La signora della Marra di Tina Cacciaglia e Marcella Cardassi

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Nel 1283 il principe Carlo d’Angiò, vicario del re, diede il via a un processo che vide quali accusati i più alti notabili della sua corte. Questi uomini, responsabili delle finanze del regno, vennero accusati dal sovrano di abuso di potere, di concussione, e di aver gravato sul popolo con una tale massiccia imposizione fiscale d’aver generato il malcontento, la rivolta dei Vespri siciliani e non ultima la discesa in guerra degli Aragonesi. Nel giro di una sola stessa notte, in ogni città del regno, da Ravello a Barletta, da Napoli a Palermo scattarono gli arresti... Tra gli imputati, anche Ruggero della Marra, membro di uno tra i più potenti casati storici di Ravello, che con la sua famiglia e con gli uomini del casato di sua moglie, Chura Rufolo, gestisce ricoprendo i più delicati incarichi. Come un fulmine, la macchina accusatoria del re angioino si abbatte sulle vite di Ruggero e dei suoi parenti... Scheda libro: http://bit.ly/1zxFSIM

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La signora della Marra

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Titolo: La signora della Marra

Sottotitolo: Storia di un processo in epoca angioina

Autrici: Tina Cacciaglia – Marcella Cardassi II edizione, dicembre 2013 Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totali o parziali, con qualsiasi mezzo, anche copie fotostatiche e microfilm, sono riservati.

© 2013 Runa Editrice www.runaeditrice.it - [email protected]

ISBN 978-88-97674-24-5 PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA Copyright 2013 Runa Editrice

Stampato per conto di Runa Editrice nel mese di dicembre 2013 da Projectimage (Padova), su carta ecologica certificata FSC

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Tina Cacciaglia - Marcella Cardassi

La signora della Marra Storia di un processo in epoca angioina

RUNA EDITRICE

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Prefazione

A proposito di romanzo storico, ovvero, di un’opera nar-

rativa ambientata in un’epoca passata tesa a far rivivere le atmosfere, i fatti e le condizioni sociali con particolari reali-stici solo apparentemente legati agli avvenimenti documenta-ti, il lettore può avere a disposizione due possibilità. O quella di trovarsi al cospetto di un semplice libro tendente alla rie-vocazione d’un preciso accadimento storicamente memora-bile con personaggi realmente esistiti infarciti di invenzioni, oppure, quella di stringere gelosamente tra le mani un intri-gante lavoro di scrittura, predisposto, attraverso l’analisi del comportamento dei suoi protagonisti felicemente in bilico tra la verità e la finzione, per proiettare chi legge in una di-mensione affascinante e coinvolgente. O meglio, in uno spa-zio incantato, dove presi per mano dagli stessi artefici della vicenda narrata ci si può magicamente aggirare tra quelle stesse ambientazioni costruite dagli autori divenendo parte attiva di eventi e traversie. Ed è proprio questa seconda pos-sibilità a prendere corpo con “La Signora della Marra” la stuzzicante “storia di un processo in epoca angioina” che grazie alle autrici Tina Cacciaglia e Marcella Cardassi si mate-rializza fino a trasferire il lettore nei meandri di una narra-zione attenta e fascinosa che più si va avanti con le pagine più diventa vera e palpabile. Senza limitare la propria libertà creativa facendola viaggiare di pari passo con la veridicità storica, pur non cadendo nel tranello del trattato di storio-

