La Sposa Ribelle

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Hanan al-Shaykh

La sposa ribelle

PIEMME BESTSELLER 2011

Trama

Kamila ha solo undici anni quando, con l'inganno, la sua famiglia la promette in sposa al cognato rimasto vedovo, di diciotto anni pi vecchio . Sogna ancora di poter andare a scuola come gli altri bambini, anzich lavorare e occuparsi delle pi umili faccende domestiche. Sogna il grande amore, come le protagoniste dei film romantici che vede di nascosto nei cinema di Beirut. E lo incontra davvero, l'unico amore della sua vita: Muhammad, un giovane colto e premuroso che le recita poesie e apprezza la sua curiosit e la sua esuberanza . Tuttavia, compiuti quattordici anni, il destino di Kamila si compie. Per quanto gridi e si dimeni, non pu sottrarsi a quel matrimonio da tempo combinato. Ma il suo spirito ribelle le impedisce di piegarsi alle tradizioni che la vogliono completamente sottomessa. Dando scandalo, continua a incontrare in segreto Muhammad . Finch, sfidando la famiglia e la morale, chiede e ottiene il divorzio. Una decisione straziante, che le coster il distacco dalle figlie: uno strappo che tenter per tutta la vita di ricucire . Il ritratto affascinante di una donna che con coraggio e tenacia ha ribaltato un destino di sottomissione. Il toccante atto d'amore di una figlia che, dando voce alla madre che l'ha abbandonata, si riconcilia con la sua memoria . Hanan al-Shaykh Nata e cresciuta in Libano, ha studiato al Cairo. Tornata a Beirut, ha lavorato come giornalista fino al 1975, quando, allo scoppio della guerra civile, si trasferita in Arabia Saudita. Oggi vive a Londra . Ha scritto numerosi racconti, opere teatrali e romanzi tradotti e apprezzati in tutto il mondo . E unanimemente riconosciuta dalla critica come una delle autrici pi importanti e una delle voci pi coraggiose - della letteratura araba contemporanea. Alcune delle sue opere, come il romanzo Mio signore, mio carnefice, edito anch'esso da Piemme, sono bandite nei paesi islamici pi conservatori per la franchezza dei toni e le tematiche trattate .

Copyright 2009 by Hanan al-Shaykh I Edizione Piemme Bestseller, gennaio 2011 2010 - EDIZIONI PIEMME

Alle mie sorelle e ai miei fratelli

Mentre un re passeggiava nel suo giardino, una locusta s'infil nell'ampia manica del suo abito. Immediatamente un passero la segu. Il re allora cuc la manica, si accomod sul suo trono e chiese al popolo: Cosa c' dentro la mia manica? . Nessuno seppe rispondere, quand'ecco che si fece avanti un uomo di nome Passero, pazzo d'amore per una donna chiamata Locusta . Non riusciva a pensare ad altro che alla sua amata . Esord dicendo: Storie tragiche, lunghe da raccontare.. . Senza la locusta, il passero non sarebbe rimasto intrappolato . Hanan Prologo Sono a bordo di una delle tre limousine nere che sfrecciano a tutta velocit per le strade di New York come farebbe un barracuda sotto l'effetto di sostanze dopanti . Guardo le luci della citt e ne sento i rumori. Rose bianche decorano l'acconciatura di mia figlia e una color avorio appuntata sulla giacca del suo fidanzato . E la prima volta che vedo i suoi capelli in ordine. Oggi il giorno del loro matrimonio . Non avrei mai immaginato che i miei figli si sarebbero sposati tra centinaia d'invitati e che avrebbero deciso di organizzare una festa a tema, come ormai consuetudine nei matrimoni arabi. Me ne ricordo una ispirata alla nascita di Venere: la sposa usciva da una conchiglia che si apriva con un meccanismo elettronico. D'altronde, neppure avrei immaginato che mia figlia convolasse a nozze come avevo fatto io, trentatr anni prima, senza festa e senza nemmeno il vestito da sposa . Non indossa l'abito di pelle bianca che aveva sognato e che mi aveva descritto ben prima di innamorarsi e di pensare al matrimonio, e nemmeno un velo di tulle come quello che pretese da suo padre per mascherarsi alla festa di Santa Barbara. Mi viene in mente il velo che avevo regalato alla giovane marocchina che mi dava una mano in casa e stava per sposarsi . Chiss, magari si trova ancora in Marocco e viene passato da una sposa all'altra: forse l'unico velo inglese che sia stato mai usato per nascondere la timidezza di una sposa berbera in trepidante attesa che lo sposo glielo sollevi per guardarla in faccia per la prima volta . Mia figlia ha scelto un tailleur di lana morbida, giacca corta e gonna al ginocchio a quadretti blu, rosa e panna . Il vestito del mio matrimonio era estremamente semplice, corto, blu, tipico degli anni Sessanta. All'improvviso mi viene in mente che, per ironia della sorte, mia

madre aveva invece indossato un vestito bianco per il suo matrimonio. Matrimonio? No. Non posso proprio dire che fosse stata una festa di nozze. Anzi, l'avevano condotta al patibolo . Provo a scacciare il pensiero di mia madre, ma non riesco pi a vedere le luci di New York, n a sentirne il chiasso e la confusione. Lei mi appare, costretta contro la sua volont a indossare l'abito da sposa e una corona di fiori finti. Eccola che se la toglie con tanta forza da strapparsi anche una ciocca di capelli, e ora straccia il vestito e lo getta via. Si arrotola in un sacco di juta usato per lavare i pavimenti, corre verso il fornello a cherosene e le pentole sporcandosi la testa di fuliggine e urlando come un'ossessa. Cerca di allontanare le mani che la circondano. Mia madre, un pesciolino finito nella rete . Mia figlia mi manda un bacio, e anche suo marito. Riescono a riportarmi in questo giorno felice. Tento di dimenticare i dolori di mia madre, per vengo subito assalita dal senso di colpa e mi domando perch non le avevo fatto sapere del mio matrimonio . La verit che io non ho vissuto con mia madre. Potrei anzi contare sulle dita di una mano le volte in cui l'ho vista nel corso di tutta la mia infanzia. Quando andavo a trovarla, avevo la sensazione di andare a far visita a una parente o a una vicina di casa un po' confusionaria. Non aveva alcun potere su di me. Se capitava che la facessi arrabbiare, come quella volta in cui mi ero messa ad ascoltare per la decima volta La poupe qui fait non sul mangianastri che mi seguiva ovunque andassi, il massimo che sapeva fare era lamentarsi . Ma, nonostante tutto, possibile che una figlia si sposi senza che chi le ha dato la vita ne sia messa al corrente? Mi sposai in segreto, senza neanche una festa. Mio padre seppe del mio matrimonio quando un suo amico gli fece le congratulazioni. Vedendo che sul viso di mio padre si erano dipinti confusione, dubbio, incredulit e panico, l'amico gli port una copia del giornale in cui lavorava e gli lesse la notizia del mio matrimonio. Mio padre prese a schiaffeggiarsi, a piangere e a battersi il petto, poi url. Tornato a casa, trov un telegramma sulla porta e corse dai vicini, perch sapeva leggere soltanto il Corano, che in realt ripeteva a memoria . Caro pap STOP mi sono sposata STOP Con affetto STOP Hanan... Mio padre, che desiderava ardentemente che mi sposassi con un uomo religioso che avesse studiato a Najaf, una delle principali citt sante sciite, si era gi rassegnato all'idea che questo suo sogno non si sarebbe mai avverato quando si era accorto che diventavo ogni giorno pi ribelle. Si era fatto la convinzione che non mi sarei mai sposata con uno che rispettasse i doveri religiosi, e l'aveva accettata a malincuore . Ma che io potessi sposarmi con uno che non professava la mia stessa fede era per lui una cosa lontana mille anni luce . Al contrario, quando mia sorella comunic a mia madre, come se nulla fosse, che mi ero sposata, lei sembr toccare il cielo con un dito, url di gioia e ball, tirando un sospiro di sollievo, nonostante non avessi ancora neanche ventitr anni. Mi ricordo che, quando c'incontrammo a due mesi dal matrimonio, mi prese in

braccio e cerc di sollevarmi. Poi mi disse, ridendosela, che aveva dato la mano alla statua di un poeta che aveva lo stesso cognome di mio marito, esclamando: Adesso siamo parenti, a quanto pare! . Le mie nozze rappresentarono per mia madre una rivincita contro tutti quelli che avevano previsto che io e mia sorella non avremmo mai concluso un buon matrimonio, non per la modestia della nostra famiglia, ma perch eravamo figlie di una donna che era scappata di casa per sposare il suo amante. Sicuramente anche noi, pensava la gente, un giorno avremmo fatto la stessa cosa, come dice il proverbio: Tale madre, tale figlia . E poi io, per la mentalit della gente che mi circondava, non ero proprio quella che si dice una ragazza da matrimonio: a diciotto anni me ne ero andata al Cairo per studiare e avevo dato scandalo sia l sia in Libano, perch mi ero innamorata di un famoso scrittore egiziano che aveva il doppio dei miei anni ed era sposato . Ero sicura che mia madre non avrebbe dato peso al fatto che mi fossi sposata con un uomo di un'altra religione. Anzi, questo l'avrebbe resa orgogliosa e fiera, e in pi le avrebbe consentito di salire parecchi gradini nella scala sociale. Mi ero sposata con un uomo appartenente a una famiglia famosa, a cui era stato dedicato pi di un libro. E allora perch non le avevo fatto sapere del mio matrimonio? In realt, quando avevamo deciso di sposarci, non mi era proprio passato per la mente che mia madre potesse aver voglia di condividere la nostra felicit, per il semplice fatto che da molti anni lei non faceva pi parte dei miei pensieri . Quando ci abbandon, io avevo sette anni. La chiusi in una scatola e la nascosi in un angolo della mia mente. Mi misi in testa di essere nata da una voce: una voce che mi teneva compagnia, che ascoltavo con passione, che mi descriveva il mondo, che mi poneva domande. Fu quella stessa voce a insegnarmi come prendermi cura di me, a spiegare alle mie mani come infilarmi un vestito, allacciarmi le scarpe e intrecciarmi i capelli . Mi allontanai anche da mio padre, nonostante l'amore che provava per me e per mia sorella, la sua tenerezza e la sua dolcezza nei nostri confronti. Passava la maggior parte del tempo a pregare e a supplicare Dio, con gli occhi rossi come tizzoni roventi e il segno lasciato sulla fronte dallo sfregamento durante le prostrazioni a terra . Fu proprio quella voce che riusc a limitare i danni dell'assenza di mia madre in casa. M'invitava a fissare il suo armadio nella camera da letto che condividevo con mio padre e sua moglie. Guardavo le cose della mia matrigna e mi chiedevo come il pavimento potesse continuare a sorridere - aveva un disegno che ricordava un'allegra faccia giapponese - nonostante le scarpe che lo calpestavano fossero della mia matrigna e non di mia madre . Fu quella stessa voce che mi convinse a scrivere del complotto tra mia madre e il suo amante contro di me, contro mio padre, contro mia nonna, contro lo zio e la sua famiglia e tutti quelli che vivevano in casa. L'unica eccezione era mia sorella, che sembrava essere legata da sempre a mia madre e a quell'uomo. Era sempre gioiosa, felice e aspettava ansiosa di vederli .

