La Somalia non è un'isola dei caraibi

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LA SOMALIA NON È UN’ISOLA DEI CARAIBI DIABASIS Mohamed Aden Sheikh I MURI BIANCHI 19,00 Mohamed Aden Sheikh, chirurgo somalo laureato e specializzato in Italia, più volte ministro, è stato uno dei principali dirigenti politici somali nel corso degli anni Settanta, quando il regime di Siad Barre tentò una trasformazione radicale della società pastorale somala in nome del “socialismo scientifico”. Finito in prigione una prima volta nel 1975, per ragioni politiche, fu fatto arrestare di nuovo dal dittatore nel 1982 e tenuto nel più totale isolamento, per sei anni, nel carcere speciale di Labatan Girow. È tornato in libertà nel 1989. Nel 1994 ha pubblicato con Pietro Petrucci Arrivederci a Mogadiscio Somalia: l’indipendenza smarrita. «Come quasi tutti i dirigenti somali di oggi io sono nato in boscaglia, figlio di una società nomade di cammellieri e pecorai. E lì sono rimasto per i primi otto anni della mia vita.» Così comincia questo memoriale in cui si intrecciano la vertiginosa vicenda umana di Mohamed Aden Sheikh (pastore, medico, ministro, perseguitato politico) e la storia recente della Somalia, uno dei Paesi più sventurati dell’Africa contemporanea. Una testimonianza appassionata e un’analisi di grande rigore intellettuale per capire gli effetti del colonialismo italiano in Africa, gli orrori commessi dai padri dell’indipendenza somala, il regime ventennale del generale Mohamed Siad Barre, naufragato nel sangue e nell’anarchia (Ioan M. Lewis). In questo libro troviamo gli antefatti riguardanti tutti i principali personaggi della Somalia di oggi, dagli irriducibili signori della guerra di Mogadiscio ai molti ras, civili e militari, che regnano sul mosaico di regioni, fazioni e clan cui il Paese è ridotto. LA SOMALIA NON È UN’ISOLA DEI CARAIBI MEMORIE DI UN PASTORE SOMALO IN ITALIA DIABASIS Mohamed Aden Sheikh Aden13x19_muribianchi.indd 1 Aden13x19_muribianchi.indd 1 3-05-2010 11:35:47 3-05-2010 11:35:47

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Il libro è un lucido excursus sulla storia recente della Somalia, fitrato dall'esperienza personale dell'autore in cui convive, come lui stesso la definisce, una specie di "bigamia" identitaria, somala e italiana insieme. L'uscita di scena degli italiani dopo la loro fallimentare esperienza coloniale, il naufragio della democrazia parlamentare, il golpe del generale Siad Barre – despota modernizzatore trasformatosi in tiranno sanguinario rovesciato nel 1991 – e infine i vent'anni senza pace che hanno martirizzato la Somalia e l'hanno spinta fra le braccia dell'integralismo islamico.

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I MURI BIANCHI

€ 19,00

Mohamed Aden Sheikh, chirurgo somalo laureato e specializzato in Italia, più volte ministro, è stato uno dei principali dirigenti politici somali nel corso degli anni Settanta, quando il regime di Siad Barre tentò una trasformazione radicale della società pastorale somala in nome del “socialismo scientifi co”. Finito in prigione una prima volta nel 1975, per ragioni politiche, fu fatto arrestare di nuovo dal dittatore nel 1982 e tenuto nel più totale isolamento, per sei anni, nel carcere speciale di Labatan Girow. È tornato in libertà nel 1989. Nel 1994 ha pubblicato con Pietro Petrucci Arrivederci a Mogadiscio Somalia: l’indipendenza smarrita.

«Come quasi tutti i dirigenti somali di oggi io sono nato in boscaglia, fi glio di una società nomade di cammellieri e pecorai. E lì sono rimasto per i primi otto anni della mia vita.» Così comincia questo memoriale in cui si intrecciano la vertiginosa vicenda umana di Mohamed Aden Sheikh (pastore, medico, ministro, perseguitato politico) e la storia recente della Somalia, uno dei Paesi più sventurati dell’Africa contemporanea. Una testimonianza appassionata e un’analisi di grande rigore intellettuale per capire gli effetti del colonialismo italiano in Africa, gli orrori commessi dai padri dell’indipendenza somala, il regime ventennale del generale Mohamed Siad Barre, naufragato nel sangue e nell’anarchia (Ioan M. Lewis).In questo libro troviamo gli antefatti riguardanti tutti i principali personaggi della Somalia di oggi, dagli irriducibili signori della guerra di Mogadiscio ai molti ras, civili e militari, che regnano sul mosaico di regioni, fazioni e clan cui il Paese è ridotto.

LA SOMALIANON È UN’ISOLA DEI CARAIBIMEMORIE DI UN PASTORE SOMALO IN ITALIA

D I A B A S I S

Mohamed Aden Sheikh

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I m u r i b i a n c h i

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In copertinaMohamed Aden Sheikh con i tre figli. Da sinistra Kaha, Idil, Koshin.

Università di Mogadiscio

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-706-3

© 2010 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42121 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

www.diabasis.it

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Mohamed Aden Sheikh

La Somalia non è un’isola dei CaraibiMemorie di un pastore somalo in Italia

A cura di Pietro Petrucci

D I A B A S I S

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Dedico questo libro a mia moglie, compagna di vita combattiva e tenace,e ai nostri figli rispettivi, calorosi testimoni della nostra unione e membridella nostra “famiglia allargata”. Le sue figlie “italiane” ci hanno offerto laloro generosità e una presenza costante. I miei figli “somali” – insieme aimiei tanti fratelli e nipoti ormai sparsi per il mondo – ci hanno sostenuto te-nendo ferma la barra del timone familiare nel corso dell’interminabile tem-pesta che da vent’anni scuote il nostro paese.

Troppo lunga sarebbe la lista degli amici che mi hanno dato sostegno ecoraggio anche nei momenti più difficili della mia esistenza. Sono gli stessiche non hanno mai perduto la speranza di rivedere una Somalia prospera epacifica. Ma debbo una gratitudine speciale a Maria e Paolo Sannella e al-l’editore Alessandro Scansani, per aver creduto in questo libro senza esita-zioni. E a Pietro Petrucci, amico di sempre, senza le cui qualità – intelligen-za, cultura e dedizione – il libro non avrebbe mai visto la luce.

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Mohamed Aden Sheikh

La Somalia non è un’isola dei CaraibiMemorie di un pastore somalo in Italia

A cura di Pietro Petrucci

Prefazione, Pietro Marcenaro

Nota del curatore, Pietro Petrucci

Capitolo primoA dieci anni ero un pastore nomade

La notte in cui svenni e mi risvegliai studente − L’Amministra-zione Fiduciaria Italiana e la Lega dei Giovani Somali − Padri efigli somali si amano in silenzio

Capitolo secondoAlla scoperta degli «italiani d’Italia»

Ero un extracomunitario prima che nascesse la Comunità Europea − Nessuno sapeva dove fosse la Somalia − In tribuna-le a Treviso scortato da Ignazio Silone − Marx ci interessava piùancora del Partito Comunista Italiano

Capitolo terzoLa democrazia s’inceppa e lo Stato cade fra le braccia dei militari

Nessuno trovava il primo ministro. Era a Las Vegas con WilliamHolden − Più utile fare il medico o il ministro della Sanità? − Anoi la Somalia non sembrava un paese povero − L’alleanza conMosca, una scelta obbligata

Capitolo quartoDittatori non sempre si nasce ma si diventa

Un gruppo di giovani professionisti incaricati di trasformare ilpaese − Civili e militari separati in casa − Addormentarsi mini-stro e svegliarsi prigioniero politico − «Presidente, siamo libericittadini o detenuti?»

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Capitolo quintoIl giorno in cui furono fucilati gli ulema

Un Presidente dalla doppia personalità − Evitare a tutti i costii golpe a ripetizione − Una polizia segreta che agiva fuori diogni controllo

Capitolo sestoLa trappola dell’Ogaden

L’Unione Sovietica teneva il piede in due staffe − Fidel Castroa Mogadiscio per forzare la mano a Siad Barre − L’Ogadentornò ad essere somalo ma soltanto per nove mesi

Capitolo settimoTribù piccola patria e qualche altro tabù

Clan minoritari o caste inferiori? − L’emancipazione femmini-le, un boomerang per il regime − La lunga battaglia contro lemutilazioni genitali femminili

Capitolo ottavoL’ultima visita del topo al gatto

Quando i miei amici pensavano che fossi già in prigione − Abbandonare il campo poteva essere un gesto di opportunismo− L’irresistibile ascesa del generale-ambasciatore che millantòl’appoggio della Casa Bianca alla guerra dell’Ogaden

Capitolo nonoSepolto vivo

Primo obiettivo, sopravvivere − Aspettai qualche anno per ave-re i miei due libri − «Sono il comandante del carcere e mi chia-mo Dirie, soprannominato Omicidio» − Il lungo martirio delvecchio saggio Warsame Giuguf

Capitolo decimoLa farsa del processo: capire tutto significa perdonare tutto?

