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La spada e lo Stato Famiglia, chiesa, società Giuseppe Panissidi La discussione di questi giorni induce a riprendere la riflessione sullo statuto della realtà familiare. Quest'ultima sorge da una “vocazione naturale” dell’essere-uomo-essere sociale, sul presupposto che la polis è “to idion”, il “proprio” dell’uomo in quanto uomo. Epperò, essa non si configura e costituisce né soltanto come nucleo di interessi coalizzati e contrapposti agli altri della stessa natura, né unicamente come “forma associativa”, cioè ai fini esclusivi della procreazione, per assicurare la continuità della specie, previa unione dei sessi complementari. Essa, infatti, è, può essere, relazione, ordine e modo. “Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” (Paul Valéry) Come spesso accade, il discorso pubblico si è avvitato su sé stesso. Più che uomini, sembra proprio il caso di dire: sessi…contro. Le unioni civili dividono, giusto per cambiare. Divide et impera, forse, anche se non è chiaro chi o che cosa stia, per l’appunto, imperando. Di certo, non i fatidici poteri forti, non il pregiudizio maggioritario, e neppure l’esecutivo minoritario, anche intellettualmente. Vedremo. Vale, invece, la pena di riflettere intorno a un’esilarante stranezza. La circostanza del fuoco amico che il campo degli oppositori al progetto in cantiere contrappone non solo e non tanto al mondo che siamo soliti chiamare laico, e che talora riesce anche ad esibire il suo certificato di esistenza in vita, quanto e soprattutto alle (pretese) fonti medesime del loro essere e della loro identità. Matteo (un caso di omonimia): “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. E ancora, testualmente: “Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλθον βαλεῖν εἰρήνην ἐπὶ τὴν γῆν· οὐκ ἦλθον βαλεῖν εἰρήνην ἀλλὰ μάχαιραν. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie

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La spada e lo Stato

Famiglia, chiesa, società

Giuseppe Panissidi

La discussione di questi giorni induce a riprendere la riflessione sullo statuto della realtà

familiare. Quest'ultima sorge da una “vocazione naturale” dell’essere-uomo-essere sociale,

sul presupposto che la polis è “to idion”, il “proprio” dell’uomo in quanto uomo. Epperò,

essa non si configura e costituisce né soltanto come nucleo di interessi coalizzati e

contrapposti agli altri della stessa natura, né unicamente come “forma associativa”, cioè ai

fini esclusivi della procreazione, per assicurare la continuità della specie, previa unione dei

sessi complementari. Essa, infatti, è, può essere, relazione, ordine e modo.

“Le vent se lève! . . . il faut tenter de vivre!” (Paul Valéry)

Come spesso accade, il discorso pubblico si è avvitato su sé stesso. Più che uomini, sembra

proprio il caso di dire: sessi…contro. Le unioni civili dividono, giusto per cambiare. Divide

et impera, forse, anche se non è chiaro chi o che cosa stia, per l’appunto, imperando. Di

certo, non i fatidici poteri forti, non il pregiudizio maggioritario, e neppure l’esecutivo

minoritario, anche intellettualmente. Vedremo.

Vale, invece, la pena di riflettere intorno a un’esilarante stranezza. La circostanza del fuoco

amico che il campo degli oppositori al progetto in cantiere contrappone non solo e non

tanto al mondo che siamo soliti chiamare laico, e che talora riesce anche ad esibire il suo

certificato di esistenza in vita, quanto e soprattutto alle (pretese) fonti medesime del loro

essere e della loro identità.

Matteo (un caso di omonimia): “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo

riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli

uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”. E ancora, testualmente:

“Μὴ νομίσητε ὅτι ἦλθον βαλεῖν εἰρήνην ἐπὶ τὴν γῆν· οὐκ ἦλθον βαλεῖν εἰρήνην ἀλλὰ

μάχαιραν. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a

portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla

madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa. Chi ama

il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non

è degno di me; chi non prende la sua croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà

trovato la sua vita, la perderà: e chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà. Chi

accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie

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un profeta come profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto come

giusto, avrà la ricompensa del giusto. E chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua

fresca a uno di questi piccoli, perché è mio discepolo, in verità io vi dico: non perderà la

sua ricompensa”.

Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. Con tutta evidenza, si tratta una

veemente denuncia dell’ipocrisia (im)morale di quanti – quanti! - dicono e non fanno, e

ma, in compenso, si arrogano la pretesa di imporre pesi assurdi e insopportabili sulle

spalle altrui, senza muoverli neppure con un dito - cfr. ancora Mt 23, 3-4. Urge, invece,

διχάσαι κατὰ, separare adversus - lett.: dividere in due - “separare contro”, con modalità

chirurgiche, incidendo il cuore profondo della “normalità”. Non il corpo

dell’omosessualità: una svista peccaminosa di postumi Dottori del tempio e…del

condominio. Di fatto, il vangelo di Gesù, esalta quel “segno di contraddizione” di cui è

parola profetica nell’espressione del vecchio Simeone davanti a sua madre nel tempio,

restituita da Luca 2,34. Vengono, insomma, in piena luce ripugnanti forme di ingiustizia e

di violenza, ben nascoste e camuffate sotto la superficie del perbenismo e del formalismo,

che si ammantano del merito dell’osservanza della legge. Nel solco della cultura profetica,

si delinea la genesi del cristianesimo, eresia dell’ebraismo, i cui profeti stigmatizzano con

estrema durezza l’ipocrisia dei sedicenti “capi del popolo”.

