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1 5° INTERHOSPICE LA SPIRITUALITA’ IN HOSPICE E LA SPIRITUALITA’ DEL VOLONTARIO Sabato 17 maggio 2014 Buongiorno a tutti, allora, per chi di voi non mi conosce io sono Angela Cardin volontaria e coordinatrice dei volontari dell’Hospice L’Orsa Maggiore di Biella. Vi rubo solo due minuti, volevo innanzitutto ringraziare i relatori che hanno accettato il nostro invito a questa giornata, poi volevo ringraziare la LILT di Biella che mi ha dato una mano con i volontari del territorio e i vari collaboratori, senza di loro, francamente, la dott.ssa Porta e la sottoscritta non sarebbero riuscite ad organizzare il tutto. Vi presento le prime due persone che interverranno, che sono il dott. Valentini, Presidente della LILT di Biella e Presidente della Fondazione Hospice Orsa Maggiore ed il dottor Peruselli Presidente della Società Italiana di Cure Palliative e Direttore Scientifico dell’Hospice. Hanno anche tante altre cose che non vi dico altrimenti passiamo tutto il Convegno a dire i loro incarichi. Do un caloroso benvenuto a tutti i colleghi del Piemonte e della Valle d’Aosta. Buon lavoro a tutti. Do la parola poi a Don Lodovico De Bernardi che sarà il moderatore di questa giornata. Ancora buon lavoro, grazie di essere venuti e grazie di tutto. Dott. Mauro Valentini Buongiorno a tutti. E’ un piacere per la LILT di Biella e per l’Hospice l’Orsa Maggiore vedere questa sala così piena di tanti volontari che svolgono la propria attività benemerita in tanti hospice piemontesi. La LILT di Biella è nata nel ’95, non vi faccio tutta la storia non preoccupatevi, e la prima cosa che ha fatto, perché c’era un’esperienza precedente, si è impegnata nelle cure palliative domiciliari. A 5 anni di distanza dalla costituzione abbiamo inaugurato un hospice, L’Hospice L’Orsa Maggiore che è stato riconosciuto come uno fra i migliori hospice italiani grazie a chi ci lavora, grazie ai volontari che prestano la loro opera e grazie a chi è seduto vicino a me, e che poi porgerà anche lui il suo saluto, a Carlo Peruselli che è stato, fino a due anni fa, il dirigente della struttura complessa di cure palliative della ASL di Biella ed il coordinatore della Commissione Regionale per le Cure Palliative. Commissione Regionale per le Cure Palliative a cui ho avuto l’onore di partecipare nella prima quando abbiamo steso la parte tecnica della deliberazione per l’istituzione in Piemonte, in Regione Piemonte delle cure palliative domiciliari e in hospice. Il nostro hospice è un hospice di 10 letti quindi perfettamente calato sulla potenzialità della provincia che ha 180.000 abitanti. E’ un hospice che funziona bene. Ma perché funziona bene? Funziona bene perché è inserito nella rete di cure palliative della ASL di Biella. Tutti voi che operate in strutture hospice sapete che gli hospice scoppierebbero se non ci fosse una rete domiciliare. Lo standard, sicuramente, sono le cure palliative domiciliari, l’hospice, come mi piace dire quando intervengo a riunioni di questo genere, è un po’ come la valvola nella pentola a pressione: quando qualcosa scoppia, scoppia la famiglia, scoppiano i sintomi che non sono controllabili nei pazienti terminali, c’è una struttura residenziale ma, sicuramente, lo standard, come dicevo, sono le cure palliative domiciliari. L’hospice funziona a Biella e la LILT funziona a Biella sicuramente perché ha del personale, ma mi piace qui rimarcare, non solo perché sono presenti dei volontari, che l’opera dei volontari è fondamentale. L’assistenza sanitaria è a carico, sicuramente, degli operatori sanitari, e non deve essere diversamente, non deve assolutamente essere scaricata sui volontari ma il supporto che danno i volontari sia per quello che riguarda le cure palliative in hospice sia per quello che riguarda tutte le azioni ed i settori in cui è impegnata la LILT di Biella, è fondamentale perché da soli non ce la faremmo. E avere tante persone che danno delle ore della loro giornata, della loro settimana, che si sono impegnate, perché fanno quasi dei turni come se fossero strutturati, è fondamentale, perché i bisogni di queste persone, che sono alla fine della loro vita, e delle loro famiglie, non possono essere coperte solo dagli operatori sanitari.

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5° INTERHOSPICE LA SPIRITUALITA’ IN HOSPICE

E LA SPIRITUALITA’ DEL VOLONTARIO Sabato 17 maggio 2014

Buongiorno a tutti, allora, per chi di voi non mi conosce io sono Angela Cardin volontaria e coordinatrice dei volontari dell’Hospice L’Orsa Maggiore di Biella. Vi rubo solo due minuti, volevo innanzitutto ringraziare i relatori che hanno accettato il nostro invito a questa giornata, poi volevo ringraziare la LILT di Biella che mi ha dato una mano con i volontari del territorio e i vari collaboratori, senza di loro, francamente, la dott.ssa Porta e la sottoscritta non sarebbero riuscite ad organizzare il tutto. Vi presento le prime due persone che interverranno, che sono il dott. Valentini, Presidente della LILT di Biella e Presidente della Fondazione Hospice Orsa Maggiore ed il dottor Peruselli Presidente della Società Italiana di Cure Palliative e Direttore Scientifico dell’Hospice. Hanno anche tante altre cose che non vi dico altrimenti passiamo tutto il Convegno a dire i loro incarichi. Do un caloroso benvenuto a tutti i colleghi del Piemonte e della Valle d’Aosta. Buon lavoro a tutti. Do la parola poi a Don Lodovico De Bernardi che sarà il moderatore di questa giornata. Ancora buon lavoro, grazie di essere venuti e grazie di tutto. Dott. Mauro Valentini Buongiorno a tutti. E’ un piacere per la LILT di Biella e per l’Hospice l’Orsa Maggiore vedere questa sala così piena di tanti volontari che svolgono la propria attività benemerita in tanti hospice piemontesi. La LILT di Biella è nata nel ’95, non vi faccio tutta la storia non preoccupatevi, e la prima cosa che ha fatto, perché c’era un’esperienza precedente, si è impegnata nelle cure palliative domiciliari. A 5 anni di distanza dalla costituzione abbiamo inaugurato un hospice, L’Hospice L’Orsa Maggiore che è stato riconosciuto come uno fra i migliori hospice italiani grazie a chi ci lavora, grazie ai volontari che prestano la loro opera e grazie a chi è seduto vicino a me, e che poi porgerà anche lui il suo saluto, a Carlo Peruselli che è stato, fino a due anni fa, il dirigente della struttura complessa di cure palliative della ASL di Biella ed il coordinatore della Commissione Regionale per le Cure Palliative. Commissione Regionale per le Cure Palliative a cui ho avuto l’onore di partecipare nella prima quando abbiamo steso la parte tecnica della deliberazione per l’istituzione in Piemonte, in Regione Piemonte delle cure palliative domiciliari e in hospice. Il nostro hospice è un hospice di 10 letti quindi perfettamente calato sulla potenzialità della provincia che ha 180.000 abitanti. E’ un hospice che funziona bene. Ma perché funziona bene? Funziona bene perché è inserito nella rete di cure palliative della ASL di Biella. Tutti voi che operate in strutture hospice sapete che gli hospice scoppierebbero se non ci fosse una rete domiciliare. Lo standard, sicuramente, sono le cure palliative domiciliari, l’hospice, come mi piace dire quando intervengo a riunioni di questo genere, è un po’ come la valvola nella pentola a pressione: quando qualcosa scoppia, scoppia la famiglia, scoppiano i sintomi che non sono controllabili nei pazienti terminali, c’è una struttura residenziale ma, sicuramente, lo standard, come dicevo, sono le cure palliative domiciliari. L’hospice funziona a Biella e la LILT funziona a Biella sicuramente perché ha del personale, ma mi piace qui rimarcare, non solo perché sono presenti dei volontari, che l’opera dei volontari è fondamentale. L’assistenza sanitaria è a carico, sicuramente, degli operatori sanitari, e non deve essere diversamente, non deve assolutamente essere scaricata sui volontari ma il supporto che danno i volontari sia per quello che riguarda le cure palliative in hospice sia per quello che riguarda tutte le azioni ed i settori in cui è impegnata la LILT di Biella, è fondamentale perché da soli non ce la faremmo. E avere tante persone che danno delle ore della loro giornata, della loro settimana, che si sono impegnate, perché fanno quasi dei turni come se fossero strutturati, è fondamentale, perché i bisogni di queste persone, che sono alla fine della loro vita, e delle loro famiglie, non possono essere coperte solo dagli operatori sanitari.

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Oggi siamo qui per questo 5^ Interhospice, siamo lieti che questo 5^ Interhospice si svolga qui nella nostra città, vicino al nostro hospice, anzi se poi alla fine della giornata, chi non lo conosce, avrà piacere di fare una visita all’hospice, noi saremmo veramente contenti. La spiritualità in hospice, la spiritualità del volontario: Avete visto dal programma che ci sono dei relatori molto importanti. Abbiamo qui anche il nostro Don Fabio De Lorenzo che è l’assistente spirituale della nostra struttura, che ci segue oramai da 10 anni e con cui collaboriamo, soprattutto i nostri volontari collaborano tantissimo. Quest’anno ci siamo impegnati nella realizzazione di questo 5^ Interhospice. Per chi non è biellese e non lo sa, perché Biella è tempestata dalle nostre informazioni, stiamo realizzando una struttura di grosse dimensioni di 2.700 metri quadri, nella parte centrale e storica di Biella, al Vernato, nell’area dell’ex mercato ortofrutticolo che si chiama Spazio LILT. Noi saremmo veramente felici, se vi sarete trovati bene e avremo dei ritorni positivi, di avervi nostri ospiti anche per il 6^ Interhospice, nella struttura nuova che andremo ad inaugurare, presumo, nel gennaio prossimo. Grazie per essere intervenuti. Buon lavoro a tutti. Passo la parola a Carlo. Dott. Carlo Peruselli Davvero solo un saluto. Intanto siete numerosissimi. Io centro su due parole chiave. Io qui rappresento solo indirettamente la Società Italiana di Cure Palliative di cui, comunque, faccio il presidente da pochi mesi. Mi sembra giusto sottolineare due parole: una è quella di volontario e l’altra è quella di spiritualità, che poi sono le due parole chiave di questo convegno, di questo incontro. La prima è quella di volontario, Mauro Valentini lo segnalava già ma chi lavora sa, che in Italia e nel mondo il ruolo dei volontari delle cure palliative è un ruolo importante. E’ una delle poche attività sanitarie in cui questo tipo di figura è quasi prevista. Perfino nella normativa italiana si parla di volontari ed è abbastanza straordinario, se uno pensa al reparto di chirurgia e di medicina non si parla di volontari, volontari come fortemente integrati. E’ chiaro che volontari vuol dire volontari formati, vuol dire volontari inseriti all’interno dell’equipe. Vuol dire volontari, come dire, non generici, non generali ma volontari, come dire, specialisti quasi in questo tipo di attività, perché per fare questo tipo di attività bisogna saperlo fare, bisogna essere formati e questa certamente è una delle opportunità e delle occasioni. E allora i volontari diventano veramente un qualcosa in più. L’altra parola chiave è spiritualità, oggi ci sono degli esperti importanti su questa tematica. La spiritualità è una delle grandi tematiche perfino delle definizione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità delle Cure Palliative si parla di spiritualità come di un bisogno di queste persone e dei loro familiari, che è un bisogno forte. Poi quando si va a cercare di capire cosa voglia dire spiritualità non è sempre così condiviso, non è sempre così facile, non è sempre così scontato. Questo è un po’ l’oggetto oggi, credo, anche di una riflessione. Perché spiritualità vuol dire tantissime cose, vuol dire i valori di una vita, vuol dire il significato che alla vita danno le persone. Vuol dire tante cose e oggi sicuramente avrete modo di parlarne. Però anche questa è una caratteristica speciale delle cure palliative non perché, secondo me, in altre aree della medicina non ci sia questo bisogno di spiritualità, c’è anche lì ma qui emerge con maggiore forza, con maggiore rilevanza quindi è fondamentale parlarne in tutti i nostri congressi, sto parlando dei congressi nazionali, si parla quasi sempre, sempre anche nel prossimo congresso che faremo ad Arezzo, ci sono delle sessioni dedicate proprio alla spiritualità e questa è un’altra delle caratteristiche importanti delle cure palliative. Quindi il fatto che un gruppo così numeroso di volontari sia qui oggi, in un sabato, fra l’altro, con una bellissima giornata a parlare di spiritualità e di cure palliative lo giudico veramente di grande importanza e di grande rilevanza. Quindi il mio è solo un saluto, lo condivido con Mauro Valentini, lo condivido con tutti gli operatori hospice. Qui c’è anche la responsabile dell’hospice che è la dottoressa Ambrosio e quindi mi sembra una bella occasione anche per noi biellesi poter ospitare, come diceva Mauro, una bella occasione così. Poi, come forse alcuni di voi sanno, io sono un piemontese trasferito molti anni fa però è un motivo di orgoglio, che mi sento piemontese a tutti gli effetti, che un gruppo così numeroso di

