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Facoltà di Scienze Politiche Cattedra di Storia Contemporanea LA TRANSIZIONE POST-SOVIETICA IN RUSSIA: 1985-2000 RELATORE Prof. Andrea Ungari CANDIDATO Gianfranco Addario Matr. 058842 ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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Facoltà di Scienze Politiche Cattedra di Storia Contemporanea

LA TRANSIZIONE POST-SOVIETICA

IN RUSSIA: 1985-2000

RELATORE

Prof. Andrea Ungari

CANDIDATO

Gianfranco Addario

Matr. 058842

ANNO ACCADEMICO 2009-2010

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INDICE DELLA TESI

CAPITOLO I - Il problema delle nazionalità.

La questione nazionale nel marxismo.

Il progetto leniniano.

Stalin, la svolta.

Russificazione dei caratteri culturali.

Russificazione della storia.

Russificazione linguistica.

La lotta alle religioni.

CAPITOLO II - L’economia pianificata (e i suoi prodotti).

L‟economia senza mercato.

Il complesso militare-industriale.

La seconda economia.

Il consenso organizzato e le sue conseguenze.

CAPITOLO III – La politica estera sovietica.

Il rapporto con il mondo.

Stati Uniti, dallo scontro inevitabile alla convivenza forzata.

L‟Europa schierata con gli Usa.

La realtà comunista in Europa.

L‟eresia della Cina.

La realtà postcoloniale e il terzo mondo.

CAPITOLO IV – I sette anni di Gorbačëv.

«Così non si può vivere».

La lezione di Andropov.

I primi passi in politica estera.

Perestrojka e glasnost‟, una nuova strategia.

La crisi economica lancia le proteste nazionali.

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Le fratture nel gruppo riformista e l‟affare El‟cin.

La perestrojka nella politica estera.

Le prime elezioni libere.

Il crollo economico e la questione nazionale.

El‟cin Presidente della Russia.

Il referendum sul futuro dell‟Unione Sovietica.

Il golpe e il crollo.

CAPITOLO V – El’cin, primo Presidente della Federazione Russa.

I Democratici al potere: la terapia d‟urto.

Il collasso dell‟economia.

Gli errori della terapia d‟urto: dal comunismo al neoliberismo.

Esplodono i conflitti fra l‟esecutivo e il legislativo.

La privatizzazione e i nuovi ricchi.

Dall‟ingovernabilità all‟«autoritarismo democratico»: l‟autogolpe di El‟cin.

Una nuova conduzione economica.

Duma nuova, Presidente vecchio.

La crisi del 1998.

La Russia tra Primakov e Putin.

Il 1999 di Putin e le elezioni del 2000.

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CAPITOLO I - Il problema delle nazionalità

L’ultimo censimento dell’Urss, svoltosi nel 1989, rivelò l’esistenza di circa cento

gruppi etnici e nazioni, di cui solo sedici con una popolazione inferiore alle

cinquemila unità. Dei quasi 300 milioni di abitanti dell’Unione Sovietica, solo il 50

per cento erano russi, gli altri appartenevano a gruppi etnici e nazionali diversissimi

fra loro. Ogni etnia parlava una propria lingua, predicava una propria religione e

seguiva proprie tradizioni culturali.

Il problema della composizione etnico-culturale fu controllato facilmente dal

Cremino grazie al sistema della pianificazione ipercentralizzata, che permetteva alla

leadership politica a Mosca di assicurarsi l’accondiscendenza delle popolazioni

locali, in particolare delle intelligencija nazionali, attraverso una soddisfacente

ridistribuzione di risorse, surplus e incarichi burocratici privilegiati.

Negli anni di Gorbačëv la questione delle nazionalità esplose in maniera

inaspettata proprio a causa delle difficoltà che colpirono il meccanismo economico,

indebolito dalle contraddizioni interne e dalle inefficienze. L’elemento scatenante

che diede il via alla catena di proteste che si susseguirono dalla seconda metà degli

anni Ottanta fu l’introduzione della glasnost‟, con la conseguente concessione di uno

spazio di dibattito e protesta per le elites politiche, economiche e culturali non-russe.

La questione nazionale era un elemento analizzato anche dalla dottrina marxista.

Tutte le politiche che il Politbjuro mise in atto, fino alla fine degli anni Ottanta,

possono essere comprese facilmente nella cornice ideologica.

Nella formulazione della dottrina, Karl Marx ha sottolineato come l’idea di

nazionalismo, come quella di religione, serva solo a soddisfare gli interessi di classe

propri della borghesia nel sistema capitalista. La questione nazionale, per questo

motivo, andava ferocemente combattuta sul piano ideologico, perché poteva essere

considerata come un colpo di coda estremo del mondo borghese che cercava di

abbattere, dall’interno, il primo Stato comunista. I vertici del Partito Comunista

dell’Unione Sovietica portarono, quindi, avanti una politica che prevedeva la fusione

di tutte le nazionalità in un corpo unico omogeneo, il «Popolo sovietico».

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Lenin prevedeva la nascita di uno Stato fortemente centralizzato. Questo elemento

era vitale per lo sviluppo dell’economia pianificata che prevedeva un forte ruolo

dell’amministrazione burocratica, la quale doveva necessariamente disporre

dell’intero territorio nazionale. Solo un’amministrazione unica avrebbe potuto

garantire la corretta allocazione delle risorse economiche e una risposta completa alle

necessità della popolazione.

Lenin partì da questa idea rendendosi subito conto che le condizioni erano difficili

e operare sin dal principio proponendo un’estrema centralizzazione del sistema

sovietico sarebbe stato controproducente per l’unità stessa dello Stato. Come per la

situazione agricola, che costrinse Lenin ad accettare dei compromessi nella Nuova

politica economica, anche davanti al panorama multietnico dell’Impero zarista il

leader bolscevico ammise un momentaneo cambio di rotta.

Lo Stato, decentrato e federale, venne formalizzato in un «Contratto nazionale»,

insito nella Costituzione del 1924, nel quale il governo centrale si impegnava nel

rispetto dei popoli che volontariamente avevano accettato di aderire alla «libera

Unione» e ai quali veniva riconosciuto in ogni momento «il diritto di libera

secessione dall’Urss».

Il sistema voluto da Lenin sembrava così avviato a una pacifica evoluzione verso

la società comunista del futuro, ma le contraddizioni e le difficoltà verso le quali si

andava incontro erano già state profetizzate da Grigorij Zinov’ev che sottolineò come

la creazione della struttura federale con potere politico decentrato era in aperto

contrasto con l’esistenza di un partito unico e centralizzato.

Stalin prese il potere in una situazione sistemica totalmente diversa da quella

esistente negli anni di Lenin. Erano passati anni dalla fine della Grande guerra, il

conflitto civile era volto al termine, così come anche la guerra sul confine

occidentale contro la Polonia. L’Armata Rossa poteva essere riorganizzata e

rafforzata, con essa prese vita anche il sistema coercitivo dell’Unione Sovietica. La

possibilità di imporre delle politiche senza concedere compromessi caratterizzò tutti

gli anni di dominio staliniano.

L’azione di Stalin, fondamentale per l’evoluzione del problema delle nazionalità

all’interno dell’Urss, fu la fine dell’indigenizzazione voluta da Lenin, sostituita da un

sempre più forte processo di russificazione.

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L’obiettivo della russificazione era, ovviamente, quello di creare un popolo

unitario sovietico. Alla base doveva esservi una cultura unica e tale processo si

poteva rivelare molto più semplice se fosse stata la cultura dominante, quella russa,

propria di circa metà della popolazione dell'Urss, a venire eletta come quella del

popolo nella fase comunista.

Nonostante le critiche che avrebbe sollevato negli anni a venire, al momento della

morte di Stalin, la russificazione aveva ottenuto un grande successo e il problema

delle nazionalità era divenuto del tutto marginale.

Gli anni di Stalin codificarono una serie di linee di azione verso le popolazioni

non-russe che poi sarebbero rimaste attuate in tutti gli anni del sistema sovietico.