Intorno alla metà del VII secolo, Michea stigmatizza con estrema durezza la corruttela dei

falsi profeti responsabili del “traviamento del popolo di Dio”, in uno con i cialtroni

responsabili dello scempio dei “diritti dei poveri”: “Udite questo, capi della casa di

Giacobbe, che aborrite la giustizia e storcete quanto è retto, che costruite Sion sul sangue e

Gerusalemme con il sopruso: i suoi capi giudicano in vista di regali, i suoi sacerdoti

insegnano per lucro, i suoi profeti danno oracoli per denaro”. Ebbene, l’insegnamento del

vangelo sulla giustizia rimanda intrinsecamente alla parola sulla spada e, dunque, sulla

corruzione generale: “L’uomo pio è scomparso dalla terra, non c’è più un giusto fra gli

uomini: tutti stanno in agguato per spargere sangue; ognuno dà la caccia con la rete al

fratello. Le loro mani sono pronte per il male; il principe avanza pretese, il giudice si lascia

comprare, il grande manifesta la cupidigia e così distorcono tutto….Il figlio insulta suo

padre, la figlia si rivolta contro la madre, la nuora contro la suocera e i nemici dell’uomo

sono quelli di casa sua”. Ed ecco che la necessità della spada riposa sull’imperativo di

smascherare le ragioni e le radici profonde della divisione che lacera il tessuto vitale della

famiglia, intesa quale nucleo di coscienze morali e sentimenti d’amore. La spada,

insomma, è il simbolo della necessità di demistificare e incidere le divisioni reali, più che

di determinarle, al fine costruire la giustizia e la pace entro un quadro di relazioni nuove

tra le persone. Per “fare tutte le cose nuove”. E’ del tutto evidente l’effetto distorsivo creato

dall’apostolo Paolo, quando, in “Efesini”, definisce Cristo “nostra pace, colui che di due ha

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fatto una cosa sola, abbattendo il muro della separazione che li divideva”. Il vangelo di

Gesù, infatti, intona un inno alla “separazione”, quale precondizione indefettibile

dell’unione autentica, in un contesto di disunioni… civili.

Sorge, a questo punto, una contraddizione intrigante, benché apparente, poiché, entro una

catena di mediazioni, esse stesse apparenti, hegelianamente “toglie sé stessa”. Di fronte al

discepolo pronto a colpire con la spada un servo del sommo sacerdote nel Getsemani,

Gesù non ha esitazione: “Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che

prendono la spada, di spada periranno”. Invero, l’evocazione della spada, nel corpo del

cosiddetto “Discorso missionario”, non può essere interpretata in modo letterale, ma bensì

metaforico, a pena di un palese contrasto con il messaggio costante del Cristo che invitava

a “porgere l’altra guancia” a chi lo schiaffeggiava. E tuttavia, non è possibile, poi, ignorare

l’episodio dell’ultima cena, ancora in Luca, quando Gesù sorprende i suoi discepoli.

invitandoli a vendere il mantello per comperare una spada, e prepararli così alla lotta

contro il male. Se non che, quando i discepoli gli presentano due spade, la reazione è

immediata e inequivoca: “Basta!”. Al riguardo, lo storico giudaico e filoromano Giuseppe

Flavio, in Antichità Giudaiche XIV,4,2; XVIII,9,2, ci informa che, in alcuni territori della

Palestina, era concesso girare armati per difesa personale, in modo particolare in occasione

della festa di Pasqua, a causa della folla che si accalcava a Gerusalemme. La spada,

dunque, traduce la lucida consapevolezza che la scelta evangelica è oltremodo costosa in

termini di impegno nella vita, con buona pace di ogni ignaro e/o ipocrita “family day”! La

presenza della fede autentica nel mondo non è mai neutra e incolore, la parola del vangelo

“una spada a doppio taglio che penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello

spirito” (Ebrei 4,12). Se l’incontro avviene realmente, e non soltanto in sagrestia o nel

confessionale, non è possibile uscirne… indenni, poiché, al di là del profilo religioso, la

proposta morale sarà cogente ed esigente, un vero e proprio scardinamento degli assetti,

privati e pubblici, dell’ipocrisia, maschera invereconda di inconfessabili - ed inconfessati,

giurisdizione penale a parte - interessi privati. Maschera o passamontagna, un bersaglio

focale dell’invettiva più aspra, e niente affatto perdonante, dei vangeli: contro i farisei. La

colpa più ripugnante, l’uccisione della verità, ontologicamente più devastante dello stesso

assassinio di Cristo. Contro i farisei, e contro la distinzione, anch’essa farisaica, tra peccato

e peccatore, formidabile viatico e salvacondotto per masse di reprobi.

Mette conto, tuttavia, porre la necessaria attenzione al rischio di intendere il termine

“metaforico” come inoffensivo e indolore. In Apocalisse, al contrario, leggiamo che “dalla

sua bocca usciva una spada affilata, a doppio taglio”, la paolina “spada dello Spirito, che è

la parola di Dio”. Questo significa non solo che è impensabile costruire la pace senza

conflitti, ma che essa stessa è causa di conflitto, perché “più tagliente di ogni [reale] spada

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a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione della vita e dello spirito, fino alle

giunture e alle midolla e sa discernere i sentimenti e i pensieri del cuore” (Ebr. 4,12).

