per le pietre più morbide si poteva utilizzare il trapano continuo, costituito da un arco in legno con una impugnatura

collegato ad un cavo: quest’ultimo, avvol-gendosi e svolgendosi attorno a una sorta di rocchetto quando l’arco in legno veniva mosso avanti e indietro, faceva girare una punta in ferro, che creava il foro. Per le pie-tre più dure si usava invece un altro tipo di trapano, costituito dalla sola parte in ferro; lo strumento veniva battuto con il martel-lo e contemporaneamente ruotato a destra e a sinistra: agiva cioè come una sorta di moderno trapano a percussione, che oltre al potere perforante della rotazione della punta sfrutta anche la forza aggiuntiva del-la percussione continua sulla superficie da forare (fig. 23).

organizzazione delle botteghe e arti-giani itineranti

Se le informazioni sulle tecniche di lavora-zione della pietra si possono in gran parte ricavare dallo studio dei frammenti sculto-rei, quelle relative all’organizzazione inter-na degli ateliers di produzione e dei gruppi di artigiani possono essere cercate anche nei documenti scritti. Uno dei fenomeni che ha maggiormente spinto gli studiosi a interrogarsi sui modelli produttivi e com-merciali legati alla scultura architettonica altomedievale è la presenza di resti sculto-rei estremamente simili in regioni europee talvolta molto distanti tra loro. Questo fe-nomeno è attestato anche per l’epoca clas-sica e ancora nell’impero bizantino.In età romana esistevano certo botteghe operanti a livello locale, ma anche gran-di centri di estrazione e lavorazione della pietra, dove si fabbricavano in serie manu-fatti finiti o semilavorati che venivano poi trasportati, quasi sempre utilizzando vie d’acqua, in luoghi talvolta distanti diverse centinaia di chilometri. Ciò era consentito

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Fig. 16 (sopra). Trento, San Vigilio. Segni di gradina negli spazi di risulta tra i nastri e fitte scalpellate per definire i vimini del nastro stesso (fotografia di M. Beghelli)

Fig. 17 (a destra). Trento, San Vigilio. Gli spazi di risulta tra gli elementi dell’ornato sono stati finemente levigati, ma in prossimità del rilievo si possono ancora osservare i segni del precedente trattamento a gradina (fotografia di M. Beghelli)

Fig. 18 (a destra, in basso). Como, Sant’Abbondio. Segni di gradina negli spazi di risulta tra i nastri dell’intreccio (da lomartire 1984)

Fig. 19 (sotto). Trento, Santa Maria Maggiore. Segni di gradina sul fusto della colonna, e di scalpello sul collarino e sulle volute del capitello (fotografie di M. Beghelli)

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Fig. 20 (in alto a sinistra). Cividale del Friuli. 1 e 2: dettagli da una stessa lastra a timpano incompiuta, con diversi stadi di lavorazione. 3: il motivo decorativo finito su un’altra lastra

Fig. 21 (in alto a destra). Trento, Santa Maria Maggiore. Cornice con motivo a occhi di dado o cerchietti forati, ottenuto con una sorta di stampiglio (da Guaitoli, lopreite 2013)

Fig. 22 (sopra). Trapano utilizzato a scopo orna-mentale. 1, 2 e 3: Trento, Santa Maria Maggiore (fotografie di M. Beghelli). 4: Como (da lomartire 1984); 5: Koper (da saGaDin 1977); 6: Borgo San Dalmazzo (da crosetto 1998)

Fig. 23 (a sinistra). Trapani (da Blümel 1927)

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dall’ampiezza della domanda di mercato (dovuta anche alla presenza di un potere politico centralizzato promotore di gran-di opere edilizie in pietra) e dalla presenza di una solida rete di infrastrutture. Que-sto modello produttivo è documentato da fonti scritte, iconografiche e archeologi-che. Sono stati ritrovati, direttamente in cava, elementi scultorei lavorati sul posto, perfino prodotti di statuaria a tutto tondo, come a Pula, in Istria. Sono stati rinvenuti relitti di navi ancora contenenti sarcofagi, colonne o altri elementi architettonici, che testimoniano il loro trasporto su grandi distanze, e sono stati identificati elementi scultorei molto somiglianti in siti lontani tra loro, ricavati, a volte, in pietre estratte a centinaia o migliaia di chilometri dal luogo di ritrovamento: in questi casi, gli oggetti sono dunque riconducibili a un medesimo centro produttivo e a una stessa cava. Tali conclusioni sono state raggiunte grazie a una tradizione di ricerca che da lungo tem-po si concentra non solo sugli aspetti stili-stici, ma anche sulle tecniche di estrazione della materia prima e della manifattura de-gli elementi scultorei, sulla determinazione sistematica della provenienza della pietra (attraverso analisi di laboratorio ed esami diretti da parte dei geologi) e sulla raccolta e lo studio dei dati su ampia scala, in un’ot-tica sovra regionale. In età protobizantina risultano ancora attive alcune cave di mar-mo sfruttate in maniera intensiva, e ritro-vamenti molto noti come il relitto navale di Marzamemi in Sicilia (il cui carico inclu-deva elementi di arredo liturgico già pronti per il montaggio, tra cui le lastre di un am-bone in marmo di Tessaglia) testimoniano ancora per il VI secolo la commercializza-zione su lunghe distanze di oggetti finiti. Per l’epoca altomedievale, alcuni studiosi

hanno ipotizzato un modello produttivo “in serie” simile a quello, descritto sopra, di una parte della produzione scultorea roma-na: in particolare una teoria formulata alla fine degli anni Sessanta da J. Hubert iden-tificava le Alpi come area di produzione, dalla quale poi gli elementi architettonici sarebbero stati esportati, già lavorati e fi-niti, verso altre destinazioni. In epoca alto-medievale, però, non solo si registra presso-ché ovunque la fine dello sfruttamento di tipo intensivo delle cave, ma scompaiono anche le tracce di relitti navali con grandi carichi di pietra. Seguendo la teoria di J. Hubert, invece, ci si aspetterebbe di trova-re, così come nei casi ricordati sopra rela-tivi all’età romana, oggetti riconducibili a una medesima cava di pietra dispersi in un vasto areale. Questo, tuttavia, non risulta dalle ricerche. Negli ultimi anni (e questi sono dati che Hubert non aveva ancora a disposizione) le analisi petrografiche o l’esame da parte di un geologo stanno di-ventando sempre più comuni, venendo inclusi negli studi sui frammenti scultorei altomedievali. Benché questa sia una prassi relativamente recente, comincia ad appor-tare risultati molto interessanti: le pietre utilizzate, sia di reimpiego che di nuova estrazione, sono quasi esclusivamente re-perite a livello locale o regionale, a distanze ridotte (e non in cave lontane centinaia o migliaia di chilometri). Il trasporto su di-stanze ridotte, come testimonia già Grego-rio di Tours, si poteva effettuare via terra (Gregorius Turonensis, Liber in Gloria Confessorum 18; Liber in Gloria Martyrum 66), sebbene non si possano escludere brevi tragitti sulle vie fluviali. D’altronde alcune fonti altomedievali, come nota G. Binding nei suoi lavori, indicano che il committente dei lavori (l’abate, il vescovo, ecc.) dovesse

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provvedere alle materie prime e metterle a disposizione degli artigiani. Tornando alla teoria di J. Hubert, si deve quindi escludere che a viaggiare fossero le sculture pronte e finite. Come spiegare, allora, la presenza di ogget-ti straordinariamente simili (talvolta quasi identici) in aree europee molto distanti tra loro, e ricavati nei rispettivi litotipi regio-nali? Una soluzione al problema viene of-ferta dall’ipotesi dell’esistenza di gruppi di artigiani itineranti (non soltanto scalpellini e scultori ma anche carpentieri, murato-ri, ecc.), che si spostavano da un cantiere all’altro lavorando le materie prime dispo-nibili localmente. Sebbene sia talora docu-mentato già per le epoche romana e proto-bizantina, il fenomeno del lavoro itinerante sembra aumentare nell’Alto Medioevo: una delle principali cause fu verosimilmente la graduale riduzione della domanda rispetto all’età romana; ciò è rispecchiato dalla net-ta decrescita dello sfruttamento intensivo delle cave (a partire, in Occidente, dal IV secolo) e dalla scomparsa quasi totale, en-tro la fine del VI secolo, del commercio su lunghe distanze di blocchi di pietra grezza, semilavorata e di oggetti finiti. Rispetto all’età romana, nell’Alto Medioevo si era infatti estinto tutto un settore dell’edilizia monumentale (teatri, terme, fori, ecc.), ora rappresentata principalmente dalle chiese; bisogna considerare, comunque, che in di-verse città, intorno all’VIII-IX secolo, non vi era neppure la necessità di erigere un nuovo edificio ecclesiastico, poiché le basi-liche di V-VI secolo, costruite appena due o tre secoli addietro, erano ancora in piedi e in uso. Non vi era insomma, come segna-la anche C. Wickham, sufficiente domanda per supportare l’esistenza di botteghe arti-giane in ogni città.

Da un punto di vista economico, in que-sta situazione risultava probabilmente più vantaggiosa (e più semplice) la circolazione delle maestranze piuttosto che dei manu-fatti. Ad ogni modo, il fatto che il modello produttivo “in serie” e su ampia scala fosse venuto meno non deve essere interpretato come un segnale di decadenza o di perdi-ta di capacità tecniche e imprenditoriali. Il mercato si stava trasformando, adattandosi a nuove esigenze: occorre perciò respingere visioni semplicistiche che contrappongono un mondo antico caratterizzato da alta or-ganizzazione e suddivisione del lavoro a un mondo altomedievale percorso da singoli artigiani o piccoli gruppi che vagavano in maniera casuale e si fermavano dove trova-vano un cantiere. Nuove e specifiche competenze si rendeva-no necessarie: se, ad esempio, la manifattura e il trasporto di una colonna di età classica erano operazioni complesse che necessita-vano di essere pianificate con attenzione, di certo lo erano anche le pratiche tardoanti-che e altomedievali di riutilizzo di colonne provenienti da edifici romani (nelle chiese di questi periodi, quelle tra le navate sono infatti molto spesso reimpiegate). Alcuni autori come P. Rockwell e S. Lomartire si sono soffermati sulle abilità tecniche impli-cate da una tale prassi: smontare un edificio o sollevare e trasportare colonne che giac-ciono sul terreno, posizionarle ed erigerle nella nuova collocazione, adattarne ed uni-formarne perfettamente le diverse altezze tramite espedienti come basi o capitelli di diverse misure sono tutte operazioni che richiedono un alto livello organizzativo, la buona coordinazione di una squadra di architetti, muratori e scalpellini e l’utilizzo di macchine appropriate (descritte, queste ultime, ancora da Gregorio di Tours: Liber

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in Gloria Martyrum 8). L’esistenza del fenomeno degli artigiani itineranti e la loro organizzazione in grup-pi composti da figure professionali diversi-ficate sono anche testimoniate da un certo numero di fonti scritte riferite a un periodo compreso tra gli ultimi anni del VII e la metà del IX secolo. Da queste si possono desumere, a volte, viaggi di svariate cen-tinaia di chilometri. Ecco una descrizione schematica degli avvenimenti trasmessi dalle fonti:Anno 675: per costruire il suo monastero in pietra, l’abate di Wearmouth, Inghilterra settentrionale, chiede l’invio di maestranze dalla Gallia: si tratta di almeno 700/800 km (Beda Venerabilis, Hist. Abbatum 5, p. 368).Anno 710: su richiesta di Naiton, re dei Pitti, dalla stessa abbazia (Wearmouth) vengono mandati architetti e operai perché costruiscano una chiesa di pietra nei terri-tori da lui governati (Beda Venerabilis, Hist. Eccl. Gentis Anglorum V, 21, p. 506).Dal 672-678: la chiesa di Hexham, Nor-thumberland, viene edificata da artifices provenienti addirittura da Roma (Gu-lielmus Malmesburiensis, Gesta ponti-ficum… III, 117, p. 255). Anno 720 circa: un titolo di Liutprando dispone il da farsi nel caso che un artigiano si assenti per lavoro e rimanga lontano da casa per più di tre anni (Leges Liut. 18, pp. 115-116).Anno 790 circa: Carlo Magno invia a Saint-Riquier artifices doctissimos (artigia-ni abilissimi) nella lavorazione «del legno e della pietra, del vetro e del marmo» per edificare la nuova chiesa sotto la direzione dell’abate Agilberto (Hariulfus, Chroni-con Centulense II, 2). Anni 796-804 circa: costruzione della

Cappella Palatina di Aquisgrana; vi parte-cipano maestranze provenienti «da tutte le terre al di qua del mare» (Notker Balbu-lus, Gesta Karoli… I, 28).Anno 820 circa: Ludovico il Pio, da Aqui-sgrana, invia all’arcivescovo di Reims l’arti-giano Rumaldo a lavorare presso il cantiere della nuova cattedrale (Flodoardus Re-mensis, Hist. Remensis eccl. II, 19).Anno 828: il giovane Gerlaico giunge ad Aquisgrana insieme a un gruppo di operai e artigiani di Reims, chiamati dall’impe-ratore per costruire gli edifici del palazzo (Einhardus, Translatio IV, 2).Seconda metà VIII-inizio IX secolo: maestri costruttori definiti «transpadani» sono attestati in Tuscia e in Sabina (fonti in: Bianchi, Valenti 2009, pp. 636-639; Violante 1987).Anno 850 circa: l’arcivescovo di Salisburgo Liuprammus manda in Pannonia mura-tores, pictores, fabros et lignarios al principe Priwina, che vuole costruire una honorabilis ecclesia (Conversio Bagoariorum et Caranta-norum 11).Anno 850 circa: i marmorari compaiono in una lista di “beni” di lusso provenienti dall’impero bizantino e importati nella ca-pitale del califfato, Baghdad. L’elenco cita: vasellame in oro e argento, dinari di puro oro, piante medicinali, tessuti in lana, abrūn [?], broccato di seta, cavalli di razza, schia-ve, rari tipi di vasellame in rame, serrature a prova di scasso, lire, ingegneri idraulici, esperti di agraria, marmorari ed eunuchi (fonte in McCormick 2001, p. 591). È da notare che la necessità di Liutprando di legiferare sull’eventualità che un artigia-no si assentasse da casa per più di tre anni testimonia che simili viaggi fossero piutto-sto frequenti. Oltre alla mobilità, come ac-cennato sopra, queste fonti documentano

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un’ulteriore importante caratteristica delle maestranze itineranti altomedievali, e cioè la compresenza di molteplici figure pro-fessionali specializzate: è questo il caso dei Magistri Commacini, ricordati da quattro documenti scritti tra gli ultimi decenni del VII e la metà circa dell’VIII secolo. Questo gruppo di artigiani, ritenuti itineranti dalla critica, comprendeva, oltre che muratori, carpentieri e altri specialisti, anche abieta-rii (falegnami) e marmorarii. Agli abietarii è attribuita la fabbricazione di soppalchi lignei, balaustre e, soprattutto, cancella, che con ogni probabilità includevano le recin-zioni presbiteriali in legno. I marmorarii si occupavano della manifattura di axes, cioè lastre di marmo (tra le quali possono essere annoverati i plutei), e delle columnae, delle quali viene indicata l’altezza, quattro o cin-que piedi (180-220 cm): ciò chiarisce che non si tratti di colonne con vera e propria funzione portante all’interno dell’edificio, ma piuttosto di colonnine per recinzioni presbiteriali, per bifore ecc. Molte colon-ne altomedievali che hanno queste misure giunte fino a noi sono in monoblocco con la base e il capitello, talvolta anche con il pilastrino, il che permette, come dimostra-to da S. Lomartire, di attribuire ai marmo-rarii vere e proprie competenze di scultore. Diversi dati rintracciabili nelle fonti, tra le quali il titolo di Liutprando menzionato sopra, indicano comunque che gli artigiani, pur spostandosi talvolta a distanze consi-derevoli e per periodi prolungati, avessero una sede di riferimento. Possiamo immagi-nare che i gruppi particolarmente qualifi-cati e abili nel proprio lavoro si muovessero più di frequente e su distanze più ampie, come i documenti citati poc’anzi sembra-no indicare, ad esempio, per gli artifices provenienti da Aquisgrana, da Reims o da

Salisburgo, chiamati a operare in cantieri, per l’epoca, molto lontani; la manodopera non specializzata, invece, si poteva proba-bilmente ingaggiare anche in loco. Sembra, infine, che le figure professionali viaggianti fossero selezionate all’interno di gruppi più ampi a seconda delle necessità del lavoro: mentre, ad esempio, Carlo Magno invia a Saint-Riquier falegnami, scalpellini, vetrai e scultori, Ludovico il Pio invia a Reims il solo Rumaldo a lavorare nel cantiere della nuova cattedrale. Si può quindi dedurre che nel caso (frequentemente attestato dall’ar-cheologia) in cui si aggiungesse, all’interno di una chiesa tardoantica già esistente, un nuovo apparato di arredo liturgico lapideo, a muoversi fossero solo gli artigiani provvi-sti delle specifiche competenze, principal-mente scalpellini, scultori e muratori. Il quadro fin qui delineato, è bene eviden-ziarlo, non vuole in alcun modo proporsi come una interpretazione univoca, appiat-tita, dei fenomeni storici: così come in età romana, oltre alla produzione scultorea in serie e su larga scala, esistevano anche realtà differenti (botteghe locali, artigiani itineranti, ecc.: un fatto documentato dalla letteratura scientifica), in epoca altome-dievale esistevano modalità di manifattura differenti da quelle delle maestranze itine-ranti. Ciò che appare evidente (e dimostra-to dalle ricerche), comunque, è il graduale abbandono di uno specifico modello pro-duttivo, quello che implicava lo sfrutta-mento intensivo delle cave e il trasporto su lunghe e lunghissime distanze di blocchi di pietra e di manufatti finiti o semilavorati; parallelamente, si assiste all’incremento del fenomeno del lavoro itinerante. Quest’ulti-mo, infatti, si ritrova ulteriormente svilup-pato nell’XI-XII secolo, e in misura ancora maggiore nell’età delle grandi cattedrali

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gotiche: i principali cambiamenti tra diffe-renti modalità produttive si sarebbero così verificati, a poco a poco, proprio durante l’Alto Medioevo. In questo contributo ci si è, pertanto, concentrati sulle maestran-ze itineranti, non solo perché esse sono certamente documentate dalle fonti, ma anche perché spiegano il fenomeno del-la diffusione su scala europea di motivi e temi decorativi a volte tanto simili da ap-parire pressoché identici; e lo spiegano ben più efficacemente di concetti per così dire astratti come le mode o la circolazione di modelli, delle quali poi non si indagano in profondità le modalità concrete di propa-gazione. Ci si è, inoltre, dedicati alle ma-estranze itineranti perché sono quelle che, nelle fonti altomedievali, appaiono associa-te a contesti costruttivi di alto (o altissimo) livello, essendo spesso “inviate” da vescovi, abati o importanti personaggi politici. Ma, documenti scritti a parte e al di là della qualità “eccellente” o “mediocre” dei pro-dotti scultorei, qualsiasi chiesa che potesse dotarsi di un nuovo apparato liturgico in pietra, riccamente decorato, andrebbe rela-zionata a un contesto costruttivo di livello quantomeno alto, poiché in ogni caso ciò implica il dover disporre di notevoli risorse per finanziare il tutto e dare inizio a lavori di portata considerevole, che dovevano ne-cessariamente coinvolgere squadre compo-ste da operai variamente specializzati.