Ricevo capi d’accusa per i quali rischio la pena di morte − Sonocomplice dei sovietici o degli italiani? − Davanti alla Corte perla Sicurezzza Nazionale nella ex Casa del Fascio − Proscioltodai giudici ma condannato dal partito agli arresti domiciliari −Forse i dittatori non meritano di essere odiati − Il mio destinocambiò ancora nel 1989

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Capitolo undicesimoLa mia seconda vita in un’Italia irriconoscibile

Perché Lucio Colletti è morto berlusconiano? − Medico inPiemonte, in una struttura sanitaria dove convivono 15 na-zionalità − Consigliere comunale torinese, feci scandalo quan-do citai in arabo l’invito del Corano a rispettare gli animali −I profughi somali in Italia andrebbero volentieri in un altropaese − La doppia identità ricorda la bigamia

Capitolo dodicesimoI miei figli somali, cittadini involontari dell’Unione Euro-pea

L’Italia e la «generazione Balotelli» − Pesano sui figli le deci-sioni dei genitori

Capitolo tredicesimoAutoritratto di una nazione senza più Stato e inventario delle sue risorse

Alla conferenza di pace un panorama umano desolante comeil deserto − Le donne somale e il caso internazionale di AyanHirsi Magan, la ragazza mogadisciana diventata deputata olan-dese − Tutto è perduto fuorché la nostra lingua

Capitolo quattordicesimoDalla grande razzia dei signori della guerra alla costituzione federale

Un improbabile Giulio Cesare africano che distribusce le terreai suoi legionari − La sedicesima conferenza di riconciliazione:miracolo o miraggio? − I grandi predoni imparano a fare politica − Un federalismo ispirato soprattutto dalla diffidenzapolitica

Capitolo quindicesimoCi sono voluti i pirati perché il mondo si ricordasse dellaSomalia

Nuova filibusta o banditismo sociale? − Il miraggio della soluzione africana − Un processo di riconciliazione reso possibile dall’Europa e un’occasione perduta per l’Italia − Anche Mogadiscio spera in Obama

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Capitolo sedicesimoL’ombra dell’Islam sul futuro dell’Italia e dellaSomalia

Un nuovo spettro si aggira per l’Europa − Manca all’Islam unacultura della minoranza simile a quella sviluppata dagli ebrei −I musulmani e l’Olocausto

Capitolo diciassettesimoL’Islam, la vita, la morte e le frontiere della scienza

Un tempo pensatori e scienziati musulmani erano fra i più li-beri del pianeta − Viviamo in un mondo che né il Profeta né ilCorano avevano immaginato − L’Islam di fronte alle questionidi bioetica

Capitolo diciottesimoL’inatteso destino integralista della Somalia

Il lungo lavoro dei missionari wahabiti − Meglio le Corti Islamiche che i signori della guerra − Sheikh Sherif SheikhAhmed, l’uomo nuovo che ha cancellato gli ultimi epigoni diSiad Barre

Conclusione

Somalia. Cronologia

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Prefazione

Quale sarà l’evoluzione della situazione politica somala nelprossimo futuro è naturalmente ben difficile da prevedere.

Ma ciò che sembra oggi molto ragionevole è che, se in fon-do al tunnel nel quale quel paese è entrato da ormai vent’an-ni si può intravedere una qualche luce, essa è legata in largaparte al ruolo che sapranno svolgere quelle forze islamiche«moderate» che oggi si riuniscono intorno al presidenteSheikh Sherif. L’esito del conflitto tra queste forze e i grup-pi dell’islamismo più radicale influenzerà profondamente ilfuturo della Somalia.

A questa conclusione sono ormai approdate anche la co-munità internazionale e gli stessi Stati Uniti. È su questa baseinfatti che essi hanno assecondato, all’inizio del 2009, l’ascesaalla presidenza della Somalia del leader delle Corti Islamiche,che appare l’unico oggi in grado di dare alla crisi somala unarisposta che abbia – pur nel quadro di un progetto di re-pubblica islamica – il respiro e la prospettiva di una vera epropria soluzione nazionale.

Mohamed Aden Sheikh a questa conclusione era giuntoquattro anni prima, quando le Corti Islamiche, prendendo Mo-gadiscio, vi avevano restaurato le minime condizioni di sicu-rezza e di legalità dopo vent’anni di «razzia permanente» daparte dei signori della guerra, e avevano anche per questo consi-derevolmente ampliato il loro consenso tra la popolazione.

Ricordo i tentativi, dei quali sono anche stato personal-

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mente vettore nella mia qualità di deputato della Commis-sione Esteri, di fare comprendere al governo italiano e, per ilsuo tramite, alla comunità internazionale, che le Corti Isla-miche avrebbero potuto essere i partner di un processo di ri-conciliazione e di pacificazione. Senza di esso il fragile com-promesso e la contraddittoria architettura istituzionale uscitidalla Conferenza di Nairobi erano destinati a crollare.

E ricordo la nettezza con la quale Aden – in sintonia contutta la diaspora somala internazionale – reagì alla fine del2006 all’intervento etiopico, negando che da lì, nonostantel’apparente facilità con la quale la campagna militare sem-brava svilupparsi nelle prime settimane dell’invasione, po-tesse venire qualsiasi contributo positivo alla soluzione del-la crisi della Somalia.

Quell’analisi e quelle indicazioni non furono tenute inconto, e anche l’Italia, in particolare, come Aden ricorda,per il ruolo svolto da Mario Raffaelli, rappresentante spe-ciale italiano per la Somalia, scelse di adeguarsi acriticamen-te alla strategia sostenuta dal governo americano dell’epo-ca, e di schierarsi senza riserve con l’intervento etiopico e asostegno della presidenza di Abdullahi Yussuf. Salvo esserecostretti a prendere atto – dopo anni sprecati, nuove vittimee nuove distruzioni, in condizioni ulteriormente deteriorate –dell’impraticabilità di quella soluzione.

Alla base delle convinzioni e delle scelte di Aden c’è unastraordinaria conoscenza della Somalia, della sua società,delle sue classi dirigenti, delle contraddizioni e dei conflittiche le attraversano.

Nel libro è questa la prima cosa che il lettore può trovare:un’analisi ampia e particolareggiata della Somalia e della suastoria negli ultimi sessant’anni, che permette di comprende-re e analizzare una crisi che, in mancanza di tali informazio-ni, appare invece incomprensibile.

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Su questa conoscenza, e su valutazioni che non assumonomai il senso di prese di posizione ideologiche, si fonda il rea-lismo politico di Aden nel corso della sua lunga storia politica.

È impressionante come la cifra di questo realismo noncambi sostanzialmente nel tempo e appaia come un filo ros-so che lega il punto di vista del giovane studente partecipedell’epopea dell’indipendenza africana, le scelte dell’uomodi governo e del dirigente politico impegnato nella costru-zione della Somalia indipendente, i giudizi del prigionieroisolato per anni nelle carceri di Siad Barre e, infine, l’espo-nente della diaspora che partecipa alla Conferenza di Nai-robi e che oggi contribuisce con le sue opinioni al dibattitosul futuro del suo paese.

Mi ha sempre colpito, nei lunghi anni dell’amicizia conAden e anche nella lettura di questo libro, come il suo rea-lismo integrale, nel quale la domanda: «che cosa è giusto,che cosa è sbagliato» si accompagna sempre all’altra: «checosa è possibile, che cosa è utile fare, che cosa posso fare io»,non dia mai luogo a posizioni equivoche o ambigue, a queirischi di opportunismo che spesso il realismo porta con sé.

Sarà forse che nell’Africa in generale, e nella Somalia inparticolare, attraversate e lacerate dai conflitti più aspri esanguinosi, il valore della moderazione e la differenza tramoderazione e moderatismo sono più facili da capire diquanto non sia nelle nostre società europee. Sarà perché inquel contesto la politica, con tutto il suo corredo, appare benpiù che da noi un bene di prima necessità. Sarà perché, do-po oltre mezzo secolo, le speranze, i valori e gli obiettivi del-la lotta anticoloniale sono rimasti l’ago della bussola che hacontinuato a guidare la vita e i pensieri delle persone comeAden. Sarà perché Aden è al tempo stesso un militante afri-cano e un intellettuale europeo di straordinaria cultura, equesto gli ha offerto strumenti in più di elaborazione dellapropria esperienza. Sarà perché vive da lungo tempo con

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una donna così generosa da contagiare e migliorarechiunque le stia accanto.

Non è un discorso apologetico il mio: dalla lettura del li-bro emergono tante domande difficili, scelte controverse ediscutibili. Quella di Aden è la biografia di un uomo che peraffermare le proprie convinzioni e i propri obiettivi hacondiviso per un periodo significativo le responsabilità delregime dispotico del quale poi è diventato vittima.

Eppure, come si può vedere leggendo il libro, non c’è maisulle cose più complicate, il ricorso alla rimozione. Il lettorele troverà tutte davanti a sé e lo aiuteranno a capire come lamoralità possa affermarsi solo nella responsabilità della scel-ta, anche quando a posteriori questa può essere riconosciu-ta come sbagliata.

C’è in Aden una grandezza che gli errori commessi in unalunga vita politica non diminuiscono.

È una grandezza che si può ritrovare e riconoscere solo inquelle persone che la vita ha messo davvero alla prova e cheper questo diventano portatori di un messaggio universale eassurgono al rango di testimoni: e questo è il libro di ungrande testimone del nostro tempo.

Pietro Marcenaro

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Nota del curatore

Ho conosciuto Mohamed Aden a Mogadiscio nel 1970,durante un reportage per il quotidiano romano «Paese Se-ra». Aden era allora ministro somalo della Sanità, ma era so-prattutto il capofila di un gruppo di giovani professionisti disinistra cui la giunta militare presieduta dal generale Moha-med Siad Barre – al potere da qualche mese – aveva fatto ap-pello per mettere in cantiere la modernizzazione a tappe for-zate del paese. Ne era nata un’esperienza che si autodefinivalaica e socialista, che ricordava insieme i Giovani Turchi diKemal Ataturk e il «socialismo arabo» del Rais egiziano Ga-mal Abdel Nasser. Il medico-intellettuale Mohamed Aden ei suoi compagni-ministri – ingegneri, economisti, giuristi,agronomi – realizzarono all’ombra dei militari progressisti,riforme mai viste in Africa prima di allora. Nel campo dellasanità, dell’istruzione, dell’edilizia pubblica, dell’emancipa-zione femminile. Nei primi anni Settanta giornalisti, intellet-tuali e artisti del mondo intero visitarono quel «laboratorio so-cialista somalo» che suscitava curiosità e ottimismo: star delgiornalismo americano come Arnaud de Borchgrave; sociolo-gi d’avanguardia come l’egiziano Samir Amin; storici dell’A-frica e del post-colonialismo come l’inglese Basil Davidson eil francese Jean Lacouture; artisti famosi come Ugo Attardi(che dipinse un grande affresco nella hall del Parlamento Na-zionale); «rivoluzionari di professione» come Régis Debray.L’Unesco segnalò come due iniziative-modello, da imitare, la

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scrittura della lingua somala, che consentì l’alfabetizzazione dimassa, e la creazione dell’Università Nazionale Somala, un po-litecnico italofono, nato da un visionario accordo di coopera-zione con l’Italia.

Nel 1973, incoraggiato da Mohamed Aden, decisi di tra-sferirmi in Somalia per consolidare la mia esperienza di cro-nista di cose africane. Rimasi a Mogadiscio, quasi tre anni,fino alla rottura dell’alleanza fra militari e civili, che avrebbetrasformato il regime di Siad Barre in una dittatura cometante altre. Mi riportò in Italia anche la nascita nel gennaiodel 1976 del quotidiano «la Repubblica», che mi consentìtuttavia di continuare, in qualità di «inviato africano», di rac-contare la lenta marcia della Somalia verso il disastro. E difrequentare il mio amico Aden.