Fino agli anni di Ottanta il modello operativo rimase il medesimo, risentendo in

misura minore, rispetto ad altri ambiti del sistema sovietico, delle variazioni politiche

che caratterizzarono i successivi periodi di segretariato del Pcus, quindi gli anni di

Chruščёv o di Brežnev.

CAPITOLO II - L’economia pianificata (e i suoi prodotti)

Gli economisti, alle soglie del XXI secolo, sono giunti alla conclusione,

generalmente condivisa, che il mercato è l’elemento senza il quale un qualsiasi

ordine economico cessa di agire in maniera razionale.

Questa deduzione deriva in parte anche dallo studio dei fallimenti e delle

inefficienze della pianificazione sovietica che non si è rivelata in grado, nel lungo

periodo, di promuovere lo sviluppo economico, provocando un graduale crollo dei

livelli produttivi e del tenore di vita della popolazione. L’Urss incontrò enormi

difficoltà economiche proprio in una fase evolutiva dello Stato che avrebbe dovuto

dimostrare, al contrario, la raggiunta maturità del sistema.

Agli occhi di Marx il mondo era cambiato con il controllo dei mezzi di

produzione da parte della classe borghese. Il sentiero produttivo nasceva nel denaro,

capitale iniziale, e terminava nel denaro, in un capitale moltiplicatosi durante il

viaggio grazie al profitto, nella formula D-M-D’. Il profitto altro non era, per Marx,

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che quanto ottenuto dallo sfruttamento del proletario, il quale, impiegando la sua

forza lavoro, suo unico bene, generava plus valore extra salariale, quindi non

retribuito, in grado di nutrire la forza economica dell’imprenditore.

L’Urss nacque proprio come compiuta realizzazione del potere proletario sui

mezzi di produzione, attraverso l’edificazione dell’economia pianificata e

l’eliminazione del mercato. Il fine dello Stato sovietico era la completa realizzazione

del comunismo e il Pcus non aveva altro compito se non quello di traghettare l’intero

popolo nella nuova era. L’economia pianificata sostituì l’economia di mercato,

eliminando, di fatto, l’esistenza di uno scambio indipendente di milioni di agenti, e

investendosi del compito di determinare, autonomamente, la domanda e l’offerta.

La produzione era completamente in mano ai burocrati dello Stato e indirizzata da

scelte politiche. Le quantità dei beni da produrre e distribuire, la loro tipologia, la

loro qualità, il loro prezzo: era tutto deciso dal cuore dell’Unione Sovietica, sulla

base di calcoli razionali.

Dopo la produzione anche lo stesso consumo era deciso dallo Stato centrale che

stabiliva al tempo stesso chi dovesse avere accesso a un determinato bene, grazie al

sistema delle tessere, e quali sarebbero stati i beni che la popolazione avrebbe potuto,

o non potuto, ricevere e assorbire, diretta applicazione del paternalismo.

I fallimenti dell’economia pianificata nascono proprio da questa pretesa di

determinare ogni aspetto del consumo e della produzione. In pratica l’operazione era

affidata al pianificatore che non poteva in alcun modo coordinare i miliardi di dati

che sarebbero dovuti essere necessariamente elaborati per garantire un’azione precisa

e coerente.

In un primo periodo l’economia pianificata fu di estrema importanza per

promuovere l’industrializzazione forzata e l’aumento produttivo in un’economia

sostanzialmente agricola e precapitalistica. La priorità fu data, sin da subito,

all’industria pesante e all’industria bellica, che diventarono i settori privilegiati del

sistema sovietico, conoscendo uno sviluppo rapidissimo. I successi iniziali del

totalitarismo sovietico si mantennero, altalenanti ma concreti, fino agli anni Sessanta,

quando l’economia iniziò a subire un lento declino inesorabile, approdando a un

tasso di crescita negativo negli anni Ottanta.

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Già a metà del segretariato Brežnev il sistema si mostrò afflitto da mali che

sempre più necessitavano di attenzioni e che l’intelligencija si rifiutò di curare, pur

essendone cosciente della loro esistenza. Questi mali erano stati prodotti dal

matrimonio fra l’economia pianificata, il militarismo e una determinata impostazione

ideologico-totalitaria.

L’assenza del mercato è senza dubbio il fattore determinante per comprendere i

fallimenti economici del sistema sovietico. Tuttavia, vi furono altri elementi, prodotti

proprio dalla pianificazione centrale, che contribuirono ad aggravare la degenza e a

condurre al fallimento il socialismo reale sovietico.

Il complesso militare-industriale fu uno dei prodotti più caratteristici del sistema

pianificato sovietico, la cui crescita proseguì per decenni senza incontrare alcun

limite interno, opprimendo, con il suo peso, lo sviluppo economico di qualsiasi altro

settore dello Stato.

Inizialmente con Lenin e per tutti gli anni di Stalin, l’esistenza del complesso

militare-industriale non fu mai messa in discussione, come non lo fu nemmeno la

priorità accordatagli negli investimenti, nella ricerca di manodopera, nell’evoluzione

tecnologica e nell’assegnazione di materie prime. Con Chruščëv si iniziò ad

avvertire, anche se debolmente, il peso finanziario di un’economia di guerra senza

guerra. Dagli anni Sessanta in poi, esaurito il dinamismo iniziale, l’economia

sovietica andò avanti per inerzia, raggiungendo una stagnazione completa negli anni

Settanta.

L’ultima occasione di riformare il sistema per garantire una sua sopravvivenza

passò tra le mani di Brežnev, ma questi da un lato stava assaporando gli anni di

massimo successo internazionale ed economico dell’Urss, dall’altro continuava a

essere frenato dall’impossibilità di generare riforme sistemiche.

Quando si parla di riforme economiche nell’Urss ci si domanda sempre per quale

motivo la leadership non fu mai in grado di attuare quelle riforme evidentemente

necessarie per arrestare la lenta implosione dell’impero. Secondo Victor Zaslavsky,

«Il complesso militare industriale ha contribuito in larghissima misura alla

neutralizzazione delle spinte riformiste dentro il sistema sovietico. Gli interessi della

lobby militare-industriale a mantenere la posizione di priorità assoluta coincidevano

con l’immediato interesse dei funzionari del partito-Stato a conservare il proprio

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monopolio sul potere. Gli ingegneri, i tecnici, gli operai specializzati, cioè i gruppi

più istruiti e qualificati, che in genere costituiscono la componente essenziale di ogni

movimento per le riforme, erano completamente integrati nel sistema grazie alla

posizione privilegiata di cui godevano proprio all’interno del complesso militare-

industriale. Quindi la base sociale potenzialmente favorevole alle riforme era così

limitata, che i tentativi fatti da leader come Chruščëv o Kosygin furono bloccati per

la mancanza di un serio appoggio istituzionale e sociale». La risposta è, quindi, nella

posizione sociale ricoperta dagli strati della società istruiti e qualificati, impiegati nel

complesso militare-industriale stesso. Questo gruppo vedeva nascere, dall’impiego

nel Settore A, i suoi enormi privilegi.

Da qui si può anche trarre un ovvia conclusione. I leader del Pcus quasi mai

mostrarono la volontà di dedicarsi a politiche di riforma perché il loro potere di

governo era tanto forte quanto si impegnavano a preservare lo status quo.

Gli anni di Leonid Il'ič Brežnev sono passati alla storia come gli anni della piena

maturità del sistema sovietico e della stabilizzazione delle politiche

socioeconomiche. In realtà, la stasi di cui godette l’intera realtà statale non

rappresentò la maturazione ma l’inizio di un degrado interno. Il complesso militare-

industriale aveva svuotato il sistema economico e politico sovietico di ogni sua

potenzialità e i limiti dell’economia pianificata iniziavano a emergere davanti a un

imperioso avanzare del rivale ideologico occidentale.