Bibliografia

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martire 2009, p. 183-184. Cave, cantieri e commercio di pietra in età romana: Ward-Perkins 1971; Adam 2011 [1984], pp. 23-60; Džin 2012 (statue a tutto tondo lavorate direttamente in cava in Istria); Russel 2012; e, in generale, i volumi de-gli atti dei convegni dell’Association for the Study of Marbles and Other Stones in Antiquity (ASMOSIA Proceedings). Origine antica o classica di alcuni motivi decorativi: Beghelli 2013, p. 10-13, con storia degli studi. Artigiani itineranti in età romana: Marsili 2014, pp. 35-40. Ar-tigiani itineranti in epoca protobizantina: Sodini, Barsanti, Guiglia Guidobaldi 1998, pp. 164-166; Marano 2008, p. 161; Marsili 2014, pp. 109-126. Artigiani e artisti (itineranti e non) in età medievale e bassomedievale: Gimpel 1958; Binding 1996; Baragli 2006; Lomartire 2013. Commercio su lunghe distanze del marmo e di manufatti finiti in epoca tardoantica e protobizantina: Kapitän 1980; Sodini 1989; Bohne 1998; Sodini 2000, 2002; Marano 2008. Fine dello sfruttamen-to intensivo delle cave tra IV e VI secolo e relitti navali con carichi di pietra o ma-nufatti finiti (numerosi in epoca romana e attestati fino all’epoca protobizantina): Ward-Perkins 1971, pp. 536-541; Adam 2011 [1984], p. 23; McCormick 2001, pp. 571-669; Marano 2008, p. 171; Russel 2012. Reperti di Cividale del Friuli: Ta-gliaferri 1981; Lusuardi Siena, Piva 2001. Metodologie di ricerca: Cecchelli 1954; Jurković 2000; Napione 2001, pp. 54-55; Dierkens 2004; Baldini Lippo-lis 2005; Sennhauser 2007; Lomartire 2009; Beghelli 2013, pp. 18-22 e 69-74.

Crediti e ringraziamentiRingrazio di cuore il dott. Markus Witt-köpper, scalpellino e restauratore presso il Römisch-Germanisches Zentralmuseum di Mainz, per la sua disponibilità ad ana-lizzare i segni di lavorazione sui reperti di Trento e a condividere con me molte preziose informazioni sul loro processo di manifattura. Sono molto grata anche ai dott. Silvano Zamboni e Franco Marzati-co (conservatore e direttore dei Musei del Castello del Buonconsiglio, Trento) e alla dott.ssa Domenica Primerano (direttrice del Museo Diocesano Tridentino), che mi hanno permesso di esaminare i materiali conservati presso le rispettive Collezioni.

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L’inedito corpus di frammenti di decora-zione a stucco altomedievale della chiesa di Santa Maria Maggiore di Lomello (Pavia) è stato recuperato e studiato nel corso di un articolato intervento avviato e finanzia-to dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo che ne ha realiz-zato il progetto, l’intervento e l’allestimen-to di un piccolo museo per l’esposizione a Lomello.La chiesa, edificata nel corso del X secolo con i caratteri tipici del romanico lombar-do, fa parte di un complesso architettonico sito in un luogo che ebbe grande svilup-po dalla prima età del Ferro all’età romana fino al pieno Medioevo, in quanto luogo di sosta sui percorsi che collegavano Pavia e l’Italia centromeridionale e le Gallie. Il castrum, all’interno del quale si trovava un palazzo e la basilica di Santa Maria con annesso battistero di San Giovanni ad fon-tes del IV-V secolo, nel X secolo era sede certa dei conti palatini di Lomello, legati alla corte regia di Pavia, capitale del regno longobardo.

i frammenti di decorazione a stuccodella basilica di Santa Maria Maggioredi LomelloNote sulla tecnica e sui materiali

La ricchezza e qualità degli apparati deco-rativi, in stucco e dipinti della basilica di Santa Maria Maggiore, nonché la loro ico-nografia, indica il ruolo di centro aristocra-tico di potere che Lomello svolse all’epoca, che si spense solo alla fine al XII secolo.La trasformazione della chiesa in sti-le barocco, tra il XVII e il XVIII secolo, comportò il completo stravolgimento dell’interno, con danni irreparabili alle decorazioni pittoriche e a stucco del par-tito decorativo romanico, e la costruzione dell’annessa canonica. Durante il radicale restauro in stile del complesso, diretto dall’architetto Gino Chierici tra gli anni Quaranta e Cinquan-ta del XX secolo, vennero annullate tutte le trasformazioni barocche interne per recuperare le forme originarie; in quell’oc-casione, nei sottotetti sull’estradosso delle volte barocche della basilica furono ritro-vati diversi frammenti in stucco, alcuni già staccati, altri ancora posizionati sulla pare-te del cleristorio sud e su uno degli archi-diaframma.

Michela PalazzoMinistero dei Beni e delle Attività Culturali e del turismo

direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici della Lombardia

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La condizione frammentaria degli stuc-chi rinvenuti (figg. 1 e 2) ha consentito di svolgere una approfondita analisi della tec-nica esecutiva, permettendo di aggiungere informazioni preziose per la conoscenza e lo studio degli aspetti tecnico-produttivi di questo ambito artistico. Infatti, data l’empi-ricità che ha sempre guidato la definizione dei procedimenti tecnici applicati, la prassi operativa utilizzata per ogni decorazione veniva di volta in volta adattata alle specifi-che condizioni del manufatto da realizzare. Tutto ciò presupponeva che il processo produttivo si basasse su una progettazione preliminare realizzata con disegni, forse policromi, predisposti anche in base alla forma e alle dimensioni della superficie e dell’ambiente, che dovevano tenere conto anche del tipo di aggetto rispetto al pun-to di osservazione. E tale fase risultava fondamentale per la programmazione del lavoro, l’organizzazione delle diverse mae-stranze, l’approvvigionamento dei materia-li e, elemento fondamentale, la valutazione preliminare della resa estetica dell’opera da parte della committenza. Già nell’Alto Medioevo le composizioni si ispiravano a modelli iconografici noti attinti anche da tipologie differenti di opere (miniature, avori, dipinti, ecc.). Così, anche per Lomel-lo, gli artisti dovettero svolgere una precisa fase di progettazione, e ciò si percepisce dalla perfetta e articolata integrazione tra apparato decorativo e architettura, nonché dai puntuali accorgimenti tecnici utilizzati per la realizzazione dei rilievi.Il supporto murario sul quale venne realiz-zata la decorazione a Lomello è in laterizio legato da malta a base di calce e sabbia (fig. 2); tracce della malta di allettamento dei mattoni sono ancora presenti sul verso dei frammenti staccati e dalle indagini è risul-

tata essere composta da calce e sabbia. La composizione mineralogica della carica ha fatto ipotizzare che si tratti di sabbia di fiu-me, forse proveniente dal torrente Agogna che scorre nel territorio lomellino. L’im-pasto dello stucco ha invece come legante solo gesso; le cariche, costituite da sabbia e polvere di marmo, sono in proporzione molto bassa rispetto al legante e, come in uso nella prassi esecutiva, la percentuale di queste diminuisce gradatamente negli strati per arrivare alla totale assenza di sab-bia nel sottile strato superficiale modellato. Tale accorgimento garantiva una maggiore consistenza e durezza in profondità, e la massima lavorabilità e sottigliezza materi-ca per lo strato che doveva essere rifinito con il rilievo. Rispetto ai risultati del cam-pionamento di altri cicli decorativi coevi (Cividale del Friuli, Disentis, Germigny-des-Prés, Malles, San Salvatore di Bre-scia) Lomello risulta avere l’impasto con la maggiore percentuale di gesso.La prima operazione svolta dagli artefici di Lomello fu quella di applicare le armatu-re di sostegno, ma solo in corrispondenza delle parti che nel progetto risultavano più aggettanti.Per lo studio degli elementi costituenti la struttura di sostegno sono risultate di fon-damentale importanza le impronte lasciate nello stucco fresco al momento della rea-lizzazione dei rilievi, in genere visibili sul verso e sullo spessore dei frammenti. In alcuni casi tali impronte hanno mantenu-to anche residui di materiale costituente le armature stesse: parti di canne, di cordino, di fibre lignee, residui di ferro; ancor più spesso, le impronte sono talmente nette e nitide da permettere la lettura della fibra delle stesse cannucce (figg. 3 e 4). Dall’osservazione e dalla misurazione di

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MICheLA PALAzzoI frammenti di decorazione a stucco della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello

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Fig. 1 (sopra). Porzione di figura di animale

Fig. 2 (a sinistra e sotto). Figura in stucco acefala conservatasi in situ sulla parete sud del cleristorio. Dettaglio (a sinistra) e situazione attuale (sotto)

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Fig. 5. Impronta del doppio fascio al centro di un fram-mento appartenente al personaggio con lorica

Fig. 6. Porzione di scudo: verso

Fig. 7. Frammento corrispondente alla testa: verso

Fig. 3. Particolare del verso del fram-mento corrispondente alla porzione di scudo

Fig. 4. Impronta del fascio di canne tra le quali si intravede anche l’impronta di fibre, forse di paglia

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MICheLA PALAzzoI frammenti di decorazione a stucco della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello

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tutti questi elementi si è potuto compren-dere che le armature di sostegno erano costituite principalmente da fasci di can-nucce, per le quali è ipotizzabile una pro-venienza dai territori lungo i corsi d’acqua presenti nella zona.I fasci venivano fissati alla parete secondo differenti procedure. A volte sulla superfi-cie muraria veniva prima steso un sottile strato di stucco di composizione analoga a quello usato per gli strati successivi, ma con una percentuale leggermente maggiore di cariche; su questo strato veniva adagia-to il fascio operando una leggera pressione per fare in modo che fosse trattenuto dalla viscosità dello stucco; contestualmente si garantiva l’adesione al supporto murario mediante staffe di ferro a forma di gros-si chiodi con testa ampia e ovale. In altri casi veniva prima inchiodato il fascio e poi intorno steso il primo strato di stucco che ricopriva.I fasci formavano una vera e propria trama sulla parete, poiché avevano andamento perpendicolare tra loro creando una griglia costituita da riquadri. Tali dati fanno comprendere come le scelte operative fossero dettate dall’alta capaci-tà tecnica degli artefici e dalla preventiva progettazione fatta anche prevedendo il li-vello dell’aggetto: la figura presenta infatti il doppio fascio solo al centro, la zona che doveva avere il massimo aggetto degra-dando poi verso i lati (fig. 5); la vicinanza dei fasci paralleli è dovuta alla necessità di sostenere una elevata quantità di stucco. I fasci, oltre a garantire una migliore adesio-ne al supporto, venivano usati anche per alleggerire il peso dell’apparato decorativo (fig. 6). Anche il legno faceva parte dei materiali utilizzati per le strutture di sostegno, in

particolare nei casi in cui, come per le te-ste, era necessario sostenere grandi masse di materiali (fig. 7). L’andamento obliquo della cavità lasciata dal bastone inserito nel frammento fa comprendere come il legno permettesse l’aggetto ritenuto ne-cessario per rendere più visibili i volti dal basso. Per quanto concerne gli elementi deco-rativi di tipo architettonico – colonnine e capitelli in stucco – classificabili come intermedi dal punto di vista dello spes-sore e della massa di stucco utilizzata, è emerso l’uso di un unico fascio di can-nucce posizionato al centro della lar-ghezza delle colonnine, ma presente solo in parte della lunghezza di queste.In base alle tracce attualmente visibili e in assenza di riscontri diagnostici mirati, risulta difficile dare precise indicazioni circa le modalità utilizzate dagli artisti di Lomello per realizzare il disegno prepa-ratorio rinvenuto in tracce e realizzato a pennello e pigmento ocra rosso e tramite incisione a fresco (fig. 8). Una sottile incisione curvilinea, proba-bilmente prodotta da uno strumento a compasso, è stata invece individuata su alcuni frammenti che, insieme ad altri, sono catalogati fra quelli appartenenti agli strati di stucco sottostanti, perché presentano un tipo di lavorazione super-ficiale casuale e non curata, finalizzata solo a garantire l’adesione degli strati successivi. Da quanto emerso si comprende che il rilievo è stato ottenuto sovrapponendo successivi strati di stucco, dei quali quel-li superficiali sono in genere di spessore inferiore; il numero degli strati varia in funzione del livello di aggetto dell’ele-mento da realizzare.

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Fig. 8. Particolare del verso del frammento n. 23: tracce di sinopia

Fig. 9. Tracce di policromia ocra in corrispondenza di una parte di decorazione fitomorfa

Fig. 10. Frammenti costi-tuenti un elemento floreale policromo

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MICheLA PALAzzoI frammenti di decorazione a stucco della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello

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Il modellato superficiale risulta essere stato realizzato tutto a fresco con la tecnica “a togliere”. Nei frammenti che fanno par-te della decorazione a elementi vegetali e dove si è mantenuto in buono stato di conservazione, il modellato risulta general-mente ben rifinito e lisciato; in alcuni casi si individua l’uso di un coltello o stecca che taglia e leviga la superficie. I sottosquadri sono accentuati con incisioni di uno stru-mento a punta; uno strumento cilindrico a punta è stato usato per realizzare i fori che accentuano gli effetti decorativi o per rea-lizzare l’occhio dell’animale (fig. 1).Ancora stecche, coltelli e punte, impiegati questi per accentuare i punti d’ombra dei sottosquadri, sono gli strumenti utilizza-ti per modellare le porzioni di panneggio e le parti dei corpi delle figure. Su molte superfici modellate sono emerse tracce di pigmento, sicuramente appartenenti anche a interventi di restauro ripetuti nei seco-li fino al Settecento, secolo di costruzione della volta a crociera demolita con l’inter-vento di Chierici. Su alcuni frammenti, in particolare appartenenti all’apparato decorativo, è stata individuata la presenza di tracce di pigmento su lacune. Su altri, delle sovrammissioni di stucco di impasto differente da quello che caratterizza tutti i frammenti.L’ipotesi di riprese cromatiche svolte per manutenzione potrebbe essere la confer-ma della originaria policromia di questa decorazione murale a rilievo, elemento av-valorato da vari fattori: fonti medievali che asseriscono che i rilievi di stucco dovessero essere finiti con policromia, presenza di po-licromia su coevi cicli decorativi in stucco come il ciborio di Sant’Ambrogio e il ton-do raffigurante Sant’Ambrogio conservato nel Museo Diocesano di Milano, analoghe

tracce riscontrate a Cividale, Malles e Di-sentis, necessità di un raccordo e integra-zione con la decorazione dipinta presente a Lomello e infine, elemento più rilevante, la diffusa presenza di resti di policromia sui pezzi.La policromia sembra stesa direttamente sulla superficie di stucco; forse il pigmento era stemperato in acqua e applicato quan-do lo stucco non aveva ancora raggiunto la completa asciugatura, in modo da favorirne la penetrazione e la conseguente migliore adesione al supporto. Solo un grande fram-mento di panneggio mostra chiare tracce di uno strato a spessore, quasi uno scial-bo, di colore giallino chiaro sul quale in un punto è presente una traccia di pigmento ocra. Forse questo strato costituiva la pre-parazione alla finitura policroma, o forse era esso stesso lo strato di finitura e l’ocra una ripresa posteriore.I frammenti appartenenti all’apparato decorativo a elementi vegetali mostra-no tracce di pigmento più consistente, in particolare ocra gialla sugli strati di stucco corrispondenti al fondo dei rilievi (fig. 9) forse per suggerire un fondo d’oro sul quale si stagliavano elementi decorativi a rilievo di colore bianco. Il fiore quadrilobato (fig. 10) mostra una policromia più complessa: i petali sono al-ternati ocra gialla e ocra rossa e il centro presenta del blu analogo a quello usato nei fori della corazza.Gli elementi corrispondenti alla finta ar-chitettura, la colonnina e il capitello, mo-strano tracce di pigmento ocra rosso; ciò potrebbe far pensare alla volontà di imi-tazione di materiali più preziosi, quali il porfido.Il complesso studio diagnostico svolto sul corpus degli stucchi rinvenuti a Lomello ha

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fornito dati importanti per comprendere che, dal punto di vista tecnologico, il ciclo rientra nella casistica tipica del periodo medievale; non sono state riscontrate, allo stato attuale, eccezioni e innovazioni nella prassi produttiva e nei materiali utilizza-ti, che mostrano comunque una elevata e raffinata capacità operativa e conoscenza tecnica da parte degli artefici. L’uso della decorazione plastica in stucco nel Medioevo ha le sue dirette radici nella tradizione antica e tardoantica, nella quale era diffusa la compresenza di decorazioni pittoriche e musive. Per tale motivo l’evo-luzione nel Medioevo di questo ambito de-corativo è da mettere in connessione con la pittura parietale, con l’uso del marmo per le incrostazioni marmoree, oltre che con l’ar-te scultorea; ma fin dall’Alto Medioevo lo stucco assume posizione preponderante e spesso viene scelto in sostituzione di pietra e marmo anche nell’esecuzione di elemen-ti architettonici come plutei e transenne. Purtroppo, per ragioni di diversa natura, moltissima parte di questa produzione è andata perduta, ma le testimonianze su-perstiti risultano particolarmente numero-se nell’area geografica che comprende l’Ita-lia settentrionale e l’arco alpino. In questo ambito culturale gli esempi di integrazione tra decorazione pittorica, musiva e a rilievo sono molto numerosi; tra i più vicini tipo-logicamente e cronologicamente al ciclo lomellino sono Santa Maria in Valle a Ci-vidale, l’oratorio di Germigny-des-Prés, la chiesa di San Salvatore a Brescia, la chiesa di San Benedetto a Malles, la chiesa di San Pietro ad Acqui, la chiesa di San Pietro in Monte sopra Civate.Tra queste Lomello rappresenta uno de-gli esempi più significativi di ciò che è stato concordemente inserito dalla critica

nell’ambito stilistico della scultura monu-mentale in stucco ottoniana.