Usai la sua assenza per attirare su di me l'interesse delle persone. Lo feci anche con la mia insegnante di musica: mi port al cinema a vedere Preferisco mio marito, un film che raccontava di una madre che abbandona la figlia. Mi sentii felice e piena di orgoglio perch la mia vita era pi vicina al mondo del cinema che a quella dei miei coetanei del quartiere o della scuola . Su suggerimento di quella voce, mi legai al polso un filo con delle monete: in questo modo, quando sbattevo sul tavolo, esse tintinnavano e mi facevano sentire pi grande, responsabile, libera e capace di sopportare le provocazioni dei ragazzini della zona che mi prendevano in giro perch mia madre aveva lasciato pap. Quella stessa voce mi aiut a sedurli, come una maga: raccontavo loro storie, imitavo gli abitanti del quartiere, li facevo divertire e ridere. Mostravo loro la mia indifferenza per l'assenza di mia madre, nonostante essa rappresentasse paradossalmente una specie di presenza, come quando un quadro appeso al muro cade all'improvviso andando in frantumi e lascia la sua impronta evidente proprio l dov'era appeso . Anch'io desideravo continuamente fuggire. Me ne andai finalmente di casa soltanto quando mi iscrissi a un collegio di Sidone. Dopo lunghe insistenze, mio padre accett a condizione che Dio si mostrasse favorevole. Lo consult allora con i grani del suo rosario e il parere fu positivo. A scuola incontrai Leila Khaled, la ribelle palestinese che nel 1969 sarebbe diventata la prima donna a dirottare un aereo . Diventammo amiche e spostammo i nostri letti in una cantina cos fredda e umida che ci si poteva nuotare dentro . Ora, quando rifletto sul motivo per cui fossimo cos felici di occupare una stanza sul cui pavimento nudo le lumache strisciavano abbondanti, mi dico che doveva essere per un senso di alienazione. Leila aveva passato tutta la vita in un campo di rifugiati, allontanata contro la propria volont dalla sua casa e dalla sua patria, e anch'io stavo scappando dalla mia famiglia . Due anni dopo, quando avevo diciotto anni, quella voce mi sfid di nuovo, convincendomi ad andare a studiare al Cairo, dopo aver sentito la canzone che faceva: Take me back to Cairo... Beside the river Nile.... Quando incontrai uno studente libanese che mi disse che al liceo classico egiziano non si studiavano l'algebra e la geometria, presi ad ascoltare ininterrottamente quella canzone . Dovevo mettere da parte dei soldi per convincere mio padre che avevo preso sul serio il mio proposito di andare a studiare al Cairo e cos cominciai a bussare alle porte dei giornali per convincere i capiredattori a lasciarmi scrivere qualche articolo . Andavo armata di storielle sentimentali e riflessioni varie che avevo scritto e pubblicato nella pagina dedicata agli studenti sul famoso giornale al-Nahar. Dopo due mesi mi presentai da mio padre per mostrargli i soldi e gli articoli che avevo pubblicato. Gli ripetevo il hadith. Cercate la scienza dalla culla alla tomba. Cercate la scienza anche in Cina . L'Egitto era pi vicino della Cina, e fu l che mi recai dopo aver bussato alle porte di tutti i vicini di casa finch non trovai qualcuno disposto a prestarmi una

valigia, nonostante mio padre cercasse di convincermi che non c'era niente di male nel mettere tutte le mie cose in una scatola di cartone . Tornai a Beirut dopo quattro anni, e la voce riprese a farsi sentire per consigliarmi stavolta di tenere a bada la sensazione di soffocamento che mi accompagnava da quando ero rientrata. Dovevo guardare la vita da un altro punto di vista, sopportare la convivenza con la mia famiglia, pensare che la nostra casa non fosse altro che un albergo gratuito, la moglie di mio padre un'impiegata priva di misericordia e di piet e il mio adorato pap un sufi che viveva in un tempio privato. Le sue lacrime scorrevano abbondanti perch era preoccupato per me, che, secondo le sue credenze, sarei finita all'inferno e non in paradiso: non pregavo, non rispettavo il digiuno, rifiutavo di mettermi il velo e non mi coprivo le braccia . Me ne andai di casa e mi trasferii in un ostello per ragazze, vicino al mare. Godevo di una libert assoluta, lavoravo ininterrottamente tra giornali e trasmissioni radio, e quella voce viveva con me, senza abbandonarmi mai. Anzi, mi tenne per mano e mi affid all'uomo con cui decisi di sposarmi . Quando lui quel giorno mi chiese cosa avrebbe pensato la mia famiglia, gli risposi: Non pensare n a mio padre n a mia madre, e gli strinsi le mani . Non mi era venuto in mente neppure allora che mia madre un giorno mi avrebbe obbligata a fare i conti con il passato, riportando a galla il rancore travolgente che avevo messo da parte e dimenticato. Non avrei mai pensato che mia madre mi avrebbe costretta a rivederla, perch era la prima volta in vita mia che mi forzava a fare qualcosa . Ci sedemmo, come facevamo ogni volta che visitavo Beirut, sul balcone che dava sulla stazione di el-Nuwairi, sui taxi che suonavano il clacson per attirare l'attenzione dei clienti, sulle macchine private che a loro volta suonavano ai taxi perch si sbrigassero, e su un ambulante che dal suo camion urlava con un megafono a tutto il mondo: Cipolle! Le migliori cipolle.. . Patate! Le migliori patate... . Mia madre aveva trasformato il suo balcone in un piccolo giardino rigoglioso, circondato su entrambi i lati da piantine . In un angolo era poggiato un piccolo frangipani, lo stesso da quarantanni . All'improvviso sbuc un amico di famiglia accompagnato dalla figlia sedicenne. Mia madre li accolse fingendosi fin troppo stupita e sorpresa, e ci mi convinse che la visita non doveva essere casuale, nonostante mia madre sapesse benissimo che quando andavo a trovarla preferivo stare sola con lei, piuttosto che circondata da decine di vicini, parenti, amici, amici di amici . L'ospite mi chiese senza mezzi termini se potevo dare un'occhiata a quello che aveva scritto sua figlia e darle qualche consiglio su come diventare una scrittrice. Quasi strapp il quaderno che la figlia teneva in mano insieme agli occhiali da sole. Me lo porse e spar dopo aver salutato me e scherzato con mia madre . Le strizzai l'occhio per mostrarle che avevo capito che la visita non era casuale, e lei mi rivolse un sorriso .

Chiesi alla ragazza quando avesse iniziato a scrivere, e lei balbett qualcosa. Mi stup, perch a sua volta mi domand se mi ricordassi della prima cosa che avevo scritto. Mi venne da ridere. Avevo scritto di una piccola mosca che era entrata nel naso di Muhammad e lo aveva fatto impazzire. Poi mi girai verso mia madre. Mamma, ti ricordi quando Muhammad and nella tenda di tuo padre indossando un completo elegante con quel caldo asfissiante e una mosca gli si infil nel naso? Lui inizi a starnutire, starnutire, starnutire! Ridemmo entrambe e lei aggiunse, piena di tenerezza: Un uomo come Muhammad, convinto di essere forte, grosso e prepotente, che perde la testa per una minuscola mosca... . Aprii il quaderno della ragazza: aveva scritto in rosso il titolo, in blu la storia e in lilla il suo nome. Non riuscii a leggere pi di qualche frase, poi, girando pagina, mi accorsi che aveva disegnato Madonna. Quindi ti piace anche disegnare? La ragazza arross e mi rispose, piena di entusiasmo, che amava scrivere, dipingere, recitare e ballare. Ma senza dubbio preferisco su tutto la scrittura. Le restituii il quaderno dicendo: La scrittura sar la tua migliore amica . Mia madre avrebbe sicuramente voluto che io la lodassi e le facessi qualche complimento, ma proprio non ci riuscii . Mi accorsi che mia madre mi scrutava con occhio indagatore, poi mi chiese: A proposito, hai scritto nei tuoi romanzi di Muhammad e della mosca? . Mmm... Non mi ricordo! La ragazza si alz, diede un bacio a mia madre, mi baci sulle guance e se ne and tenendo stretto il suo quaderno . Allora? Quando ti decidi a scrivere la storia della mia vita? Mi ripeteva quella domanda da quando avevo iniziato a fare la giornalista. Mia madre, che era analfabeta, trovava sempre qualcuno cui chiedere di leggerle quello che scrivevo, ma la scintilla era scattata quando avevo pubblicato una serie di interviste ad alcune donne libanesi famose in campi diversi, attive in politica, negli affari, nelle loro professioni, nella societ . Quelle donne di cui hai scritto sono figlie di famiglie importanti o colte. Forse nessuno le avr incoraggiate a fare quello che hanno fatto, ma sicuramente nessuno gliel'ha impedito o le ha oppresse. Perch non scrivi di quelle che vengono trattate dalle loro famiglie come se non fossero neppure esseri umani, solo perch sono nate femmine? Non c' bisogno di andare tanto lontano, io sono una di loro. Qui, davanti a te. Dai, intervistami. Posso raccontarti di tuo nonno, che mi vendette per dieci lire d'oro, di come mi hanno costretta a sposare tuo padre quando avevo appena quattordici anni, e di come hanno organizzato il mio fidanzamento quando ne avevo undici. Mia madre parlava alla giovane giornalista che ero allora e le sue parole, cos cariche di entusiasmo, di passione e di dolore, mi scivolavano addosso come gocce d'acqua su un impermeabile. Svanivano senza lasciar traccia . Col passare del tempo cominciai ad abituarmi alle sue suppliche. Ogni volta che pubblicavo un romanzo o un racconto breve, mi diceva: Scommetti che la mia storia pi bella di quella che hai pubblicato? .

Ma io non le davo ascolto. Mi ero fatta la convinzione di sapere gi tutto su di lei: si era sposata con mio padre contro la sua volont, si era innamorata di Muhammad e aveva abbandonato il tetto coniugale. Tutto qui . Mi ricordo che nel 2001, quando la invitai alla presentazione del mio libro Questa Londra, caro mio, mi chiese: Cosa hai scritto stavolta? . Il romanzo parla di donne arabe che vivono a Londra le risposi e che dopo numerosi tentativi scoprono che la vita diversa da quello che appare. Io non capisco... mi interruppe. Ma perch ti ostini a guardare l'erba del vicino? Non ti dico gi abbastanza quanto mi ispiri? Quando ti chiedo di quell'aneddoto, di quel personaggio, non sai che sto prendendo spunto da te per le mie storie? Io non voglio che tu prenda spunto da me. Questo significa che tu vedi le cose dal tuo punto di vista, non dal mio. Per esempio, il tuo racconto il tappeto persiano. Ecco, parliamone: hai dipinto la madre come una ladra. E lei che ruba il tappeto e, anche se tutti accusano Elia il tappezziere, a lei non importa un fico secco! Io volevo bene a Elia, gli davo da mangiare, cantavo per lui... E poi, perch non hai detto che la mamma aveva dato tutto e rinunciato a tutto ci che era suo di diritto per scappare da un marito che aveva il doppio dei suoi anni, che era stata obbligata a sposare contro la sua volont? Neanche hai menzionato che il marito le aveva preso tutti i suoi gioielli per ipotecare il negozio che altrimenti sarebbe fallito! Mamma, la storia raccontava di una ragazzina che si era infatuata di Elia il tappezziere perch era capace di riparare le sedie nonostante la sua cecit... Mi fermai senza riuscire a proseguire, perch mi venne in mente come quella ragazzina avesse iniziato a tremare, tanta era la rabbia quando il suo sguardo era caduto sul tappeto smarrito, che si trovava nella nuova casa di sua madre, dove era andata in visita per la prima volta dopo il divorzio dei genitori. Alla ragazzina non bastava che la madre la sciogliesse dal suo abbraccio: aveva il desiderio fortissimo di affondare i denti nella sua carne bianca e di darle un morso, perch era stata lei a rubare quel tappeto e a permettere che le accuse cadessero su Elia il cieco . Questo vuol dire forse che una donna divorziata non pu affezionarsi a un tappetino? Era suo di diritto! protest mia madre . La domanda avrebbe dovuto essere posta in un altro modo . Perch quella donna, dopo il divorzio, non si era affezionata invece alle sue figlie? Non erano sue di diritto anche loro? Mia madre avrebbe dovuto dirmi perch non aveva almeno provato, non aveva lottato per avere la nostra custodia, anche se era certa che le possibilit di ottenerla erano le stesse che ha una nave di pietra di riuscire a stare a galla . Mi fermai scossa dai brividi, prossima a scoppiare per la violenza di quelle domande che mi si erano bloccate in gola . Riuscii a inghiottirle, accontentandomi di esporre a mia madre il famoso clich letterario per cui le persone reali, fatte di carne e ossa, non appena vengono messe sulla carta si trasformano semplicemente in personaggi immaginari, diventano arte. Mia madre mi ascolt con attenzione. Si accese una sigaretta e diede un tiro,

