La sofisticata lavorazione della pietra...

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La sofisticata lavorazione della pietra ele mura curve sono i tratti distintivi delGreat Zimbabwe, osservabili nella tor-re conica (a), negli eleganti gradini ar-rotondati (b e c), nel motivo a zig-zagsulle mura della Great Enclosure (d) enel passaggio interno della stessa (e).Altre caratteristiche, come i monoliti inun cortile (f), restano inspiegate.

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Costruito tra il 1100 e il 1600, ilGreat Zimbabwe non sembra esserestato progettato secondo un piano com-plessivo, ma piuttosto pare sia statomodificato per adeguarlo al variare delsuo ruolo e della popolazione. Le suedimensioni sono molto più grandi diquelle che si riscontrano in siti similidella stessa regione, come Danamom-be, Khami, Naletale, Domboshava (nelBotswana settentrionale), Manikweni(in Mozambico) e Tulamela (nel Suda-frica settentrionale). Ciò indica che ilGreat Zimbabwe fosse il centro politicoed economico della regione. Dato chesi trova sulla via più breve tra la regio-ne aurifera settentrionale - dove si se-tacciavano le sabbie dei fiumi in cercadel prezioso metallo - e l'Oceano India-no, è probabile che i governanti del sitoregolassero il fiorente commercio me-dievale dell'oro.

Il Great Zimbabwe si estende su cir-ca 7 chilometri quadrati e compren-de tre strutture principali: lo Hill Com-plex, la Great Enclosure e la più picco-

la Valley Ruins. Lo Hill Complex -letteralmente «complesso sulla colli-na», ribattezzato Acropoli dagli europei- è la parte più antica del sito; i dati rac-colti indicano che agricoltori o caccia-tori vi si accampavano fin dal V secolo.Dalla sua posizione su una rocciosacollina alta 80 metri, la cinta ovale -lunga circa 100 metri e larga 45 - a-vrebbe permesso agli abitanti di avve-dersi dell'arrivo di potenziali invaso-ri. Il muro esterno, che si erge aun'altezza di oltre 11 metri, a-vrebbe anche garantito una buo-na protezione. All'interno diquesta e di tutte le altre cinte visono abitazioni daga, strutturecurve, a forma di capanna, edifi-cate con i materiali da costruzio-ne più comuni in tutta l'Africa:argilla essiccata, fango e ghiaia.

Proprio sotto lo Hill Complexsi trova la più sbalorditiva tra lestrutture del Great Zimbabwe: laGreat Enclosure (grande cinta),o Elliptical Building. Chiama-ta Imbahuru (ovvero «casa dellagrande donna» o «grande casa»)in lingua Karanga dalle popola-zioni che vivevano nella zonadurante il XIX secolo, la GreatEnclosure fu costruita al culmi-ne della potenza del Great Zim-babwe. [Il Karanga è il più co-mune tra i dialetti degli Shona edè parlato dalle popolazioni del-lo Zimbabwe centro-meridiona-le.] Le mura di cinta sono lunghepiù di 240 metri e in certi pun-ti alte quasi 10 metri; si calcola

che nella sua costruzione sia stato usatocirca un milione di blocchi di pietra.Un muro interno corre parallelo a unaparte della cinta, dando origine a unostretto corridoio lungo circa 55 metri.

La funzione della Great Enclosure èsconosciuta, sebbene si pensi che ser-visse come palazzo reale. La presenzadi scanalature nelle pareti (rappresen-tanti forse l'anatomia femminile) e distrutture falliche ha fatto ritenere ad al-

cuni storici che il complesso fosse usa-to per i riti d'iniziazione degli adole-scenti o per altre importanti cerimonie.Potrebbe anche essere stata l'abitazionedelle molte mogli del governante. Lagrande torre conica, alta poco più dinove metri e avente un diametro allabase di cinque metri e mezzo, non sem-bra essere stata impiegata per qualchescopo particolare e potrebbe aver svol-to una funzione meramente simbolica.