Le riforme erano bloccate dalla paralisi voluta dai potenziali riformatori e

congelare la situazione per oltre un decennio fu il meccanismo politico messo in

pratica dalla dirigenza del Pcus, conosciuto come sistema del «consenso

organizzato».

Per la dirigenza del Pcus degli anni Settanta era essenziale rispondere a due

esigenze: la prima garantire un discreto tenore di vita alla popolazione sovietica, la

seconda non frenare i privilegi e le priorità del complesso militare-industriale.

Confermare il tenore di vita alla popolazione si stava rivelando sempre più

difficile sia per la scarsa produzione dei beni di consumo, quantitativamente e

qualitativamente insoddisfacenti, sia per la debolezza del settore agricolo. Risolvere

questo problema relativo al tenore di vita significava colpire direttamente i

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finanziamenti e le priorità del complesso militare-industriale, politica che, come ho

affermato, era sostanzialmente impossibile per la leadership sovietica.

La soluzione fu trovata nell’esistenza in Urss di ampi depositi di risorse naturali e

materie prime per l’industria, in particolar energetiche, come il petrolio. L’estrazione

selvaggia e su larga scala di enormi quantitativi di petrolio consentì alla leadership

sovietica di esportare quantità crescenti di questa risorsa assorbendo, dal mercato

internazionale, tanto i beni di consumo, quanto i rifornimenti alimentari, che la

produzione sovietica non poteva garantire.

CAPITOLO III – La politica estera sovietica

Nel caso sovietico più che di politica estera credo si debba parlare proprio di

rapporto con il mondo. La lettura delle realtà oltre i confini non rispettava alcune

tendenze che avevano caratterizzato la diplomazia russo-zarista, situazioni

geopolitiche o principi economici. Ogni singolo Stato veniva identificato con una

determinata categoria-classe. Quindi, le scelte politiche, fin da subito, furono

condizionate da determinati pregiudizi ideologici. L’Urss fu uno Stato di nuova

formazione, per cui non voleva, ne poteva per le incompatibilità di base, essere il

continuatore della politica estera zarista, specialmente verso la Francia e il Regno

Unito, che erano stati i maggiori punti di riferimento in Europa per i Romanov. Tutte

le nuove mosse internazionali furono, quindi, «originali» e marcate dall’ideologia.

Il marxismo-leninismo aveva affermato l’inevitabilità dello scontro con il gruppo

dei Paesi capitalisti. Lo stesso Stalin aveva ribadito sul numero della Pravda dell’8

maggio 1921: «la guerra imperialista ha dimostrato, e la pratica rivoluzionaria degli

ultimi anni ha confermato ancora una volta, che la vittoria del proletariato non può

essere stabile senza la liberazione dall’oppressione dall’imperialismo».

Questa condizione politica sarebbe stata rivista negli anni a venire solo in alcune

realtà geografiche, specialmente in Europa e nel Nord del Pacifico, dove i due

blocchi si assestarono su precisi confini. Nel resto del mondo, invece, il cozzare delle

due ideologie fu continuo per tutta la durata della «Guerra fredda» e vide per

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protagonisti tanto i Paesi in via di sviluppo quanto i Paesi del Terzo mondo, appena

liberatisi dal colonialismo e, volenti o nolenti, destinati a ricadere sotto nuove forme

di dipendenza economica e controllo politico.

In sostanza, la politica estera fu determinata dai dogmi dell’ideologia. Il continuo

espansionismo era al tempo stesso una politica difensiva e aggressiva. Con

l’aggressione verso uno Stato capitalista si otteneva tanto l’eliminazione di un

nemico quanto l’allargamento della sfera socialista; si eliminava una minaccia e si

rafforzava il blocco, secondo Stalin infatti la «sicurezza dell’Unione Sovietica era

sinonimo di assoluta insicurezza per tutti gli altri». Ciò si può leggere sempre nelle

parole di Stalin, pronunciate il 15 settembre 1939: «la distruzione della Polonia nella

situazione attuale significa uno stato borghese fascista di meno. Che male c’è se,

come conseguenza della distruzione polacca, noi estendiamo il sistema socialista sui

nuovi popoli e territori?». Proprio questo era il punto: con la divisione ideologica dei

principali avversari si era venuta a creare una nuova condizione di conflitto che fu

pienamente evidente con l’evoluzione della Seconda guerra mondiale, in particolare

nelle sue fasi finali. Nella parole di Stalin, pronunciate verso lo scrittore jugoslavo

Milovan Đilas, questo è espresso in maniera limpida: «questa guerra è diversa da

tutte quelle del passato; chiunque occupi un territorio gli impone anche il suo sistema

sociale. Ciascuno impone il suo sistema sociale fin dove riesce ad arrivare il suo

esercito; non potrebbe essere diversamente».

Per alcune realtà la diplomazia sovietica incontrò una nuova era negli anni del

dopo Stalin, con lo sviluppo di una nuova cornice diplomatica, meno legata

all’univoca lettura della storia data dal marxismo-leninismo. In altri casi le direttive

decise nel dopoguerra si calcificarono e non furono mai modificate se non in

situazioni particolari e con notevole fatica. È comunque innegabile che a partire dagli

anni Settanta il peso dell’ideologia sia stato lentamente affiancato da una nuova

concezione della politica estera, una Realpolitik, legata a interessi di una nuova

politica di potenza.

In un’analisi delle relazioni internazionali dello Stato sovietico è possibile, in

questo modo, incontrare alcuni Stati-categoria che imposero a Mosca,

ideologicamente o realisticamente, un determinato modo di impegnarsi nella politica

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estera. Principalmente questi Stati possono essere raggruppati in Stati Uniti, Europa

occidentale, Europa orientale, Cina e gli Stati del Terzo mondo e in via di sviluppo.

CAPITOLO IV – I sette anni di Gorbačëv

Konstantin Ustinovič Černenko si spense il 10 marzo 1985. Diversamente da

quanto accadde dopo la morte di Brežnev, quando si aprì un lungo periodo di scontro

politico tra conservatori e riformatori, la classe dirigente non si fece trovare

impreparata. Il giorno dopo, Michail Sergeevič Gorbačëv fu nominato, in uno dei

Plenum del Comitato centrale più brevi, Segretario generale del Pcus.

L’elezione di Gorbačëv fu salutata con favore dalla popolazione dell’Unione

Sovietica. Dopo oltre venti anni durante i quali la direzione politica era stata nella

stretta di una gerontocrazia, i cui esponenti erano anziani, deboli, incolti e privi di

qualsiasi coraggio politico, la comparsa sullo schermo della televisione di Gorbačëv

rappresentò senza dubbio una svolta importante.

Il nuovo Segretario era giovane ed energico tanto che con i suoi 52 anni fu il

leader del Pcus più giovane dai tempi di Lenin. Gorbačëv era anche istruito, aveva

una laurea di agronomo-economista e una in giurisprudenza, era in grado di parlare a

braccio, senza leggere discorsi retorici scritti da altri, e abile a trattare gli ospiti

stranieri, senza l’incapacità e l’insicurezza di Brežnev e senza il carattere rozzo e

grossolano di Chruščёv.

I principi secondo i quali Gorbačëv avrebbe avviato le sue politiche e le sue

riforme erano generalmente condivisi. Senza dubbio andava considerato un veloce

ritiro dall’Afghanistan e andava cambiata la chiave di lettura della situazione

internazionale, poiché il dogma dello scontro e dell’incompatibilità tra capitalismo e

comunismo stava costando molto all’Unione Sovietica, soprattutto considerando la

continua corsa agli armamenti. L’obiettivo cardine di Gorbačëv era, però, una veloce

ristrutturazione della situazione economica che comportava anche continue difficoltà

finanziarie, soprattutto legate a un eccessivo peso della bilancia commerciale sulle

casse del Cremlino.

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L’esigenza di rinnovare il meccanismo economico era accolta da tutti i riformisti.

