La storiografia più recente sulla finanza italiana dell ... · negli stati nazionali, in C. TILLY...

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79 * Ringrazio sentitamente quanti, avendo letto una stesura preliminare di questo testo, mi hanno fornito utili commenti e suggerimenti; un ringraziamento particolare a David Alonso, Fausto Piola Caselli, Renzo Paolo Corritore, Francesco Carlo Dandolo, Giuseppe Felloni, Giovanni Muto, Renato Sansa, Donatella Strangio. La stesura di questo testo è stata conclusa nel dicembre 2002. 1 A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1984. Nello stesso anno viene pubblicata anche la traduzione italiana del saggio di G. ARDANT, Politica finanziaria e struttura economica negli stati nazionali, in C. TILLY (a cura di), La formazione degli stati nazionali nell’Europa occi- dentale, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 153-226 (ed. originale: The Formation of National States in Western Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975). 2 H. KELLENBENZ, Finanze e ragion di Stato nel primo periodo dell’epoca moderna, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 13-20, alla p. 14 per la citazione. 3 Si veda soprattutto G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Sei- cento e la Restaurazione, Milano, Giuffrè, 1971. I. SAGGI La storiografia più recente sulla finanza italiana dell’età moderna: gli studi sul debito pubblico di GAETANO SABATINI * 1. Nel 1984 Hermann Kellenbenz, nell’introdurre gli atti del seminario su Finanza e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, tenu- to due anni prima presso l’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento 1 , scriveva con esemplare chiarezza: “Noi vogliamo sapere quali erano i fondamenti e gli strumenti economici, e particolarmente finanziari, dei diversi Stati nel periodo di cui parleremo e in qual modo ciò si rifletta [...] nel programma politico dei governi che erano responsabili degli Stati moderni e nel modo in cui questo fu realizzato” 2 . Con queste parole Kellenbenz non solo sintetizzava il cammino percorso dagli storici della finanza italiana d’età moderna nei precedenti due lustri, a cominciare dalle ricerche compiute da Giuseppe Felloni al principio degli anni ’70 3 , ma indicava anche un ben preciso metodo di lavoro per quegli studi che successivamente si fossero proposti di approfondire la conoscenza del debito pubblico nella prospettiva del processo di formazione dello Stato mo-

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* Ringrazio sentitamente quanti, avendo letto una stesura preliminare di questo testo, mihanno fornito utili commenti e suggerimenti; un ringraziamento particolare a David Alonso, FaustoPiola Caselli, Renzo Paolo Corritore, Francesco Carlo Dandolo, Giuseppe Felloni, Giovanni Muto,Renato Sansa, Donatella Strangio. La stesura di questo testo è stata conclusa nel dicembre 2002.

1 A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato in Italia e inGermania nella prima età moderna, Bologna, Il Mulino, 1984. Nello stesso anno viene pubblicataanche la traduzione italiana del saggio di G. ARDANT, Politica finanziaria e struttura economicanegli stati nazionali, in C. TILLY (a cura di), La formazione degli stati nazionali nell’Europa occi-dentale, Bologna, Il Mulino, 1984, pp. 153-226 (ed. originale: The Formation of National States inWestern Europe, Princeton, Princeton University Press, 1975).

2 H. KELLENBENZ, Finanze e ragion di Stato nel primo periodo dell’epoca moderna, in A. DE

MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 13-20, alla p. 14 perla citazione.

3 Si veda soprattutto G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi in Europa tra il Sei-cento e la Restaurazione, Milano, Giuffrè, 1971.

I. SAGGI

La storiografia più recente sulla finanza italiana dell’età moderna:gli studi sul debito pubblico

diGAETANO SABATINI *

1. Nel 1984 Hermann Kellenbenz, nell’introdurre gli atti del seminario suFinanza e ragion di Stato in Italia e in Germania nella prima età moderna, tenu-to due anni prima presso l’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento1, scrivevacon esemplare chiarezza: “Noi vogliamo sapere quali erano i fondamenti e glistrumenti economici, e particolarmente finanziari, dei diversi Stati nel periododi cui parleremo e in qual modo ciò si rifletta [...] nel programma politico deigoverni che erano responsabili degli Stati moderni e nel modo in cui questo furealizzato”2. Con queste parole Kellenbenz non solo sintetizzava il camminopercorso dagli storici della finanza italiana d’età moderna nei precedenti duelustri, a cominciare dalle ricerche compiute da Giuseppe Felloni al principiodegli anni ’703, ma indicava anche un ben preciso metodo di lavoro per queglistudi che successivamente si fossero proposti di approfondire la conoscenza deldebito pubblico nella prospettiva del processo di formazione dello Stato mo-

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4 Sul tema del debito pubblico in relazione ai processi di formazione dello Stato modernodue rassegne sintetiche ma complete in M. CARBONI, Il debito della città. Mercato del credito, fiscoe società a Bologna tra Cinque e Seicento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 13-28, e M. BONAZZA, Ilfisco in una statualità divisa. Impero, principi e ceti in area trentino-tirolese nella prima età moder-na, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 13-25.

5 G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a cura di), Le origini dello Stato moderno. Proces-si di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 1994.

6 Si vedano, tra le altre, le relazioni di G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria nel-l’esperienza degli stati italiani della prima età moderna (ivi, pp. 287-302) e L. PEZZOLO, Sistema dipotere e politica finanziaria nella Repubblica di Venezia. Secoli XV-XVII (ivi, pp. 303-327), nonchéun breve commento di A. CALABRIA, Finanza e Stato. Un contributo (ivi, pp. 281-286).

7 A. MOLHO, Lo Stato e la finanza pubblica. Un’ipotesi basata sulla storia tardomedioevale diFirenze, ivi, pp. 225-280.

8 Si veda in particolare ID., Florentine Public Finances in the Early Renaissance. 1400-1433,Cambridge (Mass.), Harvard University Press, 1971; ID., L’amministrazione del debito pubblico aFirenze nel quindicesimo secolo, in I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze, Fran-cesco Papafava Editore, 1987, pp. 191-207; ID., Investimenti nel Monte delle doti di Firenze.Un’analisi sociale e geografica, in “Quaderni storici”, a. XXI (1986), pp. 147-170; ID., Fisco edeconomia a Firenze alla vigilia del Concilio, in “Archivio Storico Italiano”, a. CIIL (1990), pp.807-844.

9 ID., Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipotesi sulla storia di Firenze, Genova eVenezia, in Italia 1350-1450: tra crisi, trasformazione, sviluppo. Atti del XIII Convegno di Studi delCentro Italiano di Studi di Storia e Arte, Pistoia, Presso la Sede del Centro, 1993, pp. 185-215.

10 Sul debito pubblico delle città italiane in età medioevale si veda J. DAY, Moneta metalli-ca e moneta creditizia, in R. ROMANO, U. TUCCI (a cura di), Economia monetaria, economia natu-rale, in Storia d’Italia, Annali, vol VI, Torino, Einaudi, 1983, pp. 337-360, in particolare le pp.353-357; J. DAY, The Medieval Market Economy, Oxford, Blackwell, 1987. Si vedano inoltre, più

derno4. A questa linea interpretativa fanno effettivamente riferimento molti deipiù significativi contributi, appartenenti alla seconda metà degli anni ’80 e alprincipio del decennio successivo, di cui qui si tratterà, ma è importante segna-lare subito che, nello stesso periodo, sul tema del rapporto tra debito pubblicoe Stato moderno si va più chiaramente definendo una pluralità di posizioni,talora anche molto distanti le une dalle altre.

Testimonia di questa diversità di interpretazioni la pubblicazione nel 1994degli atti del seminario su Le origini dello Stato moderno. Processi di formazionestatale fra medioevo ed età moderna, tenuto l’anno precedente a Chicago5. Tra lerelazioni presentate in quella sede6, riveste particolare importanza per il discor-so che qui si vuol sviluppare, quella di Anthony Molho7, che, riprendendo pre-cedenti studi sulle finanze fiorentine8 e soprattutto sviluppando un più sinteti-co contributo del 1993 su Tre città-stato e i loro debiti pubblici. Quesiti e ipote-si sulla storia di Firenze, Genova e Venezia9, si colloca al principio del periodoqui in esame, anzi ancor prima, giacché si concentra sulla fase storica compre-sa tra la metà del XIV secolo e la fine del XV10.

Alla fine del medioevo, secondo Molho, mentre crescevano le ambizioniterritoriali, militari e diplomatiche – e quindi le uscite – delle città Stato italia-ne, i loro ceti dirigenti si rivelavano incapaci di cambiare radicalmente le stra-tegie impositive, soprattutto di introdurre la tassazione diretta, e per supplireai crescenti bisogni finanziari fu scelto lo strumento dell’indebitamento11. Ildebito pubblico, tuttavia, non rafforzava lo Stato: “La mancanza di entrateordinarie che potessero permettere alle autorità politiche e fiscali di soddisfa-re le legittime domande dei loro creditori indeboliva lo stato davanti ai suoiprincipali finanziatori”12. Inoltre, “se è vero [...] che i debiti pubblici delle cit-tà stato italiane finirono per arricchire una parte delle loro popolazioni, quellaparte, cioè, che già era economicamente più forte, [...] sembra altrettanto veroche questi debiti pubblici resero più difficili i rapporti tra le classi sociali eindebolirono la potenza di questi Stati” con “una maggioranza che guardavaalla cosa pubblica con ostilità che spesso sconfinava nell’indifferenza, [e con]una minoranza che nella stessa cosa pubblica vedeva un possesso privato, qua-si una proprietà inalienabile”13. Dunque, alla vigilia dell’età moderna, la sceltadi seguire la strada del debito pubblico appare a Molho fortemente conserva-trice e il ricorso all’indebitamento praticato per questa via costituì un cuneodisgregatore del sistema politico-sociale; più in generale “la finanza pubblicanon fu una componente indispensabile dell’accentramento e del rafforzamen-to degli Stati”14.

È opportuno ricordare la posizione di Molho – tra l’altro uno dei pochistudiosi a tentare una lettura comparativa delle vicende dei debiti pubblici dellapenisola – perché essa mostra come tra la metà degli anni ’80 e la metà deglianni ’90, si siano sviluppate interpretazioni che non solo hanno ridimensionatola relazione di interdipendenza istituita tra debito pubblico e origini dello Statomoderno, ma sono arrivate anche a ribaltare il senso con cui quel legame erastato inizialmente proposto, ricollegandosi idealmente ad una tradizione storio-

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recentemente, P. MAINONI, Finanza pubblica e fiscalità nell’Italia centro-settentrionale fra XIII eXV secolo, in “Studi storici”, 40, 1999, pp. 449-70; ID., Credito e fiscalità nelle città medioevali. Inmargine ad un recente convegno, in “Società e storia”, 87, 2000, pp. 81-90; M. GINATEMPO, Primadel debito. Finanziamento della spesa pubblica e gestione del deficit nelle grandi città toscane (1200-1350 ca.), Firenze, Olschki, 2000; P. MAINONI (a cura di), Politiche finanziarie e fiscali nell’Italiacentro settentrionale (secoli XIII-XV), Milano, Unicopli, 2001, in particolare i saggi di I. LAZZARI-NI, Prime osservazioni su finanze e fiscalità in una signoria cittadina: i bilanci gonzagheschi tra Tree Quattrocento (ivi, pp. 87-123) e M. GINATEMPO, Spunti comparativi sulle trasformazioni dellafiscalità nell’Italia post-comunale (ivi, pp. 125-220).

11 A. MOLHO, Tre città-stato cit., pp. 213-214. 12 Ivi, p. 214.13 Ivi, p. 215.14 ID., Lo Stato e la finanza pubblica cit., p. 279.

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grafica che vedeva nell’investimento in debito pubblico uno degli elementi dellacosiddetta decadenza italiana15.

Al contrario, la maggior parte degli studi di cui si tratterà nel prosieguo inriferimento all’area italiana in età moderna, collocano, implicitamente o esplici-tamente, in forma critica o con piena adesione, le ricerche sul debito pubbliconell’ambito dei processi di formazione dello Stato. Tuttavia, anche tra gli stu-diosi che riconoscono questo legame si possono osservare posizioni diverse. Trestudi di sintesi, pubblicati contemporaneamente nel 1995, consentono dicogliere il significato di queste differenti interpretazioni: mi riferisco a PublicCredit di Martin Körner, edito all’interno del volume Economic Systems andState Finance curato da Richard Bonney16, a Elogio della rendita. Sul debito pub-blico degli Stati Italiani nel Cinque e nel Seicento di Luciano Pezzolo17, pubbli-cato sulla “Rivista di storia economica”, e a L’innovazione nel sistema finanzia-rio: impatto sul primato economico e sviluppo dall’XI secolo di Tony Porter, pub-blicato sulla rivista del Fernand Braudel Center diretta da Immanuel Waller-stein18.

Körner presenta l’evoluzione del ricorso al debito pubblico, da parte diprincipi o città, come un fenomeno caratterizzato da un andamento lineare dalXIII al XVIII secolo, crescente in funzione dell’aumento delle esigenze bellichedello Stato. È un meccanismo che nella sua essenza non presenta salti o solu-zioni di continuità per circa cinque secoli, dove il principale elemento di cam-biamento è costituito dal differenziarsi delle forme assunte dai prestiti, dall’av-vicendarsi dei diversi gruppi attivi sui mercati finanziari, dal variare del livellodel saggio d’interesse in funzione delle condizioni in cui il debito viene emesso.Per il Cinquecento, afferma Körner, “in considerazione del fatto che si facevaricorso al debito pubblico praticamente in ogni regno, principato o repubblica,è scarsamente sorprendente che vi fosse una crescita pressoché universale delladomanda di capitali”19 e questo andamento sarà confermato nel Sei e Settecen-to. In una linea di sostanziale continuità appaiono all’Autore anche le innova-

15 Questa posizione è espressa in sintesi in R. ROMANO, La storia economica dal secolo XIVal Settecento, in R. ROMANO, C. VIVANTI (a cura di), Storia d’Italia, vol. II, Dalla caduta dell’Im-pero romano al secolo XVIII, t. II, Torino, Einaudi, 1974, pp. 1813-1931, in particolare le pp.1915-1916 e 1926-1927.

16 M. KÖRNER, Public Credit, in R. BONNEY (ed.), Economic Systems and State Finance,Oxford, Oxford University Press, 1995, pp. 507-538.

17 L. PEZZOLO, Elogio della rendita. Sul debito pubblico degli Stati Italiani nel Cinque e nelSeicento, in “Rivista di storia economica”, n.s., a. XII (1995), n. 3, pp. 283-330.

18 T. PORTER, L’innovazione nel sistema finanziario: impatto sul primato economico e sviluppodall’XI secolo, in “Proposte e ricerche”, f. 37, n. 2/1996, pp. 7-49 (trad. italiana a cura di E. Sori; ed.originale in “Review [of the Fernand Braudel Center]”, a. XVIII (1995), n. 3, Summer, pp. 387-429).

19 M. KÖRNER, Public Credit cit., p. 515 (trad. dell’autore).

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zioni istituzionali e sociali che, tra XVI e XVII secolo, accompagnano le cre-scenti emissioni di rendita e la conseguente maggiore domanda di capitali: laformazione dei banchi pubblici20, la collocazione dei titoli sul mercato21, la dif-ferenziazione sociale degli acquirenti delle quote22, tutti fenomeni che nel sag-gio vengono ampiamente documentati con esempi tratti dalla realtà italiana.

Una posizione diversa esprime il saggio di Luciano Pezzolo. Affrontandoinnanzitutto la vicenda del debito pubblico veneziano e quindi estendendo l’a-nalisi all’intera penisola, Pezzolo colloca il quadro dei debiti pubblici dell’Italiacinque-seicentesca nel più ampio contesto della financial revolution. Questa let-tura, com’è noto, fu introdotta per la prima volta da Peter Dickson nel 1967, aproposito del caso inglese tra la fine del Seicento e il principio del Settecento23,e venne poi ripreso per il Cinquecento da James Tracy, in un saggio del 1985sulle province olandesi24, e da Anthony Calabria, in uno studio del 1991 sullefinanze pubbliche napoletane che si estendeva fino a comprendere la metà deglianni ’30 del Seicento25. L’abbandono dei prestiti forzosi e il passaggio all’emis-sione di titoli garantiti dal gettito fiscale, la tumultuosa crescita del debito pub-blico, la prevalenza della rendita a lungo termine, vengono ora intesi come altret-tanti elementi di una fondamentale soluzione di continuità rispetto al passato,appunto di una financial revolution, che, al contrario, Körner non sembra con-templare. Con la sola, parziale, eccezione della Firenze medicea, nell’interpreta-zione di Pezzolo gli Stati italiani partecipano di questa rapida trasformazione.

Porter si colloca in una posizione intermedia rispetto a quelle di Körner ePezzolo: egli sostiene la tesi che lo sviluppo economico di uno Stato, dal qualediscende la sua possibilità di raggiungere posizioni egemoniche, dipende dall’a-dozione di innovazioni finanziarie, giacché è il settore finanziario che mette inmoto e organizza le attività produttive26. Nell’individuare quelle innovazioniche hanno determinato il ruolo guida di Firenze nel XIV secolo, di Genova, diVenezia e della Germania meridionale tra la fine del XIV e il XVI secolo, del-

20 Ivi, p. 519.21 Ivi, p. 522.22 Ivi, p. 529.23 P.G.M. DICKSON, The Financial Revolution in England. A study in the Development of

Public Credit, 1688-1756, London - New York, St. Martin’s, 1967 (2a ed. Aldershot, 1993; si vedaanche P. KENNEDY, The Rise and Fall of Great Power, London, Fontana Press, 1988).

24 J.D. TRACY, A Financial Revolution in the Habsburg Netherlands. Renten and Renteniersin the Country of Holland, 1515-1565, Berkeley, Univ. of California Press, 1985 (si veda anche ID.,Holland under Habsburg Rule, 1506-1566. The Formation of a Body Politic, Berkeley, Univ. ofCalifornia Press, 1990).

25 A. CALABRIA, The Cost of Empire: The Finances of the Kingdom of Naples in the Time ofSpanish Rule, Cambridge, Cambridge University Press, 1991.

26 T. PORTER, L’innovazione nel sistema finanziario cit., pp. 7-8.

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l’Olanda nel Sei e Settecento, Porter si sofferma dapprima sul ruolo avuto dallegrandi imprese bancarie nel finanziare il debito pubblico e successivamente sul-l’importanza della diffusione presso un più ampio pubblico della rendita vitali-zia, caratterizzata da un più basso saggio d’interesse27. In entrambi i casi si trat-ta certamente di innovazioni, ma, secondo Porter, precedute e seguite da altretrasformazioni in campo finanziario egualmente rilevanti. Quindi le innovazio-ni legate al debito pubblico, pur rappresentando delle importanti soluzioni dicontinuità, costituiscono solo un anello della catena delle innovazioni finanzia-rie, un anello importante, ma di per sé non sufficiente per poter parlare di unafinancial revolution.

Due studi della seconda metà degli anni ’90, elaborati in contesti e confinalità differenti, hanno portato un contributo verso il superamento di questapluralità di posizioni. Mi riferisco ora al manuale di Fausto Piola Caselli Il buongoverno. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustriale28, edito nel1997, nonché al saggio introduttivo di Richard Bonney al volume miscellaneoThe Rise of the Fiscal State in Europe, ca. 1200-181529, pubblicato nel 1999.

Il lavoro di Piola Caselli costituisce un unicum nella storiografia italiana perl’obiettivo che si propone di presentare nella veste di manuale universitario l’e-voluzione della finanza di Stato in età bassomedioevale e moderna. In riferi-mento al debito pubblico, l’Autore evidenzia la contemporanea presenza dicaratteri di continuità e di rottura con il passato nonché la diversificazione dellemodalità con le quali avveniva il ricorso all’emissione della rendita nelle variearee europee30. La situazione della penisola esprime chiaramente questa molte-plicità. Osserva infatti Piola Caselli che “nella diversità delle situazioni politicheed economiche, il sistema del debito pubblico degli Stati italiani presentavaanalogie e differenze che rendono molto difficile l’identificazione di un model-lo uniforme”31. “Ogni stato conduceva una propria politica [...] seguendo per-corsi tradizionali o elaborando nuove strategie”32: alcuni Stati, come Genova,gestivano il debito pubblico in modo decentrato, altri, come Roma, praticavanola più assoluta centralizzazione, e ancora a Roma, i titoli erano ceduti esclusiva-mente a banchieri, mentre altrove, ad esempio a Venezia, anche il piccolorisparmiatore poteva essere direttamente attore dell’investimento nella rendi-

27 Ivi, pp. 27-28 e 30-31.28 F. PIOLA CASELLI, Il buon governo. Storia della finanza pubblica nell’Europa preindustria-

le, Torino, Giappichelli, 1997.29 R. BONNEY, Introduction, in ID. (ed.), The Rise of the Fiscal State in Europe, ca. 1200-

1815, Oxford, Oxford University Press, 1999, pp. 1-17.30 F. PIOLA CASELLI, Il buon governo cit., pp. 215-242.31 Ivi, p. 237.32 Ivi, p. 236.