Bibliografia

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Crediti e ringraziamenti

Immagini fotografiche di Mauro Ranzani.

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In questo contributo l’analisi del vasellame da cucina e dispensa di età tardoantica e altomedievale, considerato nella globalità delle classi attestate in ceramica comune, invetriata e pietra ollare, è finalizzata a riconoscere nei cambiamenti registrati ri-spetto alla media e tarda età romana degli indicatori delle grandi trasformazioni so-cio-economiche avvenute fra IV-V secolo sino a circa al X-XI secolo.Si tratta in genere di fenomeni di contra-zione e semplificazione dei processi pro-duttivi con il recupero di forme della tra-dizione locale preromana, ma in alcuni casi anche di innovazioni formali, tecnologiche o di gusto dettate dalle mutate abitudini alimentari per la disponibilità di cibi che richiedevano preparazioni e modi di cottu-ra differenti, o introdotte da nuove consue-tudini culturali. Tali considerazioni interessano il territorio lombardo e si basano sui dati forniti dallo studio di vari siti rurali e urbani: a ovest, nella provincia di Varese, alcuni insedia-menti sparsi, il castello di Castelseprio e

tradizione e innovazione nel vasellame da cucina e dispensa in italia settentrionale fra età tardoantica e altomedievo La manifattura dei recipienti e i loro legamicon le abitudini alimentari

il monastero di Cairate; più contesti in-sediativi di Milano e di Brescia, in parti-colare di quest’ultima città lo spazio dove edifici abitativi poveri invasero l’area del Capitolium caduto in disuso; infine i dati di alcuni altri importanti centri romani del territorio bresciano, il santuario di Breno Spinera a Cividate Camuno, e all’estremo est il piccolo sito di Nuvolento. Ciò, ovvia-mente, oltre al confronto con i dati editi dell’area analizzata. La situazione del ter-ritorio varesino rileva affinità con quanto documentato nell’area rurale piemontese, in particolare nell’ambito delle adiacenti provincie di Novara e Vercelli e in parte nel Canton Ticino; mentre per quella ri-scontrata a Brescia in età longobarda, vale la pena ricordare che è stato ipotizzato che la cittadina rifornisse i mercati dei ducati dell’Italia nord-orientale.Trenta anni di ricerche e studi su manu-fatti d’uso di contesti abitativi e funerari, urbani e rurali della Lombardia e in genere dell’Italia settentrionale, hanno permesso di registrare alcuni fenomeni macroscopici

Angela GuglielmettioLtRe snc valorizzazione delle immagini

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che si verificarono e presero avvio tutti cir-ca nel periodo considerato.Per quanto riguarda la ceramica comune, intorno alla fine del IV-inizi V secolo si rilevano: 1. la progressiva scomparsa dei servizi da cucina di produzione seriale e di buona tecnologia diffusi in tutta l’area padana fra II e IV secolo che utilizzavano impasti a inclusi fini e frequenti selezionati apposi-tamente per l’utilizzo su fuoco;2. la graduale riduzione della differenza fra ceramiche fini da conserva e da tavo-la e ceramiche grossolane da fuoco che, a seconda dei luoghi, risultano sostituite da vasellame in ceramica comune e invetriato (è il caso soprattutto del territorio milane-se, comasco o varesotto) o da ceramiche comuni e altre più fini riprese dalla tradi-zione longobarda (a Brescia fra la fine del VI e il primo quarto del successivo) sempre affiancate da vasellame in pietra ollare, o soltanto da vasellame in ceramica comu-ne e pietra ollare. Inutile ricordare che ad oggi sfugge il dato relativo alla presenza dei contenitori in legno tornito o in fibre naturali intrecciate, solo raramente conser-vati sino ai nostri giorni, e che, per lo più in questi secoli, doveva certamente essere assai rilevante; 3. a partire dal V sino al X-XII secolo, si registra il recupero e la progressiva fortuna di forme del corredo ceramico protostorico: in particolare di grandi teglie a vasca tronco-conica con prese a lingua, diffuse soprattut-to nell’area nord orientale della Lombardia, e altri ampi recipienti con listello, definiti a seconda degli studi catini-coperchio, fornet-ti-coperchio o clibani, utilizzati come pic-coli forni per la cottura di pani e focaccine. Per le altre classi utilizzate in cucina o sulla tavola si evidenziano ancora:

4. a partire dal IV-V secolo l’inizio della rapida, massiccia e capillare diffusione del-la pietra ollare la cui fortuna si protrarrà sino al XII-XIII secolo, e che in molti siti, soprattutto a partire dal VII secolo, diverrà la classe percentualmente meglio attestata. In area subalpina e padana il vasellame in pietra andò progressivamente a sostituire i recipienti in ceramica e più raramente il pentolame in metallo destinati alla cottu-ra e alla conservazione dei cibi. Nei luo-ghi più vicini ai centri di produzioni e in specifici contesti abitativi è inoltre attestata la presenza di forme utilizzate sulla tavola: bicchieri, ciotole e coppette, piatti. Per la sua duttilità di impiego la pietra ollare si affermò rapidamente e, nonostante il costo elevato, si conquistò uno spazio in tutte le cucine, affiancando altro vasellame in ce-ramica destinato a specifiche lavorazioni, e nei laboratori artigianali dove trovò impie-go nelle diverse attività fusorie;5. con la fine del V e poi con maggiore in-tensità a partire dalla metà del VI e nel VII secolo nei centri abitati, nei siti fortificati, e negli insediamenti rurali del nord Italia, si registra la graduale contrazione della cir-colazione di vasellame fine da mensa e da cucina proveniente dal nord Africa e dal Medio Oriente. I recipienti in ceramica si-gillata vennero progressivamente affiancati e poi definitivamente sostituiti da vasella-me di produzione locale in ceramica comu-ne (imitazioni di sigillate) e invetriata. An-che per i contenitori da trasporto -anfore da olio e vino- è stata ipotizzato il ricorso a produzioni locali (anche in questo caso in ceramica comune e invetriata), o a botti di legno, almeno nelle forme destinate al “travaso”; 6. i ritrovamenti da contesti funerari in-dicano che a partire dal III secolo vennero

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ANGeLA GuGLIeLMeTTITradizione e innovazione nel vasellame da cucina e dispensa in Italia settentrionale

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immessi sul mercato recipienti invetria-ti di uso corrente. Si tratta di produzioni locali ottenute con processi semplificati di vetrificazione in monocottura che nul-la avevano a che fare con le più antiche e raffinatissime importazioni di invetriate medio-orientali, esclusivo appannaggio delle mense signorili. Il procedimento era piuttosto semplice, sul recipiente con durezza cuoio veniva steso uno strato semiliquido di argilla mista a polvere di cristalli di quarzo (silice) e a un fondente (ossido di piombo) che permet-teva di anticipare il punto di fusione della silice. La vernice si vetrificava durante la cottura. Grazie alla proprietà impermeabi-lizzante e termica del rivestimento vetroso, che consentiva di isolare il contenuto dal corpo ceramico del vaso, olpi, bottiglie e anforette invetriate destinate alla tavola e alla mescita presero il posto delle forme equivalenti più antiche modellate in ce-ramica ben depurata. Seguirono coppe e piatti a tesa destinati alla mensa. La fortuna delle invetriate in età tardo-antica e poi nell’altomedioevo fu tuttavia sancita in cucina per le qualità dimostrate da tale vasellame nell’ambito della prepa-razione degli alimenti. A conquistare il mercato furono ciotole e tegami a tesa, ma soprattutto grosse ciotole/mortaio a corpo troncoconico più o meno profondo dotate di presa a nastro verticale, canale versatoio aperto o chiuso a cannello, fondo con gra-niglia, impiegate per triturare i cibi e poi travasarli. Questi recipienti andarono a so-stituire in versione ridotta i grossi mortai in opus doliare della cucina romana, recu-perando forma e funzione delle più ma-neggevoli ciotole-grattugia del repertorio celtico. Se le considerazioni appena riportate val-

gono in generale per tutto il territorio pre-so in esame, è evidente che non sono sem-pre possibili eccessive generalizzazioni: la situazione delle grandi città, o di loro par-ticolari aree, non è risultata sempre omolo-gabile a quella delle aree rurali, dove pote-vano esistere condizioni particolari (risorse, maestranze o fonti di approvvigionamento locali) che determinarono continuità alle produzioni della tradizione romana e tarda.Il trasferimento della corte imperiale a Milano, fra 286 e 402, con la maggior presenza di famiglie senatorie spostatesi al suo seguito e di un consistente numero di milizie da approvvigionare, sembra aver determinato una buona tenuta dell’econo-mia e del sistema produttivo del territorio occidentale subalpino, organizzato intorno alle grandi aziende agricole e alle proprietà fondiarie che potevano sfruttare l’efficiente rete viaria su terra e acqua, sulla quale si fondava la difesa di queste terre di confi-ne. Con i regni romano-barbarici la crisi dell’impero e il generale impoverimento della società non risparmiarono le élite aristocratiche tardoromane che avevano ricavato il loro denaro dagli investimenti nelle aziende e nelle proprietà rurali e che in tal modo avevano alimentato le attività commerciali e artigianali dell’impero. Ma è certo che progressivamente si formarono nuove aristocrazie fondiarie, i funzionari coinvolti nella gestione delle proprietà fi-scali di re e duchi, affiancate da piccoli e medi proprietari terrieri laici ed ecclesia-stici, che in vario modo furono in grado di organizzare le loro risorse e ricreare eco-nomie di scambio, anche di portata signi-ficativa. I cambiamenti apportati al ciclo di pro-duzione delle ceramiche d’uso quotidiano, l’introduzione di nuove forme e la fortuna

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Fig. 4. Olla in ceramica comu-ne, V-VI secolo. Brescia, area della Basilica romana (da rossi 2009)

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Figg. 1, 2, 3. Alcune forme del pentolame da fuoco di pro-duzione seriale documentato fra III e V secolo d.C. nella Lombardia centro-orientale (da GuGlielmetti 2010)

Figg. 7, 8. Olla e tegame a orlo rientrante dalla necropoli tar-doantica di Cai-rate, Monastero di Santa Maria Assunta, IV-V secolo (airolDi c.s. 2014)

Figg. 5, 6. Il ricco corredo ceramico di una sepoltura della necropoli tar-doantica di Cai-rate, Monastero di Santa Maria Assunta, IV-V secolo (airolDi c.s. 2014)

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di classi prima meno apprezzate furono determinati delle grandi trasformazioni socio-economiche e del sistema produttivo agricolo avvenute in questo arco di secoli. A ciò si aggiunse l’incontro e la progressiva mescolanza fra gusti e tradizioni di culture fra loro profondamente diverse: quella lo-cale romanza, erede del patrimonio e delle nozioni tecnologiche romano-bizantine, memore e certo ancora ben organizzata in strutture produttive artigianali o semi-industriali, l’altra germanica e semino-made, appartenente alle popolazioni che varcarono i confini dell’Italia insieme ai Longobardi, ben connotata culturalmente e, almeno in una fase iniziale, intenziona-ta a conservarne e manifestarne i caratteri distintivi.

il diverso quadro economico-produttivo

I dati di scavo hanno permesso di ricono-scere che almeno a partire dagli inizi del III sino a tutto il IV e il V secolo d.C., i mercati dei principali centri urbani e ru-rali della Transpadana, soprattutto fra Mi-lano e Bergamo sino a Brescia e la valle Camonica, l’area del Garda e Verona, ma anche i territori di nord-ovest fra Varese, Como e il Canton Ticino, e a sud il Cre-monese, vennero riforniti, a fianco di altri recipienti, da un caratteristico pentolame da fuoco di produzione seriale. Le forme di tale servizio, accomunate dall’impiego di un impasto molto riconoscibile, a matrice fine e inclusi di dimensioni medie e fini molto fitti, risultano modellate secondo ri-gidi standard formali e includono tegami a fondo piano o su piedi, grandi olle a ventre rialzato con gola segnata a stecca e relativi coperchi, ampi coperchi ad orlo arricciato,

grossi contenitori da conservazione (figg. 1, 2 e 3). Tali caratteristiche portano a ipotiz-zare la produzione del vasellame all’interno di una grande manifattura o in una rete or-ganizzata di laboratori più piccoli, verosi-milmente localizzati in area padana, di cui attendiamo il rinvenimento. Vista l’ampia rete di attestazioni è probabile che l’attività sia stata avviata e gestita economicamente da privati, grandi proprietari terrieri locali, e che la sede operativa della proficua atti-vità sia stata Milano o un’altra grande città della Transpadana. A Brescia e Milano nei contesti della metà/fine del V secolo la presenza di queste for-me incomincia a diradarsi, fino ad essere progressivamente sostituita da una di-versa gamma di recipienti: da altre olle e coperchi di più modeste dimensioni e dai fornetti-coperchio in ceramica comune, da vasi in pietra ollare. Nel secolo successivo e poi in età longo-barda le olle da fuoco in ceramica comune non spariscono ma risultano modellate in forme più piccole e semplici e presentano pareti fini e orli estroflessi a breve tesa più o meno sviluppati e squadrati (fig. 4). I re-cipienti attestati risultano assai simili nei diversi luoghi di rinvenimento (da Brescia, a Milano, ma anche negli insediamenti fortificati di Castelseprio e Monte Barro), anche se probabilmente prodotti da labo-ratori localizzati nei diversi centri o in loro prossimità. Si passa quindi dalle produzio-ni semi-industriali della media e tarda età imperiale, dotate di una efficiente rete di distribuzione, a produzioni tecnologica-mente ancora di buona qualità che rifor-niscono aree di mercato più localizzate e che nelle aree rurali potevano anche essere destinate al semplice autoconsumo.In questi secoli si registra una grande con-

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Fig. 9. Olla con orlo a fascia da Castelseprio, VI-VII secolo (da Parco Archeologico Castelseprio 2009)

Fig. 10. Corredo di un sepoltura da Costa San Giorgio di Legnano, III-IV secolo (da Volontè, Dolci 2008)

Fig. 11. Corredo della tomba 47 della necropoli di Bernate Ticino, III-IV secolo (da Volonté 2013)

Fig. 12. Olpe in ceramica invetriata da Cairate, Monastero di Santa Maria Assunta, IV-V secolo (da GuGlielmetti c.s. 2014 b)

Fig. 13. Olpe in ceramica invetriata da Gal-larate, via Pastori. III-IV secolo (fotografia di M. Scaltritti)

Fig. 14. Ritrovamento sporadico di olpe invetriata da Bernate Ticino, III-IV secolo (da Volonté 2013)

Fig. 15. Olpe in ceramica invetriata da Cairate, Monastero di Santa Maria Assunta, IV-V secolo (GuGlielmetti c.s. 2014 b)

Fig. 16. Grande mortaio invetriata da Nuvo-lento (BS), IV-V secolo (GuGlielmetti 2012)

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taminazione fra le diverse classi: forme della ceramica comune vengono modellate anche nella versione invetriata, bicchieri in pietra ollare ispirano recipienti in ceramica comune e invetriata, tipi della tradizione longobarda sono acquisiti dal repertorio delle comuni e invetriate. Un arco temporale di diffusione ancora più esteso, compreso fra la fine del III-inizi IV secolo sino almeno a tutto il VI secolo, è da riferire alla produzione di olle di medie dimensioni a corpo ovoidale e orlo a fascia, modellate con impasti chiari, leggeri e ruvi-di al tatto cui corrispondono tegami a orlo rientrante e coperchi, attestati nel com-prensorio a nord-ovest di Milano, incluso fra il capoluogo, l’Alto Milanese, Varese e il Canton Ticino, il Piemonte orientale (figg. 5, 6, 7, 8 e 9). Tali materiali provengono per lo più da sepolture e da insediamenti di mo-deste dimensioni e sono attestati in quanti-tativi molto inferiori rispetto al pentolame da fuoco “in rozza terracotta scura” prima analizzato (figg. 10 e 11); gli studi hanno permesso di rilevare la presenza di varianti realizzate indifferentemente in ceramica comune e invetriata. Questo dato insieme alla particolare densità di rinvenimento di piccoli contenitori per liquidi a rivestimen-to vetroso (olpi, anforette e bottiglie: figg. 12, 13, 14, 15), attestata fra i corredi delle sepolture dello stesso ambito territoriale, e dalla cronologia circoscritta fra la fine III e il V secolo, pare indicare l’esistenza proprio nel comprensorio del Ticino di una produ-zione subregionale qualificata nella realiz-zazione mista di vasellame rivestito e più corrente in ceramica comune. Tali labora-tori che potevano contare sulla presenza in loco delle materie prime necessarie nel processo di lavorazione (l’argilla e il silicio contenuto nelle sabbie del fiume) dove-

vano essere piuttosto specializzate (per la tecnologia implicata dall’utilizzo delle ve-trine) e dotate di buone risorse finanzia-rie (per l’acquisto dell’ossido di piombo, il fondente necessario ad abbassare il punto di fusione del silicio). Fra III e V secolo la loro produzione poteva essere organizzata in manifatture interne o dipendenti dalle ricche aziende fondiarie del territorio, che tuttavia in base ai dati archeologici dispo-nibili (Angera, Cairate, Vergiate) risultano anch’esse entrare in crisi nel corso del V. Resta, pertanto, da individuare dove si fos-sero trasferite le officine specializzate che in questo territorio, ancora per tutto il VI e il VII secolo, producevano vasellame a buon standard tecnologico e formale. Vie-ne da pensare a laboratori interni ai villag-gio fortificati, fulcro dell’organizzazione politica e amministrativa longobarda, o ai centri rurali esistenti ancora ben organiz-zati in quanto sedi di mercato e di scali fluvio-lacuali. Anche in questi secoli fra le invetriate sono ben documentate grosse ciotole-mortaio, a volte dotate di listello e versatoio aperto, altre volte con cannello. Se ne ipotizza un utilizzo legato ad abitudini alimentari che richiedevano di triturare gli alimenti, forse già precedentemente cotti, con l’aggiunta di liquidi, per poi travasarli in un altro con-tenitore.La forma più comune fra i mortai diffusi nell’Italia settentrionale fra IV e VII secolo fu senza dubbio quella connotata da vasca convessa più o meno profonda, listello ap-pena sottostante l’orlo sul quale si impo-sta un versatoio a canale aperto e diametri compresi fra 30 e 45/50 cm (fig. 16). Fra Castelseprio, le sponde del lago Maggiore (fra Angera e Bellinzona) e l’area a nord-ovest di Milano (sino all’insediamento di