poi un altro, mentre io immaginavo i suoi polmoni riempirsi di fumo fin quasi a esplodere da un momento all'altro . Bene. Se la scrittura trasforma le persone in personaggi immaginari, perch io e Muhammad non siamo cambiati? E perch neanche tu sei cambiata, nel tuo romanzo Mio signore, mio carnefice? Hai descritto gli stessi luoghi, gli stessi avvenimenti, esattamente com'erano nella realt. L'unica differenza che tuo zio Ibrahim diventato tuo padre. Ma lasciamo stare quel libro. Oddio, come mi sono sentita quando me l'hanno letto... come se tu avessi passato il mio cuore in un tritacarne. Mia madre sospir prima che io potessi proferire parola . Scacci dal viso una mosca che ronzava tra di noi . Dai, vai in cucina. Troverai qualcosa da mangiare. Risi e tirai un sospiro di sollievo. Mamma, ti ricordi quando buttavi il formaggio ai topolini in soffitta? Mia madre ridacchi e, battendo le mani, disse: Poveri, ho smesso quando non so chi mi avvert che cos facendo sarebbero diventati dei grossi ratti. Poi, all'improvviso, aggiunse: Voglio dire, nel romanzo Mio signore, mio carnefice io e Muhammad ti facciamo piangere fino a singhiozzare, e tutto il mondo ti sente. Invece noi, a essere sinceri, ti siamo sempre rimasti vicini. Tu ci hai dipinti severi, senza cuore . Dio mio, da dove hai preso tutta questa amarezza? . Feci per andarmene, ma come potevo lasciarla in quello stato di disperazione? Sapevo che se me ne fossi andata in quel momento si sarebbe rimproverata per avermi fatto arrabbiare . Tornai a sedermi e improvvisamente lei cambi argomento . Hai notato le scarpe di quella ragazza? Enormi e alte come lampioni. L'abbracciai dicendole: Oddio, mamma, sei troppo intelligente e sveglia! . Mi trovai a pensare: "L'ho scritto veramente? Davvero ho messo questo nel mio romanzo Mio signore, mio carnefice" . Posi questa domanda al nulla, ai rumori della strada, a mia madre, al libro stesso. Mi domandai chi ero vent'anni prima, cosa pensavo. "Cosa volevo dire?" Quando nell'inverno del 1976 mi misi a scrivere Mio signore, mio carnefice, in un piccolo appartamento in affitto a Londra, accanto a me c'erano soltanto due valigie, mio figlio che non aveva ancora due anni e mia figlia di sei mesi, ed eravamo appena fuggiti dalla guerra civile. Mi ricordo che lasciai le valigie intatte per due mesi, ripromettendomi di tornare in Libano il prima possibile. E invece ci tornavamo ogni sera, ma soltanto per qualche secondo, accompagnati dalla musica del telegiornale della televisione britannica: vedevo Beirut, racchiusa in un bozzolo nero come la pece, trasformata in una palla di fuoco dalle milizie e dai guerriglieri, mentre i suoi abitanti scappavano in preda al panico . Cercavano riparo qua e l nei rifugi sotto le case o cadevano per strada sotto i colpi dei cecchini, che erano dappertutto . Erano persone misteriose, che tiravano un sospiro di sollievo soltanto quando la loro preda cadeva a terra . Era stato proprio quando avevo avuto la certezza che un giorno anch'io sarei stata colpita dalla pallottola di un cecchino, ovunque mi fossi nascosta, e avevo

iniziato a vivere accompagnata dalla paura, anzi, dal panico per la sicurezza dei miei figli, che avevo deciso di scappare, non soltanto da Beirut, ma proprio dal Libano . Nel mio nuovo paese, l'Inghilterra, mi immersi in una nuova societ e in una nuova lingua, che mi portavano a pensare al posto da cui ero venuta, all'ambiente in cui ero cresciuta, alla cultura che mi aveva reso quella che ero e a ci che avevo lasciato dietro di me. Volli scrivere della violenza per poterla comprendere, e per capire perch Beirut fosse diventata un campo da giochi per i demoni. Un nome lugubre, tanto che anche i libanesi evitavano di pronunciarlo. La mia confusione e il mio panico facevano s che, ogni volta che mi sedevo a scrivere, vedessi me stessa come una bambina di cinque anni che si nascondeva con la madre dietro una porta, scossa da brividi di paura. Mia madre mi metteva una mano davanti alla bocca per non farmi parlare, perch c'era quel viso che appariva e che sembrava spiarci. Questa immagine si ripeteva nella mia mente una, due, tre volte. Perch la guerra si era scatenata dentro di me mentre ero a Londra? Cominciai a graffiare vecchie cicatrici che credevo ormai rimarginate . Mi ero convinta che, col matrimonio e poi con i figli, avessi tirato fuori mia madre da quella scatola in cui l'avevo chiusa per nasconderla in un angolo della mia testa, che l'abisso che c'era tra di noi fosse scomparso, e invece ecco che una penna stilografica mi strappava al gelo di Londra per catapultarmi in quella camera buia, a Beirut, in cui c'eravamo nascoste dietro la porta. Sentivo di nuovo l'incertezza e la confusione che ribollivano dentro di me ogni volta che prendevamo una strada diversa da quella che doveva portarci dal medico che mi faceva l'iniezione di calcio, la cui carenza mi causava l'inarcamento delle gambe, a quanto diceva mia madre. Invece di scorgere la ringhiera nera davanti alla porta di vetro dello studio del medico e il suo riflesso colorato, entravo in una camera immersa nel buio, dai mobili marrone scuro. E invece di vedere il faccione rotondo e piatto del medico e i suoi capelli rossi, acconciati con un riporto che doveva nascondere la loro radezza ma riusciva solo a farli sembrare vermicelli, mi trovavo davanti un uomo alto, dai capelli lisci, castani e folti, che indossava un completo a quadretti bianchi e neri, lo stesso uomo che mi aveva dato un pupazzo di gomma rosa delle dimensioni di un dito . Col passare dei giorni capii che mia madre mi voleva accanto a s come un'arancia navelina con il suo ombelico. Ogni volta che si incontrava con l'uomo dai capelli folti e castani, io mi trovavo a condividere con lei i suoi segreti, a essere testimone delle sue bugie e delle sue menzogne. Contribuiva senza accorgersene alla mia confusione e alla mia indecisione . Confondevo visi e luoghi, e i medici con gli amanti . Ricordo quella volta sotto il mandorlo e le montagne brulle, le colline, le valli, le pietre rosse, i rovi nel villaggio di Bham-doun. Ero piccola, correvo con mia sorella e nostra madre, che non era tanto pi grande di noi. Correvamo con nostra cugina Mariam, ed ecco che mi apparve l'uomo alto dai capelli castani, folti e lisci, con cui mia madre parlava il cosiddetto "linguaggio degli uccellini". Non

capivo nulla di quello che dicevano, e neppure capivo perch, se proprio dovevano imitare gli uccellini, parlassero invece di cinguettare . Vedevo quell'uomo disteso con la testa appoggiata alle cosce di mia madre e gli occhi color miele aperti solo a met . Dormiva o ci stava solo provando? Non sapevo allora che quello era il sogno di un innamorato. Mia madre gli cantava la ninna nanna Oh tu che dormi. Mi chiedevo perch lo cullasse per dormire se non era pi un bambino, e perch quando c'incontravamo con lui dovessimo cominciare a correre per andargli incontro. Chiss, forse perch mia madre non vedeva l'ora di cantargli la ninna nanna . Quel giorno ci venne scattata una foto, che avrei rivisto poi insieme ad altre foto quando mia madre le tir fuori dal suo reggiseno per mostrarle a mia cugina Mariam. Nella foto io sto in piedi accanto a mia sorella, ed entrambe guardiamo l'uomo che solleva mia madre tra le sue braccia, come se fosse una bambina. Come se si fossero scambiati i ruoli, e ciascuno di loro facesse il bambino a turno . Rivedendo quella foto anni dopo, sentii una fitta al cuore . Fissai le rocce, il mandorlo, il cielo estivo, il sorriso di mia madre e le scarpe che stavano per caderle. Dove ero finita io? E Fatima? Al nostro posto c'era una macchia bianca. Ma io c'ero stata davvero l, insieme a mia sorella? Avevo davvero sentito mia madre che cantava a quell'uomo Oh tu che dormi? C' un'altra foto che ritrae tutti i membri della mia famiglia sul terrazzo di casa. Siamo intorno a nostro cugino che sta per imbarcarsi per gli Stati Uniti. Avrei voluto cancellare il viso di mia madre da quella foto, come lei aveva cancellato me e mia sorella, ma alla fine non feci nulla . Dopo molti anni mi fu chiaro perch avevo cambiato idea: mia madre era in mezzo a tutti noi, per sembrava distante; in realt non era con noi. Guardava lontano, verso un futuro di cui non facevamo parte . Perch sei cos silenziosa e non mi rispondi? Perch non vuoi scrivere la storia della mia vita? Io davvero non capisco.. . Non sei curiosa di conoscere la mia infanzia e sapere perch vi ho abbandonate? Eravamo ancora sedute sul balcone rumoroso, davanti a noi un posacenere che conteneva decine di cicche. "No, non voglio sentire la tua storia. Forse ho paura di provare compassione per te o di essere invasa dalla tristezza. Non voglio ricomporre il passato, che ormai ci ha lasciato e se n' andato, dopo che gli anni l'hanno scolorito." Ascolta Hanan, amore di mamma, non ce la faccio. Giuro, non ce la faccio a tenere la mia storia chiusa nel cuore. Guarda, se non mi ascolterai e non la scriverai, chieder alla ragazza con le scarpe come lampioni di farlo per me! Non ero pronta. Avevo paura che mia madre mi seducesse come fa l'acqua del mare nelle torride giornate estive: sembra rinfrescante e in realt gelida . Avevo paura che tessesse attorno a me un incantesimo di dolcezza e di fascino, che mi catturasse in una ragnatela di zucchero. Avrei finito per arrendermi, come avevano fatto prima di me tanti, piccoli e grandi, uomini e donne. Da allora avrei