Anche parte dei conservatori avrebbe potuto accettare alcuni dei cambiamenti

proposti dalla nuova leadership. Il reale scontro, con profonde crepe persino

all’interno dell’ala riformista, si sarebbe creato proprio nel momento di decidere, in

pratica, con quali strumenti e in che modi perseguire la realizzazione di un obiettivo

condiviso.

Gorbačëv, durante il Plenum di aprile del 1985, raccolse intorno a se coloro che

sarebbero stati i suoi collaboratori più stretti, essenzialmente Ligačëv, Ryžkov,

Jakovlev e Aganbegjan che, insieme a El’cin, sarebbero diventati i principali

protagonisti degli ultimi anni di vita dell’Unione Sovietica.

Sostanzialmente, l’idea di Gorbačëv era quella di «razionalizzare il sistema

sovietico, lasciandone intatte le principali organizzazioni e istituzioni», riprendendo

in linea generale quello che era stato il programma di trasformazione di Andropov.

La riforma principale di questo primo Gorbačëv fu, senza dubbio, il tentativo di

«mobilitazione tecnocratica» attraverso l’uskorenie. Questa riforma doveva

permettere il raggiungimento degli standard produttivi del mondo occidentale

capitalistico. Lo scopo principale era la crescita tecnologica, in modo da

incrementare la qualità e la quantità del prodotto e migliorare la produttività del

lavoro.

Questa prima forte riforma di Gorbačëv si rivelò un fallimento molto costoso.

L’importazione di tecnologia dall’estero con il programma di investimenti si sommò

alle cifre già spese per l’acquisto di cereali e di beni di consumo, aggravando la

situazione della bilancia commerciale sovietica.

Il secondo provvedimento che Gorbačëv adottò per aumentare la disciplina sul

lavoro fu quello di vietare l’uso di alcol. Il proibizionismo fu forse la misura più

impopolare presa da Gorbačëv, che in seguito ne avrebbe scaricato la responsabilità

sui suoi collaboratori, e non portò ai risultati sperati.

Dopo questi fallimenti, Gorbačëv aveva maturato una certezza: il sistema doveva

essere riformato in maniera radicale. L’Urss doveva abbandonare prima di tutto la

logica improduttiva che aveva dominato l’esperimento di economia pianificata con

ipercentralizzazione, secondo cui l’esigenza del completamento del piano rendeva

trascurabile il costo. L’introduzione di alcune forme di mercato e la creazione di un

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meccanismo concorrenziale erano l’unico rimedio per portare un po’ di aria al

meccanismo economico sovietico.

Avviare questa rivoluzione significava passare per il partito, organo che deteneva

il monopolio politico, in grado di bloccare ogni tentativo di svolta che non fosse stato

in linea con i propri interessi. Non è difficile, quindi, capire che Gorbačëv, per agire

liberamente sulla via delle riforme radicali, doveva eliminare la possibilità di una

forte reazione contraria da parte del partito. Glasnost‟ e perestrojka avevano questa

funzione.

La glasnost‟ doveva introdurre uno spazio alla critica, la possibilità di parlare

della situazione del Paese, la libertà di denunciarne i problemi o eventualmente i

responsabili. Scoprendo la rete di privilegi del partito, la corruzione degli anni di

Brežnev, la degenerazione che aveva colpito il Pcus, Gorbačëv sperava di ottenere un

forte appoggio dalla popolazione per le sue riforme.

La perestrojka, «ristrutturazione», pronta ad agire in questa situazione di glasnost‟

per avere successo, era, più che una riforma vera e propria, un «periodo di riforme»,

tanto politiche, quanto economiche.

Per la natura del sistema stesso le riforme più radicali furono portate avanti in

campo politico, in quanto le riforme economiche radicali avevano bisogno che la

sovrastruttura politica fosse totalmente rivoluzionata con la fine del monopolio del

Pcus. La riforma principale che doveva essere promossa in campo economico era la

riforma dei prezzi, forniti sottocosto o a un prezzo simbolico dallo Stato. Questa

riforma non fu mai veramente presa in considerazione da Gorbačëv poiché aggrediva

dei privilegi che, a spese della sopravvivenza dello Stato, erano garantiti all’intera

popolazione e il Segretario generale non aveva ancora una forza politica sufficiente

per poter assumersi la pesante responsabilità di una tale decisione.

La fine della uskorenie viene fatta coincidere con il XXVII Congresso del Pcus

nel febbraio 1986. Data che viene riconosciuta come inizio di una nuova politica che

sarebbe collimata nella perestrojka e nella glasnost‟.

Il problema delle nazionalità, invece, non fu affrontato in maniera innovativa da

Gorbačëv che insistette a sottolineare come, in un periodo di così grande crisi per

l’Urss, cercare la soddisfazione di interessi particolari fosse una spregevole

manifestazione di localismo.

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Sul piano politico la prima piccola rivoluzione fu un nuovo sistema di investitura

per le cariche più importanti del partito: Gorbačëv introdusse il principio

dell’elezione diretta tra più candidati, abbandonando il sistema della nomenklatura.

Un secondo obiettivo raggiunto dalla perestrojka, questa volta in campo

economico, fu la legge sull’attività lavorativa individuale. Con questa riforma veniva

data la possibilità di svolgere un’attività lavorativa indipendente come unica e

principale forma di attività, mentre in precedenza i lavori fuori dalla sfera statale

erano permessi solo nel tempo libero, una volta terminati gli impieghi nei campi o

nell’industria.

La glasnost‟ fu in qualche modo l’arma con la quale Gorbačëv riuscì a proseguire

la sua opera riformatrice. Coinvolgendo, infatti, una moderata spinta dal basso, il

leader sovietico poteva tutelarsi in parte dalle resistenze del partito. Questa nuova

riforma, tuttavia, contribuì anche ad accelerare il crollo sovietico, attraverso due

degenerazioni. In primo luogo, la glasnost‟ fece crollare la legittimità e la credibilità

dello Stato rivelando apertamente quanto accadeva, o era accaduto, nel mondo

sovietico. Esempi possono essere tanto i problemi di corruzione, quanto le «pagine

bianche» del passato. In secondo luogo, il nuovo spazio di dibattito colpì anche

l’intelligencija non-russa, permettendo la nascita di spazi di protesta sempre più

ampi. La situazione linguistica fu la prima ad essere affrontata, già nel 1986.

L’intelligencija non-russa ebbe un ruolo di primo piano nelle proteste nazionali

che segnarono il segretariato del secondo Gorbačëv, mobilitando ampie fasce della

popolazione. Quest’azione era sempre stata mitigata da Mosca grazie alla forza delle

politiche economiche. La frattura dell’equilibrio di Brežnev con la fine del

meccanismo del consenso organizzato diede coscienza alle intelligencija delle varie

repubbliche che appresero la necessità di muoversi incontro a un nuovo equilibrio,

interno o esterno al potere sovietico.

In effetti, la situazione economica, già nel 1987, stava precipitando ancora più

velocemente, peggiorando i livelli già critici del quinquennio precedente. I costi

dell’uskorenie avevano colpito con forza il bilancio del sistema sovietico. La risorsa

che aveva permesso il funzionamento del consenso organizzato, il petrolio, stava

attraversando una fase in cui i prezzi continuavano a crollare, che si accompagnava a

un crollo della produzione petrolifera nazionale.

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La crisi di sistema e l’allontanamento dal condiviso orientamento riformistico

dato da Andropov mise in luce le divisioni interne al gruppo riformatore di

Gorbačëv.

Il tema della glasnost‟ evidenziò la prima grande frattura all’interno dei riformisti

e si risolse nel grande scontro fra Ligačëv e El’cin che avrebbe ben presto coinvolto

anche il Segretario generale. La gestione dell’affare El’cin fu uno degli errori politici

più gravi compiuti dal leader sovietico, il cui effetto fu quello di rendere El’cin

l’anti-Gorbačëv, un riformatore radicale, feroce nemico del Pcus, dei suoi privilegi e

della sua corruzione, mentre Gorbačëv, alla fine, del Pcus era pur sempre il

Segretario generale, per questo identificato con l’apparato di partito, con i suoi errori,

corruzione e privilegi.

