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L’alchimia delle riforme L’Umanitaria di Milano di Maurizio Ronconi Solo recentemente, grazie ad una prima serie di sondaggi ben suggellata da un attento stu- dio di Enrico Deeleva sulla figura di Augusto Osimo, il “caso” Umanitaria — già segnala- to molti anni fa all’attenzione degli storici da Leo Valiani nella I edizione delle sue Que- stioni di storia del socialismo — si va infine sottraendo alla occasionale letteratura cele- brativa cui pareva destinato. Potrebbe anche trattarsi di qualcosa di più di un isolato tassello di storia del socialismo che torna nella sua collocazione naturale: giacché se è vero che la “sfortuna” storiogra- fica dell’ente milanese è in fondo connessa — non meno che all’immagine oleografica e francamente retorica che esso ha voluto tra- mandare di sé — alla consuetudine lunga- mente perpetuatasi nella letteratura storica a redarre sul conto del movimento socialista puntigliose denunce delle “occasioni perdu- te” piuttosto che indagini sistematiche sulla sua fisionomia, l’attuale riesumazione può altresì costituire lo stimolo per una rilettura dell’esperienza del riformismo socialista iux- ta sua principia, e non già in base a ciò che esso avrebbe dovuto essere. Ciò è valido, naturalmente, per qualunque altra istituzione socialista di cui si intrapren- da lo studio; e tuttavia, se si conviene che la storia del movimento socialista e delle sue or- ganizzazioni non è altra cosa da quella dell’I- talia liberale e del suo sistema politico e isti- tuzionale, si può ben ammettere che la vicen- da deH’Umanitaria ha per certi aspetti l’effi- cacia del paradigma, sia per la centralità che in essa assume il tema nevralgico delle rifor- me, sia per la singolare evidenza con cui que- st’ultimo si collega, fino a compenetrarvisi, all’altro grande motivo emergente nel dibat- tito politico dell’Italia giolittiana, quello del rapporto tra forma istituzionale dello stato liberale e fenomeni di “corporativizzazione” della società, ossia al problema della realiz- zazione di un sistema organico di relazioni industriali parzialmente integrato nell’appa- rato amministrativo statale. L’Umanitaria è, anche per questi motivi, uno degli osservatori più favorevoli per co- gliere la sostanziale metamorfosi dell’oriz- zonte scientifico e culturale sulla quale si fonda il riformismo “democratico-progressi- sta” primonovecentesco; per evidenziare, in- nanzitutto, la radicale revisione dei principi che si compie in estesi settori della cultu- ra politica socialista — specie in quelli più aperti al confronto con le scienze sociali e con l’economia politica — rivelata sia dalla crescente fortuna del mito della “democrazia Questa ricerca è stata condotta nel quadro del programma Cnr su“Il partito socialista italiano: struttura, organizza- zione, ideologia dalle origini al fascismo”, diretto da Mario G. Rossi. Italia contemporanea”, marzo 1986, 162

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L’alchimia delle riformeL’Umanitaria di Milano

di Maurizio Ronconi

Solo recentemente, grazie ad una prima serie di sondaggi ben suggellata da un attento stu­dio di Enrico Deeleva sulla figura di Augusto Osimo, il “caso” Umanitaria — già segnala­to molti anni fa all’attenzione degli storici da Leo Valiani nella I edizione delle sue Que­stioni di storia del socialismo — si va infine sottraendo alla occasionale letteratura cele­brativa cui pareva destinato.

Potrebbe anche trattarsi di qualcosa di più di un isolato tassello di storia del socialismo che torna nella sua collocazione naturale: giacché se è vero che la “sfortuna” storiogra­fica dell’ente milanese è in fondo connessa — non meno che all’immagine oleografica e francamente retorica che esso ha voluto tra­mandare di sé — alla consuetudine lunga­mente perpetuatasi nella letteratura storica a redarre sul conto del movimento socialista puntigliose denunce delle “occasioni perdu­te” piuttosto che indagini sistematiche sulla sua fisionomia, l’attuale riesumazione può altresì costituire lo stimolo per una rilettura dell’esperienza del riformismo socialista iux- ta sua principia, e non già in base a ciò che esso avrebbe dovuto essere.

Ciò è valido, naturalmente, per qualunque altra istituzione socialista di cui si intrapren­da lo studio; e tuttavia, se si conviene che la

storia del movimento socialista e delle sue or­ganizzazioni non è altra cosa da quella dell’I­talia liberale e del suo sistema politico e isti­tuzionale, si può ben ammettere che la vicen­da deH’Umanitaria ha per certi aspetti l’effi­cacia del paradigma, sia per la centralità che in essa assume il tema nevralgico delle rifor­me, sia per la singolare evidenza con cui que­st’ultimo si collega, fino a compenetrarvisi, all’altro grande motivo emergente nel dibat­tito politico dell’Italia giolittiana, quello del rapporto tra forma istituzionale dello stato liberale e fenomeni di “corporativizzazione” della società, ossia al problema della realiz­zazione di un sistema organico di relazioni industriali parzialmente integrato nell’appa­rato amministrativo statale.

L’Umanitaria è, anche per questi motivi, uno degli osservatori più favorevoli per co­gliere la sostanziale metamorfosi dell’oriz­zonte scientifico e culturale sulla quale si fonda il riformismo “democratico-progressi­sta” primonovecentesco; per evidenziare, in­nanzitutto, la radicale revisione dei principi che si compie in estesi settori della cultu­ra politica socialista — specie in quelli più aperti al confronto con le scienze sociali e con l’economia politica — rivelata sia dalla crescente fortuna del mito della “democrazia

Questa ricerca è stata condotta nel quadro del programma Cnr su“Il partito socialista italiano: struttura, organizza­zione, ideologia dalle origini al fascismo”, diretto da Mario G. Rossi.

Italia contemporanea”, marzo 1986, 162

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industriale”, sia dal progressivo prevalere, come punti cardinali nel firmamento ideolo­gico, dello “sperimentalismo” belga nei con­fronti del “giacobinismo” francese, e so­prattutto del modello anglosassone rispetto al “dottrinarismo” della SPD; per rimarca­re, altresì, la liaison che corre tra questo “socialismo dal volto urbano”, tecnicistico e fattivo, più propenso a promettere benessere e provvidenze che non liberazione ed egua­glianza, e quel progetto “burocratico” di go­verno giolittiano ove la pratica riformista non è esclusivamente piegata ad un generico programma di controllo e integrazione so­ciale, ma è nel contempo attiva revisione delle funzioni dell’apparato politico-istitu­zionale, via via realizzatasi in quelle ammi­nistrazioni parallele per enti e per collegi che, a ben vedere, costituiscono la reale apo­stasia del riformismo giolittiano rispetto ai classici meccanismi amministrativi dello Sta­to liberale.

Ciò che rende emblematico e storicamente rilevante il “caso” Umanitaria è senz’altro la sua configurazione di “organismo di frontie­ra” tra società civile e Stato: strutturalmente legata, da un lato, all’amministrazione sta­tale, ai suoi organi tecnici e corpi consultivi — “laboratorio sperimentale” del riformi­smo giolittiano — e, dall’altro, tranche es­senziale dell’“universo” socialista; trait d ’u­nion tra una cultura “bassa” — se non pro­priamente “popolare”, certo ideologia dif­fusa, forma mentis collettiva — e la cultura “professionale” degli economisti, dei socio­logi, dei giuristi; luogo d’intersezione e con­fronto di tutta una serie di istanze riformiste cresciute a cavallo tra politica e società: dal socialismo della cattedra luzzattiano all’in­dustrialismo liberaldemocratico dell’am­biente del Politecnico milanese, dal gradua­lismo turatiano alle tentazioni laburiste del­l’apparato sindacale, dal “socialismo gran- de-borghese” della “Riforma sociale” all’ag­gressivo produttivismo del milieu della Boc­coni. Proprio in virtù di questa versatilità,

l’Umanitaria può divenire, nel corso del pe­riodo giolittiano, il conduttore di un flusso ininterrotto di informazioni che dai nuovi centri informali di potere (apparato sindaca­le, tecnocrazia industriale, organizzazioni territoriali a carattere politico, culturale, mutualistico, cooperativistico, ecc.) giunge fino ai vari livelli del sistema politico-ammi­nistrativo, e viceversa; un ruolo che l’istituto milanese svolge con l’ambizione dichiarata di contribuire alla formazione di un sistema articolato di interdipendenze tra le diverse “parti” della società nazionale, garantito da un lato dalla crescente specializzazione e dif­ferenziazione delle istituzioni, dall’altro dal- l’autodisciplinarsi della società secondo uno schema corporativo di organizzazione per grandi interessi settoriali. Del resto, quest’a­spirazione totalizzante — vale a dire l’inten­zione di fornire un modello virtualmente estendibile all’intero complesso delle relazio­ni tra società civile e istituzioni — è con­fermata dall’impegno profuso su di un ar­co singolarmente ampio — almeno rispetto ai compiti assegnati per tradizione a un’O­pera Pia — di problemi politico-amministra­tivi: dal controllo demografico all’inter­vento urbanistico, dall’organizzazione del mercato del lavoro al reclutamento dei qua­dri burocratici, dalla riforma del sistema educativo alla valorizzazione del tempo li­bero.

Tale prospettiva di educazione nazionale — al tempo stesso ipotesi di formazione di un’opinione pubblica e progetto di ricambio della classe dirigente —, intimamente con­nessa all’espansione dei compiti dello Stato ed al ruolo tendenzialmente istituzionale in esso assunto dagli interessi sociali organizza­ti, rende innegabilmente l’Umanitaria una “creatura” della stagione riformista giolit- tiana e della nuova topografia del potere che deriva dalla scoperta del momento dello Sta­to come organizzazione.

È del resto significativo il fatto che, nelle varie pubblicazioni storico-celebrative cura­

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te dairUmanitaria in via autobiografica1, tutto il periodo che va dalla fondazione del­l’istituto — avvenuta nel 1893 — all’aprirsi del nuovo secolo passi sotto la sbrigativa de­finizione de “le origini e i primi difficili pas­si” e venga di seguito liquidato in brevi e la­cunosi accenni. Non è il caso di trasgredire questa tradizione, se non per rilevare come le vicissitudini attraversate dalPUmanitaria nel suo primo decennio di vita — l’interminabile causa intentata dai parenti del fondatore e dalla “Casa benefica per giovani derelitti d’ambo i sessi” di Torino per l’aggiudicazio­ne del patrimonio e, successivamente, lo scioglimento del consiglio d’amministrazio­ne decretato, all’indomani dei moti milanesi del maggio 1898, dal commissario governati­vo gen. Fiorenzo Bava Beccaris2 — giustifi­chino, in effetti, la lunga fase di pressoché totale paralisi operativa, e per accennare di passaggio a quelle caratteristiche originarie dell’istituto che più direttamente si riallaccia­no alla sua successiva attività.

L’impasto ideale da cui l’Umanitaria pren­de corpo discende in linea diretta da una tra­dizione squisitamente milanese di illumini­smo filantropico laico, radicale, massonico sul quale si sovrappone un’impronta di so­cialismo umanitario più ispirato da sugge­stioni letterarie — Hugo, Zola, Tolstoj, Dic­kens, Valera — che guidato da rigore dottri­nario. La fondazione sorge, del resto, per iniziativa di due personaggi emblematici co­me Osvaldo Gnocchi Viani, integralista ma- loniano approdato ad un socialismo sui ge­neris attraverso la non rinnegata esperienza

mazziniana3 e, naturalmente, Prospero Moi- sè Loria, ricco commerciante, israelita, mas­sone, seguace nostrano delle idee di Owen, e munifico devolutore, per volontà testamen­taria, del cospicuo patrimonio accumulato in vita alla erigenda Società Umanitaria, effet­tivamente riconosciuta come Ente morale il 29 giugno 1893, pochi mesi dopo la sua morte4.

Per l’eclettismo che le è congeniale, questa originaria cifra laica e progressista si apre, peraltro, agli apporti ideologici più vari: adotta gli aforismi smilesiani, subisce dichia­ratamente il fascino del Kathedersoziali- smus, accoglie, infine, un pensiero liberale di marca esplicitamente industrialista e ne assi­mila tanto la versione conservatrice — l’“idea liberale”, per intendersi — quanto quella democratica — ancora esemplifican­do: il Circolo liberale suburbano, forte dei vari Salmoiraghi, Miani, Vanzetti, ecc. —; ed è così che, nei primi consigli direttivi dell’i­stituto, i plenipotenziari della libera murato- ria ambrosiana Malachia De Cristoforis, Giovan Battista Pirolini, Luigi De Andreis, ed esponenti d’area democratica o repubbli­cana come Paolo Carcano, Giuseppe Mussi, Angelo Salmoiraghi, Pietro Giuseppe Zavat- tari, convivono con i moderati Emanuele Greppi, Antonio Castiglione, Ernesto De An­geli, e con economisti d’ispirazione luzzattia- na come Ulisse Gobbi e Pietro Manfredi; e, infine, con una pattuglia di socialisti, tra cui spiccano i nomi di Luigi Della Torre, Osvaldo Gnocchi Viani, Giuseppe Croce, Luigi Mai­no, che, se acquista consistenza col passare

1 Cfr. in particolare, L ’opera della Società Umanitaria dalla fondazione ad oggi, 1° maggio 1911, Milano, 1911; L ’Umanitaria e la sua opera, Milano, 1922; La società Umanitaria. Fondazione P.M. Loria. Milano 1893-1963, Mi­lano, 1964.2 Cfr. Società Umanitaria, Rendiconto storico e morale 1891-1903, Milano, 1903.3 Cfr. Osvaldo Gnocchi Viani, Dal Mazzinianesimo al Socialismo, Colle Val D’Elsa, Tip. Meoni, 1893 e Id., Ricordi di un internazionalista, nuova ed. a cura di L. Briguglio, Padova, Antoniana, 1974; cfr. anche Vita e opere di Osval­do Gnocchi Viani, a cura di P. Mantovani, Milano-Verona, Mondadori, 1948.4 Assai scarse le notizie biografiche sul fondatore; per saperne qualcosa non resta che affidarsi a Paolo Valera, Vita intima e aneddotica di Prospero Moisé Loria, fondatore dell’Umanitaria, Milano, Libreria Sociale, 1906.