creduto a ogni parola che mi avesse detto, anche qualora avessi dubitato di lei. Mi ero convinta che lei volesse svelarmi tutti i segreti del suo cuore per giustificare il suo abbandono . In pratica cercava il perdono da parte nostra, n pi n meno . Ma come poteva pretendere che io dimenticassi la prima volta che avevo capito che erano i luoghi a sottrarci le persone che amiamo, e che era lo studio del falso medico ad allontanare mia madre da noi? Come poteva sperare che io dimenticassi le volte in cui mi ero chiesta se anche lei sentisse i tuoni nella sua nuova casa come li sentivo io, e se vedesse il bagliore dei fulmini nello stesso momento in cui io gridavo: Eeeh! Eccolo!, perch il vento portasse la mia voce fino a lei . Come poteva chiedermi di spegnere la sua voce, quella che aveva cantato per la mia bambola, stringendola al suo petto e piangendo come se fosse la sua bambina? Bambolina mia, dormi nel lettino fin quando viene il passero, e ti sveglia al mattino . E che dire delle volte in cui non ero io a voler affondare i denti nella sua carne, ma era lei a mordermi, lasciando il segno dei suoi denti sul mio braccio, come un orologio, perch in fondo a quei tempi era ancora una bambina che mordeva quando era arrabbiata? Picchiare i figli era invece cosa da madri adulte . Mi offr una sigaretta, nonostante sapesse perfettamente che non fumavo. Era tutta la vita che le facevo la predica perch smettesse anche lei. Le chiesi se aveva voglia di andare a un caff sul lungomare. Mi rispose: Giuro sulla mia vita che non ho mai desiderato tanto quanto adesso saper leggere e scrivere, soltanto per poter scrivere la mia storia. Oddio, quanto mi ferisce che un pezzo di legno e di grafite possa avere la meglio su di me! . Le chiesi cosa intendesse dire . La matita non fatta di legno e di grafite? A quel punto guardai la mia mano: non si vedevano i segni dei denti. Anzi, era pronta e teneva una penna. Sentii di voler liberare il passato tenuto prigioniero fino a quel momento e portarlo alla luce . Dai, iniziamo dissi alla fine . Mia madre esord con una frase in arabo classico che continua a risuonare nella mia testa: Storie tragiche, lunghe da raccontare... Senza la locusta, il passero non sarebbe rimasto intrappolato . Kamila 1932: l'inizio dei ricordi da sempre impressa nella mia memoria l'immagine di me e mio fratello Kamil che inseguivamo mio padre. Ci accompagnavano le preghiere di mia madre, che chiedeva giustizia a Dio per quello che lui aveva fatto: ci aveva abbandonati perch si era innamorato di un'altra donna, con cui si era sposato. Mia madre aveva chiesto al tribunale di Nabatieh che lui provvedesse al nostro mantenimento, ma invano. Allora noi andammo a cercarlo perch ci comprasse da mangiare. Corremmo fino al villaggio vicino, dove viveva . Arrivammo al mercato di Nabatieh, chiedemmo di lui e lo scovammo grazie alla sua voce e alla sua risata squillante. Lo invitammo a comprarci lo zucchero e la

carne, proprio come ci aveva raccomandato nostra madre. Accett immediatamente e ci chiese di seguirlo, ridendo con noi e rimproverandoci al tempo stesso. Noi obbedimmo, districandoci tra mucchi di bulgur e lenticchie, tra cammelli, asini, pecore e polli, tra sensali e venditori. Lo perdemmo di vista, poi riapparve per scomparire di nuovo. Mio fratello Kamil lo chiam con tutto il fiato che aveva in gola, tanto che un venditore di pelli di pecora comment: Figliolo, la tua voce sembra una scoreggia in un mercato di lattonieri e ramai! . Tornammo da nostra madre, rimasta in attesa insieme al fratello ciabattino, che si sistemava in un angolino del mercato. Quando ci vide arrivare a mani vuote, il suo viso cambi colore e giur di denunciarlo di nuovo. Tornammo a casa senza carne, senza riso e senza zucchero. La mamma ci prepar le polpette col pomodoro: lo schiacciava tra le dita facendone uscire il succo. Mi chiesi se i semi di pomodoro sentissero il dolore: forse era per questo che cercavano di scappare. D'altronde la mamma non ripeteva sempre che mio padre le aveva schiacciato il cuore? Ci consolava mentre dava forma alle polpette. Ma s, alla fine sono comunque rosse e contengono bulgur, come quelle vere. "Le polpette vere? Dov' il pavimento su cui deve essere battuta la carne, come vuole la ricetta tradizionale? E dov' il nostro batticarne di legno che potrei riconoscere tra altri mille? Polpette vere? ! Perch allora la mamma non toglie dalla carne i nervi bianchi come fili e li mette da parte, rendendola simile a un fico cui stata tolta la buccia?" Un giorno la mamma ci port in tribunale. Mio marito non paga gli alimenti disse a un uomo che aveva in testa un turbante che mi ricordava un'anguria. Come faccio a nutrire questi due figli? Devo tagliarmi le mani e fargliele mangiare? Come faccio a vestirli? Devo strapparmi la pelle e mettergliela addosso? Sentimmo l'uomo col turbante sciorinare una serie di parole, e una frase soltanto ci rest impressa: Gli alimenti arriveranno, e direttamente al centro di casa vostra . Giunti a casa, io stessa mi misi a misurarla contando i passi, come vedevo fare agli adulti per misurare qualsiasi cosa, persino le tombe. Trovato il centro, mi sedetti dove avevo messo un segno, in attesa degli alimenti. Si present invece a casa una nostra vicina, che consigli alla mamma: Fagli vedere i bambini per mostrargli quanto misera la tua condizione! . Se non ti dai una mossa a sparire, le grid dietro mia madre ti acchiappo per le mani e i piedi e ti butto sopra i cactus! Gli alimenti non si fecero vedere e, mentre mia madre era nell'orticello a raccogliere le fave che aveva piantato e a strappare le cicorie, l'indivia e le erbacce, arriv invece mio padre e ci chiese di accompagnarlo al mercato per comprarci vestiti, carne, zucchero, melassa e caramelle. Presi dall'entusiasmo ci dimenticammo di avvertire la mamma. Ci lanciammo verso nostro padre scalzi, gli corremmo dietro mentre lui continuava a promettere: Voglio comprarvi anche delle scarpe nuove, tirate a lucido come uno specchio. Ci fece camminare per una strada che si snodava tra pietre, spine e alberi. Capimmo che non era la strada per il mercato, ma quella che portava verso casa sua e della sua nuova moglie. Appena arrivati le disse: Pensa di essere pi

furba di me? Bene, facciamoli vivere con noi, allora! Senza pagare alimenti e senza mal di testa! . Quanto fu lunga quella notte! Ci rigiravamo nel letto e pensavamo alla mamma, che magari avrebbe immaginato che una iena avesse pisciato sui piedi di uno di noi e ci avesse condotti nella sua tana, mangiandoci fino a spolparci le ossa, o, peggio ancora, che la terra si fosse aperta e ci avesse inghiottiti per sempre. Oppure che fossimo caduti in un pozzo e fossimo annegati. Ma mio fratello mi rassicurava: i ragazzini con cui stavamo giocando le avrebbero detto che pap era venuto a prenderci. Ci addormentammo stretti stretti. Sentivo i battiti del suo cuore e lui sentiva quelli del mio. Ascoltavo il vento e credevo che fosse il suo respiro, perci gli fissavo il naso . Quando si fece giorno, ci alzammo. Non riuscivo a capire lo sguardo della mia matrigna, perch i suoi occhi erano verdi. Riuscivo a capire invece quelli della mamma e sapevo di amarla, come sapevo anche che non dovevo amare la mia matrigna, perch mia madre non la amava. Fissavo i suoi occhi, nel tentativo di svelare il mistero del loro verde. Forse erano di quel colore perch macinava le pietre verdi che trovavamo negli orti. Doveva essere proprio cos, visto che invece la mamma aveva gli occhi neri perch macinava le pietre nere e le usava come kohl . La mancanza della mamma si faceva sentire sempre pi forte, tanto che a colazione non riuscimmo a ingoiare nulla, nonostante la melassa e lo zucchero. Dovevamo inghiottire un po' di t dopo ogni boccone. Il tempo passava lento, soprattutto perch era estate e mio padre non doveva andare a insegnare ai bambini a scuola . Io e mio fratello sedemmo tutto il tempo appiccicati l'una all'altro, in attesa della sera. Decidemmo di scappare subito prima del tramonto, senza aver fatto alcun piano e senza neanche averne parlato. Pensavamo al sopraggiungere della notte: come potevamo andare a letto senza la mamma che dormiva in mezzo a noi, stendendo le sue mani per arrivare a toccare entrambi? Aspettammo che la nostra matrigna mettesse il piatto di mujaddara vicino al fornello a legna in cui preparava il pane. Non appena entr in casa per portarcelo, mio fratello travas la mujaddara nel suo vestito, tenendone i lembi e mordendosi le labbra per il vapore che continuava a salire. Corremmo veloci cos com'eravamo venuti, scalzi, sopra le pietre marroni e rosse, sopra le poche piante, incuranti delle spine. Continuavo a urlare: Ahi ahi ahi... spina, spina, spina..., e mio fratello rispondeva: La mujaddara mi brucia!. Continuammo a correre, senza tenerci per mano, dimenticando l'ordine della mamma, che ci aveva detto: Non permettete neppure agli angeli di separare le vostre mani . Proseguivamo con la paura di prendere la strada sbagliata . Vidi una pianta di pomodoro tra le rocce, dai frutti rossi come anemoni, ma non ci fermammo. Poi, giunti a un campo di fichi, ci sentimmo al sicuro. Passammo davanti alle luffe, il veleno dei serpenti, quelle piante arancioni simili a pannocchie senza foglie, che credevamo venissero seminate dai serpenti che non volevano perdere la strada per le loro tane. Passammo davanti a una zona

sabbiosa in cui crescevano angurie e cetrioli, per non vedemmo altro che sabbia. Avvistammo il grande stagno e, appena ci apparve la roccia grigia chiamata "cammello" a causa della sua forma, avemmo la certezza di aver raggiunto il villaggio. Le spine nel frattempo avevano iniziato a infilarsi nel mio vestito, avevano raggiunto la carne, pungendomi come avrebbero fatto delle vespe o delle api, ma la mancanza della mamma e il desiderio di mangiare la mujaddara mi incoraggiavano, e correvo come se stessi divorando la terra. Il buio cal all'improvviso, tanto da dare l'impressione che quella roccia a forma di cammello avesse nascosto il sole . Non avevamo paura delle iene, ma di Ali il sordo, il pazzo che portava sempre una scatola di legno vicino al petto, talmente attaccata da sembrare una parte del suo corpo che si sollevava e si abbassava seguendo il suo respiro o i suoi lamenti . L'avevamo conosciuto con i capelli spettinati, sperduto nelle zone desertiche intorno al villaggio. Tirava le pietre dietro ai bambini. Eravamo abituati a lui che gridava, urlava, piangeva e minacciava. Si diceva che in passato avesse avuto tantissime monete d'oro, ma una mattina si era svegliato e non le aveva pi trovate: erano sparite dalla scatola di legno in cui le aveva nascoste. Quando le accuse erano ricadute su suo fratello, Ali il sordo era impazzito: si era strappato i vestiti ed era fuggito . S'infuriava ogni volta che si trovava solo, lontano dalla sua casa e dalla sua gente, e temeva che i bambini gli tirassero le pietre. Ma se lo facevano era soltanto perch avevano paura di lui, specialmente quando gridava e balbettava parole incomprensibili: A lui, a terra... a lui, a terra... . Tranquillizzai mio fratello, assicurandogli che Ali il sordo non ci avrebbe fatto del male. Avrebbe capito che noi eravamo i figli della "Timida", come chiamavano mia madre. Lei gli mostrava sempre compassione, lo prendeva per mano ovunque lo trovasse, lo portava a casa nostra, lo faceva sedere sul terrazzo, si inginocchiava davanti ai suoi piedi scalzi e gli toglieva con le pinzette - le stesse che usava per le sue sopracciglia - le spine che gli si erano infilate nella carne, poi gli offriva cibo e bevande. Ci domandavamo se Ali il sordo potesse vederci al buio. Non riprendemmo fiato fino a quando ci apparve da lontano casa nostra e capimmo di essere arrivati. Ma prima di poter gustare a pieno la nostra gioia vedemmo una figura che andava avanti e indietro: doveva essere proprio lui! Invece era nostra madre che ci stava aspettando, senza avere idea della nostra fuga. Ci vide e scoppi a piangere . Quando la riconoscemmo, saltammo di gioia . Siamo tornati e abbiamo portato con noi la mujaddara url mio fratello. Voglio fartela assaggiare, mamma! Lei inizi a cantare, gesticolando e agitando le mani come se si stesse lamentando. Corse verso di noi e noi verso di lei, fino a rifugiarci nel suo petto. Ci accolse tra le sue braccia, pianse mentre ci baciava e respirava il nostro odore. Vi ha rapito? continuava a ripetere. Che Dio rapisca la sua anima! Ci fece entrare in casa e mio fratello rovesci la mujaddara in un piatto. Mangiammo con gusto le fave che ci aveva preparato la mamma e ci sdraiammo tutti e tre nello stesso letto, come facevamo di solito.