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Monte Barro) è attestata una morfologia diversa che si contraddistingue per le di-mensioni contenute della vasca (non supe-riore ai 30 cm), la mancanza della presa a listello e l’inserimento appena sotto l’orlo rientrante di un cannello corto, alternati-vo al canale aperto (fig. 17). Tale foggia di versatoio è documentato in ciotole mortaio invetriate tardoantiche e altomedievali del Piemonte (Borgosesia, Tortona) e della Liguria (Luni, Albintimilium), mentre in Lombardia venne utilizzato in altri reci-pienti, soprattutto a partire dal VI secolo: brocche o piccoli boccali invetriati, ma so-prattutto fiasche della ceramica di tradizio-ne longobarda (fig. 18). Le ciotole-mortaio di Castelseprio paiono semplificare e per-fezionare la morfologia ligure-piemontese: eliminando il listello e contenendo le di-mensioni era possibile alleggerire il vaso e facilitare le operazioni di travaso. Non siamo tuttavia in grado di comprendere appieno il significato da attribuire a tale adattamento.Analizzando ancora la situazione della provincia di Varese, che in età altomedie-vale restituisce percentuali superiori di manufatti in ceramica invetriata rispetto a quanto si registra nella Lombardia orien-tale, fra le forme utilizzate in cucina sono da ricordare grosse ciotole (catini) a vasca profonda con pareti svasate o leggermen-te concave, orlo arrotondato e fondi piani, in genere privi di graniglia interna e grossi contenitori biansati a corpo ovoidale con spalla segnata da solcature orizzontali e anse a gomito (fig. 19). Questi ultimi re-cipienti sono attestati fra VI e VIII, oltre che a Cairate e a Castelseprio, a Milano e nel Comasco, ma anche in Piemonte, nelle province di Novara, Vercelli e Alessandria (fig. 20). Dovevano essere impiegati per

la conservazione e il trasporto di alimenti liquidi o semiliquidi, forse in sostituzione delle anfore.Si è già ricordato che in età tardoantica venne progressivamente a mancare la netta distinzione fra ceramica a impasto gros-solano da fuoco e ceramica depurata che aveva contraddistinto le produzioni dei secoli precedenti. Ciò dipese da un lato dall’avvento delle invetriate che sostituiro-no il vasellame fine da conserva e cucina (olle, mortaria), da mescita (olpi, bottiglie e anforette), e progressivamente anche da mensa (coppe e piatti), soprattutto quando, a causa delle difficoltà di collegamento con i mercati costieri mediterranei insorte con la conquista longobarda, la circolazione di vasellame fine da mensa nord africano e medio-orientale si ridusse gradualmente sino ad interrompersi. Per il vasellame da fuoco fu invece determinante la commer-cializzazione del pentolame in pietra ollare.Sul mercato erano ora reperibili manufatti di nuova e più efficiente tecnologia, le cui caratteristiche erano più adatte a soddisfa-re le necessità della tavola e le pratiche di cucina e di cottura.Generalmente, a Milano come a Brescia e nel territorio di Varese, si rileva che circa gli stessi impasti vennero ora utilizzati per ricavare recipienti da fuoco (fornetti-co-perchio, ollette, coperchi), e da conserva. A Brescia paste con composizioni identiche, soltanto più depurate, ben lucidate e deco-rate, vennero utilizzate per ricavare forme destinate al bere e alla tavola, in continuità con la tradizione longobarda; in altri casi ancora il vaso modellato, una volta asciutto, veniva rivestito da vetrina e cotto per ri-cavarne forme destinate alle preparazioni alimentari. I dati archeologici permettono di afferma-

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Fig. 17. Ciotola-mortaio invetria-ta con versatoio a cannello da Castelseprio, V-VII secolo (da Parco Archeologico Castelseprio 2009)

Fig. 18. Brocca in ceramica di tradizione longobarda da Brescia, area del Capitolium, fine VI-primi decenni del VII (da GuGlielmetti 2014)

Fig. 19. Ampio contenitore biansato in ceramica invetriata da Cairate, Monastero di Santa Maria Assunta, V-VII secolo e oltre (?) (GuGlielmetti c.s. 2014 b)

Fig. 20. Olla invetriata da Bor-gosesia, Montefenera (VC), V-VI secolo (da Brecciaroli taBorelli 1998)

Fig. 21. Fornaci altomedie-vali per ceramica da Brescia: dall’area del Capitolium (a sini-stra) e da quella della Basilica di Santa Maria (a destra) (da GuGlielmetti 2014)

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Figg. 22, 23. Ceramica di tradizione longobarda dall’area del Capitolium di Brescia (da GuGliel-metti 2014)

Fig. 24. Bottiglia di tradizione longobarda dall’area del Capitolium di Brescia (da GuGliel-metti 2014)

Fig. 25. Fusarole in ceramica di tradizione lon-gobarda a sinistra (fine VI-inizi VII secolo), inve-triate al centro (VIII-X secolo), in pietra ollare e pietra calcarea a destra ( X-XII secolo). Area del Capitolium di Brescia (da GuGlielmetti 2014)

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re che soprattutto nelle città è certo da ab-bandonare l’idea della presenza di piccole botteghe artigiane autonome: si tratta in-fatti in genere di artigiani che lavoravano in condizioni servili alle dipendenze di au-torità laiche (re o duca) o enti ecclesiastici cui spettavano i proventi dell’attività.A tal proposito vale la pena presentare sin-teticamente il tema della presenza dell’of-ficina ceramica di fine VI -VII secolo tro-vata a Brescia, in prossimità del santuario capitolino in rovina, organizzata intorno a due fornaci, una delle quali datata al 592 +-160 anni (secondo la datazione al radio-carbonio) (fig. 21). Le due fornaci vennero utilizzate per un arco di tempo piuttosto breve, forse in sequenza temporale l’una in seguito alla dismissione dell’altra. Alle due strutture è da riferire il vasellame tro-vato nei depositi di colmatura di uno dei fornetti, negli strati d’uso e nei livelli pa-vimentali di una delle capanne presenti in tale area, utilizzata al tempo stesso come abitazione e laboratorio. Da questi depositi provengono ceramica da fuoco e da cucina di ottima qualità, modellata con un impa-sto unico, a matrice fine e inclusi vari più o meno frequenti, vasellame depurato e decorato di tradizione longobarda, picco-le olle e boccali con rivestimento vetroso che in base ai dati stratigrafici, le analisi a radiocarbonio, i confronti si datano alla prima età altomedievale, fra l’epoca della migrazione longobarda e i primi decenni del secolo successivo. La ceramica di tradizione longobarda pre-senta stretta dipendenza da forme delle necropoli ungheresi, ceche e austriache con la ripresa di decori impressi a più registri, ad esclusione dei motivi a frangia (figg. 22, 23, 24 e 25). Caratteristica del vasellame è risultata la qualità di fabbricazione per

regolarità tecnica, gusto e precisione de-corativa rispetto alle produzioni delle aree di provenienza, nell’Europa centrale, e del Piemonte; il repertorio attestato include alcune bottiglie, forma acquisita in Italia, e almeno un recipiente da riferire ad una fase produttiva tarda, da collocare nell’ambito del VII secolo. I richiami ai recipienti di area germanica sono risultati così puntuali da far ipotizzare che i vasai disponessero di forme campione portate dal gruppo longo-bardo da quelle terre. I recipienti dovevano soddisfare le richieste della nobiltà longo-barda, la nuova classe dirigente, e nel corso degli anni anche quelle dei ceti medi urba-ni e rurali che progressivamente riuscirono a disporre di adeguato potere d’acquisto. È stato ipotizzato che Brescia rifornisse i mercati della Lombardia orientale, del Ve-neto e del Friuli. Il catalogo della ceramica comune include olle di medie dimensioni con i relativi pic-coli coperchi, una vasta gamma di conteni-tori per liquidi, incluse brocche con mor-fologia ripresa dal repertorio di tradizione longobarda, molti bicchieri, ampi fornetti-coperchio, questi ultimi in continuità con il repertorio formale locale (figg. 26, 27 e 28). Alcuni contenitori riproducono i bic-chieri quasi cilindrici, con decorazioni a bande, in pietra ollare. La novità rispetto alle produzioni in ceramica grezza locale del periodo immediatamente precedente (V secolo-prima metà del VI secolo) è data dallo spessore ridotto delle pareti, dall’uso di impasti fini o medio-fini, dalle cotture meglio controllate, caratteri da cui deriva l’aspetto fine e quasi metallico degli esem-plari meglio riusciti. Non si rileva alcuna relazione fra questo e il vasellame in cera-mica comune utilizzato dai Longobardi in Pannonia prima del loro arrivo in Italia, va-

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Figg. 26, 27, 28. Olla, pareti con decorazioni a fasce di onde e bottiglia in ceramica comune dall’area del Capitolium di Brescia, fine VI-inizi VII secolo (da GuGlielmetti 2014)

Fig. 29. Teglia fine da Breno, Santuario di Minerva, I a.C.- I d.C. (da GuGlielmetti, solano 2010)

Fig. 30. Teglia a pareti spesse da Breno, Santuario di Minerva, III- IV d.C. (da GuGlielmetti 2010)

Fig. 31. Fornetti-coperchio da Cairate, Monaste-ro di Santa Maria Assunta, VI-VIII secolo (da GuGlielmetti c.s. 2014 a)

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sellame sempre di piccole dimensioni con pareti spesse e irregolari in quanto princi-palmente modellato a mano e mal cotto in forni a temperatura irregolare. Alla stessa produzione mi pare infine di poter riferire piccoli recipienti invetriati: bicchieri e olle di fattura semplice, caratterizzati da un uso solo decorativo del rivestimento e non di-versi dalle versioni in ceramica comune. Un boccale riprende forma e campitura deco-rativa dei modelli longobardi.La buona qualità tecnica dei manufatti e gli elementi di innovazione tecnologica che li denotano orientano a riconoscere ai vasai che li realizzarono non soltanto abi-lità manuale e conoscenza di nozioni tec-nologiche piuttosto evolute (in merito al corretto utilizzo delle fornaci), ma anche la disponibilità di un’ampia varietà di stru-menti per decorare i pezzi (i punzoni) e di materie prime necessarie per specifiche la-vorazioni (ossido di piombo). Questi vasai specializzati furono in grado di inserire nel loro repertorio forme e decori che dove-vano soddisfare il gusto della nuova classe dirigente, e ciò comportò anche il miglio-ramento dei manufatti in ceramica comune di uso corrente.Gli studi antropologici condotti sugli sche-letri trovati nell’area del Capitolium han-no permesso di stabilire che gli individui, malnutriti e disagiati, occupati nell’area artigianale (compresi bambini di 5/6 anni), appartenevano alla popolazione indigena latino/romana. Dovevano pertanto essere artigiani locali di cultura mista romana e longobarda che, privi delle risorse econo-miche necessarie per investire in tecnolo-gia e nel reperimento delle materie prime, lavoravano in condizione servile alle di-pendenze di un’autorità pubblica superio-re laica, il re o il duca, a cui spettavano i

proventi economici dell’attività. L’abitato e gli impianti produttivi dell’area capitolina, si collocarono infatti in una zona della cit-tà che, pubblica in età romana, passò poi in epoca longobarda alla proprietà regia o ducale, come nei dintorni di Santa Giulia dove avveniva l’immagazzinamento e lo stoccaggio dei vari manufatti prodotti in loco in previsione della loro commercializ-zazione.Sempre a Brescia, una situazione simile a quella descritta per l’area capitolina, questa volta probabilmente dipendente o control-lata da istituzioni ecclesiastiche, si registra nell’area del complesso episcopale paleo-cristiano, dove accanto alla Basilica di S. Maria, sopra le macerie di una domus ro-mana, sono stati riportati alla luce i resti di un terzo fornetto, datato con termolumi-nescenza al 610 d.C. Nel suo riempimento di abbandono sono stati trovati recipienti in ceramica in un’associazione non diversa da quella registrata al Capitolium. Questo terzo rinvenimento apre il campo a nuove considerazioni sul modello di orga-nizzazione del lavoro in età altomedievale e sul ruolo avuto dalle istituzioni laiche e dalle gerarchie ecclesiastiche nella gestione delle attività artigianali a sequenza com-plessa che richiedevano investimenti eco-nomici consistenti.

La paura della fame. Cambiamenti nell’alimentazione e nel vasellame domestico

L’età romana era stata caratterizzata da una estensiva messa a coltura delle terre. Con il III secolo il sistema produttivo agricolo entrò in crisi, la situazione si inasprì nel IV e V secolo e toccò il suo apice nel VI, un secolo segnato da guerre, carestie, pestilen-

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ze che ebbero ripercussioni tragiche sulla popolazione, anche se spesso enfatizzate e trasfigurate dalle fonti contemporanee (Gregorio di Tours, Procopio da Cesarea) e posteriori (Paolo Diacono). La scarsità di alimenti o anche la sola dif-ficoltà a poterli sfruttare spinse a differen-ziare al massimo le risorse e a impostare un nuovo modello produttivo. Al posto delle coltivazioni a monocultura di grano che richiedevano cure complesse e produ-cevano sempre meno: vennero introdotti cereali di qualità inferiore, che permette-vano raccolti a resa più sicura, seminati in policoltura, che grazie ai tempi di matura-zione diversi permettevano di salvaguarda-re parte del raccolto nelle annate cattive. Le attività agricole erano affiancate dalla pratica dell’incolto, cioè dalla sfruttamen-to della foresta e delle paludi che poteva-no offrire un’integrazione non trascurabile all’alimentazione. Tale abitudine era stata piuttosto marginale nella cultura romana centro-italica, mentre aveva rappresentato la base del modello nutrizionale delle po-polazioni celtiche e germaniche transalpi-ne, e probabilmente anche di quelle stan-ziate in area subalpina. Accanto a orzo e farro, due cereali legati alla storia dell’alimentazione mediterranea, vennero potenziate la coltura dell’avena, prima considerata un’infestante, e quella di alcuni grani minori, il miglio, il panìco, il sorgo, conosciuti da tempo, ma per lo più impiegati come foraggio per gli animali. Particolare fortuna ebbe la segale per il suo altissimo rendimento e per la capaci-tà di crescere su qualsiasi terreno, anche a notevoli altitudini. Plinio l’aveva definita “buona soltanto a tener lontana la fame” ricordando che la sua coltivazione era già praticata dalle popolazioni delle Alpi oc-

cidentali. La segale venne reintrodotta in questo periodo e sino al X-XI secolo rima-se il cereale più coltivato in tutta Europa. Ai cereali minori erano affiancati legumi, soprattutto fave, ceci e fagioli (solo della specie con “l’occhio”) e vegetali coltivati nei pressi degli insediamenti. Il frumento divenne in genere un prodotto di lusso an-che se la pratica della sua coltura continuò normalmente nelle regioni dell’Italia me-ridionale.Perno dell’alimentazione romana fonda-ta sull’agricoltura e l’arboricoltura erano stati il grano, la vite e l’ulivo che in tavola avevano sancito la supremazia del pane e di farinate, di vino e olio, molte verdure e latticini, poca carne, poiché capre e pecore dovevano fornire latte e lana. Diversi i mo-delli alimentari delle popolazioni nordiche fondati sulla caccia e la pesca, la raccolta dei frutti selvatici, l’allevamento brado nei boschi, soprattutto maiali, e più margi-nalmente la coltivazione di alcuni cereali (orzo e avena). Lo schema nutrizionale di questi popoli, che doveva presentare non poche affini-tà con quello delle popolazioni romane dell’Italia settentrionale, soprattutto nelle aree rurali, era invece basato sul maggior consumo di carne e pesce di acqua dolce, di condimenti di origine animale (lardo, strutto e burro), di latte e liquidi acidi di derivazione, sidro e cervogia quali bevan-de e, alternative al pane, pappe d’avena e focacce d’orzo. Le fonti romane e greche, Plinio e Strabone, descrivono le campa-gne delle regioni settentrionali come ben coltivate e disboscate già in epoca celtica e caratterizzate dalla presenza di querceti, utilizzati per l’allevamento dei maiali da cui si traevano carni salate e affumicate.In età altomedievale il prevalere dell’uti-