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degli anni, non giunge mai peraltro, in que­sta prima fase, ad influire in maniera deter­minante sugli indirizzi della Società.

Più che da un progetto ideale, l’Umanita­ria nasce, si potrebbe dire, dalla condensa­zione di un clima ideologico — la belle épo­que di una Milano avviata all’industrializza­zione e alla dimensione metropolitana — che alla orgogliosa certezza di aver imboccato la via del progresso e della modernità intreccia le inquietudini generate dall’emergere di una “questione sociale” che mette apertamente in discussione il carattere oligarchico dello Sta­to nato dall’unificazione del paese: una que­stione sociale che non è più, oramai, proble­ma di identificazione e scandaglio di un’Ita­lia “sommersa” da scoprire a colpi di statisti­ca e da governare mediante il classico abbi­namento di profilassi e repressione — “catti­va coscienza” di una nazione unificata sol­tanto sull’Atlante geografico —, ma “noc­ciolo duro” del pressante problema istituzio­nale e minaccioso monito ad una classe dirigente chiamata a legittimare la propria leadership. Il carattere dichiaratamente “sperimentale” dell’Umanitaria — Opera Pia decisamente atipica: basata su di un mo­dello associativo “democratico”; legata da stretti rapporti all’associazionismo operaio da un lato ed all’amministrazione comunale dall’altro; priva d’incombenze specifiche, ma proprio per questo orientabile, a piaci­mento, verso i più svariati campi d’interven­to — attiene, in definitiva, all’irrequietezza di un dibattito politico che, mentre s’interro­ga sull’idoneità di una classe dirigente elita­ria e scarsamente rappresentativa e di un ap­parato statale burocratico ed accentrato a so­stenere il decollo dell’economia — e la capi­tale lombarda rispolvera in quest’occasione il vessillo dello “Stato di Milano” contro la politica logorroica e inefficiente delle cliente­le, dello sperpero, dell’iniquità fiscale, delle riforme attese e non realizzate —, va nel frat­tempo scoprendo nel socialismo (e, soprat­tutto, nella sua forma mentis organizzativi-

stica) il grande ponte gettato verso il secolo nuovo.

La storia della beneficenza, e degli enti che ad essa provvedono, non può essere ri­dotta ad espressione di pietas civile, né a pu­ro e semplice meccanismo di controllo socia­le; essa è anche, con tutta evidenza, intricato capitolo di architettura istituzionale, che in­veste appieno il delicato nodo dell’equilibrio tra iniziativa privata ed intervento pubblico, nonché quello dei rapporti tra potere ammi­nistrativo centrale e potere periferico. Ciò è tanto più vero riferendosi ad una fase stori­ca in cui la unanime consapevolezza del lo­goramento dei meccanismi classici di legitti­mazione del potere e di sollecitazione del consenso favorisce la diffusione di tensioni riformistiche, le cui aperture — più o meno pronunciate — verso la “questione sociale” dipendono — ben più che dalla paura della catastrofe rivoluzionaria — dalle ipotesi in­terne di riassetto del sistema politico-istitu­zionale e di “modernizzazione” dell’appara­to burocratico e amministrativo; parimenti calzante rispetto ad un’istituzione come l’U­manitaria che rifiuta apertamente ogni mo­dello preesistente, ed aspira al ruolo di espe­rienza-pilota, laboratorio di sperimentazio­ne di nuovi indirizzi di Sozialpolitik.

II “Comune moderno”: socialismo e scienze sociali

Non è, dunque, privo di significato il fatto che, nel lasso di tempo che corre dalla re­pressione manu militari attuata dal “feroce” Bava alla consultazione elettorale ammini­strativa del dicembre 1899, la questione del­lo scioglimento delPUmanitaria e la richiesta della sua reintegrazione alle originarie fun­zioni divenga, nell’esacerbato clima politico milanese, un tema ricorrente e di singolare rilievo.

Sciolti gli organismi direttivi all’indomani dei moti popolari ed affidato il patrimonio

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alla Congregazione di carità, di fatto l’Uma­nitaria era stata — in misura forse anche maggiore che non la stessa Camera del lavoro — il bersaglio privilegiato delle attenzioni re­pressive della consorteria moderata: ne fa fede la rielaborazione in senso restrittivo dello statu­to sociale, sottoposta dalla Congregazione di carità all’approvazione del Consiglio comu­nale, e frettolosamente ratificata — complice lo stato d’assedio — il 22 agosto 18985.

È certo che lo sproporzionato rigore dell’o­perazione censoria su di una istituzione che non aveva sicuramente, fino ad allora, offer­to adito ad accuse di “sovversivismo”, finiva per attirare irresistibilmente gli strali polemici dei settori democratici, serviti su di un piatto d’argento di un esempio palmare della miope iniquità della repressione novantottesca; ma è altrettanto vero che l’Umanitaria può essere prescelta come vessillo simbolico dell’unione dei partiti popolari giacché si presta a prefi­gurare un rapporto solidale e democratico tra cittadino ed istituzione, che non mortifica le “energie sane” della società e l’intraprenden­za privata, ma non intende altresì sacrificare le virtù regolatrici dell’intervento pubblico; essa è, si potrebbe dire, il pegno elettorale di un “nuovo corso” di vita municipale, in cui il Comune “non si sente più soltanto esattore di tasse, distributore di lavori e moderatore dei minori istituti che vivono in lui; ma compren­de l’opportunità di uscire dagli angusti confi­ni tracciatigli dalla consuetudine e di far sen­tire la sua influenza nei rapporti fra le diverse classi della cittadinanza”6: “deve entrare, be­nefico, nella vita privata dei più miseri, deve esercitare una nuova forma di funzione socia­le [...], manifestantesi in un diffuso e genera­le benessere”7.

In effetti — una volta riconosciuta, con delibera della IV sezione del Consiglio di sta­to, la nullità del decreto di scioglimento, ri­pristinato lo statuto originario e ricomposti gli organismi dirigenti, nel 1902 — l’Umani­taria compie una radicale metamorfosi. Ciò è reso possibile innanzitutto dall’insediamen­to della giunta democratica guidata da Giu­seppe Mussi a Palazzo Marino e, all’interno della Società, dal definitivo prevalere nel gruppo dirigente della componente social-ri­formista; nel quadro di questa congiuntura favorevole, è per soprattutto attraverso lo stimolo delle tematiche “municipaliste” che riempiono, in questi anni, le colonne della “Critica sociale”, del “Giornale degli econo­misti” della “Riforma sociale” , della “Rivi­sta popolare di politica, lettere e scienze so­ciali”, che l’Umanitaria giunge infine a ma­turare una sua ben definita vocazione istitu­zionale.

Ad un riformismo “gas and water” , gra­dualista e pragmatico, chiaramente sugge­stionato dal programma municipale fabiano, è innegabilmente ispirato il primo grande istituto promosso dalla rifondata Umanita­ria. L’Ufficio del lavoro — centro di indagi­ne e documentazione statistica, destinato ad una sistematica raccolta di dati sulle condi­zioni di vita e di lavoro della classe operaia milanese e della popolazione rurale padana8 — nasce nel corso del 1902, e precede dun­que di diversi mesi l’entrata in funzione dello stesso ufficio nazionale del Maic; alla sua di­rezione vengono chiamati in successione, non a caso, tre intellettuali fortemente sensi­bili all’influenza dell’area culturale anglosas­sone, come Attilio Cabiati, Giovanni Monte- martini e Alessandro Schiavi.

5 Cfr. A tti del Comune di Milano. Annata 1897-1898, parte II. Allegati agli atti del Consiglio comunale. Proposta della Congregazione di Carità di Milano per la riforma dello statuto della Società Umanitaria. Relazione al Signor Sindaco di Milano.6 Nuove funzioni del Comune, in “Il Tempo”, 27 marzo 1902.7 R.B. [Riccardo Bachi], Il Municipio nuovo, in “Critica sociale”, n. 1, 1° gennaio 1900, p. 8.8 Cfr. Società Umanitaria, Relazione finale sull’impianto dell’Ufficio de! lavoro, Milano, 1902.

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Certo, le componenti ideologiche che con­corrono a decretare, all’inizio del secolo, la fortuna delle argomentazioni municipaliste, non sono, né teoricamente né politicamente, omogenee; e lo confermano le precoci dimis­sioni dalla direzione dell’Ufficio del lavoro del liberista Cabiati, il cui municipalismo so­lidaristico e produttivista, dogmaticamente rispettoso delle leggi del libero mercato, en­tra ben presto in conflitto — specie sui temi della municipalizzazione dei pubblici servizi e del ruolo della cooperazione — con la com­ponente maggioritaria socialista9.

Ben lungi dal costituire un organico pro­getto di allargamento delle basi democrati­che dello Stato attraverso il decentramento amministrativo, il socialismo municipale è un variopinto patchwork, che sposa l’econo­mia politica di scuola marginalista e la gran­de tradizione del federalismo democratico lombardo, gli ultimi bagliori del comunali- smo utopistico e libertario costiano e la sug­gestione delle esperienze amministrative francesi, belghe ed inglesi10; alla radice resta, tutto sommato, un evoluzionismo ingenuo, che stenta palesemente a collegare lo speri­mentalismo del programma minimo ammini­strativo ad una complessiva Machtfrage: re­sta l’idea di una transizione pacifica al socia­lismo che si attua per un processo meccanico di diffusione dagli elementi più semplici agli elementi più complessi della società e dello Stato, la fiducia in un socialismo sorgente ab imis fundamentis e progressivamente autodi-

svelantesi, in quanto implicito nelle cose ed immanente al processo storico.

Ciò non toglie che il municipalismo sia il veicolo che legittima, agli albori del Nove­cento, l’ingresso a pieno diritto del Psi nell’e- stablishment politico, e che più direttamente contribuisce alla formazione, attorno al Par­tito socialista, di un’area di consenso nella quale transitoriamente confluiscono consi­stenti settori deWinteligencija “borghese” ; ed è in virtù delle suggestioni municipaliste che la richiesta di un moderno sistema di as­sistenza sociale, garantito sul piano legislati­vo, si affranca dalla pesante tutela ideologica del Kathedersozialismus, aprendosi a quel- l’embrionale istituzione del Welfare state che la direzione socialdemocratica milanese — col contributo determinante della stessa Umanitaria — va elaborando nel quadro del riformismo giolittiano.

In effetti, l’Ufficio del lavoro non è che il primo passo propedeutico alla creazione di una serie di istituti specializzati nei campi della protezione igienico-sanitaria e dell’assi­stenza legale dell’operaio, della tutela del consumatore e del collocamento dei disoccu­pati, della promozione della cultura popola­re e della lotta all’analfabetismo; e a questo proposito va aggiunto — benché la proposta non abbia, poi, attuazione — che tra il 1903 e il 1904 l’Umanitaria sottopone a più riprese all’amministrazione comunale un progetto di consorzio delle opere di assistenza pubblica e di coordinamento dei loro servizi attraverso

9 Cfr. Archivio della Società Umanitaria [ASU], B.VII.14, Personale. Cessati, fase. Cabiati. Cfr. anche in “L’Italia del popolo”, 4 nov. 1902, La consorteria dell"'Umanitaria”, le dure note polemiche dell’economista romano verso i dirigenti socialisti deH’Umanitaria.10 Sull’elaborazione del programma minimo amministrativo socialista e sul socialismo municipale fanno ancora te­sto le classiche note di Ernesto Ragionieri, La formazione del programma amministrativo socialista in Italia, in “Movimento operaio”, a. V, 1953, nn. 5-6, pp. 3-67, ora in Id., Politica e amministrazione nella storia dell'Italia unita, Bari, Laterza, 1967, pp. 193-262; tra i contributi più recenti, si cfr. anche Le sinistre e il governo locale in Eu­ropa. Dalla fine dell’800 alla seconda guerra mondiale, a cura di M. Degl’Innocenti, Pisa, Nistri-Lischi, 1984; Mau­rizio Degl’Innocenti, Geografia e istituzioni dei socialismo italiano. 1892-1914, Napoli, Guida, 1983, p. 102 sgg.; Maurizio Punzo, Il socialismo municipale in Italia: la “fase di preparazione”, in Prampolini e il socialismo riformi­sta. A tti del Convegno di Reggio Emilia. Ottobre 1978, vol. II, Firenze, Istituto socialista di studi storici, 1981, pp. 91-107.

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la creazione di un Ufficio centrale delle isti­tuzioni di beneficenza milanesi, che tematiz­za chiaramente la preminenza dell’intervento dell’ente locale-dii suo diritto ad interloquire nell’autonomia dei singoli istituti in base alle esigenze della collettività11.

Gran parte dell’attività dell’Ufficio del la­voro è del resto destinata all’utilizzo della ricerca sociale da parte delle istituzioni. Con l’autorità conferitagli dalle cifre e dai tabulati statistici, esso interviene sui princi­pali motivi del dibattito amministrativo lo­cale: suffraga — pubblicando uno sconfor­tato rapporto sullo stato dell’edilizia abitati­va popolare a Milano12 — i progetti di isti­tuzione di un ente municipalizzato per le ca­se operaie, oggetto d’aspra contesa tra le varie componenti dell’amministrazione po­polare; suggerisce meccanismi di controllo del fenomeno dell’inurbamento, affrontan­do maturamente il problema attraverso la disamina dei regimi contrattuali e degli or­dinamenti colturali in uso nelle campagne del Milanese13; prende in esame le condizio­ni di efficienza dell’organizzazione sanitaria provinciale14; promuove, infine, un vero e proprio censimento straordinario della po­polazione operaia cittadina, che resta a tut- t’oggi, per ricchezza di dati e accuratezza d’elaborazione, una delle fonti primarie per lo studio dell’evoluzione economica e so­ciale milanese nella fase del decollo indu­striale15.