TANZANIA

ANGOLA

Lo Zimbabwe, già Rhodesia, si trovanell'Africa sudorientale e conta circa35 000 siti archeologici riconosciuti. Lerovine del Great Zimbabwe, di granlunga il più vasto di questi siti, occupa-no un'area di 7 chilometri quadrati.

Oltre che dallo Hill Complex e dallaGreat Enclosure, il Great Zimbabwe ècostituito dalle più modeste ValleyRuins, così chiamate perché sono situatenella valletta che si trova tra le due strut-ture più grandi. Le mura di questo com-plesso sembrano essere più recenti, ilche fa pensare che le Valley Ruins sia-no state costruite quando la popolazio-ne andava aumentando e il Great Zim-babwe aveva bisogno di spazi abitativi.

Il sito è insolito non solo per le di-mensioni, ma anche per la lavorazionedella pietra. Gran parte delle strutture ècostituita da blocchi rettangolari estrat-ti da vicini affioramenti superficiali digranito. Il nome della città deriva daltermine shona dzimbabwe, che significa«case di pietra». I blocchi, disposti astrati senza uso di leganti come la mal-ta, formano strutture libere stabili, muricurvi di altezza spesso doppia della lar-ghezza. Sebbene lungo la base di moltepareti vi siano strutture arrotondate, amo' di contrafforte, il loro ruolo non èdi sostegno. Alcuni archeologi ipotizza-no che queste estensioni incurvate pos-sano essere servite per mascherare l'ac-cesso a una porta, o per rendere i corri-doi più complessi da percorrere, o an-cora per nascondere certe stanze alla vi-sta diretta. Ma potrebbero essere serviteanche per controllare l'ingresso in alcu-ne aree, poiché a quelle zone si sarebbepotuto accedere solo in fila indiana.

In certi punti la lavorazione dellapietra è sorprendentemente sofisticata:gradini arrotondati ingentiliscono alcu-ni ingressi, e motivi a zig-zag decora-no le pareti; su queste ultime si aprono

anche tubi di gronda e occasionalmen-te porte larghe 1,2 metri, alcune dellequali avevano architravi di legno.

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Sebbene si sappia ben poco dellegenti che abitavano il Great Zimbabwe,è possibile formulare qualche ipotesi sudi loro a partire dalle conoscenze ac-quisite sui siti Mapungubwe, che sem-brano essere stati il fulcro della civiltàShona intorno al 1000 d.C. I più vastifra questi insediamenti, trovati nell'a-rea Shashi-Limpopo, sono molto similial Great Zimbabwe. La ricchezza deri-vava verosimilmente dall'allevamentoe dal commercio di oro e avorio. Lacultura di Mapungubwe si diffuse nellearee occidentali dello Zimbabwe, comeattesta la presenza di ceramiche Leo-pard's Kopje, tipiche dello stile di Ma-pungubwe. Con l'ascesa del Great Zim-babwe, i commerci si spostarono e co-minciò il declino di Mapungubwe che,come centro di riferimento, finì per es-sere abbandonato, mentre il Great Zim-babwe prosperava.

I manufatti riportati alla luce al GreatZimbabwe non hanno rivelato moltosull'organizzazione sociale e culturaledell'insediamento, ma hanno permessodi differenziarlo dagli altri siti dell'Etàdel ferro. In particolare, un gruppo diuccelli scolpiti nella steatite, molti deiquali alti circa 35 centimetri e appol-laiati sulla sommità di colonne altequasi un metro, è dissimile da qualsiasiscultura rinvenuta in altri siti. Ogni uc-cello è contraddistinto da un particolare

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La Great Enclosure, qui mostrata dal lato opposto rispetto al-la fotografia delle pagine 80-81, aveva forse la funzione dipalazzo reale del Great Zimbabwe. La struttura fu costruitaquando la città era al massimo splendore. Le mura che la cir-condano sono lunghe più di 240 metri e si stima che siano co-stituite da circa un milione di blocchi di pietra.