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lizzo dei cereali minori nell’alimentazione comportò difficoltà nel panificare. Orzo, avena e segale in quanto poveri di amido, il componente che permette la lievitazione delle farine in aggiunta di acqua, vennero per lo più utilizzati in grani e bolliti per fare zuppe, o polente se sminuzzati in fa-rina, oppure minestre se integrati dall’ag-giunta di verdure e carni (pulmenta). Ai pani lievitati si sostituirono semplici focac-ce o farinate (un pane definito clibanicus), a volte impastate con erbe e legumi, che venivano cotte sopra le ceneri o a loro fian-co (entro fornetti-coperchio). Rilevante fu, inoltre, il ruolo assunto dalle carni, che per fare dispensa venivano seccate, affumicate e conservate sotto sale o sotto grasso, e dei grassi animali ricavati soprattutto dal ma-iale: lo strutto e il lardo.Furono questi cambiamenti a determinare la comparsa di un diverso corredo da cuci-na. Le granaglie potevano essere macinate e abbrustolite, o prima cotte e poi tritura-te per farne zuppe e nuovamente rimesse sul fuoco insieme a ortaggi, verdure e car-ni. Focacce e pani dovevano essere cotti a riverbero del fuoco, carni e grassi animali erano conservati per garantire continuità di approvvigionamento ed essere consumati in piccole quantità.Tornando al vasellame domestico attestato in Lombardia, la forma meglio rappresen-tata a partire dal V-VI sino a tutto l’XI e il XII secolo, a volte come unica catego-ria funzionale fra le ceramiche comuni, è rappresentata dal fornetto-coperchio (figg. 29-36). Da tempo gli studiosi si sono inte-ressati alla sua funzione che ritengo ormai certa: i fornetti erano destinati alla cottura di focacce e pani non lievitati, ricavati da cereali minori. Gli impasti venivano fat-ti aderire alle pareti del recipiente prece-

dentemente riscaldato che era quindi ca-povolto e posto sul focolare. Il particolare trattamento delle superfici interne, rese ruvide da spatolature “a stuoia”, permetteva di fare aderire meglio e poi staccare le paste a fine cottura; l’umidità creatasi durante il procedimento veniva eliminata da picco-li fori di sfiato presenti appena al di sotto dei listelli. In età altomedievale le forme risultano dotate di una presa a listello più o meno sviluppato che corre a metà altezza circa del diametro del recipiente, mentre in quelle posteriori al X secolo il listello ri-sulta sostituito da comodo un maniglione (figg. 29-36).Interrotto o annullato il ciclo di trasforma-zione del grano in pane (dalla campagna all’aia e al mulino, dal mulino alle città per la lavorazione e per la cottura in forni pub-blici – noti a partire dal II secolo a.C. –, in-fine la commercializzazione; figg. 37 e 38) in età tardoantica e altomedievale tornò a prevalere la forma ben radicata nella cul-tura alpina e rurale di panificare nell’am-bito delle mura domestiche recuperando materie prime e strumenti della tradizione locale (fig. 39).Infine un ultimo cenno alla pietra olla-re. La fortuna commerciale del vasellame dipese dall’ottima conducibilità termica della pietra che distribuisce il calore e re-siste bene al freddo, agli sbalzi di tempe-ratura e all’azione del fuoco, accumulando e conservando a lungo il calore, anche se allontanata dalla fonte diretta. Fu questa ragione che ne determinò l’uso prevalente per la preparazione dei cibi a lunga cottura. Ma è da evidenziare una seconda caratte-ristica del materiale, tipica soprattutto dei talcoscisti: la pietra ha una porosità molto bassa e quindi non assorbe i liquidi, non modifica il gusto degli alimenti e ne con-

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Figg. 32, 33, 34. Pareti di fornetti-coperchio dall’area del Capitolium di Brescia, VI-X (da Guglielmetti 2014)

Fig. 35, 36. Pareti e presa di fornetti- coperchio dall’area della Basilica romana di Brescia, XII-XIII secolo (da rossi 2009)

Fig. 40. Piccolo contenitore da conservazione a superfici apicate da Brescia, VI-VIII secolo (da GuGlielmetti 2014)

Fig. 41. Piccolo contenitore da conservazione a superfici lisce da Castelseprio, VI-VIII secolo (da GuGlielmetti 2013)

Fig. 37. Forno di panificio da Pompei (da aDam 2011 [1984])

Fig. 38. Ricostru-zione di panificio e laboratorio per la molitura del grano da Pompei (da aDam 2011 [1984])

Fig. 39. Focolare altomedievale con piano di cottura in laterizi (da lusuarDi siena 1994)

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serva intatta per lunghi periodi la fragran-za originale. Nelle valli sopra Chiavenna, ancora oggi vengono prodotti recipienti completi di coperchio usati per conservare condimenti, burro e grassi animali, ma an-che carni salate, insaccati e formaggio. Uso analogo dovevano avere anche in antico, in alcuni casi come prima e unica funzione, in altri dopo la rottura e il rattoppo delle forme da fuoco, come sembrano indicare le frequenti “cuciture” con fili di ferro o di bronzo presenti sui reperti. Le dimensioni ridotte e la capacità contenuta di molti re-cipienti in pietra ollare trovati sugli scavi e impropriamente definiti “bicchieri” per il diametro compreso fra i 10-15 cm, sem-brano ben adattarsi all’immagazzinamento di cibi di particolare pregio, da conservare e consumare in piccole quantità, quali ap-punto i grassi di origine animale: strutto, pancetta, lardo (figg. 40 e 41).I recipienti in pietra ollare si qualificarono, quindi, come particolarmente adatti alla cottura e alla conservazione delle riserve alimentari. I vantaggi comportati dal loro acquisto, per la versatilità e il grande aiuto apportato all’economia domestica, da sem-pre tesa ad evitare ogni forma di spreco ali-mentare, dovevano giustificare il significa-tivo investimento. Ancora poco sappiamo sulle dinamiche della loro commercializza-zione dai centri di estrazione dell’arco alpi-no al fondovalle, lungo percorsi ad ampio raggio che sfruttavano vie di comunicazio-ne di terra e soprattutto d’acqua, attraverso i grandi laghi prealpini – Maggiore, Como – e la rete dei fiumi affluenti nel Po per rag-giungere a Ovest la Liguria e a Est il mar Adriatico e da lì, per via marittima, prose-guire verso località assai lontane. Pertanto se almeno in una prima fase, la diffusione dei lavezzi sembra essere dipesa

dalla contrazione produttiva delle grandi manifatture ceramiche padane, che, come abbiamo visto, ancora sino agli inizi del V secolo rifornirono i mercati dell’Italia set-tentrionale di buon pentolame da fuoco e da conserva in terracotta, progressivamen-te il vasellame in pietra ollare si affermò, quando ne furono conosciute e apprezzate le caratteristiche specifiche.

Bibliografia

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Serneels 2008; Sannazaro 2012a; San-nazaro 2012b; Guglielmetti 2013a; Ratto 2013. Economia, alimentazione, produzioni: Mannoni, Gianniched-da 2003; Montanari 1993; Le Goff 1996; Brogiolo, Gelichi 1998a; Wick-ham 1998; Fumagalli 2007; Gelichi 2007; Montanari 2012. Riferimenti ai ritrovamenti e alle immagini: Cubber-ley, Lloid, Roberts 1988; Brecciaroli Taborelli 1995; Volonté, Dolci 2008; Parco Archeologico Castelseprio 2009; Rossi 2009; Volonté 2013; Airoldi c.s. (2014).

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introduzione

Il numero sempre crescente di pettini in osso e in corno, rinvenuti in scavi recenti di contesti funerari e di insediamenti alto-medievali, ha stimolato lo studio e l’analisi di questo manufatto utilitario per lo più di forma semplice e esteticamente povero, che può diventare un ornamento, negli esem-plari di fattura più curata, e se realizzato in materiale prezioso e figurato può assumere significato rituale e liturgico (fig. 1 a, b, c).La prima osservazione, parlando di tecni-che produttive e di lavorazione dell’osso e del corno, riguarda la totale assenza di fonti scritte; è però una produzione molto antica, ampiamente documentata in insediamenti pre-protostorici, quando venivano adope-rati pettini realizzati in un unico pezzo. La conoscenza relativa ai cicli di lavora-zione e agli strumenti utilizzati può essere dedotta solo dall’analisi delle tracce lasciate dagli strumenti sui frammenti semilavora-ti e da prove sperimentali di trattamento che ricostruiscano i processi produttivi e

La produzione dei pettini altomedievalia più lamelle in osso e corno

permettano di ottenere un oggetto in tutto simile all’originale (§ 5, 6). Le uniche in-formazioni provengono, in sostanza, dagli stessi manufatti e dai depositi di semilavo-rati e di scarti di lavorazione rinvenuti in scavi archeologici, mentre non sono stati, finora, trovati gli strumenti in metallo, o in altro materiale, utilizzati per la loro fabbri-cazione. Sono pochi anche i riferimenti iconogra-fici. Per l’età romano-imperiale resta fino-ra unico il pettine, rettangolare a lamelle terminali convesse e a doppia fila di denti raffigurato, insieme a uno spillone, ai lati dell’epigrafe funeraria di un’ornatrix (CIL, VI, 9727) (fig. 2), che per mestiere cura-va acconciature femminili. È un pettine semplice, che esemplifica i caratteri che distinguono in età romana questo oggetto, realizzato spesso in legno (bosso), mentre dal IV-V secolo si diffondono i pettini a più lamelle fissate da rivetti e ad una sola fila di denti, con impugnatura triangolare compatta, o fortemente arcuata (“a cappel-lo di carabiniere”), antesignani del pettine

P. Marina de MarchiCivico Museo Archeologico di Arsago Seprio (varese)

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altomedievale composto di più elementi (fig. 3 a,b). Il pettine tardoromano, spesso decorato con teste animali, come le guar-nizioni di bronzo militari coeve, ha massi-ma diffusione nei territori limitanei, dove erano stanziati i soldati germanici, foederati al servizio dell’impero. Al primo alto me-dioevo risale, invece, il pettine raffigurato nella stele di Niederdollendorf che mostra un guerriero, armato di scramasax e circon-dato da un animale fantastico tricefalo, col-to nell’atto di ravviarsi la capigliatura (fig. 4), per cui è stato proposto un significato cristiano, difficilmente documentabile. Il pettine di Niederdollendorf, utilizzato per pulire e riordinare la capigliatura, sembra essere a una sola fila di denti e con strut-tura approssimativamente triangolare, un tipo documentato all’epoca.

Breve storia degli studi

Nei tardi anni Settanta del secolo scorso, in occasione della ripresa degli studi relativi alle botteghe artigiane, della revisione dei depositi dei musei e di scavi che avevano restituito scarti di lavorazione di manufatti in osso e corno a Vienne (Francia), in In-ghilterra e nei territori scandinavi, si sono sviluppate specifiche ricerche tese a com-prendere i caratteri di questa particolare produzione. Già nel 1979 si segnalava il prevalente uti-lizzo, per la realizzazione di pettini e di altri oggetti, delle ossa lunghe dei bovini e degli equini, operando sperimentazioni utili alla comprensione del processo di selezione, del primo trattamento del materiale e degli strumenti utilizzati per la sua lavorazione. J. Beal (1983, 1984), analizzando i manu-fatti del Museo di Lione e di Vienne e i re-sti di lavorazione rinvenuti negli ateliers di

Vienne, approfondì l’attività delle botteghe che lavoravano l’osso, sia precisando la com-plessità dei cicli manifatturieri, sia analiz-zando le tracce lasciate dagli strumenti di taglio sulle superfici dei semilavorati, indi-viduando in tal modo i probabili strumenti utilizzati nelle diverse fasi operative. Nel 1985 A. MacGregor, sulla scorta dei nu-merosi ritrovamenti anglosassoni, realizzò un manuale sui manufatti in osso e corno, ancora oggi di grande utilità, perché illu-stra tutti i processi di lavorazione a partire dai caratteri costitutivi della materia prima, per affrontare progressivamente il proble-ma dell’approvvigionamento, della selezio-ne delle ossa da lavorare, delle diverse fasi operative, dei caratteri della dislocazione geografica dei maggiori ateliers produttivi e dei singoli artigiani (città, campagne), e cogliendo, infine, i tratti distintivi delle diverse produzioni, standardizzate e non, e delle influenze delle manifatture vichinghe in quella regione. A questi studi sono seguiti articoli che af-frontavano specifiche tematiche: J. Petitje-an (1995) si è posta soprattutto il problema dell’evoluzione formale del pettine d’area merovingia, della sua diffusione nei terri-tori franchi, alamanni, longobardi e del-la Germania libera (fig. 5), individuando differenziazioni di tecnica di lavorazione e di gusto e interrogandosi sul significa-to cultuale, religioso e di status symbol, o di elemento di costume, di un manufatto che risulta uno dei doni più diffusi deposti nelle sepolture. L’analisi della posizione del pettine su / o presso il corpo del defunto portava la studiosa a distinguerne le fun-zioni, da oggetto da toilette collocato nella tomba in memoria della vita quotidiana, a oggetto d’adorno connesso all’acconciatura proprio delle deposizioni “abbigliate”.

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Fig. 1 a.-c.a) Pettine in avorio di Teodolinda, Museo del Tesoro del Duomo di Monza (a sinistra, in alto); b) pettine in osso, con simboli cristiani incisi, da una tomba in Vicolo Clemente a Brescia (da De marchi 2010, a sinistra);c) pettine di San Lupo (Sens, Tesoro del-la Cattedrale, da VolBach 1968, sotto)

Fig. 3 a-b. Pettini in osso di IV-V sec. d.C.a) Milano, Antiquarium della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia (a sinistra, in alto);b) Trento, Teatro sociale (da caVaDa 1997, a sinistra in basso)

Fig. 2. Epigrafe funeraria di un’ornatrix (da Bianchi 1995, a destra)

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Fig. 4 (sopra). Stele funeraria di Niederdollendorf (da paulsen 1978)

Fig. 5 (a destra). Tipologie di petti-ni da età tardoantica all’Alto Me-dioevo, in basso a destra il pettine di San Lupo (da petitjean 1995)

Fig. 6. Il grande opificio poliproduttivo di Crypta Balbi a Roma (da ricci 2001)

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S.P. Ashby (2009) si è dedicato allo studio dei pettini conservati in una collezione scozzese, e ha ricomposto, in base all’analisi cronotipologica, le diverse fasi degli stan-ziamenti vichinghi sulle coste atlantiche della Gran Bretagna, verificando l’influen-za formale e tecnologica che gli invasori ebbero sulla produzione locale. U. Koch (2011), infine, in un più am-pio quadro di analisi delle sepolture ger-maniche transalpine di VI e VII secolo, condotte in decenni di studio, ha redatto tavole cronotipologiche, che prendono in considerazione, insieme ad altri manufat-ti, anche i pettini, precisando mutamenti strutturali, persistenze di esemplari più an-tichi in contesti tardi, l’evoluzione dei ca-ratteri dimensionali e stilistici, l’allungarsi delle forme accompagnata da ridondanza dell’apparato decorativo, con datazioni che possono, per alcuni tipi, essere precisate al ventennio.

indirizzi di ricerca

A seguito di questi studi, alcuni a carattere pionieristico, si sono svolte numerose ricer-che, che hanno coinvolto anche l’Italia lon-gobarda, che sta restituendo un sempre più corposo numero di pettini a più lamelle, caratterizzati da grande varietà tipologica e da differente qualità esecutiva. In sintesi i principali temi di studio e le analisi finora svolte interessano:• i cicli produttivi e gli strumenti utiliz-zati per la lavorazione, analizzati mediante osservazione al microscopio delle tracce la-sciate dagli strumenti;• i caratteri distintivi di lavorazioni do-vute ad ateliers ad alta specializzazione (fig. 6), spesso poli produttivi, o piuttosto all’attività artigianale di gruppi o di singoli

individui, meno specializzata, ma dotata di buone capacità di realizzare pettini per esigenze domestiche, o per un mercato locale e regionale (fig. 7); • l’evoluzione del pettine dall’età tardo-antica all’altomedioevo, con studi crono-tipologici, delle diverse tradizioni mani-fatturiere (romana, germanica, vichinga e anglosassone), differenti per impianto strutturale e motivi decorativi, che in al-cuni casi rimandano a significati cultuali e ad un uso liturgico cristiano (fig. 5); • il significato di indicatore sociale e di potere economico, dipendente dalle scel-te della committenza, o di chi semplice-mente ne faceva uso quotidiano, che con-diziona la complessità compositiva delle singole parti, la ricchezza dell’apparato decorativo, la rarità della materia (avorio, metalli preziosi). Quest’ultimo indirizzo studia la pluralità di usi e significati che coinvolgono uno strumento da toilette, distintivo dei gesti più comuni della vita d’ogni giorno, ma da contestualizzare in base alle caratte-ristiche del ritrovamento (sepolture, se-polture aristocratiche e principesche, con defunti abbigliati, insediamenti rurali, città). Un pettine può diventare un im-portante indicatore di particolari rituali funerari e di appartenenza del defunto agli alti gradi della scala gerarchica (fig. 1 a, b, c), ma anche dei percorsi di circo-lazione e di mercato di materiali preziosi, come l’avorio, spesso dovuti ad attività di scambio o commerciali (§ 6).Per i normali pettini in osso e corno si utilizzava il materiale a portata di mano. Nell’alto medioevo depositi di ossa ani-mali sono stati messi in luce sia in conte-sti urbani ruralizzati, sia in insediamenti di castello e nelle corti rurali. La pro-

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Fig. 7 (a destra). Artigianato domestico del pettine nell’in-sediamento rurale longobardo di Mombello Monferrato (da I Longobardi in Monferrato 2007, ipotesi ricostruttiva di F. Corni)

Fig. 8 a, b (sotto). Pettini a timpano ribassato.a) da una sepoltura altomedievale del santuario repubbli-cano del Capitolium di Brescia (da De marchi 2006);b) da Cividale del Friuli, Santo Stefano in Pertica, t. 27 (da ahumaDa silVa 1990)

Fig. 9 a-c. Pettini lunghi a una sola dentatura. a) Sacca di Goito t. 37 (da menotti 2003, sotto);b) Treviso, Via dei Mille t. 6 (da possenti 1999, in basso);c) esempi di pettini merovingi a doppia dentatura con custodia (da petitjean 1995, a destra)

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duzione dipendeva dalla facilità di repe-rimento delle materie prime, determinata in primo luogo dall’accumulo di carcasse di animali macellati (bovini, suini, capri-di, equini), in secondo luogo dai luoghi di raccolta e stoccaggio dei palchi delle cor-na dei cervi. Botteghe e artigiani doveva-no, quindi, possibilmente operare vicino a concerie, che ugualmente avevano bisogno di carcasse, a fabbriche di colla e a fabbri (per montare i manici in osso su coltelli, o le cerniere in mobili e cofanetti). In ogni caso anche un artigiano “dilettante” doveva possedere una buona conoscenza dei materiali.