La biblica siccità che aveva investito il Corno d’Africa nel1974 era stata come il segno premonitore, di cattivo augurio,di una crisi del regime che sarebbe esplosa più tardi, quan-do i civili, Aden in testa, si illusero nel ’76 di ridimensiona-re il potere dei militari sottoponendoli all’egemonia di unnuovo partito unico (il «Partito socialista rivoluzionario so-malo») nella cui leadership gli uomini in divisa avrebberodovuto contare quanto quelli in abiti civili. Generali e co-lonnelli reagirono esautorando e in qualche caso arrestandoi dirigenti civili più prestigiosi.

L’idillio era finito e con esso la «rivoluzione». Aden co-nobbe una prima volta la prigionia politica per qualche me-se. Tornato in libertà, si ritrovò ai margini di un regime di cuiera stato uno dei principali ispiratori.

Nel 1977 Siad Barre e i suoi generali, ormai liberi da qual-siasi condizionamento interno, presero la sciagurata decisio-ne di approfittare delle difficoltà in cui si dibatteva la vicinaEtiopia – nemico secolare della Somalia – per invadere e «re-dimere» l’Ogaden, un pezzo di terra somala che le grandicancellerie occidentali avevano lasciato sotto il tallone del-

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l’imperatore Haile Selassie dopo la Seconda Guerra. Con-dannato dalle Nazioni Unite, isolato sulla scena internazio-nale, Siad Barre subì nel marzo del 1978 l’umiliazione di ve-dere il suo esercito scacciato dall’Ogaden ad opera delletruppe russe e cubane intervenute a fianco dell’Etiopia.

La rotta dell’Ogaden innescò le prime rivolte armate, abase tribale, contro la dittatura, che reagì con una repres-sione cieca. Nel 1982, mentre si registravano i primi massa-cri ai danni delle popolazioni civili del centro e del nord del-la Somalia, Siad Barre fece incarcerare senza spiegazione unamezza dozzina di dissidenti, fra cui Mohamed Aden, che ri-masero «sepolti vivi» per sei anni, in isolamento, nel gulagequatoriale somalo.

Ci volle una lunga e martellante campagna internazionale(nel 1984 Amnesty International proclamò Aden «prigio-niero politico dell’anno») per strappare alla dittatura nel1988 un breve processo-farsa che vide quattro imputati, frai quali Aden, prosciolti, ma costretti senza spiegazione agliarresti domiciliari sine die.

Solo nel maggio del 1989 Mohamed Aden, male in arne-se per via della prigionia, ottenne il permesso di trascorrerein Italia, in mano ai medici, qualche settimana di «vacanza».Nessuno poteva immaginare che per via della guerra civilenon sarebbe mai più tornato a Mogadiscio né che la sua «va-canza», che dura ormai da vent’anni, sarebbe diventata lasua seconda vita.

Nel 1989 ero fra quelli che aspettavano Mohamed a Ro-ma. Avevamo così tante cose da raccontarci che decidemmoun giorno, di comune accordo, di continuare a parlare da-vanti a un registratore. Così nacque Arrivederci a Mogadiscio,uscito nel 1991, il cui titolo esprimeva non già la speranzama la certezza che Mohamed nutriva ancora di tornare nelsuo paese nonché alla politica attiva.

Vent’anni dopo l’uscita di quel libro, Mohamed ed io ab-

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biamo ripreso il registratore per raccontare il resto della suavita e ragionare sulla sua avventura di «italiano nero». «Pie-montese nero», sarebbe il caso di chiamarlo, visto che dei to-rinesi ha preso persino l’accento e che della città sabauda édiventato un personaggio pubblico, che si é speso su moltifronti: la direzione sanitaria di una struttura per anziani e di-sabili mentali, il Consiglio comunale, un Centro di studi afri-cani, l’associazione «Soomaaliya», una onlus che manda aiu-ti in alcune delle aree più disastrate della Somalia e cheassiste gli immigrati somali. Ha anche partecipato, in giroper l’Africa, ad alcune fasi essenziali del processo di riconci-liazione nazionale che dovrebbe prima o poi restituire allaSomalia e ai somali uno Stato.

Nell’estate del 2009 il nostro secondo libro-conversazio-ne, dedicato alla «seconda vita» di Aden era pronto. Ma unodegli amici a cui l’avevamo mandato in lettura ci disse:«Iocredo che l’insieme di queste due vite sarebbe ancora più in-teressante se a raccontare e riflettere fosse una voce sola,quella del suo protagonista».

E così un giorno, guardando i tetti di Torino dal terrazzodi casa Aden, proposi al mio amico: «Se per gioco tu indos-sassi i panni dell’imperatore Adriano e ti accontentassi dime, come la tua Marguerite Yourcenar, potrei provare a tra-sformare i nostri dialoghi nelle tue memorie».

Così è nato questo libro.Pietro Petrucci

Bruxelles, febbraio 2010

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Capitolo quindicesimoCi sono voluti i pirati perché il mondo si ricordassedella Somalia

È destino che il mondo si interessi della Somalia solo quan-do la percepisce come un pericolo. Dimenticata per anni, lacrisi somala non sarebbe ritornata ad essere una priorità del-la grande diplomazia, quella che occupa le grandi cancelleriee i vertici delle Nazioni Unite, se non fosse apparso verso la fi-ne del 2008 nel Golfo di Aden il fenomeno dei «pirati soma-li» che sequestrano navi sempre più grandi ed estorcono mi-lioni di dollari ad armatori del mondo intero. Episodi dipirateria si sono registrati lungo le coste somale fin dai primianni della guerra civile, ma non hanno mai avuto grande ecofino a quando i pirati non hanno compiuto un salto di qualità,nel corso del 2007, quando un fenomeno fino allora locale,«artigiano» è diventato un grande business internazionale. Fi-nanziati da capitali della diaspora somala provenienti dai pae-si del Golfo Arabo, teleguidati da «talpe» dislocate a Londrae Rotterdam, dotati di barche veloci, armi micidiali e tecnolo-gie sofisticate, i corsari somali si sono fatti sempre più audacied esosi. C’è voluta l’insicurezza creata dalla pirateria su unadelle principali arterie del commercio internazionale per ri-cordare al mondo che la Somalia costituisce un minaccioso«buco nero» nel tessuto della legalità e della sicurezza inter-nazionali, un luogo di possibile incubazione per tutte le pa-tologie. La NATO e l’Unione Europea si sono mobilitati per«restaurare la legalità e la sicurezza nel Golfo di Aden». LaSomalia non ha ancora finito di stupire il mondo.

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Ma il mondo, devo aggiungere, continua ad avere dellaSomalia e delle sue vicende una visione e una percezione as-sai «semplificate», spesso caricaturali. E questa storia dellapirateria lo conferma. Né le grandi cancellerie né i grandimedia, si direbbe, hanno talora il tempo e le energie neces-sari per studiare e capire i problemi di cui pure sono chia-mati ad occuparsi.

Le radici storiche di questa pirateria somala che tutti stig-matizzano va ricercata nella grande carestia che mise in gi-nocchio il nostro paese nel 1974, rendendo desertiche inte-re regioni e sterminando il bestiame, principale risorsaeconomica dell’economia pastorale. Una piaga biblica. Nelvolgere di pochi mesi il governo di Mogadiscio si trovò sul-le braccia oltre 700.000 persone ridotte alla miseria e alla fa-me. Quasi la metà di questa popolazione fu trasferita, conl’aiuto di alcuni paesi amici, dalle zone ormai aride del nord-est verso le regioni fertili del sud (la «Mesopotamia somala»,tra i fiumi Giuba e Scebeli) e verso la costa. Perché potesse-ro ricostruirsi una vita come agricoltori e pescatori. Para-dossalmente, mentre la riconversione dei nomadi in conta-dini fu un fiasco (e molti emigrarono o tornarono al nord allaspicciolata, con le prime piogge) le comunità nomadi tra-piantate sulla costa, pur non avendo mai visto il mare, im-pararono in fretta a navigare e a pescare. L’unica spiegazio-ne plausibile è che la vita sul mare, con i suoi spazi e i suoirischi, costituiva per il pastore-cacciatore nomade una va-riante della vita nella boscaglia, una riedizione della lottaquotidiana e talvolta eroica per la sopravvivenza che è la di-mensione atavica della nostra gente, celebrata da tanti poetie cantastorie. Niente a che vedere con la vita sedentaria, in-grata, monotona dell’agricoltore, disdegnata dai pastori.

Così si sono costituite nuove comunità di pescatori in unpaese che possiede oltre 3500 chilometri di coste. Gente cheha dovuto cambiare radicalmente il proprio modello di vita

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per ritrovare finalmente l’autosufficienza economica e unanuova identità sociale. Come mai questa stessa gente ha im-boccato a un certo punto la strada senza futuro della pirate-ria? Farebbe bene a chiederselo la NATO, che temo si illudadi neutralizzare intere collettività ridotte alla disperazionesolo con i suoi piani militari.

Qualcuno dovrebbe spiegare agli ammiragli della NATOche i pescatori somali e i loro villaggi sono stati doppiamen-te colpiti dalla catastrofe della guerra civile. Da una partehanno assistito impotenti all’invasione delle acque somale eal saccheggio delle risorse ittiche nazionali da parte di flotteda pesca provenienti dal mondo intero. E se le loro barchet-te infastidiscono i mastodontici bastimenti asiatici o europeivenuti a fare man bassa del loro pesce, i pescatori somalivengono scacciati a forza di bidoni di acqua bollente. Pur-troppo nessuna telecamera è mai andata a intervistare gliustionati, reduci di queste «battaglie navali». Come non ba-stasse, subiscono le scorrerie di armatori senza scrupoli che sifanno pagare per usare le acque territoriali somale come unagrande pattumiera, che riempiono di scorie industriali, mate-riali inquinanti, probabilmente anche scorie nucleari. «Lo at-testano», come ha scritto l’ex alto funzionario della coopera-zione europea Giovanni Livi, «le malattie che hanno colpito ipescatori e le loro famiglie, specie dopo lo tsunami del 2005,che ha fatto affiorare molti dei fusti velenosi».