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33 Ivi, p. 237.34 Ivi, pp. 238-239. 35 R. BONNEY, Introduction cit., passim ma in particolare le pp. 12-14. Sul modello del pas-

saggio da Domain State a Tax State si veda innanzitutto J.A. SCHUMPETER, The Crisis of Tax State,in “International Economic Papers”, n. 4, New York, 1954, pp. 5-38 (ed. originale Die Krise desSteuerstaates, in “Zeitfragen aus dem Gabiet der Soziologie”, a. 4 [1918], pp. 1-71), ripreso emodificato da E.L. Petersen e K. Krüger (E.L. PETERSEN, From Domain State to Tax State.Synthesis and Interpretation, in “Scandinavian Economic History Review”, a. XXIII [1975], pp.116-148, e P.C. WITT, Wealth and Taxation in Central Europe: The History and Sociology of PublicFinance, Leamington Spa, 1987). Per la revisione del modello proposta da R. BONNEY e W. M.ORMROD si veda W.M. ORMROD, M.M. BONNEY, R. BONNEY, Introduction, in W. M. ORMROD, M.M. BONNEY, R. BONNEY (eds.), Crises, Revolutions and Self-Susteined Growth: Essays in EuropeanFiscal History, c. 1130-1830. Proceedings of an International Conference held at the ESCR DataArchive (University of Essex, July 1995), Stanford, 1999; si veda anche R. BONNEY, EconomicSystems and State Finance cit., pp. 447-463. Si è qui preferito lasciare in inglese le espressioni Tri-bute State, Domain State, Tax State, Fiscal State per evitare le ambiguità che la traduzione italianapotrebbe generare.

ta33. Anche il livello di incidenza sui bilanci era estremamente variabile: “all’i-nizio del Settecento, il debito pubblico piemontese complessivo ammontavasolamente al triplo delle entrate annuali dello stato, con un modesto peso diinteressi, pari a circa il 20% delle uscite. Nello stesso periodo, il debito pubbli-co toscano era pari a circa 17 volte le entrate annuali, mentre a Napoli, alla finedel secolo, l’indebitamento era di molto superiore”34. La possibilità di guarda-re al debito pubblico come a un fenomeno polimorfo consente dunque di con-ciliare le diverse interpretazioni avanzate sulla sua natura ed evoluzione.

Anche quello di Bonney è un lavoro di sintesi, ma diversa appare la letturache viene qui proposta. Nell’introdurre un gruppo di saggi che analizzano lastrutturazione nel tempo delle finanze pubbliche nelle diverse realtà europeetra XIII e XIX secolo, Bonney riprende e precisa una classificazione in quattrostadi dell’evoluzione dei sistemi finanziari in relazione con la formazione delloStato moderno: Tribute State, Domain State, Tax State, Fiscal State35. I primi trestadi costituiscono altrettante fasi di sviluppo di sistemi fiscali sempre più com-plessi e preparano il passaggio alla fase successiva, ma quando, secondo la defi-nizione di Bonney, uno Stato caratterizzato da un articolato sistema fiscalediventa un Fiscal State? Quando, una volta acquisita una compiuta capacità tec-nico-politica di ottenere denaro in prestito e riscuotere le tasse, è in grado direggere l’urto di una potenza politico-militare avversa e di percorrere un cam-mino di crescita autosufficiente. Di fatto, nel periodo preso in esame, dal Dueall’Ottocento, secondo Bonney solo la Gran Bretagna nella fase delle guerrenapoleoniche raggiunge lo stadio del Fiscal State mentre, per tutti gli altri Statieuropei, il compimento di questo percorso sarà molto più lento e tardivo;momenti di crisi e rivoluzione potranno certamente consentire il passaggio da

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un sistema fiscale ad un altro più evoluto, ma non necessariamente porterannoal raggiungimento dello stadio finale. La lettura di Bonney condivide con quel-la di Piola Caselli il riconoscimento della pluralità degli stadi di sviluppo deisistemi fiscali, qui incasellati in una possibile tassonomia evolutiva, ma, recupe-rando all’analisi anche la dimensione politico-militare e il rapporto con l’eco-nomia reale, insiste sul carattere del debito pubblico come condizione necessa-ria, ma non sufficiente, per il raggiungimento di una fase più compiuta delloStato moderno, quella che, in certa misura, già contiene le premesse per il suosuperamento.

Questo rapido excursus, dagli atti dei seminari dell’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento degli anni ’80 ai volumi curati da Bonney nella secondametà degli anni ’90, consente di costruire il piano cartesiano nel quale colloca-re - nel più ampio contesto del dibattito storiografico internazionale in materiadi finanza pubblica - i singoli contributi sul debito pubblico negli Stati italianiin età moderna di cui mi occuperò, un piano i cui assi sono individuati agliestremi dalle coppie logiche contrapposte continuità – soluzione di continuità ecatena di innovazioni finanziarie - assenza di innovazioni finanziarie.

2. Prenderò le mosse per questa rassegna dall’area toscana, giacché è pro-prio in riferimento al debito pubblico di Firenze nel XIV e XV secolo che èstata formulata la già ricordata interpretazione di Anthony Molho. Tra i saggipiù recenti relativi a quest’area, vi sono i volumi di Giuseppe Vittorio Parigi-no36 e di Jean-Claude Waquet37, pubblicati entrambi negli anni ’90 e dedicatirispettivamente al principio e alla fine della signoria medicea.

Lo studio di Parigino ricostruisce le vicende dei patrimoni di Cosimo I(1537-1564), Francesco I (1564-1587) e Ferdinando I (1587-1609) dei Medici,ma, com’è ben noto, “la Toscana dei granduchi costituisce un modello esem-plare di Stato patrimoniale [per] la confusione tra il tesoro pubblico e il patri-monio privato del principe [che] si rifletteva anche nella gestione degli ufficiamministrativi”38. Questo è particolarmente evidente in materia di debiti con-tratti o concessi dai Medici, giacché è frequentemente documentato il caso dinecessità dello Stato affrontate con somme prese a prestito dal principe ovverodi interessi sui debiti contratti dai granduchi per proprie attività, pagati attin-gendo alle casse dell’erario39. In questo contesto appare difficile individuare a

36 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe. Funzione pubblica e privata del patrimonio dellafamiglia Medici nel Cinquecento, Firenze, Olschki, 1999.

37 J.C. WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane sous les derniers Médicis, Rome, Ecole Françai-se de Rome, 1990.

38 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe cit., p. 23. 39 Si veda su questo anche G. FELLONI, Il principe e il credito in Italia tra medioevo ed età

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moderna, in S. GENSINI (a cura di), Principe e città alla fine del medioevo, Pisa, Collana di studi ericerche del Centro di studi sulla civiltà del tardo Medioevo di San Miniato, n. 6, 1996, pp. 273-293 (ora in G. FELLONI, Scritti di Storia Economica, vol. I, Atti della Società Ligure di Storia Patria,n. s., vol. XXXVIII [CXII], f. I, Genova, 1998, pp. 253-273). Una forte commistione tra impegnifinanziari del principe e dello Stato si riscontra, oltre che nella Toscana medicea, anche nel duca-to farnesiano di Parma e Piacenza, sul quale si vedano, oltre a M.A. ROMANI, Finanza pubblica epotere politico: il caso dei Farnese, in ID. (a cura di), Le corti farnesiane di Parma e Piacenza, vol. I,Roma, Bulzoni, 1978, pp. 3-85, i recenti studi di G. PODESTÀ, Dal delitto politico alla politica deldelitto. Finanza pubblica e congiure contro i Farnese nel Ducato di Parma e Piacenza dal 1545 al1622, Milano, EGEA, 1995, in particolare le pp. 297-313, e ID., Il patrimonio del principe: i Far-nese, in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Tra rendita e investimenti. Formazione e gestio-ne dei grandi patrimoni in Italia in età moderna e contemporanea, Bari, Cacucci, 1998, pp. 89-103.

40 G.V. PARIGINO, Il Tesoro del Principe cit., p. 24.41 Ivi, pp. 69-71.42 A. ORLANDI, ‘Le Grand Parti’. Fiorentini a Lione e il debito pubblico francese nel XVI

secolo, Firenze, Olschki, 2002.

quale sfera, se pubblica o privata, appartengano gli ingenti debiti contratti daCosimo I, oltre due milioni e mezzo di scudi, essenzialmente per finanziare lespese della guerra di Siena: la finalità naturalmente pertiene allo Stato e sono gliuffici pubblici ad assumersi l’obbligo di estinguere i debiti, ma questi eranostati spesso garantiti con gioielli di proprietà personale del principe; e questaambiguità permane anche per i prestiti concessi, come i 950.000 scudi cheFrancesco I diede a Filippo II40. Si intendano come dello Stato o del principe,i debiti contratti da Cosimo vengono ripagati mediante gli accatti, cioè i presti-ti forzosi cui vengono sottoposti cittadini, abitanti del contado e talora anchesudditi residenti all’estero, oppure con i contributi gravanti su Monti di Pietà,Opere Pie, Ospedali, etc, o ancora con i proventi di vecchie e nuove imposte,soprattutto la gabella del sale e altre imposte indirette41.

Agli anni di Cosimo I risale anche uno dei più importanti episodi di parte-cipazione dei mercanti-banchieri fiorentini alla gestione delle finanze dei gran-di principi europei del Cinquecento: il consolidamento di un debito superioreai cinque milioni di lire torinesi al quale fu costretto Enrico II nel 1555 per farfronte alle crescenti difficoltà della tesoreria reale; Angela Orlandi, in un accu-rato studio del 2002, ha ricostruito gli aspetti sia tecnici – in particolare i mec-canismi dell’ammortamento – che politici della complessa operazione ricordatacome le Gran Parti, sottolineando come nella conduzione di questa manovra epiù in generale nella partecipazione alla finanza pubblica francese della metàdel XVI secolo, i mercanti-banchieri fiorentini svolsero un ruolo centrale, nelquale si evidenziano, allo stesso tempo, la compresenza di un forte attaccamen-to alla tradizione della pratica mercantile e una grande modernità culturale nelconcepire l’attività finanziaria42.

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43 Con la sola eccezione della ricerca condotta da A. D’ALAIMO, La finanza pubblica delgranducato di Toscana al tempo di Ferdinando II (1621-1670), Tesi di dottorato in storia economi-ca, VII ciclo, Napoli, Istituto Universitario Navale, 1995.

44 Per gli anni del principato di Cosimo III si veda anche G. PANSINI, Per una storia deldebito pubblico e della fiscalità al tempo di Cosimo III dei Medici (il monte sussidio vacabile e lecollette universali), in F. ANGIOLINI, V. BECAGLI, M. VERGA (a cura di), La Toscana nell’età diCosimo III, Firenze, Edifir, 1993, pp. 295-317.

45 J.C. WAQUET, Le Grand-Duché de Toscane cit., p. 87 e segg.46 Ivi, pp. 573-576.47 Ivi, pp. 392-397.48 Ivi, pp. 321-392.49 Ivi, pp. 374-375.

Minore attenzione hanno ricevuto, negli studi recenti, le finanze del gran-ducato di Ferdinando II43, che copre gli anni centrali del Seicento, mentre piùchiara appare la situazione debitoria al tempo di Cosimo III (1670-1723) eGian Gastone (1723-1737), di cui tratta il volume di Jean-Claude Waquet, chepropone tuttavia una più complessa lettura per l’età degli ultimi Medici44.All’interno di un’articolata ricerca sulle finanze e più in generale sull’organizza-zione amministrativa, sociale e politica dello Stato mediceo sul finire del Sei-cento e nel primo Settecento, Waquet sostiene che la perdita di influenza poli-tica sofferta sul piano internazionale dal granducato in questa fase non siaccompagna sul piano interno, contrariamente a quanto tradizionalmente soste-nuto, ad un declino delle istituzioni; alla nozione di decadenza si sostituisceinfatti quella di stabilità45. In particolare in campo finanziario si osserva che lafiscalità è orientata al conseguimento di un gettito nominale sostanzialmentecostante, relativamente indipendente dalla congiuntura economica e soprattut-to dal movimento dei prezzi, ed analogamente stabile in termini nominali appa-re il livello delle uscite, giacché non si registrano rilevanti variazioni nell’am-montare delle remunerazioni pagate agli ufficiali granducali e nel servizio deldebito pubblico – le due principali voci di esito del bilancio granducale – néd’altronde sussisteva per lo Stato alcun obbligo ad adeguare gli interessi corri-sposti sul debito alla variazione del livello dei prezzi46.

In questo sistema che tende ad isolarsi, a mettersi a riparo dalle fluttuazio-ni dell’economia, l’erezione dei Monti costituisce per Waquet l’espressionedella complessiva stabilità politica e immobilità sociale del granducato47. Nelricostruire la ripartizione geografica e sociale della rendita e del prelievo fisca-le48, si evidenzia come Cosimo III finanzi il pagamento degli interessi ricorren-do prevalentemente alle imposte dirette mentre Gian Gastone sposta il prelie-vo soprattutto sulle imposte indirette49, ma questa sembra essere l’unico cam-biamento di rilievo nel periodo in esame; per il resto, le caratteristiche finan-ziarie e le modalità di gestione del debito pubblico, che d’altro canto nel perio-

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50 Ivi, p. 397. Sulla struttura fiscale della periferia toscana in età medicea si veda anche L.CARBONE, Economia e fiscalità ad Arezzo in età moderna: conflitti e complicità tra centro e perife-ria nella Toscana dei Medici, 1530-1737, Roma, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Uffi-cio Centrale per i Beni Archivistici, 1999.

51 E. STUMPO, Finanze e ragion di Stato nella prima età moderna. Due modelli diversi: Pie-monte e Toscana, Savoia e Medici, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze eragion di Stato cit., pp. 181-231.

52 Ivi, p. 221.

do in questione evolve poco e lentamente, riflettono la cristallizzazione dei rap-porti di forza all’interno dello Stato mediceo: la posizione dominante della capi-tale, la centralità del contado, la potenza dell’aristocrazia e del clero fiorentino,mentre le popolazioni rurali della provincia partecipano al sistema del creditopubblico granducale solo attraverso il pagamento delle imposte raccolte percorrispondere gli interessi50.

Gli studi di Parigino e Waquet, anche superando la diversità di angolazio-ni proposte, non sembrano trovare un punto di saldatura: per Parigino è lastraordinaria avventura diplomatico-militare per la conquista di Siena ad indur-re Cosimo I ad indebitarsi, mentre la lettura proposta da Waquet si potrebbesintetizzare nell’equazione immobilità militare-politico-sociale del granducatouguale stabilità nel ricorso e nella gestione del debito pubblico. Certamente sipotrebbe essere tentati di attribuire questa distanza essenzialmente alle diversecondizioni che caratterizzano i periodi presi in esame, ma non si tratta solo diquesto, come evidenzia un ben noto studio di sintesi di Enrico Stumpo, che,considerando l’intera parabola delle finanze medicee, fornisce una chiave di let-tura unitaria per i due periodi e, superando una certa tautologia presente nel-l’argomentare di Waquet, colloca le vicende del debito pubblico toscano in unrapporto di causa ed effetto con le scelte di politica fiscale che segnano la sto-ria dei primi due secoli del principato fiorentino.

Pubblicato all’interno del già più volte ricordato volume del 1984 su Finan-ze e ragion di Stato, lo studio di Stumpo mette a confronto per la prima etàmoderna Piemonte e Toscana51. Il debito pubblico di quest’ultima appare piùmarcatamente in crescita se si considera l’andamento delle finanze medicee sindall’avvento del principato e non solo nell’ultimo periodo della dinastia, esecondo Stumpo la causa prima di questo incremento è da ricercarsi nella scar-sa frequenza con cui furono utilizzati i tributi straordinari diretti; il ricorso aldebito pubblico trova quindi spiegazione proprio nella rigidità delle entrategranducali e nella loro sostanziale immobilità nel corso del Seicento: per lenecessità straordinarie e urgenti dello Stato, come ad esempio per sostenere icosti della guerra di Castro, si fece ricorso a sottoscrizioni di luoghi di Monte,offerte a tassi d’interesse elevati52. Solo nella seconda metà del Seicento furono

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53 Ivi, pp. 223-224.54 Ivi, pp. 209-210, 223, 227-228.55 Ivi, pp. 209-211 e 224-225.56 Ivi, p. 197.57 Ivi, pp. 199-200.58 ID., Finanza e Stato moderno nel Piemonte del Seicento, Roma, Istituto Storico Italiano

per l’Età Moderna e Contemporanea, 1979 (si vedano in particolare i capp. IV, Aspetti e proble-

introdotti tributi straordinari diretti, come il donativo, e l’erezione dei Montivenne accompagnata da una più pesante imposizione proprio perché il debitopubblico, già gravoso, non poteva crescere oltre53. Ma perché erigere un nuovoMonte, piuttosto che introdurre delle imposte? Perché, indica Stumpo, il ricor-so al debito pubblico è inteso come una via che consente di raccogliere sommeconsiderevoli senza causare – o riducendo – il malcontento popolare e l’oppo-sizione che i nuovi tributi provocherebbero, un’opposizione che dopo CosimoI, i Medici, la legittimità della cui signoria fu messa in dubbio praticamente finoall’estinzione della dinastia, cercarono sempre di evitare54.

Si preferisce il debito pubblico nell’impossibilità di impiantare un sistemafiscale uniforme, che sottoponga ad un’imposizione ordinaria diretta tutto ilterritorio, superando l’arcaica distinzione tra città e contado. La macchinafiscale è infatti ostacolata anche dalle diverse giurisdizioni, che sopravvivonoperché, non essendosi realizzato un rinnovamento dello Stato dopo il passaggiodalla repubblica al principato, non si è proceduto ad unificare amministrativa-mente tutti i territori in un’unica organizzazione centralizzata55. Nel contestodella Toscana medicea il ricorso al debito pubblico costituisce quindi la mani-festazione di un mancato processo di modernizzazione dello Stato, di cui lacommistione tra finanze pubbliche e patrimonio del principe è un aspetto, ma,osserva Stumpo, “come tanti altri strumenti di credito il debito pubblico di persé non ha carattere proprio; esso può assumere caratteri positivi o negativi aseconda dell’uso che se ne fa”56. Nel caso del granducato è dalla debolezza del-l’amministrazione che consegue la crescita del debito pubblico, spesso destina-to a pagare una costosa neutralità, cioè un pesante vassallaggio all’impero, chesi accentuerà proprio con gli ultimi Medici, limitando l’autonomia e l’indipen-denza dello Stato; nel caso del Piemonte, l’altra realtà italiana presa in esame daStumpo per la prima età moderna, il debito pubblico invece si affianca alleforme di prelievo diretto e rappresenta un aspetto del rafforzamento dello Statogiacché serve a finanziare le campagne militari volte a salvaguardare l’indipen-denza del ducato, conseguire l’ingrandimento territoriale, ottenere, da ultimo, iltitolo regio per la dinastia57.

Riprendendo i risultati di precedenti articolate ricerche sulla finanza sabau-da nel Seicento58, Stumpo mette in evidenza come il debito pubblico piemon-

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tese prenda innanzitutto la forma di capitalizzazione ad un certo interesse (ingenere il 5 o 6%) e cessione del tasso, l’imposta ordinaria diretta gravante sullaproprietà fondiaria59. Si trattò comunque di un ricorso sempre contenuto: alprincipio del Settecento il debito pubblico del ducato è pari a circa tre volte leentrate dello Stato, contro le 14-20 volte di quello toscano. I Savoia, infatti,finanziarono le guerre, oltre che con gli aiuti ricevuti degli Stati di volta in voltaalleati, anche ricorrendo, per il debito fluttuante e non consolidato, ai prestitidi mercanti e banchieri piemontesi o di grandi ufficiali dello Stato, che furonoripagati con titoli nobiliari, uffici, feudi; d’altro canto fu questo gruppo socialea trarre il massimo vantaggio dalla rendita pubblica del ducato60. Proprio que-sto risultato della ricerca di Stumpo sul debito pubblico sabaudo è stato utiliz-zato da Waquet per comparare il Piemonte, la Francia e il regno di Napoli sottoil profilo dei ceti che maggiormente beneficiarono dell’alienazione delle entratedello Stato tra XVII e XVIII secolo61. La situazione del ducato differisceprofondamente da quella della Francia, dov’è la nobiltà ad ottenere il più largoprofitto da imposte al cui pagamento essa contribuisce assai poco, mentre ilcaso di Napoli appare a Waquet di difficile lettura, non individuandosi ungruppo egemone né nella gestione del debito pubblico né nella capacità di con-seguire il massimo utile dall’alienazione delle entrate del regno62.

3. Waquet basa la sua comparazione per il Mezzogiorno continentaleessenzialmente sui dati riportati nello studio sugli arrendamenti compiuto daLuigi De Rosa alla fine degli anni 50’63 e sui lavori di Aurelio Musi64 e Gio-vanni Muto65 pubblicati negli anni ’70, ma negli ultimi tre lustri numerose

mi della finanza straordinaria. La vendita degli uffici, e VI, Il debito pubblico e il successo della poli-tica finanziaria piemontese. Lo stato moderno come stato imprenditore).