Le principali tipologie dei pettini alto-medievali documentati nell’italia lon-gobarda (tavv. 1-3)

a) Pettini a doppia dentatura di tradizione romana: si compongono di più lamelle in osso, connesse da perni metallici (bronzo, ferro), con piastre d’estremità a terminazio-ni rettilinee, ad angoli retti o arrotondati. La costola centrale è in genere leggermente convessa, priva di decorazione o ornata a motivi geometrici incisi (croci di Sant’An-drea, fasci di linee trasversali all’asse, scana-lature longitudinali). La lamella mediana dentata tende ad assottigliarsi dopo i primi denti. La lunghezza si aggira, nei decenni intorno al VI-VII secolo, attorno a 14 cm: restano in uso pettini di dimensioni mino-ri, ma l’evoluzione porta ai pettini lunghi e sottili più raffinati e più fragili (tav. 2 a, b, tav. 3 a, b). I pettini di tradizione merovingia tra fine VI e VII secolo, infatti, si restringono e al-lungano per raggiungere dimensioni supe-riori a 20 cm, la decorazione si arricchisce e tende a occupare ogni spazio disponibile.

La lunghezza, che richiede un montaggio delle parti più complesso, porta a migliora-re il patrimonio tecnologico.Negli esemplari più corti, massicci e alti, questo pettine può essere confuso con quelli da tessitura. b) Pettini a una sola dentatura con impu-gnatura a timpano ribassato (cioè di forma triangolare) e lamella mediana che termi-na alle estremità superiori in teste animali, variamente combinate, talvolta forate per la sospensione alla cintura o a catenelle appese in vita. Il timpano è spesso ricca-mente decorato, i motivi più diffusi sono gli occhi di dado, i cerchietti concentrici, gli archi semplici o doppi variamente or-nati, gli occhi di dado, le croci di Sant’An-drea. Si conoscono esemplari molto lunghi (oltre i 17-20 cm) e larghi (circa 5 cm). Questo pettine è diffuso in tutti i territori merovingi (franchi, alamanni, longobardi, ungheresi). Viene però ritenuto di cultura italo-longobarda (fig. 8 a, b).c) Pettini a una sola dentatura con impu-gnatura laterale rettangolare o triangolare anch’essa connessa con rivetti. La deco-razione contempla motivi geometrici vari abbinati, come negli altri esemplari. Sono spesso molto lunghi e tendenzialmente sottili. Si compongono di una lunga e af-fusolata costola di montatura, fissata alle lamelle dentate con rivetti. La tradizione produttiva e culturale, in base alla loro dif-fusione, viene individuata in area merovin-gia e nella Germania libera (tav. 2 c, tav. 3 c).d) Pettini a doppia dentatura con impugna-tura terminale centrale: del tutto simili al tipo precedente per dimensioni, elementi costitutivi e apparati ornamentali, differi-scono solo per la piastra di impugnatura fissata alla costola centrale del pettine, in

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modo da sporgere simmetricamente metà da un lato e metà dall’altro (tav. 2 d).e) Pettini traforati: meno numerosi degli altri tipi, sono in prevalenza diffusi nella Gallia ex romana, in Slovenia, nell’ Italia gota e longobarda, con una datazione dalla fine del V secolo a tutto il VI secolo. Ap-partiene a questo genere, pur differenzian-dosene per la decorazione naturalistica, il pettine di Montichiari (BS) (§ 6) (tav. 2, e tav. 3 f ). Un esemplare molto lungo, composto di più piastre montate ad inca-stro, delle quali quella mediana raffigura un portico colonnato, con archi ad ogiva e colonne a rocchi, che riprende uno sche-ma diffuso nelle rappresentazioni di ville e palazzi romani tardoantichi, ravennati e bizantini. La sua realizzazione è tanto raffinata da farlo ritenere opera di un arti-giano o opificio specializzato, posto proba-bilmente nei territori dell’impero d’oriente.Astucci: i pettini lunghi e sottili, a unica dentatura, possono essere completati da un astuccio fissato con rivetti al corpo dentato, con la funzione di proteggere i denti; per lo stesso motivo i pettini a doppia dentatura sono protetti da astucci fissati alla costola mediana d’impugnatura. Gli astucci sono decorati come i pettini (fig. 9 a, b, c).In Italia proviene dall’unica tomba princi-pesca nota (una rideposizione in sarcofago trecentesco posto nel Duomo di Monza), il pettine della regina baiuvara Teodolinda (fig. 1 a), morta tra il 616 e il 626, che ha dentatura in avorio e montatura in argen-to dorato decorato in filigrana d’oro, forse uno dei doni, d’uso liturgico (?), inviati alla sovrana longobarda da papa Gregorio Ma-gno (540 circa-604). È ancora più raffinato il pettine liturgico di San Lupo, in avorio, filigrana d’oro, smalto e pietre grezze, cu-stodito presso il Tesoro della Cattedrale di

Sens, che al centro mostra due leoni, ot-tenuti a traforo e incisione, disposti aral-dicamente ai lati dell’albero della vita, e - sull’arco che li contiene - l’iscrizione Pecten S. Lupi, attribuito al VII-VIII secolo (fig. 1 c e fig. 5).

osso e corno

Le analisi hanno evidenziato che i pettini sono realizzati prevalentemente con ossa di bovini ed equini, spesso macellati in età giovanile. Per ottenere esemplari simili alle matrici da lavorare occorreva tenere conto delle differenze di taglia e morfologia che distinguevano gli animali del passato da quelli odierni. Per la lavorazione si utiliz-zavano le ossa lunghe, metatarsi, metacarpi e metapodi, privati delle parti spugnose, prendevano forma cilindrica, garantendo il minor spreco di materiale. Le matrici pre-disposte seguono, quindi, dimensioni quasi standard (fig. 10).Le ossa piane venivano scartate perché si spezzavano facilmente ed erano scarsa-mente utili. L’osso è costituito da materiali organici (27% circa) e acqua (17%), da minerali, sali e fosfati di calcio (55%): questa composi-zione lo rende resistente, l’uso artigianale prevede l’eliminazione di cartilagini, mi-dollo, parti spugnose. La lavorazione ri-chiede la conoscenza dell’orientamento del tessuto, per sfruttare resistenza, durezza, flessibilità, per questa ragione si utilizzava-no le ossa più spesse, che garantivano più materiale lavorabile. Le analisi condotte sui manufatti del Mu-seo di Lione indicano che gli oggetti più spessi provenivano da matrici ”assiali”, il cui asse longitudinale corrispondeva al ca-nale del midollo, mentre oggetti di minor

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Fig. 10 (a destra). Scelta delle ossa e preparazio-ne della matrice (da Beal 1984)

Fig. 11 a-d. Lavorazione del pettine (al centro).a) taglio delle lamelle con scalpello e mazzuo-lo, montaggio; b) le diverse fasi di realizzazione; c) scalpello a lama e punzoni; d) trapano ad archetto per eseguire i fori dei perni (da Beal 1985)

Fig. 12. Corno, pedina e falce provenienti dall’edificio artigianale di Miranduolo del IX secolo (da Il Castello di Miranduolo 2005)

a

b

c

d

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spessore erano ricavati dalla parete d’osso a fianco dello stesso canale. L’osso scelto con cura, ammorbidito e ripu-lito dei tessuti organici, regge le pressioni, le trazioni e può essere flesso, è adatto a re-alizzare una grande varietà di oggetti. In mancanza di “manuali” ai quali riferirsi per padroneggiare il materiale, gli artigia-ni si basavano sulla conoscenza empirica, acquisita sul campo e per trasmissione orale, di bottega. Un sapere che li rendeva abili nell’eseguire l’intero ciclo produttivo: dall’osso selezionato dalla carcassa anima-le, al lavaggio, alla pulitura, all’essicazione, alla realizzazione dell’oggetto finito. L’abi-lità dell’artigiano permetteva di sfruttare le parti meno regolari, prossime al canale midollare, adeguandole alle necessità d’uso (incastri, o fori passanti, per impugnature di strumenti, cilindri cavi, ad esempio), o le superfici convesse adatte alle finiture (im-pugnature arrotondate) (fig. 11).Il corno di cervo, tratto dal palco (fig. 12), possiede tutte le qualità dell’osso e, dal punto di vista tecnologico, è più facilmen-te lavorabile: accorgimenti nel trattamento e strumenti di lavoro sono più o meno gli stessi dell’osso (fig. 13). L’approvvigiona-mento richiede solo la raccolta dei palchi caduchi deposti annualmente, tra febbraio e marzo nei territori alpini italiani. I pal-chi caduchi, rispetto a quelli degli animali giovani o macellati, garantiscono maggiore solidità e pesantezza, un palco maturo con-tiene molto calcio, che rende il materiale più resistente.La materia prima utilizzata è quella dispo-nibile, in Italia la Pianura Padana è ricca di bovini, suini, equini, capridi, le aree alpine e subalpine di cervidi. In Italia conosciamo raramente la prove-nienza animale dei pettini, ma sembra pre-

valere l’uso di ossa bovine ed è documenta-ta la lavorazione del corno.

Cicli di lavorazione e strumenti

Le parti scelte per la fabbricazione dei pettini sono prevalentemente i metapodi, molto sviluppati nei bovini. Secondo le sperimentazioni condotte la prima fase di lavorazione prevedeva:- la selezione delle ossa, asportate dalla car-cassa animale, e la realizzazione delle ma-trici asportando le epifisi spugnose; - la pulitura dai resti organici, che avveniva in modi diversi: a) bollitura delle matrici che rende anche le ossa morbide, oppure b) deposizione su cumuli di spazzatura che sprigionano sostanze chimiche, adatte a consumare i residui di carne o nervosi, op-pure c) immersione nella calce viva;- le matrici pulite tenute a mollo nell’ac-qua, per un anno circa, acquistavano ulte-riore morbidezza ed elasticità; - l’asciugatura e l’essicazione. Le tracce di lavorazione rilevate sui semila-vorati indicano che per l’asportazione tra-sversale delle epifisi si utilizzava una sega (fasci di strisce); la regolarizzazione lon-gitudinale dell’osso richiedeva l’uso di uno scalpello a lama liscia, o dentata, con per-cussore indiretto, un mazzuolo o un mar-tello (sfaccettature lisce o a solchi paralleli conservate sulle pareti dell’osso); le lame dovevano operare in posizione parallela all’asse longitudinale dell’osso (fig. 11 a).Con gli stessi strumenti di taglio, per di-stacco dalla matrice, si realizzavano le la-melle piane di dentatura (fig. 11 b).Infine tutte le parti erano lucidate con abrasivi (sabbia, pietra a grana fine, pomi-ce); la loro decorazione era realizzata prima del montaggio, ad evitare rotture in un og-

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Fig. 13 (a destra). Sequenze di lavorazione di un pettine in corno (da I Longobardi in Monferrato 2007, disegno F. Corni)

Fig. 14 a, b (da De Vanna 2014, al centro). Brescia, area del Capitolium e di via dei Musei.a) carta di distribuzione delle attività artigianali;b) disegno ricostruttivo dell’area

Fig. 15 (sotto). Feddersen Wierden (Germania del Nord), ricostruzione dell’insediamento agricolo artigianale del V secolo, resti di semilavorati in osso (da strucKmeyer 2011)

a

b

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Tav. 1. Varietà di pettini dalla necropoli longobardo-bizantina di Castel Trosino, tt. 49 (a), 122 (b), 8 (c), 30 (d) (da paroli, ricci 2005)

a

b

c d

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getto abbastanza fragile. La decorazione più semplice, fasci di linee trasversali, croci di Sant’Andrea, cerchi, cerchietti, motivi ad arco e occhi di dado si ottenevano per incisione con strumenti a punta, taglierini, a volte a pressione, l’esat-tezza dei cerchi derivava dall’uso del com-passo (fig. 11 c). In alcuni pettini lunghi, merovingi e cro-nologicamente più tardi, la piastra d’impu-gnatura è inserita nelle lamelle del pettine tramite incastri, con scanalature ottenute con taglierini, o piccoli succhielli. La lavorazione delle corna seguiva gli stessi processi. La decorazione traforata che distingue pettini a unica piastra mediana è ottenuta a trapano (fig. 11 d). Nel pettine lungo di Montichiari (§ 4), con piastra superiore traforata che raffigu-ra un portico con archi su colonne a roc-chi, ogni elemento è realizzato e decorato separatamente: per l’architettura a traforo è stato utilizzato un trapano ad archetto, le colonnine sono tornite e modellate a inta-glio con estremità appuntita per incastrar-le in fori realizzati all’imposta degli archi. Le numerose piastre che compongono questo pettine sono connesse a incastro, mentre i rivetti costituiscono l’elemento di connessione tra parti dentate e costole esterne (tav. 2 e). Una decorazione simile, ma ad archi ciechi e “più grezza”, decora anche la piastra del pettine della t. 49 di Castel Trosino, in contesto di VI-VII se-colo (tav. 1 a). Gli spazi utili alla lavorazione del pettine variano a seconda che essa avvenga in un atelier a grande specializzazione, o a pro-duzione standardizzata, o a scala pressoché domestica. Gli strumenti nel loro comples-so possono al massimo occupare un ripia-

no o essere sospesi a un tramezzo a parete, occorrono poi un banco di lavoro, una va-sca per il lavaggio e la tenuta a mollo, un focolare con contenitore per la bollitura, data per scontata la facile reperibilità del-la materia prima che evita la necessità di stoccaggio. La fabbricazione di un pettine, escluse le azioni preliminari relative alla realizza-zione della matrice, è stata stimata in 4-5 ore di lavoro, ma varia a seconda della complessità e qualità dell’oggetto. Il valore economico è elevato per pettini particolar-mente elaborati e in materiale prezioso.

Montaggio del pettine a più lamelle

Le lamelle piane, già predisposte, veniva-no divise in parti più piccole, pronte per essere montate e fissate insieme, tramite rivetti in bronzo o ferro, più raramente in osso, da due elementi esterni alle lamelle, spesso leggermente convessi, che compat-tando le parti rendevano più robusto il pet-tine. Queste “costole” a vista erano spesso riccamente decorate e potevano costituire l’impugnatura di un pettine a doppia den-tatura, o a dentatura unica. Il montaggio delle lamelle centrali e delle costole esterne prevedeva l’esecuzione di fori, mediante uso del trapano ad archetto, nei quali inserire i rivetti che fissano le parti tra loro. Questa operazione è molto delicata perché può provocare la rottura del pettine, che deve sostenere le tensioni determinate dal serrare tra loro le parti (fig. 11 d).In ultimo venivano realizzati i denti del pettine, con un seghetto, le punte erano poi lavorate con lime per ottenere la for-ma piramidale ad angoli smussati, o conica. Esistono vari tipi di punte, tutte realizzate in modo da non recare danno alla cute e

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a

b

c d

e

f

Tav. 2: Pettini dalla necropoli d’età longobarda di Montichiari (Brescia).a,b) pettini composti da più lamelle a doppia dentatura di tradizione romana;c) pettine a una sola dentatura con impugnatura laterale;d) pettine a doppia dentatura con impugnatura a piastra centrale;e-f) pettini traforati (da De marchi 2007)

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da permettere un più agevole passaggio del pettine tra i capelli. Le eccedenze di materiale venivano aspor-tate con lame e taglierini.

Botteghe e artigiani

La lavorazione dell’osso e del corno è ar-cheologicamente documentata in nume-rosi insediamenti altomedievali europei. Il pettine e altri utensili in osso sono capillar-mente diffusi e mostrano varietà di stili e di qualità esecutiva. Materiali, tecniche e forme derivano da tradizioni culturali diverse, nel nord della Germania e nei paesi anglosassoni si ri-sente del gusto della produzione vichinga, il pettine di Montichiari, al confine tra Brescia e Mantova, è bizantino. Le grandi botteghe che possiedono le migliori profes-sionalità, dotate di mediatori finalizzati alla distribuzione e circolazione dei prodotti, in genere si trovano in città, o presso grandi monasteri, altre botteghe sono state scavate in castelli, villaggi e corti rurali. Le attività artigianali in genere dipendono da un’auto-rità centrale, la monarchia, l’aristocrazia, le alte gerarchie ecclesiastiche e monastiche. La committenza condiziona l’uso della ma-teria prima, per l’autoconsumo e per un uso corrente bastano le ossa di bovini, cervidi, altri animali, i pettini di lusso richiedono materiali nobili, talvolta di importazione (avorio). La presenza di mercati e di vie di transito agevola lo scambio e la circolazio-ne di materie prime e prodotti. In Italia, come nel resto d’Europa, gli sca-vi archeologici hanno dimostrato che la lavorazione dell’osso e del corno è spesso associata, anche a scala locale, ad altre pro-duzioni: attività metallurgiche, tessitura, produzioni ceramiche.