Nuova filibusta o banditismo sociale?

C’è forse da meravigliarsi se nel 2006 sono comparse le pri-me flottiglie di pescatori somali dediti a sequestrare e taglieg-giare le navi di passaggio? Delinquere o morire di fame, que-sto è il dilemma. È un fenomeno che agli italiani potrebbericordare il «banditismo sociale» sorto nelle regioni più pove-re dell’Italia postborbonica all’indomani dell’indipendenza.

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Il problema potrà essere risolto solo il giorno in cui la So-malia avrà di nuovo un governo legittimo e uno Stato degnodi questo nome, dotato di forze di sicurezza capaci di presi-diare le nostre acque territoriali e proteggere i nostri pesca-tori. Ma non sarebbe male se, nel frattempo, le varie marinemilitari che incrociano le nostre acque per intercettare i bat-telli dei pirati somali cominciassero a fare anche questo la-voro di protezione dei somali contro le navi dei predoni dirisorse ittiche e dei trafficanti di veleni. Conservo un ritagliodel quotidiano londinese in arabo Sharq Al Awsat del 5 ot-tobre 2009 in cui si riferisce di una brillante operazione mi-litare con cui una nave da pesca spagnola impegnata a pe-scare – illegalmente – in acque territoriali somale, vienesottratta a un tentativo di sequestro da parte di pirati soma-li. In altri termini: messi di fronte al conflitto fra predatori(perché non pirati?) spagnoli e pirati somali, i «giustizieri»della NATO proteggono i primi e sparano sui secondi.

Quando si parla di pirateria i somali non possono fare a me-no di constatare almeno due paradossi: che i milioni di dolla-ri usati per pagare le navi da guerra in funzione antipirati fi-gurano come «aiuti alla popolazione somala»; e che mentre lastampa internazionale celebra le gesta eroiche compiute con-tro i filibustieri non risulta un solo intervento umanitario daparte di queste navi da guerra a favore delle migliaia di pro-fughi somali che ogni giorno prendono il mare per sfuggire al-la fame e alla violenza e spesso finiscono annegati.

Pretendere di stroncare la pirateria senza risolvere la cri-si somala è tanto assurdo quanto cercare di eliminare i sin-tomi più fastidiosi di una malattia senza eliminare la causascatenante della malattia.

Quel che dico sulla pirateria non passi per il solito pia-gnisteo autoassolutorio che cerca di nascondere colpe e re-sponsabilità dell’Africa addebitando tutti i suoi guai all’e-goismo e al cinismo del Nord del mondo. Non ho alcuna

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difficoltà ad ammettere che, ben prima dell’emergenza pira-teria, sono stati soprattutto l’intrattabilità, l’inaffidabilità, lacecità e l’egoismo dei principali attori politici somali a ren-dere la crisi somala sempre più «indigesta» per la comunitàinternazionale. Al punto che si è fatta strada nel mondo l’i-dea che la Somalia sia un caso disperato, un paese cui si pos-sa soltanto destinare qualche aiuto umanitario.

Il miraggio della soluzione africana

Purtroppo alle colpe di noi somali si sono aggiunti due de-cenni di errori e superficialità da parte degli attori interna-zionali intervenuti in Somalia. Una catena di abbagli e diequivoci (di cui altri prima di me hanno già compiuto rico-struzioni dettagliate) fu inaugurata nel 1992 da Bush Seniorcon l’operazione americana Restore Hope, il cui fallimentofu ereditato dall’ONU e si compì sotto le sue bandiere. Apartire da quel momento si è applicata al caso somalo la re-cente dottrina diplomatica secondo cui «le crisi africane van-no affidate agli Africani» e di preferenza alle organizzazioniregionali africane competenti. In virtù di questa dottrina,poiché la Somalia fa parte del Corno d’Africa (siamo «il Cor-no del Corno») parve naturale affidare la crisi somala all’I-GAD (Inter Governmental Authority on Development). Mal’IGAD, come dice il suo acronimo, è un organismo tecnico,creato nel 1986 per fronteggiare le varie emergenze legate auna devastatrice invasione di cavallette e alle siccità ciclicheche flagellano la regione. Solo nel 1996 si cercò di trasfor-mare questo «comitato antiemergenza» in una delle orga-nizzazioni regionali africane che dovrebbero facilitare il dia-logo e la cooperazione fra il nostro continente e il resto delmondo. Peccato che la famiglia dei sette Stati che compon-go l’IGAD (Sudan, Etiopia, Eritrea, Gibuti, Somalia, Ugan-da e Kenya) sia la più disomogenea e litigiosa fra le comunità

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africane, dove coabitano paesi in stato di guerra latente (co-me Etiopia-Eritrea e Sudan-Uganda), o separati da conflittisecolari (come Etiopia e Somalia), o divisi da tensioni natecon le rispettive indipendenze (come Somalia e Kenya).

Affidare la gestione della crisi somala all’IGAD significavaaffidarla in primo luogo all’Etiopia, paese che la diplomaziainternazionale considera il partner più affidabile e il «socio diriferimento» dell’IGAD. E infatti per anni il governo di AddisAbeba è stato il protagonista della gestione africana della cri-si somala, fino a ricevere il mandato di occupare militarmen-te e presidiare Mogadiscio. Un disastro nel disastro, tanto èvero che è stata la stessa diplomazia internazionale a esigere ilritiro delle truppe etiopiche dalla Somalia alla fine del 2008.

Perché l’Etiopia non è stata né poteva essere l’honestbroker di cui c’era bisogno in Somalia? Chi conosce il Cor-no d’Africa e la sua storia non si è mai illuso che potesse pa-cificare la Somalia proprio l’Etiopia, paese condizionato dauna diffidenza storica e reciproca nei confronti del suo vici-no. Primo requisito di ogni buon mediatore deve essere lasua accertata imparzialità. E non è questo il caso degli attualigovernanti di Addis Abeba, convinti (è una costante della lo-ro storia patria) che da una Somalia che ritornasse ad essereun attore forte e stabile nella regione del Corno l’Etiopia nonpotrebbe aspettarsi nulla di buono. Al contrario. Il miglioredegli scenari, per Addis, è sempre stato quello di avere co-me vicino un governo somalo alleato-vassallo.

Sembrò a un certo punto corrispondere a questo disegnoil governo somalo di transizione presieduto dal colonnello Ab-dullahi Yussuf, gravato com’era da una duplice ipoteca: da uncanto la carta costituzionale federale, discutibile politicamen-te e insostenibile finanziariamente e una transizione inopina-tamente lunga (cinque anni sono un’eternità). Abdullahi Yu-suf era per gli etiopici più di un alleato, era piuttosto un loro«cliente» se non addirittura un loro gendarme. Egli faceva so-

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lo quello che i suoi principali fornitori di armi e di legittimitàpolitico-diplomatica gli lasciavano fare. Ivi compresa la «ri-conquista» di Mogadiscio, in mano alle Corti Islamiche, a can-nonate. Come se non sapesse che nessun somalo potrà mai ac-cettare di vivere sotto protettorato etiopico.

I ruoli degli attori africani nel processo di riconciliazione so-malo si sono rimescolati a partire dalla decisione di Addis Abe-ba di ritirare le sue truppe alla fine del 2008. Mentre l’Etiopiaha ridotto nettamente la sua influenza, ha conservato il suoruolo positivo il Kenya che, malgrado il permanere di qualchecontenzioso bilaterale, trarrebbe solo vantaggi dal ritorno diun governo forte e stabile a Mogadiscio. Il Kenya è stato e ri-mane una retrovia essenziale per tutti gli attori politici somalie ospita centinaia di migliaia di profughi somali. E Nairobi re-sta la principale fra le «capitali in esilio» della Somalia.

Altri due partner dell’IGAD, Gibuti ed Eritrea, hanno as-sunto con il tempo un ruolo decisivo nella gestione della cri-si somala. L’Eritrea, guidata dalla sua bussola antietiopicama anche ispirata da una vecchia amicizia e alleanza con laSomalia, è stata la prima – come si è detto – a offrire una tri-buna e un ruolo internazionale a quel nuovo soggetto politi-co somalo che è l’«Islam moderato» incarnato dal presiden-te Sheikh Sherif Sheikh Ahmed. Il che ha rilanciato unprocesso di riconciliazione che sembrava al punto morto.

Quanto a Gibuti, non è solo un nostro vicino che non hamire sulla Somalia. È un paese per noi fratello, la cui po-polazione è in maggioranza somala. Anche per questo il go-verno di Gibuti è stato pronto ad assumere l’onere di ospi-tare il grande circo itinerante dell’ennesima conferenza diriconciliazione nel 2008.

In più a Gibuti sono di casa, per una ragione o per un’al-tra, anche potenze occidentali come Stati Uniti, Francia,Gran Bretagna e molti Stati arabi.

Né va dimenticato che il nuovo assetto del processo di pa-

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ce somalo va oltre il perimetro dell’IGAD e ha la benedizio-ne dell’Unione Africana, sotto le cui bandiere agiscono letruppe africane, soprattutto burundesi e ugandesi, che presi-diano come possono Mogadiscio e il governo di transizione.

Un processo di riconciliazione reso possibile dall’Europa eun’occasione perduta per l’Italia

La fase finale del processo di pacificazione non sarebbemai approdata ad alcun risultato concreto se non fosse statosostenuta per quasi vent’anni dalla buona volontà e dai mez-zi materiali messi a disposizione dall’Unione Europea, dal-l’l’Italia e da qualche altra capitale del Vecchio Continente.Durante tutta la lunghissima conferenza in Kenya capitavache decisioni fondamentali venissero prese, talora dettate,come accade nella vita, da coloro che pagavano il conto. Etutti sapevano che il processo di riconciliazione si sarebbe fa-talmente arenato se i partner occidentali non avessero con-tinuato, tappa dopo tappa, a finanziarne la continuazione.Tutti sapevano per esempio che l’ambasciatore kenyanoBethuel A. Kiplagat, vero regista della conferenza fin dalmomento in cui questa si trasferì da Eldoret a Nairobi, cor-reva a Bruxelles ogni volta che si trovava al verde, e lì resta-va fino a quando non otteneva (grazie all’interessamento diRoma, Londra o dei paesi scandinavi) i fondi necessari a fi-nanziare la continuazione delle trattative.