In tema, l’incompatibilità del messaggio, “vino nuovo”, con le vecchie strutture religiose e

sociali, “otri vecchi”, incapaci di sopportare l’impatto e la necessità di un mutamento

radicale. Un’immagine, quella del vino nuovo e dell’otre vecchio, che il vangelo applica al

nucleo familiare e alle sue pratiche, il cui affrancamento dall’esistente non può non

passare attraverso l’impegno di “ricondurre i cuori dei padri verso i figli” (Lc 1,17). Il

passato deve aprirsi al nuovo, e il nuovo dev’essere accolto dalla nuova generazione,

figlio/figlia/nuora e, perché no?, marito/moglie, anche se inevitabilmente osteggiato da

quella vecchia, padre/madre/suocera. Due millenni dopo, la teoria sociologica del conflitto

concettualizza la famiglia come un'unità di elementi confliggenti, un focolaio di tensioni,

terreno di veri e propri scontri di potere, in primis, tra i sessi. Quanto alle diatribe

sull’istituto del matrimonio, Friedrich Engels, nel solco di una notevole mole di emergenze

scientifiche, formula un giudizio (a dir poco) lapidario, secondo il quale esso inaugura, sul

terreno concreto della storia, addirittura “la lotta di classe”, nei termini e secondo le

modalità propri dello scontro tra oppressi ed oppressori. Questo “genoma sociale”, come

la famiglia viene definita secondo una terminologia invalsa di recente, più che assolvere

alla conclamata funzione di “umanizzare” le persone, inibisce quel passaggio dalla natura

alla cultura che l’asserita “umanizzazione” dovrebbe garantire ed alimentare. Con il

nefasto effetto di conservare il suo statuto di “aggregazione naturale”, come Aristotele

riteneva all’abbrivo della tradizione culturale occidentale, e rendere impossibile

quell’”origine della società”, vagheggiata dal massimo pensatore dell’antichità. E se,

ancora Aristotele, "la comunità che si costituisce per la vita quotidiana secondo natura è la

famiglia”, le più recenti acquisizioni scientifiche continuano a definire la famiglia quale

“specifica relazione sociale”, i.e. mediante una formulazione quasi identica a quella che

definisce le unioni civili come “specifiche formazioni sociali”, secondo il letterale tenore

dell’emendamento all’innovazione legislativa attualmente in discussione.

In ogni caso, la famiglia sorge da una “vocazione naturale” dell’essere-uomo-essere

sociale, sul presupposto che la polis è “to idion”, il “proprio” dell’uomo in quanto uomo,

quanto alla “teleiosis”, “compimento”– nel lessico greco classico - dell'essere umano-

sociale. Epperò, essa non si configura e costituisce né soltanto come nucleo di interessi

coalizzati e contrapposti agli altri della stessa natura, né unicamente come “forma

associativa”, cioè ai fini esclusivi della procreazione, per assicurare la continuità della

specie, previa unione dei sessi complementari. Essa, infatti, è, può essere, relazione, ordine e

modo. In parafrasi da S. Freud, si versa in tema di “formazione collettiva a due”, e dunque,

in quanto “mediazione”, a prescindere dalle finalità istituzionali del rapporto. Con buona

pace dei salotti televisivi, cui non si sottraggono i Cacciari e gli Augias, disinvoltamente

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accomunati dal rifiuto superficiale ed apodittico di una non meglio precisata “concezione

naturalistica della famiglia”. E, pertanto, di un’intera tradizione di pensiero che attraversa

e innerva più di due millenni, da Aristotele alla Dichiarazione Universale dei Diritti

dell'Uomo, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art.29 della nostra

Carta Costituzionale – “società naturale” – e ad ampi settori scientifici della teoria

sociologica ed antropologica contemporanea. Al bando le “credenzialità” d’indole storico-

culturale? Anche quelle privilegiate da amori passati e appassionati? Senonché, “società

naturale” non significa “diritto naturale”, “lex naturae o naturalis”, i cui principi restano

del tutto fuori argomento, e a Cacciari non dovrebbe sfuggire la differenza, a pena di

infrazione delle forti censure elevate da Aristotele in “Confutazioni sofistiche” rispetto

all’”anfibolia”, fonte di equivoci ed incertezze terminologico-concettuali, nonché del

moderno, capitale e sistemico divieto kantiano in ordine all’”anfibolia” o scambio “tra i

concetti della riflessione”. L’addebito di fallacia “naturalistica”, rivolto anche

all’arcobaleno, oltre che alla minoranza culturale cattolica, appare privo di fondamento,

dal momento che i fautori delle unioni civili di certo non ignorano che la famiglia

costituita e strutturata è anche “un prodotto culturale”.

Ebbene - siamo al punctum dolens – il messaggio evangelico propugna, con grande

consapevolezza ed estremo vigore, un nuovo tipo di relazioni, incompatibile con i sistemi

di potere e di obbedienza, tradizione e conformismo, ipocrisia e cecità. Con la

conseguenza che l’adesione ad esso non potrà che essere causa di divisione: “I nemici

dell'uomo: quelli della sua casa”. Questo il significato del testo di Giovanni 7,5, secondo

cui “nemmeno i suoi fratelli credevano in lui”, da leggere in parallelo con Mt 12,49: “Chi è

mia madre e chi sono i miei fratelli?”. Questa, altresì, la limpida attestazione delle

difficoltà del rapporto di Gesù con la sua famiglia… cristiana. La spiegazione in Luca.

“Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse

nella sua casa. Essa aveva una sorella, di nome Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù,

ascoltava la sua parola; Marta invece era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi

avanti, disse: <Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille

dunque che mi aiuti>. Ma Gesù le rispose: <Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per

molte cose, ma una sola è la cosa di cui c'è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che

non le sarà tolta>.