Un esempio significativo di quartiere arti-gianale, del quale occorre ancora misura-re la portata, è stato individuato nell’area settentrionale di Brescia romana, interna alle mura, dove negli ultimi decenni del VI secolo si svilupparono, lungo il decuma-no massimo (odierna via dei Musei), sulla quale affacciavano edifici imperiali monu-mentali di proprietà pubblica (Capitolium, teatro, domus palaziali), nuclei insediativi di capanne ad alzato ligneo, misti a sepol-ture, caratterizzati da lavorazioni artigiana-li (fig. 14 a, b). Sono documentati: la metal-lurgia destinata alla realizzazione di piccoli oggetti, la produzione ceramica (con forni di modeste dimensioni, utilizzati per la cottura di contenitori di tradizione roma-na e longobarda), la filatura e la tessitura, calcare per fabbricare calce traendola dai materiali edilizi di spoglio, l’allevamento del bestiame e di animali da cortile, colti-vazioni ortofrutticole e di alberi da frutto, alcuni indizi di lavorazione del corno. In quest’ area fiscale, che nel 753 vide la costruzione del monastero femminile be-nedettino di San Salvatore per volontà di re Desiderio e di sua moglie Ansa, abitava dalla fine del VI e nel VII secolo un grup-po umano povero, ibridizzato, forse servile, che svolgeva modeste attività produttive e curtensi. Questa popolazione, che le analisi antropologiche indicano dedita ad attività logoranti, era sepolta prevalentemente con l’unico dono del pettine, raramente asso-ciato ad altri manufatti, con prevalere del tipo di tradizione romana (§ 4). Diverso il caso di Montichiari, dal quale provengono pettini di ogni tipo, ma la posizione lun-go vie importanti e su un guado del fiume Chiese fa pensare ad un central place a ca-rattere anche commerciale e di smistamen-to dei prodotti.

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Tav. 3 (dall’alto). Tavola tipologica dei pettini della necropoli di Montichiari (Brescia).a,b) pettini composti da più lamelle di tradizione romana, tt. 69 e 289; c) con impugnatura a piastra laterale, t. 237;d) traforato t. 164 (da De marchi 2007)

a

b

c

d

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Se confrontato con altri siti del nord Eu-ropa, in questo quartiere di Brescia si con-centravano, distribuite su areali distinti, più attività artigianali: produzione ceramica e metallurgica, l’allevamento, la coltura or-ticola, lavorazioni “domestiche” condotte part-time, come la realizzazione di pettini. Produzioni non specializzate eseguite con abilità sufficiente a garantire, talvolta, una qualità buona. È difficile ricostruire l’orga-nizzazione del lavoro di questo quartiere, che doveva essere sottoposto a qualche au-torità di controllo ducale o regia.Diversamente l’opificio romano della Crypta Balbi (fig. 6) è stato ricostruito sulla base di oggetti di piccole dimensio-ni rinvenuti in una discarica di VII secolo, che conteneva manufatti e pochi strumenti anche di tardo VI secolo, probabile frutto di una selezione che ha privilegiato i ma-nufatti più preziosi, lasciando immagina-re una realtà produttiva forse più ampia, concentrata in un’unica area della città, in continuità probabile con una bottega di età tardoantica. La qualità e varietà dei prodotti artigianali recuperati indica che nell’opificio si lavora-vano l’osso, il corno e l’avorio, oltre a bron-zo, ferro, piombo, oro e pietre preziose, per realizzare articoli che richiedevano capaci-tà tecniche differenti e specializzazione nei singoli materiali. L’elevata qualità differen-zia l’atelier romano dalle produzioni rurali, o itineranti note. A Crypta Balbi i prodotti di cultura longo-barda e romano-bizantina sottolineano che si operava per un mercato extraterritoriale oltre i confini tra regioni a diversa domina-zione, indice di un commercio ufficializza-to, o tollerato dall’autorità.Nell’ VIII secolo l’atelier del monastero di San Vincenzo in Volturno è una grande re-

altà produttiva. In castelli e insediamenti rurali la lavora-zione dell’osso e del corno è attestata, ad esempio, nel castrum di età gota di Monte Barro (con metallurgia, produzione tessile, piccola oreficeria), nell’insediamento rurale longobardo di Mombello Monferrato (con tessitura), a Torcello (con produzione di vetro). Nel castello bizantino di S. Anto-nino di Perti la fabbricazione di oggetti in osso e corno è abbinata alla tessitura, alla metallurgia e al riciclo. I resti di semilavo-rati sono attribuiti a produzioni a scala lo-cale o regionale, condotte da artigiani nor-malmente applicati ad altre mansioni, che operavano nei tempi morti, come nell’in-sediamento agricolo di Miranduolo (VIII secolo) (fig. 12), in Toscana, dove si eserci-tavano la metallurgia e altre attività, mentre la lavorazione del corno era accessoria. Anche nel resto d’Europa la lavorazione dell’osso e del corno è diffusa o in grandi opifici specializzati o, altre volte, è secon-daria ad altre produzioni: nel V-VI secolo oggetti in questi materiali si lavoravano in Svezia a Helgo, e in Slovenia a Kranje e nel castello di Vranje, sede di un comples-so vescovile, con edifici destinati a queste manifatture, delle quali restano strumenti e semilavorati in numero tale da dimostrare una produzione intensa. Nel VI secolo l’artigianato dell’osso e del corno si pratica a Southampton, nell’Ham-pshire, a Dorestad in Olanda, a Munster nell’area del Renania settentrionale, in Westfalia, a Cekanov in Polonia; tra VI-VII è attiva una bottega a Lavant (Au-stria), centro vescovile tardoantico / alto-medievale. A Meuse-Huy, in Belgio, sono stati trovati semilavorati di pettini e di altri manufatti all’interno di due Grubenhäuser (VI-VII secolo), utilizzate a magazzino e a

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bottega; a West Stow nel Suffolk la com-posizione di pettini di forme diverse dimo-stra che oggetti differenti venivano prodot-ti nello stesso opificio. Un congruo numero di semilavorati (con corna e ossa già predisposte al taglio) distin-gue botteghe scavate a Ingersheim e a Lau-da-Konigshofen, nei territori merovingi. In Inghilterra la certezza di botteghe pro-fessionali, in base al numero di semilavorati e alla quantità di materia prima conserva-ta, si ha solo nelle città commerciali e sedi amministrative: Market Hall/Manchester, Colchester, Londra, York, mentre in Sviz-zera ciò si rileva ad Augst.Un artigianato diffuso, ma parcellizzato di-stingue i villaggi rurali di Mombello Mon-ferrato (fig. 7), in Piemonte e di Feddersen Wierde (fino al V secolo d.C.) (fig. 15), Haithabu (da VIII-IX), Elisenhoff (VIII-IX), nella Germania del nord.A Feddersen Wierde semilavorati, mate-riali e oggetti in osso finiti, sono, come ad Haithabu, molto abbondanti, la lavorazio-ne è concentrata in due areali (con case) che si datano al terzo quarto del V secolo. La quantità di reperti (1.300 tra ossa e cor-no, con presenza di avorio e di grandi cor-na) indica la fabbricazione di strumenti per modellare ceramica, per lavorare legno, per la caccia e la pesca, o per realizzare giochi e strumenti musicali. Questa lavorazione è secondaria ad altre attività (allevamento del bestiame, agricoltura, lavorazione del cuoio, del legno, metallurgia), in un conte-sto di buon livello sociale, organizzato ge-rarchicamente. Nella fattoria molti utensili sono fabbricati, per loro uso, dagli abitanti, abili a praticare lavorazioni diverse (metalli e legno), part time in aggiunta alle attivi-tà agricole, infatti non è documentato uno specifico sito produttivo. Una situazione

simile caratterizza la lavorazione dei pet-tini a Haithabu (da VIII-IX secolo) e a Elisenhoff (al confine con la Sassonia, VII-VIII secolo).

Bibliografia

Storia degli studi, indirizzi di ricerca e cro-notipologia: Petitjean 1995; De Mar-chi 2006; Giostra 2007; Ashby 2009; De Vingo 2009; Koch 2011; Giostra 2012; De Vanna 2014. Materiali, cicli di lavorazione e strumenti: Nastasi, Vaj 1978; Beal 1983; Beal 1984; MacGre-gor 1985; Kokabi 1996; Bazzanella 1997; Bianchi 1999; De Vingo 2009. Botteghe e artigiani: Ulbricht 1978; Coutts, Hodgess, Mitchell, Riddler 2001; Mannoni, Murialdo 2001; Ricci 2001; Valenti 2004; De Marchi 2010; Struckmeyer 2011; De Marchi 2014; De Vanna 2014. Riferimenti ai ritrova-menti e alle immagini: Volbach 1968; Paulsen Schach Dorges 1978; Ahuma-da Silva 1990; Cavada 1997; Possenti 1999; Menotti 2003; Il castello di Mi-randuolo 2005; Nardini, Valenti 2005; Paroli, Ricci 2005; De Marchi 2007; I Longobardi in Monferrato 2007; Miche-letto 2007; la fig. 3 a proviene dall’Archi-vio fotografico della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Lombardia.

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introduzione

La scarsità di documenti iconografici rife-riti all’abbigliamento in epoca longobarda rende particolarmente complicato, ma allo stesso tempo molto interessante, il lavoro di ricerca, di studio e la successiva speri-mentazione, per cercare di dare un’imma-gine il più veritiera possibile di come si ab-bigliavano i Longobardi che si stabilirono sul nostro territorio.I rinvenimenti archeologici di manufatti in tessuto e oggetti in materiale organico, in Italia, sono ancora relativamente scarsi, anche a causa dell’acidità del terreno che corrode i materiali organici, al contrario di quanto avviene nelle torbiere e nelle aree paludose del nord-Europa, che permetto-no una migliore conservazione. In Italia molti tessuti sono pervenuti in frammenti, per la maggior parte dei casi, conservatisi mineralizzati perché deposti nelle sepolture vicino a oggetti in metallo.Tuttavia partendo dai dati archeologici, generalmente riferibili al VI-VII secolo, e

tessitura e abbigliamento in ambito longobardoStudio, ricerca, sperimentazione

integrandoli con le testimonianze storiche e i rari documenti iconografici è possibile identificare un abbigliamento “tipo”, che avrebbe potuto essere abbastanza comune alle genti di cultura longobarda insediate in Italia settentrionale e centromeridionale a partire dagli anni 568/569 e 571, a seconda delle regioni. Il percorso da seguire, per cercare di rico-struire un abito antico, ha inizio con l’ana-lisi e lo studio dei filati impiegati all’epoca, dei colori e delle tinture ricavati da sostan-ze per lo più vegetali e, per quanto con-cerne l’opera di tessitura, dalle peculiarità dell’intreccio (trame) osservate al micro-scopio elettronico. Ben più complessa è, invece, la ricostruzio-ne dei ‘modelli sartoriali’, la loro forma e il loro taglio, talvolta completati da ricami e bordure decorate. Occorre, infine, sottolineare che il costume proprio agli abitanti della Penisola, di tra-dizione ‘romano-bizantina’, è stato, specie per le classi alte e con il procedere dei de-cenni, ampiamente adottato dalle popola-

Cristiano BrandoliniLibero professionista

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zioni di cultura longobarda, sia nei territori settentrionali, la Langobardia Maior, sia nelle regioni meridionali, la Langobardia Minor.Questa prima indagine sull’“abito” di tradi-zione longobarda, si è avvalsa oltre che dei dati archeologici, delle pur scarse testimo-nianze iconografiche e di confronti coevi attestati oltralpe, provenienti da contesti scandinavi e sassoni.

i filati e le tinture

Nel VI-VII secolo i filati utilizzati per tes-sere erano la canapa, il lino e la lana, i quali potevano essere impiegati con colorazione naturale oppure tinti in una scala cromatica abbastanza ampia.Per la tintura si poteva agire in due modi: tingendo i filati prima della tessitura, op-pure tingendo le pezze di tessuto. Non di-sponendo di abbondanti documenti storici ed archeologici inerenti la tintura dei filati e dei tessuti, ci si è basati su quanto è stato studiato e pubblicato nel resto d’Europa per l’ambito altomedievale. Lo spettro di colori che si poteva ricavare dai vari pig-menti naturali usati per le tinture era molto ampio e variava in base al tipo e alla quan-tità di colorante usato, al fissante chimico che veniva utilizzato prima o dopo il colo-rante, al tipo di acqua locale e al trattamen-to del tessuto una volta colorato. Le tin-te più “brillanti” erano ricavate dal primo bagno, il quale dava i filati o le stoffe più costose e ad esclusivo utilizzo della nobil-tà. Oltre a queste tonalità vi erano varianti più “deboli”, tendenti al pastello, definite di “secondo bagno”, le quali erano utilizzate dai ceti più bassi.

i tessuti

Per quanto concerne lo studio delle stoffe, gli scarsi ma importanti dati archeologici costituiti da frammenti di tessuto conser-vatisi in contesti funerari ci forniscono un chiaro panorama delle trame elaborate a telaio: Batavia 2/2, Tela, Spina, Spina a 3 e in rari casi Losanga o Diamante (fig. 1).È, inoltre, documentato su modesta sca-la l’utilizzo della seta, la cui preziosità era appannaggio esclusivo delle aristocrazie e della corte, che la importavano dai territori della Penisola rimasti sotto il controllo dei Bizantini o direttamente da Costantinopoli.

L’abbigliamento longobardo: analisi delle fonti storiche e dei dati archeo-logici

Per identificare la forma riferibile ad un abbigliamento “tipo” longobardo, un punto di partenza può essere l’analisi di quanto riportato da Paolo Diacono (Hist. Lang., IV-22):

«Siquidem cervicem usque ad occipitium radentes nudabant, capillos a facie usque ad os dimissos habentes, quos in utramque partem in frontis discrimine dividebant. Vestimenta vero eis erant laxa et maxime linea, qualia Anglisaxones habere solent, ornata institis latioribus vario colore con-textis. Calcei vero eis erant usque ad sum-mum pollicem pene aperti et alternatim laqueis corrigiarum retenti. Postea vero coeperunt hosis uti, super quas equitantes tubrugos birreos mittebant. Sed hoc de Romanorum consuetudine traxerant».

Non si fa menzione dell’abbigliamento femminile, ma solo di quello maschile. Si inizia dalla descrizione della capigliatu-ra: gli uomini si radevano il collo fino alla

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Fig. 1 (sopra). Tavo-la tipologica delle trame dei tessuti (elaborazione C. Brandolini)

Fig. 2 (a sinistra). Telaio a tavolette montato rinve-nuto nella nave funeraria vichinga della regina Asa (da Giostra 2011)

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nuca, e portavano sul viso i capelli cadenti su entrambe le gote fino alla bocca, divisi a metà della fronte con una scriminatura. Indossavano, poi, vestiti larghi, il più delle volte di lino, secondo l’usanza anglosasso-ne, ornati con ampi bordi e tessuti in di-versi colori.Ai piedi portavano calzari semiaperti fino alla punta dell’alluce e stretti da lacci di cuoio incrociati. Successivamente, adot-tarono le hose (uose), calzettoni o fasce di lana che venivano indossate sopra le bra-ghe, le quali solitamente fasciavano il pol-paccio dalla caviglia fin sotto il ginocchio. Paolo Diacono tratta dell’abbigliamento longobardo tradizionale; è, però, ovvio che col trascorre dei decenni (e a seconda del-le “classi” sociali) l’abito abbia subito evo-luzioni e profonde modifiche, anche per l’adeguamento alla moda bizantina e, più generalmente, locale. Per quanto attiene la descrizione, rimane da decifrare cosa esattamente lo storico intendesse per tubrugos birreos, che veniva indossato quando si andava a cavallo.Le ipotesi possono essere tre: 1. Per l’antico etimologista Papias il Lom-bardo (XI secolo) si trattava i «quod tibias, braccasque tegant», ovvero una ghetta che, indossata, copriva parzialmente la caviglia, calzari o scarponcini, e che probabilmente giungeva fin sotto il ginocchio, a parere di chi scrive è probabile che potesse essere an-che indossata sopra le hose. 2. Secondo il filologo francese Charles Du Cange (1710) trattasi di «laneas ocreas ocreis, aut calceis superimponi solitas», ge-nericamente da intendersi come una ghet-ta in panno di lana. Sostanzialmente Du Cange conferma la stessa interpretazione di Papias. 3. Lo storico Angelo Fumagalli (1792),

monaco cistercense, si discosta dai primi due, dando un’interpretazione diversa «[...] sarei d’avviso che fossero come una corta gonna di color rosso, birreus chiamato da-gli antichi, la quale dalla cintura delle bra-che scendesse a coprir parte ancora delle calze.»A sfavore di questa interpretazione, però, depone il fatto che nell’iconografia non vi siano rappresentazioni di un indumento simile indossato dai Longobardi, e anche analizzando il costume anglosassone non si ritrova nulla di paragonabile. Sono in-vece più plausibili le letture di Papias e Du Cange, ovvero una ghetta in lana, formata da un drappo rettangolare o da un tubolare di stoffa avvolto attorno al polpaccio, come riportato anche da Isidoro di Siviglia (XIX, 34, 5), il quale definiva genericamente questo tipo di protezione delle gambe col nome di ocreae, ghette in lana di colore ros-so utilizzate dalla cavalleria romana.

Indubbiamente il colore e la trama delle stoffe utilizzate per realizzare tuniche e braghe era un segno distintivo del rango di appartenenza, così come la ricchezza dei decori applicati sul vestiario (bordure colo-rate, passamanerie realizzate a tavolette e ricami).Mancano però quasi totalmente elementi archeologici riguardo questi aspetti. Mal-grado i fili lamellari d’oro (tracce della presenza di broccati aurei) si siano con-servati in cospicue quantità nelle sepoltu-re e, talvolta, in condizioni tali da poterne ricostruire esattamente il motivo decora-tivo geometrico, non abbiamo alcun dato archeologico riguardante il colore e la tipo-logia del filato utilizzato. Grazie, comun-que, alla ricerca sui resti tessili e sui relativi ornamenti, oggi sappiamo che non si aveva

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solamente l’abitudine di ornare il vestiario con ampi bordi colorati, come descritto da Paolo Diacono, ma che si impiegavano anche passamanerie tessute con telaio a tavolette, in alcuni casi creando il brocca-to aureo, oppure ricamando direttamente sulla stoffa.