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persone sia qui a parlare di questo mi sento molto orgoglioso, anche come piemontese e forse c’è anche qualche valdostano, ma insomma sono vicini piemontesi e valdostani. Grazie, grazie a tutti. Don Lodovico Debernardi Il mio compito è solo di moderare le relazioni, sono onorato di questo compito, per motivi forse molto semplici che è l’amicizia, che però direi tra i valori della spiritualità qualcosa di importante e di fondamentale. Sono felice di trovare Fratel Luciano, siamo vicini tra Salussola e Bose. Parla di spiritualità umana, religiosa e confessionale, vice priore di Bose. Tutti penso che sapete che è una comunità importante per la formazione, per la spiritualità ormai direi non solo nazionale ma anche internazionale visti gli interventi suoi e anche di Fratel Enzo Bianchi che è il priore della comunità. Direi che entriamo subito nel tema della formazione. Come diceva anche il dott. Peruselli, è fondamentale questo tema della formazione e che un gruppo così numeroso si metta a riflettere, ricevere questi stimoli è veramente una perla preziosa che custodiamo qui a Biella. Pertanto senza dilungarmi troppo lascio a lui la parola e lo ringrazio. Fratel Luciano Manicardi Ma sono io che ringrazio voi di questo invito che mi onora, al tempo stesso mentre ringrazio chiedo anche scusa perché io ho purtroppo degli impegni piuttosto pressanti e oltre una certa ora, 11 e mezza non potrò fermarmi. Don Lodovico Debernardi Mi aggancio subito e interrompo, abbiamo preparato dentro la cartellina, ci sono queste piccole schede per cercare di guadagnare tempo nelle domande, non lasciare spazi vuoti oppure qualcuno non se la sente di fare pubblicamente la domanda. Allora ci sono queste piccole schede, sulle quali durante le conferenze che ascoltate annotate subito qualche domanda, così visto anche il tempo limitato per i suoi motivi possiamo subito, magari, al termine della sua conferenza, fare già la raccolta delle domande per gli interventi. Quindi annotatevi già qualcosa. Fratel Luciano Manicardi Mi scuso ma tra un po’ devo prendere un aereo in fretta, quindi chiedo scusa per questo. Allora spiritualità umana, religiosa, confessionale. Io cercherò di articolare una riflessione in due momenti una premessa, piuttosto robusta ma che cerco di sintetizzare, e poi la premessa che in realtà ci introduce già, se non altro, al contesto culturale, se non direttamente spirituale, e poi dopo, certamente, affronteremo il compito spirituale del morire e soprattutto la relazione tra chi accompagna, chi è accanto e colui che sta vivendo le ultime fasi della sua vita. Allora 4 punti di premessa: La prima, in modo un po’ brutale, la possiamo chiamare la rimozione della morte. Sapete bene che a partire grosso modo dall’800, ormai c’è un’amplissima letteratura che mostra come la morte, il morire e la morte sono venute progressivamente a essere desocializzate, privatizzate, desimbolizzate, deritualizzate. Sempre più tolta dal contesto esistenziale, privatizzata. Un sociologo che penso tutti conoscete come Zygmunt Bauman ha parlato della decostruzione della morte che è avvenuta nei tempi moderni. Cosa significa? Oggi non si muore più. Cioè si muore di qualche cosa e potendo intervenire grazie alla potenza ormai dell’arsenale delle medicine, delle potenzialità biomediche eccetera, su quel “di”, su quella causa si può intervenire e dunque la morte non viene più colta come orizzonte del vivere, come facente parte della vita, anzi non dimentichiamoci che nell’Occidente cristiano e pagano la morte è sempre stata la certezza a partire da cui si sviluppa il senso del vivere. Ecco, arrivare a desimbolizzare la morte, a toglierla, diciamo così, dal flusso della vita, che trova lì non solo la sua fine ma anche il suo compimento, indubbiamente è un elemento decisamente problematico a livello culturale e antropologico. Si è venuto sviluppando, come l’hanno chiamato due grandi pensatori del secolo scorso, intorno agli anni ’50 – ’60, un pensiero dell’amortalità, che non vuol dire che l’uomo non muore, evidentemente, ma che, teoricamente, la vita può essere pensata come prolungabile indefinitamente pur essendo chiaro che l’uomo morirà poi sempre per un accidente o una catastrofe eccetera, eccetera … Di certo quello che vediamo e quello a cui anche la

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cultura dell’hospice, la cultura dell’umanizzazione delle ultime fasi della vita cerca di farvi fronte, è l’individualizzazione della morte, la sua privatizzazione, spesso anche la sua, come dire, riduzione, il suo essere tolta dall’ambiente domestico, è negli ambienti igienici e asettici degli ospedali che si muore. C’è un grande studioso, Norbert Elias, in un bel libro “La solitudine del morente” dice: “non si è mai morti in modo così igienico e non si è mai morti in un modo così solitario come oggi”. Ecco, a questo scenario che ho brutalmente sintetizzato va detto invece che fa da contrasto il ritorno della morte. Un libro di un sociologo che si chiama Tony Walter parla della rinascita della morte, rinascita dell’interesse, evidentemente, forte della morte. Come rinasce? Possiamo anche qui schematizzare in due forme. Una forma che mi sembra, evidentemente, criticabile però molto diffusa oggi, molto diffusa perché dice sostanzialmente questo: la morte è mia e me la gestisco io, ho il diritto (il discorso di diritti, non sempre proprio azzeccato) il diritto di morire come, quando e dove mi piace. Capite la brutalizzazione delle espressioni e tuttavia questa tendenza a voler morire a proprio modo, emblema del radicalismo individualistico, ecco, in cui ci troviamo a vivere entra in conflitto con il fatto che la sempre maggiore medicalizzazione, burocratizzazione della morte fa sì che mentre io voglio morire e decido io, sono io il soggetto che determina, in realtà mi trovo in balìa di meccanismi che non controllo, di medicinali che non conosco, di macchine a cui sono appeso, di medici che governano evidentemente il mio morire. Dall’altro lato si è sviluppata quella cultura delle cure palliative, dell’accompagnamento del morente, dell’hospice che umanizza le ultime fasi della vita di una persona che dunque prende sul serio il morire, il morire, il faticoso, e questo è il problema, il faticoso cammino verso la morte. Quindi quel processo umano, fisico, psichico, affettivo, spirituale del senso ampio del termine che coinvolge tutta la persona con le sue opzioni fondamentali, con le sue credenze, con il senso che una persona ha portato a quel vivere che ora sta conoscendo il momento critico, decisivo, ultimo. E questo a mio modo di vedere per una sana, doverosa e giusta, buona, etica reazione, un approccio meramente biomedico al morire e si preoccupa alla fin fine di prolungare la vita biologica e che alla fin fine si risolve, non vorrei essere troppo anche qui brutale, ma di fronte ad un paziente prossimo alla morte si risolve in una mera gestione dell’agonia e poco più. Terzo punto, sempre di introduzione, la morte senza il morire. Ecco la prima dimensione spirituale, a mio modo di vedere, è quella di recuperare la morte alla vita, o meglio ripeto, il morire alla vita e da questo punto di vista dobbiamo riconoscere che è molto cambiato oggi ciò che nell’immaginario collettivo, nel pensare delle persone, nel senso comune è la cosiddetta bella morte. L’ideale della bella morte oggi qual è, è la morte repentina, in cui non si soffre, dove non ce ne si rende neanche conto, non si soffre fisicamente ma soprattutto non si patisce neanche la fatica dell’anticipare la morte, non si soffre il movimento a volte indubbiamente penoso, doloroso del morire. Vuol dire una morte sottratta anche alla fatica della preparazione alla morte. So perfettamente che diversi pensano che sia una pura e pia illusione prepararsi alla morte: chi mai è pronto in verità al morire. Tuttavia esiste una tradizione culturale, filosofica straordinaria che parla proprio di questa preparazione al morire. Uno studioso, uno, veramente, a mio modo di vedere, di grande genialità, come Ivan Illich, morto ormai diversi anni fa, ha scritto: “esiste una vecchia norma mediterranea secondo la quale ciascuno ha bisogno di un amicus mortis che gli dica la verità e che resti con lui fino alla fine”. Lì si parla solo di un accompagnamento amicale dove la competenza di chi sta accanto, essenzialmente di tipo relazionale, affettivo, umano e prosegue ancora in questo suo saggio di un po’ di anni fa, dice “la liquidazione che il mondo moderno fa della preparazione alla morte s’accompagna all’incapacità moderna”, lui dice, “di compiere azioni intransitive come morire”. Dice: “la gente soffre di una incapacità a morire, pochi sono capaci di prendere in considerazione la loro morte nella speranza che essa porti un ultimo tocco a una vita attiva”. Ecco morire è un verbo intransitivo non ha, come dire, ha in sé la pienezza dell’azione, non si deve esteriorizzare su un oggetto. Ecco questo, evidentemente, chiede all’uomo un lavoro interiore, in questo voi capite che vivere la morte, affrontare la morte è un evento spirituale. Ecco a fronte di tutto questo la bella morte oggi, che un tempo era la morte in cui c’era un’agonia in cui uno poteva prepararsi, salutare chi rimaneva, regolare gli affari rimasti in sospeso, magari riconciliarsi in extremis con le persone con cui c’erano litigi ecc., in realtà è cambiato radicalmente. Chi di voi era, ma me lo ricordo io, che quando ero ragazzino, non so se avete presente nelle litanie dei santi, si cantava “A subitanea et repentina morte, libera nos, Domine”, liberaci dalla morte così incosciente, immediata. Oggi quella è la bella morte: non se ne è neanche accorto. Appunto, e se la morte fosse anche un momento invece preziosissimo del nostro vivere in cui si è anche chiamati a farne l’atto finale di

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un’esistenza e da ultimo, sperando di farmi capire, di fronte quando ho una persona che sta morendo, ho di fronte una persona ben più che una vita. Capisco che può sembrare una differenza un po’ sottile ma mi vorrei far comprendere. L’approssimarsi della morte di una persona presenta una dimensione spirituale che non può essere trascurata, una dimensione spirituale, innanzitutto, prettamente antropologica che ha a che fare con il senso della vita, con i valori dell’esistenza. Che cosa dice il morire. La coscienza della vita che sta terminando che la vita non è immediatamente disponibile, evidentemente, che io non ho potere sulla vita, che la vita e la salute sono realtà non scontate né dovute né immediatamente disponibili, non le posso né controllare né gestire. Ecco, questo evidentemente può indurre un processo anche di riconsiderazione, di ripensamento nella misura in cui questo è possibile, evidentemente, le condizioni del morire variano da persona a persona, le condizioni di lucidità sono differenti. Il discorso che noi facciamo qui è forzatamente generale ma voi sapete benissimo che nella vostra pratica va poi personalizzato e inserito di fronte ad una persona precisa e lì avverrà come evento spirituale il vostro accompagnamento come evento spirituale. Non c’è una spiritualità prefabbricata, un cibo precotto che deve essere applicato, non è un evento che si stabilisce all’interno della relazione tra il volontario e l’ammalato, tra i due ma i due che sono persone, chi avete di fronte non è un morente ma una persona che sta vivendo gli ultimi momenti della sua esistenza ed è una persona non una vita, spero mi capiate, come dire, un processo alla fin fine gestibile dal concepimento fino alla morte o per usare un’espressione un po’ volgare ma forte di Bob Mendelsohn “dallo sperma al verme”. Capisco che è un po’ brutale l’espressione però rende l’idea. E’ un po’ brutale ma significativa. Ecco avete una persona, una persona, ed è a mio modo di vedere, in quella relazione che avviene, si ricrea l’evento spirituale dell’accompagnamento in cui non c’è una uni-direzionalità e lo sapete perfettamente ma c’è una biunivocità. C’è un dare e un ricevere, c’è un fare un pezzo di strada insieme di fronte a quella persona che è una totalità sofferente. Questa idea che io ho trovato soprattutto in Victor Frankl, il malato come totalità sofferente in cui appunto quale che sia la malattia che condurrà alla morte la persona, tuttavia è la persona in quanto tale che è messa in crisi dall’approssimarsi della fine della sua esistenza. E direi che quando la malattia è appunto un cammino che conduce alla morte, allora tutta la vita si sintetizza, si riassume in quel corpo spesso sempre più rinsecchito, sempre più scarno che si avvicina alla fine, il corpo, sarà l’ultimo punto poi che toccheremo dopo, nella sua debolezza appare sempre più lo scrigno fragilissimo, preziosissimo dell’intera vita di quest’uomo, di questa persona che avvicinandosi alla fine è, come dire, tutto lì nella memoria, nei vissuti, nei ricordi che ora ha e che sintetizza in ciò che è divenuto il suo corpo, e dicendo corpo, attenzione, intendo la totalità personale della persona, intendo il suo sé, intendo certo il suo corpo che si sta disfacendo ma intendo anche l’anima, intendo lo spirito, intendo la persona in quanto tale. Ecco anche perché anche nell’avvicinarsi alla morte il passato non è semplicemente dietro ad una persona, è dentro, è dentro una persona e lo vedrete quando il malato ha quel bisogno spiritualissimo di raccontare o di sentirsi raccontare, il bisogno di raccontare qualche cosa di sé o della propria vita, nella misura in cui può e riesce evidentemente, ma che significa questo, se io posso raccontare a qualcuno la mia vita anche i miei dolori e vengono accolti, anche io ho il diritto ed il permesso di riconciliarmi con la mia storia, con la mia vita o anche con gli elementi che più fatico ad accettare o che più giudico irricevibili. Ecco termino questa premessa, introduzione con un’annotazione che faceva nel ‘45 Thomas Mann un letterato, ma che ha scritto qualche testo, ma spesso la letteratura aiuta ad entrare in una comprensione particolarmente forte anche del vissuto di malattia. Scriveva Thomas Mann, e mi sembra che sia una profezia di un’ingenuità totale che proprio non si è realizzata, “un’umanità sta maturando o riemergendo dall’oblio pronta a togliere dalle mani della biologia, convinta di averne essa l’esclusivo diritto, il concetto della vita e della salute e a impossessarsene per usarne in maniera più libera più religiosa e soprattutto più veritiera. L’uomo, infatti, non è soltanto un essere biologico”. Direi che questa profezia proprio non si è per nulla avverata. Molti sociologi parlano della società contemporanea soprattutto occidentale, canadese, statunitense e europeo occidentale, una società post mortale, addirittura, che è capace di mettere a disposizione della lotta contro l’invecchiamento e il morire una tale quantità di un armamento tecno-scientifico, biomedico di tale rilevanti proporzioni che in realtà può arrivare a pensare, non solo ad un allungamento notevole dell’esistenza, ma anche a far passare da sogno a realtà l’idea di amortalità. Ma, ecco, detto questo, detto questo bisogna ricordare molto semplicemente, per ricordare la dimensione spirituale dell’uomo che l’uomo non è soltanto biologia, l’uomo è desiderio, è immaginazione, l’uomo è creatività, è volontà, ha emozione, sentimento, è bellezza e passione, è innamoramento e