Nel gennaio 1988 Gorbačëv aveva capito che il problema dell’Unione Sovietica in

quella fase di trasformazione era essenzialmente la rigidità del sistema politico.

L’ordinamento era retto dal partito, la politica si fondeva nell’amministrazione e si

investiva di funzioni legate alla pianificazione economica. Gorbačëv doveva

assicurarsi il pieno controllo dell’apparato di partito per non fare la fine di Chruščёv,

era quella la chiave per mantenere il controllo dello Stato e individuò una semplice

soluzione: «se il partito rifiutava di lasciarsi governare egli avrebbe ridimensionato il

quadro costituzionale dell’Urss e ridimensionato il ruolo del partito».

Il leader sovietico avviò altre riforme politiche, tese essenzialmente a ridurre le

influenze della Segreteria del partito sull’Ufficio e a favorire una traslazione del

potere dal ruolo di Segretario generale a quello di Presidente dell’Urss con la

costruzione di un nuovo sistema presidenziale. Come si capisce da queste prime

riforme lo scopo di Gorbačëv era quello di trasformare lo Stato sovietico in uno Stato

di diritto. Per fare ciò le funzioni del partito dovevano essere trasmesse a organi

statali legittimati dal voto popolare.

In pochi mesi Gorbačëv si occupò di ridurre i membri del partito, di allontanare

molti funzionari, di chiudere molti uffici. Nel suo tentativo di ridurre l’influenza del

partito, il leader sovietico scatenò un effetto collaterale che affondò definitivamente

ogni speranza per il sistema economico sovietico. La chiusura di molti uffici e il

licenziamento di molti funzionari eliminò gran parte degli organi amministrativi che

si occupavano di determinare, controllare e far funzionare, il sistema economico.

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L’economia di piano, che era fallita sul piano dell’economicità ora aveva perso anche

il controllo direttivo ed era giunta, infine, a una fase di anarchia completa.

Dalla fine del 1988 il problema dell’economia in Unione Sovietica divenne mese

dopo mese sempre più grave. Gli anni passati ad aggirare le difficoltà economiche,

smembrando la direzione politica e sottovalutando la riforma dei prezzi, avevano

causato una totale anarchia produttiva e aggravato la bilancia commerciale.

I problemi economici, per quanto gravi fossero, non modificarono la linea politica

adottata da Gorbačëv. Le riforme economiche importanti continuarono a essere

ignorate per il timore che, insieme a proteste contro la perestrojka o alla nascita di

umori fortemente conservatori, si potessero generare anche una serie di conflitti,

potenzialmente in grado di sfociare in una guerra civile, a causa delle proteste

nazionali che erano esplose in ogni Rss. I popoli dell’Unione Sovietica chiedevano

una sempre maggiore autonomia economica, richieste che venivano regolarmente

deluse.

Davanti al crescere di queste ondate di proteste economiche e nazionali l’apparato

del Pcus iniziò un lento spostamento del baricentro politico, assumendo

atteggiamenti di resistenza alle riforme per mantenere un potere che stava sempre più

rapidamente sfuggendo dal controllo del partito e del Cremlino. La svolta

conservatrice coinvolse anche Gorbačëv, che iniziò ad attaccare verbalmente in ogni

occasione i riformisti più radicali, accusandoli di aver portato alla degenerazione più

completa le riforme da lui avviate.

I democratici, guidati da El’cin e Sacharov, cavalcavano l’onda delle proteste, di

qualunque genere fossero, adottando la causa dei manifestanti di turno come se fosse

la loro. El’cin in breve tempo raccolse intorno a se gli scontenti del sistema, un

gruppo in continua crescita concentrato nelle città più grandi dell’Unione.

Le paure del partito trovarono una conferma nelle elezioni del marzo 1990,

quando i diversi popoli dell’impero furono chiamati per eleggere i delegati dei

rispettivi Soviet nazionali. Nelle diverse Rss, i Soviet erano stati conquistati dalle

intelligencija nazionaliste locali. In Russia, invece, a vincere fu la Piattaforma

Democratica, DemRossija, un blocco elettorale creato proprio per le elezioni

nazionali russe. Il progetto di DemRossija e, quindi, di El’cin, membro centrale della

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nuova formazione politica, era quello di dare vita in Russia a una presidenza

nazionale.

Il 19 maggio del 1990, completata la formazione della Presidenza nazionale russa,

Boris El’cin venne eletto primo Presidente della Russia. La prima mossa di El’cin fu

proprio quella di ritagliarsi lo spazio sufficiente per una manovra economica in grado

di modificare, a fondo, la crisi economica che colpiva la Russia. L’unico modo per

agire in maniera svincolata dal Cremlino era quello di ribadire la sovranità dello

Stato russo. La dichiarazione di sovranità russa giunse dopo quella estone, lettone,

lituana e georgiana e aprì la strada a dichiarazioni simili da parte degli ucraini,

moldavi e uzbeki, che seguirono quasi subito l’esempio russo. Quest’azione provocò

il collasso dell’economia centrale che non disponeva più di un controllo esteso

all’intero territorio nazionale.

Gorbačëv sapeva che il pericolo di una dissoluzione, di uno smembramento, era

vicino, perciò aveva bisogno di dare una legittimità popolare e una forza nuova alle

proprie politiche a favore dello Stato unitario. L’unico modo per convincere i

Presidenti delle diverse Repubbliche dell’impero, che avevano una legittimità

maggiore della sua in quanto eletti dal popolo, fu quella di proporre un Referendum

che chiedesse al Popolo sovietico di scegliere per la sopravvivenza o meno dello

Stato federale. Gorbačëv confidò in un risultato positivo che avrebbe costretto i

diversi contropoteri nazionalistici a rispettare la decisione della popolazione.

Il risultato del referendum rivelò che la popolazione sovietica era favorevole alla

sopravvivenza dell’Urss. Gorbačëv interpretò questo esito come un mandato a

rinnovare lo Stato federale, concedendo maggiore autonomia alle diverse entità che

lo costituivano. El’cin e Gorbačëv diedero il via alla realizzazione di un nuovo

trattato dell’Unione Sovietica che doveva sostituire quello degli anni venti. Insieme a

loro, iniziarono a lavorare anche gli altri Presidenti delle diverse Repubbliche:

Bielorussia, Ucraina, Uzbekistan, Azerbaigian, Kirghizistan, Turkmenistan,

Kazakhstan e Tagikistan. I dissapori tra El’cin e Gorbačëv sembrarono spariti

improvvisamente e i due decisero di collaborare in direzione di un accordo comune

su un progetto che prevedeva la nascita di uno Stato basato sul principio di

sussidiarietà, in cui il centro avrebbe svolto solo funzioni che i diversi Stati federati

non avrebbero potuto svolgere autonomamente.

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A impedire l’entrata in vigore del nuovo trattato furono gli eventi dell’agosto

1991 e, in particolare, il golpe organizzato dalle forze conservatrici, contrarie a un

nuovo assetto dello Stato.

Tutti i responsabili del golpe erano individui che, in passato, avevano appoggiato

completamente le azioni di Gorbačëv. Rispettavano il leader sovietico e,

generalmente, riconoscevano la necessità del riformismo nel sistema. Alcuni di loro

avevano anche idee molto più radicali di quelle del Segretario generale, specialmente

riguardo allo scongelamento dei prezzi e all’introduzione di un vero ordine di

mercato. Tutti però, radicali, riformisti o conservatori che fossero, erano contrari alla

fine dell’Urss come Stato federale o alla sua trasformazione in un nuovo assetto. Il

colpo di Stato era l’ultima possibilità che avevano per salvare l’Unione Sovietica.