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grafia, le due scrittrici conquistano agevolmente la fiducia dei fruitori della loro opera, i quali, finiscono, addirittura, per il non chiedersi, tanto è il piacere procurato dall’andamento del racconto, dove inizi la realtà e dove finisca la fantasia. Evi-tando di considerare la storia come un semplice contenitore dove piazzare circostanze di carattere istintivamente moder-no e facendo in modo che la psicologia e le azioni dei perso-naggi si ritrovassero in perfetta sintonia con l'epoca d’appar-tenenza, le autrici de “La Signora della Marra” riescono ad offrire al lettore uno spaccato reale di vita datato 1283 ed al tempo stesso una chiave d’accesso per entrare, senza essere notati, in un mondo fatto di intrighi e passioni così come di castelli e tetre prigioni. Tant’è che catapultati da Ravello a Barletta e da Napoli a Palermo, fatta la conoscenza dei com-ponenti della nobile famiglia di origine normanna detta dei della Marra ed identificati i rappresentanti di una delle più potenti famiglie nobili dell'epoca, ossia quella dei Rufolo, una volta assistito alle azioni del principe Carlo d’Angiò che in-tenta un processo contro i due casati accusati di indebite ap-propriazioni, si può felicemente familiarizzare con la giova-ne, Chura, figlia di Matteo Rufolo e moglie di Ruggero della Marra. Una nobile e bella ravellese dagli intimistici e sedu-centi contorni che superando le convenzionali potenzialità delle donne dell’epoca, generalmente atte o alla maternità ed al ricamo o al massimo alla vita monacale, diventa, attraverso una lotta contro il tempo, la vera protagonista di tutta la sto-ria nonché l’unica artefice dell’inaspettato epilogo. Attingen-do dalle testimonianze di alcuni storici come Sthamer e Ric-cardo Filangieri, gli stessi che riuscirono a visionare gli atti del processo conservati presso l'Archivio di Napoli, prima che fossero distrutti da un bombardamento durante la se-

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conda guerra mondiale, la Cardassi che ha curato l’evolu-zione storica del libro e la Cacciaglia che lo ha abbellito e va-lorizzato con gli elementi di un romanzo avvincente che non disdegna neanche alcuni momenti di avvolgente erotismo, riescono piacevolmente a scandagliare la vita più intima dei personaggi del loro racconto delineando nel contempo, con accattivante stile, i tratti sociali ed umani del periodo angioi-no. Capace di scatenare l’immaginazione di chi si dedica alla sua lettura nel nome delle due potenti famiglie e lasciando anche lo spazio per un istintivo pensiero alla quarta novella della seconda giornata del Decamerone dove il geniale Boc-caccio s’inventa quale protagonista un Landolfo Rufolo, ric-co commerciante di Ravello, che potrebbe pure essere identi-ficato con il nome di Lorenzo come il fratello di Chura, tutto il lavoro offre un ben congegnato succedersi di avvenimenti in grado, tra ambizioni di potere, amori, antichi affetti fami-liari e personaggi dall’epica vocazione, di liberare la fantasia sulle tracce di una storia ora accademicamente documentabi-le ora fiabescamente invadente. Un libro, quello delle due se-guaci del modello disegnato nell’Ottocento dallo scrittore britannico Walter Scott, da leggere con avidità, fatto di av-venture, guerre, condanne a morte, di uomini assetati di po-tere e di donne ben lontane dall’avvento del femminismo, ma anche un romanzo di ardenti e carnali passioni che incan-ta il lettore così come facevano i grandi sceneggiati della te-levisione di Anton Giulio Majano. Lo stesso che, partendo dal romanziere storico Tommaso Grossi e dal suo “Marco Visconti” ed ancora, da Robert Louis Stevenson e dal suo la-voro “La freccia nera”, seppe regalare agli italiani, attraverso la Rai, quelle medesime emozioni che oggi sembrano ab-bondare ne “La signora della Marra”, capace, trasformandosi

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da testo a macchina del tempo, di trasbordare tutti in un av-venturoso passato intriso di verità celate e complotti ed an-cor più animato da personaggi in grado, al di la dei secoli, di dare libero sfogo a sentimenti eterni e pensieri infiniti.

Giuseppe Giorgio

Napoli, 19 dicembre 2013

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A Gemma e Mario

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Prologo

Napoli, Castello dell’Ovo, 1283 Solo quando la flotta fu sparita all’orizzonte, il principe

Carlo si volse verso i notabili e i funzionari del regno, li fissò a lungo in silenzio, poi andò via.