All’Italia l’ultima fase del processo di pacificazione soma-lo ha offerto una buona occasione per acquistare peso inter-nazionale. Un’occasione meno costosa e meno rischiosa ri-spetto all’Irak e all’Afghanistan, che la diplomazia italiana hasaputo gestire con abilità, almeno fino a quando non decisedi sostenere a fondo, a braccetto con l’Etiopia, le ambizionipresidenziali del warlord Abdullahi Yusuf. Roma si illuse diridurre i tempi della pacificazione facendo ricorso a un «uo-

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mo forte»? Oscure rimangono per me le motivazioni di que-sta scelta. Poiché l’Italia di Berlusconi, come peraltro quellaprecedente, di centrosinistra, non ha una sua politica africa-na, bisogna dedurne che l’artefice principale della politicasomala di Roma è da considerare il rappresentante specialeitaliano per la Somalia, Mario Raffaelli, già sottosegretarioper l’Africa dal 1983 al 1989, con Craxi e Andreotti, nomi-nato nel 2002 da Berlusconi e rimasto in carica fino alla finedel 2008. Sei anni di mandato non sono pochi, soprattuttoper gli standard italiani, e tuttavia il bilancio di tanto lavoroappare ai miei occhi assai deludente.

Cerco di spiegare perché. Quando si giunse finalmente al-la fase decisiva della conferenza kenyana e dell’intero pro-cesso di pace, gli obiettivi prioritari apparivano due: conso-lidare e sviluppare lo spirito di riconciliazione di tutta lafamiglia somala; ricostruire con il consenso di tutti un nuo-vo sistema istituzionale capace di ridare alla Somalia unoStato nazionale e una carta costituzionale funzionanti. Ri-mandando a una fase successive la scelta degli uomini cui af-fidare la guida di tali istituzioni.

Ma quest’ottica fu inopinatamente rovesciata quando alcu-ni attori somali e alcuni partner internazionali del processo –Italia in testa – ritennero fosse prioritario trovare «uomini for-ti» da mettere alla testa del processo e scelsero Abdullhai Yu-suf come il candidato più adatto a quest’impresa, da insedia-re al più presto al vertice delle istituzioni di transizione.

Raffaelli si dette da fare più di chiunque altro per istitu-zionalizzare il ruolo di Abdullahi Yusuf, forzando la manoagli altri partner occidentali e ignorando le riserve prove-nienti dall’interno della stessa Farnesina. Lo dico con co-gnizione di causa essendomi io dato molto da fare per met-tere in guardia Raffaelli contro i rischi e le conseguenze chequesta scelta comportava.

La linea di Realpolitik difesa da Raffaelli consisteva nel di-

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re: poiché i signori della guerra sono quelli che controllanoil territorio, che fanno il bello e il cattivo tempo, è dal rico-noscimento del loro ruolo che deve partire il negoziato in vi-sta della riconciliazione e della ricostruzione dello Stato. Manon ci fu vero negoziato. Dall’idea originaria, che era quelladi affidare la rinascita dell’amministrazione pubblica somalaalla società civile e di «includere» i warlords in questo proces-so per non spaventarli e antagonizzarli, si passò a una sorta diconsegna del potere a un «consorzio» di signori della guerra.Lasciando la società civile, di fatto, ai margini del processo.

La situazione appariva tanto più fumosa in quanto l’Ita-lia, come altri attori occidentali, non rivendicava aperta-mente la paternità di questo piano. Dissimulava il suo ruolodi decision-maker affermando che la sua diplomazia non fa-ceva altro che appoggiare «le soluzioni scelte dagli attoriafricani del processo».

Il gioco diventò assai più chiaro il giorno in cui, in perfet-ta sintonia con l’Etiopia, Raffaelli cercò di pilotare gli even-ti verso uno sbocco inatteso. Convocò a Roma una Confe-renza dei donatori dove, facendosi garante nei confrontidell’Unione Europea, dichiarò che l’Italia avrebbe reperito ifondi per la costituzione in Somalia di una trusteeship inter-nazionale affidata a una Commissione ad hoc, che avrebbedovuto essere presieduta da Raffaelli stesso. Si intravedevainsomma, dietro la grande diplomazia, la manovra di due uo-mini che cercavano di realizzare le loro personali ambizioni:Abdullahi Yusuf cercava di blindare la sua presidenza conuna cauzione internazionale e Raffaelli puntava a riceveredalla comunità internazionale la carica e il ruolo di «rico-struttore della Somalia».

Le cose, come si sa, andarono diversamente e il potere diAbdullahi Yusuf si sciolse come neve al sole. Da qui quello checonsidero un fallimento della politica e della diplomazia italia-na, che ha fatto perdere quattro anni di tempo alla Somalia.

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Dopo l’offuscamento, speriamo temporaneo, del ruolodell’Italia, è continuato l’impegno e il ruolo assai positivo deipaesi scandinavi e della Gran Bretagna, sempre disponibilidiplomaticamente e in termini di aiuti materiali verso tuttele iniziative tendenti alla ricostruzione. L’Unione Europea inquanto tale non ha mai cessato di assistere regioni, forze esingole organizzazioni impegnate nell’alleviare le sofferenzedella popolazione e consolidare «isole di pace». E non hacessato nemmeno di monitorare il processo politico di ri-conciliazione tramite la presenza di emissari anche di rango,come il belga Louis Michel, Commissario belga allo svilup-po e agli aiuti umanitari fino alla primavera del 2009.

Un ruolo assai utile, anche se meno visibile, hanno gioca-to i paesi scandinavi (Svezia, Norvegia e Danimarca) d’inte-sa con le Nazioni Unite, finanziando la commissione incari-cata di vegliare all’embargo sull’importazione delle armiallora decretato in Somalia. Era il modo migliore di farepressione sui signori della guerra, tagliando loro le unghie invia preventiva. Un esercizio purtroppo di efficacia limitata,data la lunghezza e dunque la permeabilità delle frontiereterrestri con l’Etiopia e di quelle marittime. Per chiuderequeste frontiere bisognava fare pressione direttamente edenergicamente sulle autorità di Etiopia e Yemen. Ne aveva-no e ne hanno i mezzi gli Stati Uniti e le ex potenze colonia-li che oggi fanno parte dell’Unione Europea. Forse lo hannoanche fatto, ma non con la sufficiente energia.

Anche Mogadiscio spera in Obama

Altri attori, naturalmente, oltre a quelli africani ed euro-pei, hanno agito ed agiscono sulla scena della crisi somala.Attori che appaiono e scompaiono in funzione di un contestoche cambia in continuazione. Due timori, molto diversi fra lo-ro, possono oggi spingere paesi che contano a interessarsi di

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Somalia e di Corno d’Africa: la paura dell’«internazionale ter-rorista» e la paura dell’espansionismo cinese. Cui si è aggiun-to, da qualche tempo, il fenomeno già citato della pirateria.Il primo timore, apparso già sul finire degli anni Novanta, èdiventato psicosi dopo gli attentati contro le ambasciateamericane di Nairobi e Dar Es Salaam e dopo l’11 settem-bre, quando hanno cominciato a circolare voci ricorrenti sul-la possibilitá che uomini e gruppi riconducibili ad Al Qaida,e addirittura lo stesso Bin Laden, trovassero rifugio fra lepieghe di una società somala disintegrata. Il fatto è che a uncerto punto l’amministrazione statunitense, senza aspettarela resurrezione dello Stato somalo, ha affrontato la questio-ne delegando al Pentagono e ai servizi segreti il compito digestire il «rischio Somalia» e prendere unilateralmente tuttele contromisure necessarie. Da quel momento generali eagenti segreti americani non hanno avuto difficoltà a com-prare presso questo o quel signore della guerra i «lasciapas-sare» necessari a intervenire direttamente in Somalia, a Mo-gadiscio, Giohar, Baidoa oppure nel Bari – con navi,elicotteri e commandos USA, per catturare terroristi veri epresunti e portarseli via. In qualche caso l’esecuzione senzaprocesso di somali sospetti è addirittura avvenuta con il lan-cio di missili direttamente dal mare. Così è stato ucciso a Gu-ri El, sperduto villaggio prossimo a Dusa Mareb, Ayro, unodei più noti capi religiosi islamisti. Molto più di recente, nel-l’agosto del 2009, una squadriglia di elicotteri USA prove-niente dall’Oceano Indiano ha attaccato un convoglio di mi-liziani «Shaabab» in viaggio fra Bur Acaba e Baidoa, a nord diMogadiscio. Secondo le autorità americane, unica fonte diinformazione sull’operazione, si è trattato di un blitz contro«terroristi non somali legati ad Al Qaida». Ci sarebbero statitre morti, un ferito e un numero imprecisato di prigionieri,portati via dagli elicotteri.

Gli americani non possono non aver a lungo pensato che il

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giorno in cui in Somalia ritornassero un’amministrazione, del-le autorità legittime e uno Stato di diritto mai più essi avreb-bero le mani così libere. Proprio questo tipo di considerazio-ni ha provocato, credo, un prolungato raffreddamentodell’impegno degli Stati Uniti, che pure sono stati fra i pro-motori della conferenza di riconciliazione nazionale in Kenya.

In una prima fase, 2001-2002, Washington mandò allaconferenza un suo rappresentante speciale assai attivo, il cuimessaggio principale, finché partecipò alla conferenza, con-sisteva nel dire che non bisognava affidare ai soli signori del-la guerra le redini del futuro governo somalo. Una volta ri-chiamato questo inviato speciale, Washington lasciò la suasedia vuota per oltre un anno. Solo nella fase conclusiva dellaconferenza fu nominato un nuovo rappresentante, un diplo-matico che aveva trascorso in Europa la maggior parte dellasua carriera. Ma il ruolo degli Stati Uniti rimase abbastanza di-screto e non interamente decifrabile, salvo una apparente ri-serva, una certa freddezza, nei confronti di Abdullahi Yusuf.Dico apparente perché, se ci fosse stato un veto americano,mai l’Etiopia, principale sponsor del colonnello, sarebbe riu-scita a imporlo alla presidenza. Una certa ambiguità america-na si spiega probabilmente con il fatto che il principale obiet-tivo di Washington in Somalia è rimasto quello di contrastarela crescita e la «messa in orbita» di personaggi direttamente oindirettamente legati alla galassia fondamentalista. L’Americaporta ancora i segni del trauma militare e politico subito adopera di Aidid nel 1993. Una ferita così profonda, tanti annidopo, da indurre Bill Clinton a includere fra i principali ri-morsi delle sue memorie quello di avere «supinamente accet-tato l’invio dei soldati americani in Somalia».