59 ID., Finanze e ragion di Stato cit., pp. 199-200.60 Ibidem. Si veda anche ID., La distribuzione sociale degli acquirenti dei titoli del debito pubbli-

co in Piemonte nella seconda metà del Seicento, in La fiscalité et ses implications sociales en Italie eten France aux XVIIe et XVIIIe siècles, Rome, Ecole Française de Rome, 1980, pp. 113-124. Più recen-temente, sul Piemonte sabaudo, anche sinteticamente in riferimento alle finanze pubbliche, P. MER-LIN, C. ROSSO, G. SIMCOX, G. RICUPERATI (a cura di), Il Piemonte Sabaudo. Stato e territori in etàmoderna, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. VIII, t. I, UTET, Torino 1994.

61 J.C. WAQUET, Who profited from the Alienation of Public Revenues in Ancient RegimeSocieties? Some Reflections on the Examples of France, Piedmont and Naples in the XVIIth andXVIIIth centuries, in “The Journal of European Economic History”, a. XI (1982), pp. 665-673.

62 Ivi, p. 671.63 L. DE ROSA, Studi sugli arrendamenti del regno di Napoli. Aspetti della distribuzione della

ricchezza mobiliare nel Mezzogiorno continentale (1649-1806), Napoli, L’Arte Tipografica, 1958.64 A. MUSI, Finanze e politica nella Napoli del ’600: Bartolomeo d’Aquino, Napoli, Guida,

1976.65 Si vedano soprattutto i contributi raccolti in G. MUTO, Le finanze pubbliche napoletane tra

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nuove ricerche sul debito pubblico napoletano in età moderna hanno visto laluce66.

Il volume di Anthony Calabria su The Cost of Empire. The Finances of theKingdom of Naples at the Time of Spanish Rule del 199167, pur non essendoespressamente dedicato al debito pubblico, inserisce questo tema all’interno diuna proposta di organica ricostruzione dell’evoluzione delle finanze del regnodi Napoli tra la metà del Cinquecento e gli anni ‘30 del secolo successivo. Cala-bria individua le elaborate caratteristiche tecniche del ricorso al debito pubbli-co, ne segue le fasi della rapida espansione, in particolare tra il 1563 e il 1596,sottolinea la grande vitalità del mercato finanziario, evidenziando tra l’altro chea Napoli, contrariamente al caso olandese studiato da Tracy, il mercato dellarendita è del tutto libero68. L’analisi condotta da Calabria, come già ricordato,si colloca dichiaratamente all’interno del filone interpretativo della financialrevolution, ma rispetto al modello delle Province Unite, che viene spesso evo-cato, a Napoli il contributo dato dal debito pubblico allo sviluppo di un mer-cato del credito altamente sofisticato non favorisce un processo di crescita, ma,al contrario, asseconda una fase di ristagno dell’economia69.

Calabria trae un’ulteriore conferma di questa lettura dalla crescente diver-sificazione sociale degli acquirenti della rendita a proposito della quale - al di làdella sempre massiccia presenza dei mercanti banchieri genovesi sulla quale tor-nerò - evidenzia la maggiore partecipazione di piccoli investitori come provadella crescente insicurezza del clima economico generale nonché dell’impossi-bilità di trovare forme d’investimento alternativo70. Tuttavia, proprio questi datisulla distribuzione degli acquirenti del debito pubblico per gruppo sociale e perammontare dell’investimento sembrano suggerire, se non altro, un più com-plesso processo di accumulazione e di redistribuzione della ricchezza, messo inmoto proprio dal debito pubblico71. In altre parole, nello sforzo di sintesi com-piuto da Calabria, l’analisi del debito pubblico napoletano risulta costretta trail modello della financial revolution e un’interpretazione del ruolo del mercato

riforme e restaurazione (1520-1536), Napoli, ESI, 1980, ma editi separatamente nel corso deldecennio precedente.

66 Una sintesi sullo stato degli studi all’inizio del periodo qui considerato in G. GALASSO, Eco-nomia e finanze nel Mezzogiorno tra XVI e XVII secolo, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (acura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 45-88 (ora in G. GALASSO, Alla periferia dell’Impero. IlRegno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994, pp. 185-216).

67 A. CALABRIA, The Cost of Empire cit., in particolare il cap. V: The creation of a securitymarket in the later sixteenth century, pp. 104-129.

68 Ivi, p. 113.69 Ivi, pp. 114 e segg.70 Ivi, pp. 122-123. 71 Ivi, pp. 115-117 e 125-127.

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72 Ivi, p. 123; si veda anche J.H. ELLIOT, The Decline of Spain, in T. ASTON (ed.), Crisis inEurope, 1550-1960, with an introduction by C. Hill, London, Routledge & Kegan, 1965 (ed. ita-liana: Napoli, Giannini, 1968), in particolare le pp. 185-186 per la citazione riportata da Calabria.

73 A. CALABRIA, La finanza pubblica a Napoli nel primo Cinquecento, in A. MUSI (a cura di),Nel sistema imperiale. L’Italia spagnola, Napoli, ESI, 1994, pp. 225-234.

74 G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria nell’esperienza degli stati italiani dellaprima età moderna, in G. CHITTOLINI, A. MOLHO, P. SCHIERA (a cura di), Le origini dello Statomoderno cit., pp. 287-302; G. MUTO, The Spanish System: Centre and Periphery, in R. BONNEY

(ed.), Economic Systems cit., pp. 231-259. Si vedano anche i contributi raccolti in G. MUTO, Saggisul governo dell’economia nel Mezzogiorno spagnolo, Napoli, ESI, 1992.

75 G. MUTO, The Spanish System cit., p. 255.

del credito antinomica a qualsiasi forma di crescita, come nella tradizionale let-tura proposta da Elliot per l’economia castigliana, lettura alla quale Calabria sirichiama espressamente72. Più in generale, l’apporto alla conoscenza dellevicende del debito pubblico napoletano dato dal volume di Calabria del 1991 eda un suo successivo studio del 199473, risulta molto maggiore se inserito nelcontesto degli altri contributi apparsi in questi anni, che hanno approfonditomolti aspetti dello stesso tema, soprattutto in relazione alla collocazione geopo-litica del Mezzogiorno continentale nel contesto della monarchia spagnola, allastruttura amministrativa e finanziaria del regno, ai gruppi sociali coinvolti nelmercato del credito.

Giovanni Muto – in particolare con due saggi apparsi nel 1994 e nel 199574

– ha richiamato l’attenzione sull’impossibilità di considerare la gestione finan-ziaria e le vicende del debito pubblico del regno di Napoli separatamente dalcontesto degli altri territori della monarchia, nel contesto di una più generalericostruzione dei caratteri comuni, dei processi di riforma e dei tentativi di con-vergenza degli apparati finanziari dei tre maggiori possedimenti italiani degliAsburgo di Spagna, il regno di Napoli, il regno di Sicilia e il ducato di Milano.Per quanto riguarda più specificamente la gestione del debito pubblico nell’etàdi Filippo II, Muto ricorda come particolarmente significativo il tentativo com-piuto nel 1556 per creare una figura di agente del sovrano che avrebbe dovutocoadiuvare nei territori italiani l’azione del factor general della corona, istituitocon la funzione di trasferire fondi tra le varie aree della monarchia e contratta-re le condizioni dei prestiti con gli hombres de negocios da una posizione dimaggior forza; il tentativo, com’è noto, non riuscì e nel 1557 Filippo II fucostretto a proclamare la prima delle sospensioni dei pagamenti che avrebberosegnato il suo regno75. A ciascuna sospensione avrebbe fatto seguito un mediogeneral, l’accordo raggiunto per rinegoziare l’ammontare del debito e le moda-lità di pagamento, e le entrate fiscali dei territori italiani sarebbero andate agarantiti i nuovi juros emessi, come in occasione del medio general del 1598,concluso a pochi mesi dalla morte di Filippo II, quando l’importo complessivo

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del debito riconosciuto dalla corona, pari a 14 milioni di ducati, fu copertoper i due terzi dall’emissione di juros al 5% e il restante terzo da juros al7,14%, metà dei quali emessi sulle entrate di Napoli e Milano76. Per il Sei-cento, in particolare per gli anni dell’Olivares, Gaetano Sabatini haapprofondito alcuni aspetti dei legami esistenti tra le scelte politiche operatea Madrid e gli interessi coagulatisi a Napoli intorno alla gestione della rendi-ta pubblica77.

All’andamento del debito pubblico napoletano in rapporto alle vicendefinanziarie della corona castigliana sono stati altresì dedicati contributi da LuigiDe Rosa78 e Roberto Mantelli79; entrambi questi studiosi, tuttavia, hanno rivol-to le loro ricerche soprattutto all’interno del sistema del credito del Mezzogior-no continentale. Il ricorso al debito pubblico si realizzava a Napoli attraverso lacapitalizzazione e la cessione a privati di entrate tributarie o patrimoniali, inperpetuo, cioè a titolo vitalizio, ovvero con patto di retrovendita, se la corona siriservava il diritto futuro di rientrare in possesso del cespite restituendo il capi-tale ricevuto; l’alienazione avvenne con una tale frequenza e in così rilevantiproporzioni, che il valore delle entrate vendute si andò riducendo e l’alaggio,cioè la differenza tra il valore nominale e il prezzo di mercato, toccò livelli viavia più alti. Riprendendo i risultati di precedenti ricerche sulla struttura finan-ziario del regno in età spagnola, De Rosa ha approfondito la conoscenza degli

76 Ivi, p. 257.77 G. SABATINI, Fiscalité des villes, argent du roi. Les finances urbaines dans le royaume de

Naples à l’époque moderne, in “Liame. Bulletin du Centre d’Histoire Moderne et Contemporainede l’Europe Méditerranéenne et des ses Périphéries”, n. 8, juillet-décémbre 2001, pp. 101-115;ID., Les formes de contrôle fiscal dans le royaume de Naples dans l’âge espagnol, relazione presen-tata al convegno La Monarchie hispanique, institutions, réseaux, cultures politiques (XVIe-XVIIIe

siécle), Parigi, EHESS, 7-9 dicembre 2000, in corso di stampa; ID., Collecteurs et fermiers desimpôts dans les communautés du Royaume de Naples durant la période espagnole, relazione pre-sentata al seminario Couronne espagnole et magistratures citadines, Madrid, Casa de Velazquez, 22novembre 2002, in corso di stampa; ID., Tra crisi delle finanze e riforma delle istituzioni: MattiaCasanate, ministro del Re nella Napoli asburgica, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI

(eds.), ‘Le forze del Principe’. Recursos, instrumentos y límites en la práctica del poder soberano enlos territorios de la Monarquía Hispanica, Murcia, Universidad de Murcia - Cuadernos del Semi-nario Floridablanca, n. 5, in corso di stampa.

78 L. DE ROSA, L’azienda e le finanze, in L. DE ROSA, L.M. ENCISO RECIO (a cura di), Spa-gna e Mezzogiorno d’Italia nell’età della transizione (1650-1760), Napoli, ESI, 1997, vol. I,Stato, finanza ed economia, pp. 128-148; ID., Immobility and change in public finance in thekingdom of Naples, 1694-1806, in “The Journal of European Economic History”, a. XXVIII(1998), n. 1, pp. 9-28.

79 R. MANTELLI, Guerra, inflazione e recessione nella seconda metà del Cinquecento. Filippo IIe le finanze dello Stato Napoletano, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica in età di crisi,Bari, Cacucci, 1993, pp. 213-244.

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operatori attivi nella gestione e nel mercato del credito e in particolare delruolo dei banchi pubblici e privati80. Più concentrato sull’evoluzione del debitopubblico napoletano nella seconda metà del Cinquecento, in uno studio del1997 Mantelli è ritornato su questo tema81, prendendo in esame e riclassifican-do, per fonti di entrata capitalizzate e per gruppi sociali, tutte le alienazioni direndita pubblica effettuate tra il 1556 e il 158382. All’interno dei gruppi socialiproposti dalla riclassificazione di Mantelli, appaiono assolutamente dominantila nobiltà titolata con il 22% delle rendite (21% dei capitali), i genovesi – nontitolati perché altrimenti ricompresi nel gruppo precedente – con il 29% dellerendite (27% dei capitali), il ceto intermedio, costituito da esponenti delle pro-fessioni liberali, mercanti, banchieri, funzionari dello Stato, con il 44% dellerendite (46%)83.

Un’analoga classificazione per gruppi sociali è stata adottata anche da Ila-ria Zilli, che in due studi, del 1990 e del 1997, ha pubblicato l’elenco per il1669 e per il 1737 dei possessori delle quote del debito pubblico napoletanoottenute capitalizzando il gettito di imposte sui fuochi versate dalle comunitàdelle sei province della costa tirrenica del regno84. Rispetto alla documentazio-ne utilizzata negli studi di Mantelli si tratta di un materiale più parziale, giacchési riferisce solo ad una parte dell’intero ammontare del debito pubblico, accesocapitalizzando una frazione, più o meno grande, del gettito di imposte sui fuo-chi di tutte le dodici province del regno nonché del gettito di tutte le altre

80 Si vedano L. DE ROSA, Il Mezzogiorno spagnolo tra crescita e decadenza, Milano, Il Sag-giatore, 1987; ID., Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà a Napoli nei secc. XVI-XVIII, inBanchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell’Europa pre-industriale, Genova, Società Ligu-re di Storia Patria, 1991, pp. 499-512; ID., Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchipubblici napoletani, in ID. (a cura di), Gli inizi della circolazione della cartamoneta e i banchi pub-blici napoletani nella società del loro tempo, Napoli, Fondazione dell’Istituto Banco Napoli, 2002,pp. 437-459.

81 Tra gli studi precedenti di Mantelli su questo tema si veda soprattutto Burocrazia e finan-ze pubbliche nel Regno di Napoli a metà del ’500, Napoli, Pironti, 1981.

82 R. MANTELLI, L’alienazione della rendita pubblica e i suoi acquirenti dal 1556 al 1583 nelRegno di Napoli, Bari, Cacucci, 1997.

83 Ivi, p. 52 (alle pp. 39-41 per la definizione del ceto intermedio). Negli studi di RobertoMantelli come in quelli di Ilaria Zilli (di cui alla nota successiva) appare modesto l’investimento inquote del debito pubblico da parte degli ordini religiosi, sul quale si veda anche G. SABATINI, Ilpatrimonio degli ordini religiosi e l’investimento in quote del debito pubblico nel regno di Napoli inetà moderna. Primi spunti per una riflessione, relazione presentata nella sessione Confiscation of theEstates of the Regular Clergy and Capitalistic Accumulation in Early Modern Europe del XIII Con-gresso Internazionale di Storia Economica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002, in corso di stampa.

84 I. ZILLI, Debito pubblico e imposta diretta nel regno di Napoli (1669-1737), Napoli, ESI,1990; EAD., Lo Stato e i suoi creditori. Il debito pubblico del Regno di Napoli tra ’600 e ’700, Napo-li, ESI, 1997.

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85 A. CALABRIA, Finanzieri genovesi nel regno di Napoli nel Cinquecento, in “Rivista StoricaItaliana”, a. CXI (1989), pp. 578-613.

86 R. MANTELLI, L’alienazione della rendita pubblica cit., pp. 41-44.87 A. MUSI, Mercanti genovesi nel regno di Napoli, Napoli, ESI, 1996.88 M.A. VISCEGLIA, Territorio, feudo e potere locale. Terra d’Otranto tra Medioevo ed età

moderna, Napoli, Guida, 1988, pp. 268-270.89 Si vedano tra gli altri G. FELLONI, La fiscalità nel dominio genovese tra Quattro e Cinque-

cento, in “Atti della Società Savonese di Storia Patria”, n.s., a. XXV (1989), pp. 91-110 (ora inID., Scritti di storia economica cit., vol. I, pp. 235-250); ID., Stato genovese, finanza pubblica e ric-chezza privata: un profilo storico, in I. ZILLI (a cura di), Fra spazio e tempo. Studi in onore di LuigiDe Rosa, vol. I, Napoli, ESI, 1995, pp. 381-404 (ora in G. FELLONI, Scritti di storia economica cit.,vol. I, pp. 275-295); ID., Genova e la contribuzione di guerra all’Austria nel 1746: dall’emergenzafinanziaria alle riforme di struttura, in C. BITOSSI, C. PAOLUCCI (a cura di), Genova 1746: una cittàdi antico regime tra guerra e rivolta, vol. I, Genova, Associazione amici della Biblioteca Franzo-niana, 1998, pp. 7-16 (ora in G. FELLONI, Scritti di storia economica cit., vol. I, pp. 297-306); ID.,Accumulazione capitalistica ed investimenti a Genova nei secc. XVI-XVII: uno sguardo d’insieme,ivi, pp. 653-667; ID., Il capitale genovese e l’Europa da Luigi XIV a Napoleone, ivi, pp. 669-681.

entrate (patrimoniali, indirette, etc.) dello Stato. La frazione di debito pubblicopresa in esame in questi studi, tuttavia, può essere giudicata rappresentativa deltotale della rendita pubblica accesa sulle imposte sui fuochi sia per il 1669 cheper il 1737, di cui costituisce rispettivamente il 55,5% e il 55,9%; questi datinon possono invece essere giudicati rappresentativi dell’intero debito pubbliconapoletano per gli stessi anni, perché mancanti della parte relativa al debitoacceso capitalizzando entrate di natura diversa dalle imposte sui fuochi, e perquesto motivo non è possibile un confronto con i dati pubblicati da Mantelliper la fine del Cinquecento.

L’incompletezza delle fonti disponibili è in questo caso particolarmente dalamentare perché i dati già noti segnalano per la metà del Seicento e per il prin-cipio del Settecento un elemento – se confermato – di particolare interesse: unnetto ridimensionamento del peso del ceto intermedio tra i detentori di quotedel debito e una forte crescita di quello della nobiltà, oltre alla totale scompar-sa del gruppo dei mercanti banchieri genovesi a seguito dell’espulsione dellacomunità originaria della repubblica di San Giorgio avvenuta nel 1654; sino aquell’anno, al contrario, il peso della comunità genovese nella vita finanziariadel regno e segnatamente nelle attività connesse con il debito pubblico era statoestremamente significativo, come segnalato ancora negli ultimi anni da contri-buti di Calabria85, Mantelli86, Musi87, Visceglia88.

Il ruolo centrale avuto dai mercanti banchieri genovesi nella vita finanzia-ria napoletana in età spagnola porta naturalmente a far riferimento anche aldebito pubblico della repubblica di San Giorgio. Con alcuni recenti contribu-ti89, Giuseppe Felloni è tornato sul quadro già delineato in studi precedentiper mettere più chiaramente in luce come le fortune internazionali conosciute

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90 ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, Inventario dell’Archivio del Banco di San Giorgio. Sotto ladirezione di Giuseppe Felloni, vol. IV, Debito Pubblico, a cura di G. Felloni, t. I, Roma 1989, p. 12.

91 ARCHIVIO DI STATO DI GENOVA, Inventario dell’Archivio del Banco di San Giorgio. Sotto ladirezione di Giuseppe Felloni, vol. II, Affari generali (t. I, Roma 2001), vol. III, Banchi e tesorieri(t. I, Roma 1990; tt. II-IV, Roma 1991; t. V, Roma 1992; t. VI, Roma 1993), vol. IV, Debito pub-blico (tt. I-II, Roma 1989; tt. III-V, Roma 1994; t. VI, Roma 1995; t. VII-VIII, Roma 1996).

92 G. DORIA, Conoscenza del mercato e sistema informativo: il know-how dei mercanti-finan-zieri genovesi nei secc. XVI e XVII, in A. DE MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), La repub-blica internazionale del denaro tra XV e XVII secolo, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 57-121, ora inG. DORIA, Nobiltà e investimenti a Genova in Età moderna, Genova, Istituto di Storia Economi-ca [dell’Università degli Studi di Genova], 1995, pp. 91-155, in particolare alle pp. 118-121 peril riferimento ai genovesi a Napoli.

93 R. GIUFFRIDA, Investimenti di capitale straniero in Sicilia (1556-1855), Palermo, Accade-mia Nazionale di Scienze, Lettere e Arti di Palermo, 1991, in particolare il cap. I, Investimentifinanziari di mercanti-banchieri stranieri in Sicilia in epoca spagnola (1556-1665).

dal capitalismo genovese in età moderna affondino le loro radici nel processoplurisecolare di accumulazione e di redistribuzione della ricchezza messo inmoto proprio dal debito pubblico – e in particolare dalle compere, che ne costi-tuivano il nucleo più antico e importante – evidenziando tra l’altro come “lapreoccupazione costante di assicurare un buon reddito ai luoghi fu spesso incontrasto con gli interessi generali del paese e finì per sacrificarli a vantaggiodei pubblici creditori”90. Al di là dell’attività di ricerca, è doveroso ricordareche partire dagli anni ’80 Giuseppe Felloni ha promosso e coordinato un lavo-ro indispensabile per rendere pienamente fruibili le fonti per la storia del debi-to pubblico genovese, mi riferisco alla realizzazione e all’avvio della pubblica-zione dell’Archivio del Banco di San Giorgio, che, sorto nel 1407 da un riordi-namento del debito pubblico genovese, ad esso legò le sue sorti fino alla sop-pressione voluta da Napoleone nel 180591.