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sofferenza, è carezza, sguardo, lacrima, sorriso, l’uomo è coscienza, libertà, intenzionalità. Di fronte alle tentazioni riduzionistiche su un piano prettamente antropologico che uccidono la dimensione simbolica e dunque spirituale dell’uomo anche scindendo il morire dal vivere, ecco io credo, che tutto questo vada detto e ridetto per affrontare in modo adeguato anche il discorso della spiritualità e, allora, primo punto il compito spirituale del morire. Allora la dimensione spirituale riguarda il fatto che, come dire, la malattia per la morte o comunque il cammino verso la morte investe il piano sia fisico sia psichico dell’uomo e mette in crisi i valori, le scelte, le attività che hanno preceduto ad un’intera esistenza. Qual è il compito spirituale di fronte all’approssimarsi della morte, nello spazio normalmente della malattia, è quello di dotare di senso la malattia. Quello è il compito essenziale è il momento in cui nella malattia che porterà alla morte si ripensa alle proprie relazioni, se si è stati in grado di amare, chi si è amato come si è amati, le vicende che ci hanno ferito in questo, nello spazio sensato del vivere, l’amore. Si fanno bilanci e soprattutto la dimensione spirituale che emerge in primo piano, umana ma poi evidentemente anche religiosa e confessionale, è il problema del senso. E’ il problema alla domanda del senso. Che senso la vita ha avuto. Sono stato utile, ho messo in atto, sono stato capace di amare, sono stato significativo per delle persone Ma c’è anche l’altra domanda del senso, del senso ultimo, quella domanda a cui normalmente sono le religioni che danno una risposta: “che cosa ne sarà di me dopo?, cosa c’è dopo?, C’è una vita dopo la morte?” Ecco io vorrei fare notare questo, che questo cammino faticoso di domanda e di dubbio non è risparmiato al credente, e quando parlo di credente, abbiate pazienza, io parlo di uno spazio cristiano, devo parlare di ciò dal cui interno mi sento e che comunque resta, io credo, nonostante la multiculturalità porti evidentemente tante persone di altre culture e religioni ad intersecare i nostri sistemi sanitari, ad essere curati nei nostri ospedali, a morire qui da noi, tuttavia, è evidente, l’ambito di persone nate e cresciute all’interno del cristianesimo, quelle con cui si ha a che fare. Ecco anche il cristiano non conosce delle vie che aggirino o evitino il dolore e la fatica, il dolore, l’angoscia mai preventivabili della morte, della fine. Certo il Cristiano conosce, questo sì, una via che attraversa anche il dolore, anche la lacerazione della morte, avendo qualcuno a cui si può rivolgere. Ed ecco allora nell’angoscia o nei momenti di maggiore serenità l’invocazione, la preghiera. Certo il Cristiano ha anche questa possibilità di aiutarsi grazie alla fede di dotare di senso la sua malattia per la morte vivendola in Cristo. Ma non pensate che lì funzioni, visto che nel Cristianesimo c’è la resurrezione, funzioni efficacemente il rimando facile e immediato alla Resurrezione. Era Agostino “incerta omnia, sola mors certa” che è il principio fondamentale, lo ripeto, di costruzione della cultura tanto Cristiana quanto pagana in Occidente a partire da quella certezza assoluta: nasci povero e puoi diventare ricco; ti sposi e puoi avere dei figli o forse no.; sei ignorante puoi studiare e diventare sapiente, dice Agostino: “sei nato morirai questo è certo”. Ecco la fede è e resta un rischio, è e resta un rischio e non pensate che anche in uno spazio di spiritualità cristiana il dubbio si opponga alla fede. Il dubbio ne è l’altra faccia. La fede non è totalitaria non è una bacchetta magica che rende tutto traslucido, anche il Cristiano che è credente affronta la fatica umana, umanissima, psicologica eccetera del dolore, del morire e anche del dover comporre il volto del suo Dio con la fine dell’esistenza. Vi cito un passaggio di un teologo morale Xavier Thévenot che, tra l’altro, ha vissuto il calvario della malattia in prima persona e questo di solito cambia molto il tono dei discorsi quando uno conosce dal di dentro anche il dolore, la malattia e non ne fa solo oggetto di parole o di discorso dall’esterno. Xavier Thévenot, che ha avuto un lunghissimo Parkinson che poi l’ha condotto alla morte, ha distinto tre tempi nella sofferenza accostandoli in modo significativo all’interno di una visione spirituale Cristiana al triduo santo al tre giorni santi della settimana santa. Dice, vi leggo, vi è: ”un tempo di siderazione in cui si è paralizzati dallo shock, dallo stupro della disgrazia che ci coglie, come essere colpiti da una malattia grave, restare handicappati da un grave incidente eccetera. All’inizio una vera sofferenza è sempre troppo forte. Poi, il tempo dell’elaborazione del lutto, in cui si impara a liberarsi dai propri sogni attraverso la rivolta, la depressione, la regressione. Un terzo tempo, infine, che è quello del lavoro di Pasqua. Si ritrova qui la struttura,” lui dice”, del triduo pasquale. Il venerdì santo, in cui si è come schiacciati dall’eccesso rappresentato dal male; il sabato santo che è il tempo del silenzio in cui si riorganizzano la propria vita, la propria memoria, le proprie speranze; il tempo di Pasqua che è un tempo di speranza, ma una speranza che non si confonde con il riposo completo. E’ ancora un lavoro è ancora l’intraprendere un cammino.” Ma ecco veniamo a quello che per me è centrale: la relazione tra il malato, colui che si avvia alla morte, e l’accompagnatore, il volontario. Io credo che sia importante nella misura del possibile partire dal dato

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elementare che la morte è parte integrante, momento culminante dell’esistenza. Solo ciò che ha un limite è vivo. La morte come limite dà forma alla vita, ciò che non ha un limite, e qui c’è un elemento della cultura nostra la continua erosione dei limiti. Non so se avete visto, io ho dovuto intervenire anche su questa legge belga che arriva ad estendere la possibilità di eutanasia anche a minori senza specificazione di età. C’erano almeno alcune proposte che dicevano ma a 15 anni… c’è un lento lavoro di erosione dei limiti che a mio modo di vedere prima di essere anticristiano è anti umano. Vi è l’umanità esiste nella misura in cui c’è un limite. La morte come limite è anche confine che dà forma, ciò che non ha un limite è informe. Credo che questo vada assunto direi culturalmente per entrare anche in un’accezione spiritualmente buona, sana, salda di che cosa significa accompagnare un morente. Ridare umanità, dignità al morire è essenziale perché la propria morte possa essere vissuta, nella misura del possibile dovremmo sempre aggiungerlo evidentemente, come un atto umano, un atto non solo di fine, ma anche di compimento. In realtà lo sapete bene voi, lo sapete molto meglio di me per la vostra esperienza. Anche io ho fatto l’accompagnamento di alcune persone molto care, a me evidentemente, e so come gli ultimi giorni, gli ultimissimi tempi della vita di una persona sono un tempo importantissimo, un’occasione appunto per poter… provate a pensare sono gli ultimi sguardi, sono gli ultimi sorrisi, sono le ultime parole, se possibile, le ultime comunicazioni attraverso una carezza, un prendersi la mano con una persona con cui si è condiviso qualche cosa, o addirittura tanto, di una vita. Ecco stare accanto a chi sta morendo significa stare accanto a chi sta vivendo un momento cruciale dell’esistenza. Ecco, e che implica un lavoro speculare su di sé. Il confronto con l’altro che sta morendo si rinvia a ciò che è essenziale, centrale nell’esistenza, ma ci interpella anche in profondità. Io credo che lì, sia in chi lavora in un hospice, sia chi si impegna in queste relazioni così anche emotivamente impegnative e che richiedono, come giustamente ricordato, un lavoro di formazione importante… beh uno deve imparare un lavoro su di sé per verificare le proprie motivazioni, il perché lui si trova lì. Qual è il proprio rapporto con la morte, con il morire. Ecco, certo, lì si tratta di un rapporto non tanto tra funzioni, ma tra persone. Certo persone con una competenza ma in cui, oserei dire, la competenza essenziale è una competenza di tipo umano, umano, umano, capacità di ascolto, capacità di rimettersi al quadro relazionale che l’altro chiede, capacità di parlare o tacere a seconda che l’altro… E’ un movimento, io credo, impegnativissimo perché chiede uno spossesso di sé. Chiede di uscire da una posizione di potere per entrare a condividere, per quanto è possibile ovviamente, l’impotenza e la debolezza dell’altro, perché è lì che avviene l’incontro altrimenti il rischio di un essere accanto al malato senza accompagnarlo, anzi facendo del male, c’è. Non so se conoscete, due riferimenti uno biblico gli amici di Giobbe, un altro lo psicanalitica americano Stephen Karpman che parla del triangolo drammatico. Che cos’è? Quando uno si presenta a uno in situazione di bisogno, di malattia, come salvatore. E lì s’instaura un circolo infernale da cui non si esce. Allora, prendete gli amici di Giobbe: vanno da lui e loro gli dicono quel che lui deve fare, lo sanno meglio di lui, hanno una spiritualità preconfezionata, una teologia che dice già, se sei malato è perché hai peccato, per uscire dalla situazione devi pentirtene così eccetera, eccetera. Giobbe li tratta a male parole: siete dei consolatori da strapazzo, siete dei medici che non valete niente, pensate proprio che non ci arrivo a ste cose qui. Qui c’è altro e soprattutto c’è il tradimento da parte degli amici della competenza del malato è lui il malato è lui che alberga in sé ciò che sente ciò che sta vivendo dunque è lui che va ascoltato. Ecco il grande lavoro spirituale, ascoltare. Giobbe ad un certo punto dice: “ascoltatemi, volgetevi a me. Siete lì ma non state in relazione con me…”. Ed il rischio qual è? E’ che se io vado con gli armamentari, l’ infermiere ci andrà con tutti i suoi baracchini, scusate, forse c’è il termine tecnico un po’ più esatto, termini medici, attrezzi, stetoscopio. Magari c’è il volontario cristiano che ha la bibbia, però è l’altro che mi chiede di spogliarmi di entrare in una sorta di nudità per non esercitare un potere su di lui, perché se io ci vado avendo un sapere, perché so ciò che devi fare, allora io lo vittimizzo, io lo colpevolizzo, ne divento il persecutore e lui si sentirà autorizzato ad entrare in guerra con me. Esattamente come fa Giobbe. Per cui in quella relazione studiata da un punto di vista psicanalitico da Karpman si arriva, i due arrivano a rivestire di volta in volta le vesti della vittima e poi del perseguitato e poi del persecutore a partire dalla presunzione ovvia di essere il salvatore. Ecco allora c’è qui un lavoro importante da parte, spirituale, da parte del volontario, la capacità di ascolto, di ascolto dell’altro, di ascolto di sé, per giungere ad una conoscenza e a sviluppare quello spazio, oserei dire, in cui può avvenire un incontro. L’ascolto è questo, cosa c’è da dare. A me sembra, ma voi che siete qui siete più competenti voi di me, c’è da dare tempo, ascolto, parola, presenza. Non sono

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cose, non sono elementi oggettivabili, monetizzabili. Sono tempo, ascolto, parola, presenza qualcosa di inestimabile perché si situa sul piano dell’essere, sul piano della relazione e ripeto, a mio modo di vedere, è nello spazio relazionale che l’accompagnamento diventa evento spirituale, cioè incontro di due unicità, di due persone. Ecco, lì l’ascolto può diventare anche ascolto del racconto del malato, voi sapete oramai si è molto sviluppato e se non erro c’è stato un convengo qui a Biella sulla medicina narrativa, o sbaglio? Si è molto sviluppata anche questa medicina narrativa che, a fronte di una medicina ufficiale, cerca di recuperare, così, anche un’alleanza medico paziente in cui insieme, quasi, si arriva a creare un’alleanza terapeutica e costruire insieme, potremmo dire, un percorso terapeutico in cui anche il soggetto malato con la sua competenza propria, con il racconto che dà di ciò che sta vivendo, ne diviene parte. Ecco, in ogni caso, quello che è importante in questo lavoro di ascolto è il fatto che anche il corpo vissuto viene preso in considerazione, non solo il corpo fisico che verrà curato con i soliti parametri medici eccetera ma anche il corpo vissuto, gli viene data parola. Lì sì che c’è una valenza spirituale importantissima anche perché l’unico nome che è di una malattia trova poi delle personificazioni, ciascuna estremamente diversificate. Una persona nella malattia, nella malattia terminale è una persona che personalizza nel suo vissuto biografico una certa malattia, da un lato la malattia spersonalizza, un infartato, questi orribili neologismi, un alzheimer ma poi ognuno arriva a personalizzare in certo modo quella malattia, che ha un unico nome per tutti, ed è quella unicità che va ascoltata è lì che secondo me c’è una grande valenza spirituale che forse proprio il tipo di accompagnamento competente formato ma poi attento all’umano del volontario può favorire. Far emergere l’unicità di quella persona. Ecco un’ultima cosa: a me pare che proprio parlando di volontari di accompagnamento degli ultimi momenti dell’esistenza di una persona, noi parliamo di una “cura che tocca l’anima”. Voi sapete benissimo che nel comunicare con la persona così sempre più, giorno dopo giorno, sempre più fragile, sempre più debole, dovete inventare che quelle forme comunicative, appunto, una carezza, una comunicazione con gli occhi, con lo sguardo. Ecco, proprio lì in questi gesti così elementari così ridotti all’essenziale, proprio lì voi sperimentate che questa cura è una cura che attraverso la fragilità sempre più evidente nel corpo tocca l’anima, raggiunge l’anima, il profondo della persona, tocca l’anima toccando il corpo e l’affettività dunque della persona. Io credo che sia importante ricordare la dimensione spirituale del corpo e se volete anche la dimensione corporea dello spirito. Chi è abituato alla Scrittura, alla Bibbia, ed effettivamente lo sono abbastanza, sa perfettamente che per la Bibbia, i Salmi ne sono una bellissima esemplificazione, nulla viene di spirituale nell’uomo se non nel corpo, non che l’anima non sia importante, ma l’anima non si esprime se non nel corpo. E dunque vi è una profondissima unità nella persona umana per cui possiamo dire senza timore che il corpo, inteso nella totalità della persona umana, è il soggetto della vita spirituale. Ecco, è nei momenti allora, ad esempio che anche nei momenti di disperazione di angoscia, può avvenire che colui che sta morendo, sta quasi come un bambino, invochi la madre o che chieda di essere quasi cullato, quasi materneé direbbero i francesi, accudito è allora il momento di adagiarlo sul proprio petto, abbracciarlo con tenerezza. Lì c’è un discernimento di gesti possibili che la situazione evidentemente e la relazione che si è stabilita suggerirà. Questi gesti hanno valore spirituale, vorrei che fosse chiaro questo, perché dicono della rilevanza e della significatività di questa persona che sta morendo, scomparendo, finendo, e che tuttavia è importante per qualcuno, e questo appare anche da questi gesti di tenerezza, di accudimento, di cura, più che mai corporei, più che mai spirituali. Ecco io credo che lì avvenga che il morente si sente strappato alla più terribile forse delle sensazioni l’essere abbandonato, l’essere solo, l’essere escluso dal mondo degli altri. Ecco spesso a volte anche la domanda di farla finita, spesso niente, va semplicemente decodificata, come dire suppliche in cui il malato chiede all’alleviamento del dolore, soprattutto di non essere lasciato solo, di non essere lasciato nella solitudine, chiede se interessa ancora ai vivi, se interessa ancora, se è ancora degno di amore, se ancora può considerarsi tra gli umani. Ecco, lì io credo che ci sia davvero il grande compito di chi sta accanto e accompagna, di confermare il malato nella sua dignità, nella sua preziosità anche quando la malattia oramai lo sta rendendo quasi irriconoscibile a se stesso. Questo è il messaggio che mi sembra spiritualissimo che il volontario, l’accompagnatore, chi sta accanto al malato gli può dare. Tu sei e resti un essere umano nella pienezza della tua dignità. Io cerco, certo nella coscienza dei miei limiti, della mia povertà, delle mie poche facoltà, ma di trasmetterti, comunicarti questo. Per questo devo io volontario stare molto attento ad ascoltare, l’ascolto dell’altro, ascoltare come l’altro può percepire, non imporgli i miei modi, non imporgli le mie incertezze, non imporgli