Stavolta lei non si stese tra di noi, ma si sedette a soffiare sulle cosce di mio fratello, nel punto in cui si era bruciato con la mujaddara, e sui miei piedi sanguinanti . Come hai fatto a capire che saremmo scappati per tornare a casa? le chiesi . Non sono forse una mamma? mi rispose . Sentivo i versi delle mucche provenire dal nostro orto e mi venne in mente che continuavano a muggire sia che io fossi a casa sia che non ci fossi, senza rendersi conto di quello che accadeva attorno. Le immaginai sdraiate sotto la tettoia del nostro orto, con i grandi occhi che mi fissavano nel buio. Tre mucche e un bue. Mi guardai intorno per rassicurarmi di essere davvero a casa, con mia madre, e non con mio padre e sua moglie. Sentivo la felicit inondarmi, perch tutto era al suo posto. Guardavo il mobiletto, lo specchio, la stanza, la finestra e non riuscii a prendere sonno finch la mamma si sdrai tra me e mio fratello . Sentivo il soffio del vento tra gli alberi, che riempiva di gioia il mio cuore. Il muggito delle mucche mi cullava, come se stessero cantando una ninna nanna solo per me . La porta dei segreti La prima cosa che vidi appena aprii gli occhi fu il disegno sul muro. Scorsi poi il ramo del fico che cercava di intrufolarsi in casa attraverso la finestra, che chiamavamo "la porta dei segreti". Mia madre allung le mani per raccogliere i fichi, che poi spalm sul pane, gi bagnato nell'acqua per ammorbidirlo, e lo spolver di zucchero prima di darcelo da mangiare. Sollev il materasso da terra e lo appoggi al muro. Dovevamo andare al campo vicino agli eucalipti e ci ordin di affrettarci. Forza! Prima che arrivino i mietitori e ci vedano. Non riuscivo a capire perch dovessimo entrare di nascosto nel campo. Forse mia madre, che era chiamata "la Timida", si vergognava di andarci quando c'era altra gente? Invece di vedere le spighe di grano che brillavano sotto le gocce di rugiada e oscillavano cullate dal vento, il campo mi apparve desolatamente vuoto. Mia madre s'inchin sulla terra rossa e raccolse quello che era caduto dalle spighe di grano che i contadini avevano raccolto il pomeriggio precedente. Seguii il suo esempio, afferrai un lembo della gonna e cominciai a raccattare quello che trovavo per terra . Il grano stesso mi guidava: i suoi chicchi brillavano davanti a me come granelli d'oro. Le chiesi se i contadini l'avessero lasciato per noi, ma non mi rispose. Col tempo avrei capito che le falci dei mietitori raccoglievano le spighe e portavano quintali e quintali di grano al silo, lasciando a terra soltanto ci che non valeva nulla. Tuttavia la paura dei serpenti che cercavano ristoro dal sole riparandosi sotto il grano era pi forte della mia nostalgia per le spighe e per le balle e toglieva al campo ogni attrattiva . Quando tornammo a casa, eravamo ormai dello stesso colore della terra. Rovesciammo il contenuto delle gonne in una cesta di paglia su cui mia madre pass prima uno straccio bagnato e poi un altro asciutto, per scongiurare il pericolo che vi fosse entrato un serpente. Mi sped poi in un altro campo a raccogliere cardi. Presi uno straccio che arrotolai intorno alla mano prima di avviarmi. Le spine mi pungevano come aghi .

Quante volte mia madre mi aveva ferito dicendomi che i miei capelli sembravano cardi, perch non glieli facevo massaggiare con l'olio dopo averli lavati. Sistemai i cardi sulla testa e tornai a casa, dove intanto lei aveva gi ridotto il grano in polvere con una piccola macina. Lo impast, accese il fuoco con i cardi che le avevo portato, ci poggi sopra l'impasto e fece delle pagnotte, che noi divorammo una dopo l'altra, in un batter d'occhi . Prima del tramonto ci port in un altro campo a raccogliere i funghi che, soprattutto in primavera, abbondavano tra il grano e l'erba (se avevamo cantato Dai, fungo, cresci un po', vieni qui coi tuoi fratelli); poi ce li friggeva con le uova . Erano ormai passati mesi da quando eravamo scappati con la mujaddara. Non avevamo pi avuto notizie di nostro padre, a parte qualche pettegolezzo che passava di bocca in bocca. Mia madre decise allora di affrontarlo di persona per fargli pagare gli alimenti. Mise a mio fratello dei pantaloni nuovi blu marino e a me un vestito pulito che mia sorella Manifa mi aveva mandato da Beirut. Restammo ad aspettarla vicino a casa, pieni di orgoglio e di felicit perch saremmo andati al mercato a comprare la carne, lo zucchero e la melassa. All'improvviso pass un contadino con un asinello bianco come il latte. Kamil si appiccic al ciuchino e l'abbracci tenendolo per le orecchie. Inaspettatamente il contadino chiese a mio fratello di dargli i suoi pantaloni blu in cambio dell'asinello: lui non ci pens due volte, se li sfil e riemp il suo nuovo amico di baci e abbracci. Mia madre lo sgrid, ma poi ci avviammo, con mio fratello in mutande in sella al ciuchino . Giungemmo al mercato di Nabatieh. Stavolta non pensai alla carne, ma ai braccialetti di cera colorata e ai foulard svolazzanti che finivano con fili simili a zampe di passeri . Cercammo mio padre ovunque, finch un uomo che pregava col suo rosario, preso da compassione, disse alla mamma che pap si era dileguato appena l'aveva vista da lontano. E sparito come un pizzico di sale nell'acqua bollente. Con tutto quello che mi fa penare, mormor mia madre mi auguro che Dio lo faccia sparire dalla faccia della Terra! Al ritorno tocc a me cavalcare l'asinello, mentre mia madre teneva Kamil per mano . Tornammo a mani vuote e la mamma rispondeva a tutti quelli che ci fermavano e le chiedevano se era riuscita a costringere nostro padre a pagare gli alimenti: Confido in Dio. Il suo cuore di pietra. Vorrei vederlo morto! Mi affido al Signore . Le voci giravano e, fra le tante, si era diffusa anche quella che noi immancabilmente andavamo per i campi la mattina presto, senza mai saltare un appuntamento, come fa il sole, per elemosinare dalla terra il grano lasciato agli uccelli. Doveva girare anche la voce che non mettevamo quasi mai piede nei negozi, se non quando piangevo per ottenere il permesso di comprare un po' di melassa, che prima di arrivare a casa avevo gi leccato tutta . Quella notte, sdraiata nel letto, mi domandai: "Le mucche si accorgeranno che accanto a loro c' un asino?". Afferrai l'orecchio del cane che da un po' di tempo

seguiva mio fratello ovunque andasse e aveva preso l'abitudine di dormire accanto a lui, sotto la coperta, nonostante le iniziali proteste di mia madre. Cantai la canzone che mi era venuta in mente quando avevo visto il campo vuoto: Non gioite cos, spighe simili a lunghi capelli . Domani la falce far il suo lavoro, vi graffer la pancia e taglier i vostri lunghi capelli . Ecco qui la fine della canzone . Perdemmo la speranza che mio padre ci aiutasse, ma mia madre non ebbe cuore di vendere le mucche. Inizi perci a lavorare in diverse piantagioni: raccoglieva le arance e i limoni . Portava anche me e lasciava mio fratello dai nostri vicini di casa. Camminavamo per i campi, tagliavamo le strade principali, scendevamo nelle valli. Quante volte avevo desiderato fermarmi e sdraiarmi a terra per la stanchezza e il dolore ai piedi, ma avevo continuato a camminare per non perderla di vista. Non appena arrivavamo alla piantagione, mi trovava un posto sotto qualche albero. Controllava che non ci fossero insetti o qualcosa di umido per terra, poi stendeva una borsa di stoffa per farmi sedere. Quando aveva finito di raccogliere la frutta dagli alberi che mi circondavano, mi spostava in un posto pi vicino a lei. Non mi accorgevo del passare del tempo: cantavo, mangiavo le arance, mi stendevo e schiacciavo le formiche con un bastoncino, cercavo riparo dalle vespe e ascoltavo le canzoni, il rumore dei rami mossi dalla mamma e il fruscio delle foglie . Il sabato era il mio giorno preferito perch la mamma, dopo il lavoro, mi portava sul Litani e ci facevamo il bagno . Camminavamo sulle colline, poi in pianura e nelle valli, fino a scorgere le anse del fiume che scorreva tra le rocce e qualche albero . Mia madre mi portava verso gli oleandri rosa che assomigliavano a casette di rame. Mi affrettavo verso il fiume e restavo in piedi tra le rocce, mentre lei, com'era sua abitudine, cercava una pietra pomice per strofinarmi. Quindi mi prendeva per mano e mi portava dove l'acqua ci arrivava alle ginocchia. Tiravamo su le gonne per non bagnarci e notavo la candidezza della mia carnagione rispetto ai ciottoli e al colore degli alberi. Mia madre aveva paura che io scivolassi e che l'acqua mi portasse via, e anch'io ero vittima della stessa fobia, che non mi passava finch non la vedevo sorridere. Lo faceva raramente e la vedevo ridere ancor pi di rado. Si strofinava il corpo infilando la mano in una tasca senza fondo del suo abito. Una volta mi stup mettendosi a cantare: Tenera, tenera.. . canta con me, fammi compagnia . Ecco che lei si sveglia dal suo sonno: oh Signore non sono una pazza, non sono una pazza.. . Mi vers con le mani l'acqua sul corpo e sui capelli, invocando il Signore e ringraziandolo. Fece lo stesso su di s, poi sorrise, scacciando l'ombra di mio padre che sembrava sovrastarci. Uscimmo dall'acqua e iniziammo a passeggiare lungo le sponde del fiume, raccogliendo foglie di acetosa che divoravamo col pane e un pizzico di sale. Mia madre ringrazi ancora una volta Dio e fu l'ultima volta che la sentii farlo prima che abbandonassimo casa nostra, le mucche, il cane,