Tornando al ruolo dei genovesi nelle vicende dei debiti pubblici degli Statiitaliani, e in particolare dei territori soggetti alla monarchia spagnola, si puòricordare ancora un contributo di Giorgio Doria, che, inserendo la presenza aNapoli all’interno di una più ampia ricostruzione dell’attività dei mercanti ban-chieri genovesi su tutte le piazze europee e mediterranee, nelle isole atlantichee caraibiche, nei secoli XVI e XVII, ha sottolineato l’importanza che per con-seguire questa posizione ebbero l’efficiente sistema di conoscenza dei mercati ela rete informativa di cui disponevano i circoli finanziari genovesi92. Analoga-mente Romualdo Giuffrida, nel ricostruire gli investimenti di capitale stranieroin Sicilia dalla metà del Cinquecento, ha portato nuovi elementi di conoscenzasulle forme con cui i genovesi praticavano i prestiti al governo spagnolo dell’i-sola, acquisendo il gettito di imposte o i diritti di tratta, cioè le licenze di espor-tazione, prevalentemente di cereali93. Per la Lombardia, Antonia Borlandi ha

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94 A. BORLANDI, “Al Real Servitio di S. Maestà” Genova e la Milano del Seicento, in “Millainthe Great”. Milano nelle brume del Seicento, Milano, CARIPLO, 1989, pp. 41-60.

95 Si veda soprattutto A. COVA, Il Banco di S. Ambrogio nell’economia milanese dei secoliXVII e XVIII, Milano, Giuffrè, 1972.

96 ID., Banchi e monti pubblici a Milano nei secoli XVI e XVII, in Banchi pubblici, banchi pri-vati cit., pp. 329-340; ID., Banchi e monti pubblici a Milano tra interessi privati e pubbliche neces-sità, in P. PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica, Lombardia Spagnola,1554-1659, Roma, Bulzoni, 1995, vol. I, pp. 363-381.

97 G. MUTO, Modelli di organizzazione finanziaria cit., pp. 299-300.98 Per uno stato delle conoscenze sul debito pubblico siciliano in età moderna prima della pub-

blicazione dei più recenti contributi si veda G. GIARRIZZO, La Sicilia dal Cinquecento all’Unità d’Ita-lia, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XVI, La Sicilia dal Vespro all’Unità, a cura di V. D’A-lessandro e G. Giarrizzo, Torino, UTET, 1992, pp. 99-793, in particolare le pp. 201-208.

99 A. GIUFFRIDA, La finanza pubblica nella Sicilia del Cinquecento, Caltanissetta - Roma, Sal-vatore Sciascia Editore, 1999.

tracciato un quadro dei rapporti finanziari con Genova nel corso del XVIIsecolo94 e soprattutto Alberto Cova, riprendendo i risultati di precedenti ricer-che95, ha messo in evidenza come il milanese Monte di S. Carlo, fondato nel1637, traesse origine e fosse condizionato nella sua successiva attività dai credi-ti concessi dal banchiere genovese Stefano Balbi al ducato96.

Il grande peso avuto in età moderna dai mercanti banchieri genovesi nelcontrollo delle forme del credito concesso allo Stato in varie altre aree dellapenisola, non deve mettere in ombra un altro importante aspetto della gestionedel debito pubblico, presente almeno nei territori italiani soggetti alla coronacastigliana. Fermo restando che tra Cinque e Seicento i genovesi tendono,soprattutto a Napoli, ad assimilarsi alle élites locali, è importante far risaltareche nell’Italia spagnola i provvedimenti adottati in materia di finanza pubblicanon furono mai “disgiunti dalla capacità di coinvolgere i gruppi dirigenti nazio-nali nella gestione della fiscalità”97. Per quanto riguarda Napoli, gli studi giàricordati sembrano documentare abbastanza ampiamente questa capacità dicoinvolgimento. Nel caso della Sicilia, due recenti saggi dedicati alle finanzepubbliche in età moderna, hanno colmato la lacuna storiografica che pesavasulla conoscenza del debito pubblico isolano98.

In uno studio del 1999, Antonino Giuffrida ha presentato i risultati dellariclassificazione di una serie di bilanci del regno dal 1505 al 158799. Il debitopubblico, assente al principio del secolo cresce nel successivo decennio sino afornire alle casse reali circa il 15% del totale degli introiti, ma successivamentetorna a diminuire sino ad attestarsi, verso la fine del Cinquecento, intorno al6% del totale delle entrate; per converso, nello stesso periodo, per il pagamen-to degli interessi o la restituzione dei capitali, il debito pubblico impegna tral’11% e il 14% delle uscite, con una punta massima del 20% tra il 1565 e il

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1580100. Giuffrida spiega questo apparente paradosso con il cambiamento chenel corso del Cinquecento caratterizza le forme assunte dal debito pubblicosiciliano: all’inizio del secolo lo Stato raccoglie il denaro ancora prevalentemen-te con uno strumento tipico del mondo mercantile, il contratto di cambio, chesi configura, per la sua stessa natura, come un indebitamento a breve, in mediaa sei mesi o a un anno, con tassi d’interesse che oscillano intorno al 12-15%; nelcorso del secolo, tuttavia, avviene il graduale passaggio al sistema delle soggio-gazioni ossia l’acquisizione di somme in cambio del diritto a percepire in per-petuo, o fino alla restituzione del capitale, un interesse annuo, in media del 7%,garantito sui redditi della corona101. Mentre i contratti di cambio sono appan-naggio di mercanti finanzieri, tra cui appunto i genovesi, le soggiogazioni sirivolgono ad un mercato molto più ampio che, seppure mediato da banchierilocali, comprende nobiltà e ceti intermedi, oltre che soggetti istituzionali comele comunità o i consolati delle nazioni mercantili presenti in Sicilia102.

L’incidenza dell’investimento in debito pubblico sui patrimoni personali èuno degli aspetti sui quali maggiori conoscenze ha portato lo studio di RossellaCancila su fisco, ricchezza e comunità nella Sicilia del Cinquecento103. Analiz-zando il contenuto delle denunce fatte a fini fiscali a metà del Cinquecento,Rossella Cancila ha studiato la composizione della ricchezza di un gruppo diproprietari, appartenenti a varie classi della distribuzione dei redditi, di cinquecomunità rappresentative delle diverse aree ed economie dell’isola; l’investi-mento in debito pubblico appare documentato praticamente in tutte i ceti pos-sidenti, sebbene esso appaia massimo nelle classi più agiate e si riduca forte-mente scendendo ai livelli più bassi della piramide della distribuzione della ric-chezza104. La composizione della ricchezza mobiliare presente nei patrimonipersonali porta a considerare anche il peso del debito pubblico che mettevacapo alle comunità105. L’Autrice evidenzia come nel corso del Cinquecento cre-

100 Ivi, pp. 52-62. 101 Ivi, pp. 62-63 e 250-256. Come forma di prestito dalle caratteristiche intermedie rispet-

to ai cambi e alle soggiogazioni, Giuffrida segnala altresì l’esistenza dei mutui ipotecari (pp. 254-255), anch’essi tuttavia praticati meno frequentemente con il procedere del secolo.

102 Ivi, p. 257.103 R. CANCILA, Fisco, ricchezza e comunità nella Sicilia del Cinquecento, Roma, Istituto Sto-

rico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea, 2001.104 Ivi, cap. IV, Patrimoni e attività economiche alla metà del Cinquecento, pp. 135-230.105 Ivi, cap. VII, Il debito delle comunità, pp. 339-363; sulle finanze delle città siciliane in età

moderna si vedano anche M. AYMARD, Il sistema delle gabelle nelle città siciliane fra Cinquecentoe Settecento, in F. BENIGNO, C. TORRISI (a cura di), Città e feudo nella Sicilia moderna, Caltanisetta- Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1995, pp. 15-25, e in particolare sull’indebitamento dellecomunità isolane nel corso del XVII secolo P. CASTIGLIONE, Storia di un declino. Il Seicento sici-liano, Siracusa, Ediprint, 1987, in particolare alle pp. 145-156, 225-244 e 305-317. Ancora sulle

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sca vertiginosamente l’indebitamento di città e borghi dell’isola, sotto forma disoggiogazioni o di mutui ipotecari concessi a lungo termine, che gravavano inmodo esorbitante sui bilanci delle comunità, come nel caso di Palermo, dove, afine Cinquecento, il pagamento degli interessi sul debito assorbiva da solo oltreil 40% delle uscite106.

Un’analoga attenzione per ricostruire un quadro complessivo della situa-zione del debito pubblico delle comunità in età moderna è mancata invece peril regno di Napoli, per il quale, a questo proposito, si possono segnalare, limi-tatamente ad alcune aree specifiche, i recenti contributi di Alessandra Bulgarel-li Luckas107, Giuseppe Di Taranto108 e Gaetano Sabatini109. In particolare DiTaranto, all’interno di uno studio sulle comunità del regno che tra XVII eXVIII secolo furono dedotte in patrimonio, cioè sottoposte all’amministrazionecoatta da parte del potere centrale, analizza il caso di Amalfi, le cui finanzemunicipali furono poste sotto la gestione controllata dai magistrati contabilidella capitale, ad istanza dei creditori insoddisfatti, a partire dal 1723 e fino allafine del secolo110. Come Amalfi, molte altre comunità del regno di Napoli cono-scono nella prima metà del Settecento un autentico tracollo finanziario a causadell’indebitamento accumulatosi lungo i centocinquant’anni precedenti ed èappunto su questa situazione che cercarono di intervenire gli austriaci nellabreve stagione, tra il 1707 e il 1734, in cui il Mezzogiorno continentale rientraa far parte dell’impero.

Riprendendo i risultati di precedenti ricerche111, Antonio Di Vittorio è tor-nato recentemente sui provvedimenti assunti in età austriaca nel tentativo diaccrescere le entrate statali attraverso il risanamento delle finanze dello Stato112.In particolare, per quanto riguarda il debito locale, nel 1729 fu adottato un

finanze siciliane nel Seicento si veda D. LIGRESTI, I bilanci seicenteschi del Regno di Sicilia, in“Rivista storica italiana”, a. IC (1997), pp. 894-937.

106 R. CANCILA, Fisco, ricchezza e comunità cit., pp. 349-351.107 A. BULGARELLI LUCKAS, Abruzzo Citra. Economia e fiscalità nella crisi seicentesca, Napoli,

senza indicazione dell’editore, 1989; EAD., Gli stati discussi del Tapia (1627-1633). Un apporto perla storia della finanza pubblica, Napoli, senza indicazione dell’editore, 1990.

108 G. DI TARANTO, L’economia amministrata. La deduzione in patrimonio delle universitàmeridionali, Napoli, ESI, 1988.

109 G. SABATINI, Proprietà e proprietari all’Aquila e nel contado. Le rilevazioni catastali in etàspagnola, Napoli, ESI, 1995; ID., Il controllo fiscale sul territorio nel Mezzogiorno spagnolo e il casodelle province abruzzesi, Napoli, Istituto italiano per gli Studi Filosofici, 1997.

110 G. DI TARANTO, L’economia amministrata cit., pp. 53-82. 111 Si veda in particolare A. DI VITTORIO, Gli Austriaci e il Regno di Napoli, 1707-1734. Le

finanze pubbliche, Napoli, Giannini, 1969; ID., Gli Austriaci e il Regno di Napoli, 1707-1734. Ideo-logia e politica di sviluppo, Napoli, Giannini, 1973.

112 ID., Crisi economica e riforme finanziarie nel Mezzogiorno nei primi decenni del XVIIIsecolo, in ID. (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 245-253.

101

provvedimento di conversione al 5% della rendita comunitativa, contempora-neamente al divieto di ogni futura cessione dei cespiti delle comunità113, mentre,sin dall’anno precedente, era attivo il Banco di San Carlo, fondato con la finalitàdi ricomprare le quote di debito pubblico ottenute capitalizzando il gettito diimposte sui fuochi. Tuttavia, sottolinea Di Vittorio, la fitta rete degli interessilocali dispiegatasi intorno al debito pubblico riuscì a ostacolare il funzionamen-to del banco e all’arrivo di Carlo di Borbone, nel 1734, la situazione apparivaimmutata in tutta la sua gravità, come evidenziato nei contributi di Ilaria Zilli eAlessandra Bulgarelli Luckas dedicati all’avvio del regno del nuovo sovrano114.

4. Le forme di resistenza attuate al principio del Settecento contro i tenta-tivi di estinzione del debito pubblico napoletano documentano, in altro modo,il progressivo coinvolgimento realizzato dal governo spagnolo, nei due secoliprecedenti, delle élites dirigenti locali e dei ceti intermedi in un meccanismo diredistribuzione del reddito nazionale che conservava l’evidente finalità di lega-re strati sociali sempre più ampi alle scelte politiche della monarchia. Questaconsiderazione non deve però portare a sottovalutare anche la rilevanza e ilpeso degli interventi attuati dai governi spagnoli nei territori italiani tanto persalvaguardare la propria sovranità impositiva quanto per modificare gli stru-menti di credito esistenti sul mercato, al fine di ridurre il costo del denaro presoa prestito dallo Stato o dalle comunità, cioè riducendo forzosamente i tassi d’in-teresse corrisposti sul debito pubblico115.

A questo riguardo, venendo a trattare del terzo grande dominio spagnoloin Italia, il ducato di Milano, Luigi Faccini, all’interno di una più ampia ricercasulla Lombardia tra Sei e Settecento116, ha opportunamente richiamato l’atten-

113 Ivi, p. 249.114 I. ZILLI, Carlo di Borbone e la rinascita del regno di Napoli. Le finanze pubbliche, 1734-

1742, Napoli, ESI, 1990, in particolare le pp. 231-243; EAD., La finanza pubblica come strumentodi politica economica nel regno di Napoli, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit.,pp. 255-279; A. BULGARELLI LUCKAS, L’imposta diretta nel regno di Napoli in età moderna, Mila-no, Angeli, 1993, in particolare le pp. 49-60.

115 In realtà per formulare una considerazione complessiva dei caratteri generali delle finan-ze pubbliche dei territori italiani della monarchia degli Asburgo di Spagna mancano ancora con-tributi significativi riguardo alla Sardegna, nonostante alcuni spunti promettenti offerti da recen-ti studi pur non espressamente dedicati a questi temi: F. MANCONI, Castigo de Dios. La grandepeste barocca nella Sardegna di Filippo IV, Roma, Donzelli, 1994, e G. TORE, Il Regno di Sardegnanell’eta dell’Olivares (1620-1640): assolutismo monarchico e Parlamenti, Roma, Editori riuniti,1993; ID., Il regno di Sardegna nell’età di Filippo IV. Centralismo monarchico, guerra e consensosociale (1621-30), Milano, Angeli, 1996.

116 L. FACCINI, La Lombardia fra ’600 e ’700. Riconversione economica e mutamenti sociali,Milano, Angeli, 1988.

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zione sull’importanza del provvedimento con il quale nel 1636 il governatoredello Stato di Milano, recependo una disposizione già introdotta in altre partidella monarchia117, abbassava al 5% il tasso d’interesse dei censi consegnativistipulati tra i privati e le comunità118. Sebbene successivamente i prestiti avven-nero prevalentemente sotto forma di contratti di deposito e di mutuo, questointervento mirava soprattutto a restituire un po’ di fiato alle esauste casse dellecomunità, che tuttavia avrebbero dovuto versare annualmente allo Stato un’im-posta pari allo 0,5% dell’importo del capitale del censo119. D’altro canto nellaLombardia spagnola, i gettiti delle imposte dirette non vennero mai cedute aiprivati e Faccini sottolinea questo dato, appunto, come espressione dellavolontà del potere centrale di tutelare la propria capacità impositiva120.

Più in generale, Faccini ha ricostruito, per la seconda metà del Seicento,come interagiscano sulla rendita pubblica l’andamento del mercato e l’inter-vento dello Stato, sotto forma di fissazione o riduzione forzosa del tasso d’inte-resse corrisposto sul debito camerale o delle comunità121. Anche le alienazionidelle rendite camerali, naturalmente, si adeguavano alle tendenze in atto sulmercato del credito: nelle quasi cinquecento operazioni di cessione di renditedei beni e di redditi dello Stato compiute tra il 1641 e il 1705, risale al 1649 l’ul-tima delle alienazioni avvenute con un tasso di capitalizzazione dell’8%, men-tre, dopo il 1670, il tasso scende al di sotto del 7% e si attesta sul 5% negli annisuccessivi122. Nello stesso periodo, e parallelamente, l’emissione di rendita delloStato si contrae drasticamente: il 45% del totale delle alienazioni avviene neldecennio compreso tra il 1641 e il 1650, e il restante nei 55 anni successivi123.“È difficile dire se ciò dipendesse dalle minori esigenze dello Stato o dal quasicompleto esaurimento delle rendite vendibili ancora in possesso della RegiaCamera”124, ma è certo, per converso, che le comunità si trovavano stritolate inuna spirale di vertiginoso indebitamento: nel 1636 su un totale di circa 40

117 Si veda su questo A. DOMINGUEZ ORTIZ, Politica y hacienda de Felipe IV, Madrid 19832,p. 298.

118 L. FACCINI, La Lombardia fra ’600 e ’700 cit., p. 54.119 Ivi, p. 55. Faccini osserva altresì che quando, a partire dal 1642, il provvedimento fu

esteso anche a tutti i censi stipulati tra privati, si registrò un ricorso a contratti di retrovendita fit-tizi, con la finalità più di evadere l’imposizione fiscale che di riacquistare una reale libertà di con-trattazione, perché di fatto, per l’incertezza che regnava sul mercato e soprattutto per l’ampiadisponibilità di capitali in cerca d’impiego, il tasso d’interesse corrente superava raramente il 5%e a partire dal settimo decennio del Seicento si attestò stabilmente tra il 4 il 5% (ivi, p. 56).

120 Ivi, p. 92.121 Ivi, pp. 75 e segg.122 Ivi, p. 78.123 Ivi, p. 79.124 Ivi , p. 81.

103

milioni di debito pubblico di tutte le amministrazioni del Ducato, ben 27 milio-ni erano riconducibili ai soli censi – esclusi quindi gli altri tipi di contratti – sti-pulati dai contadi e dalle comunità rurali125.

Erano infatti le piccole comunità a patire il maggior peso dell’indebita-mento, anche perché nella loro amministrazione vi erano ampi spazi per l’inge-renza dei creditori, cioè per una tutela diretta degli interessi di quest’ultimi ascapito del bene della collettività, e di fatto le comunità rurali si trovavano spes-so sotto il controllo più o meno velato dei propri creditori126. Al contrario legrandi comunità potevano vantare una maggiore forza contrattuale, nei con-fronti dello Stato e dei propri creditori, per poter proclamare la sospensione delpagamento degli interessi, come nel caso di Cremona, o per poter creare unmeccanismo come quello realizzato da Milano, che, oltre a prendere diretta-mente denaro in prestito sui propri cespiti fiscali, in cambio di anticipazioni incontante cedeva redditi futuri al Banco di S. Ambrogio, il quale, a sua volta,emetteva luoghi di Monte al 5%127. Il fallimento del Banco nel 1658 sta a indi-care, come segnalato dagli studi di Cova, quanto il Banco avesse sollevato lacittà dall’obbligo di onorare i propri debiti trascinando nella rovina moltirisparmiatori128. In particolare Cova ha individuato negli anni compresi tra il1625 e il 1660 un periodo “nel quale il conflitto fra gli interessi dei privati e lenecessità finanziarie dei pubblici si presenta in forme particolarmente significa-tive [...] forse il momento di massima incapacità di governare i bilanci delleamministrazioni centrale e periferica e, corrispondentemente, di massima pre-valenza degli interessi particolari rispetto a quelli generali”129.

Non era stato però sempre così: una serie di recenti contributi di Giusep-pe De Luca ha portato nuovi elementi di conoscenza sull’attività del gruppo dioperatori che, nella seconda metà del Cinquecento, al culmine della fase espan-siva, aveva organizzato il sistema finanziario milanese, rendendolo funzionale,allo stesso tempo, alla crescita dell’economia dell’area e al sostegno del fabbi-sogno dello Stato, arrivando ad essere anche significativamente presente sulcomplesso mercato degli asientos della corte madrilena130. In particolare, per

125 Ivi, p. 110.126 Ivi, pp. 111-123.127 Ivi, p. 108.128 Si veda a questo proposito soprattutto A. COVA, Il Banco di S. Ambrogio cit., passim.129 ID., Banchi e monti pubblici a Milano tra interessi privati cit., p. 363.130 G. DE LUCA, Commercio del denaro e crescita economica a Milano tra Cinquecento e Sei-

cento, Milano, Il Polifilo, 1996; ID., Struttura e dinamiche delle attività finanziarie milanesi tra Cin-quecento e Seicento, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola. Nuovi indirizzidi ricerca, Milano, Unicopli, 1997, pp. 31-75; ID., Hombres de negocios e capitale mercantile: versoun nuovo equilibrio dell’economia milanese (1570-1620), in Felipe II (1527-1598). Europa y la

104

Monarquía Católica, Madrid, Editorial Parteluz, 1998, vol. II, Economía, Hacienda y Sociedad, acura di J. Bravo Lozano e S. Madrazo, pp. 527-551.