L’essenziale, la parte migliore, ciò che veramente conta, è una sola cosa... Per tutto il resto,

“famiglia” compresa, e a prescindere dal modo in cui essa storicamente si configura, la

spada. E la spada, la μάχαιρα del greco antico, il gladius romano, rappresenta, fuor di

metafora, la lama affilata della sciabola, cruda ma doverosa alternativa al confessionale, al

gioco farisaico di pratiche di omertà e perdono indiscriminato, senza reale e sincera

“metanoia”, conversione della mente e della coscienza, realmente gettate “metà”, per

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l’appunto, oltre sé stesse, su un piano diverso e più in alto delle condizioni date. “Al di

sopra di sé stessi”, curiosamente scrive una volta il Nietzsche più anticristiano. Senza

infingimenti e complicità “pastorali”, che il vangelo tassativamente esclude ed aspramente

combatte. Una possente macchina da guerra, di rigoroso impianto deterministico ed anti-

chiesastico, quale è la scomunicata filosofia spinoziana, al riguardo offre indicazioni

d’indole morale – il solo valore annesso Scritture, scevro di effetti di “verità” – oltremodo

pregnanti e significative: “L’odio e il pentimento sono nemici mortali per l’uomo. Non si

piange sulla propria storia, si cambia rotta”. Vale per gli individui e vale per i popoli, vale

anche, a fortiori, per la Chiesa di Francesco, se davvero essa persegue programmi

ecumenici di riconciliazione e, addirittura, “unificazione”, con le altre fenomenologie

religiose, su basi di autentica fides, umana e cristiana lealtà e coerenza. Senza mai

confondere ecumenismo ed egemonia, una tentazione sempre incombente.

Un rapido excursus. Un testo molto noto di Marco 12,13-17, più citato che compreso, in

termini sostanzialmente identici Matteo e Luca, può essere d’aiuto: "Restituite a Cesare

quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio”. Alcuni farisei ed erodiani chiedono a Gesù

se le tasse all'imperatore siano dovute. Perché di ciò si tratta, soltanto di tasse. L’intento è

scopertamente capzioso, ma la domanda non appare del tutto peregrina. Molti anni prima,

infatti, in occasione del censimento di Quirino, Giuda il Galileo si era posto a capo di una

ribellione, che contestava l’obbligo di pagare le tasse allo Stato, sul presupposto che Dio è

l’unico Signore. Il potere dell’imperatore finiva per apparire, se non illegittimo, di certo

alternativo a quello di Dio.

Gesù, fattosi portare un denarius, chiede di chi siano l'immagine e l'iscrizione e, appurato

che si tratta dell'imperatore, pronuncia il celebre detto. Ed è qui che bisogna concentrare

l’attenzione. Perché egli dice "restituite" – il verbo greco è “ἀποδίδωμι”, apodidomi”,

latino reddo - non “date”: restituite il denaro a colui la cui immagine è raffigurata su di

esso. Il senso della duplice pronuncia è palese: a Dio bisogna riconoscere unicamente ciò

che gli compete. Nessuna legittimazione del potere, dunque, né prefigurazione di

‘rapporti’, men che mai ‘concordati’, tra chiesa e stato, imperium e sacerdotium, trono e

altare. Un’ipotesi vagamente controintuitiva, anche in ragione del profondo disprezzo

verso i mestieranti delle caste sacerdotali, di cui Gesù non faceva certo mistero, tutt’altro.

Ciò nonostante, la travagliata storia della ricerca sul “Gesù storico” non fa mancare i

tentativi di trasformarlo in un ribelle politico. Per primo, Hermann Samuel Reimarus,

intorno alla metà del ‘700, “in Apologie oder Schutzschrift für die vernünftigen Verehrer

Gottes”, distingue tra "Gesù storico" e "Gesù della fede", affermando che quello storico era

un “messia nazionalistico”, che predicava la ribellione ai Romani. Dopo essere stato

arrestato e ucciso, il suo corpo fu trafugato dai discepoli, allo scopo preciso proclamare che

era risorto. Da qui, secondo il pensatore deista tedesco, la conversione dell'”autocoscienza

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messianica” in una prospettiva etico-religiosa. Assai più di recente, Samuel Brandon, in

“Gesù e gli Zeloti”, riconoscendosi debitore di Reimarus, cerca di sostenere che Cristo era

stato giustiziato perché "sedizioso", un sovversivo straordinariamente simile ai patrioti del

partito zelota, protagonista della guerra giudaica circa trent'anni dopo la morte di Gesù,

fino al suicidio di massa nella fortezza di Masada, nel 73. Gesù, in realtà - e Brandon ne è

consapevole - non credeva possibile che la piccola Israele potesse sfidare, con qualche

possibilità di successo, l’enorme potenza dell’Imperium. Sul punto, in sintonia Giuseppe

Flavio e i sommi sacerdoti, cui pure non lesinava aspre censure. Brandon, tuttavia, pur

ritenendo che Gesù aspirasse alla liberazione della Palestina dalla dominazione straniera,

sa bene che il messia non pensava minimamente a realizzare anche una forma di

“democrazia socialista”, analoga a quello che la Palestina aveva conosciuto prima dello

schiavismo. Pare molto più verosimile che Gesù, avendo in mente l’esempio dei Maccabei,

cercasse di evitare il “confessionismo” statale, e proprio nell’intento di ridimensionare

fortemente l’esorbitante potere dell'aristocrazia sacerdotale.

L’esegesi laica più recente ed avvertita arriva alla conclusione opposta, secondo la quale

Gesù non era né un "cristiano", né un "ebreo osservante", ed è quindi da escludere che

perseguisse l’dea di un'insurrezione armata su base religiosa. Del resto, l’atopia di Gesù era

ben nota. Non rispettava il sabato né le regole alimentari, al Tempio preferiva pubblicani e

peccatori, al punto che veniva regolarmente espulso dalle sinagoghe, non praticava la

preghiera, né istituiva sacramenti e, pur eseguendo guarigioni, non si appellava mai a

forze che non siano umane. Presentarlo in modo diverso è pura mistificazione. La

stragrande maggioranza degli studiosi ormai ritiene che Gesù non coltivasse interessi

politici, ma soltanto il sogno di realizzare nella Storia l’agostiniana “città dell’uomo”,

convinto, come i suoi contemporanei, che la storia è alle prese con le forze della

distruzione. “Das Unbehagen in der Kultur”, Il grande disagio/malessere della Civiltà,

dirà Freud nel 1929, nello specifico riferimento alla civiltà borghese e pseudo-cristiana,

l’hegeliano “Geistige Tierreich”, il regno animale dello spirito, costato all’uomo l’inaudito

sacrificio della sua integrità, lungo una parabola discendente di malintesa libertà ed

involuzione della specie.