l'asino, i campi, il Litani e la mia amica Melina, e andassimo a vivere nella capitale. Quella volta mi fece sedere e mi disse: Saluta il Litani. Vorrei portarvi a Beirut. Non voglio farvi vivere di cicoria selvatica, indivia ed erbacce! . Qualche giorno dopo vendette le mucche, piangendo al momento della separazione. Lasci il ciuchino alla nostra vicina, una beduina che si chiamava Rabiha, cio "vittoria", perch, secondo la mia teoria, vinceva qualsiasi cosa. Il cane che dormiva vicino a mio fratello sembrava aver capito che i giorni che avrebbe potuto passare insieme a noi erano ormai contati e si trov quindi un'altra casa. Pensai che fossimo come quel cane e avremmo fatto anche noi la stessa cosa . Salutai la mia amica Melina, che chiamavo cos perch il suo vero nome era Tuff ah, "mela", con cui giocavo a biglie con i noccioli di albicocche e al gioco delle cinque pietre usando gli ossicini delle pecore. Saltavamo sul materasso o giocavamo a zafferano: ognuna di noi metteva nel naso due bastoncini e li sbattevamo strillando: Rosso, rosso zafferano! Dio, fa' scorrere il mio sangue!. Quando il sangue fuoriusciva dal naso di tutte e due eravamo felici, perch questo significava che Dio aveva accolto la nostra preghiera e quindi avrebbe accolto anche quella di aprirci le porte del paradiso, quando fosse giunto il momento . Melina pianse, nonostante le avessi promesso che non sarei mancata a lungo, solo tanti giorni quanti sono i miei denti, come sentivo dire agli adulti. Le lasciai la mia collezione di "cianfrusaglie": il pettine rosso, i cui denti erano quasi tutti consumati o rotti, i sonagli e un lecca lecca, cocci di piatti rotti, che chiamavamo "vassoi" e che avevo raccolto in piazza, nelle case e negli orti per "giocare a casetta". La scongiurai di aspettarmi fino al ritorno da Beirut. Giura sull'imam Ali e sull'imam al-Husayn che non giocherai con nessun'altra! Mi mancherai, Kamila, giuro. Non dimenticarti di me. Anche tu mi mancherai, Melina. Non farti mangiare da nessuno prima che io torni. Poi mi domandai se a Beirut avrei trovato gli eucalipti: non avrei smesso di ringraziare Dio se avessi potuto tenere le loro foglie soffici, cadenti e lisce in una mano e i miei capelli nell'altra . Chiusi gli occhi e chiesi a Dio di rendere i miei capelli lunghi come un eucalipto e le mie ciocche lisce e soffici come le sue foglie. Mi domandai anche se a Beirut ci fossero le rose: le avrei raccolte come facevano le ragazze pi grandi, avrei messo le loro foglie in un po' d'acqua e le avrei lasciate una notte all'aperto, aspettando che la rugiada vi cadesse. Le avrei riportate subito in casa, per paura che un serpente le raggiungesse prima di me. Avrei poi massaggiato il mio viso con l'acqua di rose, davanti alla cassettiera con lo specchio, e ammirando il mio riflesso avrei ripetuto: Oddio, quanto sono bella! . Quando seppi che a Beirut non c'erano serpenti ma solo specchi, e per giunta enormi, mi sentii sommergere dalla felicit. Chiesi a mia madre se a Beirut ci fossero anche i limoni, perch avevo l'abitudine di strofinarli contro il muro prima di mangiarli con Melina . L'ultima notte che passammo a casa, prima di andare a letto mi affacciai nel nostro orto per assicurarmi che le mucche non fossero tornate, perch, mentre

cercavo la loro nuova casa per salutarle, Melina mi aveva confidato di aver sentito dire a sua madre che le mucche sono come i piccioni: Tornano sempre alla loro vecchia casa. Ma non vidi nulla . Beirut, 1934 Andammo a Beirut con una Ford A del 1928 e non a piedi come faceva mia madre ogni volta che sentiva la mancanza dei suoi quattro figli che vivevano l e ci lasciava da sua sorella a Nabatieh per andare a trovarli. Impiegava quattro giorni per arrivare: i piedi le si riempivano di vesciche, che guarivano per poi riapparire quando tornava da me e mio fratello Kamil, a Nabatieh, e alla fine scoppiavano come fossero palloncini, ma senza fare quel rumore cos caratteristico . Sapevo di avere due fratellastri e due sorellastre, nati dal primo marito di mia madre, che era stato ucciso. Quando qualcuno nominava Beirut davanti a mia madre, la sua faccia cambiava colore e lei si metteva le mani sulle guance, cantando: Beirut, oh Beirut, tu che hai rubato i miei figli! . Sentire quella canzone ci confondeva le idee e Kamil diceva: Ma, mamma, i nostri fratelli si sono sposati a Beirut.. . Non che Beirut ce li ha rubati! . Si potevano contare sulle dita di una mano le volte in cui le mie sorellastre e i miei fratellastri erano venuti a trovarci nella nostra casa di Nabatieh, tuttavia, nonostante si fosse trattato di visite molto diradate, tutti e quattro avevano lasciato in me un ricordo vivido, come un'impronta. Mi avevano colpito soprattutto per i loro lineamenti e la carnagione scura, cos diversi da me, Kamil e mia madre, che eravamo di pelle pi chiara. Non sapevo bene come, ma col passare del tempo avevo ricomposto i pezzi delle loro storie, senza per mai credere alla realt dei fatti: non riuscivo proprio a concepire che mia madre avesse potuto dare alla luce qualcuno prima di me e mio fratello Kamil . Era stata sposata con un uomo che apparteneva a una nota famiglia di Nabatieh alta, che si diceva risalisse al periodo delle crociate, i cui uomini erano rinomati cavalieri dalle mani coperte da guanti d'oro. Il marito di mia madre, per, era soltanto un mulattiere e le sue mani potevano tenere al massimo le redini dei muli. Faceva la spola tra i villaggi del Sud e Beirut. Avevano costruito insieme la casa in cui vivevamo, avevano avuto quattro figli ed erano vissuti in pace fino all'inizio della Seconda guerra mondiale, quando, per il taglio dei viveri imposto dagli ottomani, era scoppiata una terribile carestia. Le locuste avevano fatto il resto . La Turchia aveva costretto tutti gli uomini sotto l'autorit dell'impero ormai alla fame a ingrossare le file del suo esercito. Il marito di mia madre aveva deciso di disertare e una sera erano fuggiti sui loro tre muli. Mia madre aveva affidato alla famiglia del marito la sua collana, gli orecchini e le due monete d'oro che usava come fermagli. Avevano nascosto tutte le lire d'oro nel fondo della bisaccia di uno dei muli e le avevano coperte di viveri, per ingannare i ladri o i briganti che avrebbero potuto incontrare in quelle strade di campagna . Avevano percorso le strade pi impervie, tra le montagne e le valli, per evitare le pattuglie ottomane nei pressi di Ma'an, in Giordania. Poco prima di arrivare sani e salvi, tuttavia, un gruppo di briganti li aveva attaccati e aveva rubato il

mulo con le lire d'oro. Mia madre e il marito si erano disperati e avevano pianto a lungo ma, invece di sporgere immediatamente denuncia, avevano aspettato un paio di giorni. I gendarmi avevano mostrato loro alcuni uomini per il riconoscimento, ma mia madre, "la Timida", non era riuscita a scrutare bene il loro volto, mentre il marito non era certo che fossero loro . Avevano tirato a indovinare, indicandone prima uno, poi un altro, senza arrivare ad alcuna conclusione . A notte fonda uno di quei banditi aveva ucciso il marito di mia madre e, se da un lato questo aveva messo fine una volta per tutte alle loro incertezze, dall'altro aveva rappresentato per lei l'inizio di una vita di stenti. Tornata in Libano con i figli e i due muli rimasti, era corsa a riprendersi ci che aveva affidato ai parenti del marito per rivendere tutto in cambio di qualche soldo, ma si era vista sbattere la porta in faccia. I parenti avevano sostenuto che quei beni servivano a pagare un debito che il marito aveva contratto prima della fuga in Giordania. Mia madre non si era arresa e aveva continuato a bussare alla porta per chiedere aiuto finch non era stata picchiata e cacciata . Era tornata a casa maledicendo la sua sfortuna e ringraziando il Signore di possedere ancora un tetto per lei e i quattro figli, sebbene anche la casa fosse stata completamente svaligiata durante la loro assenza. Aveva iniziato subito a lavorare nei campi, l'unica cosa che sapesse fare, per i suoi sforzi non bastavano a mantenere i figli, quindi non aveva trovato altra via d'uscita se non bussare alle porte dei notabili e dei politici locali per raccontare la sua storia. Per fortuna uno di loro si era offerto di aiutarla a iscrivere i suoi figli a un convitto americano di beneficenza, che si trovava a Sidone . Le visite erano permesse soltanto una volta al mese, ma mia madre, ogni volta che sentiva la loro mancanza, camminava anche per due, tre ore. Si metteva sotto le finestre del dormitorio femminile e chiamava le due figlie; non appena loro si affacciavano, iniziava a piangere. Poi si dirigeva verso quello maschile e chiamava i due figli. Se non si faceva vedere nessuno, tirava dei sassolini contro la finestra e, quando finalmente si affacciavano, scoppiava in lacrime . Era stata costretta a dare in affitto la stalla del piano di sotto, dove c'erano il giardino e l'orto, a un uomo che aveva cambiato idea dopo qualche mese e l'aveva lasciata nuovamente senza fonte di sostentamento, finch non era arrivato uno sheikh che aveva studiato all'Universit al-Azhar, al Cairo, ed era tornato in Libano, la sua patria, con l'intenzione di aprire una scuola per insegnare ai bambini a scrivere, a leggere e a recitare il Corano. Lo sheikh aveva affittato due stanze invece di una. La sua fama l'aveva preceduto, perch era sposato con una turca dalla bellezza leggendaria, di nome Hanim. Non appena era arrivata a Nabatieh alta, le donne dei dintorni erano accorse ad ammirarne il viso bianco e i capelli corvini, e ad ascoltare il suo accento turco. Lo sheikh aveva un solo figlio, che si occupava dell'insegnamento e della gestione della scuola e che aveva iniziato a corteggiare mia madre, l'orfana alta, dagli occhi grandi e dai capelli scuri .

Dal canto suo, anche lei era attratta dal giovane, perch era diverso da tutti gli uomini della famiglia e del villaggio: era colto, spiritoso, un poeta addirittura, e sapeva a memoria le poesie dell'Arabia preislamica. Nonostante fosse pi grande di lui di dieci anni, mia madre aveva acconsentito a sposarlo dopo avere avuto la certezza che lui avrebbe contribuito a crescere i suoi quattro figli. Il giovane la chiamava Khadija: forse sperava che fosse ricca e intraprendente nel commercio quanto la prima moglie del profeta Muhammad . Mia madre aveva deciso di ritirare i figli dalla scuola e di farli vivere con s, nella speranza che i rimorsi di coscienza per il suo secondo matrimonio la lasciassero in pace. Era andata a chiamarli uno per uno nei loro dormitori e li aveva invitati a saltare dal muro per tornare a casa insieme a lei. Ma i quattro figli non provavano alcuna simpatia per il nuovo marito e non riuscivano ad accettare l'idea che lei si fosse risposata. D'altronde erano ragazzi seri e sobri, che soffrivano per la mancanza del padre e l'abbandono della scuola: come avrebbero potuto sopportare un secondo marito, che oltretutto era un vero pagliaccio? Infatti, dopo qualche tempo, il primogenito aveva lasciato il Sud per cercare lavoro a Beirut. Il fratello minore, che faceva il ciabattino ambulante, lo aveva seguito di l a pochi mesi, dopo essere tornato da un viaggio con il patrigno. La causa della sua partenza era stata uno scherzo che, invece di farlo ridere, lo aveva spaventato. Il nuovo marito della madre gli era saltato addosso con il volto coperto, - gridando: Dammi tutto quello che hai o ti sgozzo! . Il ragazzo era stato assalito dal panico: i ricordi di quello che era accaduto al padre in Giordania erano ancora freschi nella sua memoria . Si era girato per cercare aiuto nel patrigno e non lo aveva trovato, ma lo aveva sentito invece ridere e sghignazzare . Aveva quindi scoperto che il ladro era lui, che aveva tutta questa voglia di scherzare a mezzanotte, dopo una giornata lunga e faticosa . Di l a pochi mesi anche le due sorelle avevano raggiunto i fratelli a Beirut, lasciando la casa a mia madre, al marito e a mio fratello Kamil. Tre anni dopo ero nata io . Beirut, immaginai mentre ero in macchina, doveva essere dietro quella montagna, quella valle e quella linea blu. Tutto scomparve dietro di me e per la prima volta vidi il mare. Pensai che dovesse essere il fratello del cielo e osservai il punto in cui si incontravano e poi si separavano. Il mare prendeva la sua strada, allungandosi fin dove il mio sguardo poteva arrivare. Mi chiesi se l'aria che sbatteva sulla mia mano fuori dal finestrino fosse sempre la stessa o se cambiasse ogni volta che la macchina accelerava . Raggiungemmo Beirut, che era pi grande del mercato di Nabatieh, e pensai che dovesse essere il mondo intero . Non vidi grossi sacchi da cui uscivano granelli di riso e zucchero, n gente che correva dietro a raccogliere quello che cadeva o cercava di leccare la melassa dai barili. Vidi invece persone che andavano e venivano senza sosta, senza scambiarsi neppure due parole, come accadeva invece a Nabatieh. Vidi gente che si affacciava dai balconi, che all'inizio credevo non facessero parte delle case .