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le mie sicurezze e men che meno andar là per convertirne uno “in articulo mortis”, questo mi sembra sciacallaggio non accompagnamento. Quello però mi sembra interessante e lì c’è il lavoro spirituale che il malato fa su di voi, che vi obbliga ad un lavoro profondo per ascoltare la sua capacità di ascolto e dire, comunicare, far percepire questa vicinanza che dice la sua preziosità. Ecco è faticoso, è anche pesante accompagnare un morente. A me è avvenuto più di una volta anche se non certo con la vostra assiduità o forse le vostre competenze, e anche quando si tratta di persone amate con cui si è avuto un legame decisamente profondo, avviene che è faticoso; a volte svela in noi anche dei sentimenti che non vorremmo neanche sentire nei confronti di una certa, certe situazioni che ci fanno suscitare fastidio o stanchezza. Ci svela il nostro cuore, ci svela ciò che noi abbiamo dentro. E’ faticoso, ma è un atto di grande umanità che può davvero arricchire molto chi lo compie. Tanto è faticoso, tanto può essere profondamente arricchente sul piano umano, sul piano spirituale. Ecco, in un contesto culturale in cui invece viene esaltato l’esatto contrario, l’efficienza, la bellezza, il corpo patinato, ecco, è difficile cogliere il senso, il valore degli ultimi istanti di una persona agonizzante. Spesso lo spettacolo della fragilità umana, di un corpo privo di forza, scosso da rantoli, da un respiro che ad un certo punto si interrompe può anche essere sentito come terrificante, ripugnante, ma ripeto quelli sono gli ultimi momenti, gli ultimi gesti, gli ultimi sguardi, gli ultimi sorrisi di una persona con cui si è condiviso, si è detto tanto o poco o comunque un pezzo significativo di vita nell’esistenza e anche se è un breve pezzo tuttavia questo è di un’importanza straordinaria da un punto di vista della spiritualità religiosa, confessionale, Cristiana, beh, direi che si potrebbe affrontare questo compito autorizzandosi ad una parafrasi, io credo legittima, di ciò che dice il Vangelo in Matteo 25 nei versetti 35 e 36, avete presente dove dice: “Ero un malato mi avete visitato, ero carcerato mi siete venuti a trovare, ero nudo mi avete vestito, ero morente e mi siete stati accanto”. Grazie della vostra attenzione. Don Lodovico Debernardi: Allora, stanno raccogliendo con il cestino delle offerte, le domande che offrite. Intanto direi che ringraziamo veramente di cuore, perché è stato chiaro, è stato corposo e ha dato dei punti precisi e quando si parla di spiritualità si può sempre rischiare di fare dei voli per aria senza terminare o senza mettere a fuoco delle cose invece Fratel Luciano veramente ha dato degli obietti precisi e soprattutto lo ringraziamo per la condivisione di questa esperienza che, si sentiva, trasudava non solo di spiritualità, di Sacra Scrittura ma veramente di un’esperienza che lo ha accompagnato, che ha segnato la sua vita, la sua testimonianza. Grazie mille. E allora adesso penso che se ci sono queste domande possiamo poi analizzarle subito così poi lo lasciamo prendere l’aereo per altre destinazioni. Grazie. Domande: La domanda del malato: “Ma tu credi che ci sia qualcosa di là?”. Risposta: “Io credo di sì”. Sospiro: “speriamo”. Fratel Luciano Manicardi: Il primo intervento da quello che capisco riporta un frammento di dialogo, il malato chiede “Ma tu credi che ci sia qualcosa di là?”. Risposta: “Io credo di sì” e poi aggiunge uno “speriamo”. Ecco, mi sembra bello anche che ci sia questo frammento di dialogo. Non si tratta di dare risposte ultimative certe. Questo è l’errore che hanno fatto gli amici di Giobbe. Noi sappiamo come va a finire la storia e ti diciamo quel che tu devi fare. Lì c’è tradimento del volto di Dio, che alla fine dice che ha parlato molto meglio di lui Giobbe, che ha detto una bestemmia dietro l’altra, se proprio vogliamo essere sinceri, che non loro che sono andati con la presunzione di sapere quello che Dio vuole e quello che deve fare l’altro. Ecco qui invece abbiamo il frammento di un discorso in cui è importante che il volontario recepisca e accetti questo “speriamo” che vuole dire una fede che non si chiude affatto a che ci sia altro di là, al tempo stesso che evidentemente non ne ha la certezza, la fede religiosa non è una certezza razionale, assolutamente non si chiamerebbe fede. Si chiamerebbe con qualche cosa di altro. Non è una certezza matematica e dunque questo “speriamo” è molto bello, perché dice una fiducia e dice anche una domanda, dice anche una umiltà. Non spetta a me

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determinarlo. Io me lo attendo come un dono, è il compito di Dio, mi vien da dire, esserci e operare la salvezza. Ma credo che sia molto bello questo dialogo, molto lieve “speriamo”. Ecco il credente a quel punto lì è un accompagnatore, un volontario, il credente non è certo. Io ricordo una volta che rimasi sbigottito di fronte ad una cosa banalissima come quella che vi ho citato prima di Agostino, insomma non c’è neanche bisogno che sia Agostino a dirla “incerta omnia sola mors certa”, l’avrà scritta in latino però ci dovremmo arrivare anche noi, e ricorda la reazione violenta di una persona sì, in uno spazio di fede ma non è possibile. Ecco il dubbio, i toni non virulenti sono importanti, i toni non troppo forti e questo piccolo frammento di dialogo mi sembra che dica qualche cosa proprio dell’accoglienza del cammino che la persona sta facendo. Voi siete lì testimoni e accompagnatori di un cammino che la persona sta facendo dentro di sé anche nell’elaborare le sue credenze e che evidentemente pigliano un volto differente nel momento in cui il Dio della Vita è il Dio che mi conduce alla morte. E quello è un problema per il credente, ma lì, ripeto, nessuna affermazione troppo forte, troppo invasiva, l’accoglienza dell’altro, l’accoglienza di ciò che l’altro sente anche a riguardo alla fede. Le parole da dire il silenzio è parola? Quale risorsa è per la vita terrena recuperare il morire? Il silenzio, io credo che il silenzio sia una delle forme comunicative più profonde ed intense ed eloquenti e soprattutto in contesti comunicativi relazionali in cui non sempre la parola verbale può essere detta o addirittura pronunciata. Certo il silenzio, beh innanzitutto ogni parola autentica è preceduta e seguita dal silenzio. Se voi parlate in un modo talmente veloce che non lasciate spazi vuoti tra una parola e l’altra il discorso è incomprensibile. Il contrario della parola non è silenzio, è rumore, confusione ogni nostra parola dovrebbe essere imbevuta di silenzio ed io credo che anche da questo punto di vista il morente può insegnare molto, proprio perché si avvicina al momento della fine del parlare, del silenzio totale. Nella Bibbia uno dei termini che esprimono l’aldilà, il luogo dei morti è silenzio ed io credo che l’affinamento di sensibilità e di capacità comunicativa cui vi obbliga la debolezza del malato, la potente debolezza del morente vi obbliga anche a scoprire le capacità comunicative del silenzio e a percepire che ci sono dei silenzi estremamente eloquenti. Due innamorati non hanno neanche bisogno di dirsi molto, magari si ripetono all’infinito “ti amo”, che può sembrare un po’ noiosino, eppure per loro è tutto, oppure stanno lì in silenzio, un silenzio ricco, denso. Ecco lì io credo si verifichi anche, voi potete verificare anche la qualità, l’intensità, la profondità della relazione che avete costruito con la persona della capacità di un silenzio comunicativo, lo sentite subito se è comunicativo oppure se invece è imbarazzato. Non c’è bisogno di studiare, lì c’è un discernimento immediato. Ma il silenzio sì è una comunicazione estremamente profonda anzi spesso noi comunichiamo con il silenzio ciò che non è affidabile alle parole. Non tutto può essere affidato alle parole. Le parole arrivano anche a tradire o a sminuire il profondo, il vero, l’intenso che vogliamo comunicare. E poi ancora “quale risorsa è per la vita terrena recuperare il morire”, beh io credo semplicemente credo questo anzitutto, parlo per me, come uomo e poi come Cristiano credo queste due cose. So perfettamente che la vita non è indefinita ma ha un inizio e una fine, solo per questo è una vita. Solo ciò che muore vive, i fiori di plastica non appassiscono, però fanno schifo. Insomma saranno anche carini però non sono vivi. I fiori arrivano ad appassire a morire. Commento: I fiori rinascono quando muoiono Ah sì va bene invece il fiore di plastica sta sempre lì, ma insomma è abbastanza, così, non particolarmente bello come un fiore che ha una vita magari breve ma… Umanamente avere la percezione che la vita è segnata da una morte e quindi da dei limiti di cui la cifra massima è il morire, e la morte è, secondo me, essenziale e vitale. Per cui io credo, ma ripeto nella mia accezione, parlando di me, anche ad un mero livello umano antropologico, io credo che sia importante percepire che il morire fa parte della vita e che dunque questo porterebbe in prevalenza a quale risorsa? Beh liberarsi da quel senso di onnipotenza, percepire che dobbiamo lasciare tante cose, tante attività, tante situazioni per lasciare il posto ad altri, non sono l’unico al mondo. Ci sono altri dopo di me ed è bello nell’avvicinarsi alla vecchiaia lasciare liberamente, gioiosamente ad altri il posto e lo spazio. Questo fa sì che si può da un lato recuperare anche il tempo della vecchiaia, nella misura in cui ci è possibile grazie alle condizioni di salute eccetera come un tempo di interiorità. Un grande teologo come Karl Barth che ha parlato molto dell’anzianità, ne ha parlato come del tempo della interiorità e anche in altro ambito Carl

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Gustav Jung parlava della interiorità possibile nel tempo nella seconda metà della vita e soprattutto nell’anzianità e nelle vecchiaia ma soprattutto è l’entrare nella percezione della verità dell’esistenza. E la nostra vita umana è finita, la vita terrena, appunto, è una vita che ha un limite, non è illimitata e questo mi aiuta a prenderne e assumerne la responsabilità in modo più pieno. Responsabilità della vita passata e a vivere con serenità e lasciare il passo ad altri, soprattutto questo, io credo, non vedere se stessi come dopo di me il diluvio, dopo di me è la fine. E’ vero che la morte di una persona, in un certo modo, è la fine del mondo per quella persona lì, è la fine del suo mondo e tuttavia quando so che ci sono altri a cui ho lasciato, a cui ho dato, che ho amato, beh io credo che posso affrontare anche la morte in modo molto più sereno, in modo meno disperato. E’ un punto di vista Cristiano evidentemente. Per una persona di fede la morte, fine dell’esistenza, è anche compimento, è anche momento del grazie ultimo, è anche il momento certo, magari invece di un grazie uno ha la bestemmia ma questo non è, ripeto, non è preventivabile, e tuttavia è il momento in cui io posso arrivare a tentare di vivere come un atto anche l’ultimo momento della mia esistenza. Non è fuori dall’esistenza, sarà l’ultimo, ma pure un atto della mia esistenza. Quante vite eloquenti, pensate al martire, pensate a questa donna condannata a morte in Sudan, e tanti altri oramai, sono talmente tanti che accettano coscientemente per fede, per fede, per nient’altro di, anche di morire, quando potrebbero trovare la scorciatoia per salvarsi la vita, ma pur di restare fedeli al senso che si è accordato alla propria vita… Lì è davvero la vita come compimento. La carezza, la mano al malato sono preghiera. Certamente sono un atto umano, umanizzante ma in una prospettiva di fede quello che avete fatto ad uno di questi più piccoli lo avete fatto a me. Certo in una prospettiva di fede anche questi gesti di vicinanza, di prossimità sono invocazione levata a Dio in cui si lascia a lui di vedere e di intervenire. Sono, io direi, una forma di supplica che dice innanzitutto la nostra prossimità, la nostra volontà, di dare amore, vicinanza, presenza all’altro. Ma sono dei gesti che noi facciamo, il credente li fa nella fede davanti a Dio, sapendo che proprio nel malato c’è, più che mai, il Sacramento della presenza di Cristo stesso. Don Lodovico Debernardi: Grazie Fratel Luciano Manicardi: Io vi ringrazio e vi chiedo scusa davvero di questa mia toccata e fuga ma era l’unica maniera per poter essere presente altrimenti avrei dovuto dir di no. Don Lodovico Debernardi: Lasciamo la parola al dott. Luciano Orsi, direttore scientifico della Rivista italiana di cure palliative, poi vedo segnato anche l’Azienda Ospedaliera Carlo Poma. Il titolo: “Senso della vita alle soglie della morte”. Credo che seguiamo anche qualcosa di tecnologico. Invece per il professor Orsi lasciamo che svolga appunto la sua presentazione poi segue subito anche l’intervento di Padre Fabio e al termine dei due abbiamo tutto lo spazio per il dibattito prima del pranzo, quindi segnatevi anche qui, con il modulo delle domande, sia per il dottor Orsi che per Padre Fabio, perché sono una dietro l’altra e alla fine risponderanno insieme agli interventi vostri. Dott. Luciano Orsi: Buongiorno a tutti e grazie. Grazie per l’invito. Partiamo subito con Viktor Frankl che è già stato citato e per fortuna e per piacere mio saranno vari punti di contatto con quanto svolto. Pur partendo da due visioni del mondo diverse perché io ho il compito di rappresentarvi la faccia laica, il lato laico della spiritualità. Viktor Frankl che ha sviluppato molte sue considerazioni non solo in ambito professionale, ma internato in un campo di concentramento quindi molti dei messaggi che ci ha lasciato purtroppo derivano da quell’esperienza. Segnalava come fosse la ricerca del senso, l’elemento fondamentale del sentire e del pensiero umano e soprattutto nei campi di concentramento si è rivelato molto chiaro che, se si riesce a dare un significato alle sofferenze, forse queste