131 G. DE LUCA, L’alienazione delle entrate nello Stato di Milano durante il regno di Carlo V,in Carlos V y la quiebra del humanesimo politico en Europa (1530-1558), Madrid, Sociedad Esta-tal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V, 2000, vol. IV, a cura di J.Bravo Lozano e C. J. De Carlos Moral, pp. 385-403; G. DE LUCA, L’alienazione delle entrate nelloStato di Milano durante l’età spagnola: debito pubblico, sistema fiscale ed economia reale, in M.RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit.

132 G. VIGO, Uno stato nell’impero. La difficile transizione al moderno nella Milano di età spa-gnola, Milano, Guerini e associati, 1994; ID., Economia e governo nella Lombardia spagnola, in P.PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica cit., vol. I cit., pp. 249-264. Un qua-dro complessivo dell’interazione tra la collocazione geopolitica dello Stato di Milano e l’anda-mento della finanza pubblica in età spagnola in G. VIGO, Fisco e società nella Lombardia del Cin-quecento, Bologna, Il Mulino, 1979, e D. SELLA, Sotto il dominio della Spagna, in Storia d’Italia,diretta da G. Galasso, vol. XI, Il Ducato di Milano dal 1535 al 1796, Torino, UTET, 1984, pp. 1-150, in particolare le pp. 119-123.

133 M.C. GIANNINI, Risorse del principe e risorse dei sudditi: fisco, clero e comunità di fronteal problema della difesa comune nello stato di Milano (1618-1660), in “Annali di storia moderna e

quanto riguarda il rapporto con la finanza pubblica, De Luca ha avviato perl’età spagnola una ricostruzione sistematica dell’andamento della principaleforma assunta dal debito dello Stato, cioè la vendita anticipata delle entrate,individuando a tal fine una periodizzazione in quattro distinte fasi131. In unprimo periodo, compreso tra il 1535 e il 1569, si assiste ad una costante cresci-ta della quota delle entrate alienate sul totale di quelle disponibili, con tassi dicapitalizzazione prevalentemente del 7-10%; il successivo quarantennio, tra il1570 e il 1610, vede un’intensificarsi di questa tendenza, con a metà degli anni’70 il raggiungimento della soglia del 40% delle entrate disponibili alienate econ il saggio di capitalizzazione prevalente all’8%; a partire dal 1611 e sinoalmeno al 1640 la quota delle entrate alienate diminuisce, i tassi di capitalizza-zione si aggirano intorno all’8% e si registra una netta tendenza all’effettivariduzione delle alienazioni più onerose effettuate in passato; infine, dopo il1640, il ricorso all’alienazione redimibile delle entrate sembra diminuire pro-gressivamente a favore di una loro cessione perpetua, mentre le riduzioni for-zose del saggio d’interesse e l’imposizione di tasse sui percettori delle renditecompromettono la remuneratività di questo tipo d’investimenti come anche ditutti i debiti consolidati milanesi.

Naturalmente questa periodizzazione nel ricorso al debito pubblico con-segue soprattutto dal ritmo con cui il Milanesato, per la sua collocazionegeopolitica, viene chiamato a sostenere gli oneri militari della monarchia, perla contribuzione alle spese belliche, per gli alloggiamenti delle soldatesche,per le fortificazioni; un legame sul quale sono tornati, con accenti diversi, irecenti studi di Giovanni Vigo132, Massimo Carlo Giannini133, Davide Maf-

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fi134, Mario Rizzo135, mentre, ancora in riferimento all’età spagnola, MarcoOstoni ha studiato il personale e le modalità di gestione contabile della teso-reria generale del ducato di Milano, organo deputato alla quantificazionedelle entrate e delle uscite – e quindi dei disavanzi – dello Stato, nonchéall’individuazione dei cespiti da alienare e al pagamento degli interessi suldebito pubblico136.

La situazione del debito pubblico lombardo nella fase del trapasso tra spa-gnoli e austriaci è rappresentata nel volume di Stefano Agnoletto dedicato alloStato di Milano al principio del Settecento137. Nell’analizzare i bilanci preventi-vi dal 1701 al 1718, Agnoletto rileva innanzitutto la grande difficoltà di indivi-duare le uscite legate al servizio del debito pubblico, data l’estrema eterogeneitàdi voci raggruppate insieme e la loro forte oscillazione, in valore assoluto e inpeso percentuale, riscontrata tra un esercizio e l’altro, entrambi sintomi di una

contemporanea”, 6, 2000, pp. 173-225; ID., Città e contadi dello Stato di Milano nella politicafinanziaria del conte di Fuentes, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di), La Lombardia spagnola cit.,pp. 191-208; ID., Difesa del territorio e governo degli interessi. Il problema delle fortificazioni nelloStato di Milano (1594-1610), in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Prin-cipe’ cit.

134 D. MAFFI, Guerra ed economia: spese belliche e appaltatori militari nella Lombardia spa-gnola, in “Storia economica”, a. III (2000), n. 3, pp. 489-527; ID., Milano in guerra. La mobilita-zione delle risorse in una provincia della Monarchia, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ, G. SABATINI

(eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. 135 M. RIZZO, Finanza pubblica, impero e amministrazione nella Lombardia spagnola: le ‘ visi-

tas generales’, in P. PISSAVINO, G. SIGNOROTTO (a cura di), Lombardia Borromaica cit., vol. I cit., pp.303-361; M. RIZZO, Competizione politico-militare, geopolitica e mobilitazione delle risorse nell’Eu-ropa cinquecentesca. Lo Stato di Milano nell’età di Filippo II, in E. BRAMBILLA, G. MUTO (a cura di),La Lombardia spagnola cit., pp. 371-387; M. RIZZO, Milano e le forze del Principe. Agenti, relazio-ni e risorse per la difesa dell’impero di Filippo II, in Felipe II cit., vol. I, El Gobierno de la Monar-quía (Corte y Reinos), a cura di M. Rivero Rodríguez, t. II, pp. 731-766; M. RIZZO, El gobierno deMilán y la Monarquía de Felipe II, in Las sociedades ibéricas y el mar a finales del siglo XVI,Madrid, Sociedad Estatal para la Conmemoración de los Centenarios de Felipe II y Carlos V,1998, vol. III, El área del Mediterráneo, pp. 283-322; ID., I soldati del re e i soldi del popolo. Il pro-cesso di perequazione degli oneri militari nel Cinquecento lombardo, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ IBAÑEZ,G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit. Si segnala che sui temi anticipati in questi contributiM. Rizzo ha in corso di preparazione una monografia.

136 M. OSTONI, Da Como a Milano attraverso la Spagna: la carriera di Muzio Parravicino(1579-1615), in Felipe II cit., vol. II cit., pp. 585-608; ID., Un affare infruttuoso: Pedro López deOrduña e la tesoreria generale dello Stato di Milano, in Las sociedades ibéricas cit., vol. III cit., pp.485-511; ID., I conti dello Stato e la tesoreria generale di Milano: la gestione di Muzio e FrancescoParavicino (1600-1640), in “Storia economica”, a. I (1998), n. 3, pp. 563-600; ID., Controllori econtrollati: i ‘ragionati’ nell’amministrazione milanese tra Cinque e Seicento, in M. RIZZO, J.J. RUÍZ

IBAÑEZ, G. SABATINI (eds.), ‘Le forze del Principe’ cit.137 S. AGNOLETTO, Lo Stato di Milano al principio del Settecento. Finanza pubblica, sistema

fiscale e interessi locali, Milano, Angeli, 2000.

fase di spese straordinarie, affrontate rinunciando a qualsiasi tentativo di razio-nalizzazione e pianificazione138. Pertanto Agnoletto ha proposto una riclassifi-cazione secondo la tipologia di debito, in fluttuante, perpetuo e ammortizzabi-le: il debito fluttuante è individuato dalle anticipazioni fatte dagli appaltatoridelle riscossioni per coprire urgenti bisogni di cassa; nel secondo gruppo, quel-lo del debito perpetuo, sono comprese le concessioni onerose e le pensioni;infine la voce del debito ammortizzabile raggruppa la quota più significativa dipartite debitorie presenti nei bilanci del magistrato ordinario139. A questo grup-po appartengono gli interessi il cui pagamento era garantito dal gettito di entra-te alienate e dalle rendite di varie istituzioni, come la Cassa di redenzione, ilMonte di S. Carlo e il Monte di S. Francesco, nonché i versamenti dovuti alBanco di S. Ambrogio per le sovvenzioni fatte alla Regia Camera140.

Un primo tentativo di porre ordine nella confusa congerie del debito pub-blico ereditato dal governo spagnolo viene compiuta dagli austriaci nel 1711,con la formazione di una giunta incaricata di controllare la legalità dei contrat-ti di alienazione di redditi camerali ancora in essere; è da ritenere che anche inquesto caso la vastità degli interessi in gioco inducesse il governo recentementeinsediato a soprassedere ad una effettiva verifica, giacché nel volgere di pochimesi la giunta concluse la sua attività dichiarando tutti i contratti validi141.Nonostante il rapido epilogo, questa esperienza testimonia della volontà degliaustriaci di intervenire sulle finanze dello Stato, e segnatamente sul debito pub-blico, secondo un programma di riforme che, attraverso un intenso dibattitoteorico e politico, sarebbe giunto a maturazione nei decenni successivi142.

Sull’evoluzione del debito pubblico lombardo nel Settecento, dopo lo stu-dio di Alberto Cova del 1980143, non vi sono state ricerche più recenti, ma indue ben noti studi di sintesi, del 1990 e del 1995, Carlo Capra ha inserito que-sto tema nel quadro complessivo sia del riformismo asburgico, sia del più gene-rale processo di trasformazione delle finanze degli Stati italiani del XVIII seco-lo144. In particolare Capra sottolinea l’importanza dell’incontro “tra la volontà

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138 Ivi, pp. 99-103 e 115-118.139 Ivi, pp. 128.140 Ivi, p. 129.141 Ivi, pp. 279-280.142 Ivi, pp. 287-311.143 A. COVA, Il debito pubblico dello Stato di Milano durante la dominazione austriaca (1706-

1796), in La dette publique aux XVIII et XIX siècles: son développement sur le plan local, régionalet national, Bruxelles, Crédit Communal de Belgique, 1980, pp. 125-143.

144 C. CAPRA, Le finanze degli Stati italiani nel secolo XVIII, in L’Italia alla vigilia della Rivo-luzione Francese, Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, 1990, pp. 141-173; ID., TheEighteenth Century. I. The Finances of the Austrian Monarchy and the Italian States, in R. BONNEY

(ed.), Economic Systems cit., pp. 295-314. Si veda anche C. CAPRA, Il Settecento, in Storia d’Italia,

rinnovatrice della giovane sovrana, Maria Teresa, e l’azione illuminata ed ener-gica di Gian Luca Pallavicino, prima regio delegato, poi ministro plenipoten-ziario e infine governatore (1750-53) dei ducati di Milano e Mantova”145. Palla-vicino, oltre ad abolire la venalità degli uffici, creò un banco pubblico per lagestione e la liquidazione del debito di Stato, il Monte di S. Teresa, “che fin dal1769-70 fu in grado di subentrare ai due banchi a gestione patrizia (il Banco diS. Ambrogio e il Monte Civico), offrendo ai creditori la scelta tra il rimborsodei loro titoli e il consolidamento al 3,5% di interesse, e più avanti di impe-gnarsi in ingenti prestiti alla Camera aulica di Vienna”146.

Rispetto al fervore riformistico che pervade la Lombardia e in generale l’I-talia del Settecento in materia di finanze e in particolare di debito pubblico, l’a-nalisi di Capra fa risaltare il quadro di sostanziale stasi che caratterizza la vici-na repubblica di Venezia nello stesso periodo: è bensì vero che negli anni cen-trali del secolo si realizza il consolidamento e la riduzione del debito della Sere-nissima e nel 1767 ha luogo una decurtazione d’imperio dei capitali, ma questecostituiscono le sole iniziative di rilevo del governo veneto in campo finanzia-rio147, giacché, osserva Capra, il sistema finanziario veneziano “non tolleravariforme strutturali capaci di metterne a repentaglio la sopravvivenza”148. Il seve-ro giudizio di Capra non è stato sostanzialmente ribaltato dalle successive ana-lisi della finanza pubblica della Serenissima nella fase estrema della repubblica,compiute da Luciano Pezzolo149, Andrea Zannini150 e Giancarlo Mazzucato, da

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diretta da G. Galasso, vol. XI, Il Ducato di Milano cit., pp. 153-617. Sul rapporto tra gli interventisul debito pubblico realizzati in Lombardia e il riformismo asburgico si veda P.G.M. DICKSON,Finance and Government under Maria Theresia, 1740-80, Oxford, Oxford University Press, 1987.

145 C. CAPRA, Le finanze cit., p. 155.146 Ivi, p. 161; più in generale sulla Lombardia teresiana si veda A. DE MADDALENA, E.

ROTELLI, G. BARBARISI (a cura di), Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di MariaTeresa, Bologna, Il Mulino, 1982, vol. I, Economia e società, nel quale, in riferimento al Mantova-no, anche M.A. ROMANI, Le finanze del Ducato di Mantova dalla caduta di Ferdinando Carloall’avvento di Maria Teresa, pp. 285-318.

147 C. CAPRA, Le finanze cit., p. 153.148 Ivi, p. 169. Per un parallelo tra Stato di Milano e Repubblica di Venezia si veda L. PEZ-

ZOLO, Istituzioni e sistemi finanziari in Italia tra Cinque e Seicento: un confronto tra Repubblica diVenezia e Stato di Milano, in “Acta Histriae”, a. VII (1999), pp. 471-478.

149 L. PEZZOLO, Economia e fiscalità nella Terraferma del Settecento, in F. AGOSTINI (a curadi), Veneto, Istria e Dalmazia tra Sette e Ottocento. Aspetti economici, sociali ed ecclesiastici, Vene-zia, Marsilio, 1999, pp. 29-42.

150 A. ZANNINI, La finanza pubblica: bilanci, fisco, moneta e debito pubblico, in Storia di Vene-zia, vol. VIII, L’ultima fase della Serenissima, a cura di P. Del Negro e P. Preto, Roma, Istitutoper l’Enciclopedia Italiana, 1998, pp. 413- 477; si veda anche G. SCARABELLO, Il Settecento, in Sto-ria d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XII, La Repubblica di Venezia nell’età moderna, t. II, Dal1517 alla fine della Repubblica, a cura di G. Cozzi, M. Knapton, G. Scarabello, Torino, UTET,

quest’ultimo soprattutto per quanto concerne la dipendenza del debito pubbli-co veneziano dal ciclo della spesa militare151. Tuttavia Zannini sottolinea che iprovvedimenti per l’affrancazione dal debito non furono sporadici, ma si susse-guirono durante tutto il Settecento, mentre dalla ricostruzione dei bilanci dellarepubblica, emerge che nell’ultimo ventennio del secolo l’incidenza del serviziodel debito sul totale delle entrate si riduce al 20%152; gli ultimi anni dellarepubblica videro poi provvedimenti contraddittori: d’un canto si iniziarono astudiare nuovi strumenti finanziari, ad esempio prevedendo la possibilità diaffrancare il debito pubblico mediante l’emissione di banconote a corso legale,che avrebbero dovuto fruttare un interesse del 2%, ma d’altra parte, osservaZannini, proprio alcune forme di affrancazione del debito, colpendo particolar-mente gli interessi dei detentori di più vecchia data, accelerarono la fase dideclino economico del patriziato veneziano153.

Ben diversa appare la situazione di Venezia nei due secoli precedenti enumerosi studi apparsi in questi ultimi anni hanno notevolmente migliorato lenostre conoscenze sul debito pubblico della Serenissima nella prima età moder-na. Un primo importante contributo si deve a Giuseppe Del Torre che analizzala situazione finanziaria veneziana all’indomani della lega di Cambrai (1508-11)e nel ventennio successivo154. Negli anni del conflitto la repubblica aveva fre-quentemente imposto prestiti forzosi e dopo la pace di Agnadello (1509), men-tre non veniva del tutto abbandonato questo sistema, praticato con o senza ilpagamento di un interesse ai prestatori155, si faceva nuovamente ricorso al debi-to pubblico con l’istituzione del Monte Nuovissimo per un importo di 400.000ducati, che si andavano ad affiancare ai 3 milioni di ducati del Monte Nuovo,agli 8 milioni di ducati del Monte Vecchio nonché ad una entità imprecisata didebito fluttuante156. Ma le risorse destinate al pagamento degli interessi, nelledifficili congiunture vissute dalla repubblica, venivano regolarmente utilizzateper coprire le spese correnti, sicché gli interessi arretrati si accumulavano sem-pre di più (il Monte Vecchio, ad esempio, era in ritardo di 40 anni con i paga-menti) e nel 1519 la classe dirigente veneziana si convinse che “fosse ormaiindispensabile sospendere il pagamento degli interessi e cominciare la restitu-

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1992, pp. 551-681, in particolare alle pp. 596-602 per il debito pubblico, e J.C. HOCQUET, Veni-ce, in R. BONNEY (ed.), The Rise of the Fiscal State cit., pp. 381-415.

151 G. MAZZUCATO, La politica finanziaria nella repubblica di Venezia del Settecento, in “Rivi-sta di Storia Economica”, n.s., a. XIII (1997), f. 2, pp. 173-196.

152 A. ZANNINI, La finanza pubblica cit., pp. 437-443, 462-466, 470.153 Ivi, pp. 471-73.154 G. DEL TORRE, Venezia e la terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministra-

zione (1515-1530), Milano, Angeli, 1986.155 Ivi, pp. 68-76.156 Ivi, p. 154.

zione dei capitali sborsati dai creditori, adottando provvedimenti straordinariper reperire i fondi necessari”157. In seguito fu deciso di destinare alla liquida-zione del Monte Nuovo i proventi della vendita all’incanto dei beni demanialidel Polesine; se i compratori fossero stati tra i creditori del Monte Nuovo, essiavrebbero scalato l’importo dei beni acquistati dal totale dei crediti vantati,nella misura di due terzi dal capitale e un terzo dagli interessi158. Gli incantifurono dominati dai cittadini veneziani e di fatto questo provvedimento, al di làdella soluzione dei problemi del debito pubblico, consentì ai patrizi interessatidi ampliare le proprie proprietà fondiaria acquisendo ad un prezzo sì elevato,ma certamente inferiore a quello di mercato, un patrimonio che rendeva moltobene alla repubblica e che veniva alienato solo per la gravità della situazionefinanziaria159.

Nel corso del Cinquecento, la gestione del debito pubblico veneziano mutaprofondamente rispetto alla situazione descritta da Del Torre e i numerosiapprofondimenti dedicati recentemente da Luciano Pezzolo a questo tema,all’interno di una più generale ricostruzione della finanza e della società venetatra XVI e XVII secolo, hanno individuato con chiarezza i caratteri e i passaggifondamentali di questo processo di innovazione160. A Venezia “il problema delfinanziamento statale fu affrontato introducendo delle innovazioni che facilita-rono la raccolta di denaro tra risparmiatori e collegarono strettamente la mac-china statale al capitale finanziario” mentre, dalla parte dei privati, “gli investi-menti in rendite pubbliche rispo[sero] a considerazioni di carattere prevalente-mente economico”161. Sono appunto questi elementi che portano Pezzolo a col-locare Venezia – ma anche, come si è già ricordato, la maggior parte degli Statiitaliani nella prima età moderna – nell’ambito della finacial revolution.

L’innovazione è costituita, nel secondo quarto del secolo, dall’emissione daparte dello Stato dei depositi in Zecca, titoli a medio e lungo termine, vendutisenza il ricorso ad intermediari e sottoscritti liberamente dagli investitori, esen-ti da tasse, commerciabili sul mercato, il pagamento dei cui interessi era garan-tito dal gettito fiscale162. Grazie al florido andamento delle sue finanze, Venezia

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157 Ivi, p. 155.158 Ibidem.159 Ivi, pp. 156-157.160 L. PEZZOLO, L’oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo

’500, Venezia, Il Cardo, 1990, in particolare alle pp. 174-209; ID., Sistema di potere cit.; ID., Lafinanza pubblica, in Storia di Venezia cit., vol. VI, Dal Rinascimento al Barocco, a cura di G. Cozzie P. Prodi, Roma, Istituto per l’Enciclopedia Italiana, 1994, pp. 713-773; L. PEZZOLO, Elogio dellarendita cit.