Il “Vangelo secondo Matteo” di P. P. Pasolini conserva, tra l’altro, anche il merito di avere

anticipato, grazie allo specifico filmico, di circa dieci anni le sue note riflessioni sulla

relazione, sincronica e dissociativa ad un tempo, tra “sviluppo” e “progresso”, con una forza

visionaria che non poteva non turbare i sonni del partito sovietico, non meno di quelli

delle destre. L’epilogo è cronaca dei nostri giorni. L’originaria lotta del “figlio dell’uomo”

non è, quindi, pensata e diretta contro l'impero romano quale istituzione storico-politica,

bensì contro le umane forze della perversione, disgregatrici di una sana prospettiva di

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“cultus atque humanitas”, l’umana civiltà, temporibus illis e perennemente sospesa – è

l’amara conclusione di Freud - sul crinale del conflitto tra eros e thanatos.

Alle radici profonde dei movimenti e delle iniziative ecclesiali di questi giorni, a ben

guardare, s’intravvede, invece, il principio che "ogni autorità viene da Dio" (Rom 13,1-

17), un testo di Paolo che, posto a sostegno di una dottrina dei rapporti tra chiesa e stato,

continua ad essere male interpretato, nonostante abbia insanguinato le vie della storia.

Vero, viceversa, è che Paolo si rivolge ai cristiani di Roma per esortarli, ma non in quanto

cristiani, bensì in quanto esseri viventi e cittadini: "Ogni essere vivente stia sottomesso alle

autorità costituite...". Non all'imperatore, dunque, ma alle autorità costituite, segnatamente

le autorità amministrative. Si consideri che la società romana, a differenza della nostra,

non conosceva la mobilità sociale e, pertanto, il cambiamento era possibile unicamente

attraverso il dispositivo legale della cooptazione dell’inferiore da parte del superiore. Ed

ecco il significato e la ragione, non propriamente cristiani, ma filosofici in senso lato, della

sottomissione: ogni autorità viene da Dio, se anche con le inevitabili ricadute

“teocratiche”, evidentemente. "Per questo infatti pagate le tasse… Restituite a tutti ciò che

è dovuto: a chi riscuote la tassa, la tassa, a chi riscuote il testatico, un testatico...". A

giustificazione del dovere di pagare le tasse, l’apostolo pone la concezione giudaico-greca

secondo la quale il potere viene da Dio, senza alcuna implicazione sulla sfera dei rapporti

tra chiesa e stato, l’ambito politico propriamente detto. Come è stato felicemente osservato,

questa è “una pagina di lealismo civico”, che invita ad essere buoni cittadini, anche se nel

nome di Dio. Certamente, non del popolo, visto che la democrazia greca era ormai alle

spalle, e quella moderna, teoricamente basata sulla partecipazione individuale e collettiva

alla costruzione della polis, ancora ed estremamente lontana. E tuttavia, nessuna dottrina

del potere e dello stato, ma un semplice, e quasi rituale richiamo ai diritti e ai doveri di

“cittadinanza”, oggi diremmo, nei confronti delle autorità costituite. Non dovrebbe essere

troppo complicato intendere che l’autonomia legislativa dello Stato e la connessa

soggezione di tutti (!) alla legge, nel rispetto della norma fondamentale, dispiegano un

significato e una portata che travalicano l'autorità stessa, poiché essa ne deve essere

garante, senza mai abusare dei suoi poteri. Gesù neppure accenna alla separazione tra

Stato e Chiesa, attualmente invocata da vaste frazioni di popolo, omofobo e non, ovvero a

una divisione tra “sfere di attribuzione”: la parte spirituale alla Chiesa, la parte materiale

allo Stato. Una prospettiva siffatta presuppone un’idea tutta medievale di società come

“cristianità”, vera scaturigine della confusione perenne tra Stato e Chiesa, ovvero tra i due

massimi sistemi dell’…ipocrisia. Di siffatta, fantasiosa “cristianità” s’imbeve come una

spugna la cattolicissima family dell’esecutivo in carica, allorché – una goccia nell’oceano,

però emblematica – tale Gentiloni, parola d’onore di catechista tutore salvifico di bambini,

solennemente assicura davanti alla Camera, sede teorica della sovranità popolare – non a

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sé stesso, con semplice, sartriana “mauvaise foi” - che nessun riscatto è stato pagato per la

liberazione delle due solerti fanciulle, Greta e Vanessa, nel tracotante disprezzo della

verità, pesante quanto gli undici milioni di euro (per)donati a vivaci ambienti islamisti. E’

vero o no che esistono (provvidenziali) fondi “fuori bilancio”? Ora, se la decisione politica

del cedimento appare discrezionale e opinabile, e persino soggettivamente condivisibile, la

spudorata menzogna di Stato è più che sufficiente a seppellire moralmente l’intero,

diciamo, gabinetto sotto il macigno dell’ipocrisia. Alla cattolica integrità di uomini siffatti

lo Stato democratico e non trascurabili frazioni di popolo - congenere, direbbe Platone,

seppure minoranza assoluta e, peraltro, consultata non attraverso le urne, ormai obsolete,

evidentemente, bensì attraverso i più comodi sondaggi - passivamente affidano la guida

della nazione, nonché, e non da ultimo, le drammatiche sorti del contrasto alla corruzione

sistemica, in contesti di incertezza e di sfide epocali globali. Né v’è impellenza di riaprire

le urne, la Consulta sapientemente statuisce, in ragione della “continuità dello Stato”. Di

questo Stato, naturalmente, la cui continuità è però più un problema che una risorsa, per

dirla con Cetto La Qualunque. E con gli esiti di cui godiamo. Qualunquemente.