Chiesi a mia madre: Come fa la gente a viverci, se non hanno il tetto? E anche se il tetto c', non manca qualche parete? . Le case avevano le tegole di pietra rossa, l'una accanto all'altra, come chicchi di melograno. C'erano tante aperture, alte, che la gente chiamava finestre e non porte dei segreti, come facevamo noi, e lucernari rotondi, che immaginavo fossero casette per i piccioni, di cui la citt era piena. Le piante di Beirut erano diverse da quelle che mi erano familiari, ma dopo qualche giorno avevo memorizzato i loro nomi: l'albero dei rosari, il colchico autunnale, la palma, il gelso, il nespolo . Arrivammo a casa di mia sorella Manifa e di suo marito Abu Hussein. Portavamo con noi la scatola di legno di mia madre, intarsiata con velluto, rame e stagno, che conteneva tutti i nostri averi: i vestiti di mia madre, due paia di pantaloni di mio fratello, alcune sciarpe, qualche foglia di issopo, alcuni fiori medicinali e della maggiorana. Mio fratello Ibrahim, che aveva sempre il muso lungo, e sua moglie Khadija arrivarono poco dopo. Soltanto un giardinetto separava casa loro da quella di Manifa . A Beirut mia madre non era pi costretta a cercare di notte bietola selvatica e malva per sfamarci, come faceva nell'orto . Non ci sedemmo sotto i sacchi di Beirut a mangiare e leccare quello che cadeva, ma ci mettemmo intorno a un vassoio poggiato a terra. La mamma, mio fratello Kamil e io allungavamo le mani titubanti, nonostante il cibo fosse incredibilmente pi abbondante di quello che mangiavamo al Sud. Ogni volta che allungavo una mano verso il piatto, guardavo mio cognato che ci spiegava come mangiare: Mettete la faccia sopra al piatto. E un peccato far cadere queste briciole. Le briciole di cui parlava erano in realt grandi quanto delle ciglia! Aveva un accento strano, che non avevo mai sentito prima - non si sentiva per nulla la sua origine meridionale - ed era basso come mio padre . Arriv poi il nostro fratellastro pi grande, Hasan, che amava suonare il liuto. Baci la mano della mamma e le port uno sfilatino simile a un mattarello, il cui nome, baguette, mi sarebbe rimasto impresso per sempre. Ra'ufa, l'altra sorella, ci raggiunse poco dopo. Non appena vide mia madre, l'abbracci e si mise a piangere, lamentandosi con lei di suo marito, che giocava e scommetteva sui cavalli. La sentii dire che i suoi figli morivano di fame e che vivevano come barboni. Non riuscivo a capire come una cosa del genere potesse accadere anche a Beirut . Con il passare dei giorni non mi interessai a nessun membro della famiglia, ma preferii concentrarmi sui dolci. Farfugliavo i loro nomi: pasticcini, dolcetti alle nocciole e al sesamo, che il venditore esponeva in una vetrina mobile urlando: Nocciole... Nocciole buone.... Pregai mia madre di darmi mezza lira, piansi davanti a mia sorella, ma non ci fu verso di convincerle . Corsi comunque dal venditore, piazzandomi davanti a lui con occhi imploranti e affamati, sbavando come un cane, con gli zoccoli di legno ai piedi. Tutti gli altri bambini avevano belle scarpe, compravano i dolci e li leccavano . Vuoi qualcosa? Perch non compri niente? mi chiese il venditore .

Sto solo guardando risposi. Quando vidi che non voleva proprio regalarmi niente, aggiunsi: Nessuno mi d un soldo . Vengo dalla campagna e mio padre morto!. Il venditore mi guard come se non avessi neanche fiatato e provai profondo odio nei suoi confronti . La smania per quei dolci si spense ben presto e venne sostituita da quella per i fermacapelli, le spille e i braccialetti colorati che vedevo addosso alle altre ragazze. Cercavo di ottenere un quarto o mezza lira da ogni persona che veniva a visitare mia sorella ma, nonostante tutti i miei sforzi, alla fine non ottenevo in risposta altro che le solite frasi di circostanza: Magari... domani... ad averceli.... Non osavo chiederli a mio fratello Ibrahim, Muso lungo, perch mi osservava sempre un po' infastidito e borbottava tra s ogni volta che allungavo la mano verso un grappolo d'uva e me lo portavo alla bocca. Chiesi sussurrando a Kamil, mentre la mamma dormiva come al solito in mezzo a noi, se avrebbe preferito rimanere a Nabatieh. La sua risposta mi zitt: Avresti fatto in tempo a morire mille volte prima di poter leccare di nuovo la melassa. Non volevo dirgli che la mamma era cambiata, che mi sgridava perch camminavo troppo in fretta, perch saltavo perch dicevo di aver fame, cosa che prima non faceva mai . Notai anche che parlava sempre di meno e sembrava essere diventata un pezzo d'arredamento; raramente sbuffava, sospirava o esclamava: Dio mio!. Un pensiero attravers la mia mente: se quando eravamo ancora a Nabatieh avessi preso un coltello e avessi ingannato il macellaio, tagliando un bel pezzo di carne dalla pecora appesa fuori del suo negozio, saremmo stati ancora l e avremmo avuto nostra madre tutta per noi . Osservavo le bambine della mia et e desideravo ardentemente giocare con loro, in particolare con una che mi guardava sempre con aria di disprezzo, forse per i miei zoccoli di legno. Come potevo nascondere il mio vestito, che impallidiva davanti a quelli delle ragazze di Beirut? Cercai di guadagnarmi la sua simpatia impietosendola: Non sono di Beirut. Mio padre morto. Nessuno mi d un soldo . La tua famiglia povera, mi rispose girandosi di spalle . Stavo per dirle che io ero povera, era vero, ma nel villaggio, invece adesso a Beirut mangiavo lo zucchero e la melassa, ma preferii tacere . A casa tutti lavoravano: mia madre aiutava mia sorella con i bambini e le faccende domestiche, mentre lei faceva la sarta . Stava piegata sulla macchina per cucire tutta la giornata e ricamava fazzoletti e sciarpe che l'indomani il marito avrebbe venduto nei mercati. Presi la decisione di trovare dei soldi, a qualsiasi costo, e provai nuovamente a implorare mia madre e mia sorella. Sarebbe stato meglio se non l'avessi fatto, perch non solo non ottenni niente, ma in pi mio cognato decise che dovevo darmi da fare anch'io, bussando alle case del quartiere per vendere bavaglini impermeabili per neonati e bambini . Obbedii riluttante alla sua richiesta soltanto dopo che mia madre, tentando di convincermi, mi disse: Tua sorella e suo marito non sono tenuti a mantenerci. Gi tanto se ci fanno dormire qui .

Camminavo per il nostro quartiere e in quelli vicini, salivo scale e rampe, entravo nei giardini delle case e bussavo alle porte. Una volta la mia attenzione venne attirata da un cortile al centro del quale c'era una fontana, che mi ricord quanto ero felice ogni volta che potevo disegnare sulla sabbia con la mia pip . Bussavo alle porte pregando i proprietari di comprare almeno un bavaglino. Insistevo e improvvisavo scene pietose, senza muovermi fino a quando mi compravano qualcosa o mi sbattevano la porta in faccia. Passavo da una casa all'altra con un nodo alla gola, di cui non riuscii a capire il motivo finch una signora mi apr la porta di casa sua e mi sorrise. Sentendo che la imploravo di comprare un bavaglino, mi chiese scandalizzata se avessi una famiglia e chi mi avesse mandato . Alla mia risposta, si mise le mani nei capelli e disse, con un accento a me sconosciuto: Ahi ahi ahi! Non ci posso credere! E la tua famiglia non ha paura per te? Una bambina bella come il sole... Ma quanti anni hai? . Nove le risposi . La signora chiam un'altra donna e le raccont quello che ci eravamo dette. Poi si mise di nuovo le mani nei capelli e grid: Non ci posso credere! Signore, abbi piet di noi! In vita mia non mi mai capitato di vedere bambine girare di casa in casa per vendere... E dice pure di avere una famiglia! Ma ti rendi conto?. Dopo di che compr tutti i miei bavaglini, mi diede un pizzicotto e si raccomand: Ascolta, piccola, stai attenta! Capito? Non farti imbrogliare da nessuno. Se non una donna ad aprirti la porta, tu non entrare . Corsi da mia madre e le raccontai quello che mi aveva detto la donna e le chiesi perch nessuno si era raccomandato con me di stare attenta e di scappare se ad aprirmi la porta fosse stato un uomo. Le domandai anche perch invece non mi avessero mandato a scuola, pensando che dovessero mandarmi da qualche parte per non stare sempre chiusa in casa, perch Beirut non era Nabatieh. Lei si limit a sospirare e capii che non era una questione che riguardasse lei o mia sorella, ma che mio cognato e mio fratello Muso lungo non mi avrebbero mai comprato le penne e i quaderni per andare a scuola. Mi misi a piangere e a lagnarmi . Mia madre e mia sorella corsero verso di me per farmi smettere, cercando di spaventarmi dicendo: Arriva l'uomo nero!, riferendosi a mio cognato, esattamente come facevamo a Nabatieh con il ghoul, la iena e il diavolo . Anche i piccioni vanno a scuola Qui anche i piccioni vanno a scuola, lo giuro su Dio, sul Profeta e sull'imam Ali! dissi a mia madre. Da quando eravamo arrivati a Beirut vedevo stormi di piccioni d'allevamento formare cerchi nel cielo, separarsi e di nuovo unirsi, volare verso il cielo e poi verso la terra, cambiando direzione secondo le indicazioni del loro proprietario, che batteva una frusta contro la piccionaia, fischiava o agitava a mo' di insegna un pezzo di stoffa nero avvolto intorno al braccio. L'allevatore di piccioni era un parente della prima bambina che mi aveva rivolto la parola a Beirut, ma soltanto dopo avermi invitata, se volevo diventare sua amica, a togliere gli zoccoli e a mettermi un paio di scarpe .