161 Ivi, p. 284.162 Ivi, pp. 285-286.

esperimenta anche un’effettiva estinzione del debito pubblico, un traguardoche rimase assolutamente irraggiungibile per la maggior parte degli Stati italia-ni d’età moderna: “nel 1577 il governo veneziano attuò un’operazione di liqui-dazione del debito pubblico che di fatto azzerò l’onere degli interessi passivi inbilancio. Tra il 1577 e il 1584 vennero restituiti oltre 5 milioni di ducati – circail doppio delle entrate di un anno – costituiti dai depositi in Zecca e verso lafine del secolo si procedette all’affrancamento dei debiti consolidati nei rima-nenti Monti”163.

Nel 1615 il debito pubblico veneziano poteva dirsi estinto, anche se, subi-to dopo, il coinvolgimento della repubblica in altri impegni militari comportòl’attivarsi di un nuovo flusso di credito verso le casse dello Stato, provenienteda ogni strato sociale, e geograficamente tanto da Venezia e dal Dominio, chedall’estero, soprattutto da Genova; alla metà del secolo gli interessi sul debitopubblico salivano nuovamente a poco meno di mezzo milione e toccavano lavetta di oltre due milioni all’indomani della guerra di Candia164. Ma anche nellefasi di maggiore espansione, la ricostruzione dei bilanci della repubblica pro-posta da Pezzolo dimostra che il servizio del debito pubblico veneziano noncompromise mai la stabilità complessiva dell’impianto finanziario della repub-blica e si mantenne sempre lontano dalle situazioni patologiche conosciute daaltri Stati della penisola165. Più difficili invece le condizioni delle comunità dellaTerraferma, analizzate da Pezzolo partendo dalla posizione del tutto particola-re di Bergamo166: strette tra l’esosità dei trasferimenti richiesti dalla Dominantee l’impossibilità di espandere la base del prelievo a causa del controllo sullefinanze municipali esercitato dalle oligarchie locali, le comunità conoscono nelcorso del Seicento una forte crescita dell’indebitamento167.

Le difficoltà finanziarie delle comunità della Terraferma preoccupavanonon poco la Serenissima, che, al contrario, si faceva vanto della puntualità deipagamenti degli interessi e della solidità nella gestione della finanza pubblica;quest’ultimo tratto, unitamente e in stretta identità con la stabilità del governo,consentì di non ricorrere a bancarotte o drastiche riconversioni del debito finoal XVII secolo, evitando di minare la fiducia dei sottoscrittori e decretando ilsuccesso del debito pubblico a Venezia, come a Genova o ad Amsterdam168.

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163 Ivi, p. 288.164 Ivi, pp. 289-290.165 Si vedano i dati pubblicati in appendice a ID., Sistema di potere cit., pp. 319-327.166 ID., Fiscalità e congiuntura in città e nel territorio (1630-1715), in Storia economica e socia-

le di Bergamo, vol. III, Il tempo della Serenissima, a cura di A. De Maddalena, M. Cattini, M. A.Romani, Bergamo, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo, 2000, pp. 217-234.

167 Ivi, pp. 230-232.168 L. PEZZOLO, Sistema di potere cit., p. 311; ID., Elogio della rendita cit., p. 315.

Sulla credibilità dello Stato come debitore, conseguenza della stabilità nellagestione della finanze e nel governo, si fonda anche il parallelo tra Roma eVenezia, accomunate altresì, sottolinea Pezzolo, dalle similitudini tra i depositiin Zecca emessi dalla repubblica e i luoghi di Monte che caratterizzano la finan-za pontificia, due delle innovazioni di maggior successo nella finanza italiananell’età moderna169.

5. Numerosi sono stati gli studi dedicati al debito pubblico pontificio in etàmoderna negli ultimi vent’anni e una rassegna del 1986 di Andrea Gardi con-sente di ripercorrere analiticamente lo stato delle ricerche su questo tema alprincipio del periodo del quale ci stiamo occupando; in particolare, Gardi, cheintende evidenziare il contributo portato dalla politica fiscale pontificia alla tra-sformazione del dominio del papa in uno Stato moderno, segnala, dal principiodegli anni ‘80, gli studi di Peter Partner170, Wolfgang Reinhard171 ed EnricoStumpo172.

Partner ricostruisce l’andamento del debito pubblico e del gettito fiscalenello Stato pontificio tra XV e XVII secolo rilevando come entrambi presentinonel periodo considerato un forte incremento; in particolare le entrate fiscaliaumentano assai più di prezzi e salari (grazie anche ad una politica deflazionisti-ca che deprimeva l’economia dello Stato a solo vantaggio di Roma), ma, nono-stante ciò, il gettito fiscale fu sufficiente solo per sostenere le spese ordinariementre le spese straordinarie vennero finanziate mediante la crescita del debitopubblico173. Il patriziato romano, le famiglie dalle cui fila provengono in mag-gioranza i membri della Curia, i banchieri genovesi e fiorentini, più o meno assi-milati all’aristocrazia locale, traggono il massimo beneficio dal debito pubblico,investendo anche nell’acquisto di “uffici di governo e di terre nel Lazio: l’ammi-nistrazione, in mano a tali ufficiali venali, secondo Partener, si ‘de-modernizza’,passando da burocratica, quale era in età avignonese, a ‘patrimoniale’”174.

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169 ID., Government Debts and Trust. French Kings and Roman Popes as Borrowers, 1520-1660), in “Rivista di Storia Economica”, n.s., a. XV (1999), n. 3, pp. 235-261, in particolare pp.256-257.

170 P. PARTNER, Papal financial policy in the Renaissance and Counter-Reformation, in “Pastand present”, 1980, pp. 17-62. Si veda anche, più recentemente, ID., The Papacy and the PapalStates, in R. BONNEY (ed.), The Rise of the Fiscal State cit., pp. 359-380.

171 W. REINHARD, Finanza pontificia e Stato della Chiesa nel XVI e XVII secolo, in A. DE

MADDALENA, H. KELLENBENZ (a cura di), Finanze e ragion di Stato cit., pp. 353-387.172 E. STUMPO, Il capitale finanziario a Roma fra Cinque e Seicento. Contributo alla storia

della fiscalità pontificia in età moderna (1570-1660), Milano, Giuffré, 1985.173 P. PARTNER, Papal financial policy cit., pp. 48-58.174 A. GARDI, La fiscalità pontificia cit., p. 517, che fa riferimento alle pp. 59-62 dell’art. cit.

di Partner.

112

175 W. REINHARD, Finanza pontificia cit., p. 353.176 Ivi, p. 372.177 Ivi, p.p. 372-373.178 Ivi, pp. 377-379.179 Ivi, pp. 384-387; A. GARDI, La fiscalità pontificia cit., p. 518.180 E. STUMPO, Il capitale finanziario a Roma cit., in particolare il cap. V, Il debito pubblico

pontificio, pp. 219-305.

Lo studio di Reinhard si colloca in una posizione speculare rispetto quelladi Partner, giacché, secondo questo Autore, lo Stato pontificio avrebbe “gioca-to un ruolo non irrilevante [nel] processo di formazione dello Stato modernoche abbraccia tutta l’Europa”175. L’innegabile stabilità del potere di Roma ècerto un elemento di vantaggio nel processo di formazione dello Stato e costi-tuisce d’altro canto il fondamento della solidità e del successo del debito pub-blico pontificio176. Questo si basa essenzialmente su due strumenti, innanzitut-to gli uffici vendibili, a partire dal XIV secolo, ai quali si affianca dal 1526, l’in-novazione finanziaria costituita da prestiti, caratterizzati da forme di organizza-zione dei creditori e garantiti dal gettito di entrate dello Stato, i cosiddettiMonti, vacabili e non vacabili (destinati cioè ad estinguersi alla morte del tito-lare della quota o a passare ai suoi eredi), ceduti in blocco a banchieri, che necurano la collocazione presso il pubblico, in quote, o luoghi, da 100 o 50 duca-ti177. L’acquisto di luoghi di Monte fu tradizionalmente ritenuto un investimen-to sicuro: per il successo goduto presso il pubblico, fecero ricorso alla loro ere-zione non solo la Camera apostolica, ma anche, con l’autorizzazione del papa,la città di Roma e diverse istituzioni ecclesiastiche, come l’Ospedale di S. Spiri-to o la Fabbrica di S. Pietro; questi prestiti erano annoverati tra quelli pontifi-ci, ciò che non accadeva necessariamente per i Monti emessi dalle altre comu-nità o enti religiosi dello Stato178. Nonostante gli elementi di modernità presen-ti in questo sistema, Reinhard è molto cauto nello stabilire una correlazione traevoluzione finanziaria e trasformazione politico-sociale dello Stato della Chiesa,anche se evidenzia l’avvicendarsi, come classe egemone, tra l’antica nobiltà e unnuovo ceto patrizio formato dalle famiglie dei papi e dei finanzieri, che propriodal mercato del debito pubblico traevano i maggiori vantaggi179.

Di più ampio respiro lo studio del 1985 di Enrico Stumpo sul capitalefinanziario a Roma tra Cinque e Seicento: all’interno di un’articolata analisidella finanza temporale e spirituale dello Stato della Chiesa nel periodo 1570-1660, il tema del debito pubblico camerale viene sviluppato non solo attraver-so la puntuale ricostruzione degli aspetti tecnici del sistema degli uffici vacabilie dei Monti, ma anche approfondendo sia le differenze esistenti tra valori diemissione e valori di mercato del debito pubblico, così come tra rendite nomi-nali e rendite reali dello stesso, sia le forme della raccolta e dell’impiego deicapitali, sia il circuito di pagamento degli interessi180. Delle molte e interessanti

conclusioni alle quali giunge lo studio di Stumpo, se ne possono ricordare inparticolare tre che hanno portato a ripensare l’interpretazione di alcuni deicaratteri tradizionalmente legati al debito pubblico pontificio. Innanzitutto,riguardo all’utilizzo dei capitali raccolti, Stumpo sottolinea che l’impiego prio-ritario fu comunque quello difensivo e militare, anche se seguito immediata-mente dai costi affrontati per le famiglie dei papi – cioè per sostenere in variomodo la pratica del nepotismo – e solo a notevole distanza dalle spese per gliinterventi urbanistici a Roma, per l’ammortamento del debito delle comunità,etc.181. Una seconda conclusione di rilevante portata riguarda la fuoriuscita dicapitali dallo Stato per il pagamento degli interessi sul debito pubblico, soprat-tutto a titolari genovesi e fiorentini: in questo caso Stumpo stima che nell’ulti-mo trentennio del Cinquecento i creditori forestieri non superassero il 50%,con un progressivo aumento dei creditori nazionali per tutta la prima metà delSeicento182.

Ma soprattutto Stumpo conclude: “il grande sconfitto della politica finan-ziaria voluta dalla S. Sede fu proprio lo Stato. Nell’ambito della finanza tempo-rale, infatti, la Camera Apostolica seguì una linea di condotta per molti versiassai simile a quella degli altri Stati italiani o europei; anzi, per quanto riguardail largo ed efficiente ricorso al debito pubblico fu all’avanguardia”183. Risultaprofondamente diversa invece la gestione della finanza spirituale: in questoambito venne sviluppata la venalità degli uffici, che si articolava a Roma in duecategorie ben diverse fra loro: “la prima interessò gli alti uffici curiali e dellaChiesa, o anche dello Stato ma prelatizi, ovvero riservati ad ecclesiastici; laseconda [riguardò] gli uffici curiali minori e i collegi cosiddetti cavallereschi ediventò quasi subito una forma di mercato di titoli di credito in tutto simili ailuoghi di Monte. In quest’ultimo caso, quindi, l’acquisto di un ufficio per il pri-vato significò semplicemente una pura e semplice operazione finanziaria, noncomportando né l’esercizio di una carica o di una funzione né l’acquisto diquegli elementi giuridici atti a dar loro carattere di pubblici ufficiali [...] Cosìmentre in Francia, in Spagna o in Piemonte per determinati gruppi sociali lavenalità degli uffici costituì il mezzo che consentì un’indubbia mobilità sociale,favorendone l’ingresso e la successiva diffusione in diversi settori della pubbli-ca amministrazione, il particolare sviluppo che se ne ebbe a Roma non consentì,anzi ostacolò tutto questo” e “non significò affatto una vera e propria venalitàdegli uffici o nascita o sviluppo di una moderna burocrazia”184.

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181 Ivi, pp. 293-298.182 Ivi, pp. 302-303.183 Ivi, p. 313.184 Ivi, pp. 313-314. Su questa conclusione di Stumpo è particolarmente critico il giudizio

di GARDI (La fiscalità pontificia cit., pp. 518-520) mentre in linea con essa appaiono le considera-

A partire dalla seconda metà degli anni ‘80, sul tema del debito pubblicopontificio, soprattutto in riferimento alle forme di emissione e al mercato deiluoghi di Monte, si registrano i numerosi e densi contributi di Fausto PiolaCaselli185. Riguardo al debito pubblico come attività finanziaria di operatori pri-vati, gli studi di Piola Caselli hanno dimostrato che, a partire dalla secondametà del XVI secolo, “a Roma, accanto ad alcuni grandi operatori economicipresenti sul mercato [...] esisteva una schiera [...] di piccoli risparmiatori, che siaffidavano con fiducia all’investimento nei luoghi camerali, in piena autonomiae con un certo gusto del rischio [...] Il mercato dei titoli era ben conosciuto enon era per nulla riservato ad una ristretta cerchia di privilegiati o a pochi gran-di Enti religiosi. I prezzi dei titoli erano di dominio pubblico e venivano fissati[...] almeno con cadenza mensile”186. Anche attraverso intermediari esperti, ilpubblico valutava attentamente i rendimenti dei titoli in considerazione deitassi corrisposti, della durata del prestito e dei prezzi correnti sul mercato, cosìda conseguire la migliore remunerazione possibile dal capitale investito.

Piola Caselli concorda con Stumpo nel sottolineare che in età moderna ilricorso al debito pubblico è stato sempre condotto dalla Camera Apostolica congrande accortezza. “Lo Stato pontificio non ha mai dichiarato bancarotta e ha

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zioni espresse in R. MASINI, Introduzione, in G.V. PARIGINO (a cura di), Il bilancio pontificio del1657, Napoli, ESI, 1999, pp. 25-26.

185 F. PIOLA CASELLI, L’espansione delle fonti finanziarie della Chiesa nel XIV secolo, in “Archi-vio della Società Romana di Storia Patria, a. CX (1987), pp. 63-97; ID., La diffusione dei Luoghidi Monte della Camera Apostolica alla fine del XVI secolo. Capitali investiti e rendimenti, inSocietà Italiana degli Storici dell’Economia, Credito e sviluppo economico in Italia dal Medioevoall’età contemporanea, Verona, Fiorini, 1988, pp. 191-216; ID., La disciplina amministrativa ed iltrattamento fiscale dei Luoghi di Monte della Camera Apostolica tra il XVI ed il XVII secolo, in M.J. PELÀEZ (ed.), Historia economica y de las institutiones financieras en Europa. Trabajos en home-naje a Ferran Valls i Taberner, vol. XII, Barcelona 1989, pp. 3525-3549; F. PIOLA CASELLI, Banqueet finance en Italie au XIVe et XVe siècle, in “Marchés et tecniques financières”, a. 1990, nn. 20-21, pp. 27-30; ID., Gerarchie curiali e compravendita degli uffici a Roma tra il XVI ed il XVII seco-lo, in “Archivio della Società Romana di Storia Patria” a. CXIV (1991), pp. 117-125; ID., Crisieconomica e finanza pubblica nello Stato pontificio tra XVI e XVII secolo, in A. DI VITTORIO (a curadi), La finanza pubblica cit., pp. 141-179; F. PIOLA CASELLI, Innovazione e finanza pubblica. Lo Statopontificio nel Seicento, in Società Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione e sviluppo. Tec-nologia e organizzazione fra teoria economica e ricerca storica (secoli XVI-XX), Bologna, Monduz-zi, 1996, pp. 449-464; ID., Il Buon Governo cit.; ID., Tax Systems and Fiscal Burden in the PapalState (16th-18th centuries), relazione presentata nella sessione The Formation and Efficency ofFiscal States in Europe and Asia, 1500-1914 del XIII Congresso Internazionale di Storia Econo-mica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002. Tra le ricerche dello stesso Autore precedenti il periodoqui in esame si veda F. PIOLA CASELLI, Aspetti del debito pubblico nello Stato Pontificio: gli ufficivacabili, in “Annali della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Perugia”, n.s.,aa. 1970-72, n. 11, vol. I, pp. 101-174.

186 ID., La diffusione dei Luoghi di Monte cit., p. 215.

sempre rispettato gli impegni presi con i sottoscrittori, limitandosi a [...] limareprogressivamente i tassi d’interesse a seconda dell’andamento del mercato e giun-gendo infine a consolidare il debito pubblico senza provocare forti contraccolpisui risparmiatori”; inoltre, nelle fasi di forte incremento dei prezzi, “la CameraApostolica manovrava [...] il debito pubblico in funzione deflattiva, riuscendo tral’altro a mantenere stabile per un lungo periodo la moneta romana. D’altra partei capitali drenati dal debito pubblico tra gli investitori privati non rimanevanototalmente sterilizzati, ma venivano reinseriti in buona misura nel circolo econo-mico, anche se questo accadeva nell’ambito delle opere pubbliche e dell’efficien-za della struttura statale più che nei settori direttamente produttivi”187.

Inteso come attività finanziaria o come strumento di finanziamento delloStato, l’immagine del debito pubblico pontificio che restituiscono gli studi diPiola Caselli sembra più decisamente marcata dai caratteri della modernità diquanto invece non emerga dall’analisi di Stumpo, sebbene le conclusioni pessi-mistiche di quest’ultimo sul ruolo della politica finanziaria papale facesserosoprattutto riferimento al mercato degli uffici vacabili e alla sua scarsa rilevan-za ai fini della mobilità sociale a Roma. Oltre agli studi sull’emissione e diffu-sione dei luoghi di Monte camerali, si devono altresì ricordare gli approfondi-menti di Piola Caselli sui legami esistenti tra debito pubblico e sistema fiscalepontificio188, su quella particolare forma di credito all’aristocrazia romana chefurono in età moderna i Monti baronali189 nonché sui banchieri privati chefurono gli interlocutori privilegiati della Camera Apostolica nella sottoscrizionedei nuovi titoli emessi190. Per quanto riguarda invece il ruolo dei banchi pub-blici nel mercato della rendita pontificia in età moderna, segnalo i recenti con-tributi sull’attività del Monte di Pietà di Roma e del Banco di Santo Spirito diCarlo Maria Travaglini191 e Luigi De Matteo192.

Sugli acquirenti dei luoghi di Monte romani, sui quali molti dati sono statiportati dagli studi già ricordati di Stumpo e Piola Caselli, si possono segnalare

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187 Ivi, pp. 215-216.188 ID., Debito pubblico pontificio e imposte sui consumi romani nel Seicento, in D. STRANGIO

(a cura di), Studi in onore di Ciro Manca, Padova, CEDAM, 2000, pp. 379-395.189 F. PIOLA CASELLI, Una montagna di debiti. I monti baronali dell’aristocrazia romana nel

Seicento, in “Roma moderna e contemporanea” a. I (1993), n. 1, pp. 21-56.190 ID., Banchi privati e debito pubblico pontificio a Roma tra Cinquecento e Seicento, in Ban-

chi pubblici cit., vol. I, pp. 461-495.191 C.M. TRAVAGLINI, Il ruolo del Banco di Santo Spirito e del Monte di Pietà nel mercato

finanziario romano del Settecento, in Banchi pubblici cit., vol. II, pp. 619-639; ID., Le origini delBanco dei depositi del Monte di Pietà di Roma e le prime emissioni di cedole (secc. XVI-XVII), inSocietà Italiana degli Storici dell’Economia, Innovazione e sviluppo cit., pp. 465-485.

192 L. DE MATTEO, Un banco pubblico nello Stato Pontificio. Il Banco di Santo Spirito dalle ori-gini al 1814, in “Storia Economica”, a. II (1999), n. 3, pp. 465-516.

alcuni approfondimenti specificamente dedicati agli enti religiosi, particolar-mente attivi sul mercato del debito pubblico pontificio: tra gli altri se ne sonooccupati recentemente Armando Serra e Maximiliano Barrio Gonzalo193. Ri-guardo della presenza di titoli del debito pubblico nei patrimoni ecclesiastici –una forma d’investimento largamente praticata, com’è noto, dagli enti religiosinon solo romani per tutta l’età moderna – si può qui ricordare il quadro d’in-sieme tracciato da Enrico Stumpo nel 1986 a proposito del consolidamentodella grande proprietà ecclesiastica nell’età della controriforma194; più recente-mente, i volumi curati da Fiorenzo Landi offrono una panoramica sulle formedi attività finanziaria praticate dagli ordini religiosi nei diversi Stati regionali ita-liani tra Cinque e Settecento195. Le ricerche di Massimo Carlo Giannini hannoinvece gettato nuova luce sul rapporto tra il finanziamento del debito pubblicopontificio e le forme della tassazione alle quali era sottoposto il clero nell’areaitaliana, in particolare sul legame, instaurato a partire dal 1555, tra il prelievoimposto alle cosiddette Dodici Congregazioni monastiche maschili e il paga-mento degli interessi dei Monti camerali196.