Il re suo padre era partito, volgendo la prua delle navi verso occidente alla ricerca di alleanza e rinforzi nella nativa terra di Francia. Ora, era il principe ad avere la reggenza, a essere il Vicario del re. E per alcuni degli uomini presenti in quella sala ciò aveva un unico significato: cominciava la paura.

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Capitolo primo

Roseto, marzo 1283 “Perdonate, mia signora, perché tutta questa fretta a sti-

pare le vesti nei bauli?” Tana, la serva, non aveva terminato di parlare che io, la-

sciati cadere gli abiti che stringevo tra le mani, mi ero seduta sulla panca e immobile avevo fissato la porta alle sue spalle. Il passo di Ruggero si udiva avvicinarsi a tonfi cadenzati, ve-loci e uguali sulle pietre del corridoio.

“Lasciaci.” impose alla serva. Poi, si rivolse a me: “Il vino per tuo padre è già pronto nelle botti e fra poco Gnazio lo caricherà su uno dei carri. Sappi che anche il precettore di Giovannino si sta preparando a partire con voi, ricorda di far portare a nostro figlio quanto gli occorre per lo studio.”

I suoi occhi, fuggevoli, non incontrarono mai i miei men-tre aggiungeva disposizioni a disposizioni per quel mio viag-gio improvviso e inatteso verso Ravello.

Si accostò, fece correre un dito lungo la mia guancia e spingendo indietro il mento prese a baciarmi il collo, scen-dendo verso l’incavo dei seni. Ebbi paura. Non di Ruggero, ma della disperazione che leggevo nei suoi gesti.

Dopo avermi stretta in un abbraccio, si staccò e si distese sul letto facendomi cenno di pormi al suo fianco.

Nel silenzio del suo respiro, ripensai a quella mattina, quando mi aveva mandato a dire di raggiungerlo nella sala

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grande, a come lo avevo trovato tetro in viso e a come mi aveva parlato.

Ruggero aveva usato un tono insolito tra noi, quello che gli udivo solo quando dava ordini ai suoi uomini o a quei vil-lici che curano i nostri campi. La voce gli era scesa bassa, quasi rauca, e aveva tenuto molta distanza tra le parole, come temesse di non essere compreso appieno e di doversi ripetere.

“Partirai al più presto. Ti recherai con Giovannino e Ia-cobella a Ravello. Farai visita ai tuoi, che da tanto tempo at-tendono di vedere i bambini, e recherai a tuo padre il vino che gli avevo promesso.” Aveva detto.

E io, seduta nello scanno innanzi a lui, lo avevo fissato, tacendo. Incredula, davanti a quel suo ordine improvviso e indiscutibile avevo chinato il capo, pronta a obbedire.

“Chura, hai sentito quello che ho detto? Su, va’. Hai mol-te cose da approntare e solo un giorno per farlo. Avvisa le balie che ti diano un aiuto con la roba dei bambini.”

La lingua mi si era seccata in bocca e non ero riuscita a pronunciare alcuna parola, limitandomi a fare un cenno col capo. Lasciando, muta, la sala non ero riuscita a domandargli nulla.

Sebbene, cosa mai avrei potuto chiedere io al mio signo-re, Ruggero della Marra, mio marito e mio padrone dinnanzi agli uomini e a Dio?

Non avevo creduto nemmeno per un momento ai prete-sti che egli aveva addotto alla mia partenza. Nell’attimo stes-so in cui mi aveva imposto di andare a Ravello, avevo sentito la bocca dello stomaco stringersi e un velo di sudore rico-prirmi la fronte. Tremavo, per un pericolo che mi era ignoto, che respiravo nell’aria stessa del castello, che udivo nella voce mutata di Ruggero, che avvertivo nel suo accorato ordine di

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partire e di farlo immediatamente. Si mosse al mio fianco. Vedevo stagliarsi sul bianco delle

lenzuola il suo profilo. Gli occhi erano chiusi ma, a tratti, mio marito corrugava le ciglia fino a rendere più profonde le tre linee che da sempre gli solcano la fronte. Lo accarezzai, cercando di distendere la pelle con la pressione della mia mano. Mi sorrise e poi si volse dall’altro lato, dormendo o fingendo di farlo.