La tessitura con il metodo a tavolette

Il metodo di tessitura con le tavolette è antichissimo: è già conosciuto per l’epoca preistorica, come documentato dai resti di tessuto rinvenuti in vari scavi effettuati in contesti abitativi.In Italia i resti archeologici riferiti a questa tipologia di tessitura riguardano solamente i filamenti di broccato aureo e le tavolet-te per tessere, ritrovati finora in contesti archeologici differenti e distanti tra loro. L’uso delle tavolette nella fabbricazione del broccato aureo è, pertanto, solo ipotetica anche se abbastanza plausibile, soprattutto se si prendono a confronto le tecniche di tessitura “etniche”, o tradizionali, praticate ancora oggi. Fino ad ora, in Italia, non sono stati ritro-vati telai a tavolette o frammenti di essi, quindi per uno studio ricostruttivo si de-vono necessariamente prendere in esame alcuni rinvenimenti nord-europei, ottima-mente conservati.Il tessuto e le tavolette più antiche e meglio conservate giunte fino a noi sono quelle re-lazionate al telaio ritrovato ancora montato nella nave funeraria vichinga della regina Asa ad Oseberg (Norvegia), risalente alla metà del IX sec. d.C. (fig. 2). Sono moltissime le tavolette rinvenute in ulteriori scavi archeologici europei, per ci-tarne alcune: 1) Dejbjerg Bog (Danimarca) dell’età del ferro; 2) Wroxeter (Gran Breta-

gna) di II sec. d.C.; 3) Alchester (Gran Bretagna) di età Romana; 4) Mann-heim (Germania) di VI-VII sec. d.C.; 5-6) Bruchsal, Bischofsburg, Sülchen, Wehringen (Germania) di VI-VII sec. d.C.; 7) Starom Meste (Rep. Ceca) di IX sec. d.C.; 8) Noli in Liguria di VIII-IX sec. d.C. (fig. 3).Le prime testimonianze scritte riguardo le tecniche di tessitura a tavolette risal-gono ad epoca medievale. Una delle più antiche è sicuramente quella contenuta nell’Edda poetica di Snorri Sturluson, una raccolta di canti in norreno del XIII se-colo, in cui troviamo un verso che dice:

«Hunskar meyjar / paer’s hlada spjoldum / ok gøra gullfargt»

“Fanciulle unne che tessono fasce d’oro con le tavolette”

L’Edda poetica è il frutto di una lunga tradizione orale, che dopo secoli è stata trascritta. Secondo C. Giostra e P. Anelli (2012), generalmente il termine spjoldum viene messo in relazione con la tessitura o con il telaio, poiché ancor oggi in Islan-da si usa il termine spjald per indicare la tessitura a tavolette (spjaldvefnadur); la parola spelte ricorre anche in poemi alto-tedeschi di XIII e XIV secolo.Tra le popolazioni germaniche e nordi-che, la persistenza del metodo di tessitu-ra delle bordure a tavolette è ben docu-mentato, oltre che a Oseberg (Norvegia), in territori franchi e alamanni (ad es. Mannheim e Wehringen), e anglosassoni (Berinsfield, Oxfordshire, IV secolo d.C). Tornando al verso dell’Edda sopracitato, esistevano diversi tipi di fasce decorative policrome: nelle bordure si poteva inseri-re un sottilissimo filo d’oro (producendo

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Fig. 3 (in alto a sini-stra). Tavolette da tessitura (da Giostra, anelli 2012)

Fig. 4 (in alto a destra). I Libri d’ore, Bodleian Library di Oxford (ms Douce 144, fol. 19, da Gio-stra, anelli 2012)

Fig. 5 (a sinistra). Alcuni esempi di bordure realizzate a tavolette in solo filato (lino, lana, seta), (rielaborazio-ni di C. Brandolini, da Giostra, anelli 2012)

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il broccato), ma con le medesime tavolette se ne potevano fabbricare anche di meno preziose, in lana, lino o seta. Per realizza-re tali bordure raramente ci si avvaleva del supporto di un telaio, solitamente venivano utilizzate solo le tavolette, fissando ad un palo, albero o altro, l’estremità con il filato, mentre l’altra estremità con la passamane-ria veniva fissata alla cinta di chi tesseva. Solo attorno al XV secolo, per motivi pra-tici, fu inventato un apposito strumento di lavoro, una sorta di telaio sul quale montare le tavolette e tenere in tensione sia il filato che la passamaneria realizzata. Testimo-nianze iconografiche di tessitura a tavolette sono contenute in due Libri d’Ore del 1407 e del 1420-30, conservati il primo presso la Bodleian Library di Oxford (fig. 4) e il secondo presso l’Österreichische National-bibliothek di Vienna, oppure nell’arazzo Les perfections de la Vierge del 1530 conser-vato al Centre des monuments nationaux a Reims.

La tessitura a tavolette permetteva svariati tipi di lavorazione (fig. 5), eseguita con o senza liccio, mentre le stesse tavolette po-tevano variare per forma (da quadrata a quattro fori, a quadrata a due fori, a trian-golare a tre fori o esagonale a sei fori), per dimensione (da 3-4 cm a 10 cm di lato), e per quantità impiegata durante la manifat-tura, da 10 a 20 tavolette ed oltre.

i broccati aurei

Come già accennato, si conservano diverse tracce di broccato aureo rinvenute in con-testi tombali longobardi. In alcuni casi il filo aureo che componeva il broccato si è mantenuto in ottime condizioni fornendo una chiara lettura del decoro originario, in

altri casi, ad esempio la tomba 12 di Trezzo sull’Adda, i fili aurei, al momento dell’ana-lisi, si presentavano sotto forma di una pic-cola matassa che rendeva difficile la lettura della decorazione.Si deve a M. Rottoli (2012) la distinzione del tipo di decoro in relazione alla tecnica di lavorazione. Ad esempio, citando qua-si testualmente lo studioso, il filo stretto è utilizzato per ottenere una decorazione armonica, detta a “filo alto”, per l’altezza costante e perché i fili conservavano anda-menti consecutivi della stessa altezza. La combinazione dell’andamento dei fili aurei in trama e di quelli tessili in ordito pro-duceva un disegno a zig-zag con tre linee parallele. La lavorazione denominata a “filo basso” è poco documentata, si distinguerebbe però da quella a “filo alto” perché la sottile lami-netta in oro (il filo) conserva sempre pieghe schiacciate e piatte. Un elemento distintivo che merita ulteriori analisi, per il quale si può solo supporre un disegno finale sempre a zig-zag. La decorazione “a scala” si ottie-ne con un filo aureo di larghezza media variabile, ma superiore ai fili già ricordati. I frammenti conservati, osserva M. Rottoli, presentano andamento con sequenze a sca-la, il cui effetto è dato solo dalle laminette auree e non dalla combinazione tra queste e il tessile di base. In sostanza, come ben si deduce dal decoro a losanga o a losanga e scala, sono i resti visibili del motivo decorativo a fornire in-dicazioni sulla tecnica, le analisi al micro-scopio elettronico possono fornire ulteriori indicazioni relative per lo più al prevalere di fili stretti in decori semplici e di fili più larghi in decori di dimensioni maggiori, o anche alla costanza con cui si ripetono le ripiegature.

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Fig. 6 (a sinistra). Frammento di “ricamo basso” effettuato con filo largo (da rottoli 2012)

Fig. 7 (sotto). Telaio a tavolette con alcuni tipi di broccato, b) realizzazione della bordura a broccato (da Giostra, anelli 2012)

Fig. 8 (nella pagina seguente, in alto). a) Ricostruzione dello schema di tessitura dei frammenti di broccato rinvenuti a Mombello Monferrato, tomba 10; b) tipologie di broccato “ad altezza costante” provenienti: dalle tombe 2 di Trezzo/via delle Racche, e 12 di Trezzo/San Martino, della sepoltura del battistero di Mantova (da Giostra, anelli 2012)

Fig. 9 (nella pagina seguente, in basso). Tipologie di broc-cato “ad altezza variabile”: reperti provenienti dalle se-polture di Trezzo/via delle Racche tombe 4 e 5, nell’ordine: reperto originale, studio dello schema, realizzazione della bordura fronte e retro (da Giostra, anelli 2012)

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Le incertezze evidenti, di definizione e tec-nica, derivano per il materiale italiano dal cattivo stato di conservazione dei fili per-venuti per lo più in lacerti tanto corti da impedire una lettura esauriente dei decori e delle tecniche utilizzate per ottenerli. I filamenti aurei rinvenuti nelle sepolture di Trezzo sull’Adda, Mombello Monferrato e Mantova sono stati oggetto di uno studio, pubblicato da C. Giostra, P. Anelli e M. Rottoli nel 2012, per decifrare le piegature e il decoro originale, cercando poi di ripro-durre tramite un moderno telaio a tavolette la passamaneria a broccato così come do-veva apparire sulle tuniche indossate dai defunti (figg. 7-9). La scelta di realizzare la base tessile con un filato di colore blu non è stata suggerita da un dato archeologico, ma corrisponde ad un escamotage per rendere più visibile il contrasto tra l’ornamento in oro e la passamaneria di base.

Analisi iconografica e ricostruzione grafica degli abbigliamenti

I dati archeologici e i pochi resti conser-vati ci possono solamente far ipotizzare la presenza della tunica o delle braghe. Le posizioni delle bande decorate sono rico-struibili, invece, dalla posizione sul corpo all’atto dell’apertura della sepoltura. Un’analisi iconografica può aiutarci a chia-rire le nostre conoscenze. Tra i riferimenti iconografici di VI-VII secolo da prendere in considerazione vi sono sicuramente:• il piatto di Isola Rizza nei pressi di Ve-rona, in argento di produzione bizantina, datato tra la fine del V e gli inizi del VI secolo, sul quale sono raffigurati due guer-rieri, probabilmente Goti o Longobardi, riccamente abbigliati;

• la lamina decorata del frontale d’elmo di Agilulfo, rinvenuta nei pressi di Pistoia e datata tra la fine del VI e gli inizi del VII secolo sulla quale, oltre al re, compaiono quattro personaggi il cui abbigliamento è chiaramente leggibile. • l’anello sigillo di Rodchis, di VII se-colo, rinvenuto a Trezzo sull’Adda, dove è stato minuziosamente raffigurato il perso-naggio con il suo abito;• l’avorio Barberini, opera costantinopo-litana datata alla prima metà del VI seco-lo, che reca, nella porzione di sinistra della placca centrale e in quella di sinistra del registro inferiore, alcuni “barbari”, chiara-mente non di cultura bizantina. Si tratta, con molta probabilità, di Persiani o Sciiti, ma è comunque interessante prendere in considerazione il tipo di abbigliamento di questi personaggi, perché risulta pressoché identico a quello dei due guerrieri raffigu-rati sul piatto di Isola Rizza.I quattro manufatti, di cui due di produ-zione “longobarda” (lamina di Agilulfo e anello di Rodchis) e due bizantina (piatto di Isola Rizza e avorio Barberini), sono ac-comunati dai caratteri dell’abbigliamento dei personaggi raffigurati, un dato questo estremamente interessante per definire un ipotetico “taglio sartoriale” dei vestiti lon-gobardi maschili di rappresentanza. I dati in nostro possesso forniscono, quindi, un panorama abbastanza esaustivo di come doveva essere l’abbigliamento maschile, ma allo stesso tempo non ci forniscono dati sufficienti per quanto concerne l’abbiglia-mento femminile, del quale sono troppo rare le rappresentazioni iconografiche, per lo più di orizzonte culturale bizantino.Meno numerose le informazioni relative alle sepolture femminili, che per donne ap-partenenti all’alta aristocrazia si possono in

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qualche misura confrontare con l’abbiglia-mento della regina merovingia Arnegonda (alla quale si farà cenno più avanti), indub-biamente unico per la ricchezza dei gioielli e dei tessuti utilizzati. Un dato certo è, però, che in Italia sono fi-nora pochissimi i resti di tessuto analizzati, mentre la ricostruzione delle vesti (tuniche, peplo, mantello, altro) è operata per lo più in base alla disposizione dei complementi di abbigliamento (fibule, fibbie da cintura, resti di broccato, reggicalze e fibbie da cal-zatura). Restano, pertanto, del tutto plau-sibili le ricostruzioni operate da Luisella Pejrani Baricco sulla base dei ritrovamenti funerari femminili del Piemonte (fig. 16) e da Silvia Lusuardi Siena (1989) dell’abito della nobile signora sepolta nella t. 17 di Nocera Umbra, attribuita alla fine del VI secolo, con tunica guarnita alla scollatura da una fascia di broccato. La donna doveva essere, in vita, piuttosto ricca perché è ac-compagnata nell’oltretomba da una lussuo-sa sedia plicatile in ferro ageminato, brocca e bacile in bronzo fuso bizantini e ben due corni potori in vetro (fig. 15). Tale ricchezza può essere immaginata per numerose altre donne deposte a Cividale, Nocera Umbra e Castel Trosino, Spilamberto, pur mancan-do al momento studi mirati su questo ar-gomento tessile ed essendo ancora in corso le pubblicazioni degli ultimi scavi.

La veste dei guerrieri di isola Rizza

Malgrado l’incertezza nell’identificazione dei personaggi (goti o longobardi) uccisi da un cavaliere bizantino, l’accurata e det-tagliata incisione delle figure del piatto di Isola Rizza mostra con chiarezza due tuni-che e due braghe. Qui di seguito (figg. 10-11) sono presentate la rielaborazione grafica

e l’ipotesi ricostruttiva degli abbigliamenti, caratterizzati da decorazioni a ricamo o a bordura, con ricamo sovrapposto.

i Longobardi che celebrano Agilulfo

La lamina di Agilulfo, oltre a raffigurare il re seduto in trono, affiancato da due arma-ti sormontati da altrettante vittorie alate, rappresenta anche quattro personaggi, due in atteggiamento di reverenza verso il so-vrano e due che porgono doni. Questi quattro personaggi indossano tu-nica e braghe probabilmente caratterizzate da una bordura in tessuto tinta unita, senza alcuna decorazione a ricamo. Non si rileva ricamo sulle bordure, ma poiché la lami-na ha dimensioni relativamente ridotte, i particolari minuscoli sarebbero stati im-possibili da incidere, pertanto è lecito ipo-tizzare almeno la presenza di una semplice impuntura.

La veste di Rodchis

Anche se rappresentato in modo stilizza-to, è possibile cercare di ricostruire l’abbi-gliamento del nobile Rodchis. Il motivo decorativo della tunica di Rodchis pre-senta analogie con quello della tunica del guerriero longobardo raffigurato sul piatto di Isola Rizza, quindi si può inserire nella restituzione grafica della tunica del nobile una decorazione a ricamo o a bordura in tessuto tinta unita con ricamo sovrapposto (fig. 13).

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Fig. 10. Piatto dell’Isola Rizza (Vr): ipotesi ricostruttiva dell’abbiglia-mento con decoro a fascia e ricamo, del personaggio a terra (rielabora-zione di C. Brandolini da Bolla 1999)

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Fig. 11. Piatto dell’Isola Rizza: ipotesi ricostruttiva dell’abbigliamento con de-coro a fascia e ricamo del personaggio trafitto dalla lancia (rielaborazione di C. Brandolini da Bolla 1999)

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Fig. 12. Frontale d’elmo della Val di Nievole ricostruzione dell’abbigliamento dei personaggi che affiancano re Agilulfo, all’atto della sua elezione (?) (rielabora-zione di C. Brandolini da von hessen 1981)

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Fig. 13. Decoro in broccato della tu-nica di Rodchis, dall’anello di Trezzo, Via della Racche t. 2 (rielaborazione di C. Brandolini da roffia 1986)

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Fig. 14. Rilievo dell’abbigliamento dei tre barbari raffigurati nella tavola eburnea Barberini (rielabo-razione C. Brandolini da KitzinGer, anDaloro 2005)

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i barbari di Costantinopoli

I tre personaggi dell’avorio Barberini, ca-ratterizzati da una lunga barba, indossa-no una tunica corta e braghe decorate, sul capo portano il berretto frigio e ai piedi scarpe chiuse. Per quanto concerne le tu-niche e le braghe, hanno buoni confronti nelle tuniche indossate dai due personaggi del piatto di Isola Rizza. Sull’abito sembre-rebbe presente una decorazione a bordura in tessuto tinta unita, con decoro o impun-tura sui margini (fig. 14).

La ricca nobildonna di Nocera Umbra

Una sepoltura femminile tra le più signifi-cative e ricche nel panorama italiano è si-curamente la tomba 17 di Nocera Umbra, datata alla fine del VI sec. d.C. (Lusuardi Siena 1989). Dai dati archeologici è emer-so che il decoro della sovra-tunica era in broccato aureo e doveva essere intessuto in una bordura realizzata a tavolette (fig. 15).

Figg. 15 e 16. Ricostruzioni dell’ab-bigliamento della nobildonna di Nocera Umbra, tomba 17 (15: rielaborazione da lusuarDi siena 1989) e di una donna longobarda in base ai ritrovamenti piemontesi (16: da pejrani Baricco 2004)

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La regina Arnegonda

La sepoltura della regina merovingia Ar-negonda (deceduta intorno al 580), indivi-duata a Saint-Denis presso Parigi nel 1959 e identificata grazie al suo anello-sigillo con monogramma, è di enorme importanza per le nostre conoscenze sull’abbigliamento di altissimo rango in epoca altomedievale, soprattutto perché il suo ricchissimo cor-redo è stato fatto oggetto di minuziose ri-cerche e analisi di laboratorio prolungatesi per molti anni e realizzate da una ampia squadra di esperti (coordinata da P. Périn).

Lo studio della tomba della regina è stato, per decenni, uno dei principali punti di ri-ferimento per l’individuazione del vestiario dei più alti ceti sociali europei, e anche un esempio metodologico delle potenzialità dell’analisi integrata dei resti degli elemen-ti tessili e metallici di abbigliamento. Uno dei risultati più importanti di queste ri-cerche multidisciplinari è stata appunto la ricostruzione dettagliata dei capi di abbi-gliamento della regina, della loro funzione e della loro interazione con gli accessori in materiale non organico (fig. 17).

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Fig. 17. L’abbi-gliamento della regina Arnegon-da (da Wamers, périn 2012, con dettaglio di un frammento di broccato della manica)

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L’Alto MedioevoArtigiani e organizzazione manifatturiera

a cura di Michelle Beghelli e P. Marina De Marchi

Finito di stampare nel maggio 2014presso Atena.net Srl, Grisignano di Zocco (VI)

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