Più in generale, la creazione dell’Ufficio

del lavoro rientra in un progetto di organiz­zazione della cultura che, collegando tra loro infrastrutture nuove o preesistenti, trasmette in accorte dosi istruzioni di base e catechizza- zione politica, cultura accademica e vulgata propagandistica, e punta esplicitamente — con pronta intuizione del mutato rapporto che la diffusione dei media introduce tra po­litica e società — alla formazione ed al con­trollo di una opinione pubblica. Anche gra­zie ad un’assidua collaborazione con i princi­pali centri d’istruzione tecnico-scientifica mi­lanesi, dal Politecnico alla Società d’incorag­giamento d’arti e mestieri, dalla Scuola supe­riore d’agricoltura alla Università commer­ciale Bocconi, ed al sodalizio intellettuale istituito con vasti settori della cultura libe- ral-democratica e radical-massonica, l’Uma­nitaria finisce per diventare il luogo elettivo, nonché il principale centro coordinatore, dell’impegno del riformismo laico e sociali­sta sui temi della divulgazione culturale e del­l’istruzione popolare, al cui esito l’istituto milanese offre un vigoroso contributo mate­riale e ideale, assistendo amorosamente lo sviluppo dell’Università popolare ambrosia­na, patrocinando la fondazione del Consor­zio milanese e della Federazione italiana del­le biblioteche popolari, nonché, nel 1908, dell’Unione italiana per l’educazione popo­lare, organizzando qualificati appuntamenti congressuali, promuovendo la creazione di una diffusa rete locale di scuole di formazio­ne professionale ed assumendone ammini-

11 Cfr. Società Umanitaria, Relazione-progetto per la costituzione di un consorzio dell’assistenza pubblica e la crea­zione di un Ufficio centrale delle Istituzioni di beneficenza, Milano, 1904; Fausto Pagliari, I nuovi orizzonti dell’as­sistenza pubblica: per un ufficio centrale delle istituzioni di beneficenza, in “Critica sociale”, a. XIV, n. 2, 16 gen­naio 1904, pp. 28-30.12 Cfr. Giovanni Montemartini, La questione delle case operaie in Milano, Milano, 1903.13 L’indagine, iniziata nel 1903, è affidata al giovane Arrigo Serpieri, che la porta a conclusione alcuni anni più tar­di: Arrigo Serpieri, Il contratto agrario e le condizioni dei contadini nell’Alto milanese, Milano, 1910; sulla collabo- razione di Serpieri alla Società Umanitaria si sofferma Antonio Prampolini, La formazione di Arrigo Serpieri e i problemi dell’agricoltura lombarda, in “Studi storici” , a. XVI (1976), n. 2, pp. 171-209.14 Cfr. Società Umanitaria, Le condizioni di sanità e di spedalità nella provincia di Milano, Milano, 1904.15 Cfr. Società Umanitaria, Le condizioni generali della classe operaia in Milano: salari, giornate di lavoro, reddito, ecc.. Milano. 1907.

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strazione in prima persona, o in consorzio con altri enti16.

Certo è che questa candida ammirazione per 1’“incessante” progresso delle conoscen­ze umane, e la congiunta ansia di farne par­tecipe l’intera società, fatica a distinguersi nel generale coro modernizzante del pensiero industrialista: stenta, in particolare, a riven­dicare la propria identità al cospetto di una rinnovata etica borghese del lavoro che — una volta preso atto della disintegrazione dell’ottocentesca “questione sociale” — ten­de a combinare sapientemente la classica vo­cazione per la maieutica e la “pedagogia po­polare” con il linguaggio “scientifico” del­l’obiettività, dell’efficienza e della compe­tenza, e che affida le proprie opportunità di egemonia culturale alla capacità di tradurre il progresso tecnico-scientifico, e il comples­so di saperi che esso sedimenta, in coscienza diffusa e filosofia di massa. Non è un caso, del resto, che alle iniziative delPUmanitaria a favore della cultura popolare, della divulga­zione scientifica e dell’istruzione professio­nale, aderiscano i nomi eccellenti dell’im­prenditoria ambrosiana “illuminata” ed im­pegnata politicamente: Cesare Saldini, Etto­re Ponti, Silvio Crespi, Giovan Battista Pi­relli, Achille Brioschi, Giuseppe Colombo, Massimo Stigler, Cesare Goldmann.

Ciò non di meno, mi pare poco utile — se non proprio fuorviante — indugiare più di tanto sul concetto della vocazione gregaria della politica culturale e del Psi rispetto alla cultura borghese del periodo; tanto meno in­sistere, similmente, sulla rigidità dell’appara­

to concettuale del patrimonio teorico custo­diti dal socialismo italiano — impropriamen­te ridotti ad una irrimediabilmente obsoleta propaggine tardo-positivista — nel confron­to con gli esiti più attuali e vitali della cultura del primo Novecento, a loro volta indebita­mente identificati, sic et simpliciter, con la reazione antipositivista e la ripresa di temati­che idealistiche e volontaristiche. Difatti, se è vero che il mondo socialista è largamente partecipe — né si vede come potrebbe essere altrimenti — delle idee circolanti nel dibatti­to degli ambienti intellettuali liberali e bor­ghesi, e talora si adatta a raccoglierne i ca­scami, è altresì vero che tutti questi materiali li ricicla e li rielabora in forme non prive di originalità e, comunque, li utilizza — al di fuori del loro contesto originario — per un’opera capillare e spesso efficace di pro­mozione culturale e di sollecitazione alla par­tecipazione cosciente di grandi masse alla vi­ta politica e sociale del paese.

Più proficuo mi pare invece un approccio che, sottolineando l’emergere — nell’Italia del big spurt — dei primi elementi di una cul­tura industriale vissuta come coscienza di massa, si disponga a valutare quale sia il con­tributo del Psi, delle forze sindacali, degli or­ganismi variamente collegati al movimento socialista — non ultima l’Umanitaria — allo svolgimento di questo processo e, nel con­tempo, in quale misura e con quale grado di consapevolezza il riformismo modernizzato- re socialista individui le implicazioni politi­che e sociali e i nuovi rapporti di potere sot­tesi al fenomeno, cogliendone le ripercussio-

16 Principalmente imperniato sull’impegno nel campo della cultura e dell’istruzione è l’unica indagine complessiva sinora pubblicata sulla storia della Società Umanitaria: l’eccellente studio di Enrico Deeleva, Etica del lavoro, socia­lismo, cultura popolare. Augusto Osimo e la Società Umanitaria, Milano, Angeli, 1985. Sui rapporti tra la Società Umanitaria ed il movimento per la cultura popolare, comunque, si possono cfr. anche Aa.Vv., La cultura milanese e l ’Università popolare negli anni 1901-1927, Milano, Angeli, 1983; Maria Grazia Rosada, Le Università popolari in Italia. 1900-1918, Roma, Editori Riuniti, 1975; Id., Biblioteche popolari e politica culturale del Psi tra Ottocento e Novecento, in “Movimento operaio e socialista” , a. XXIII, 1977, nn. 2-3, pp. 259-298; Carlo G. Lacaita, Sociali­smo, istruzione e cultura popolare tra l ’800 e il ’900: i riformisti, in II socialismo riformista a Milano agli inizi del se­colo, a cura di A. Riosa, Milano, Angeli, 1981, pp. 379-401.

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ni sul quadro istituzionale, sul rapporto tra Stato e luoghi di produzione della cultura e tra intellettuali e potere: giacché non v’è dubbio che la tendenziale sostituzione delle classiche coordinate umanistico-letterarie della cultura nazionale, quali strumenti di le­gittimazione del potere e di organizzazione del consenso, sia il riflesso e, nel contempo, la condizione stessa di trasformazioni pro­fonde sul terreno politico-istituzionale, sul funzionamento dell’apparato statale, sulla dislocazione e diffusione del potere politico entro la società civile.

È difficile disconoscere, del resto, il solido magistero esercitato dalla letteratura socio­logica, economica, politologica, su un’inte­ra generazione di operatori della politica e della cultura, cresciuta leggendo la “Rifor­ma sociale” ed il “Giornale degli economi­sti”; così come è innegabile che la prassi di governo giolittiana — specie in quella sua caratteristica espressione che è 1’“ammini­strazione per collegi” — si fonda anche sulla tendenza all’istituzionalizzazione delle scien­ze economiche e sociali e sull’immissione dell’intellettuale-esperto nella pubblica am­ministrazione in veste di funzionario/consu- lente. Occorre anzi chiedersi se il Iato effetti­vamente innovativo del disegno riformatore giolittiano non risieda appunto nel prendere atto della crescente scomposizione del “cer­vello sociale” in cerehie specialistiche e, quindi, nel tentativo di sopperire alla connes­sa crisi di rappresentatività del sistema politi­co liberale ed al declino della centralità dell’i­stituto parlamentare attraverso l’ipotesi di un rafforzamento parallelo dell’esecutivo e dell’apparato amministrativo di Stato, spe­cializzandone le funzioni, aprendolo all’ap­porto delle diverse forze sociali, integrandovi rappresentanze di interessi e competenze tec­

niche. La via alla modernizzazione intrapre­sa dal riformismo giolittiano passerebbe, in tal senso, attraverso la recisa negazione di ogni teorizzazione giacobina dello Stato or­ganizzatore e — paradossalmente — di ogni concezione demiurgica della politica, per giungere piuttosto alla tendenziale configu­razione di uno Stato amministratore e coor­dinatore, estremo mediatore dei frammenti decisionali sparsi in una molteplicità di am­biti particolari.

Accomunata al riformismo giolittiano — come lo è, del resto, l’intera corrente gradua­lista del socialismo italiano — dalla medesi­ma nozione antigiacobina del rapporto poli­tica-società, l’esperienza delPUmanitaria rappresenta uno dei tentativi sicuramente più lucidi e conseguenti di coniugare le linee del­la razionalizzazione amministrativa giolittia­na ad un’opzione più complessiva di trasfor­mazione della società, guidata da un movi­mento operaio “educato” a compiti direttivi, cosciente del proprio ruolo storico e consa­pevole della sua “necessità” . Il già menzio­nato Ufficio del lavoro della Società Umani­taria, ad esempio, oltre a costituire il fonda- mentale archetipo tecnico dell’Ufficio nazio­nale del Maic, stringe con quest’ultimo un organico ed efficace legame di complementa­rità: lo rifornisce, innanzitutto, di un perso­nale tecnico ad elevato livello di preparazio­ne (Giovanni Montemartini e Livio Marchet­ti passano direttamente dall’apprendistato milanese ai rispettivi compiti di direttore e vi­cedirettore dell’Ufficio nazionale del lavo­ro); lo affianca nell’opera di rilevazione sta­tistica, limitatamente all’Italia centro-setten­trionale; coopera alla progettazione di im­portanti provvedimenti di legislazione socia­le (ad es., alla legge protettiva del lavoro in risaia del 16 giugno 190717, ed al progetto di

17 Cfr. ASU, E. XXVI.13, Ufficio agrario. Collocamento di mondarisi, prott. 1421 e 1616; l’impegno per l’applica­zione del regolamento Cantelli e, in seguito, per la promulgazione di una legge protettiva è sostenuto in parallelo da una ampia opera di denunzia e sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulle condizioni del lavoro in risaia: si cfr. le

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legge Pantano per l’istituzione di uffici inter­regionali pubblici di collocamento)18; funge, infine, da essenziale trait d ’union tra le istan­ze del movimento leghistico ed i corpi con­sultivi dello Stato, e da “anticamera” prope­deutica alla partecipazione degli organizza­tori socialisti padani all’attività del Consiglio superiore del lavoro. In altri casi, come nel campo dell’assistenza agli emigranti, l’Uma­nitaria finisce per creare quasi dei “corpi se­parati” dell’amministrazione statale, impe­gnati a coadiuvare quest’ultima nei suoi compiti istituzionali, quando non a surrogar­ne le deficienze19.

Nella tipica combinazione teorica che ten­de ad instaurare tra la constatazione dell’im­maturità politica e la fiducia nella vocazione pedagogica nazionale del proletariato orga­nizzato, il socialismo riformista è quasi natu­ralmente portato ad enfatizzare il ruolo delle proprie élites funzionane quali depositarie ed amministratrici temporanee del patrimo­nio storico momentaneamente inespresso dal movimento di classe. Nel contempo, la pro­fessione di fede nella necessità immanente del progresso tecnico-scientifico e nella sua intima capacità di convertire il dominio poli­tico in amministrazione razionale finisce per accreditare il tecnico quale unico effettivo “intellettuale organico” alla classe: il diri­gente sindacale, inteso come “tecnico del­l’organizzazione” , l’economista e l’esperto in discipline sociali, il tecnico della legislazio­ne sociale impegnato nei corpi consultivi del­lo stato rappresentano, nel medesimo tempo, l’anello che assicura la traduzione automati­ca della norma di scienza in politica, ed il

battistrada di una penetrazione graduale al­l’interno dell’apparato statale intesa nel du­plice senso di apprendistato alla gestione del­la cosa pubblica e di conferma della piena le­gittimità delle aspirazioni del proletariato al­la direzione del paese.

In questa cornice si situa il considerevole impegno profuso daH’Umanitaria nella for­mazione di quadri tecnici destinati ad assu­mere funzioni direttive nell’ambito del movi­mento sindacale e cooperativo, o ad essere immessi, in qualità di esperti dei problemi del lavoro, nei corpi consultivi dello Stato, nei collegi probivirali, negli ispettorati del la­voro: chiamati a formare, in ultima analisi, il tessuto connettivo della nuova democrazia industriale, a fecondare il mito di una “na­zione del lavoro” governata dai “ceti produt­tivi”. La fondazione del Museo Sociale, cen­tro di studi economici e sociali apertamente ispirato a modelli illustri come il Laboratorio di economia politica torinese, il Musée Social di Parigi, il Verein für Sozialpolitik, la Lon­don School of Economics, l’Istituto Solvay, corona un’intensa opera di promozione della cultura tecnico-scientifica, che ha come obiettivo primario la formazione di uno staff di aspiranti tecnocrati del lavoro, organica- mente legati al movimento sindacale, il cui prototipo è costituito dai Cabrini e dai Mon- temartini, dai Samoggia e dai Serpieri. “La classe lavoratrice, conscia [...] del valore che hanno nel guidarla alla vittoria condottieri esperti e agguerriti nelle discipline sociali, si provvede anche degli istrumenti atti a prepa­rare e a foggiare i capitani del popolo”20; tali strumenti, a partire dal nuovo secolo, sono

due inchieste I lavoratori delle risaie, a cura di G. Lorenzoni, Milano, 1904 e Per per le otto ore in risaia. Inchiesta sugli scioperi della primavera del 1904, a cura di A. Schiavi, Milano, 1904.18 Cfr. Società Umanitaria-Segretariato per l’emigrazione interna, Gli uffici di collocamento per i contadini migran­ti in Italia, a cura di I. Zannoni, Imola, 1907.19 Cfr. Maurizio Punzo, La Società Umanitaria e l ’emigrazione. Dagli inizi del secolo alla prima guerra mondiale, in Gli italiani fuori d'Italia. Gli emigrati italiani nei movimenti operai dei paesi d ’adozione. 1880-1940, a cura di B. Bezza, Milano, Angeli, 1983, pp. 119-144.20 Comesi educano i capitani del popolo, in “L’Umanitaria”,' 8 dicembre 1906.