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Queste figure di uccelli in steatite, disposte sopra pilastri, sono state rinvenute sol-tanto al Great Zimbabwe. Non assomigliano ad alcuna specie locale e finora ar-cheologi e storici non sono stati in grado di interpretarne il significato.

disegno o motivo, e nessuno di essi èidentificabile con animali locali. Dato ilrispetto che le popolazioni shona con-temporanee hanno per i defunti, e l'u-sanza di alcune tribù di tenere la seriedei loro morti su barre di ferro, alcuniarcheologi ipotizzano che le figure diuccelli rappresentino gruppi di antenatie che venissero usate in cerimonie.

Altri manufatti indicano che il GreatZimbabwe era una comunità commer-ciale ben stabilita fin dal XIV secolo.Nel sito arrivavano oggetti di terre lon-tane: vetri siriani, piatti in porcellanaceladon cinese (per lo più della dinastiaMing, dal 1368 al 1644), vasi di faenzapersiana, corallo, campane di bronzo eun cucchiaio di ferro, utensile non uti-lizzato dagli Shona. Non vi sono invecele caratteristiche porcellane cinesi bian-che e blu, che conobbero una vasta dif-fusione verso la metà del XV secolo;questa assenza indica che all'epocal'importanza economica del Great Zim-babwe si fosse ridotta. In effetti sembrache all'inizio del Settecento il sito fosseormai abbandonato.

Varie ragioni possono spiegare per-ché il Great Zimbabwe sia stato abban-donato. Sul finire del Seicento, le sab-bie aurifere nei fiumi della regione piùa nord si erano esaurite, e il commerciodell'oro cominciò a spostarsi verso oc-cidente. Non occupando più una posi-zione centrale, la città cominciò a de-clinare quando le entrate e i commer-ci vennero meno. Un'altra possibilità èche la popolazione sia diventata ecces-siva. Secondo alcune stime, al culminedella sua fioritura il Great Zimbabweaveva una popolazione compresa tra10 000 e 17 000 abitanti, equivalente a

quella della Londra medievale. (Altrestime sono più prudenti, e valutano lapopolazione massima in 2000 abitanti.)L'area potrebbe essere rimasta privadi vegetazione perché vi pascolavanograndi mandrie o vi si praticava un'a-gricoltura estensiva; recenti dati am-bientali indicano che la dispersione del-la popolazione sia stata causata da unaserie di intensi episodi di siccità.Un'ulteriore spiegazione potrebbe esse-re una guerra, sebbene, al di là di unaminima dotazione di armi, non vi sianoprove a sostegno di questa ipotesi. Perfornire altri indizi agli archeologi in vi-sta di una soluzione del declino delGreat Zimbabwe, saranno necessari ul-teriori scavi, sia qui sia in altri siti del-l'Età del ferro.

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Abbandonato per quasi due secoli, ilGreat Zimbabwe fu probabilmente usa-to solo saltuariamente per cerimonie re-ligiose - così come accade oggi - finoalla fine dell'Ottocento. Fu allora chearrivarono gli europei, richiamati dallaleggenda delle miniere di re Salomone,e fu allora che le testimonianze archeo-logiche subirono danni così gravi da di-venire largamente indecifrabili.

Il primo esploratore fu Karl Mauch,nel 1871. Questi aveva stretto amiciziacon un altro tedesco, Adam Render,che viveva presso la tribù Karanga gui-data dal capo Pika, e che lo condusse alGreat Zimbabwe. (Se avesse immagi-nato l'esito, Render, che era sposatocon due donne della tribù e ben integra-to, avrebbe forse scaraventato Mauch

nello Zambesi.) Nel vedere le rovine,Mauch concluse molto rapidamente cheil Great Zimbabwe, che fosse o menoOfiro, non era certamente opera di afri-cani. La lavorazione della pietra eratroppo sofisticata, la cultura troppo pro-gredita: dovette sembrargli il prodottodi coloni fenici o israeliti. Un frammen-to di legno di un architrave rafforzò larapida illazione di Mauch: aveva lostesso odore della sua matita, perciò eracedro, e doveva essere arrivato al GreatZimbabwe dal Libano.