Le cose sono cambiate con l’amministrazione di BarackObama. Un segno ai miei occhi positivo, di realismo, è statoil beneplacito concesso da Washington alla costituzione delnuovo esecutivo presieduto da Sheikh Sherif, che è pur sem-

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pre un ex dirigente delle Corti Islamiche. Il ritorno della di-plomazia statunitense a un ruolo attivo e costruttivo verso lacrisi somala – dopo tanto esitare fra stabilizzazione e desta-bilizzazione del nostro paese – accresce le speranze di avereun governo più autorevole, dotato delle prerogative e deimezzi necessari a guidare il ritorno alla normalità.

Del grande attivismo cinese in Africa, di cui tanto si par-la, non ci sono per il momento tracce visibili in Somalia. E sipuò capire. La Cina non è più quella di Mao e Zhou En-lai de-gli anni Cinquanta e Sessanta, che in cambio dei suoi aiuti, tal-volta importanti, cercava in Africa soprattutto un tornacontopolitico-ideologico «rivoluzionario» da spendere nella suacompetizione con Mosca e nella sua battaglia per recuperareil proprio ruolo alle Nazioni Unite e ridimensionare quellodella Cina nazionalista. Oggi la Cina rivaleggia in Africa conle potenze occidentali, con la loro corsa per accaparrarsi le ri-sorse naturali del continente. Nel medio-lungo termine sco-priremo forse che ha preso più di quanto non abbia dato, maper il momento questa concorrenza Cina-Occidente offre agliafricani spazi e opportunità. Suscita intanto timore lo sforzopoderoso che questo grandissimo paese sta compiendo per as-sumere sulla scena internazionale il ruolo politico ed econo-mico che gli spetta. La Cina nuova potenza mondiale cercaspazi ben oltre l’Asia, in tutti i continenti, Africa compresa.Tanto più se l’Occidente continua a trattare questo continen-te come una sorta di riserva strategica, da presidiare senzaperò assumere troppi costi, né troppi rischi.

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Capitolo sedicesimoL’ombra dell’Islam sul futuro dell’Italia e della Somalia

Mi trovai un giorno a Torino a discutere con una signoramarocchina musulmana praticante, senza velo né ciador macoperta dalla testa ai piedi. Una donna che definirei moder-na e aperta, docente all’università. Ragionavamo insieme sul-le questioni sociali più urgenti legate all’immigrazione e suipartiti politici italiani più o meno sensibili verso tali problemi.E lei mi disse: «A me piacciono le cose che dicono quelli diRifondazione Comunista, ma mi trovo di fronte a un dilem-ma: come faccio a votare o suggerire di votare per dei non cre-denti, per degli atei?». E precisò subito come le fosse altret-tanto chiaro che, qualora avesse voluto orientare il voto deglielettori musulmani verso politici italiani «credenti», correva ilrischio di portare la sua comunità in braccio al centro-destra,cioè lontano dalle aspettative dei musulmani italiani.

Mi sforzai di imbastire un discorso convincente sulla se-parazione fra cosa pubblica e religione. Spiegai che il pote-re politico-amministrativo è una funzione istituzionale, cheappartiene alla comunità delle persone che vivono su un ter-ritorio ed è al loro servizio, ma che è estraneo alle diverse af-filiazioni religiose, individuali o di gruppo. Che la nostra so-cietà è disposta per cerchi concentrici: con al centro unazona comune a tutti di valori, di giustizia, di regolamenti, dicodici di comportamento; e con un cerchio esterno che in-clude la nostra casa, dove facciamo come crediamo e il no-stro luogo di culto – chiesa, sinagoga, moschea – dove pra-

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tichiamo le nostre rispettive fedi. E conclusi dicendo che lamigliore lezione in proposito ci viene dagli Ebrei, che da se-coli, se non da millenni, hanno imparato a conciliare le esi-genze della vita pubblica e di quella privata. Per un verso fan-no parte integrante del paese in cui vivono – Francia, StatiUniti, Inghilterra, Italia – tanto da assumervi posti e ruoli diprimo piano in ogni campo, senza rinunciare a dividersi poli-ticamente in conservatori e progressisti. Senza per questo ri-nunciare, in privato, alla loro fede religiosa e al rispetto scru-poloso dei riti previsti, nei giorni e nei luoghi deputati.

Non convinsi, temo, la mia interlocutrice di allora, né cre-do che l’insieme dei musulmani presenti oggi in Italia si sia fat-to un’idea della separazione fra Stato e religione. Come po-trebbero d’altra parte? Dove sono i maestri, i teorici chepotrebbero illustrare questo caposaldo della cultura istituzio-nale europea? I musulmani che vivono oggi in Italia sono ingenere persone approdate qui in modo fortuito e talora fortu-noso, assillate dalla ricerca costante di un lavoro, dotate dimezzi materiali e culturali assai rudimentali. Che altro posso-no fare, per sapere come comportarsi, se non pendere dallelabbra dei teologi della scuola egiziana di Al Azhar, massimaistituzione dell’Islam sunnita, o di altre scuole islamiche fa-mose? Da queste autorità religiose si levano peraltro voci ra-gionevoli, come quella del rettore di Al Azhar, Tantawi, che èintervenuto nell’interminabile dibattito – un vero psicodram-ma – europeo sul tema del velo (ammetterlo o proibirlo?) ri-cordando semplicemente che nessuna norma islamica prescri-ve alle donne di nascondere il volto quando sono in pubblico.

Sono comunità, le nostre, che non hanno ancora una vi-talità culturale propria, indipendente. Ecco perché sonoconvinto che le collettività musulmane che si vanno costi-tuendo in Europa hanno – e manterranno a lungo – un ruo-lo fondamentalmente conservatore.

Penso esattamente l’opposto di coloro che già si strappa-

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no i capelli pensando all’Europa cristiana «in via di islamiz-zazione», prossima a una rivoluzione islamica che metterà fi-ne alla civiltà del Vecchio Continente.

Un nuovo spettro si aggira per l’Europa

Poiché ho una certa dimestichezza sia con il Corano siacon i testi sacri, se posso dire così, del marxismo, dedico aglieuropei ossessionati dall’Islam una piccola provocazione checonsiste nel rileggere il famoso preambolo del «Manifestodel Partito Comunista» di Carlo Marx sostituendo all’ormaiobsoleto «spettro del comunismo» l’attualissimo «spettrodell’Islam». Basta rimpiazzare le parole Comunismo e co-munisti con Islam e islamici per leggere: «Uno spettro si ag-gira per l’Europa, lo spettro dell’Islam. Tutte le potenze dellavecchia Europa si sono alleate in una santa caccia spietata aquesto spettro. L’Islam è ormai riconosciuto come potenza datutte le potenze europee. È ormai tempo che gli islamici espon-gano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i lo-ro scopi, le loro tendenze...».

Quando contesto l’esistenza di un «complotto islamico»su scala mondiale, o anche soltanto europea, non nego dicerto l’esistenza di pericolosi gruppuscoli di esaltati farneti-canti. A Torino, Milano e altre città italiane compaiono lea-der religiosi locali, sbrigativamente presentati dai media co-me «teologi fondamentalisti», che propugnano la violenza,organizzano cellule estremiste, reclutano giovani da manda-re alla Jihad, potenziali kamikaze. Che bisogna fare?

Bisognerebbe, tanto per cominciare, chiamare le cose conil loro nome e quindi negare a questi personaggi la qualificadi teologi. Nessun musulmano dotato di buon senso e di unminimo di conoscenza della cultura islamica può scambiarliper «dottori della legge». Si assiste in Italia, con la crescitadelle comunità di religione islamica, alla proliferazione di

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mini-moschee create alla bell’e meglio in locali di fortuna,spesso fatiscenti. Delle «moschee-garage», direi. Luoghi diriunione e di preghiera, certo, ma voluti e retti a volte da pic-coli avventurieri tanto ambiziosi quanto incolti, a caccia dipopolarità, di prestigio, di benessere materiale. Queste mo-schee-garage esprimono di solito imam-garagisti di modestalevatura dottrinale, chiamati a risolvere le piccole questionireligiose quotidiane sollevate dai «fedeli» in materia alimen-tare, famigliare, rituale.

Altra cosa è il possibile coinvolgimento di questi perso-naggi e dei loro seguaci in pericolose trame eversive e/o ter-roristiche. Si prenda il caso paradigmatico dell’«imam mila-nese» Abu Omar, sequestrato dalla CIA in Italia, deportatoin Egitto e alla fine rilasciato senza che qualcuno sia riuscito adimostrare in un qualche tribunale una qualche sua colpa. Ionon conosco quest’uomo e non lo difendo, ma la tragedia cheravviso dietro il suo caso è che perfino gli USA, non trovandoelementi sufficienti per spedirlo a Guantanamo, non hannoesitato a consegnarlo al suo paese di origine, l’Egitto, perchélì avvenisse un «lavoro sporco», illegale e contrario ai dirittiumani, che alla fine non ha dato risultati. E non si tratta di uncaso isolato, visto che risulta anche di cittadini yemeniti edetiopici illegalmente catturati in giro per l’Europa e trasferitiin centri di detenzione nei loro paesi di provenienza.

Il panorama dell’Islam italiano, così povero teologica-mente, non è molto diverso da quello del resto d’Europa,compresi i paesi dove le comunità musulmane esistono dapiù tempo, come in Inghilterra e Francia. Non vedo da nes-suna parte esponenti musulmani dotati della necessaria ca-ratura culturale. E per raggiungere spessore culturale, se-condo me, non basta una conoscenza, anche vasta,dell’Islam. Ci vuole una formazione aperta, onnicomprensi-va, comparativa, che aiuti i musulmani a vivere l’Islam nelcontesto storico e sociale dell’Europa di oggi, anziché ri-

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mandarli ottusamente all’Islam vissuto nel loro paese d’ori-gine o addirittura a quello mitico «delle origini», idealizzatodai fondamentalisti. Insomma, così come cambia l’angolazio-ne dell’ago della bussola – quando per pregare cerco la Mec-ca a partire da Mogadiscio o da Stoccolma – allo stesso mododevo adattare tutta la mia vita quotidiana al contesto socialein cui mi trovo. Devo confrontarmi con la società che mi o-spita. Ma è inutile cercare traccia di queste riflessioni nei di-scorsi degli imam che officiano nelle «moschee-garage»: è gen-te capace solo di ripetere ossessivamente quanto sterilmentela lista delle lagnanze e delle rivendicazioni «islamiche».