Il sugo della storia? Se è vero, come pensa Aristotele, che la virtù dell’uomo politico è

l’onore, non resta che farsi una ragione della sconcertante assenza di vergogna su quei

volti spenti. Perché dove non c’è onore, non c’è vergogna.

Ecco, però, che, come d’incanto, giunge la risposta alla domanda iniziale: chi o che cosa

abita la cabina di regia? Molto semplicemente, in senso lato e strutturale, il sistema

dell’ipocrisia. Si rifletta – incidenter tantum – su una notizia dell’ultim’ora. Il governatore

De Luca, detto Vincenzo, è stato assolto dal giudice dell’impugnazione. Finalmente.

Bisogna lealmente riconoscere che l’amico Matteo aveva ragione, anche se potrebbe

sembrare leggermente forzata l’inferenza che egli ne era non solo ragionevolmente certo,

ma che lo sapeva in anticipo – ô toi qui le savais!, recita Baudelaire, ma il premier, purtroppo,

non è une passante - in virtù, per usare una parola grossa, della sua potente sfera di

cristallo. E tuttavia, i media sbagliano ad oscurare la notizia, cui è corretto attribuire il

medesimo rilievo della precedente condanna in primo grado. Se non altro, allo scopo,

morale e civile, come si suol dire, di stimolare e rinnovare salutari… interrogativi di

popolo. Nel Belpaese, dove può accadere, bazzecole, che un integerrimo magistrato,

presidente di un collegio giudicante, si scrolli di dosso la toga, nell’indifferenza

istituzionale generale, subito dopo la deliberazione di una sentenza assolutoria,

ritualmente emessa in nome del popolo italiano, nei confronti di un noto puttaniere di

Stato. In tema anche la nuova ipotesi accusatoria in capo alla Procura romana, che vede la

virgo De Luca, detto presidente della Regione Campania, iscritto per “corruzione per

induzione” nei confronti di un magistrato, per avere pilotato la decisione sulla propria

sospensione, ottenendo l’agognato reintegro.

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Pinzillacchere. La nausée afferra sempre alla gola, a prescindere dal tipo di… gravidanza.

Non sempre, purtroppo. Non tutti.

Tornando all’assunto centrale del discorso, è il caso di sottolineare come la stessa parte

più significativa, anzi eversiva, del Discorso della Montagna, non includa tra le numerose

“beatitudini” i cooperanti sessuali eterogenei. Al contrario, essa contempla un’ampia

gamma di valori dello spirito che esclude qualsiasi forma di ingiustizia, qual è, inter alia,

la discriminazione. Beate, semmai, nel Belpaese dei santi, sono le vittime del pregiudizio

discriminante, di certo non i soggetti attivi dell’ingiustizia. Per un mondo di individui

pienamente liberi e indipendenti da tutto ciò che impedisce una piena libertà di sé stessi,

compresi quei rapporti famigliari che, in ragione del loro carattere coercitivo, vengono

(tranquillamente) chiamati “vincoli”, “legami”. “Chi vuol bene al padre o alla madre più

di me non è degno di me; chi vuol bene al figlio o alla figlia più di me non è degno di me”

(Mt 10,37). Con ancora maggiore radicalità: “Se uno viene a me e non odia suo padre, la

madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e persino la propria vita, non può essere mio

discepolo” (Lc 14,26). Ecco un bel “gruppo di famiglia in un interno”. Ecco la famiglia. Che

il vangelo non intende distruggere, né relativizzare. L’intento, la speranza – sogno ad

occhi aperti, secondo lo pseudo-Aristotele - è, all’opposto, di autenticarla e vivificarla,

liberandola dal soffocamento dell’ipocrisia, e da ogni ricatto (cosiddetto) ‘affettivo’, cioè da

tutti gli ostacoli a una crescita autentica. Questi, e solo questi, gli “ostacoli al progresso” da

eliminare, non la “stepchild adoption, peraltro già parzialmente riconosciuta dalla

giurisdizione, talora libera, dello Stato costituzionale di diritto. Contrariamente

all’immancabile vulgata di incomprensione e superficialità, pertanto, non va in scena un

improbabile invito Gesù ad attenuare l’amore verso i propri familiari, ma a rafforzarlo,

affrancandolo da quel senso di oppressione che la psicologia contemporanea del profondo

individua come concausa della del male assai poco oscuro del nostro tempo: la “peste

emozionale”.

Fede autentica è solo quella che non chiude gli occhi davanti al male, che, anzi, vuol

vedere e sapere, con il sostegno imprescindibile dell’intelletto, “fin dove esso possa

naturalmente spingersi”, il più lontano possibile, argomenta ed insiste l’Aquinate. Solo

così, la famiglia può assurgere a luogo, anche istituzionale, dell’amore, cessando di

fungere da inferno ante litteram, dove, non proprio di rado, ciascuno guarda all’altro come

alla causa della propria infelicità, e dove fioriscono à gogo les fleurs du mal, rancori e

risentimenti, frustrazioni e sensi di colpa, humus tossico dell’oppressione e della violenza

repressa od espressa. I legami biologici, gli “obblighi del sangue”, si rivelano sempre più

del tutto inidonei a legittimare l’esistente famiglia, ad enuclearne margini di senso, a

preservarla e redimerla dalla forma di dominio storicamente data, quale luogo dei

“famuli”: i servi. La stessa nozione di "consanguineo" è poco più che una metafora, se è

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vero – come nota e dimostra l’antropologo statunitense Marvin Harris, in linea con la

ricerca di Claude Lévi-Strauss - che molte società non occidentali concepiscono la famiglia

entro paradigmi diversi da quelli biologici o del sangue.