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copiosamente forniti dall’Umanitaria: a bre­ve distanza Luna dall’altra sorgono la scuola serale di legislazione sociale, la scuola serale di amministrazione e contabilità per gli ad­detti alle cooperative, i corsi festivi per i coo­peratori rurali e, soprattutto, nel 1911, la scuola di applicazione per la cooperazione, la previdenza e la legislazione sociale, piccola università del funzionario sindacale, con fre­quenza quotidiana ed obbligatoria, con corsi di economia politica, diritto pubblico e pri­vato, statistica, igiene, contabilità, storia e tecnica dell’organizzazione, economia e tec­nologia agraria, con docenti d’indiscussa competenza come Camillo Supino, France­sco Coletti, Giulio Revere, Arnaldo Agnelli, Alessandro Schiavi, Benvenuto Griziotti, Fausto Pagliari, Rinaldo Rigola, Angiolo Cabrini, Ettore Reina. Un embrionale siste­ma di “scuole-quadri” — rivolto con eviden­te ammirazione al modello inglese del Ruskin College e del Central Labor College2' — che se non è certo in grado, per il momento, di influenzare in profondità i meccanismi di re­clutamento dei quadri sindacali, testimonia, peraltro, l’affermarsi di una significativa concezione dell’organizzazione sindacale co­me apparato: ovvero struttura basata con­temporaneamente sulla centralizzazione del­le decisioni e sulla specializzazione interna delle competenze, e dotata di un organico stabile di funzionari stipendiati.

Il Museo Sociale resta peraltro, in que­st’ambito, la realizzazione sicuramente più ambiziosa. Esso avrebbe dovuto essere il punto d’approdo di un’opera di organizza­

zione e diffusione culturale tesa a formare una enlightened intelligence — nella quale dovevano confluire, secondo una radicale ri­definizione della natura e della funzione so­ciale del lavoro intellettuale, tanto i “profes­sionisti” della scienza quanto i nuovi buro­crati formatisi all’interno delle strutture sin­dacali e di partito —, nerbo e forza ispiratri­ce di una moderna “cultura delle riforme”: “Noi additiamo e andiamo creando la scuola della vita — asserisce Montemartini, nell’or­gogliosa duplice veste di scienziato sociale e di organizzatore socialista —; noi compiamo un’opera di severa e positiva educazione; noi contribuiamo a dare un’anima alla grande massa delle classi lavoratrici”21 22. Ed è pur ve­ro che, seppur transitoriamente, attorno al Museo Sociale si aggrega un ampio e qualifi­cato milieu intellettuale: della commissione tecnica, preposta alla programmazione del­l’attività, entrano a far parte Arrigo Serpieri, Francesco Coletti, Fabio Luzzatto, Ulisse Gobbi, Arnaldo Agnelli, Camillo Supino, l’immancabile Cesare Saldini, e ad essi via via si affiancano, in veste di collaboratori, economisti del calibro di Riccardo Bachi, At­tilio Cabiati, Augusto Graziani, Achille Lo­ria, Giuseppe Prato23. Tuttavia, ideato come Workshop di studi sociali, programmatica­mente disposto al confronto tra le diverse correnti politiche e scientifiche, il Museo So­ciale resta, in realtà, una struttura perenne- mente in fieri, più esposta al “fallout” della cultura accademica che dotata di anima pro­pria: né osservatorio economico-statistico funzionale alle esigenze imprenditoriali come

21 A segnalare questi due istituti come modelli degni d’imitazione è, dall’Inghilterra, Angelo Crespi, grande estima­tore del socialismo britannico, e principale ispiratore dell’interesse di Fausto Pagliari, Ettore Marchioli ed Alessan­dro Schiavi verso la nazione d ’Oltremanica. Alcune corrispondenze di Crespi dall’Inghilterra sono in ASU, D.XII.5, Ufficio del lavoro. Studi e ricerche in merito alla riapertura del corso di legislazione sociale ed all’eventuale allarga­mento del suo programma.22 Giovanni Montemartini, Un decennio di vita nei corpi consultivi della legislazione sociale in Italia, Cremona, Tip. sociale, 1914, p. 13.23 Cfr. ASU, D.1V.1, Museo Sociale. Funzionamento, prot. 767, La Commissione tecnica del Museo Sociale, e ivi, sott. 12, Collaboratori.

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l’avrebbero voluto, tra i suoi fautori, i pro­fessori del Politecnico e della Bocconi, né, di converso, centro-studi e “palestra d’idee” del movimento sindacale; né efficiente strut­tura a latere del sistema scolastico, né appen­dice funzionale agli istituti di istruzione po­polare.

Sarebbe peraltro ingeneroso liquidare le aperture deH’Umanitaria all’economia poli­tica “borghese” e alle scienze sociali nel se­gno di un acritico scientismo fondato sulla meccanica equazione tra educazione tecni- c.o-scientifica e propedeutica alla democra­zia. Se è fuori di dubbio che l’approccio del­l’Umanitaria ai problemi economici e sociali, sempre in predicato di cadere nella mistica della scienza e costantemente viziato dalla tendenziale riduzione della politica a “tecni­ca del controllo sociale” , raramente assume la forma di critica dell’economia politica, è parimenti vero che è proprio attraverso rin ­contro con la cultura degli economisti, dei sociologi, di tutti quegli intellettuali-speciali­sti che con crescente autorevolezza si affer­mano in veste di opinion makers sulla scena culturale e nel dibattito politico dell’epoca, che si disperde, da un lato, quella caligine fi- lantropico-sentimentale che aveva avvolto le prime fasi della vita societaria, e trae origine, dall’altro, una riflessione tutt’altro che ba­nale sul rapporto tra società industriale e cul­tura di massa, tra stato allargato e “mestie­re” intellettuale.

In una storia della cultura sottratta alle astratte concatenazioni della storia delle idee, in una storia degli intellettuali riletta sulla base delle “forme concrete, non ideolo­giche [...], in cui il lavoro degli intellettuali funziona a livello sociale, anche indipenden­temente dalla consapevolezza di chi lo pratica”24, l’Umanitaria può, insomma, pre­tendere a buon diritto ospitalità e menzione.

Nel momento in cui si consuma la crisi dell’e- pisteme positivista, nella sua pretesa di poter compendiare, sistematizzare ed esaurire il conoscibile, conchiudendo il tutto in una ri­gorosa struttura concettuale, l’attenzione prestata daH’Umanitaria ai requisiti “strut­turali” di tale crisi — e principalmente al rapporto tra lavoro intellettuale e sua nuova committenza (apparato di Stato, industria, organizzazioni di massa) — costituisce un contributo specifico e originale al dibattito corrente sulle linee della modernizzazione ed un apporto tutt’altro che marginale al tor­mentato incontro tra Psi e forze intellettuali. Tale contributo, del resto, riposa felicemente su un’opera quotidiana di informazione e studio sulle esperienze organizzative avviate nel campo dell’assistenza, dell’istruzione, deH’associazionismo operaio e popolare, ne­gli altri paesi industriali, e su una fitta rete di relazioni intrecciate con tutta una serie di istituti esteri impegnati in settori consimili. Basti rammentare, a questo proposito, l’at­tenzione che il bollettino dell’Umanitaria de­dica all’organizzazione scolastica nei paesi anglosassoni e l’interesse con cui vengono analizzati istituti quali la John Hopkins Uni­versity di Baltimora, la London School of Economics, il Ruskin College, il City and Guild Institute di Londra, ecc.; e non meno significativa è l’attività dell’Ufficio di infor­mazioni e traduzioni, istituito nel 1905 sotto la direzione di Fausto Pagliari, che si occupa di raccogliere, spogliare e tradurre sistemati­camente 62 giornali e 20 riviste estere, tra le quali la “Neue Zeit”, il “Korrespondenz- blatt”, il “Municipal Journal” , l’“American Federationist”, la “Voix du peuple” , l’“Ar- chiv für Sozialwissenschaft und Sozialpoli- tik” , e di comunicare alle federazioni nazio­nali e, successivamente, alla CGdL le infor­mazioni e i dati in tal modo raccolti. Questo

24 Alberto Asor Rosa, Gli intellettuali dalla grande guerra ad oggi, in L ’Italia unita nella storiografia del secondo dopoguerra, a cura di N. Tranfaglia, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 220.

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respiro cosmopolitico rappresenta un merito indiscutibile dell’opera della Società Umani­taria: la viva attenzione per le esperienze so­ciali dei paesi capitalistici in fase di più avan­zato sviluppo, con particolare riguardo per la Germania ed il Belgio, ma anche per la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, la po­ne in grado di fornire al movimento leghisti- co ed alle federazioni di mestiere, alla Confe­derazione del lavoro, all’Ufficio ministeriale del lavoro una vasta e preziosa mole di mate­riale di studio e di progetti concreti, ed uno staff tecnico ottimamente preparato; e ciò è tanto più rilevante se si tiene presente il me­sto panorama di provincialismo presentato dal socialismo italiano del periodo, la sua persistente estraneità al dibattito teorico del socialismo internazionale, e lo scarso riflesso che questo ultimo, di conseguenza, finisce per avere sul dibattito all’interno del partito.

Sindacato e “democrazia industriale”

Il 15 gennaio 1905 è pubblicato il primo nu­mero de “L’Umanitaria”, periodico della Società affidato alla redazione di Osvaldo Gnocchi Viani e Francesco Cafassi. La sotti­le rivista, dimessa sin dalla veste esteriore, non ha ad onor del vero soverchie ambizioni né particolari pregi, e non meriterebbe una speciale menzione se non contribuisse a se­gnalare, con la sua comparsa, i sintomi di un sensibile mutamento di prospettive negli in­dirizzi dell’istituto milanese. Con le rubriche sull’attività del movimento cooperativo e sullo stato dell’organizzazione sindacale a Milano e in provincia, con la documentazio­ne statistica sulle condizioni del mercato del lavoro agricolo e industriale, con le periodi­che rassegne sul movimento operaio interna­zionale, “L’Umanitaria” aspira ad essere,

con tutta evidenza, qualcosa di più di un semplice bollettino ad uso interno. Al foglio sono affidati, in ultima analisi, compiti “di­plomatici”, più che informativi; esso mira, fondamentalmente, a proiettare all’esterno un’immagine integrale ed organica della So­cietà, tesa ad instaurare un rapporto da pari a pari e non meramente ancillare con i grandi momenti strutturali della politica socialista, dalla stampa al gruppo parlamentare, dal­l’organizzazione cooperativistica all’appara­to sindacale. Non è che, ovviamente, “L’U­manitaria” offra al riformismo socialista un contributo teorico e politico lontanamente paragonabile a quello fornito dalla “Critica Sociale” o da altre riviste e quotidiani, né ha, per buona sorte, una simile pretesa; ma ciò che interessa notare è come, attraverso una propria voce a stampa, la Società Umanita­ria tenda a legittimare la candidatura a “cen­tralino” del caotico sistema di comunicazioni tra le diverse sezioni organizzate del movi­mento operaio e socialista: l’unico istituto effettivamente in grado di coordinare l’impe­gno per la legislazione sociale e la pratica sin­dacale, di conciliare cooperazione e resisten­za, di operare sulla città come sulla campa­gna, di proporre un terreno ideale d’incontro tra l’intellettuale e l’organizzatore, di ridurre ad unità, in sostanza, le molteplici anime del socialismo. Una candidatura che è d’altron­de riaffermata, a breve scadenza, da altre due iniziative di grossa risonanza: la parteci­pazione, con un proprio padiglione, all’E­sposizione industriale milanese del 190625, e la convocazione, nell’ottobre dello stesso an­no, di un prestigioso congresso sul problema della disoccupazione operaia che pone a con­fronto — a conferma dei saldi rapporti del­l’Umanitaria col movimento operaio inter­nazionale — alcuni tra i massimi dirigenti del sindacalismo secondinternazionalista, da

25 Cfr. Alessandro Schiavi, La previdenza all’Esposizione di Milano, in “La riforma sociale”, a. XIV, 15 gennaio 1907, pp. 50-70.

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Keir Hardie ad Hermann Greulich a Samuel Gompers ad Argentina Altobelli, i grand commis dell’organizzazione amministrativa del lavoro, a cominciare dal direttore del Bit, Etienne Bauer, e “scienziati sociali” del valo­re di Werner Sombart, Roberto Michels, Achille Loria, Attilio Cabiati, Augusto Gra- ziani, Camillo Supino e altri ancora26.

In realtà, il clima politico che si respira a Milano, dopo l’impatto traumatico della cit­tà con lo sciopero generale e la crisi politica che ne consegue, fino a sfociare nella débàcle elettorale dell’Unione dei partiti popolari in occasione delle amministrative parziali del novembre 1904 e di quelle generali del suc­cessivo gennaio, induce la direzione dell’U- manitaria a modificare largamente il pro­gramma precedentemente elaborato e so­prattutto a rivederne gli interlocutori politici e istituzionali. Era del resto fin troppo evi­dente che l’insuccesso della coalizione demo­cratico-socialista non dipendeva unicamente da tensioni esogene e che il bilancio della col­laborazione amministrativa tra i partiti del­l’Estrema era stato, sotto ogni profilo, infe­riore alle attese; tant’è che anche un aperto assertore della politica bloccarda, come Alessandro Schiavi, constatando l’inadem­pienza della giunta sui punti cardine del pro­gramma amministrativo a suo tempo conve­nuto — a cominciare dalla riforma dei tributi locali e dai progetti di municipalizzazione dei servizi pubblici essenziali — era costretto ad ammettere, cinque anni dopo l’insediamento del radicale Mussi a Palazzo Marino, che “il

programma dei partiti popolari si presenta come un programma in potenza perché le maggiori riforme sono tuttora allo studio o in gestazione; ed è gestazione laboriosa, della quale troppo si tarda a vedere i frutti” : in termini più crudi, l’amministrazione ambro­siana “non ha suscitato un’opposizione, ap­punto perché nell’inerzia non ha neppure fe­rito degli interessi”27.