Manca all’Islam una cultura della minoranza simile a quellasviluppata dagli ebrei

Una volta venne a trovarmi un signore che si presentò,con le dovute cautele, come un rappresentante dei servizi se-greti italiani. Voi somali aumentate, mi disse, siete ormai unacomunità. Se avete problemi fra di voi o nei vostri rapporticon gli altri è meglio se ci avvertite tempestivamente. Potre-mo aiutarvi meglio. Io gli risposi che i somali, come tanti al-tri, hanno o creano problemi solo se hanno fame. Evitatedunque che abbiano fame, ribattei, ed eviterete i problemi.Allora il mio visitatore fece un esplicito riferimento a unapiccola moschea del quartiere torinese di San Salvario, cheappariva – disse – «problematica».

Gli chiesi perché mai le autorità italiane non favorisserola costruzione di moschee grandi, dove vanno tutti, legal-mente strutturate nel loro funzionamento, trasparenti in-somma. Come succede a Roma, dove le moschee-garage nonhanno preso piede perché la comunità musulmana disponea Forte Antenne di una monumentale moschea, una sorta di«San Pietro». E il mio interlocutore mi spiegò che sbagliavo,che loro – i servizi di sicurezza – ritengono di controllare me-

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glio i focolai di estremismo nelle piccole moschee. Non sochi di noi abbia ragione. Nel frattempo quelli della Lega,imitati da alcune amministrazioni di sinistra, tanto per nonsbagliare, hanno imboccato la strada assai pericolosa che siriassume nello slogan «Basta nuove moschee».

Io resto favorevole alle moschee grandi perché sono più«visibili» e più difficili da manipolare, da conquistare all’e-stremismo. E continuo a suggerire alle autorità italiane,quando me lo chiedono, di proteggere le città dalla prolife-razione delle piccole e incontrollabili mini-moschee seguen-do l’esempio di Roma. Bisogna aiutare i musulmani a sco-prire quella «cultura della minoranza», cui mi riferivo prima,che gli ebrei praticano da millenni ma che è quasi scono-sciuta nelle società islamiche.

Tutto questo è possibile, ovviamente, nel contesto di unoStato di diritto, fra i cui fondamenti figuri la separazione fraStato e religione. E qui viene il difficile, perché rarissimi so-no gli immigrati musulmani in Italia, e più generalmente inEuropa, che abbiano conosciuto la condizione di «minoran-za» nel proprio paese d’origine. E altrettanto, se non più ra-ri ancora, sono gli immigrati che abbiano conosciuto a casaloro lo Stato di diritto. Chi si sente troppo chiuso da quellagabbia, o irretito dalla cultura dell’«altro», si fa cristiano emagari si fa anche chiamare Cristiano.

Un amico mi ha chiesto se nasceranno, prima o poi, in Ita-lia o altrove, partiti politici ispirati all’Islam, più o menoapertamente confessionali, destinati a rappresentare le co-munità immigrate. Se guardiamo ai paesi europei dove l’im-migrazione, non solo musulmana, ha una storia più consoli-data, constatiamo l’assenza di partiti politici, confessionali odi matrice etnica. Cresce invece il numero di cittadini euro-pei di origine asiatica o africana che, affiliati ai partiti politi-ci già esistenti, siedono nelle assemblee locali, nei parlamen-ti nazionali o financo nei governi. Il che non impedisce loro di

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difendere gli interessi e le rivendicazioni delle diverse comu-nità immigrate da cui provengono. Io credo insomma che, co-me si suol dire, «i musulmani pregano sempre rivolti verso laMecca»: hanno una bussola che li orienta in qualsiasi luogo esituazione. E credo che così sarà anche in Italia, dove quasitutti i partiti – così come i sindacati e associazioni di ogni ge-nere – cominciano ad aprire le porte agli immigrati. Le cosevanno a rilento in Italia perché le comunità musulmane in-contrano, nel loro cammino verso la piena emancipazione ci-vile e politica, diversi ostacoli. Mentre manca, ad esempio, unnucleo di «borghesia islamica/italiana» in grado di definire epromuovere gli interessi comunitari, le collettività musulma-ne si confrontano con due paternalismi: quello espresso dalleproprie autorità consolari, che con la scusa di assistere i pro-pri cittadini (penso ai marocchini di Torino) ne controllano inrealtà le attività; e quello espresso dallo Stato italiano attra-verso la recente invenzione degli «organismi consultivi», de-stinati soprattutto a promuovere il consolidamento di un«Islam moderato» (che nessuno sa bene cosa sia).

Posso naturalmente sbagliarmi, ma ritengo che l’azione deigoverni dei paesi d’origine e quella del governo italiano ri-schiano di frenare e manipolare il naturale processo di eman-cipazione politica in seno alle comunità immigrate. Verrannoprima o poi momenti, credo, in cui moderati e radicali, fauto-ri dell’integrazione e fautori del «separatismo» troverannoobiettivi comuni da perseguire, senza mediazione alcuna.

Già che parlo dei paesi islamici e delle loro classi dirigen-ti, sarà forse opportuno segnalare che raramente tali classidirigenti appaiono composte da musulmani ferventi e prati-canti. Basta salire su un aereo che da qualsiasi capitale isla-mica, anche la più tradizionalista e bigotta, come Riyadh, vo-la verso l’Occidente, per assistere a una scena che a me èsempre parsa molto eloquente. La scena è quella di signoree signorine, non solo giovanissime, che senza alcun imba-

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razzo si liberano dei veli e delle palandrane in cui devono in-fagottarsi nei loro paesi, predisponendosi all’immersione nelcontesto occidentale e alla mimetizzazione con esso. Sonodonne presumibilmente agiate, verosimilmente irreprensibi-li, che tuttavia si sentono più libere di quanto non preveda-no i codici di comportamento dei paesi nei quali vivono. Idirigenti dei paesi islamici sono spesso come queste donne.Percepiscono e vivono il rispetto delle norme islamiche piùcome un’ipocrisia necessaria per governare, e mantenerel’ordine, che non come l’applicazione di precetti dettati dal-la fede. Vai, a titolo privato, a casa di un ministro, anche inArabia Saudita o ad Abu Dhabi, e ti saranno offerte quasicon civetteria tutte le bevande alcoliche, dal whisky alla bir-ra, bandite da eventi e banchetti ufficiali. Dilaga insommaun permissivismo che le autorità non possono certo ignora-re, prova del fatto che si rispetta formalmente l’Islam inomaggio a un «sentire popolare» che è bene non perturbarema al quale quasi nessuno più è disposto a concedere la pro-pria anima e la propria esistenza, e nemmeno a uniformareil proprio stile privato di vita.

Anche la paura di perdere il potere ha un peso nel perpe-tuare questa fedeltà formale all’Islam, soprattutto presso lemonarchie più tradizionaliste, che tuttavia continuano amandare sistematicamente in Occidente i loro rampolli e iloro capitali. La stragrande maggioranza dei regimi islamicicontemporanei, monarchici e repubblicani, vive sotto il ri-catto permanente dei movimenti integralisti islamici, forti diun appoggio popolare di cui nessun potere costituito dispo-ne. Questa paura dei fondamentalisti non fa che accrescerel’antagonismo fra gli obiettivi politici dell’integralismo equelli dei figli dell’establishment i quali prima o poi torna-no, con le loro ambizioni, dall’Occidente nei loro paesi d’o-rigine. Imam e sceicchi che vivono immersi nelle loro di-squisizioni teologiche, voltando sdegnosamente le spalle alla

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modernità, appaiono tanto più perniciosi alle nuove genera-zioni più emancipate in quanto usurpano e stravolgono il«messaggio divino».

Ma il Corano, lungi dal chiedere agli uomini di rinchiu-dersi nelle scuole di teologia, li spinge a espandersi, a viag-giare, a conoscere il mondo, i popoli e le culture. E suggeri-sce ai musulmani di rispettare gli «altri» e le loro cultureperché solo così può sperare di essere rispettato e rispar-miato a sua volta. Non si può escludere, c’è anzi da sperare,che fra questi dirigenti islamici «illuminati» ce ne sia alme-no qualcuno che si richiami all’Islam aperto e creativo delMedio Evo, attento al mondo esterno, spesso all’avanguar-dia nel campo della scienza e della cultura.

Il punto è che mentre i gruppi dirigenti più o meno illu-minati, più o meno riformisti, cercano il loro cammino, i pre-dicatori del fondamentalismo riescono qualche volta a im-padronirsi del potere e addirittura a vincere delle elezionidemocratiche. I poteri costituiti insomma rischiano ad ognimomento, anche quando cercano di laicizzarsi «a porte chiu-se». Sanno di poter essere scalzati un giorno dai fautori del-lo Stato teocratico. E per di più a furor di popolo. Come faa funzionare un sistema democratico quando si accorge cheil rispetto delle sue regole rischia di consegnare il potere achi vuole abolire la democrazia stessa?

I musulmani e l’Olocausto

La sfida dei modernisti è tanto più difficile in quanto cisono dirigenti integralisti capaci di intercettare il consensopopolare non soltanto sui temi della religione, ma anche pro-mettendo «ordine e giustizia» in seno alla società oppuretoccando corde sensibilissime come quelle del nazionalismo.Si prenda il tanto esecrato presidente iraniano Ahmadinejad.Se è semplicemente inaccettabile quello che dice sull’Olocau-

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sto e la storia d’Europa, molto meno cervellotica appare – al-meno a me – la sua «rivendicazione nucleare». Mettetevi neipanni di un qualsiasi iraniano, figlio di una nazione che ha unastoria millenaria, cittadino di un paese grande e dotato digrandi risorse naturali, fronteggiato da un Irak con cui è sta-to a lungo in guerra e per di più circondato da vicini che han-no già quasi tutti – Russia, India, Pakistan, Israele – la bombaatomica. Ma perché mai dovrebbe scegliere la condizione diunico «denuclearizzato»? E perché mai un paese con la storiae il peso dell’Iran, che aveva costruito un impero molto primache l’America venisse «scoperta» dagli Europei, che disponeoggi di risorse umane e materiali importanti, dovrebbe sotto-stare ai dettami del giovane impero americano?