Un altro aspetto del debito pubblico pontificio in età moderna che ha tro-vato negli anni più recenti estesa trattazione, è quello legato ai Monti comuni-tativi, cioè ai prestiti emessi dalle città dello Stato della Chiesa, previa autoriz-zazione papale. Per le modalità che li regolavano, è necessario distinguere tra iMonti eretti da Roma, Bologna e Ferrara, le prime tre comunità dello Stato perampiezza del debito, e quelli invece eretti dalle piccole comunità. Utili ele-menti di conoscenza sul debito pubblico di quest’ultimo gruppo, si trovanonel più ampio studio dedicato da Angela Maria Girelli alle finanze comunali diAssisi nel Seicento197. Per quanto riguarda invece Roma e Bologna, Francesco

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193 Si veda tra l’altro A. SERRA, Funzioni e finanze delle Confraternite romane tra 1624 e 1797,in “Ricerche per la storia religiosa di Roma”, a. V (1984), pp. 261-292; M. BARRIO GONZALO, TheFinancing of the Church and Hospital of Santiago de los Españoles in Rome in Early Modern Times,in “The Journal of European Economic History”, a. XXVII (1998), pp. 579-605. Riferimentiall’attività finanziaria delle istituzioni caritative a Roma nel Settecento in M. PICCIALUTI, La caritàcome metodo di governo. Istituzioni caritative a Roma dal pontificato di Innocenzo XII a quello diBenedetto XIV, Torino, Giappichelli, 1994.

194 E. STUMPO, Il consolidamento della grande proprietà ecclesiastica nell’età della contro-riforma, in G. CHITTOLINI, G. MICCOLI (a cura di), La Chiesa e il potere politico dal Medioevo all’etàcontemporanea, in Storia d’Italia, Annali, vol IX, Torino, Einaudi, 1986, pp. 262-289.

195 F. LANDI (ed.), Accumulation and Dissolution of Large Estates of the Regular Clergy inModern Europe, Rimini, Guaraldi, 1999; ID. (ed.), Confiscation of the Estates of the Regular Clergyand Capitalistic Accumulation in Early Modern Europe, Atti della sessione n. 67 del XIII Con-gresso Internazionale di Storia Economica, Buenos Aires, 22-26 luglio 2002, in corso di stampa.

196 M.C. GIANNINI, L’oro e la tiara. La costruzione dello spazio fiscale italiano della SantaSede (1560-1620), Bologna, Il Mulino, in corso di stampa.

197 A.M. GIRELLI, La finanza comunale nello Stato Pontificio del Seicento. Il caso di Assisi,

Colzi198 e Mauro Carboni199, rispettivamente, sono gli Autori di due tra le piùcomplete monografie su temi del debito pubblico edite recentemente200.

Con il suo studio su Il debito pubblico del Campidoglio del 1999 Colzi ana-lizza la storia dei prestiti emessi dal Comune di Roma, i cosiddetti Monti delPopolo Romano, dalla prima erezione autorizzata da Giulio III nel 1552 finoalla definitiva estinzione decretata da Alessandro VII nel 1660, seguendo duefiloni principali: la funzione dei prestiti nell’ambito della finanza municipale e ilprofilo degli investitori e le loro scelte d’impiego dei capitali. “Il debito pubbli-co capitolino rivestì un ruolo primario nell’attività finanziaria municipale e inquella politica. La crescita del debito costrinse gli amministratori comunali adiniziative economiche sempre più limitate a causa degli interessi da corrispon-dere [...] che assorbirono quote crescenti degli introiti capitolini. Le motivazio-ni che spinsero il Comune ad implementare questo meccanismo di raccolta deldenaro devono essere ascritte, più che ad una scelta autonoma, alla volontà deipontefici di far compartecipare il Campidoglio al finanziamento delle ingentispese dell’autorità centrale [...] Circa la metà dei ricavati dei prestiti finanziòspese che non beneficiarono Roma, sebbene il Municipio dovesse sostenere perintero il peso degli interessi. In questo modo la Curia riuscì a ridurre di fattol’autonomia del Campidoglio senza entrare in diretto contrasto con l’antica oli-garchia cittadina, gelosa dei propri privilegi, e lasciando formalmente al Comu-ne il controllo e la gestione dei prestiti”201.

La diminuzione dei poteri del Campidoglio non si ripercosse però sull’effi-cienza della struttura amministrativa municipale, che anzi garantì sempre com-

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Padova, CEDAM, 1992; EAD., Lo stato finanziario della comunità nelle carte della Congregazionedel buon governo, in A. GROHMANN (a cura di), Assisi in età barocca, Assisi, Accademia Proper-ziana del Subasio, 1992, pp. 157-222.

198 F. COLZI, Il debito pubblico del Campidoglio. Finanza comunale e circolazione dei titoli aRoma fra Cinque e Seicento, Napoli, ESI, 1999; si vedano anche F. COLZI, ‘Per maggiore facilità dicommercio’. I sensali e la mediazione mercantile e finanziaria a Roma tra XVI e XIX secolo, inC.M. TRAVAGLINI (a cura di), Corporazioni e gruppi professionali a Roma tra XVI e XIX secolo, in“Roma moderna e contemporanea”, a. IV (1998), n. 3, pp. 397-425, F. COLZI, A proposito dellafiscalità pontificia in età moderna. La gabella della carne a Roma tra XVI e XVII secolo, in D.STRANGIO (a cura di), Studi in onore di Ciro Manca cit., pp. 123-145; F. COLZI, La dette publiquedu Capitole. Finances communales et circulations des titres à Rome aux XVIe-XVIIe siècles, in“Liame. Bulletin du Centre d’Histoire Moderne et Contemporaine de l’Europe Méditerranéenneet des ses Périphéries”, n. 8, juillet-décémbre 2001, pp. 117-135.

199 M. CARBONI, Il debito della città cit.; si veda inoltre dello stesso Autore M. CARBONI,Camere delle città e Camera apostolica: l’evoluzione dei rapporti finanziari fra centro e periferianello Stato della Chiesa in età moderna, in “Studi storici Luigi Simeoni”, 50, 2000, pp. 9-22.

200 Continuano a mancare, invece, contributi specifici sul debito comunale di Ferrara, sulquale si veda comunque G. FELLONI, Gli investimenti finanziari genovesi cit., pp. 194-200.

201 F. COLZI, Il debito pubblico cit., pp. 237-238.

petenza nelle funzioni di gestione del debito pubblico e di orientamento delmercato finanziario romano. “I Monti capitolini furono, però, tutt’altro cheneutri per il sistema economico-sociale romano e causarono delle ripercussionidal carattere ambiguo e di complessa interpretazione. [...] infatti risulta com-plicato isolare le specifiche responsabilità dei prestiti municipali dato che que-sti costituivano un sottoinsieme del complessivo debito pubblico pontificio”202.Inoltre i titoli capitolini presentavano tassi d’interesse più competitivi rispettoad altre forme d’investimento, ma l’effetto di sottrazione rispetto ad altri usi delrisparmio privato sembra essere stato piuttosto limitato, se si considera il bassolivello degli impieghi in attività produttive o commerciali che caratterizzava l’e-conomia cittadina anche prima dell’introduzione dei Monti. Più evidente appa-re, nell’analisi di Colzi, il meccanismo di redistribuzione delle risorse a favoredelle classi reddituali più agiate come conseguenza della politica prescelta dalCampidoglio per il finanziamento degli interessi203.

Per quanto riguarda invece l’individuazione dei soggetti coinvolti nell’ac-quisto dei titoli, Colzi evidenzia come nella fase di collocamento gli indiscussiprotagonisti furono i banchieri liguri o toscani, ma “la sicurezza, la redditività ela liquidità dei titoli facevano sì che, a prescindere dallo status, le personeimpiegassero con fiducia il loro denaro nei luoghi di Monte. Naturalmente lediverse categorie sociali e reddituali mostrarono differenti propensioni all’inve-stimento [...] Il coinvolgimento di una pluralità di persone appartenenti a diver-se categorie sociali comportò almeno due effetti di rilievo: da un lato permise didiversificare i creditori del Campidoglio affinché nessuno di essi si trovasse inuna posizione tale da condizionarne l’azione. Sull’altro versante l’esistenza diun interesse comune da parte di persone di diversa estrazione favorì il rafforza-mento delle strutture pubbliche che, a sua volta, alimentò la fiducia degli inve-stitori, innescando una sorta di circuito virtuoso tra sicurezza della piazza, laquotazione dei titoli, la rapida sottoscrizione di nuovi Monti e il consolidamen-to delle istituzioni preposte all’emissione dei prestiti”204. Nel tempo, comunque,la composizione dei montisti mutò, riducendosi il peso dei forestieri a favoredei laici non nobili e soprattutto delle istituzioni ecclesiastiche e assistenziali,ciò che “probabilmente non contribuì allo sviluppo economico cittadino, dalmomento che i patrimoni delle istituzioni raramente venivano utilizzati perincentivare il sistema produttivo romano”205.

In definitiva, lo studio di Colzi, esemplare nella sua linearità, evidenziatanto nell’amministrazione del debito capitolino, quanto negli atteggiamenti dei

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202 Ivi, p. 238.203 Ivi, pp. 238-239.204 Ivi, pp. 239-240.205 Ivi, p. 240.

montisti, la compresenza di atteggiamenti di innovazione e conservatorismo, dispinte verso la modernizzazione e di attaccamento al passato206. In questosenso, le vicende del debito pubblico del Campidoglio non solo sono uno spec-chio fedele delle contraddizioni che caratterizzano la vita economia e finanzia-ria di Roma nell’età moderna, ma allo stesso tempo e più in generale, stanno adimostrare che i Monti, se costituiscono uno strumento innovativo dal punto divista tecnico, possono essere però condizionati a svolgere una funzione conser-vatrice dal contesto sociale e politico nel quale operano. E’ questa anche lachiave di lettura data da Mauro Carboni al ruolo svolto dal debito comunalenella città di Bologna.

All’interno di una più ampia ricostruzione sulla struttura sociale, sul sistemaistituzionale e sulla fiscalità di Bologna tra Cinque e Seicento, Carboni evidenziacome il sistema dei Monti cittadini consentisse al Reggimento municipale sia dicompensare i frequenti deficit del bilancio cittadino, sia di soddisfare le pres-santi richieste provenienti da Roma senza alterare i delicati equilibri sociali e isti-tuzionali della Legazione, soprattutto senza erodere i margini di esenzione fisca-le di cui godevano i ceti dirigenti cittadini. Il ricorso al debito pubblico “fu anziuno degli ingredienti essenziali per il mantenimento di un equilibrio imperniatosu forme di autogoverno che vedevano prevalere la componente municipale suquella statuale e la componente aristocratica in seno alla compagine cittadina. Lamassiccia e sistematica partecipazione al sistema delle prestanze da parte dei cetiprivilegiati cittadini conferma poi con quanta attenzione l’élite bolognese difen-desse le finanze della Legazione non solo da eventuali intrusioni romane, maanche dal predominio di banche e consorzi forestieri”207.

Naturalmente i ceti patrizi bolognesi erano spinti verso l’acquisto di quotedel debito pubblico municipale perché si trattava di una fonte d’investimentosicura e remunerativa; inoltre, poiché le imposte che garantivano il pagamentodegli interessi gravavano prevalentemente sul commercio e sui beni di largoconsumo, il sistema dei Monti realizzava una decisa redistribuzione di risorseverso l’alto208. A riprova di questa lettura, tra i principali sottoscrittori dei luo-ghi di Monte Carboni evidenzia - oltre all’emergere dei grandi enti religiosi ecaritativi soprattutto nel corso del primo Seicento - la massiccia presenza diesponenti delle famiglie che dominano la gerarchia sociale di Bologna, le stessefamiglie che controllano il governo della città e gli organi di amministrazionedei Monti209. In particolare, uno studio di Massimo Fornasari sui Ghelli docu-

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206 Ivi, p. 237.207 M. CARBONI, Il debito della città cit., p. 201.208 Ivi, cap. III, Le finanze della Legazione bolognese, pp. 59-100.209 Ivi, cap. IV, I creditori montisti, pp. 101-154, e cap. V, I montisti bolognesi, pp. 155-199.

Allo stesso Autore si deve anche un interessante approfondimento sulle modalità di investimen-

menta il peso dell’investimento in debito pubblico nella complessiva strategiapatrimoniale di un’eminente famiglia bolognese tra Cinque e Seicento210.

6. L’autonomia di cui godeva Bologna, come le altre comunità dello Statodella Chiesa, in campo finanziario nel corso del Cinque e del Seicento si riducedurante il secolo successivo, all’interno del più generale processo di crescita delcontrollo del potere pontificio sulla periferia; nello stesso periodo, però, pro-prio i capitali raccolti dal debito pubblico camerale vengono indirizzati in misu-ra crescente per interventi a favore delle comunità. Questi sono alcuni dei trat-ti messi in evidenza dai recenti contributi di Donatella Strangio sull’evoluzionedel debito pubblico pontificio dal principio del XVIII secolo al periodo fran-cese, e in particolare sul sostegno finanziario che in età moderna questo stru-mento ha portato alla politica annonaria nello Stato della Chiesa211.

Il debito pubblico pontificio conosce una flessione nella prima metà delSettecento, ma nei decenni successivi, nonostante gli interventi riformistici rea-lizzati alla metà del secolo da Benedetto XIV, riprende a crescere212. Questatendenza si rafforza dopo l’elezione di Pio VI, nel 1775, che ricorse largamenteall’emissione dei luoghi di Monte camerali sia per sostenere i progetti di inter-vento dello Stato in economia, sia, da ultimo, per affrontare le spese militari,offensive e difensive, conseguenti la partecipazione dell’armata pontificia alla

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to in titoli dei capitali del Monte del Matrimonio di Bologna, istituzione caritativa avente la fina-lità di aiutare le famiglie ad accumulare le doti: ID., Le doti della ‘povertà’. Famiglia, risparmio,previdenza: il Monte del Matrimonio di Bologna (1583-1796), Bologna, Il Mulino, 1999, in parti-colare pp. 100-109.

210 M. FORNASARI, Famiglia e affari in età moderna. I Ghelli di Bologna, Bologna, Il Mulino,2002, in particolare pp. 85-90 e 145; un’ulteriore rappresentazione del mondo degli operatori finan-ziari attivi a Bologna nella prima età moderna è fornita da uno studio dedicato dallo stesso Autoreall’attività del Monte di Pietà cittadino: ID., Il ‘Thesoro’ della città. Il Monte di Pietà e l’economiabolognese nei secoli XV e XVI, Bologna, Il Mulino, 1993. Specificamente in riferimento all’età diSisto V si veda anche A. GARDI, Lo Stato in Provincia. L’amministrazione della Legazione di Bolognadurante il regno di Sisto V (1985-90), Bologna, Istituto per la Storia di Bologna, 1994.

211 D. STRANGIO, Debito pubblico e riorganizzazione del mercato finanziario nello Stato ecclesia-stico del ’700, in “Roma moderna e contemporanea”, a. II (1994), pp. 179-202; ID., L’amministra-zione del debito pubblico pontificio nel Settecento, in “Archivio della Società Romana di StoriaPatria”, a. CXXII (1999), pp. 277-314; ID., Crisi alimentari e politica annonaria a Roma nel Sette-cento, Roma, Istituto Nazionale di Studi romani, 1999; ID., Progetti francesi per il debito pubblicopontificio, in PH. BOUTRY, F. PITOCCO, C.M. TRAVAGLINI (a cura di), Roma negli anni di influenza edi dominio francese, Napoli, ESI, 2000, pp. 272-294; D. STRANGIO, Debito pubblico e deficit di bilan-cio nello Stato della Chiesa. Il Monte Nuovo della Difesa, in “Studi Romani”, a. XLVIII (2000), nn.1-2, pp. 83-103; ID., Il debito pubblico pontificio. Cambiamento e continuità nella finanza pontificiadal periodo francese alla restaurazione romana. 1798-1820, Padova, CEDAM, 2001.

212 ID., Debito pubblico e riorganizzazione del mercato finanziario cit.

prima coalizione contro la Francia rivoluzionaria213. L’ingente volume del debi-to pubblico accumulato dallo Stato fu dunque uno dei primi problemi affron-tati già dalla Repubblica Romana del 1798-99, che proclamò la sospensioneimmediata del pagamento degli interessi e avviò la vendita dei beni nazionali,cioè dei beni immobili espropriati ad enti religiosi e assistenziali, per contribui-re all’estinzione del debito214. Che questo andasse nella direzione degli inter-venti tentati dal governo pontificio già nel corso del Settecento sta a dimostrar-lo il mantenimento dei provvedimenti assunti dall’amministrazione repubblica-na anche dopo il ritorno del papa, durante gli anni della prima restaurazionepontificia (1800-1809); nel 1801, inoltre, Pio VII approvò la prescrizione degliinteressi arretrati e la riduzione del tasso d’interesse sui luoghi di Monte dal 3%all’1,25%215. Nell’intento di completare l’opera di risanamento delle finanzepubbliche, nel 1810, dopo l’arrivo dei francesi, fu decretata la liquidazione tota-le dei vecchi luoghi di Monte: quasi completamente annullati quelli già detenu-ti dai soppressi enti religiosi e assistenziali, ripagati nella misura del 24% delvalore nominale dei titoli quelli detenuti da privati, che oltretutto sarebberostati rimborsati nella misura in cui procedeva la vendita dei beni nazionali216.Da questa conversione forzosa della rendita pubblica, di fatto una liquidazione,furono particolarmente colpiti, sottolinea Donatella Strangio, proprio i ceti eco-nomicamente più vitali della società romana – commercianti, ricchi artigiani,esponenti della borghesia – che risultavano essere in maggioranza tra i posses-sori dei titoli217.

Anche nel caso del regno di Napoli era stata da ultimo la partecipazionealle guerra contro la Francia rivoluzionaria a imprimere la spinta finale all’acce-lerazione del debito pubblico, che aveva resistito a tutti i progetti di ricompradei cespiti alienati tentati dallo Stato nel corso del Settecento. La lucida analisidi Pasquale Villani, che in un saggio del 1986 riprende i risultati di precedentiricerche, evidenzia l’importanza che ebbe per i francesi, sin dal loro ingressonel regno nel 1806, il problema della liquidazione e riconversione del debitopubblico218. Uno dei primi provvedimenti di Giuseppe Bonaparte, ancor prima

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213 ID., Debito pubblico e deficit di bilancio cit.214 ID., Progetti francesi cit., pp. 278-286.215 Ivi, pp. 286-292.216 ID., Il debito pubblico pontificio cit., pp. 125-145.217 Ivi, pp. 178-179.218 P. VILLANI, Il decennio francese, in G. GALASSO, R. ROMEO, (a cura di), Storia del Mezzo-

giorno, vol. IV, Il regno dagli Angioini ai Borboni, t. II, Napoli, Edizioni del Sole, 1986, pp. 577-639 (ora in A.M. RAO, P. VILLANI, Napoli 1799-1815. Dalla repubblica alla monarchia ammini-strativa, Napoli, Edizioni del Sole, 1994); tra le precedenti ricerche dello stesso Autore si vedasoprattutto P. VILLANI, La vendita dei beni dello Stato nel Regno di Napoli, Milano, Banca Com-merciale Italiana, 1964.

di dichiarare abolita la feudalità, fu infatti quello di richiamare allo Stato lariscossione degli arrendamenti e di tutti gli altri cespiti fiscali alienati219. I tito-lari furono tutelati con la promessa dell’iscrizione del loro credito nel Granlibro del debito pubblico, con un interesse lordo del 5% successivamenteabbassato al 3%, o con un indennizzo in immobili, garantito attraverso la ces-sione dei beni nazionali220. La maggior parte degli antichi creditori dello Stato,per attutire il duro colpo, avrebbero preferito ricevere beni fondiari, ma nelleaste che segnarono la vendita dei beni nazionali furono protagonisti i titolari digrandi importi di debito – esponenti della nobiltà del regno, della grande bor-ghesia commerciale e terriera, del ceto dei funzionari di corte – e solo in segui-to si allargò la schiera degli acquirenti; in altre parole, osserva Villani, le strut-ture socio-economiche preesistenti il governo francese finirono per condiziona-re molto l’andamento delle alienazioni, all’interno delle quali il ceto imprendi-toriale e mercantile non occupò una posizione rilevante221.