Del pari, la famiglia omosessuale, naturalmente. La spada evangelica rileva lo stato di

scissione presente, nonché la forma di dominio ad essa sotteso, e persegue la vivificazione

dello spirito possibile della famiglia, sull’onda dell’amore liberatorio. Per queste essenziali

ragioni, la conclamata famiglia “voluta da Dio”, non può più coincidere con la casa e con i

sessi, ché, anzi, al fine di inerire alle dinamiche del Regno, arriva ad esigere l’”abbandono

delle case”. L’orizzonte si allarga, lo slancio d’amore si protende dall’essere umano

all’essere umano, pensato e vissuto, per usare il linguaggio del vangelo, come fratello,

“centuplo”, Gen. 26. Solo allora la falsa quiete costruita sull'ignavia e sulla rassegnazione

svelerà tutta la sua impotente mediocrità. Senza una radicale trasformazione nella

mentalità degli uomini, dei loro costumi e delle loro pratiche, non si dà pace vera. Altro

che “sacra famiglia”. La sola possibilità di salvezza dell’istituto della famiglia, comunque

intesa e costituita, risiede nella rottura della corazza dell’apparenza e della finzione, una

vera e propria rifondazione – modello di produzione con capitale permettendo - una

specie di “persecuzione” a rovescio, capace di innescare divisioni e lotte morali e civili,

laiche e religiose ad un tempo, dunque non separatamente. Né possiamo dimenticare il

tempo non lontano in cui l’infima schiuma della cattolicità urlava a squarciagola per le

strade e in ogni dove contro l’introduzione del divorzio – dopo, però, da essa fruito, con

impagabile coerenza e ad abundantiam - e a favore dell’adulterio, evidentemente. Per

tutelare i figli, certamente, sempre invocati ed osannati, ma, di fatto, considerati meritevoli

della famiglia disprezzata, anzi esecrata dal vangelo! “O Vergogna, dov’è il tuo rossore?”.

Valga il vero, siamo grati ad Eugenio Scalfari, ogni volta che ci illumina sul pensiero reale

del suo amico Francesco. Gradiremmo, però, sapere – absit iniuria verbis - anche come si

situa Bergoglio entro quest’universo di discorso. Incrociamo nelle acque tenebrose del

peccato? Siamo bisognosi di misericordia? Per caso, lo sono anche le masse sterminate dei

bambini? Rispetto ai quali Ignazio di Loyola, di certo non estraneo alla temperie spirituale

di Francesco, per certo a quella di Eugenio, affermava: “Di una persona datemi la

fanciullezza e io, volendo Dio, farò ciò che voglio”. Volendo Dio: “Deus lo volt”? Ciò che

voglio, non ciò che debbo: non si poteva dire meglio, con maggiore, brutale veridicità.

Poco meno di una confessione. Quale migliore tutela, per i figli, magari in attesa che, in

partibus infidelium, dal Vaticano, giunga la lieta novella – evangelos, già, evangelium - che

qualcuno sia stato “gettato negli abissi con una macina da asino legata al collo”. Gettato,

suo malgrado, e senza patetici tentativi di moral suasion, opportuni e necessari solo nei casi

ordinari, quando è sufficiente che i renitenti all’ascolto, alla comprensione e alla necessità

del ravvedimento siano marchiati come “pagani o pubblicani”. Perché, come c’è reato e

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reato, anche nell’ordinamento penale vaticano, così c’è peccato e peccato e, in ogni caso,

non è possibile concedere il perdono a chi, rivelandosi nemico del perdono, si oppone

volontariamente al disegno della salvezza che ha bisogno degli uomini, purché di buona

volontà, come vi si opponevano i farisei a cui Gesù si rivolgeva con tanta, inopinata

veemenza. “Peccato imperdonabile”, difatti, è la perversione che uccide la coscienza

pervicacemente indurita nel rifiuto di essere perdonata e, finanche, nella blasfema

convinzione che le sue colpe sono giustificate ed approvate in saecula saeculorum: “Chi

avrà bestemmiato contro lo Spirito, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna”.

Dal momento che lo Spirito incarna la prospettiva stessa del ravvedimento e del perdono,

il rifiuto del perdono costituisce un’autocondanna senza scampo. “Settanta volte sette”,

certamente, ma non per qualsiasi colpa, non senza il soccorso della grazia sovrana, e non

sine die. Settanta volte sette, insomma, è l’invito a spingersi oltre i limiti e le fragilità

dell’umano, ogniqualvolta in cui ciò appaia possibile e lecito, come implicitamente si

desume dal noto passo evangelico.

Cristo resta in trepida attesa. La sua misericordia, al pari di molte categorie filosofiche,

non solo kantiane, sconta precisi assiomi di chiusura. E il suo assassinio esige sempre

nuovi contributi.