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diventano più gestibili, più sopportabili, più affrontabili e questo già ci colloca in un senso, in una prospettiva il nostro operare quotidiano come volontari e ovviamente può farlo anche nei confronti dei malati e dei familiari perché altrimenti, di primo acchito, sofferenza e morte sono solo fonte di guai, di sofferenze se non sono collocate o se non si tenta di collocarle dentro in un quadro di senso, di significato. Jung è già stato citato, lo ricito aveva già detto questo elemento, se manca il significato difficilmente c’è la pienezza della vita e quindi anche nella vita che si spegne e nella morte dobbiamo cercare di trovare un significato, un senso. Il Cardinal Martini non è stato citato quindi lo cito, ancora una volta ha sottolineato come siamo in un periodo di tempo, di spazio in cui abbiamo tempi brevi e parole urlate, parole clamorose. In realtà forse abbiamo bisogno di tempi più lunghi e di parole meno clamorose più sussurrate. Il significato di molti degli ultimi commenti, diceva Manicardi, sono sul silenzio, sul valore del silenzio che valorizza la parola, ma deve essere una parola sicuramente non urlata, sicuramente non usata come slogan o come bastone significante. Scarpelli, che è uno dei pensatori in ottica laica, diceva che cosa è la spiritualità. Sicuramente è quella ricerca individuale, condotta intorno a domande fondamentali, cercando di dare domande fondamentali, chi sono io, da dove vengo, dove vado, chi ci sarà dopo di me, delle risposte fondamentali e fin qui siamo nella definizione classica che tutte le correnti di pensiero danno alla spiritualità. In ottica laica si introduce un elemento in più che è il fatto che c’è questa ricerca intorno alle domande del senso. C’è questa ricerca di risposte fondamentali, ma si può anche raggiungere una consapevolezza che risposte fondamentali, risposte ultime a queste domande fondamentali non sia possibile darle. Quindi in un’ottica laica comincia ad essere connotata da questa consapevolezza di contemplare anche la possibilità di non trovare risposte o comunque di non trovare risposte ultime, definitive che valgano sempre e per tutti. Questa è la prima cifra del pensiero laico e che può essere connotato anche come un insieme di valori, di tensioni, di aspirazioni che l’individuo sceglie individualmente. Questo è l’elemento fondamentale, la scelta dell’individuo di questa prospettiva a prescindere dalla credenza e dalla trascendenza divina che trascende l’umano. Perché è possibile pensare anche ad una trascendenza dell’individuo, è possibile pensare ad una trascendenza sui valori ricercati dal singolo attingendo a proprie esperienze, a esperienze di altri uomini, o a esperienze di uomini pregressi, quindi di coloro che ci hanno tramandato una sapienza e quindi bisogna contemplare, in ottica laica, sia la possibilità di trovare risposte in una trascendenza, una visione che trascenda l’uomo, sia la possibilità di cercare risposte e scegliere risposte possibili in una trascendenza che non sfocia nel divino, ma che rimane sul piano puramente e prettamente umano che ciò nonostante non perde di valore. Rimanere sul piano umano, rimanere sul piano di valori che le comunità umane scelgono, impongono, si scambiano è comunque una risposta che può avere senso, che può dare senso, e dipende molto dalla scelta individuale. Quindi l’ottica laica contempla entrambe queste possibilità. Luciano Manicardi ci ha detto: “la fede, la fede religiosa è qualcosa che esce dalla sfera razionale ed entra in un’altra sfera”. Kant, Hume, Scarpelli sono pensatori che hanno ben segnalato come l’aspetto razionale umano, il cervello dell’uomo non può elevarsi fino al cielo della metafisica e gestire il cielo della metafisica con aspetti razionali, e addirittura molti filosofi sono arrivati a dire che probabilmente è inutile persistere dopo millenni in dispute sull’esistenza della trascendenza divina perché non è un qualcosa che razionalmente può essere affrontato, gestito e quindi occorre rivolgere il pensiero, il tempo, le nostre risorse ad altri tipi di riflessioni. Quindi la spiritualità laica si condensa in ciò che vuol dire come se Dio non ci fosse e che quindi io mi comporto, io scelgo le mie, i miei valori, i miei orientamenti spirituali, al di là dell’esistenza o no di una divinità, di qualsiasi divinità possibile. Escludendo quindi che esistano premesse metafisiche o religiose che di per sé possono valere per tutti e sempre. Questa è il primo “movens” del pensiero laico. Che non vuol dire che in un’ ottica laica bisogna necessariamente schiacciarsi e polarizzarsi sull’ agnosticismo o sull’ateismo. E quindi di per sé l’ottica laica non ha niente di anti religioso, anzi. L’ottica laica presuppone, questo lo voglio sottolineare con forza perché spesso non viene capito, spesso viene travisato, spesso viene usato come una specie di boomerang o distorto per cercare di trasformarlo in un boomerang, presuppone, l’ottica laica, presuppone che sul tavolo al momento zero, al momento in cui ci si confronta, al momento in cui si comincia a riflettere, tutte le credenze che siano religiose o no, che facciano afferenza o trascendenza o che non facciano afferenza o trascendenza e quindi si pongono più sul lato di una trascendenza dell’individuo su piano umano, non abbiano una maggior verità in sé rispetto ad altre. Ciascuna posizione,

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ciascuna riflessione, ciascuna prospettiva al momento della partenza del confronto ha ugual valore. In una religione buddista, piuttosto che anglicana, sik, piuttosto che una visione agnostica, una visione atea, piuttosto che un animista, di per sé, al momento zero non possiedono nessuna di loro una superiorità intrinseca rispetto alle altre. Nessuna è più vera, nessuna è portatrice di una verità più vera, di una verità più densa, di una verità più luminosa, di una verità più totalizzante eccetera, eccetera. E questo immediatamente fa scattare l’elemento tolleranza, perché se è vero che nessuno ha la verità in tasca, la verità più vera, la verità più fulgida, la verità più luminosa allora deve essere tollerato, un’altra visione, un’altra verità, un altro pezzo di verità, un’altra prospettiva. Quindi la chiave tolleranza è una chiave fondamentale in ottica laica di pensiero e ovviamente laica di spiritualità perché poi è chiaro che ognuno si ammala e muore nella propria spiritualità e questo non toglie o non dà valore a seconda del tipo di spiritualità. Perché siamo molto orientati a valorizzare l’esperienza del singolo uomo che sta morendo o del singolo volontario che accompagna o singolo operatore professionale che accompagna e che è vicino. Saltando completamente dal punto di vista geografico e dal punto di vista temporale questa è la frase che mi ha illuminato quando l’ho letta tanti anni fa: “La verità è uno specchio che cadendo dal cielo si ruppe al contatto sulla Terra. Lo specchio si rompe in mille frammenti ciascuno prende, afferra un pezzo di vetro, di specchio e siccome vede se stesso riflesso nello specchio pensa che quella sia la verità. Quello sia l’intero specchio”. Ecco io penso che l’umanità abbia percorso tante volte questo percorso. Ciascun pensatore, ciascuna persona, ciascuna tradizione, ciascuna sapienza ha visto un pezzo di verità, ha raggiunto una visione, una suggestione, è stata forte la tentazione di dire che quella fosse la chiave di interpretazione del tutto, per tutti e per sempre. E questa è la prospettiva che sento molto vera. Sento molto storicizzata, sento molto che l’umanità abbia fatto questo percorso. Non per nulla molte tradizioni sapienziali hanno tanti elementi comuni che vengano da posti diversi, da tempi diversi, da punti di partenza diversi. E quindi c’è molto di umano nel cogliere frammenti di verità, nelle riflessioni e nelle vicende umane. Quindi la cifra fondamentale di un’ottica laica è la libertà; tolleranza, libertà sono le due gambe con cui lo spirito laico pensa di muoversi e può muoversi. Libertà di pensiero, libertà spirituale che al limite è quasi infinita. Che trova il limite solo nel momento in cui comincia il danno per gli altri. Il momento in cui la mia libertà di pensiero, la mia libertà spirituale va a confliggere con un’altra libertà con altra sfera individuale o di comunità. Esattamente, come più concretamente, libertà di azione sostanzialmente. C’è quindi un’ottica molto liberale. La chiave di fondo è un’ottica liberale. Perché in quest’ottica anche dal punto di vista spirituale, non solo dal punto di vista etico piuttosto che dal punto di vista politico e via dicendo uno dei valori è tentare di lavorare per ampliare le scelte dell’ umanità. Cioè per offrire al singolo e comunità più spazi di scelte. Ampliare le sfere della scelta e non andare a chiudere le scelte e a limitare. Quindi la spiritualità non può essere vista come qualcosa di soffocante e limitante. Se volete un punto in comune con Manicardi è quando ha detto: “attenzione che gli amici di Giobbe in perfetta buona fede, volendo somministrare, inoculare una verità, un pezzettino di verità che descrivesse già partenza, percorso arrivo eccetera… in realtà facevano un atto improprio, un atto che violava le libertà. Addirittura l’ha definito in modo forte, e mi è piaciuto molto questa sua citazione intellettuale, uno sciacallaggio. E a un ridurre le possibilità di scelta. Forse Giobbe in quel momento lì aveva bisogno di tempi e di spazi e di ricerche che potevano condurre ad altri esiti non necessariamente a quello che gli amici in buona fede volevano dargli già preconfezionato perché convinti, assolutamente convinti, che quella fosse la risposta, l’unica risposta per lui e per altri. E’ chiaro che in una visione laica, io personalmente ho questa visione, non trovo un elemento di grandissima causalità nell’universo. Nelle vicende umane, nella finitezza umana, no? Nel non senso dell’esistenza. Non trovo un senso già dato. Il limite del credente, dell’umanità, il limite del pensiero, il limite della corporalità, il limite della razionalità, di per sé non trovo che abbiano un senso già dato, già pronto, già confezionato, semplicemente da decodificare, da leggere. Penso che vada cercato un senso. Penso che ciascuno, se vuole se può, come vuole e come può, nei tempi che vuole e che può debba dare o cercare di dare un senso. Ma la sua ricerca è molto libera. Uno dei sensi che possiamo dargli, ed è la ragione per cui con la bellissima giornata siamo qua a ragionare su queste cose, è migliorare le condizioni di vita dei nostri simili, altrimenti non avremmo fatto i sanitari, per chi fa i sanitari, non avremmo fatto i volontari per chi fa i volontari. Cercare un miglioramento di condizioni di malattia o di morte e questo è già un senso, a

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mio modo di vedere, molto forte che può dare veramente una connotazione spirituale al nostro agire da volontario o da professionista o, prima o poi ci arriveremo, da malati o da familiari. Una cosa in cui credo personalmente molto fortemente è pagare un debito. Noi siamo qui perché qualcuno prima di noi ci ha permesso di essere qui in queste condizioni e quindi io sento forte il debito nei confronti di chi ci ha permesso di arrivare qua. Un altro aspetto potrebbe essere una coerenza del proprio operato, una coerenza nel proprio contributo. Questo non vuole dire che non si può cambiare idea, per l’amor di Dio, ma una coerenza di fondo su questi tipi di azioni penso che sia un valore da vivere, da trasmettere, da offrire. Heidegger ha detto in una frasetta: “Rendiamo abitabile il mondo.” Quello che può essere un fortissimo senso nel nostro vivere e nel nostro, se volete, morire. Sempre è recitato Kant in un’ottica però di liberalità, di cercare, di spingere, di ampliare, di spostare faticosamente i limiti d’azione, limiti del pensiero, i limiti della ricerca, ecco. Tutto ciò che va verso il collasso, il centripeto a me non piace molto. Penso che sia il centrifugo, l’espandersi che ci arricchisca soprattutto dal punto di vista spirituale e intellettuale. E questo vuol dire che se non esiste una verità etica o spirituale già data, pronta per tutti e che bisogna solo cercare di conoscere e applicare e che sia umanamente conoscibile, bisogna andare invece verso una spiritualità che sia scelta da individuo e da una moralità o da un’etica che sia razionalmente fondata e non fondata su un’altra ascendenza ancora una volta, la tolleranza ed il pluralismo spirituale ed etico sono la cifra del pensiero laico. Perché sono l’ambito in cui le riflessioni vanno a finire. Quindi scendendo più nell’aspetto pratico, cosa dovrebbe fare un operatore piuttosto che un volontario, sicuramente recepire il bisogno, perché se non ci sono le antenne tese, i bisogni spirituali sono abbastanza impalpabili, non sempre sono esplicitati, non sempre emergono con chiarezza. Sicuramente tenere un atteggiamento molto aperto, molto neutro, nel senso valoriale, cioè molto rispettoso dei valori altrui. Ciascuno ha i propri valori e sono indiscutibili, ma anche il malato ed i familiari hanno i loro valori e sono altrettanto indiscutibili, quindi il primo passo, il primo tempo, il primo modo non può che essere l’accoglienza dei valori altrui con assoluta neutralità, cioè con assoluto non giudizio, non valorizzazione, non svalorizzazione. Attenzione perché ciò a cui crediamo noi, crediamo che sia molto vero e quindi la tendenza al giudizio ci scappa quando ci confrontiamo con dei valori che non sono i nostri e quindi un atteggiamento sostanzialmente di empatia. La creazione è, l’avete dimostrato con le domande sostanzialmente, il gesto, la carezza, l’ascolto, silenzio la presenza quindi la costruzione di un contesto razionale in cui questi bisogni, questi brevi discorsi, questi scambi possono, questi ascolti possono essere effettuati. Sempre appunto però un atteggiamento moralmente neutrale. Io ricordo una scena che ho visto in un posto e dove un operatore sanitario, c’era una persona di fede buddista che stava morendo, ha pensato di togliere un po’ di fiori secchi senza rendersi conto di cosa stava facendo, stava distruggendo il contesto che non era un contesto di oggetti che sono le luci, le candele che sono gli oggetti, stava togliendo i simboli, quando Manicardi parlava della morte deritualizzata, desimbolizzata, allora staccare il crocifisso, togliere un libro di preghiere, mettere nel cassetto questa cosa qua, togliere i fiori ha questo significato. E quindi si deve essere moralmente molto neutri perché altrimenti non riusciamo a raccogliere ad essere empatici, se non riusciamo a leggere i simboli a rispettare i simboli altrui. Sicuramente mettersi dal punto di vista del malato, che non è una roba che ci viene facile ed immediata, ma entrarci in quest’ottica qui è un modo di riconoscere i bisogni del malato. E’ Giobbe, il vero maestro, è la persona malata. Giobbe non aveva bisogno che qualcuno gli dicesse “si fa così e così, perché così è giusto, così è vero”. In queste cose qui è esattamente il contrario, come è vero peraltro per tutto l’assetto delle cure palliative, malato al centro e via dicendo. Qualcuno ha scritto: in questo percorso di avvicinamento alla morte, sto cercando qualcuno a cui rivolgermi che mi dia l’impressione di sforzarsi, di capire, quindi il bisogno del malato è l’ascolto. E’ l’aver accolto anche i bisogni di questo tipo. Che spesso si concretizzano così, lo vedete, l’avete vissuto, lo vivrete. Parlare dei momenti significativi, ciò che è andato bene, ciò che è andato male perché è nel racconto nella storiografia che emerge non è solo la storiografia dei fatti degli accadimenti, dietro ci sono i valori anche spirituali. Aiutare il paziente a lasciare le cose inconcluse. L’ha già accennato Luciano Manicardi e non sto a sottolineare se non il fatto che questa roba qui non è una roba da psicologi, questa è una roba connessa con la storia dell’individuo e quindi con i valori della spiritualità. E dove è possibile supportare, offrire momenti e pratiche religiose, canti e meditazioni, tutto ciò che può facilitare, perché questo va fatto anche