Oltre allo studio di Villani, utili riferimenti al tema della vendita dei beninazionali e della liquidazione del debito pubblico napoletano, si possono trova-re, tra i contributi più recenti, nella ricerca sulla riforma della tassazione neldecennio francese di Renata De Lorenzo222 e nella raccolta di documenti cura-ta da Costanza D’Elia223. Sugli aspetti finanziari della breve stagione dellarepubblica Napoletana del 1799, con particolare riferimento alle vicende deibanchi, Eduardo Nappi ha curato la pubblicazione di una raccolta di docu-menti, prevalentemente provenienti dall’Archivio Storico del Banco di Napo-li224, mentre il trapasso nella gestione del debito comunale dall’età napoleonicaalla restaurazione è fotografato da Nicola Ostuni in riferimento alle finanzedella municipalità napoletana225.

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219 ID., Il decennio francese cit., p. 612.220 Ivi, p. 614. 221 Ivi, pp. 614-615.222 R. DE LORENZO, Proprietà fondiaria e fisco nel Mezzogiorno: la riforma della tassazione

nel decennio francese (1806-1815), Salerno, Centro Studi per il Cilento e il Vallo di Diano, 1984,in particolare le pp. 13-27.

223 C. D’ELIA (a cura di), Il Mezzogiorno agli inizi dell’Ottocento; Roma-Bari, Laterza, 1992.In merito agli studi recenti su questo periodo si vedano anche A.M. RAO, Temi e tendenze dellarecente storiografia sul Mezzogiorno nell’età rivoluzionaria e napoleonica, in A. CESTARO, A. LERRA

(a cura di), Il Mezzogiorno e la Basilicata fra l’età giacobina e il decennio francese, Venosa, Osan-na, 1992, in particolare le pp. 43-46; A.M. RAO, Mezzogiorno e rivoluzione: trent’anni di storio-grafia, in “Studi storici”, 37, 1996, in particolare le pp. 994-999.

224 E. NAPPI, Banchi e finanze della Repubblica Napoletana, Napoli, Istituto Italiano per gliStudi Filosofici, 1999.

225 N. OSTUNI, Napoli Comune, Napoli capitale. Le finanze della città e del regno delle DueSicilie, Napoli, Liguori, 1999.

Mentre a Roma e Napoli la liquidazione del debito pubblico nell’età fran-cese costituisce un’oggettiva frattura rispetto al secolo precedente, nel casotoscano è stata sottolineata, anche in studi recenti, una maggiore continuità conle scelte operate nel corso del Settecento226. Certo, Ferdinando III, negli anni’90, aveva operato di fatto per il ristabilimento del debito, contraddicendoprofondamente la linea adottata vent’anni prima da Pietro Leopoldo e dalGianni con l’introduzione della tassa di redenzione227. Anche i provvedimentiper il consolidamento dei crediti vantati verso lo Stato, assunti durante l’effi-mero regno di Etruria (1801-1807), sebbene preceduti da un dibattito di politi-ca economica di alto profilo, non erano stati accompagnati da nessun decisivopasso avanti nel processo di ammortizzazione, sicché, all’arrivo dei francesi,anche in Toscana il problema della mole enorme del debito pubblico e dei suoiinteressi si presentava immutato228. Romano Paolo Coppini ha recentementericostruito le fasi della liquidazione del debito pubblico toscano, condotta attra-verso il rimborso in contanti dei piccoli creditori e la vendita dei beni naziona-li per tutti gli altri titolari di quote229; pur sottolineando l’importante mutamen-to della configurazione sociale della proprietà fondiaria che si realizza per que-sta via, Coppini, tuttavia, sembra ridimensionare il giudizio di Dal Pane, che lodefinì “il fatto più rivoluzionario del periodo”230, per sottolineare invece l’ecce-zionale opportunità che negli anni della restaurazione avrebbe costituito per lefinanze del granducato la liberazione dal peso del debito pubblico231.

Nel caso del Piemonte degli anni napoleonici, prim’ancora che la liquida-

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226 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana. L’età napoleonica, in Storia d’Italia, diretta da G.Galasso, vol. XIII, t. III, Torino, UTET, 1993, in particolare p. 79 e segg.

227 Tra gli studi recenti che sono tornati sui provvedimenti di Pietro Leopoldo si veda in sin-tesi C. CAPRA, Le finanze degli Stati italiani cit., pp. 162-166; L. MASCILLI MIGLIORINI, L’età delle ri-forme, in F. DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a cura di), Il Granducato di Toscana. I Lore-na dalla Reggenza agli anni rivoluzionari, in Storia d’Italia, diretta da G. Galasso, vol. XIII, t. II,Torino, UTET, 1997, pp. 247-421, in particolare le pp. 322-329; per gli anni di Ferdinando III, C.MANGIO, Tra conservazione e rivoluzione, in F. DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a curadi), Il Granducato di Toscana cit., pp. 423-509, in particolare le pp. 439-440; infine sugli anni dellaReggenza, F. DIAZ, I Lorena in Toscana. La Reggenza, Torino, UTET, 1988; ID., La Reggenza, in F.DIAZ, M. MASCILLI MIGLIORINI, C. MANGIO (a cura di), Il Granducato di Toscana cit., pp. 1-245.

228 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana cit., pp. 19-32.229 Ivi, pp. 129-143.230 L. DAL PANE, Industria e commercio nel Granducato di Toscana nell’età del Risorgimento,

Bologna, Patròn, 1973, p. 21. Si veda anche F. MINECCIA, La vendita dei beni nazionali in Toscana(1808-1814): i Dipartimenti dell’Ombrone e del Mediterraneo, in I. TOGNARINI (a cura di), La Tosca-na nell’età rivoluzionaria e napoleonica, Napoli, ESI, 1985, pp. 511-550; F. BERTINI, Nobiltà efinanza tra Settecento e Ottocento. Debito e affari a Firenze nell’età napoleonica, Firenza, CentroEditoriale Toscano, 1989.

231 R.P. COPPINI, Il Granducato di Toscana cit., pp. 143-150.

zione del debito consolidato, ha sottolineato un recente studio di Paola Nota-rio, si impose un intervento drastico sul debito fluttuante, peraltro di pariimporto rispetto a quello consolidato, costituito da biglietti di credito il cuivalore reale era scaduto al punto di non essere accettati più come mezzi dipagamento, contribuendo ad alimentare una forte inflazione232. Dopo Marengo,i biglietti circolanti, messi fuori corso, potevano essere utilizzati in piccola parteper pagare imposte arretrate, o ridotti ad un terzo del valore nominale e pernon più di cinque mesi per acquistare beni nazionali; in realtà, le modalità concui fu realizzata questa operazione, esclusero completamente i piccoli possesso-ri di biglietti, che persero l’intero valore233. Per quanto riguarda il consolidato,in due successivi passaggi, nel 1806 e nel 1810, fu disposta per una metà la tra-scrizione delle rendite nel Grand Livre del debito pubblico francese, e per l’al-tra, capitalizzata al 5%, la conversione in certificati destinati al pagamento deibeni nazionali; anche in questo caso, ha osservato Paola Notario, solo i grandititolari o gli incettatori dei titoli del debito riuscirono a compiere le operazionipreviste, sicché, quando il cambio di regime interruppe le operazioni, soltantol’1,8% dei titolari delle rendite era riuscito ad acquistare beni nazionali234.

Diverso il giudizio di Carlo Zaghi quanto all’atteggiamento dei francesi neiconfronti dei diritti vantati dai creditori lombardi: a proposito delle manovresul debito pubblico del regno italico condotte dal ministro delle finanze Giu-seppe Prina, scrive Zaghi: “Napoleone, come Prina, considerò sempre sacrigl’interessi dei creditori pubblici e li rispettò anche nelle fasi di maggior diffi-coltà per il tesoro italiano e francese”235. Se questo giudizio sembra difficilmen-te applicabile a tutta la penisola, esso trova però la sua giustificazione proprio

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232 P. NOTARIO, Il Piemonte nell’età napoleonica, in P. NOTARIO, N. NADA (a cura di), IlPiemonte sabaudo. Dal periodo napoleonico al Risorgimento, in Storia d’Italia, diretta da G. Galas-so, vol. VIII, t. II, Torino, UTET, 1993, pp. 1-91, in particolare le pp. 42-48.

233 P. NOTARIO, Il Piemonte cit., pp. 42-44.234 Ivi, pp. 44-48. Sulla specifica situazione del debito comunale di Torino, cresciuto

anch’esso enormemente durante il periodo napoleonico, si veda G. BRACCO, Risorse e impegni peruna gestione guidata, in ID. (a cura di), Ville de Turin. 1798-1814, Torino, Archivio Storico dellacittà di Torino, 1989, vol. I, pp. 55-99, ora in ID., Taglie e gabelle. Studi e ricerche sulla finanzapubblica sabauda, Torino, Giappichelli, 1990, pp. 135-194, alle pp. 165-167 per il riferimento aldebito pubblico comunale. Dello stesso Autore alcuni contributi sulle finanze della capitale e dialtri centri minori del ducato nella prima età moderna: ID., Guerra del sale o guerra delle taglie?La pressione fiscale nel Monregalese fra XVI e XVIII secolo, in Studi in memoria di Mario Abrate,Torino, Istituto di Storia economica dell’Università di Torino, 1986, pp. 867-886; ID., I mulinitorinesi e la finanza comunale, in ID. (a cura di), Acque, ruote e mulini a Torino, Torino, ArchivioStorico della città di Torino, 1988, vol. II, pp. 117-141 (entrambi ora in ID., Taglie e gabelle cit.,pp. 69-94 e pp. 111-134).

235 C. ZAGHI, L’Italia di Napoleone dalla Cisalpina al Regno, in Storia d’Italia, diretta da G.Galasso, vol. XVIII, t. I, Torino, UTET, 1986, p. 521.

nell’operazione di consolidamento e liquidazione del debito pubblico realizzatanel regno italico, che fu condotta con efficienza e senza tradire nei fatti gliimpegni presi formalmente dal governo. Nel 1804 fu stabilito il rimborso ditutti i creditori dello Stato in parti eguali con titoli di rendita al 3,5%, di valo-re pari alla metà del capitale, e con buoni spendibili nell’acquisto di beni nazio-nali, che, se non utilizzati, sarebbero stati consolidati ad un interesse del 2%;l’operazione fu perfezionata con la creazione del Montenapoleone, con funzio-ne di organo di gestione, nel quale confluirono in seguito i debiti dei nuovidipartimenti aggregati al regno236. Non caratterizzato da altrettanta linearità edefficienza era stato l’avvio della gestione delle finanze nella fase rivoluzionaria,ricostruito in un saggio del 1993 da Alberto Cova, che, riprendendo anche irisultati di precedenti studi237, evidenzia come soltanto dal 1796 al 1798 fosse-ro state versate alla Francia contribuzioni per un importo pari ai 2/3 del debitopubblico accumulato prima del cambio di regime238. Cova sottolinea la situa-zione di finanza straordinaria di quella prima fase, durante la quale, nell’impos-sibilità di qualsiasi intervento organico di risanamento, furono adottate solomisure dettate dallo stato di emergenza, un prestito forzoso a carico dei cittadi-ni più doviziosi e successivamente la vendita dei beni nazionali239.

La difficile fase di transizione vissuta da Venezia e dalla terraferma dopoCampoformio è sintetizzata nello studio dedicato da Giovanni Silvano a Pado-va, nell’esperienza del governo democratico che si impiantò nella città nel1797240. Il già oneroso debito pubblico ereditato dal periodo veneziano e cre-sciuto nel periodo successivo tra alloggiamenti e altri contribuzioni dovute allapresenza delle armate francesi, richiese l’imposizione di un prestito forzoso,senza pagamento di interessi, pari all’8% della rendita netta iscritta nell’estimo

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236 Ivi, pp. 522-523. Sulle finanze locali nella Lombardia napoleonica si veda E. PAGANO, IlComune di Milano nell’età napoleonica, 1800-1814, Milano, Vita e Pensiero, 1994; su questo temasi segnala inoltre la relazione di G. GREGORINI Gli equilibri e le dinamiche nei rapporti tra finan-za centrale e finanza locale al convegno internazionale La formazione del primo Stato italiano eMilano Capitale (Milano, Istituto Lombardo Accademia di Scienze e Lettere, 13-16 novembre2002), dove sono stati presentati anche i contributi Lo Stato attraverso le finanze di A. Cova eSistema creditizio e governo della moneta a Milano negli anni della Repubblica di G. De Luca.

237 Si veda soprattutto A. COVA, La vendita dei beni nazionali in Lombardia durante la primae la seconda repubblica cisalpina (1796-1802), in “Economia e storia”, a. X (1963), pp. 355-412 e556-581.

238 A. COVA, Le finanze cisalpine tra crisi politica e difficoltà economica, in A. DI VITTORIO

(a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 19-49, in particolare pp. 28-29.239 Ivi, pp. 47-49. Sulla parentesi dell’occupazione austro-russa si veda E. PAGANO, Alle ori-

gini della Lombardia contemporanea: il governo delle province lombarde durante l’occupazioneaustro-russa, 1799-1800, Milano, Angeli, 1998.

240 G. SILVANO, Padova democratica (1797). Finanza pubblica e rivoluzione, Venezia, Marsi-lio, 1996.

cittadino241. Successivamente, nell’estate del 1797, si procedette alla vendita deibeni nazionali della zona242. Alla vendita dei beni nazionali in tutti i diparti-menti veneti, nella fase del regno italico, dal 1806 al 1814, si riferisce inveceuno studio del 1992 di Mirella Calzavarini243. Più in generale le vicende deldebito pubblico veneto nella fase di transizione tra Campoformio e la restaura-zione austriaca sono state ricostruite in un saggio del 1993 di Giovanni Zalin244.Coll’istaurarsi della municipalità provvisoria il debito pubblico della Serenissi-ma venne congelato e al loro ritorno gli imperiali si avvalsero dei decreti ema-nati dal governo provvisorio per mantenere la sospensione del pagamento degliinteressi. La questione fu ripresa invece dopo il 1805, con la formazione delregno italico, quando il debito pubblico di Venezia fu accorpato con gli altridebiti preesistenti nel Montenapoleone, dal quale sarebbe poi confluito, dopola seconda restaurazione austriaca, nel Monte Lombardo Veneto245.

7. Quali sono i rilievi generali che si possono fare in conclusione di questarassegna? Si deve innanzitutto osservare che la produzione storiografica dedi-cata al tema del debito pubblico degli Stati regionali italiani in età moderna haconosciuto, dalla metà degli anni ’80 ad oggi, una grande vitalità: molte lemonografie, molti i saggi e i contributi a seminari e convegni, che hanno vistola luce in sedi nazionali e internazionali; una vitalità alla quale ha fatto peraltroriscontro anche un ampliamento delle fonti documentali utilizzate.

Questa valutazione complessivamente positiva non deve però nascondereche la produzione si presenta ancora molto discontinua in riferimento allediverse aree regionali italiane, in conseguenza del differente punto di partenzadegli studi all’inizio del periodo qui in esame. Per l’area siciliana, ad esempio,due recenti saggi hanno colmato una lacuna storiografica pressoché totale,mentre nel caso di Roma, i lavori di Stumpo e di Piola Caselli, dalla metà deglianni ’80 in poi, hanno certamente aperto la strada ai molti contributi sul debi-to pubblico pontificio che si sono registrati nel decennio successivo.

Tenuto conto di questa diversità di condizioni di partenza, dal punto divista metodologico, come si ha avuto modo di rilevare sin dall’inizio della ras-segna, la gran parte delle ricerche prese qui in esame, con poche eccezioni, col-

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241 Ivi, pp. 92-94 e 207-213.242 Ivi, pp. 232-62.243 M. CALZAVARINI, La vendita dei beni nazionali nei dipartimenti veneti dal 1806 al 1814, in

G.L. FONTANA, A. LAZZARINI (a cura di), Veneto e Lombardia tra rivoluzione giacobina ed età napo-leonica. Economia, territorio, istituzioni, Roma - Bari, CARIPLO - Laterza, 1992, pp. 133-163.

244 G. ZALIN, La finanza pubblica e le sue difficoltà nello Stato Veneto tra ancien régime erestaurazione austriaca, in A. DI VITTORIO (a cura di), La finanza pubblica cit., pp. 89-126.

245 G. ZALIN, La finanza pubblica cit., pp. 101-101.

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loca l’indagine sul debito pubblico all’interno dello studio dei processi di for-mazione dello Stato, in genere con un richiamo esplicito o implicito al filoneinterpretativo cosiddetto della financial revolution, con maggior enfasi sullerealtà statuali e comunitative oppure sul ruolo degli operatori a seconda chenell’analisi si sia posto l’accento sul debito pubblico più come strumento difinanziamento dello Stato ovvero come attività finanziaria degli investitori pri-vati.

Si deve altresì osservare che, nonostante proprio questo filone di indagineaccomuni la storiografia italiana a molte altre storiografie nazionali, con questeultime le occasioni di dialogo su temi legati al debito pubblico sono state abba-stanza ridotte; in tal senso si possono segnalare solo poche eccezioni, tra cui iseminari organizzati dall’Istituto Storico Italo-Germanico di Trento, alcuni deicongressi delle Società Internazionale ed Europea degli Storici Economici, iconvegni che hanno periodicamente riunito storici specializzati nello studiodelle finanze dei territori della Monarchia Spagnola (in quest’ultimo caso grazieanche alle ricorrenze centenarie di Filippo II e Carlo V segnate da un intensifi-carsi degli incontri). Si deve forse anche al numero piuttosto limitato di occa-sioni di dialogo internazionale su questi temi, la quasi completa assenza di studicomparativi, che abbiano messo a confronto la situazione del debito pubblicodegli Stati regionali italiani d’età moderna con quella delle altre aree europee;più frequentemente, invece, sono stati condotti paralleli tra le diverse realtàdebitorie della penisola e in questo caso i risultati sono stati di grande stimolo.Anzi, questo tipo di confronti, condotto non solo tra organismi o piazze finan-ziarie differenti, ma anche tra il centro e la periferia, tra aree o corpi territoria-li differenti – città, contadi, comunità rurali – appartenenti degli stessi Stati,costituiscono senza dubbio uno dei risultati più interessanti dello sforzo di con-cettualizzazione seguito alle indagini sul campo e alla descrizione delle singolerealtà fattuali.

Riguardo ai contenuti, si può senz’altro osservare che la più recente pro-duzione storiografica sul debito pubblico in età moderna ha continuato il gran-de lavoro d’indagine avviato nel secondo dopoguerra. A questa continuità suitemi si è però affiancata un’evoluzione sui contenuti: vi è certamente il rappor-to più volte ricordato con la formazione dello Stato moderno, ma vi anche unrinnovato interesse per delineare la fisionomia sociale degli operatori privati. Sitratta di conoscere il comportamento dei grandi investitori e degli intermediari,di valutare il grado di coinvolgimento delle élites locali nella gestione del debi-to pubblico, ma anche – soprattutto una volta documentata la valenza ai fini diuna maggiore mobilità sociale del debito pubblico e la sua apertura a stratisempre più ampi della popolazione – di ricostruire il mondo dei piccoli rispar-miatori e delle loro scelte, guidate dalla ricerca della migliore remunerazionepossibile dal capitale investito.

Permane, tuttavia, nella storiografia sul debito pubblico in età moderna,non solo in quella italiana, una grave lacuna: con la sola eccezione di alcunistudi di Fausto Piola Caselli e Luciano Pezzolo, non vi sono state ricercherecenti che, nel valutare l’entità delle emissioni di titoli, abbiano tenuto neldovuto conto il contemporaneo andamento delle variabili demografiche emonetarie. Costruendo degli indici ad hoc e disponendo di serie numeriche peril medio-lungo periodo relativamente alla popolazione e ai prezzi, molte con-clusioni sul ruolo e sul peso del debito pubblico potrebbero essere riviste – siain assoluto che in chiave di comparazione – soprattutto per i ricorrenti periodidi elevata inflazione che caratterizzano l’età moderna. D’altro canto, anche sultema del ruolo del debito pubblico nel processo di formazione dello Statomoderno, vi sono aspetti che richiedono ulteriori approfondimenti, come adesempio le motivazioni e le forme con le quali avviene il ricorso al debito anco-rato ad un gettito certo, di natura fiscale o patrimoniale, a volte emesso conmolta cautela, a volte con grande disinvoltura.

Infine, rispetto alla produzione storiografica precedente, sembra di poterosservare maggior interesse sia per il debito delle comunità, sia per il rapportotra spesa militare e debito pubblico; su entrambi questi argomenti, tuttavia, sideve auspicare che le ricerche continuino perché molto deve essere ancorafatto, in particolar modo per meglio comprendere quando il debito è posto alservizio di opere pubbliche e di servizi interni, piuttosto che della guerra.Soprattutto è da auspicare per il futuro un maggiore sviluppo di ricerche che,incrociando dati relativi alla finanza statale, a quella privata e all’economiareale, rispondano alla domanda che spesso rimane insoddisfatta al termine dellalettura di studi anche molto articolati: se, in quale misura e con quali conse-guenze, il debito pubblico abbia provocato fenomeni di crowding out rispettoalle altre forme di investimento praticate in età moderna.

Stampa: Arte Tipografica s.a.s. - Via S. Biagio dei Librai, 39 - Napoli - Aprile 2004