Lo scardinamento del muro storico di inganni e falsità, insipienza e protervia, molto più

imponente e difficile da abbattere della quisquilia, buon Totò, berlinese - anche per il

muro del suono è stato relativamente più semplice - genererebbe condizioni inaudite entro

congrui spazi di verità. Il tutto senza contraccolpi, derive o torsioni esistenziali

insopportabili. Ad esempio, senza minimamente impedire ai maschioni di unirsi

legittimamente con tutte le Eve a disposizione, oppure alle goethiane Eve-Ewigweibliche,

eterno-femminine, di continuare a preferire i maschioni. Stia, dunque, sereno, il

Formigoni, maschione dal volto naturalmente contratto in maschera d’ipocrisia, nessuno

intende costringerlo ad accoppiarsi con l’omologo Gasparri, in “fiduciosa fusione di

anime”, simile a quella che Circe propone a Odisseo. In ordine al delitto associativo, infatti,

egli si trova già in stato d’accusa e, inoltre, sono notorie le sue preferenze per le barche.

Pacifica, quindi, la sua distanza dalle aborrite "checche", come egli si esprime con sublime,

signorile e, soprattutto, cristiana eleganza – anche questo un “intercalare che non lede

l’onore e il prestigio”? Un gesto “ricordabile”? – secondo un registro comunicativo ignoto

allo IULM, d’evidenza, che, nel 2004, gli ha conferito una (prematura?) Laurea Honoris

Causa in Scienze della comunicazione.

Se, poi, fosse vero che “il sesso non è un piacere”, come assicura un altro socio, Massimo

Gandolfini, non lo sarebbe per nessuno, non solo per gli omosessuali. Sarebbe, però,

opportuno che questi ultimi coerentemente ambissero a mete più alte, non già a mutuare il

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fallimentare modello di famiglia esistente, bensì a sovvertirlo. Quanto, invece, ai lamentati

dispiaceri o dolori del sesso, al promoter spetta tutta la nostra comprensione per i suoi

patimenti, non disgiunta dall’eguale rispetto verso i colori biblici dell’arcobaleno, la freedom

flag, e la loro specifica “differenza”, orgogliosamente refrattaria a una (apocalittica?)

visione del sesso come penoso dovere, secondo gli allegri dettami della morale sessuale

civile repressiva, causa patogena, a giudizio clinico di Freud, del “nervosismo moderno”.

E, ictu oculi, un qual certo nervosismo serpeggiava, ed era palpabile, nella piazza del

“family”, a dispetto di qualche sorriso isterico, dove un certo numero di cittadini e

cittadine invocava Dio, la famiglia e la natura. Eppure, alla luce di certe “dichiarazioni

spontanee”, come usa nelle aule di giustizia, Gasparri e Quagliariello non avevano proprio

l’aria di… forze della natura. Cosicché, senza nulla togliere alla sincerità del coming out –

mai una locuzione inglese si è rivelata più pertinente - voce dal sen fuggita del

neurochirurgo, restiamo con un occhio (distrattamente) rivolto ancora all’impietoso Freud,

che non esita a battezzare - la parola non suoni sacrilega – tali martiri del dovere come

“codardi per bene”. Quod demonstrandum. Resta, perciò, arduo comprendere quale

“naturalismo” l’acuto Cacciari possa mai scorgere in posizioni come quella appena

descritta, palesemente regressiva rispetto allo stesso Platone, secondo cui l’amore è ciò che

“nel corpo cerca l’anima”. Nel corpo, senza eccessive…sofferenze, ma con una

significativa precisazione della sua (conclamata) concezione del sensibile come disvalore,

se e in quanto concepito fuori dalla luce del pensiero. Da lontano, il grande pensatore

greco - rispetto al quale, e non a caso, s’è detto che l’intera tradizione occidentale è solo un

“lungo commento” - sembra tendere la mano a Freud, per il quale “tutto ciò che si fa per

amore è amore, ciò che si fa senza amore è perversione”.

Si rilassino, dunque, costoro e i loro sodali ecclesiastici, a cominciare dai tanti prelati

(pseudo)liberali e (pseudo)progressisti, onnipresenti attori massmediatici, coccolati in

modo amorevole, quanto stucchevole, da una sinistra immaginaria e, pour cause, auto-

rottamata. Preoccupazioni siffatte trasudano miseria intellettuale e morale, anche più della

confusione d’antan di un autorevole leader politico, Togliatti, quando incautamente

azzardava che la psicoanalisi riguardi le prostitute.

Anche i cittadini di diverso orientamento farebbero, però, bene ad evitare di proporsi,

inavvertitamente accade, quasi come un paradigma della “normalità”. L’idea di

“normalità”, difatti, non definisce cerchie antropiche di “estremità”, e riesce ad esprimere

qualcosa di sensato solo nella formulazione freudiana di “media normalità umana”.

Consapevolmente memore, quest’ultima, della lezione profonda consegnata da Platone,

nel “Simposio”, a una grandiosa metafora speculativa, d’intonazione tutt’altro che satirica,

come taluno sembra credere. “Hekastos emòn esti symbolon”, ciascuno di noi è “simbolo”,

non “holon”, non un intero, ma “simbolo d’un uomo”, metà di un intero resecato in due

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componenti. Esse vivranno, ma pervase dalla singolare avventura destinale di cercarsi e

coniugarsi reciprocamente. Sfugge, talora, che il testo di Platone tematizza l’”anthropos”,

l’essere umano, uomo e donna, non l’”anér”, l’uomo maschio. Il simbolo, come il segno,

“sta per”, è, cioè, caratterizzato dal rinvio a una determinata realtà, che non può essere

decisa da un accordo tra gli uomini, in quanto che incorpora la prospettiva della

ricomposizione di un intero.

Memori di ciò, infine, converrebbe evitare la comune e pedestre locuzione di “sessi

opposti”, e sostituirla con quella più pertinente di “sessi complementari”, fiduciosi nel

“maestro di color che sanno”, e secondo l’accezione propria della categoria “pertinenza”

nella linguistica contemporanea. Il rinnovamento di una cultura, si sa – ancora Platone –

muove sempre dalla critica e dal rinnovamento radicali del suo logos e del suo linguaggio.