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se non è un pratica sanitaria, le cure palliative hanno una parte tecnico sanitaria ma hanno una parte importante anche su questi versanti. E quindi anche permettere al malato di accettare la morte, permettere ai familiari di accettare la morte del malato e quindi di aprirsi e non tenersi chiusi, nel rifiuto, la rabbia, la lotta, la contrapposizione permette lo svolgimento di queste aperture spirituali, esattamente come la decisione sulle cerimonie funebri, piuttosto che, perché queste sono le angosce che uno ha dentro, le preoccupazioni che uno ha dentro, sono i pensieri che uno ha dentro, che non sono solo pensieri pratici tecnici, organizzativi. Dietro c’è un valore, il volere una certa foto, volere un certo abito. Volere una certa cerimonia, volere un certo trattamento della salma. Dietro ha un significato simbolico forte quindi è esattamente connesso con il piano spirituale molto di più che non con il piano logistico amministrativo. E poi c’è una grande tolleranza ancora una volta per le modalità con cui il malato decide di chiudere la propria storia, la propria biografia, la propria avventura spirituale. Sappiamo che alla fine possono succedere degli scarti, dei cambi, che disorientano molto la famiglia perché non li accetta, perché fatica ad accettarli perché rimane disorientata eppure fanno parte di una persona che è sempre stata laica agnostica eccetera, eccetera e poi abbraccia una visione; viceversa ce l’aveva, la perde, la modifica; questa non può essere sistemata questa cosa, non può essere regolarizzata. Spesso le famiglie chiedono che venga posto un aggiustamento di questo scatto finale ed invece sostanzialmente c’è tanto rispetto, non può essere sistemato perché fa parte della storia dell’individuo, della libertà di scelta dell’individuo. Si deve lavorare sulla sua famiglia perché lo gestisca, lo tolleri, capisca i significati, capisca che sono cose che succedono eccetera, eccetera ma non si può lavorare in senso contrario per sanificare questo salto finale, questo scarto finale. Chi riconosce i bisogni spirituali? Il processo è unico e ci possono essere vari interlocutori e quindi lontani amici, familiari, equipe. Ci possono anche essere di notte con gli hospice, con gli OSS si aprono delle prospettive che di giorno con i sanitari non si aprono, perché l’OSS è uno che lava le persone, che tocca le persone e allora se mi cambiano il pannolone e mi fanno l’igiene, siccome la pelle tocca la pelle, e la pelle viene inzuppata nell’embrione esattamente dallo stesso strato da cui nasce il cervello, ecco perché ci piace tanto in alcuni momenti e meno in altri la carezza, il tocco, il contatto perché andiamo subito qua. Beh è proprio con la persona che mi tocca perché se mi tocca qua, mi tocca anche qua che si aprono delle cose, dei discorsi degli accenni. La stessa cosa succede con i volontari, persone perfettamente sconosciute in cui, guarda caso, proprio con lo sconosciuto magicamente nascono delle trasmissioni, delle aperture. Che non riescono a nascere con la figlia Carla, con il figlio Paolo, con la moglie, con l’ex moglie, con l’ex marito, quindi rispettare la scelta del malato sull’interlocutore elettivo, quello che lui ha scelto con cui dire, condividere, farsi ascoltare. L’ultimo pensiero che mi sento di condividere con voi è mai come su questo terreno spirituale è vero questa cosa qua, non per niente l’ha detto un cappellano che lavora in un hospice. In queste cose qui siamo uomini o donne prime di essere suore, filosofi, volontari, medici, infermieri, OSS eccetera, eccetera. Cioè questi contatti avvengono fra uomini indipendentemente da come sono vestiti l’uomo o la donna, indipendentemente dal cartellino che uno ha sopra; e quello che noi trasmettiamo è quello che abbiamo dentro. Nel senso che non tanto quello che conosciamo, ma quello che siamo ed è questo che permette le aperture. Perché altrimenti fra sconosciuti non ci si apre se non ci si sente, se non ci si palpa dal punto di vista celebrale come simili. Non ci si fiderebbe, se non ci si sente simili. Io sono, quello è lì sull’essere più che sul cognitivo, sulla parola, sulla qualità del concetto che si schiudono questi spazi. E quindi stare sull’essere per i sanitari, ma anche per i volontari è importante, stare sul relazionale è estremamente importante e laddove c’è spazio, laddove c’è volontà di andare assolutamente è trascendente qualunque tipo di trascendenza sia. Perché la sofferenza nella fase finale della vita è legata, dunque, alla fisica che cerchiamo di gestire e si esce spesso da quel passaggio dal chi ero al chi sono. “Io ero la mamma che accudiva e adesso mi danno da mangiare. Quella che faceva fare i compiti e adesso li fa fare. Ero il presidente di … adesso sono quello a cui cambiano il pannolone ero, eccetera, eccetera”. E questa sofferenza, non dimentichiamocelo mai, non gliela possiamo ridurre noi. Noi non gliela possiamo risparmiare, non gliela possiamo accorciare, non gliela possiamo alleggerire; questo passaggio fra chi ero e chi sono se lo devono fare loro; non illudetevi non entrate nell’area triste dell’onnipotenza del facilitargli, abbreviargli questo passaggio. Questo passaggio che l’uomo deve fare perché sta morendo. Deve fare da solo anche l’uomo che sta nascendo, che sta vivendo, perché per dare un senso, per integrare questo

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evento malattia dentro la propria biografia è lui che deve farlo, è lui che può farlo non possiamo farlo noi, non possiamo fare l’inserimento nella sua biografia. Quello che possiamo fare è creare occasioni, creare l’ambiente e questo il volontario, per esempio, lo può fare molto efficacemente, perché con la presenza, con il contatto, con la relazione queste cose sono possibili. Voglio dire se un marito vuole vedere l’ex moglie e lo dice al volontario, questo già crea la possibilità di poterlo gestire, l’attuale compagna che vorrebbe sparargli sulla porta dell’hospice e rientra nella parte di gestione ma questa esigenza che è uscita con il volontario, ma riferita in equipe va valorizzata e cercare di realizzare questo evento perché questo è attinente con la spiritualità, è assolutamente attinente e questo vuol dire uscire per noi sanitari dalla logica degli aggiustatori. Di coloro che aggiustano i pezzi della macchina che va. Un palliativista dovrebbe essere uscito da un pezzo da questa prospettiva, però richiamare al fatto che ci sono delle cose che non si possono aggiustare penso che sia fondamentale, perché dentro di noi soprattutto per il tipo di società in cui Luciano Manicardi ci ha ricordato in cui viviamo ed in cui cerchiamo di sistemare tutto, di trovare una risposta a tutto, di anestetizzare tutto, di risolvere tutto, di sistemare tutto, ecco il rischio di diventare veramente degli aggiustatori magari spirituali piuttosto che psicologici piuttosto che razionali. Terzani, altra mente che ha riflettuto su questi percorsi, più recente rispetto ad altri pensatori, ci ha insegnato questa cosa qua insomma, lavorare sull’io. Servire, e il volontario è una persona che serve, non che è utile, che serve nel senso che incarna lo spirito di servizio, sfocia immediatamente su un lavoro sull’anima e vi lascio con questa riflessione. Questo è un altro psichiatra del secolo scorso. Io credo profondamente che chiunque di noi, medico, infermiere, psicologo, volontario, massaggiatore reiki, musicoterapia eccetera, eccetera, eccetera cura in vario modo la persona ma soprattutto e prima di tutto perché lui stesso è una persona. Grazie. Don Ludovico Debernardi: Raccogliamo le domande però poi le vediamo al termine dell’intervento che adesso compie Padre Fabio, assistente spirituale presso il nostro hospice L’Orsa Maggiore di Biella. La spiritualità del volontario in cura per la vita. Padre Fabio De Lorenzo: Bene io non vorrei fare quello che ripropone il termine “morire” in senso transitivo quindi vi uccide, perché siete allo stremo immagino, e cose bellissime che sono state ascoltate questa mattina non le voglio minimante confermare o confutare. Io sono qui per, semplicemente, testimoniare con voi, e sottolineo con voi, il ruolo del volontariato e anche il suo senso in questo contesto. Ringrazio il dottor Mauro approfittando del fatto che non c’è, è uscito un attimo dalla sala, perché veramente ha creduto in questa relazione, cioè nel senso semplice dell’essere anche io, da prete, volontario perché sono lì a titolo di volontario senza voler fare sciacallaggi, né proselitismi cercando di imparare anch’io qualche cosa come fate voi e soprattutto cercando di mettermi in relazione. Ecco io condivido davvero anche intellettualmente, se così posso dire, del dottor Orsi tutte queste slides applicative sul ruolo e l’approccio del volontariato, cercherò soltanto di fare una introspezione breve, non vi massacro, su chi è il volontario. La parola richiama il termine volontà che ha una pregnanza fortissima nella determinazione dell’essere persona. Anch’io ho cercato di fare qualche studio in questi anni e già la passione che mi portavo avanti un po’ dai tempi del liceo su quello che è metafisico nella persona. E’ vero che non abbiamo delle prove, lo diceva anche San Tommaso d’Aquino, sulla trascendenza e sulla evidenza, uso bene questi termini, sulla evidenza e delle prove. Però ci sono dentro di noi degli indizi, delle strade, le chiamava Tommaso, con grande senso di modernità che ridanno alla persona un valore grande sul suo esistere, una di queste è la volontà, un’altra è l’autopercezione di sé e così via altre che ne sono state citate questa mattina. La parola volontariato chissà perché si è un po’ plasmata intorno ad una di queste caratteristiche, la volontà, però solitamente nessuno è volontario solo per un atto di volontà, c’è qualche cosa che pesca in altre categorie della persona che sono un po’ meno, forse, quantificabili, qualificabili che entrano un po’ nella cornice del mistero. E sicuramente una parola che si coniuga nel volontariato, con la volontà che c’è di voler servire di voler essere utili, di voler essere presenti, di voler accrescere le proprie competenze, mettiamola come ognuno ci arriva al volontariato è la parola grazia. Io la dico in termini che sono stati assorbiti fortemente dal Cristianesimo a partire da Sant’Agostino che l’ha rilanciata potentemente dal IV secolo questa parola,

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ma che contiene anche un significato, come del resto chi legge Sant’Agostino sa, che ha un significato anche laico. La parola grazia contiene quello che noi chiamiamo gratuità. Allora io direi che nel volontario c’è tanto l’approccio all’essere, volontariamente, in quella situazione, in quella relazione, quanto c’è anche una dimensione di gratuità che non è immediatamente quella che io faccio ma è neppure quella che io ricevo ma è qualche cosa del mio passato che mi ha illuminato. In ciascuno di voi, non vorrei essere presuntuoso, ma mi piacerebbe che ci fosse una esplorazione di che cosa è stato, un evento, un episodio, un piccolo momento in cui io mi sono sentito gratificato, cioè avvolto di gratuità. Può essere stata anche la mia mamma che era tanto brava, un po’ narcisistico e tipico e pericoloso però se rimane solo la mia mamma, però qualche cosa di materno, paterno, di fortemente relazionale ci sarà stato nella mia vita che mi ha impregnato per un istante, mi ha illuminato quasi di gratuità, di donazione e ha spinto dentro di me un meccanismo che è arrivato anche alla volontà, alla determinazione. Ecco questi elementi non è una contestazione però hanno qualche cosa che pesca nel trascendente perché non sono immediatamente nella fisica, hanno un qualche cosa di metafisico cioè entrano al di là di una competenza strettamente quantificabile o percepibile da un’analisi e sto leggendo come molti di voi qualche saggio molto bello di Recalcati ultimamente che, sul versante laico, sta restituendo anche alla psicoanalisi un’attribuzione di relazione con un altro trascendente ed è uno scrittore laico. Non si vuole porre immediatamente su un piano di credenza religiosa. C’è, a volte, un po’ una nevrotizzazione nella nostra cultura per cui, forse, la cosa più onesta dal punto di vista intellettuale, ripescando le nostre radici, è che quel frammento di specchio forse ci conviene spezzarlo ancora a noi stessi ulteriormente proprio per dare una dimensione centrifuga alla nostra personalità cercando però di non cadere nel tranello opposto che è quello di avere la mentalità queer cioè “oggi io sono volontario, domani sarò morente, ieri ero ateo, oggi sono credente” cioè la mia vita è semplicemente una sfaccettatura. Ci sarà ben un’unificazione della persona, mi sembra che sia stato rilevato bene da tutti e due gli interventi precedenti. Ecco il volontario è una persona che non lo fa estemporaneamente perché in quel momento ha la sfaccettatura del volontario, ma perché una persona che in un processo, a partire da quel momento di illuminazione sulla sua gratuità, per tentare una unificazione della sua persona e adesso vi spiego cosa secondo me è questa unificazione della persona. E’ quello che noi ritroviamo nel vostro tipo di volontariato preciso, quello vicino al morente, perché il morente è la persona che ritorna al bambino da 0 a 3 anni: è quello che si spoglia del proprio arredamento di casa, magari una casa bellissima con mobili Luigi XVI, Luigi XV e si ritrova con un armadietto ed un letto, bellissimi nel nostro hospice direi quattro stelle e mezzo, ma comunque tutta la personalizzazione anche della storia arredativa del suo ambiente di vita, la storia del suo abbigliamento del suo portamento viene fortemente ridotta, ricondizionata non dalla struttura o dall’ambiente ma dalla malattia, dalla condizione di vita, ritorna ad essere la persona unitaria che in un certo senso deve sviluppare proprio come il bambino piccolo, contemporaneamente, emozioni, volontà e decisioni. Ha un’unica possibilità di interfaccia, poi, ovviamente, la gira il pensare molto complesso dentro una persona. C’è tutto quello che è stato ricordato prima, la possibilità di ritrovare le proprie radici, di ripensare a se stesso, allora questa gratuità assieme alla volontà, poi perché il volontariato? Perché avete scelto di essere volontari? Qui sicuramente ognuno ha la sua risposta, però a differenza di altre forme di volontariato plausibili, che secondo me si svolgono più su un piano tecnico, pensiamo a un volontario del soccorso alpino piuttosto che della croce rossa dove il tecnicismo interviene potentemente ed assorbe molto anche delle energie mentali, il volontario dell’hospice e delle cure palliative è un volontario che si concentra di più sulla relazione, cioè non può andare armato di quelli che venivano chiamati prima attrezzi o baracchini, non so più. Qua ci vuole veramente una concezione dell’altro aperta che risponda alla concezione di me verso l’altro. Proprio dentro allo specchio, e qui mi rifaccio a quell’immagine di prima, che io posso vedere soltanto me stesso, perché lo diceva l’affermazione, e questo è il tranello, se io penso che tutta la verità sia me stesso che filtra la verità, io ho escluso molto della relazione. Proprio Viktor Frankl nella logoterapia che insegna il valore umanizzante e progressivo della relazione in senso anche terapico, in senso proprio evolutivo; allora il volontario è uno che vuole evolversi da questa visione richiusa su se stesso, non sto parlando di orizzonti immediatamente etici, filantropia o spirito subito cristiano. Bisogna però vedere il volontario come una persona che unifica se stesso, quello che vi dicevo prima, cercando veramente di scommettere quasi esclusivamente non sulla tecnica ma sulla relazione. Ecco qui nasce, forse, una connotazione esclusiva del volontariato all’hospice. Noi nasciamo