Il golpe fallì per alcuni errori compiuti dai cospiratori, primo fra tutti la decisione

di non arrestare El’cin. Il Presidente russo godette di una libertà d’azione che gli

consentì di contattare i membri principali del suo entourage e, quindi, di raggiungere

indisturbato il palazzo del governo russo. Da lì, grazie alle linee telefoniche non

isolate, riuscì a comunicare con il governo di Washington e a organizzare una difesa

del palazzo del governo di Mosca con l’ausilio del Generale Pavel Sergeevič Gračëv.

Iniziato il 19 agosto, il golpe terminò il 21, in un fallimento.

El’cin non poteva più accordarsi con Gorbačëv perché, alla fine del golpe di

agosto, i democratici avevano conquistato un potere politico solido e legittimo. Il

golpe era stato gestito dai vertici dell’apparato del Pcus, da elementi in vista del

complesso militare-industriale e da membri del governo sovietico. Tutte queste

personalità non erano affatto legate alla Russia federale di El’cin, mentre Gorbačëv,

rappresentando simultaneamente il passato, il governo e il partito comunista

dell’Unione Sovietica era, innocente o meno, il miglior capro espiatorio possibile. La

legittimità di Gorbačëv crollò in Russia e al suo posto si sollevò imponentemente la

figura di un nuovo El’cin che si era comportato con notevole abilità nel corso

dell’insurrezione di agosto.

La prima mossa del nuovo El’cin fu quella di sciogliere il Partito comunista

sovietico, ritenuto diretto responsabile di quanto era accaduto nel mese di agosto, e di

nazionalizzarne tutti i beni. In secondo luogo volse la sua attenzione direttamente alla

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situazione economica affrontando subito la questione relativa al mercato e alla

liberalizzazione dei prezzi.

Nonostante l’Urss fosse ormai un involucro vuoto, Gorbačëv continuò a spingere

per la costituzione di un nuovo trattato dell’unione, forte dei risultati referendari.

Dopo poco più di un mese di negoziati serrati, a novembre, gli Stati raggiunsero un

accordo su un trattato che creava una confederazione dotata di alcuni poteri propri di

uno Stato federale. Fra i diversi Stati fu l’Ucraina a dimostrarsi maggiormente

titubante sulla nuova proposta di Gorbačëv e decise di ricorrere a un referendum

popolare che si tenne il primo dicembre. La Russia di El’cin decise di subordinare la

propria adesione al nuovo accordo a una precedente ratifica del trattato da parte

dell’Ucraina.

Il voto in Ucraina non lasciò dubbi. Il 90 per cento dei votanti furono a favore di

una completa e totale indipendenza. Senza l’adesione dell’Ucraina e della Russia, la

nuova unione non aveva motivo di nascere. Una settimana dopo, l’8 dicembre, i

presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia firmarono una dichiarazione che attestava

la fine dell’Unione Sovietica.

CAPITOLO V – El’cin, primo Presidente della Federazione Russa.

Al termine del golpe di agosto il potere politico nei confini della Federazione

russa era passato completamente nelle mani di El’cin e dei democratici. Nel nuovo

assetto politico che si stava delineando El’cin avrebbe ricoperto sia la carica di

Presidente della Russia che quella di Primo ministro.

Accentrato il potere nelle sue mani il leader russo si impegnò a scegliere il suo

entourage, raccogliendo intorno a se gli uomini che lo avrebbero affiancato

nell’ardua fase di riforme. A capo del gruppo di riforme nominò Egor Timurovič

Gajdar, fino ad allora praticamente sconosciuto.

Gajdar compose un team convocando a Mosca numerosi giovani economisti,

quasi tutti magicamente attratti dagli Stati Uniti e dal loro modello capitalistico, ai

quali furono affiancati esperti occidentali, come Jeffrey Sachs e Anders Åslund.

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Gli economisti russi che entrarono nel gruppo Gajdar erano cresciuti negli anni di

Brežnev, non avevano una vera istruzione economica né una vera esperienza sui

modelli del capitalismo occidentale o delle diverse forme di mercato. L’unica

certezza che li muoveva era il binomio mercato-ricchezza, che negli anni di

Gorbačëv avevano imparato a leggere come inscindibile. A questo gruppo, fra

l’ideologizzato e l’ingenuo, furono affiancati gli esperti occidentali, per lo più

provenienti dagli Stati Uniti, che non avevano una conoscenza completa della realtà

post-sovietica e, altrettanto ciecamente, spinsero all’adozione in Russia del modello

capitalista americano di stampo liberista.

Il gruppo di Gajdar, partendo da queste idee generali, avviò il progetto di riforme

dalle raccomandazioni che il Fondo Monetario Internazionale e la Banca

Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo avevano espresso. Tali

raccomandazioni celavano condizioni da accettare per poter ricevere finanziamenti e

continui flussi di moneta estera, vitali per un dissestato bilancio russo.

Il piano di Gajdar, conosciuto come «terapia d’urto», fu presentato alla Russia

dallo stesso El’cin, con parole rassicuranti: «le cose andranno peggio per tutti per

circa un semestre, poi ci sarà un abbassamento dei prezzi e il mercato dei generi di

consumo sarà rifornito adeguatamente. Nell’autunno del 1992 come ho promesso

prima delle elezioni, avremo una stabilizzazione dell’economia e un graduale

miglioramento del tenore di vita».

Il 2 gennaio 1992 fu avviata la «terapia d’urto». Bastò il primo trimestre del 1992

a distruggere qualsiasi certezza del nuovo gruppo di governo. A marzo i democratici

di El’cin capirono di aver scatenato qualcosa che non potevano controllare con la

facilità che si erano aspettati e la popolazione russa si rese conto che per la rinascita

economica non sarebbe bastato attendere sei mesi. Lo shock per la Russia era stato

superiore alla più pessimistica delle previsioni del governo o del Fmi.

Gajdar si aspettava nel primo trimestre dell’anno un aumento dei prezzi pari al

300 per cento, un inflazione di circa il 10 per cento e un crollo della produzione non

superiore al 12 per cento. La realtà smentì clamorosamente le idee del team

economico. I prezzi impennarono fino al 900 per cento e da marzo in poi gli aumenti

esplosero incontrollati fra il 3.000 e il 10.000 per cento mentre i salari, al contrario,

aumentarono solo del 100 per cento, azzerando quasi completamente il consumo

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interno e provocando il ritorno del commercio sotto forma di baratto. La produzione

crollò del 20 per cento e l’inflazione fu talmente forte da costringere la Banca

centrale a emettere numerose banconote di grosso taglio, alcune delle quali non

avevano mai avuto grande diffusione e altre che, al contrario, non erano proprio mai

esistite. I tagli più diffusi diventarono quelli da 50.000, 100.000 e 500.000 rubli.

I fallimenti possono essere ascritti anche nella rapidità del cambiamento che non

aveva tenuto conto degli elementi strutturali dell’economia russa, necessari per un

sistema pianificato ma controproducenti in una realtà di mercato.

L’influenza che aveva avuto l’occidente sui primi economisti russi e, di

conseguenza, sulle decisioni che questi presero, portò i russi, in una fase inoltrata

della crisi, a considerare responsabili della situazione russa gli Stati occidentali che

avevano deciso deliberatamente di condurre la Russia a divenire uno Stato fornitore

di materie prime con un’economia distrutta.

La fiducia nei democratici di El’cin aveva raggiunto, nell’aprile del 1992, livelli

estremamente bassi. L’apice del successo di El’cin, risalente solo a qualche mese

prima, iniziava già a diventare un ricordo remoto.

In questo contesto iniziarono i conflitti fra il legislativo e l’esecutivo che

limitarono con forza l’azione politica di El’cin. Le pressioni del Soviet Supremo, per

esempio, costrinsero il Presidente russo a nominare Premier Černomyrdin, invece

che Gajdar, come avrebbe voluto.

Bastò, tuttavia, un mese per rendersi conto che Černomyrdin non era in grado di

gestire una propria linea politica. Gajdar era stato reinserito nel governo dietro la

precisa richiesta di El’cin che lo aveva nominato Vicepremier. Černomyrdin aveva

assunto il ruolo di Primo ministro ma non aveva intorno a se uomini di fiducia; tutti

coloro che accerchiavano il nuovo Premier erano fedeli alle politiche di Gajdar.