Col procedere dell’età giolittiana, è d’al­tronde l’intero motivo dello “sperimentali­smo municipale” che acquista, nel progetto riformista del Psi, un tono forse politica- mente più maturo, ma anche, innegabilmen­te, più critico e disincantato. Questa eclissi — facilmente verificabile anche solo attra­verso una distratta consultazione degli indici della “Critica Sociale” — va senz’altro posta in relazione con la disillusione — precocissi­ma a Milano — sulle sorti del connubio “progressista” tra il Psi e la democrazia radi­cale; ma non sarebbe peraltro ozioso doman­darsi se essa non risponda anche ad un più esteso fenomeno di trasformazione della “cultura politica” socialista, dovuto all’af- fermarsi, nella geografia istituzionale del movimento operaio, dell’organizzazione sin­dacale come polo autonomo di elaborazione teorica e di direzione politica: una “for­ma-sindacato” che si identifica virtualmente in un modello di apparato centralizzato e su scala nazionale, istintivamente polemico nei confronti della struttura policentrica del par­tito e dei suoi connaturati “particolarismi” e “localismi” .

26 Tra le personalità invitate al convegno vi sono anche Alexandre Millerand, Hubert Lagardelle, Karl Kautskj, Eduard Bernstein, Carl Legien, Anton Menger, Sidney Webb, Max Weber — il cui nome è suggerito da Michels — (cfr. ASU, E.XX.6, Convegni e Congressi. Disoccupazione. In genere. 1906-1908, prot. 555). Del tutto legittima, quindi, la soddisfazione di Samoggia nel rilevare come la Società Umanitaria sia “Tunica istituzione italiana e fra le poche in Europa in grado e che abbia l’autorità e la veste per indire un Congresso di tal genere” (Ivi, prot. 640, lett. da Massimo Samoggia alla Presidenza della Società Umanitaria, 1° dicembre 1905). Gli atti del convegno sono pub­blicati, a cura dell’Umanitaria, nel volume La disoccupazione. Relazioni e discussioni del I Congresso internazionale per la lotta contro la disoccupazione. Milano 2-3 ottobre 1906, Milano 1906.27 II Comune di Milano e la classe lavoratrice, f.to Sticus, in “Il Tempo”, 4 settembre 1904; per una valutazione complessiva dell’opera dell’amministrazione popolare milanese, cfr. Maurizio Punzo, Socialisti e radicali a Milano. Cinque anni di amministrazione democratica (1899-1904), Firenze, Sansoni, 1979.

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Sta di fatto, per quanto concerne l’Umani­taria, che la revisione del motivo “sperimen- talista” d’inizio secolo, confermata dal ridi­mensionamento dell’Ufficio del lavoro, coincide con l’istituzione di tutta una serie di nuovi servizi destinati ad operare nella sfera d’iniziativa sindacale. Quest’orientamento comincia a delinearsi sin dal 1904, quando, con la fondazione dell’Ufficio agrario, l’U­manitaria rileva, di fatto, le funzioni della precocemente dissolta federazione provincia­le dei lavoratori dei campi ed inaugura, an­che in virtù di uno staff dirigenziale compo­sto da uomini di sicura fede socialista e di provata competenza in materia sindacale co­me Massimo Samoggia, Nino Mazzoni, Car­lo Vezzani, un duraturo sodalizio con la se­greteria bolognese della Federterra28; si con­solida nel successivo biennio con l’istituzione del Consorzio per la tutela dell’emigrazione temporanea in Europa, contraltare laico del­le cattoliche Opera Bonomelli e Congrega­zioni Scalabriniana e vera e propria centrale della politica socialista in fatto di assistenza all’emigrazione29; con la creazione della Cassa di sussidio alla disoccupazione, inte­ressante esperimento di sintesi tra “resisten­za”, mutualismo e previdenza, destinato a fornire un fondamentale termine di parago­ne per tutto il successivo dibattito sull’ordi­namento assicurativo contro la disoccupa­zione e per lo stesso decreto postbellico del 19 ottobre 1919 che ne andrà a sancire l’obbligatorietà30; ed infine con l’entrata in funzione, dal gennaio 1906, dell’indispensa­

bile architrave dell’intero modello social-ri­formista di disciplina sindacale, l’Ufficio di collocamento, ricostruito sulle fondamenta del preesistente istituto gestito dalla Camera del lavoro.

Gli obiettivi di questo processo di meta­morfosi istituzionale sono chiaramente addi­tati da Rinaldo Rigola: “La Confederazione— comunica il leader sindacale al segretario generale dell’Umanitaria Augusto Osimo — intende far spuntare gradatamente dal suo stesso tronco i rami di servizio indispensabili al completo suo funzionamento: dalla stati­stica agli studi sui più complessi problemi del lavoro; dall’insegnamento all’assistenza pra­tica, alla volgarizzazione delle leggi e dei re­golamenti concernenti il lavoro e via via. Ma perché questo compito le sia facilitato è ne­cessario che vi sia un contatto ininterrotto tra l’organismo confederale e gli uffici del­l’Umanitaria [...] [i quali] instraderebbero il centro nazionale delle organizzazioni di me­stiere verso una funzionalità più complessa, ed a loro volta riceverebbero dalle organizza­zioni materia di sviluppo”31; ‘i ’Umanitaria— conclude Rigola rivolto, stavolta, a Filip­po Turati — avrebbe modo di allargare la sua cerchia d’azione, e questa sua azione ver­rebbe vivificata dall’azione propria dei sin­dacati, onde sarebbe persino evitato il peri­colo che l’istituzione diventasse una pura opera pia”32. L’Umanitaria è chiamata, in sostanza, a fungere da cerniera strategica tra i diversi livelli e i vari comparti del complesso sindacale, e nel contempo, ad operare da uf-

28 Cfr. Otto anni di attività dell’Ufficio agrario della Società Umanitaria. 1905-1912, Milano, 1913.29 Oltre al saggio di M. Punzo, La Società Umanitaria e l ’emigrazione..., cit., riferimenti all’opera dei servizi d’emi­grazione della Società Umanitaria sono anche in Maurizio Degl’Innocenti, Emigrazione e politica dei socialisti dalla fine del secolo all’età giolittiana, in “Il Ponte”, a. XXX, n. 11-12, novembre-dicembre 1974, pp. 1293-1307; Gian Carlo Paoli, La Confederazione Generale dei Lavoro e l ’emigrazione nell’età giolittiana, in “Archivio storico italia­no”, a. CXXXIX (1981), pp. 645-660.30 Cfr. Dora Marucco, Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869 al 1925, Milano, Angeli, 1984, p. 97 sgg.31 Fondazione Feltrinelli, Fondo Rigola, lettera s.d. (1907) da Rinaldo Rigola a Augusto Osimo.32 Ivi, lett. 2 novembre 1907, da Rinaldo Rigola a Filippo Turati.

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ficio di pubbliche relazioni della Confedera­zione del lavoro, specie nei rapporti con l’ap­parato statale e nello scambio d’informazio­ni con il movimento operaio internazionale. Questa scomoda collocazione, esposta al mutevole gioco d’equilibri e di competenze che regola il frammentato organigramma istituzionale del socialismo italiano, introdu­ce l’ente milanese in una tormentata stagione di polemiche e di spazientiti richiami all’or­dine, indirizzatigli a turno dalla stampa di partito, dalle centrali sindacali, dal fronte cooperativo, dal movimento camerale. La frequenza di questi incidenti di percorso sot­tintende evidentemente la permanenza di profondi cleavages nella struttura del movi­mento operaio italiano e rivela altresì le diffi­coltà deh’Umanitaria a ridurre tale comples­sità operando scelte selettive; ciò non può tut­tavia far disconoscere il rilevante contributo che l’istituto milanese apporta all’elaborazio­ne della strategia sindacale ed alla maturazio­ne, in seno al movimento unionistico, di un’i­stanza politica di compartecipazione alla ge­stione del sistema industriale quale comincia a delincarsi nell’adozione degli obiettivi gene­rali della contrattazione collettiva e del con­trollo sindacale del mercato del lavoro.

Del resto, quello che viene comunemente considerato come il tratto caratterizzante del movimento sindacale italiano rispetto ai con­fratelli esteri, ovvero il saldo radicamento tra i ceti rurali e la conquista, profilatasi già pri­ma del quinquennio bellico, di un sistema di patti collettivi in agricoltura, è senz’altro

dovuto anche al rimarchevole impegno della Società Umanitaria, che nello scorcio di po­chi anni, in virtù di un proficuo affiatamento con la direzione della Federterra, ottiene ri­sultati di rilievo nel disciplinare le correnti migratorie stagionali e nel debellare il feno­meno del caporalato istituendo una rete in­terregionale di uffici di collocamento capil­larmente diffusa in tutta l’Alta Italia, ed im­posta nel contempo un’intelligente opera di uniformazione dei regimi contrattuali per grandi aree, con esiti ragguardevoli specie nel Lodigiano e nell’Abbiatense, e nelle zone a coltura risicola del Novarese, del Vercellese e della Lomellina33. Non è poi da escludersi che un più approfondito esame dell’opera dell’Ufficio agrario possa contribuire a sfa­tare, o perlomeno a convertire in forma pro­blematica, quel luogo comune storiografico che vorrebbe le grandi linee della politica agraria del Psi fallimentarmente attardate nell’attesa messianica della “proletarizzazio­ne” delle classi contadine e dogmaticamente incapsulate nella formula della “socializza­zione della terra” . Chiamati a sindacalizzare un corpo sociale mobile e frammentato come quello del contado milanese, dove l’elemento bracciantile — “materia prima” del sociali­smo agrario — cede il passo ad un esercito di piccoli proprietari, mezzadri, comparteci­panti, piccoli e piccolissimi affittuari nelle zone ad economia poderale34, od è surroga­to, come nella “Bassa” irrigua, dalla figura “intermedia” dell’obbligato35, gli organizza­tori socialisti in forza all’Umanitaria, adot-

33 Cfr. ASU, E.XXVI.12, Ufficio agrario. Studi e proposte. Patti colonici e E.XXVI.13, Ufficio agrario. Colloca­mento di mondariso.34 Cfr. Mario Romani, Un secolo di vita agricola in Lombardia (1861-1961), Milano, Giuffrè, 1963; Patrizia Breso- lin, Le ripercussioni della trasformazione industriale nella vita religiosa e sociale dell’alto milanese nord-occidentale (1897-1913), in “Basmsci” , a. XVII (1977), n. 1, pp. 46-81; Lodovico Taverna, I contratti colonici nell’alto milanese, Milano, Tip. 1st. Marchiondi, 1910.35 Cfr. Marcella Ballarmi, Sviluppo economico e lotte sociali nelle campagne milanesi (1900-1905), in Aa.Vv., Brac­cianti e contadini nella Valle Padana. 1880-1905, Roma, Editori Riuniti, 1975; Fabrizia Berera, Aspetti di vita reli­giosa e sociale nella bassa irrigua milanese dalla fine dell’Ottocento alla prima guerra mondiale, in “Basmsci” , a. XVII (1977), n. 1, pp. 5-45; Movimento contadino e lotta politica nel lodigiano. Fine ’800 inizio ’900. Convegno sto­rico. Atti. Lodi, 18-19 aprile 1980, Lodi, Lodigraf, 1980; Paolo Albertario, Isalari agricoli nelle zone ad economia capitalistica della bassa Lombardia net cinquantennio 1881-1930, Milano, Treves, 1931.