Ahmadinejad sa di dare voce a un rifiuto dell’egemoniastatunitense che va ben oltre i confini persiani. Stiamo at-tenti a non coltivare l’illusione che tutti i dirigenti fonda-mentalisti s’interessino esclusivamente di teologia e non sap-piano fare politica. Che ha fatto l’Occidente per aiutareconcretamente il riformista Khatami nella sua sfida all’inte-gralista Ahmadinejad?

So bene che la pessima reputazione di cui Ahmadinejad,rieletto nel giugno del 2009, gode in Occidente è legata ancheal suo proclamato desiderio di «cancellare Israele dalla cartageografica» e alla sua reiterata negazione dell’Olocausto. E soche gli europei si chiedono: ma i dirigenti islamici rimangonoindifferenti di fronte alle provocazioni di Ahmadinejad per-ché sono negazionisti o perché seguono il proverbio arabo se-condo cui «il nemico del mio nemico è mio amico»?

Non vedo molti dirigenti o intellettuali arabo-islamici ne-gare la realtà storica dell’Olocausto. Ciò che rende l’Olo-causto «sospetto», presso l’opinione arabo-musulmana, è ilfatto che proprio il popolo che ha subito ieri l’Olocaustoconculchi oggi i diritti di un altro popolo. E che questo po-polo e i suoi alleati invochino l’«eredità della Shoah» – così

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sembra ai palestinesi e ai loro alleati – come una sorta di pas-se-partout etico-politico per rendere accettabile l’inaccetta-bile: l’occupazione militare, la colonizzazione, tutte leasprezze della repressione. Che altro è la nascita di ogni nuo-va «colonia» israeliana nei territori occupati se non la can-cellazione di un pezzetto di terra palestinese dalla carta geo-grafica? Posso sbagliarmi, ma credo che se Ahmadinejad hadissotterrato l’ascia del «rifiuto totale di Israele» – con larozzezza intellettuale che gli appartiene – è per cogliere disorpresa i governi arabi, ai suoi occhi sempre più concilian-ti verso Israele, sempre meno interessati alla sorte della Pa-lestina, e proporsi come «guida» morale e politica dell’inte-ro mondo musulmano. E non si tratta di un’ambizioneinsensata, visto che l’Islam non si è mai identificato con que-sto o quel gruppo etnico e nel corso della storia ha affidato ilsuo governo a dirigenti musulmani di origine diversa: ai «fon-datori» arabi hanno fatto seguito gli egiziani, i persiani, i tur-chi. L’attuale gruppo dirigente iraniano si candida alla leader-ship ritenendo che, per ragioni diverse, tutte le altre «grandinazioni» che hanno fatto la storia islamica – come gli arabi e iturchi – abbiano abbandonato il progetto stesso di porsi allaguida di un «unico popolo islamico» compatto e forte, la Um-ma, per dargli un ruolo di primo piano sulla scena politicamondiale. Umma di cui l’Iran fa parte allo stesso titolo dellaPalestina e dell’Iraq, dell’Afghanistan e del Pakistan.

Il limite di un simile disegno lo si trova semmai nei giochi enei conflitti interni all’Islam, per esempio fra Sunniti e Sciiti.

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Somalia. Cronologia

1860 La Francia occupa la «Côte Française des Somalis», attualeGibuti.

1887 La Gran Bretagna instaura il Protettorato del Somaliland.

1889 L’Italia crea nel Benadir un Protettorato che diventerà la So-malia «italiana».

1936 L’Italia invade l’Etiopia e crea l’Africa Orientale Italiana (Etio-pia, Somalia, Eritrea).

1941 Seconda guerra mondiale. La Gran Bretagna occupa la Soma-lia italiana.

1950 L’ONU instaura l’Amministrazione Fiduciaria Italiana in So-malia (AFIS) dandole un mandato decennale per «preparare laSomalia all’indipendenza».

1956 Prime elezioni somale e creazione di un esecutivo che gestiscel’autonomia interna del territorio.

1960 La Somalia ex-italiana e il British Somaliland acquistano l’indi-pendenza e si fondono nella Repubblica Somala, presieduta daAden Abdullah Osman.

1964 Guerra di frontiera fra Somalia ed Etiopia.

1967 Abdirashid Ali Shermarke è eletto Presidente della Repubblica.

1969 Shermarke è assassinato e le forze armate prendono il potere sot-to la guida del Capo di Stato Maggiore, Mohamed Siad Barre.

1970 Siad Barre proclama il «socialismo scientifico» e si allea con Mosca.

1974 La Somalia aderisce alla Lega Araba.

1975 La Somalia è colpita da una gravissima siccità che porta deser-tificazione e carestia.

1977 La Somalia invade la regione etiopica dell’Ogaden, abitata dasomali.

1978 Consiglieri sovietici e truppe cubane aiutano l’Etiopia a ricon-quistare l’Ogaden. Siad Barre rompe con l’URSS.

1981 Costituzione su base tribale dei primi movimenti armati controil regime di Siad Barre.

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1991 Gennaio: bande armate entrano a Mogadiscio e costringonoSiad Barre a fuggire nel sud.Maggio: la Repubblica indipendente del Somaliland viene pro-clamata nell’ex-protettorato britannico. A Mogadiscio si scon-trano i «signori della guerra».

1992 L’amministrazione americana Bush (senior) invia un corpo dispedizione a Mogadiscio per riportare la pace e distribuire aiu-ti umanitari.

1994 Le truppe USA, tenute in scacco dai miliziani del warlordMohamed Aidid, lasciano Mogadiscio e passano la mano allamissione «Unisom» dell’ONU.

1995 Le truppe ONU lasciano la Somalia.

1996 Il «generale» Aidid muore dopo un attentato ad opera dei suoirivali tribali.

1998 La regione nord-orientale del Puntland proclama la sua auto-nomia politica e amministrativa.

2000 Conferenza a Gibuti tra le fazioni armate e i capi tribali. Abdika-sim Salad, eletto Presidente provvisorio della Somalia e Ali Kha-lif Ghelaydh, primo ministro, si insediano a Mogadiscio.

2001 Una coalizione di signori della guerra appoggiati dall’Etiopia sfi-da il governo provvisorio. L’ONU lancia un appello per aiutaremezzo milione di Somali minacciati dalla siccità nel sud.

2004 Una nuova conferenza di riconciliazione riunita in Kenya dà vi-ta, dopo quasi due anni di negoziati, a un «parlamento provvi-sorio» che elegge il warlord Abdullahi Yusuf (leader del Pun-tland) nuovo «Presidente provvisorio».

2006 Il Parlamento provvisorio si insedia a Baidoa in febbraio. Ingiugno-luglio le milizie integraliste agli ordini delle «Corti Isla-miche» espugnano Mogadiscio e riaprono porto e aeroporto,chiusi dal 1995.

2006 Dicembre: il Consiglio di Sicurezza dell’ONU adotta una risolu-zione che approva la costituzione di una «forza di pace africana»ad opera dei paesi confinanti. Le forze armate etiopiche e quelledel governo provvisorio di Abdullahi Yusuf riconquistano e occu-pano Mogadiscio, scacciando le Corti Islamiche.

2007 Febbraio-maggio: una forza di pace dell’Unione Africana arriva

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a Mogadiscio dove infuriano i combattimenti tra il corpo di spe-dizione etiopico (spalleggiato da Abdullahi Yusuf) e le milizieislamiche. Nuovi massacri ed esodo di civili.

2007 Ricompaiono le bande di pirati al largo della Somalia, si molti-plicano i sequestri di mercantili.

2007 Settembre: l’Eritrea ospita ad Asmara una conferenza che sanci-sce l’alleanza tra gli oppositori parlamentari del Governo diTransizione (tenuto in piedi dall’Etiopia) e i principali gruppiislamici. I combattimenti si intensificano a Mogadiscio e nel sud.

2008 Giugno: la cosiddetta «Alleanza per la Ri-Liberazione della So-malia», costituitasi in Eritrea, firma con il Governo di transizioneun accordo che prevede un cessate il fuoco immediato e il ritiro,entro l’anno, delle truppe etiopiche dalla Somalia. Respingonoquesto accordo le milizie estremiste «Shabab» e la frazione piùradicale delle Corti Islamiche, guidata da Hassan Dayr Aweys.

2008 Ottobre: la NATO organizza il pattugliamento internazionale allargo della Somalia per contrastare la pirateria.

2009 Gennaio: l’Etiopia completa il ritiro delle sue truppe. A Gibutiil Parlamento di transizione coopta 149 rappresentanti dei mo-vimenti islamici «moderati» ed elegge l’ex-numero due delleCorti Islamiche, Sheikh Sherif Sheikh Ahmed, Presidente prov-visorio per due anni. Primo ministro diventa l’ex-diplomaticoOmar Abdirashid Ali Shermarke, nazionalista laico e figlio delPresidente della Repubblica ucciso nel 1969.

2009 Maggio-dicembre: le milizie «Shabab» attaccano a Mogadiscio,conquistano Kisimayo e proclamano la loro alleanza con AlQaida.

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Gibuti

Eritrea

SomaliaKenya

Etiopia

Sudan Issa Issak

Golfo di Aden

Hawiye

MigiurtiniMarrehan

Gadabursi

DolbohantaWarsangeli

DighilMirifle

Ogaden

Migiurtini

Punt

land

SomalilandBerbera

Hargheisa

Alula

HafunBosaso

Las Khorey

Erigavo

Burao Las Anod

Garoe

Obbia

Galcayo

Dusa Mareb

Belet Weyn

Mogadiscio

Brava

Giamama

Kisimayo

Bardere

Alto Giuba

BaidoaO

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Giu

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BassoGiuba

Merca

MedioGiuba

Giuba

Shebeli

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Autobiografiadi un uomo impegnato

nel destino del suo Paesefino al carcere

e all’esilioe di una nazione infelice

nella sua marcia verso il disastroquesto libro di Mohamed Aden Sheikh

che dà ragione anchedelle non felici

mutazioni del nostro Paesenell’ultimo ventennio

viene stampatonel carattere Simoncini Garamond

dalla tipografia SAGI

di Reggio Emilianel maggio dell’anno

duemiladieci

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