Dopo il lancio della liberalizzazione dei prezzi, la seconda riforma che impegnò

maggiormente i riformatori della leadership russa fu la privatizzazione.

La Russia di El’cin non aveva alcuna esperienza in merito alle privatizzazioni e

l’argomento era talmente vasto e complicato che per studiarlo fu composto un

apposito istituto, la Commissione di Stato per la gestione dei beni statali. Incaricato a

dirigerla fu Anatolij Borisovič Čubajs, un vecchio amico di Gajdar, con il quale

aveva sempre condiviso le principali idee di politica economica.

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Il team di Čubajs si occupò prima di tutto di stilare un inventario completo di tutte

le proprietà che appartenevano allo Stato, ottenendo in tal modo il valore

complessivo dei beni da privatizzare. A quel punto gli economisti divisero il valore

complessivo delle proprietà pubbliche per il numero di abitanti. La somma ottenuta,

10 mila rubli, corrispondeva alla cifra che ogni cittadino russo doveva ricevere. Fu

così che, nell’autunno del 1992, si decise di iniziare a distribuire buoni dal valore di

10 mila rubli, quanto spettava a ogni cittadino russo. Con tali buoni era possibile

acquistare un numero di azioni di una qualsiasi industria ex sovietica che, intanto,

sarebbe stata trasformata in una società per azioni.

Questa privatizzazione attraverso il sistema dei buoni fallì e la leadership russa,

che veniva colpita dalla necessità di monetizzare le proprietà dello Stato per

finanziare il bilancio, decise di procedere attraverso una vendita diretta al migliore

offerente. La vendita fu aperta, ora, anche al capitale straniero, nella speranza che le

offerte potessero raggiungere cifre che coprissero in maniera significativa il valore

del bene ceduto.

In realtà, anche questa seconda fase della privatizzazione si rivelò disastrosa. I

prezzi si mantennero sempre bassi e andarono a coprire mediamente il 10 per cento

del valore reale di ogni singolo complesso industriale ceduto.

Le due ondate di privatizzazione riuscirono a creare, alla fine, una classe di

proprietari, come Čubajs e Gajdar volevano. Tuttavia, questa nuova classe era molto

più esigua di quanto ci si aspettava inizialmente: i capitali erano accentrati in poche

mani e i nuovi ricchi appartenevano a determinate categorie sociali che, durante la

transizione al mercato, si erano ritrovate particolarmente avvantaggiate.

Nei primi mesi del 1993 la crisi che aveva colpito i rapporti fra esecutivo e

legislativo si aggravò ulteriormente. La situazione politica era paralizzata, ogni

meccanismo inibito. L’unica soluzione possibile sarebbe stata tornare alle elezioni,

ma nessuna delle due parti aveva intenzione di sottoporsi al voto popolare.

El’cin lanciò la sua offensiva a settembre. Nei primi giorni del mese il Presidente

russo incontrò il ministro della Difesa Pavel Sergeevič Gračëv, il ministro degli

Interni Viktor Erin e il ministro della Sicurezza di Stato Nikolaj Goluško. Tutti e tre

confermarono a El’cin che i ministeri forti dello Stato russo si sarebbero schierati con

lui, nel momento in cui fosse sopraggiunta una crisi. Ottenuto l’appoggio

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dell’apparato coercitivo dello Stato, il 21 settembre El’cin diffuse il testo del

«Decreto n. 1400», che prevedeva lo scioglimento del Soviet e del Congresso,

l’istituzione di una Duma di Stato subordinata al legislativo e la stesura di un nuovo

testo costituzionale. Il Soviet si riunì e dichiaro decaduto il potere del Presidente,

colpevole di aver violato la Costituzione.

Il cuore politico della Russia si trovò, in questo modo, diviso in due. Da un lato il

Parlamento, che dalla sua aveva la legalità e la Costituzione, oltre all’appoggio dei

giornali. Dall’altro lato il presidente El’cin e l’esecutivo che poteva avvalersi

dell’apparato coercitivo, dei ministeri forti, dell’appoggio delle potenze occidentali e

delle televisioni nazionali.

Il braccio di ferro si risolse a favore di El’cin che, dopo aver ordinato di

bombardare la sede del Soviet Supremo, decretò l’arresto dei suoi oppositori politici.

In questo clima politico, distorto dalle repressioni, dalle morti e dagli arresti di

molti parlamentari, si tennero il 12 dicembre 1993 le elezioni per decidere la

composizione della nuova Duma, la nuova camera bassa erede del Soviet

dell’Unione.

Le elezioni del dicembre 1993 furono senza dubbio anomale. Partecipò una sola

formazione nazionalista, il Partito liberaldemocratico, che raccolse il 22 per cento.

Un discorso analogo può essere considerato per il Partito Comunista della

Federazione Russa, di Gennadij Andreevič Zjuganov. L’assenza di un’opposizione

consentì, tuttavia, a El’cin di circondarsi di forze moderate che rappresentavano gli

interessi del capitale o della burocrazia. El’cin riuscì, quindi, a raccogliere un numero

sufficiente di consensi, che gli permise di tenere la Duma sotto il proprio controllo,

diversamente da quanto accadeva in precedenza con il Soviet Supremo.

La situazione economica nel 1993 non era ancora migliorata. Nelle previsioni

dell’economista russa doveva bastare un anno per vedere una forte crescita. Di anni

ne erano passati due e non vi era nemmeno una debole traccia di una stabilizzazione

economica.

Al termine delle elezioni fu il Primo ministro Černomyrdin a comunicare alla

nazione che lo Stato avrebbe seguito una nuova direzione economica: «oggi per noi è

finito il periodo del romanticismo del mercato». Lo sottolineò anche Vladimir Orlov

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dalle pagine di Moskovskie Novosti: «l’era del romanticismo del mercato è finita non

solo per le riforme economiche di Gajdar. Si è esaurita anche per il Presidente».

A Gajdar non restò che dare le dimissioni, lasciando l’esecutivo. Černomyrdin

assunse a tutti gli effetti sulle sue spalle il ruolo di costruire una nuova squadra di

governo in grado di condurre la Russia in una nuova era. Tutti i membri del team di

Gajdar che erano ancora all’interno dell’esecutivo furono velocemente estromessi, ad

eccezione di Čubajs, che mantenne il suo incarico nel settore delle privatizzazioni.

Il 17 dicembre 1995, a due anni dalle precedenti elezioni, i russi si presentarono

nuovamente alle urne per designare la nuova Duma di Stato.

A cambiare la fisionomia della Duma fu l’enorme successo ottenuto dal Cprf, di

Zjuganov, che raccolse il voto d’opposizione, raggiungendo il 22,3 per cento. El’cin

continuò a godere di uno scarso appoggio all’interno della camera parlamentare

poiché le forze filogovernative si erano assestate intorno al 25 per cento. I comunisti

riuscirono a conquistare 185 seggi sui 450 disponibili, con una percentuale vicina al

32 per cento, dimostrandosi la nuova forza politica con la quale scendere ai patti. Il

39 per cento dei seggi fu assegnato invece a diversi gruppi di nazionalisti e di

riformatori sociali. Il restante 4 per cento della Duma andò a piccoli partiti che non

avevano una precisa area collocazione ideologica.

Le elezioni parlamentari si erano rivelate non solo una sconfitta per El’cin, ma

anche un monito. Le presidenziali si sarebbero tenute l’anno successivo e

difficilmente, senza cambiare le carte in tavole, El’cin sarebbe riuscito a confermarsi

Presidente per un ulteriore mandato.