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tando una griglia interpretativa che richiama fortemente talune analisi del “revisionista” Graziadei, si dispongono ad un minuto eser­cizio di assimilazione della “complessità” del mondo contadino e ricorrono ad una lodevo­le flessibilità negli strumenti d’intervento. La rivendicata riforma del sistema contrattuale e dei patti colonici, intesa a ridurre a salario le forme contrattuali miste e ad abolire le clausole di compartecipazione al prodotto, non è, del resto, un mero tributo a formule dottrinarie tipiche dell’Agrarfrage secondin- ternazionalista, né una meccanica deduzione dall’assunto ideale della socializzazione della terra, quanto il consapevole derivato della constatazione empirica che il sistema parzia- rio maschera una salarizzazione di fatto del contadino, conseguente alla sua totale perdi­ta di autonomia nelle scelte agronomiche e nella conduzione del fondo, e resa infine in­sostenibile dalla sopravvivenza di gravami feudali e dall’alcatorietà dei guadagni. “Pen­so — osserva Luigi Minguzzi, reduce da un giro d’ispezione e propaganda nella Bassa — che converrebbe sfrondare il patto di tutte quelle disposizioni che chiameremo d’indole morale che diluiscono il patto ombreggiando il contenuto economico [...], in modo da ac­comunare un po’ gli interessi delle famiglie obbligate con i braccianti liberi. Credo cioè che converrebbe disobbligare questi elementi delle famiglie obbligate perché le loro gior­nate venissero ad essere pagate secondo i tempi coi prezzi della piazza libera. Presup­

porrebbe questa innovazione l’esistenza delle leghe bracciantili tutelataci e determinanti le tariffe”36. Ma svelare la sostanza pienamente capitalistica del rapporto di produzione tra proprietario, o imprenditore agrario, e lavo­ratore dipendente — sia questi l’obbligato, il colono o il mezzadro — non significa preten­dere di ridurre a un comun denominatore l’intera popolazione agricola: implica, piut­tosto, l’intenzione di rendere manifesto e, in certo senso, “anticipare” e governare il pro­cesso di sviluppo capitalistico, proponendo al tempo stesso il movimento sindacale come agente consapevole e necessario della mo­dernizzazione37. L’opera di assistenza e sin- dacalizzazione non è mai avulsa d’altronde da un sotteso problema di riassetto tecni­co-produttivo dell’azienda agraria; e ciò con­sente di isolare con chiarezza alcuni obiettivi chiave di riqualificazione del settore prima­rio e di agevolazione all’accesso della piccola azienda familiare al mercato: la sollecitazio­ne del credito e degli investimenti, la lotta al­l’assenteismo padronale e ad ogni ulteriore parcellizzazione della proprietà fondiaria, la creazione ex novo, o la riorganizzazione sul­la base dell’efficienza, di un ordito di infra­strutture ausiliarie e di servizi, nel campo della divulgazione agronomica, del credito, della previdenza e del mutualismo, come re­quisito indispensabile alla liberazione delle forze produttive. Certo, quest’impegno ca­pillare e versatile stenta palesemente a tra­dursi in teoria: al momento della sintesi po-

36 ASU, E.XX.3, Assistenza e previdenza. Convegni e congressi, prot. 92, lett. 11 luglio 1907, da Luigi Minguzzi a Massimo Samoggia.37 Mi sembrano condivisibili, a questo proposito, le considerazioni di Barbadoro, il quale rileva che “la bistrattata formula della ‘socializzazione della terra’ [...] conteneva elementi di grande interesse. Rifiutava la meccanica separa­zione tra il momento del riassetto fondiario e quello del riordinamento produttivo, qualificandosi come la condizio­ne per introdurre la produzione su larga scala — con i suoi corollari di massima utilizzazione della tecnica, di divisio­ne e specializzazione del lavoro, di livelli ottimali di produttività, ecc. — in una dimensione più vasta di quella che il capitalismo era in grado di realizzare e senza gli oneri sociali connessi a tale soluzione [...]. 11 socialismo, dunque, as­sumeva nell’accezione più vasta i concetti di dimensione economica della produzione, di modernità e di efficienza, senza subordinarsi alla mitologia capitalistica dell’economicità, definita a livello d’impresa” (Idomeneo Barbado­ro, Sindacalismo socialista e contadini nell’area irrigua lombarda, in Movimento contadino e lotta politica, cit., pp. 35-36).

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litica, la dialettica dell’Agrarfrage socialista si riduce alla generica opposizione formale di arretratezza e modernizzazione, ad un’inarti­colata aspirazione allo sviluppo che, se ha il merito di demistificare una volta per tutte ogni mitologia populistico-conservatrice del­l’universo contadino, accettando senza re­more le regole dell’economia di mercato e in­dividuando di conseguenza nella competitivi­tà dell’azienda agricola la condizione prima­ria della sua sopravvivenza, si rivela altresì incapace di ipotizzare scenari controfattuali di crescita equilibrata dell’economia nazio­nale, e di saldare coerentemente — se non avvalendosi dell’esile liaison della propagan­da — politica industriale e politica agraria, lotte contadine e rivendicazionismo operaio.

È un fatto che, nel linguaggio sindacale, il problema organizzativo tende costantemente a prevaricare la riflessione strido sensu poli­tica; ciò non di meno, il tandem Federter- ra-Umanitaria propende a mettere in pratica un modello di disciplina sindacale che non si limita alla tutela degli interessi sociali in esso incorporati, ma fa della propria solidità strutturale e della forza contrattuale che ne deriva il viatico per proporsi come interprete e portavoce dell’intera collettività rurale, sin­dacalizzata e non. Nel sindacalismo indu­striale, di converso, questa medesima ten­denza ad enfatizzare il fattore organizzativo quale entelechia del movimento (concezione peraltro caratteristica di una temperie cultu­rale che ama rappresentarsi la società in sem­bianza d’organismo: cellule elementari che si compongono in forme via via più complesse) molto più frequentemente si lega ad infles­sioni economicistiche od a permanenti tenta­zioni corporativistiche. L’adozione del moti­vo della contrattazione collettiva,e del con­nesso obiettivo della gestione sindacale del collocamento — che pure segna una linea di

frattura ben demarcata rispetto al gildismo operaista delle origini — spesso qui trascolo­ra nella formula del closed shop: nell’aspira­zione a creare cioè, tramite una procedura di selezione e filtraggio dell’offerta di forza-la­voro, aree protette del mercato del lavoro so­stanzialmente coincidenti con le concentra­zioni di manodopera specializzata e/o forte­mente sindacalizzata38. E così, lo statuto del­l’ufficio di collocamento impiantato dall’U- manitaria e dalla Camera del lavoro prevede espressamente che agli operai organizzati sia data la precedenza nell’occupazione rispetto agli iscritti nelle liste non inquadrati sinda­calmente; e non meno emblematica è la scel­ta di destinare gli istituti di formazione pro­fessionale amministrati dall’Umanitaria esclusivamente a compiti di perfezionamento e “rifinitura” degli operai già inseriti nel ci­clo produttivo: un’operazione che tende a ri­produrre e perpetuare, anziché modificare, la configurazione dicotomica del mercato del lavoro industriale e ad eludere deliberata- mente il problema sottostante della riforma complessiva del sistema d’avviamento al la­voro e dell’abolizione dell’obsoleto, oltreché iniquo, istituto del tirocinio in fabbrica.

Va detto, per la verità, che sia l’Umanita­ria che la Camera del lavoro sono indotte, in campi nevralgici come quelli del collocamen­to e della formazione professionale, a studia­re strategie che tengano conto delle resistenze di quelle associazioni di mestiere ove più soli­da permane l’autorità dell’operaio skilled, tanto recalcitranti ad accettare interferenze su canali interni di collocamento già speri­mentati e solidificati in seno alla categoria, quanto riluttanti a sacrificare quel complesso di norme interiorizzate, funzionali alla salva- guardia degli status professionali e dei ruoli sociali acquisiti, che il rapporto tra operaio qualificato e apprendista tradizionalmente

38 Cfr. in particolare Giuseppe Berta, Un caso di industrialismo sindacale: la FIOM del primo Novecento, in Aa.Vv., Sindacato e classe operaia nell’età della IIInternazionale, Firenze, Sansoni, 1983.

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comportava in fatto di trasmissione di valo­ri. Senza voler disconoscere le conseguenze di quest ’impasse, non può tuttavia essere sottaciuta la presenza di una fondamentale opzione strategica, che si condensa nella se­lettiva parola d’ordine delle “alte quote” d’iscrizione al sindacato, tesa a fare delle éli­tes operaie vecchie e nuove le uniche legitti­me depositarie del potere negoziale dell’or­ganizzazione di classe. Dalle colonne dell’“Umanitaria”, anzi, Augusto Osimo vorrebbe persino conferire dignità scientifi­ca e valore precettivo a quest’impostazione politica, avvalendosi di un raccapricciante gergo sociologistico che peraltro conferma la curiosità di larga parte della cultura socia­lista per le emergenti discipline “sociali” : “Conveniamo che certe forme di attività dell’Umanitaria [...], mirando per natura loro a quella parte della classe operaia che è moralmente e intellettualmente più elevata, [possono] essere considérât [e] come opera relativamente aristocratica. Ma tale proce­dere risponde a quella tendenza per la quale la conquista dei beni che pur soddisfano un bisogno generale, è principalmente opera degli sforzi di coloro che, meno premuti dall’intensità del bisogno, sono spronati da maggiore acutezza di sensibilità e da mag­gior forza d’iniziativa, oggetto, quindi, non dell’opera dei miseri, ai quali più urge la soddisfazione del bisogno, ma, anzi, degli sforzi di quelli ai quali la soddisfazione dei primi bisogni consente ed eccita il persegui­mento di altri beni. Saranno, insomma, spinti a procurarsi nuovi beni appunto quelli per i quali essi presentano una maggiore uti­lità relativa, che è in relazione appunto col­

la ricchezza disponibile per procurarseli e, quindi, colle risorse che rimangono dopo soddisfatte le esigenze fondamentali della vi­ta. Ma l’utilità conseguita si diffonde e s’ir­radia, per un doppio processo di imitazione e di trasfusione automatica, fino agli ultimi strati onde è composta la compagine sociale [...]. I benefici conseguiti dall’opera associa­ta dei più previdenti, dei più illuminati, dei meno titubanti, si estendono anche a coloro che all’iniziativa di quella, perché forse più miseri, non hanno partecipato: così l’au­mento dei salari, la diminuzione delle ore di lavoro, il collocamento fatto in base alle ta­riffe concordate, ecc., tutte le conquiste, in­somma, delle associazioni professionali che raccolgono, in generale, gli operai più quali­ficati, si estendono pure a favore della gran massa più povera e meno vigile”39.

Ma certo il riformismo “piccolo-operaio” della Confederazione del lavoro ha, all’inter­no dell’Umanitaria, esegeti ben più smalizia­ti del buon Osimo, al quale Nino Mazzoni dedicherà l’epitaffio di “poeta dell’azione” fors’anche alludendo amabilmente alle sue non spiccate attitudini al mestiere teorico40. Il modello tradeunionista attecchisce nella coscienza e nella prassi del sindacalismo ope­raio italiano anche in virtù dell’impegno ca­pillare di volgarizzazione delle tematiche bernsteiniane, del pensiero fabiano, dell’e­sperienza laburista, intrapreso da quegli esponenti social-riformisti che, come Fausto Pagliari, Ettore Marchioli, Angiolo Cabrini, grazie al training compiuto all’Umanitaria me­glio conoscono il dibattito ideologico in corso nei partiti socialdemocratici continentali41;

39 La verità dei fatti, in “L’Umanitaria”, 24 febbraio 1908.40 Nino Mazzoni, Un poeta detrazione: Augusto Osimo, Milano, Sonzogno, 1923.41 L’unico studio organico che Pagliari abbia lasciato è L ’organizzazione operaia in Europa. Storia. Costituzio­ne. Funzioni, 2a ed. ampliata, Milano, 1909, rielaborazione delle lezioni da lui tenute alla scuola pratica di legi­slazione sociale dell’Umanitaria. Il resto della sua produzione è costituito da articoli, apparsi soprattutto sulla “Critica sociale” e sulla “Confederazione del lavoro”, in parte raccolti, a cura della stessa Società Umanitaria, in

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il loro contributo di glossatori non ha le pre­tese sistematiche delle bonomiane vie nuove del socialismo, né la qualità della produzione graziadeiana: ma è da credere che, potendo utilizzare come canali di divulgazione sia gli strumenti propagandistici della CGdL — pri­mo fra tutti il bollettino confederale —, sia il sistema di istituti culturali collegato alla So­cietà Umanitaria, esso finisca per lasciare nel corpo sindacale, e specialmente tra i quadri periferici, un sedimento più corposo di quel­lo depositato da analisi di maggior ambizio­ne. È inoltre innegabile che in una parte con­sistente del “funzionariato” socialista in for­za all’ente milanese si fa gradatamente brec­cia la convinzione “laburista” che il destino “europeo” della nazione, l’opportunità di annullare il gap di “modernità” che la separa dai paesi “più evoluti” dipenda essenzial­mente dalle sorti dell’organizzazione sinda­cale, dalla sua capacità di abbandonare il ter­reno elementare del rivendicazionismo per farsi portatrice, scavalcando la mediazione dei partiti, di “una politica sanamente e lar­gamente riformatrice” . Il carteggio tra Ri­naldo Rigola e Fausto Pagliari — che è pro­babilmente l’espressione più sincera e coe­rente di questa vena “pansindacalista” - scandisce a chiare lettere il concetto che un’organizzazione sindacale su scala nazio­nale, solida e centralizzata, basata sulla au­tosufficienza finanziaria e su un organico

stabile di funzionari stipendiati, ispirata sul versante ideologico al disimpegno dottrina­rio delle Trade Unions e sul versante organiz­zativo al “mirabile” esempio di disciplina sindacale fornito daH’unionismo tedesco, co­stituisce — riecheggiando una ben nota for­mula bernsteiniana — la realizzazione com­piuta dell’idea socialista, nonché “l’embrio­ne di un futuro Stato”42.

A volergli assegnare una qualche colloca­zione politica, questo programma di demo­crazia laburista si stabilisce in una terra di passaggio tra il mondo socialista e le forma­zioni liberaldemocratiche, in una posizione largamente affine a quella assunta dalla “de­stra” riformista di Bonomi e Bissolati; al momento della secessione di quest’ultima dal Psi, del resto, i massimi dirigenti e alcuni tra i più prestigiosi sodali dell’ente milanese — a cominciare dal presidente Luigi Della Torre e dal segretario generale Augusto Osimo, e poi da Francesco Cafassi, responsabile dei servi­zi per l’emigrazione, da Savino Varazzani, segretario ed animatore dell’Università po­polare, da Angiolo Cabrini, Giuseppe Ric- chieri, Eugenio Rignano — sceglieranno di restituire, chi temporaneamente, chi in via definitiva, la tesssera d’iscrizione al par­tito43. L’inflessione laburista, se rischia di dissolvere il fondamento critico dell’idea so­cialista fino a ridurla a semplice vettore della “civilizzazione” industriale, pratica d’altron-

Fausto Pagliari, Scritti, Firenze, La Nuova Italia, 1963. Sulla sua personalità, cfr.la voce, redatta da M. Degl’Inno­centi, a lui dedicata in Franco Andreucci-Tommaso Detti, Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico: 1853-1943, Roma, Ed. Riuniti, 1978. Per quanto riguarda Ettore Marchioli, il quale cura, tra l’altro, l’edizione ita­liana di R.FI. Greenwood, La teoria e la pratica del tradunionismo, con prefazione di S. Webb, Milano, Ed. Avanti!, 1921, è da vedere soprattutto l’articolo II mio riformismo, in “Critica sociale”, a. XIX, n. 7, 1° aprile 1909, pp. 108- 111, in cui egli esprime la propria ammirazione per il socialismo inglese e dichiara la propria comunanza politica ed intellettuale con Graziadei, Pagliari, Bonomi: a questo proposito, cfr. anche Paolo Favilli, Riformismo e sindacali­smo. Una teoria economica del movimento operaio: tra Turati e Graziadei, Milano, Angeli, 1984, pp. 73-74.42 II carteggio è nel cit. Fondo Rigola-, cfr. anche Paolo Favilli, lì sindacato riformista nelle lettere di Fausto Pagliari a Ri­naldo Rigola (1907-1911), in “Ricerche storiche”, maggio-agosto 1983, pp. 437-492 e Carlo Cartiglia, La CGdL e il progetto di partito del lavoro, 1907-1910, in “Movimento operaio e socialista”, a. XX, n. 1, gennaio-marzo 1974, pp. 17-48.43 Cfr. Archivio di Stato di Milano, Fondo Gabinetto di prefettura, c. 1019, Partito socialista, fase. Socialisti rifor­misti, e gli elenchi degli aderenti alla sezione milanese del Psr pubblicati da “Il Pensiero riformista”, organo ufficiale degli scissionisti.