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anche dall’esperienza grande di Cecily Saunders che aveva un orizzonte credente che aveva una visione fortemente centrata su un Dio rivelato e che si coniuga con la parola amore al punto tale che lei stessa ha vissuto in prima persona l’esperienza dell’amore direi a 360° con i pazienti, adesso non pensate a scene erotiche, ma a modo suo ha vissuto anche la pelle, la memoria della pelle, la percezione che palliativo vuol dire, sì, un rivestimento, il pallium, ma che anche questa pelle che entra in contatto con l’ammalato che non è una visione soltanto riduttiva ma è una visione avvolgente è veramente un abbraccio, quanto sono importanti i gesti, quanto sanno di spiritualità i gesti, l’avete detto prima molto bene. Ecco allora il volontariato all’hospice si fonda su questi tre principi che comunque Cicely Saunders aveva ben chiari e nei suoi testi sono ben enucleati. Allora il primo è un binomio “comprensione – compassione” c’è questo “com” in comune, comprensione e compassione cioè prendere con sé e patire con sé. Io prima mi sono messo in fondo alla sala per patire con voi cosa voleva dire stare seduti qua tre ore e in effetti adesso sto tagliando più corto possibile. Compatire e comprendere è il primo ruolo del volontario. Il secondo è “esserci”, esserci che non è soltanto una presenza fisica, è un esserci di cuore e non è la scusa perché così lascio fuori i problemi di casa mia dalla porta, ecco questo esserci è “io entro nel problema con te” perché questo diventa anche parte della mia vita. Chi l’ha detto che i problemi che io mi porto da casa siano davvero i più importanti e qui dentro trovo quasi addirittura un’evasione. Me lo diceva un volontario qualche mese fa, io è quasi dieci anni che frequento l’hospice ma veramente ho incontrato in tante persone delle espressioni meravigliose. Questa persona che mi diceva: “io vado via rincuorato dopo il mio servizio, mi devo ri-immergere nei problemi veri”. Ecco mi sembra un po’ un dualismo pericoloso questo, diciamo che magari i miei problemi vengono anche illuminati, o forse anche semplicemente condivisi senza parole. Chi l’ha detto che il paziente sia lui semplicemente ed io sia l’operatore. Se si entra in questa empatia è vero che io mi avvicino con una competenza, anche tecnica, di relazione però con questo doppio scambio. E il terzo aspetto quello del “controllo” non nel termine, nell’accezione brutta ma nella capacità di controllare quello che veniva detto molto bene prima dal dottor Orsi. Cioè una certa neutralità, io aggiungerei, attiva cioè un suscitare forse questa neutralità in modo enzimatico, passatemi la parola, cioè come se io fossi uno che in maniera quasi provocatoria, senza ferire l’altro, senza invaderlo, riesco a sollecitare il suo essere pienamente umano, il suo essere pienamente se stesso. Ultimo passaggio, e poi concludo, così davvero non prolunghiamo il permanere qui dentro ma l’ultimo passaggio è quello che io definisco con una parola oscena la “santificazione”. Santificazione abbiamo dato un’accezione dal Cristianesimo devoto alla parola santificazione. La parola santificazione nella mentalità, nella tradizione, anche Cristiana, è una parola che restituisce originalità alla vita, vuol dire se nasciamo tutti come ai tempi di Clodoveo che battezzava i bambini a secchiate perché tanto bisognava fare in fretta perché c’era un altro villaggio come all’epoca dei conquistadores, poi ciascuno doveva trovarsi ma anche per noi o per chi viene introdotto in una forma di religiosità da piccolo, è proprio vero che deve trovare la sua strada. Questo sta nella natura delle cose, tanto più se un convertito adulto l’avrà trovata prima e semplicemente deve perfezionarla. La parola santificazione è una parola che si unisce alla parola perfezionarsi ma anche qui non in un termine pretenzioso, cioè io cerco la mia perfezione, che chissà poi quale sarebbe la mia perfezione. Io cerco una visione della vita e quale è la mia visione della vita? Evidentemente è quella che da soli non si nasce, perché abbiamo se Dio vuole una madre in qualche modo, e da soli non si muore, se si vuole vivere umanamente. Questo essere vicini alle persone in questo senso nobilita profondamente il nostro essere. E nobilita l’essere di chi ci sta a fianco. Faccio una citazione di San Paolo: “mentre i Giudei chiedono i miracoli” cioè le grandi religioni tradizionali monoteiste chiedono l’affermazione di un potere forte a chi fa il salvatore del mondo, “mentre i greci cercano la sapienza”, cioè cercano una coerenza intellettuale,” io predico il Cristo Crocifisso”. Attenzione questo non è uno spot per il Cristianesimo, è un modo di vedere il Cristianesimo non sul versante immediatamente della Resurrezione, io faccio il volontario, faccio il sacerdote, io faccio l’assistente spirituale così ti dico che tanto dopo la morte tra dieci minuti tu sei bello che risorto. Sarebbe un cattivo servizio questo. Io alla luce di un Dio che si è qualificato come tale, bisogna avere fede per questo, però coniugo i cinque minuti prima di questo Dio che se ne stava sulla Croce in agonia come in qualche modo sei tu. Ecco queste cose io non le dico ma questa mattina a voi le dico. Noi assumiamo veramente questa forma dell’operatore patiens, cioè colui che compatisce, colui che è perché, perché è un valore la sofferenza? Perché è un valore la morte? Questo resta un grande mistero, il valore è l’amore la coniugazione grande, la Resurrezione è semplicemente

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l’attestazione che c’è l’amore di Dio. Ecco questo era soltanto per fare una brevissima finestra, se volete anche un po’ di catechesi cristiana, ma per non fraintendere che sia la pretesa di appiccicare lì, all’ultimo momento, una speranza di aldilà. Tanto l’aldilà si può credere in mille modi diversi. Non abbiamo avuto ritorni dall’altra parte, per il momento, almeno accertabili fino in fondo, per cui ognuno veramente può immaginarsela come vuole questa cosa, anche se la fede cristiana ce ne dà un connotato esplicito, prima viene l’amore e poi viene ancora l’amore, anche nella rivelazione cristiana. Allora io mi permetto di concludere con queste poche righe che insieme con una volontaria abbiamo scritto qualche tempo fa pensando ad un’immagine che mi era venuta: “A forza di visitare l’abisso del cuore dell’uomo che muore e che si apre per rinascere già su questa terra, un’immagine s’impone quasi da sé, mi pare di penetrare come in una torre i cui scalini interni si susseguono al contrario, ci invitano a salire. Ma mentre la fatica del percorso è quella di un’ascesa verso l’alto, in realtà si scende nel profondo della persona e dal buio di quella scala che sale a chiocciola, cioè sempre più nell’intimo dell’altro, si emerge in un orizzonte che vince la solitudine. Questo accompagnamento è realmente un’ immersione nel mistero del cuore, sarebbe insostenibile procedere così se all’improvviso non apparisse una feritoia. Un primo sguardo sull’esterno del mondo dell’altro e il mio vicino che si apre a me, si sente la presenza di una vita più grande e l’artefice di questo spazio di luce intensa, come nella caverna di Platone, la conoscenza del dolore si apre ad un evento di luce in un cammino che diventa un percorso battesimale. E’ una prima sensazione di pace, avere incontrato l’altro perché si è aperto, si è aperta una finestra. Spesso favorito poi da un saluto più autentico da parte del malato, incorniciato da una sua prima espressione di gradimento nei nostri confronti. Ci andrebbe di fermarci lì, di sostare in quel primo senso di pace ma non si può, bisogna riprendere la salita nella scala affrontare ancora di nuovo il buio nella torre, salire fino ad un altro varco, ad un’altra finestra che vediamo ancora più luminosa perché da lì c’è un orizzonte più ampio. Di passo in passo la salita procede, di feritoia in feritoia, fino al tempo di una vera invocazione di un’accoglienza, di un guardarsi con occhi veri e commossi di gratitudine. Ecco poi un giorno ci si saluta sulla soglia di quella torre in alto, nell’intimo supremo dell’anima e mentre il malato deve aprire quella porta, che non è più una feritoia ma diventai una grande terrazza, vedi davvero nei suoi occhi la luce, un mondo altissimo che si raggiunge nel profondo, la pace di una vita più grande”. Ecco io queste cose non le ho scritte per caso, le ho viste tante volte negli occhi dei pazienti, proprio uno sguardo di pace, di luce e di gratitudine. Grazie. Don Ludovico Debernardi: Allora torniamo a raccogliere gli interventi, non siamo puntuali perché siamo in anticipo, meglio così magari cinque minuti prima per trasferirci anche dall’altra parte. Penso che prima del dibattito poi o Padre Fabio o il dottor Orsi rispondono, direi che si può fare una sottolineatura molto importante; se voi fate attenzione, quando ci sono dei dibattiti, per televisione o si legge il giornale, è facile trovare in impostazioni diverse una contrapposizione pesante. Cioè io sono laico dunque ti faccio la guerra, io sono religioso nella fede cristiana dunque mi oppongo al tuo pensiero, ecco, quando si fa un corso di diritto internazionale, la prima cosa che si studia è proprio questa: cioè una persona che non conosce un altro mondo e va in esplorazione può avere due atteggiamenti: uno che l’ignoto è nemico, due o che l’ignoto mi può arricchire. Ecco sono io che decido come affrontare il mondo che non conosco. Oggi qui abbiamo avuto la prova di due punti di vista diversi detti onestamente fin dal principio cioè Fratel Luciano e Padre Fabio dicono: “questo è il nostro punto di partenza”, il dottor Orsi ha detto: “il mio punto di partenza è laico” ma, guardate caso, con la buona volontà, cioè l’ignoto è qualcosa che mi può arricchire, si è arrivati, me lo sono segnato perché è straordinario, a parlare delle caratteristiche del volontario Padre Fabio e Fratel Luciano descrivendo questi termini tempo, ascolto, parola che è anche fatta di silenzio, presenza e lo stesso dottor Orsi parlava di pensiero aperto, empatico, di rispetto, sforzarsi di capirmi quindi l’operatore ha queste caratteristiche.. Sono le caratteristiche che unificano sia un punto di partenza laico che un punto di partenza di un credente cristiano, quindi vedete che oggi qua c’è la prova tangibile, vera, vera nel senso che è un’esperienza, non è qualcosa di artificiale studiato in televisione, di una comunione, di una comunità che esiste, di una possibilità di avere caratteristiche uguali, quindi punti di partenza diversi ma che non si contrappongono ma insieme fioriscono. Io penso che questa esperienza magari l’abbiamo vissuta però esplicitarla così con un

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pensiero sia molto importante da sottolineare perché noi abbiamo modelli fuori da questa sala che non sono come questo. Quindi veramente grazie perché sia chi ha organizzato, sia chi ha relazionato ci ha dato un’esperienza di comunione che alla fine ci unisce e ci fa sentire, anche se arrivate da Piemonte e Valle da Aosta, punti molto diversi, insieme nello stesso obiettivo e questo credo che sia il risultato più bello se voi tornando a casa stasera dite: “siamo tutti insieme a fare la stessa cosa, che bello!”. Allora io opero in quell’hospice lì, l’altro opera in quell’hospice là, un professore parte da un punto di vista diverso dal Fratel Luciano Manicardi ma tutti insieme facciamo la stessa cosa e questa unità direi che è meravigliosa, quindi un applauso per voi e per loro. Stiamo arrivando alla mezza quindi ci stiamo rimettendo puntuali, ci sono altre… no allora io direi di lasciare appunto come sono messe questi moduli a seconda della persona che ha relazionato, quindi Padre Fabio ne ha tre il dottor Orsi… Qui c’è scritto Manicardi però penso che… allora leggete e rispondete non so. Padre Fabio De Lorenzo La spiritualità del volontario in relazione con la spiritualità dell’equipe operatrice Beh, è importantissimo che ognuno abbia un ruolo e che si faccia gioco di squadra. Io faccio un po’ un paragone con i ragazzi perché molte immagini mi vengono meglio figurate. Cosa è una squadra? Per dire il calcio, tutti sanno palleggiare, hanno una buona tecnica individuale, questo può avvenire in un hospice. L’OSS veniva ricordato è fondamentale per il rapporto personale con il paziente eccetera, l’infermiere, che è un’altra figura fondamentale, più a volte mette soggezione perché è quello che mi sforazza, mi tortura di più oppure il medico che può essere più o meno ermetico, ma l’importante non è tanto cosa percepisce singolarmente, individualmente il paziente da ciascuna relazione, è chiaro che se uno poi si comporta male se la paga quella cosa lì e la pagano tutti, ma il gioco di squadra è anche un sapersi passare la palla ed è, non soltanto, saper palleggiare e passarsi la palla ma anche saper tirare in porta perché se ci fossero undici Maradona in campo e tutti vogliono la palla per far vedere quanti palleggi fanno, dopo un po’ il pubblico fischia probabilmente perché si aspettano che tirino in porta, cioè che raggiungano il gol, l’obiettivo. Ecco anche l’hospice, la sua equipe ha un obiettivo e questo è continuamente da rivedere, da riplasmare, non è dato per scontato, non è un ruolo amministrativo è un ruolo, direi, spirituale, che anche se si fa in maniera tecnica, fatta di relazioni e di limiti, è un ruolo che va svolto all’interno del mondo dell’operatività. Dott. Luciano Orsi Quale differenza tra spiritualità detta e etica laica Secondo me potrebbe essere, se ho capito bene, quale è la differenza tra spiritualità ed etica, questa è la domanda? Allora la spiritualità è tutto ciò che abbiamo cercato di, come dire, fare vedere come ricerca di senso. La risposta al tentativo di dare una risposta a domande fondamentali chi sono, da dove vengo vado eccetera, eccetera … Quindi è più una sfera di ricerca di senso di collocazione della propria vicenda dentro la vicenda di una comunità, di una comunità anche molto allargata, il rapporto o no con la trascendenza sulla singola umanità. Mentre la sfera etica è, in base ai valori in cui credo, riconosco che ho dei doveri, dei diritti, ci sono delle cose che sono eticamente accettabili e delle cose che non sono eticamente accettabili. Quindi in entrambi i casi, sia che sia una morale religiosa, sia che sia un’etica religiosa, sia che sia una morale laica ed un’etica laica, il credere, fondare, ritenere che alcuni valori alcuni sensi abbiano un’importanza, poi sul piano poi dell’agire ne deriva un’etica, un così va bene, così va fatto e un così va male, così non va fatto. Quindi da un mondo spirituale ne deriva poi un mondo dell’etica che è quella che dice un corretto agire o un non corretto agire dal punto di vista morale. Quindi sono due sfere abbastanza comunicanti fra di loro, una più legata sul senso, in senso lato dell’esistenza, l’altra più legata sul senso del contingente, questo va fatto così perché così si agisce bene, questo va fatto cosà perché si agisce bene o viceversa si agisce male, ecco questo è il legame fra spiritualità e l’etica. L’elenco dei bisogni spirituali da riconoscere? Diventa difficile far un elenco però sicuramente parlare del senso di quello che mi sta accadendo. Quando uno dice ho lavorato tutta una vita, sono andato in pensione due mesi fa, ecco adesso sono qua perché dopo un mese mi hanno diagnosticato un tumore al polmone. Sto parlando, molto probabilmente, di qual è il senso, qual è il significato di questa storia, si sta confrontando con questa domanda. Quindi quella può essere una domanda che apre a bisogni spirituali.