Fu a questo punto che El’cin rivangò dal passato quella destrezza politica che gli

aveva consentito, un decennio prima, di cavalcare lo scontento di un’Unione

Sovietica prossima al crollo. In breve tempo si rese fautore di una serie di politiche di

riforma sociali delle quali l’esigenza veniva avvertita da anni. Si occupò in prima

persona affinché fossero saldati gli stipendi arretrati, annunciò un aumento delle

pensioni, approvò indennizzi per i risparmi divorati dall’inflazione, e sospese il

programma di privatizzazione, allontanando Čubajs. Nei suoi discorsi iniziarono a

comparire riferimenti alla socialdemocrazia e a una «economia di mercato orientata

socialmente», rigettando in pochi mesi il liberismo che aveva caratterizzato la

politica economica russa.

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A supportare la candidatura di El’cin intervennero anche freschi e ingenti capitali

occidentali – americani e tedeschi – da gruppi di oligarchi russi e del Fmi che nel

1996 concesse alla Russia oltre 11 miliardi di dollari, spesi in gran parte proprio per

la campagna elettorale di El’cin.

Dopo cinque mesi, a giugno, El’cin si presentò agli elettori, rinnovato.

Il 16 giugno si tenne il primo turno per le elezioni presidenziali. El’cin risultò il

candidato più votato con il 35 per cento delle preferenze, superando anche le

aspettative più ottimistiche di gennaio. Il suo avversario nel secondo turno elettorale

sarebbe stato Zjuganov che raccolse il 32 per cento dei voti.

I risultati del ballottaggio confermarono El’cin nel ruolo di Presidente della

Russia, che vinse agevolmente grazie all’alleanza con Lebed’ e all’appoggio indiretto

di Javlinskij, raggiungendo in totale il 54,4 per cento dei voti.

Sulle elezioni del 1996, in particolare sul primo turno, resterà sempre vivo il

dubbio di brogli elettorali nel conteggio dei voti, anche se giuridicamente solo nella

sezione di Stravopol’, una delle più grandi della Russia, si riscontrarono brogli.

Le elezioni del 1996 avevano portato al potere un El’cin che sembrava rinnovato

tanto nelle idee politiche quanto in quelle economiche e per tutto l’anno i russi

attesero che la svolta assaporata nel corso della campagna elettorale si realizzasse.

Tuttavia, El’cin tradì i propositi all’inizio del 1997 quando decise di nominare

vicepremier Čubajs che promise la realizzazione degli obiettivi posti da Gajdar nel

1991, dando vita alla «seconda rivoluzione liberista».

Il 1998 non si aprì però con i successi che il mondo economico aveva facilmente

previsto per Mosca. La produzione continuò a calare, anche se lentamente, e gli

investimenti esteri iniziarono ad abbandonare la Russia.

A peggiorare la situazione era intervenuto un evento esterno che dimostrò quanto

l’economia russa postsovietica era costruita su un castello di carte, assai pericolante,

pronto a crollare al primo sussulto. In Asia, nell’autunno del 1997, si era generata

una grave crisi finanziaria che giunse a colpire anche le borse occidentali. Molti

investitori americani avevano scommesso forti somme sull’ascesa delle tigri asiatiche

e furono costretti a ritirare in tutta fretta i loro crediti. Il flusso di capitali colpì anche

la Russia che si vide al centro di una fuga verso occidente della maggior parte degli

investimenti stranieri, fuga che scatenò una feroce conversione di rubli in valuta

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estera. Per contenere l’inflazione la Banca centrale di Mosca fu costretta a sostenere

la convertibilità, riducendo del 30 per cento le riserve dello Stato.

La crisi economica asiatica provocò il crollo del prezzo del petrolio, costringendo

la Russia a vendere sottocosto e bloccando la fonte principale di capitali verso le

casse dello Stato.

Lo Stato dichiarò la sua insolvenza quando giunse il momento di onorare il

pagamento di titoli di Stato, alcuni dei quali avevano maturato un interesse del 250

per cento. Dopo anni di «terapia d’urto» la Russia stava affrontando la crisi

economica più profonda dalla sua rinascita.

A traghettare la Russia fuori dalla crisi fu chiamato Evgenij Maksimovič

Primakov. L’operato di Primakov si dimostrò una cura rigeneratrice per lo Stato. La

Russia lentamente si lasciò alle spalle la crisi e, per la prima volta dal 1991, la

produzione industriale stava crescendo. Le esportazioni avevano consentito a Mosca

di ripagare 6 miliardi di dollari del debito estero accumulatosi negli anni. Il rublo

tornò a essere scambiato a un tasso di cambio accettabile e i salari furono pagati con

inconsueta puntualità.

El’cin, ancora una volta, sorprese tutti, cambiando improvvisamente le carte in

gioco. Il 12 maggio 1999 licenziò Primakov e il suo esecutivo, nominando Premier

Sergej Vadimovič Stepašin che fu licenziato meno di un mese dopo. Al suo posto

El’cin propose come Primo ministro il direttore della polizia di sicurezza, Vladimir

Vladimirovič Putin, il quale sarebbe anche stato il suo candidato alle presidenziali

del 2000. Nella stessa occasione El’cin annunciò le sue dimissioni, in anticipo di

pochi mesi sulla scadenza del mandato.

Putin diventò così Primo ministro della Russia e, a causa del vuoto lasciato da

El’cin, Presidente ad interim. Assumendo questa carica, per quanto precaria, Putin

poté svolgere il compito affidatogli da El’cin, condizione per la sua ascesa in

politica, garantendo a El’cin, alla sua famiglia e al suo entourage una completa

amnistia per i reati compiuti negli otto anni di Presidenza.

Putin dovette prepararsi ai due appuntamenti politici, l’elezioni della Duma nel

dicembre 1999 e le presidenziali nel marzo del 2000, costruendo velocemente una

propria identità politica e un proprio partito. Per quanto riguarda il partito, Putin si

avviò a forgiare una nuova formazione di destra che si apprestò a spalleggiare per le

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parlamentari di dicembre: il Partito di Unità, che nel 2001 si sarebbe fuso con Patria-

Tutta la Russia di Lužkov dando vita a Russia Unita.

Negli otto mesi che precedevano le elezioni presidenziali, Putin – Premier e

Presidente – raccoglieva su di se un potere assoluto. Stringeva nelle sue mani alcuni

importanti poteri legislativi e il controllo totale dell’esecutivo. Putin sfruttò a pieno

questo potere, avviando delle riforme veloci e radicali, che ben presto avrebbero

portato su di lui le luci delle cronache preelettorali.

Putin cavalcò il nazionalismo dei russi rinforzando l’esercito e resuscitando alcuni

elementi simbolici del passato sovietico, senza demonizzare ancora l’esperienza

comunista. Al fianco dell’offensiva nazionalistica Putin dimostrò antipatie per il

sistema economico liberista che aveva generato la concentrazione del potere

economico negli oligarchi. Oltre a sottolineare l’importanza dell’intervento statale

nell’economia della Russia postsovietica, Putin espresse insofferenza per le nuove

classi economiche arricchitesi nella privatizzazione.

Il 23 marzo Putin si impose nettamente al primo turno delle presidenziali,

assestandosi al 52 per cento delle preferenze, superando abbondantemente il suo

diretto avversario, Zjuganov.

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Nessun Autore1 - Urss, le Costituzioni: 1977, 1936, 1924, Edizioni de Riccio,

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L. VISMARA, E Cernienko come ha fatto a vincere? Mosca dice che…, “Il

Giorno”, 20 giugno 1984.

1 Questo volume raccoglie i testi originali tradotti in italiano dal russo. Gli istituti che si sono occupati

delle traduzioni sono: «Istituto per l’Europa Orientale» (testo del 1924), «Edizioni in lingue estere di

Mosca» (testo del 1936) e «Agenzia di stampa sovietica Novosti» (testo del 1977).

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http://astro.temple.edu/~rimmerma/gorbachev_speech_to_UN.htm

http://nobelprize.org/nobel_prizes/peace/laureates/1990/gorbachev-

acceptance.html#

http://www.publicpurpose.com/lib-gorb911225.htm

http://www.russiavotes.org/president/presidency_previous.php