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de, nel momento stesso in cui assegna al mo­vimento operaio una funzione secolare di pianificazione della società e dell’economia, una compatta operazione di revisione dei principi del riformismo socialista, che aboli­sce definitivamente ogni dualismo tra pro­gramma minimo e programma massimo, esaurendo il campo di quest’ultimo alla pro­gnosi dello stato sociale, ed anticipa gli umo­ri rathenauiani dell’appello postbellico di Turati a rifare l’Italia44. Un messaggio aper­tamente revisionistico, che può liberamente aggredire gli stessi fondamenti teoretici della politica socialista anche perché non presce­glie quale allocutore il Psi — il quale è consi­derato “ramo secco”, destinato a cedere il passo ad un fronte interclassista di “demo­crazia del lavoro” — ma un’area di opinione settentrionalista ed industrialista, convinta — di fronte all’avanzata della civiltà delle macchine — di dover ripensare la tradizione liberale ab imis fundamentis innestandovi, sulla scorta del confronto col marxismo, una teoria del conflitto sociale, e che proprio per questo non nasconde le proprie simpatie per il fenomeno sindacale e per una politica che sia, nei suoi vari momenti, colluttazione, ne­goziazione, programmazione del benessere collettivo.

Proponendosi come crocevia ideale di que­sta “nebulosa” lib-lab — composta da fram­menti di liberismo anglofilo e industrialista, radicalismo produttivista di stile nittiano, so­

cialismo giuridico e della cattedra, imprendi­toria “moderna” e impegnata nella politica, socialismo d’impronta fabiana45 — l’Umani­taria giunge a dare un contributo “ricco”, corposo, a quella duplice aspirazione ad edu­care le masse ai “valori nazionali” e a dare coscienza politica all’Italia produttiva, che è l’idea-limite che sorregge le istanze di rifor­ma del sistema istituzionale e di ricambio della classe dirigente, il nocciolo della “que­stione nazionale” del decorso dell’età giolit- tiana. Ma è anche vero che, se l’idea di una soluzione “corporatista” alla crisi della “so­cietà automatica” e al declino delle istituzio­ni liberali continuerà lungamente ad esercita­re il suo fascino sulla coscienza politica del­l’Italia industriale, essa andrà peraltro evol­vendosi in forme ben diverse dal tipo “web- biano” suggerito dall’ente milanese. In real­tà, una Machtfrage ridotta a contrapposizio­ne di “ismi” — gradualismo vs massimali­smo vs sindacalismo e così via — impedisce all’intera cultura socialista, in ogni sua com­ponente, di fornire una lettura e una riposta alla crisi dello Stato di diritto in grado di reg­gere il confronto con le analisi di marca libe- ral-conservatrice46. Del duplice movimento prodotto dai processi di allargamento dello Stato e di articolazione/frantumazione della società civile, il gradualismo riformista tende ad enfatizzare un vettore — l’espansione del tessuto istituzionale e l’opportunità di pene­trarvi per via democratica — e a sottacere, o

44 È noto, del resto, come alla elaborazione del manifesto turatiano contribuiscano alcuni dei principali colla­boratori dell’ente milanese, come Angelo Omodeo, Benvenuto Griziotti, Luigi Minguzzi: cfr. Luigi De Rosa, Filippo Turati e la ricostruzione economica dellTtalia, in “Critica sociale”, a. LIX, n. 15, agosto 1967, pp. 443-446.45 Questa cerchia è massicciamente chiamata da Alessandro Schiavi a collaborare a “L’Italia economica. Annuario statistico-economico dell’industria, del commercio, della finanza, del lavoro” (a. I, 1907, Milano); vi troviamo, tra gli altri, Riccardo Bachi, Francesco Coletti, Arrigo Serpieri, Alberto Beneduce, Augusto Graziani, Alfredo Nicefo- ro, Giulio Revere, Carlo Francesco Ferraris.46 II riferimento fondamentale è, naturalmente, a Santi Romano, Lo Stato moderno e la sua crisi (1910), in Id., Lo Stato moderno e la sua crisi. Saggi di diritto costituzionale, Milano, Giuffrè, 1969; più in generale, cfr. Luisa Man- goni, La crisi dello stato liberale e i giuristi italiani, in “Studi storici”, a. XXIII, n. 1, gennaio-marzo 1982, pp. 75- 100; Cesare Mozzarelli-Stefano Nespor, Giuristi e scienze sociali nell’Italia liberate. Il dibattito sulla scienza dell'am­ministrazione e l ’organizzazione dello Stato, Venezia, Marsilio, 1981.

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eludere, l’altro — la crisi della centralità del­l’istituto parlamentare e la parallela crescen­te concentrazione del potere nelle mani del­l’esecutivo. La disponibilità del riformismo socialista a celebrare l’epifania della società industriale e ad evocarne dal profondo gli idolo appassisce in tal modo in un cieco de­terminismo: la convinzione che il socialismo debba realizzarsi a partire da uno stato super partes, amministratore di una società che si evolve motu proprio, impedisce di cogliere la discrasia esistente tra l’articolarsi della socie­tà in nuovi centri di potere e le strozzature determinate, a livello politico, da meccani­smi istituzionali “vecchi”; l’elusione di un lemma nodale come quello di nazione im­mette altresì la politica socialista su una lun­ghezza d’onda totalmente estranea alle stra­tegie di modernizzazione — che pure attingo­no ad un comune retroterra culturale — cre­sciute nel campo liberale sotto l’ala della po­litica giolittiana, fino a giustificare quelle operazioni ideologiche che mirano a decre­tarne l’esclusione dai compiti della “rigene­razione” etico-politica del paese: “Nel cam­po sociale, il movimento socialista è stato un gran bene; esso ha proclamato col diritto umano degli umili il sacrosanto dovere degli altri, e così lo sfruttamento, il disprezzo, l’e­goismo [..] hanno avuto un freno e saranno, col progresso morale della società, in un non lontano avvenire soppressi. Ma dove la dot­trina socialista erra perché abbandona la sua azione per assumere un compito che non è il suo è quando, finita ormai l’opera di critica, passa a quella della costruzione [...]. Il compi­to nuovo spetta ad una dottrina che segni un progresso: a quella di cui si sono fatti vessilli­feri gli Economici, che traducono in atto i teo­remi degli Economisti e dei Sociologhi”47.

Sta di fatto che, al termine del decennio “giolittiano”, lo schema di disciplinata au­toorganizzazione della società si è largamen­

te convertito in una richiesta “forte” di rista­bilimento dell’ordine e dell’autorità dello Stato; l’aspirazione ad un adeguamento delle istituzioni allo sviluppo delle forze produtti­ve trasmuta in un rifiuto della politica come luogo della mediazione presago di tempeste antiparlamentariste; una trahison che non può non chiamare in causa l’incapacità, da parte socialista, di recidere l’inquietante con­nivenza tra riformismo “borghese” e tenta­zioni autoritarie, fornendo una risposta in termini “generali” e squisitamente politici al­la crisi di rappresentatività delle istituzioni li­berali.

Una volta consumatasi la diaspora del fronte laburista, all’Umanitaria resta l’eredi­tà di un habitus mentale ecumenico, privo d’asperità e di zone d’ombra, che attinge a piene mani da una tradizione squisitamente ambrosiana di filantropia laica ed illuminista votata alla riabilitazione di tutte le energie po­tenziali della società, tanto pacato e ragionevo­le quanto disarmato dal punto di vista teorico e pronto ad assorbire il precipitato ideologico della retorica nazional-produttivista.

“La Società Umanitaria, espressione di una volontà magnifica di porgere al popolo una mano amica, perché da se stesso si elevi, si nobiliti e si educhi, al compimento di tutti i doveri e all’esercizio di tutti i diritti, attin­gendone al proprio carattere le risorse, è es­senzialmente al servizio di un ideale di pace, di armonia, di fratellanza umana di tutti i popoli liberi. Il suo programma molteplice di elevazione intellettuale, morale, educazione artistica e industriale, assistenza economica, civile e sociale, dei lavoratori, abbisogna per svolgersi di una atmosfera di pace e d’amore; e la visione che brilla costantemente al suo sguardo e che essa persegue in tutte le sue at­tività, è quella di un’Italia resa più grande e potente e forte non da ingrandimenti territo­riali o da sopraffazioni commerciali a spese

47 Il valore etico-sociale della dottrina socialista, f.to D’Olubra, in “Il Progresso”, 23 marzo 1913.

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di altre nazionalità, ma dalla messa in valore di tutte le sue energie latenti, dalla redenzio­ne, dalla colonizzazione, dallo sfruttamento, in casa propria, di tanti irredenti, di tante miniere preziose di oro purissimo, di un’Ita­lia, quale Mazzini la vagheggiò, ‘condottierà deH’Umanità e angelo di luce tra le Nazioni’. Ma perché l’Italia possa compiere questa sua missione, adempiere questi doveri fraterni verso gli italiani, è necessario anzitutto che essa esista come Nazione libera e fattrice dei propri destini [...]. Amici lavoratori! I vostri fratelli in Francia, in Inghilterra, in Belgio, in America, i vostri fratelli-nemici — sì an- ch’essi — stanno compiendo tutto il loro do­vere: se la nostra coscienza ci dicesse di non avere finora tutti noi meritato di servire ad essi di modello, sentiamo almeno tutta l’onta e l’infamia che ci consacrerebbe alla maledi­zione dei posteri, dei figli nostri, se non sa­pessimo almeno imitarli: i nostri amici e i no­stri nemici. Che quando in un giorno più ful­gido e sereno, i figli, i nipoti nostri, ci do­manderanno: ‘Che cosa facevi tu, babbo, tu nonno, nei giorni della gran guerra da cui uscì l’Italia nostra più bella e più forte?’ tut­ti, senza eccezione possiamo rispondere, con fierezza ed orgoglio e baciando sulla fronte figli di uomini liberi: ‘Figlio mio, io, tua ma­dre, le tue sorelle, i tuoi zii, tutti eravamo al fronte: tutti a combattere ed a vincere, per la Patria e per l’Umanità’ ”48.

Con questo proclama, da pubblicarsi sulle colonne della “Cultura popolare” , Osimo in­tenderebbe richiamare la classe operaia ai “doveri nazionali”, dopo la disfatta di Capo- retto. Persino il tollerante Turati, questa vol­ta, perde la pazienza, rispondendogli in malo modo: “Predicare la resistenza nelle piazze

quando non è più necessario, perché la resi­stenza si fa e splendidamente [...], equivale a confondersi colla banda criminale degli ol­tranzisti del ‘Popolo d’Italia’ ed affini, e tra­dire non solo il proprio partito, ma la pro­pria coscienza, parlo della nostra coscienza, non della tua, che — sull’argomento — è al­quanto diversa [...]. Tu ci pr.esti le tue vedute quando parli per esempio del ‘nemico’ da ‘cacciare’ (e intendi colle armi), mentre noi crediamo che bisogni cacciarlo con la pace, e non con nuovi immensi e interminabili e inu­tili macelli e colla distruzione di tre province [...]: tu ci presti le tue premesse, e concludi che non siamo coerenti ad esse, senza accor­gerti che sono le tue e non le nostre”49.

Un socialismo dal volto urbano

In realtà, il sodalizio tra l’Umanitaria ed il Psi si è già andato incrinando profondamen­te nel periodo precedente: sin dagli anni del­l’ipotesi rigoliana di “partito del lavoro”; si­no dall’impresa libica, verso la quale il tan­dem Umanitaria-Università popolare mani­festa una solidarietà appena contenuta50; si­no dalla scissione del tronco social-riformi­sta in due sezioni; sin dal momento in cui, soprattutto, sotto l’incalzare di una crisi eco­nomica e sociale che produce nel movimento operaio nuovi soggetti e nuovi comporta­menti politici, la leadership socialista è chia­mata a rivedere i capisaldi stessi del proprio programma: dalla politica dei blocchi popo­lari alla legislazione sociale, dal modello di disciplina sindacale all’atteggiamento verso l’imprenditoria “democratica” . È pur vero che alla guida dell’Umanitaria rimangono

48 ASU, Carte Osimo, Proclama ai lavoratori d ’Italia.49 /v /da Filippo Turati ad Augusto Osimo, 5 gennaio 1918; a questo episodio e, più in generale, all’atteggiamento di Osimo di fronte al conflitto mondiale, dà largo spazio E. Deeleva, op. cit., p. 127 sgg.50 Cfr. M.G. Rosada, op. cit., p. 143 sgg.; Davide Pinardi, L ’Università popolare di Milano dal 1901 al 1927, in Aa.Vv., La cultura milanese, cit., p. 78 sgg.

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dei socialisti: ma si tratta, nella maggioranza, di socialisti “eterodossi”, bissolatiani, salvemi- niani, graziadeiani, che intrattengono un rap­porto critico e tormentoso col partito: una ge­nerazione di militanti cresciuta e formatasi nel clima della politica “affinista” e che perciò stenta palesemente a comprendere i motivi del revirement intransigente compiuto dal Psi.