La visita di Mauch fu seguita daquella di Willi Posselt, un saccheggiato-re che rubò uno degli uccelli incisi nellasteatite e nascose gli altri, così da potertornare a prelevarli successivamente.Posselt fu seguito da tutta una serie divisitatori, alcuni dei quali lavoravanoper W. G. Neal, della Ancient RuinsCompany, che era stata fondata nel1895. Cecil Rhodes, il fondatore dellaBritish South Africa Company (da cuilo Zimbabwe prese il nome di Rhodesianel periodo coloniale), affidò a Neall'incarico di sfruttare tutte le rovine del-la zona. Neal e i furfanti al suo serviziodepredarono il Great Zimbabwe e altrisiti dell'Età del ferro, prendendo oro eogni genere di preziosi, distruggendo lestrutture e gettando via tutto ciò che nonconsideravano di valore (ceramiche, va-si, figurine di terracotta).

Il primo archeologo ufficiale a visi-tare il sito, il britannico James Theodo-re Bent, aveva contribuito alla confu-sione nel 1891, scavando tutto intornoalla torre conica della Great Enclosure.Distrusse così completamente l'ordinestratigrafico, rendendo impossibile ladatazione del sito agli archeologi cheseguirono. Bent, inoltre, gettò via, giu-dicandoli insignificanti, manufatti diterracotta e di metallo, tra i quali ancheperline da baratto di origine araba epersiana. Gli archeologi conclusero cheil Great Zimbabwe era stato costruitoda una locale razza «bastarda» - perchéi loro padri dovevano essere stati inva-sori bianchi provenienti dal nord - datoche, come Rhodes e molti altri immi-grati europei sostenevano, i nativi afri-cani non avrebbero mai potuto costrui-re il Great Zimbabwe da soli.

Una relazione del 1902 scritta daNeal e dal giornalista Richard N. Hallreiterava le conclusioni di Bent: l'ar-chitettura era chiaramente fenicia o ara-ba. Questo atteggiamento era pervasivonell'Africa coloniale: il continente nonaveva storia, non aveva raffinatezza; lesue popolazioni e le sue tribù erano im-mutabili, incapaci di sviluppo, cultural-mente sterili.

Gli archeologi che la pensavano di-versamente non erano ben accetti. Nel1905 David Randall-MacIver, un egit-

tologo che aveva studiatocon il celebre William Mat-thew Flinders Petrie, scavòal Great Zimbabwe e ri-portò in luce manufatti mol-to simili a quelli ancora u-sati dagli Shona e dai Ka-ranga, le popolazioni dellazona. Rivolgendosi alle po-polazioni indigene in cer-ca di elementi culturali e diinterpretazioni anziché so-lo per i lavori pesanti, Ran-dall-MacIver stava effet-tuando un'operazione senzaprecedenti. Se altri studiosidell'epoca si fossero affi-dati alle conoscenze o allacultura degli indigeni, mol-te delle questioni relative alGreat Zimbabwe avrebberopotuto ricevere risposta.

La continuità dei manu-fatti indusse Randall-MacI-ver a pensare che il sito fosse stato co-struito da genti di cultura simile a quel-la delle popolazioni locali. Egli dimo-strò anche che le perline arabe e persia-ne non erano più antiche del XIV-XVsecolo, e quindi non potevano minima-mente risalire ai tempi biblici né al reSalomone. Sostenne inoltre che la tec-nica di lavorazione della pietra non eraaffatto araba, data la presenza di strut-ture curve, e non geometriche o simme-triche. Randall-MacIver concluse chei nativi africani avevano costruito ilGreat Zimbabwe.

In seguito altri due studiosi - nel 1926J. F. Schofield e nel 1929 Gertrude Ca-ton-Thompson - ribadirono le conclusio-ni di Randall-MacIver. I loro scavi pres-so un sito ancora intatto, le Rovine diMaund - che si trova all'estremo oppo-sto della vallata rispetto alla Great En-closure - fornirono nuovi dati a sostegnodella teoria della costruzione indigena. Idettagliati disegni e l'attenta stratigrafiadella Caton-Thompson sono stati fonda-mentali nel ricomporre quel poco che sisa riguardo al Great Zimbabwe.