Sognavo di essere una studentessa che ascoltava le indicazioni della sua maestra e si sedeva in classe con altre ragazze della stessa et. Non rivelai a nessuno che in realt desideravo andare a scuola per non vendere i bavaglini e per non aiutare mia sorella nelle faccende domestiche. Pregai mio fratello Hasan, il liutista, di intercedere per me, ma lui si rifiut di intervenire, dicendo che l'avrebbe fatto volentieri se avesse avuto anche solo un quarto dei soldi di nostro fratello Ibrahim e di nostro cognato Abu Hussein. Capii che dovevo badare da sola a me stessa, perci, quando l'indomani mia sorella mi chiese di salire in soffitta per prendere i cinque bavaglini da vendere, in piedi davanti a tutti quei mucchi di roba mi ritrovai a immaginare gli spiccioli che luccicavano e tintinnavano, e decisi quindi di prenderne dieci, nascondendone cinque sotto il vestito e tenendo gli altri in mano. Uscii e cominciai a girare di casa in casa come al solito, tentando di suscitare la compassione delle persone che incontravo. Alcuni si mostravano duri con me, ma riuscii ugualmente a piazzarli tutti . Non tornai immediatamente a casa, ma corsi dal venditore di dolci. Gli consegnai i soldi che avevo guadagnato con i cinque bavaglini in pi e gli indicai i dolcetti di nocciole, lo zucchero filato candido e le caramelle gommose. Mi precipitai verso la bambina che mi guardava con disprezzo e le mostrai i miei dolci, pregando in cuor mio l'imam Ali che lei allungasse la mano e che guadagnassi cos la sua amicizia per giocare insieme. La ragazzina in effetti mangi tutto quello che avevo, gioc un po' con me e poi si allontan . Intanto mi ero convinta che la mamma non era pi mia n di mio fratello Kamil. Era diventata la mamma solo degli altri quattro: faceva tutto quello che Ra'ufa, suo marito e Ibrahim le chiedevano. Portava i loro problemi a letto insieme a noi: i suoi sospiri e i suoi mormorii aumentarono. Non capivo nulla di quello che borbottava, tranne: Fa niente, tesoro, non ti preoccupare. Le veniva l'ansia per la stitichezza di mio nipote o per mio fratello Hasan, che lavorava in un forno, perch temeva che un giorno sarebbe finito bruciato, e si preoccupava perch il muso di mio fratello Ibrahim si allungava ogni volta che vedeva una di noi due . La stanchezza cominci a esaurirmi e a non lasciarmi forze per pensare ad altro che alla notte. Non vedevo l'ora di andare a letto e di dormire accanto a mia madre, godendo del suo calore e della sua tenerezza. Solo nel sonno tutte le responsabilit abbandonavano le mie piccole spalle, soprattutto dopo che mi fu affidata un'altra missione, oltre alla vendita dei bavaglini: dovevo accompagnare il figlio di mia sorella e quello di mio fratello Muso lungo alle rispettive scuole. Tornavo poi a casa, dove mi aspettavano i bavaglini e le sciarpe. Giravo tutto il quartiere per venderli, poi andavo a prendere il pranzo da portare nelle due scuole e ritornavo ad aiutare Manifa, che aveva nel frattempo partorito un altro Bambino; cullavo il neonato e lavavo i pannolini, che stendevo ad asciugare sul balcone, quindi correvo a recuperare i miei nipoti a scuola . Questa era l'unica cosa che facevo con entusiasmo, perch all'uscita spettavano loro dei dolcetti e, gi che c'ero, ne davano un pezzo anche a me; inoltre avrei potuto tirare qualche calcio al pallone con cui giocavano vicino a casa, quando finiva lontano in uno dei tanti fossati che ci circondavano, tanto che il quartiere

veniva chiamato "il fossato profondo". Una volta corsi verso uno di quei fossi a raccogliere il pallone, lo toccai e lo strinsi al petto contenta, ignorando le urla dei miei due nipotini: tanto non l'avrei comunque passato subito a loro dopo averlo raccolto! Lo tenni stretto a me perch gli altri bambini mi vedessero e pensassero che fosse mio e che i miei genitori, che magari vivevano in una delle grandi case decorate di metallo, dai balconi ampi e dalle vetrate colorate, l'avessero comprato per me. Agitai il braccio verso un balcone su cui non c'era nessuno, ma l'urlo dei miei due nipoti mi riport subito alla realt: dovevo sbrigarmi a passare il pallone . Si avvicinava l'Aid al-Adha, la festa del sacrificio, e sentii le bambine del quartiere parlare dei loro vestiti nuovi. Chiesi alla mamma notizie del mio, ma lei mi disse di pazientare un po', perch Ibrahim, Abu Hussein e il marito di Ra'ufa stavano ancora discutendo la questione. Ibrahim suggeriva ad Abu Hussein di dividere il costo della stoffa, perch mia sorella avrebbe potuto disegnarlo e cucirlo, mentre Abu Hussein insisteva a comprare un vestito usato, perch lei era troppo impegnata. Ed effettivamente fu proprio cos che andarono le cose . Mi venne un'idea: mi ricordai che una volta Khadija mi aveva fatto portare in giro di casa in casa sua figlia, che aveva appena compiuto tre anni e non riusciva ancora a camminare, per chiedere in elemosina qualsiasi cosa, nella speranza che accadesse un miracolo e che la bambina si alzasse. Pensavo che queste credenze non esistessero a Beirut, ma soltanto a Nabatieh, dove eravamo abituati a mendicare un pezzo di pane in sette case diverse per guarire dall'orzaiolo, che chiamavano "il ladro dell'occhio", perch rubava la vista. Quella volta avevo cominciato a girare con mia nipote, ripetendo ogni volta che qualcuno mi apriva la porta: Date qualcosa a questa bimba paralizzata perch si alzi, e mi ero stupita che tutti trovassero la mia richiesta perfettamente normale e le offrissero cibo, frutta e dolci . Qualcuno, quindi, avrebbe dovuto spingermi in un carrellino e bussare di casa in casa, chiedendo alla prima porta: Date a questa bimba paralizzata un paio di scarpe nuove per l'Aid, perch si alzi, alla seconda: Date a questa bimba paralizzata un vestito nuovo per l'Aid..., alla terza: Date a questa bimba paralizzata un paio di calzini bianchi e una borsetta di paglia per l'Aid... . Quando vidi il vestito che mi avevano preso, con una macchia marrone sulle braccia e una riga gialla intorno al collo, non potei fare a meno di scoppiare a piangere. Le scarpe, usate anch'esse, avevano tacchi grossi e placche di acciaio . Mi tirai i capelli e giurai sul profeta Muhammad e sull'imam Ali di boicottare l'Aid. Sfogai tutta la mia rabbia contro mia madre: Digli di comprarmi un vestito nuovo! Diglielo!. Mio cognato mi sgrid: Ogni giorno una festa. Ogni giorno in cui obbediamo a Dio una festa e non solo l'Aid! . Era consuetudine dare un pensierino ai piccoli della famiglia il primo giorno dell'Aid. Mia madre e Manifa mi diedero qualche spicciolo, mentre Ibrahim e Abu Hussein si rifiutarono. Misi i soldi in tasca e presi la mano di mio nipote perch tutti capissero che stavamo andando a trovare mio fratello, il liutista. In realt ci dirigemmo verso la pineta, dove c'erano i giochi per i bambini,

nonostante fossi pienamente consapevole che se fossi stata scoperta sarei stata punita severamente, data la distanza dalla nostra zona . Per strada incontrai la bambina alla quale avevo offerto i dolci, che inaspettatamente stese il mignolo e cominci a canticchiare: Calci e pugni, a morte qullo che mi parla! . Non volli camminare accanto a lei, con il mio vestito e le mie scarpe orribili, e cos restai indietro insieme a mio nipote Hussein, di cinque anni. Vidi un gran fermento in pineta, e poi i cetrioli e le rape sottaceto. Comprai di tutto, anche una granita. Andai sull'altalena insieme a Hussein. Volammo in alto e i ragazzini di Beirut urlavano: Che coraggiosi! Ol... . Prima di entrare in casa, pulii bene le nostre scarpe, per evitare che la terra rossa rivelasse quello che avevamo fatto, e avvertii mio nipote che il piccolo segreto della pineta sarebbe dovuto rimanere tra di noi, altrimenti sarei stata punita . La rosa bianca Qualche tempo dopo ottenni il permesso di accompagnare mio fratello Kamil in citt, dove vendeva tutto quello che occorreva per cucire, e gridai: Kamil! E questa Beirut e non il fossato profondo, come pensavamo noi!. Vidi il tram che guidava mio fratello Ibrahim, le macchine con i loro clacson, le carrozze, le luci accese anche di giorno, il venditore di succo di liquirizia con i cimbali tintinnanti, le donne bionde a capo scoperto. Mi stupii di quanti uomini indossassero i sirwal, i pantaloni larghi con il cavallo basso tipici della campagna: sembrava che non mi fossi mai mossa dal Sud! Non sapevo dove guardare prima: volevo toccare tutto, a partire dai formaggi di ogni tipo e colore fino all'oro esposto nelle gioiellerie . Rimasi incantata davanti a un'immagine enorme, grande come un palazzo, che ritraeva il viso di una donna triste, un uomo col tarbush e una rosa bianca tra di loro. un film mi spieg Kamil. Rimasi immobile davanti a quella visione, senza spostarmi di un millimetro. La donna era bellissima e sorrideva mostrando i suoi denti bianchi. Le labbra erano truccate con un filo di rossetto (e non con la buccia delle mandorle, come facevamo io e Melina) e i capelli le incorniciavano il volto. Mi tolsi dalla testa il velo con cui mio cognato mi aveva costretta a coprire i capelli e cercai di imitare l'acconciatura della bella signora. Mio fratello mi diede un colpo per scuotermi e mi tir la mano. Svoltammo in una viuzza laterale, ma quell'immagine continu a inseguirmi, ovunque andassimo . Mi perseguitavano soprattutto le lacrime che scorrevano sulle guance della donna, simili a bolle di sapone . Giunta a casa, corsi a raccontare quello che avevo visto in piazza dei Martiri a mia sorella Manifa, china sulla macchina per cucire, e le parlai in particolare di quell'immagine, pi grande di ogni altra. Mi rispose che tutto il mondo stava impazzendo per quel film, La rosa bianca. Implorai senza tregua Manifa di portarmi a vederlo, per giorni, anzi per settimane, finch lei, esasperata, accett a condizione che non lo dicessi a nessuno, neanche a nostra madre. Sentirla raccontare al marito che sarebbe andata a trovare Ra'ufa e che mi avrebbe portato con s mi tranquillizz, perch mi dissi che se anche mia sorella, che pregava e

digiunava a Ramadan, mentiva al marito, io non sarei finita all'inferno, come pensavo, a causa di tutte le bugie che dicevo . Entrammo al cinema al buio, ma riconobbi ugualmente una grande sala con tante poltrone, attaccate l'una all'altra . Si sentiva una musica ad alto volume, che chiss da dove proveniva: non vedevo nessuna radio. Poi, all'improvviso, una luce abbagliante apparve sul muro, insieme ad alcune righe . Mi guardai attorno per capire da dove venissero e scoprii che tutto era emanato da un fascio di luce e da un fumo strano che uscivano da un buco nel muro, proprio dietro di noi. Quando vidi una donna, un gatto e alcune persone muoversi davanti a noi, dissi a Manifa: come le scatole del "Mondo nuovo" che abbiamo visto al villaggio, solo che qui i personaggi si muovono!. Una ragazza giocava col gatto mentre una donna le intimava di smetterla. Apparve poi un uomo, che dapprima baci la figlia, quella che giocava col gatto, e poi la donna che la sgridava. Un giovane di nome Jalal (interpretato da Muhammad Abd el-Wahab), con un tarbush in testa, raccoglieva i grani di una collana sparsi a terra. Nel frattempo, cantava: Oh, nessuna giacchetta... E io piansi.... Si susseguirono alberi, uccelli e poi un fiume, infine un vecchio che parlava col giovane e triste Abd el-Wahab. L'ultima scena del film vedeva il protagonista cantare e piangere, mentre i bambini giocavano in giardino . Uscimmo dalla sala ancora immersa nel buio. Mia sorella si affrett ad alzarsi e io cercai di imitarla, ma senza riuscirci, perch in realt volevo rimanere attaccata alla poltrona . Perch parlano con questo accento strano? le chiesi . Capisco a stento quattro parole! Parlano in dialetto egiziano mi rispose . E cos' il dialetto egiziano? Quando mi spieg che esisteva un paese chiamato Egitto, fui sul punto di dirle che volevo portare una giacca a Muhammad Abd el-Wahab, perch lui cantava in lacrime: Oh, nessuna giacchetta... E io piansi..., ma ebbi paura che lei non mi permettesse di farlo. Pensai: "Potrei rubare la giacca da tranviere di Ibrahim! ". Cambiai idea non appena mi vennero in mente il colore cachi e le macchie di sudore sotto le braccia. "No, meglio, potrei rubare quella di Abu Hussein!" Ma anche stavolta fui costretta ad abbandonare l'idea: quella giacca era corta e stretta. Anche se Abd elWahab se la fosse messa, non gli sarebbe arrivata neppure alla vita e le maniche sarebbero state troppo corte. E poi Abu Hussein pregava e recitava il Corano, mentre Mu