L’ultima fase di attività dell’Umanitaria, prima dello sconvolgimento bellico, è così contrassegnata da un ritorno monotematico al problema “tecnico” della città, che se da un lato esaspera l’adesione ai valori estetici dell’universo urbano e della “civiltà del lavo­ro” industriale, fino ad introiettare, nell’e- thos della Modernità, dell’industriosità, del­la competenza tecnica, del buon senso prati­co, il mito tutto ambrosiano della “capitale morale”, “locomotiva sbuffante della peni­sola-treno”51; dall’altro non esita a percorre­re itinerari eccentrici e ad operare una rivisi­tazione originale dello “spirito del capitali­smo” alla luce di un impegno riformistico animato da una robusta carica ideale e da una costante tensione utopica. Attraverso la sperimentazione di nuovi procedimenti di­dattici e tecnici, l’applicazione dell’arte de­corativa alla produzione meccanizzata, l’in­teresse per la grafica pubblicitaria e per l’ar­redo urbano, ad esempio, le scuole d’arte ap­plicata all’industria immettono nella presti­giosa tradizione degli istituti milanesi di for­mazione professionale e d’insegnamento tec­nico-artistico suggestioni ruskiniane e morri- siane e l’ansia di ricerca ed innovazione ca­

ratteristica del clima Art nouveau e Liberty; il ripudio del prodotto artistico come opus individuale ed irripetibile ed il suo recupero a criteri di funzionalità e di utilità collettiva va­lorizza inoltre le competenze di un circolo di professionisti della pianificazione territoriale — urbanisti, architetti, ingegneri, specialisti di estetica industriale e di cosmesi urbana — in cui spiccano i nomi di Angelo Omodeo, Luigi Conconi, Felice Mazzocchi, Eugenio Quarti, Silvio Gambini, Giovanni Broglio, Alessandro Mazzucotelli, Luigi Rossi52.

L’ambizione a ridisegnare il profilo esteti­co della metropoli moderna segnala entro l’opera della Società Umanitaria la continui­tà di una corrente di utopismo sociale che si richiama apertamente alla grande tradizione del socialismo umanitario inglese; un’utopia saldamente installata nello spazio urbano e totalmente priva di accenti apocalittici e mil- lenaristici: tesa non già a prescrivere la palin­genesi futura, ma a ricomporre il presente in un disegno razionale, a ricucire una trama di relazioni civili e di rapporti interpersonali che la città industriale meccanizzata e ato­mizzata ha irrimediabilmente sconvolto. La realizzazione par excellence di quest’impe­gno di “risanamento” civile della città è sen­z’altro la Casa del Popolo — “la più grande d’Europa”, la magnificano i dirigenti della Società Umanitaria al momento di conse­gnarla, con solenne cerimoniale, alla munici­palità, nel 1911 —, monumento, spazio idea­le prima ancora che struttura fisica: tropo dell’umanesimo socialista “dove le aspirazio-

51 L’immagine è di Filippo Tommaso Marinetti, La grande Milano tradizionale e futurista, Milano, Mondadori, 1969, p. 75; sull’argomento, si vedano le belle pagine di Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a Milano tra Otto e Novecento, Milano, Comunità, 1982.52 Cfr. Paola Mosetti-Donatella Tacchinardi, Le scuole professionali dell’Umanitaria (1902-1914), in “Nuova rivista storica”, parte I, settembre-dicembre 1983, parte II, gennaio-aprile 1984; Vincenzo Fontana, Il nuovo paesaggio del­l ’Italia giolittiana, Bari-Roma, Laterza, 1981, p. 40 sgg.; Vittorio Gregotti, Lorenzo Berni, Paolo Farina, Alberto Grimaldi, Franco Raggi, Per una storia del design italiano, in “Ottagono”, n. 34, settembre 1974, pp. 20-57; Rossa­na Bossaglia-Arno Hammacher, Mazzucotelli: l ’artista italiano de! ferro battuto liberty, Milano, Il Politilo, 1971; Giuseppe Pacciarotti, Una personalità recuperata dal modernismo italiano, Silvio Gambini, in Situazione degli studi sul Liberty. A tti de! Congresso internazionale. Salsomaggiore Terme, Firenze, Clasf, s.d. (1976), p. 237-243; Rossa­na Bossaglia, Luigi Rossi. 1853-1923, Busto Arsizio, Bramante, 1979.

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ni e le idee prendono forma e si traducono in realtà di fatti, dove si illuminano le menti e si educano gli animi, dove la forza dell’unione e la luce del sapere preparano alla classe ope­raia un più lieto avvenire”53.

La prepotenza dell’elemento simbolico-di- dascalico è, d’altronde, già apertamente av­vertibile negli esperimenti di edilizia popola­re attuati dall’ente milanese tra il 1906 ed il 190954: una volta scartata la villetta unifami­liare tipica delle garden cities britanniche a favore di palazzine di medie dimensioni, uni­te tra di loro in un corpo unico a suggerire l’interdipendenza tra la dimensione privata e la dimensione collettiva dell’esistenza, è l’e­stetica stessa degli edifici, con la severa linea­rità del disegno, l’eliminazione dalla facciata e negli interni di ogni ridondanza e di qual­siasi oggetto non strettamente funzionale, ad alludere ad un ideale di vita sana e morigera­ta austeramente dedicata alla famiglia, all’e­ducazione e al lavoro. La casa operaia non deve distinguersi dalle altre abitazioni solo per il costo e la qualità; essa deve essere, an­che e soprattutto, lo specchio della personali­tà di chi vi alloggia, “incitamento pei padri, pei figli, per le madri a propositi buoni e ad opere buone [...], una maggiore difesa con­tro le seduzioni e le insidie della bettola e del­la strada, un maggior amore alla vita asso­ciata e quindi una maggiore difesa contro la gretta considerazione del proprio interesse, contro il pettegolezzo, le invidie, le lotte... una maggiore coscienza, quindi, della pro­pria forza legata colle forze altrui, un po’ più di speranza nell’avvenire”55. Perciò le case popolari dell’Umanitaria debbono distin­guersi per i requisiti d’igiene, abitabilità e funzionalità degli ambienti: sono aboliti gli

indecorosi ballatoi esterni e passaggi comu­ni; ogni appartamento, in cui la camera da letto dei genitori è pudicamente divisa da quella dei figli, è fornito di propri servizi igienici, di acqua potabile ed illuminazione a gas ed elettrica, di un impianto di aerazione (oltre che, naturalmente, di ampie finestre), di un condotto per lo sgombero dei rifiuti, di una terrazza rientrante a protezione della privacy familiare; una larga offerta di attrez­zature di servizio compensa infine la spartana essenzialità dell’insieme: bagni, docce e lava­toi di uso comune, locali di conversazione e ritrovo, latterie sociali, negozi cooperativi, ecc.

Si deve formare una comunità operaia fie­ra del proprio carattere esemplare: la pulizia degli ambienti, la morigeratezza dei costumi, l’orrore dell’ozio è Vhabitus cui deve confor­marsi chiunque ne entri a far parte (anche perché rischia, a termini di regolamento, sa­late multe e persino la rescissione del contrat­to d’affitto). “Il movimento operaio ha biso­gno di soci che non si abbandonino a piaceri volgari!”56: avvertito da questa massima il buon inquilino ha il dovere di utilizzare in modo “sano e produttivo”, “semplice e so­brio”, anche il suo tempo libero, rifuggendo dall’alcool e dalle grossolanità della suburra. Può, dunque, parcheggiare i figli nella mon- tessoriana “Casa dei Bambini” e, dopo aver consumato la cena in sana convivialità al Ri­storante cooperativo, dedicare la serata al proprio “elevamento intellettuale e morale” nelle sedi interne della Biblioteca e dell’Uni­versità popolari. Se poi, per avventura, fossi­mo ormai giunti al 1911, egli potrebbe anche scegliere, in alternativa, di godersi uno spet­tacolo “adatto a lui e a buon prezzo” all’ap-

53 La Casa del Popolo, in “L’Umanitaria” , 16 ottobre 1910.54 Cfr. Ornella Selvafolta, La Società Umanitaria e le case popolari a Milano, 1900-1910, in “Storia urbana” , a. IV, n. 11, aprile-giugno 1980, pp. 29-65; Aa.Vv., Un’esperienza riformista (Le case operaie delia Società Umanitaria in Milano), Milano, Crea, 1983.55 L ’opera della Società Umanitaria dalla fondazione, cit., p. 37.56 Le case operaie, in “L’Umanitaria”, 10 ottobre 1909.

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pena istituito Teatro del Popolo, con buona probabilità di incappare nei drammi natura­listici di Hauptmann, Mirbeau, Fabre, Bec- que, nei bozzetti veristici di Bracco, Praga, Antona-Traversi, Giacosa, Bertolazzi, o nel­la satira puritana di George Bernard Shaw: un repertorio rigorosamente “a sfondo so- ciale”ma anche attento a equilibrare le com­ponenti didascaliche con una buona dose di disimpegnato divertimento57.

I difetti di questa “micropoli ideale” sono, innegabilmente, almeno pari alle sue virtù: alla radice permane, a conti fatti, un eviden­te disagio a leggere l’espansione della città in termini di pianificazione urbanistica dello sviluppo, il quale trova emblematica confer­ma — in palmare contrasto con 1’“esempla­re” organizzazione interna — nella mancan­za di servizi di collegamento col resto della città, nelle strade e nelle fognature non anco­ra completate, negli scarichi maleodoranti dei vicini impianti industriali58. Ma nel mo­mento in cui segnala al pubblico amministra­tore nuovi settori d’intervento (l’organizza­zione del tempo libero e della cultura; la poli­tica dei consumi; l’istituzione di servizi a fa­vore della famiglia operaia, ivi compresi i suoi componenti improduttivi) e richiama, più in generale, l’ente locale a compiti di tu­tela della “qualità della vita” nella metropo­li, l’impegno della Società Umanitaria nel campo dell’edilizia popolare rappresenta pe­raltro uno dei passaggi più significativi nel­l’evoluzione del motivo municipalista d’ini­zio secolo verso quella problematica del go­verno dei grandi centri urbani che il sociali­

smo italiano sarà giocoforza sospinto a fre­quentare dopo i successi elettorali registrati nelle amministrative del 1914 ed immediata­mente indotto ad approfondire “sotto la spinta oggettiva dei bisogni di pianificazione settoriale che la guerra porta sempre con sé”59. E gran parte delle realizzazioni del co­mune socialista di Milano nei campi dell’or­ganizzazione annonaria e dell’assistenza straordinaria per la guerra, della politica sco­lastica e del lavoro e della protezione igieni- co-sanitaria della cittadinanza, saranno di fatto fondate sulla rete preesistente di servizi ed infrastrutture creata dall’Umanitaria e sul patrimonio di esperienze e competenze accu­mulato dal milieu tecnico raccolto attorno all’ente milanese60.

Al linguaggio delPUmanitaria, come si è visto, rimane altresì saldamente compenetra­ta una corrente di rigorismo moralistico che discende in linea diretta dalla letteratura di denuncia sociale tardo-ottocentesca, a cui at­tinge abbondantemente Alessandrina Raviz- za nei suoi sentenziosi raccontini scritti per l’“Umanitaria”, popolati da un assortito campionario di disadattati — bevitori, pro­stitute, anarchici, orfanelli, storpi — redenti dal loro “abisso morale” dal buon cuore fi­lantropico della caritatevole società ambro­siana61. E se la città ideale cura amorosa- mente i suoi figli “previdenti”, altrettanto impietosamente esclude chi rischia di offen­derne il decoro: a “quelli che sono caduti”, ai potenziali delinquenti, agli alcoolisti, ai senza-arte-né-parte, l’Umanitaria non ha di meglio che proporre soluzioni di sapore

57 Cfr. Il Teatro de! Popolo di Milano, Milano, 1921.58 Si vedano le ricorrenti proteste degli inquilini, in “ASU”, E .IX .l, Case popolari. Richieste di informazioni, prot. 320.59 Giulio Sapelli, Il governo economico municipale: l ’esperienza prefascista del socialismo italiano, in Le sinistre e il governo locale in Europa, cit., p. 88.60 Cfr. Comune di Milano, Sei anni di amministrazione socialista. 3 luglio 1914-3 luglio 1920, Milano, Tip. Stucchi e Ceretti, 1920.61 Cfr. Paola Mosetti-Donatella Tacchinardi, Società Umanitaria e UPM: iprotagonisti, in Aa.Vv., La cultura mi­lanese, cit., pp. 257-260.

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vagamente penitenziario: la scelta è tra la Casa di Lavoro, tarda variazione sul tema delle Workhouses di dickensiana memoria, e la Colonia agricola di Ferno, presso Gallara­te, impegnata nell’impresa sisifea di dissoda­re 50 ettari di avarissima brughiera; i bilanci aziendali sono, com’è intuibile, perennemen­te in perdita; resta, in compenso, il “benefi­cio morale” di “togliere dalla circolazione elementi deboli, bacati; pericolosi”62 e, so­prattutto, di decongestionare il mercato del lavoro cittadino opponendo un filtro al flus­so dell’inurbamento.

L’insistenza su questo registro “lombro- siano” sottolinea quanto l’ansito liberatorio dell’utopia sia, nel nostro caso, intimamente affine allo spirito di normalizzazione che anima le embrionali velleità di pianificazione e “razionalizzazione”già ora presenti nel cor­po della società industriale, e come l’immagi­ne della città ideale rischia perennemente di trasfigurarsi nella esteriorità scenografica sottilmente oppressiva delle Esposizioni uni­versali. La città come forma simbolica del

“moderno” prende decisamente il soprav­vento sulla città come prodotto fisico di con­flitti politici e sociali. E ciò comporta, innan­zitutto, la confessa indifferenza verso quella parte “refrattaria” della società che la way o f life secolarizzata del grande centro urbano tende a respingere, fisicamente e cultural­mente, ai propri margini.

Prospero e Calibano: l’arte del demiurgo e chi manca degli strumenti politici e cul­turali per apprezzarla. E pur concesso che il riformismo civilizzatore dell’Umanitaria presume un programma a lungo respiro di “educazione civica”, un processo necessaria­mente graduale di formazione delle coscien­ze, allo storico resta, ciò non di meno, l’in­quietante constatazione che sarà per l’ap­punto questo moderno Calibano il primo ad essere ammassato inumanamente nelle trin­cee come “carne da cannone” e a dissipare prematuramente, di conseguenza, l’illusione di civiltà alimentata da Prospero.

Maurizio Ronconi

62 Società Umanitaria, Casa di Lavoro, Milano, 1908, p. 12.