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“Ho lavorato tutta una vita”, quante volte l’avete sentita, “ho inseguito il successo, il potere, soldi eccetera e adesso mi trovo qua”, ho capito che le cose più importanti che non ho famiglia né figlio, relazione, non gli ho dato importanza sufficiente. Non è una recriminazione, sta aprendo ad una riflessione spirituale sul senso di quello che ha fatto, sul senso di quello che sta vivendo, sul senso di quello che andrà avanti. Quindi questi sono i bisogni di parlare, di comunicare di esprimere queste cose sono già nell’ambito della spiritualità. Come il senso della vita dei malati si interseca con il senso del volontariato dell’operatore? Perché siccome ciascuno di noi dalla mattina quando si sveglia cerca di dare un senso a quello che sta facendo, ne prende un senso di quello che ha fatto nella sua vita nei giorni precedenti e cerca di progettare, cercando di dare senso, così chi è dall’altra parte sul letto vive la stessa storia dell’esperienza di senso quindi continuamente si intersecano i sensi fra chi cura e chi è curato e qui può aprirsi quella valorizzazione del “pensa diverso”, perché il malato o i familiari all’operatore e viceversa, scambiandosi i significati i valori, i racconti, in realtà intersecano e aprono delle prospettive diverse. Ecco perché un volontario dice: ”entro dentro alle sette di sera con la testa piena di problemi, vado a casa alle otto di sera e mi accorgo che quei problemi lì sono più piccoli e poi li gestisco anche meglio”. Ha lavorato su un senso, sulla dimensione, sulle dimensioni emotive che stanno dietro ai sensi. Quindi l’intersecazione continua, basta rifletterci su un attimo, poi a volte ci viene così, la riconosciamo al volo, a volte ci gira in testa e non capiamo bene, però è intersecazione di senso. Padre Fabio De Lorenzo Qua mi viene ricordato il valore dell’alterità cioè il puntare molto sullo scommettere sull’altra persona. Io credo che l’essere volontario sia veramente il vedere un mondo non chiuso nella competizione. Io, parlando con alcune persone tra voi, ho sempre rilevato questo desiderio, se volete anche un po’ infantile, un po’ idealistico ma vero, di superare un mondo che necessariamente lotta. La lotta è nella natura delle cose. Ma che non fa come valore, non fa della competizione il valore ultimo. Non è soltanto il porgere il bicchiere d’acqua che pure ha un valore addirittura evangelico, però, è vedere un mondo , se volete anche quasi in una visione ideologica, come una profezia di sollecitudine perché necessario in certi momenti della vita è più evidente che l’alterità, la sollecitudine è la dimensione principale. Che io non posso bastare a me stesso. Ecco qui mi riallaccio all’ultima delle domande che è molto bella e provocatoria. Più che una domanda è un’amara constatazione: Io vedo tanta sofferenza, rabbia, forse, rimpianti, amore per chi si lascia e forse poca spiritualità o sono io a non vederla? No, tu vedi molto bene, tu vedi la vita rappresentata di una persona che te la sta già esprimendo. Se volete, nella metafora della torre, è la prima feritoia, te la sta già raccontando, comunque la fa trasparire, mica è una cosa da poco. Mi è capitato di persone che sono rimaste ermetiche, una piccolissima percentuale; più delle volte io ho sperimentato l’apertura delle persone ma non perché poi delle volte il transito, il passaggio per l’hospice è talmente rapido di alcune persone che non hai proprio materialmente il tempo, però un seme di questa apertura lo puoi dare. La spiritualità sta proprio nel fatto che si innesca un meccanismo non è nel risultato che percepisci tu. Perché parlare degli affetti, si è citato prima Giobbe. Giobbe non solo aveva tre amici fetenti o molto ortodossi, se vogliamo, ortodossi non con la religione ortodossa, ortodossi nella loro fede molto integralisti diciamo. Aveva anche una moglie, se andate a leggere bene il libro di Giobbe è quella che lo pesta di più, perché il poveretto è malato, lei dice: “ma cosa stai ancora a dialogare con gli amici e con il tuo Dio”, è pratica questa donna ed è quella che gli scombina di più le carte quindi la provocazione del libro di Giobbe va proprio letta bene perché è anche una soglia di religiosità anche trascendente che però attende ancora qualcos’altro, attende un valore di amicizia che Giobbe su questa terra non trova, persino la moglie gli chiude la porta in faccia al dialogo, capite? Poi alla fine c’è soltanto Dio, lui è rimasto talmente fedele che Dio lo ripremia e gli toglie la malattia, questo lieto fine, questo deus ex machina, che nella vita raramente avviene, però non è adesso per banalizzare il libro di Giobbe, è proprio uno di quelli che mi piacciono di più della Bibbia. Però si attende anche una relazione umana, ed è

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per questo che dico che l’orizzonte ultimo è l’amore e credo che il volontario possa riconoscere anche questa ambizione. Poi magari no, ognuno di voi risponda da sé. Dott. Luciano Orsi I bisogni del malato terminale e lo stare, l’agire ed il ruolo specifico di chi opera accanto al morente, l’importanza del ruolo dei singoli nell’equipe. Allora io direi che fra stare, agire noi richiediamo un sacco di informazioni e quindi io penso che il ruolo specifico sia sostanzialmente da una parte individuato dal malato, perché ci identifica come persona a cui dire o non dire, aprire o non aprire a seconda dei momenti e dei contesti e rispettare questo gioco, questa scelta. Quando si parla di interlocutore elettivo, quel OSS che di notte, questo va assolutamente rispettato, da parte dell’equipe, però va valorizzato il valore del singolo. Dall’altro è questo ruolo, forse l’avevi già detto tu, ma ero impegnato a decodificare, non c’è ancora il suo ruolo del giocare in squadra, voglio dire, quello che conta è la squadra alla fine, quindi per fare squadra avendo dei ruoli diversi l’importante è scambiarsi informazioni, perché le informazioni su quello che ha detto, quello che non ha detto quello che sembra che si sta vivendo, se ce le scambiamo all’interno dell’equipe… la rendiamo più pronta, più consona ai bisogni. Se non hai informazioni agisci sempre un po’ al buio e quindi rischi di essere intempestivo e andare a toccare tasti da non toccare, di non tenere conto di quello che è già stato detto e quindi fargli rifare passi è costoso, quando si apre la finestra, si è aperta, voglio dire, non è detto che la si possa riaprire un’altra volta e con gli stessi costi, potrebbe essere molto più costoso arrivare all’altra feritoia sulla scala che sale. Quindi scambiare informazioni è importante. L’altra è scambiarsi non solo delle informazioni ma anche delle valutazioni operative, qui so che vado a toccare un tasto estremamente delicato perché io sono nemico delle etichette perché sono convinto che nel momento in cui tu appiccichi un’etichetta a un gesto, a un’azione, a una situazione, a una persona, ti sei già limitato gli spazi interpretativi, perché se quello è così non può essere cosà, cosà, cosà, cosà e quindi ci perdiamo un sacco di pezzi. Però, invece di attaccare etichette, ci diamo delle valutazioni del tipo operativo, cioè “oggi mi sembra arrabbiato per quello, punto!” Passo l’informazione, che probabilmente questo è arrabbiato, non ha voluto aprire la porta al volontario, lo ha congedato molto veloce rispetto al solito che voleva scendere in giardino.. insomma. L’infermiere sa, il volontario sa, il medico sa eccetera che oggi forse è arrabbiato, dopo di che domani, tra un’ora è tutta un’altra cosa e quindi la valutazione ce la siamo scambiati ma non è più una valutazione trappola in cui cadiamo dentro e poi abbiamo dato l’etichetta e poi rimane sempre quell’etichetta lì. E’ un po’ quello che succede con i familiari. E’ inutile dire che Sonia è una rompiscatole, va bene, se la giudico come una rompiscatole è una figlia che con cui non potrò mai lavorare. Se la giudico come un che sta soffrendo allora mi muovo per lavorarci sopra. Lo stesso per i malati, non è che valga questa cosa qui. Ha rifiutato la suora che passava, non ha voluto vedere il cappellano spirituale, ha congedato il caposala,….. va bene, oggi è così, ci scambiamo questa valutazione ma non è detto che poi non cambi, non si riprenda eccetera, eccetera quindi l’apertura in questo senso è un giudizio puramente di tipo tecnico, valutativo e non definitivo amputante è un modo per riuscire ad avere ruoli diversi e giocare in squadra. Non so se ho risposto ma mi sembra questa la risposta. Volontario Sono Clara Ravizza della Faro volevo solo meditare un attimo; anni fa nella testa mia e nella testa di un’altra volontaria che non ha potuto essere qui, abbiamo pensato, desideravamo incontrare gli altri hospice, gli altri volontari. I primi ad accogliere questa nostra fissazione sono stati Angela ed Anna e l’hospice di Biella e quindi sono felicissima che questo primo passo, che abbiamo fatto anni fa, sia arrivato fino a questo punto. Il ringraziamento enorme è per questa bellissima organizzazione. Mi riallaccio alle sue parole con la speranza che tutti noi andiamo via di qua con la serenità di esserci incontrati e confrontati e lancerei un’altra cosa: chissà quante altre Regioni sanno fare quello che fanno questi piemontesi così! Punto primo. Punto secondo e se lo facessimo sapere. Non so in che modo ma facciamolo sapere che noi piemontesi sappiamo fare questo! Grazie

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Dott. Luciano Orsi C’è il congresso nazionale, c’è la rivista, questa è un’esperienza che potete descrivere perché la rivista è al servizio, è un punto di informazione per le cure palliative. Quindi se ve la sentite, visto che è un’esperienza che mi sembra sia consolidata in un certo numero di anni, che si è arricchita con rivalutazioni, rimodulazioni correzioni eccetera beh questo valore lo possiamo regalare a qualche altra Regione che non l’ha ancora colta questa cosa qui. Quindi volentieri. Padre Fabio De Lorenzo Siete stati bravissimi perché questo è un indice proprio di formazione interiore incredibile, tre ore immobili, se poteste poi venire a fare i fedeli in chiesa. I miei non sono così, non sono così. Don Ludovico Debernardi Allora lasciamo la parola ad Angela e vediamo come coordinare il resto del programma. Io direi che a questo punto possiamo andare. No, prima vi diciamo cosa facciamo il pomeriggio perché se no poi ci si perde. C’è una domanda da fare? Volontario E’ una domanda, è un po’ extra, fuori dall’argomento, però ne volevo approfittare visto che abbiamo due portatori di due pensieri diversi, Padre Fabio ed il dottor Orsi. Volevo fare una domanda extra: Secondo voi spiritualità e morale, sono più difficili da cercare da parte di un laico o da parte di un uomo di fede? Dott. Luciano Orsi: Comincio io, mi sembra ugualmente difficile nel senso che è una ricerca dell’uomo che si confronta con se stesso, si confronta con i propri simili, si confronta con quelli che ci hanno preceduto, perché nel momento in cui uno va a leggere un filosofo islamico piuttosto che Giobbe, piuttosto che un filosofo di Francoforte ed eccetera, eccetera si confronta con il pensiero di altri, quindi la fatica nel confronto e della ricerca mi sembra uguale, perché l’accesso all’informazione già conta, l’elaborare l’informazione, ragionare sui valori, ricercare quale è la consonanza fra il mio modo di vivere e di capire e di sentire queste robe qui ed il modo di vivere e sentire che mi propone quell’altro è già una fatica, piacevole, ma comunque richiede lavoro, richiede fatica non è una roba asettica che posso aprire una confezione e consumare cibo precotto. Poi dall’esito di questa cosa qui, che sia in un ambito laico, che sia in un ambito religioso, che parta da un ambito e finisca nell’altro, perché in una vita di 60 anni … sfiora diversità e cose diverse, non mi sembra ci sia gran differenza ecco perché comunque è sempre un continuo confronto, perché comunque anche se trovi, a mio modo di vedere, una polarità, un ambiente in cui ti trovi più consonante, questo vale per l’oggi, il domani e dopodomani, va comunque riverificato, non può essere dato per scontato. Quindi la fatica ed il piacere, diciamo così, non li trovo diversi alla radice, sarà secondo che uno vada da una radice laica piuttosto che una radice confessionale, religiosa in senso lato. Questo è il mio modo di vedere. Padre Fabio De Lorenzo Io rispondo con una battuta perché veramente è una domanda vastissima davvero questa a rispondere seriamente. La battuta è per me non ci sono alternative, sia per il credente, sia per il laico, perché o si prende una verità davvero preconfezionata che non è verità perché la verità vera richiede in sé il procedimento di smontare l’algoritmo. Oggi, vero dottor Valentini, si parla di questi algoritmi, cioè di queste procedure stereotipe anche nel campo operativo della medicina come se bastasse una formula matematica per entrare nei protocolli, ma chi è entrato nel protocollo è perché ci ha pensato prima, in una maniera anche empirica anche, e noi dobbiamo ripercorrerla quella strada poi, come quando uno impara ad andare in macchina è meglio che tenga d’occhio i cartelli poi può vedere un po’ come si prendono meglio le curve eccetera però non ci sono alternative su questo, bisogna veramente essere in cammino e ricostruire dentro di sé questo percorso.

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Volontario Volevo solo passare un’informazione di servizio visto che ci siamo per fare rete, per chi è interessato ai temi della spiritualità c’è anche un istituto in provincia di Pisa, circa ogni anno si tiene un congresso nazionale di due o tre giorni quasi sempre sui temi della spiritualità con anche hospice che arrivano da centro Italia, sud Italia quindi però è stanziale sono tre giorni consecutivi. Grazie. Se interessa. Dott. Luciano Orsi Un convengo satellite, un congresso nazionale mi sembra l’8 di ottobre, il convegno comincia il 9, dal 9 al 12. L’8, si tiene ad Arezzo ed è una mattinata tutta sulla spiritualità se la cosa può interessarvi, è una notizia fresca.