A dispetto delle crescenti prove edelle testimonianze archeologiche, lamaggior parte dei residenti europei inZimbabwe rifiutò l'ipotesi. Dal 1965 fi-no all'indipendenza, nel 1980, il Rho-desian Front applicava la censura a tut-to il materiale disponibile sul GreatZimbabwe, in particolare ai libri. Que-sto partito, fondato dal primo ministroIan Smith per impedire che gli africaniconquistassero il potere, era basato sulsistema dell'apartheid. Gli archeologiche, come il celebre Peter S. Garlake,dichiaravano in modo esplicito l'origi-ne indigena del Great Zimbabwe veni-vano imprigionati e poi deportati. Gliafricani che esprimevano lo stesso pun-

ma anche della gestione deituristi e della manutenzione,nonché di 5000 altri siti sot-to la loro giurisdizione (su35 000 siti archeologici ri-conosciuti in tutto il paese).Sebbene le rovine sianoprotette dal National Mu-seums and Monuments ofZimbabwe e riconosciutepatrimonio mondiale dal-l'UNESCO, lo Zimbabweha a disposizione solo dueconservatori e meno di dieciarcheologi che possano stu-diare tutti i siti archeologi-ci, compreso il Great Zim-babwe, e prendersene cura.

In altri paesi subsaharianila situazione non è miglio-re. Secondo Pierre de Maretdella Libera Università diBruxelles in 10 paesi dell'A-frica subsahariana si spendo-

no meno di 150 000 dollari all'anno perl'archeologia, e quegli stessi paesi di-spongono, nel complesso, di meno di 20archeologi professionisti. La vendita al-l'estero di oggetti d'arte africana, incompenso, raggiunge cifre dell'ordinedei milioni di dollari all'anno.

Quanto più i monumenti vengono la-sciati al degrado e i manufatti sottrattiai paesi che ne sono i legittimi proprie-tari, tanto più è chiaro che si va perden-do l'eredità culturale africana. Perchéle culture contemporanee, frammentatee spaccate da secoli di colonialismo,siano capaci di ricollegarsi al loro pas-sato interrotto, l'archeologia deve assu-mere un ruolo di maggiore importan-za nella società africana. Il Great Zim-babwe è tanto importante non solo acausa della maestria dell'arte muraria,ma perché è un'eredità culturale che èsopravvissuta ed è stata riscattata. Oradeve essere pienamente interpretato ecollocato nel più ampio contesto dellastoria subsahariana, un contesto ancorain gran parte enigmatico.

to di vista perdevano il loro lavoro. Al-lo stesso modo furono censurati i mani-festi illustrativi presso il sito stesso,sebbene la cosa avesse poca importan-za, dato che erano in inglese, e allegenti locali non fu permesso di usaregli edifici per alcuna cerimonia.

RISCATTARE IL PASSATO

Oggi il Great Zimbabwe è un simbo-lo dello sviluppo culturale africano. Li-bri di taglio divulgativo hanno reso ilmonumento in qualche modo accessibi-le alla gente dello Zimbabwe. Tuttavia,nel contempo, il Great Zimbabwe rima-ne inaccessibile. A causa degli erroriarcheologici del passato, la storia delsito è poco chiara e, date le condizioniin cui versa l'archeologia contempo-ranea nell'Africa meridionale, ci sonoben poche possibilità che lo stato dellecose muti in tempi brevi.

I due archeologi attualmente di stan-za al sito sono responsabili non so-lo della conservazione del monumento,

WEBBER NDORO è lettore al Dipartimento di storia dell'Università dello Zim-babwe, dove insegna gestione delle risorse culturali e pratica museale. Laureato inarcheologia all'Università di Cambridge e in conservazione architettonica alla NewYork University, è stato conservatore per i Great Zimbabwe National Monuments ecoordinatore del Monuments Program dal 1988 al 1994.

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