Non trovai il sonno quella notte, l’idea di essere allonta-nata da mio marito e dalla mia casa, in quel viaggio che mi sembrava più una fuga che una partenza, mi faceva arrovella-re la mente in strane congetture.

Ripensavo a brani di conversazioni di quegli ultimi mesi tra Ruggero e i suoi fratelli o con altri ufficiali e notabili del regno. Cercavo tra i ricordi qualcosa che mi desse un appi-glio per poter comprendere. C’erano stati molti corrieri che avevano portato lettere o messaggi e anche mio marito aveva spesso vergato missive.

Io ero stata, come è ovvio, all’oscuro di quanto veniva redatto, né avevo mai chiesto quanto spontaneamente non veniva detto. Ora mi pentivo di non averlo fatto, e nemmeno quando un documento era finito per caso tra le mie mani l’avevo mai sbirciato, presa come ero dai miei compiti di ma-dre e di castellana. Fossi stata più attenta.

Solo Ruggero, accanto a me ancora per poche ore quella notte, avrebbe potuto dare una risposta ai miei dubbi, ma sapevo che chiedendo avrei solo suscitato la sua ira. Lui ave-va scelto di tacere e a me non era dato di domandare.

L’essere moglie mi era stato insegnato fin da bambina da mia madre e da mia nonna, che con molta cura mi avevano dato le regole ferree dell’agire, i modi che una Rufolo doveva

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imparare fin dalle fasce e che hanno fatto di me la signora della Marra.

Dignità, onore, silenzio, obbedienza. Ecco i pilastri sui quali ero cresciuta, che sostenevano il mio agire quotidiano e che anche in quel momento, in cui avrei volentieri pianto tra le braccia di Ruggero chiedendogli perché mi allontanasse da sé, mi portavano a tacere.

Il giorno dopo, mio marito abbracciò forte i bambini raccomandando loro di essere buoni, baciò me sulla fronte e ci augurò di fare un viaggio sereno. Poi la lunga sequela di carri lasciò il cortile.

“Nonno Rufolo mi regalerà un cavallo?” chiese già di-stratto Giovannino, mentre Ruggero era ancora sugli spalti e agitava il braccio nel saluto e io stringevo le labbra per non urlare a Gnazio di tornare indietro.

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Capitolo secondo

Napoli, gennaio 1270 Chura non aveva che due anni di età, quando le famiglie

Rufolo e della Marra si incontrarono per redigere il contratto di matrimonio.

Giozzolino, capo del casato dei della Marra, avrebbe pre-ferito che fosse un suo figliolo a stringere il vincolo matri-moniale, ma Angelo e Galgano erano sposati e Ruggero av-viato alla carriera ecclesiastica. Non restava che accettare l’unica possibilità che ancora gli si presentava, dare a Chura quale marito il figlio di suo fratello Risone, il piccolo Gio-vanni nato nove mesi prima.

Matteo Rufolo non mosse obiezioni a queste nozze e l’accordo venne siglato. L’unione sarebbe stata celebrata nel giugno del 1270, quando Chura avrebbe compiuto il suo tre-dicesimo anno d’età.

Per il potere dei della Marra l’unione con i Rufolo era di fondamentale importanza, avere saldi alleati nella gestione del regno dava forza alle scelte di Giozzolino, specie in un panorama politico che in quegli anni, come non mai, era sog-getto al mutare dei venti.

Quando venne stilato il contratto di nozze il vento svevo soffiava ancora con tutta la sua intatta potenza su Napoli e su Palermo, e re Manfredi continuava a riporre piena fiducia in Giozzolino e negli altri suoi maestri razionali. Al contem-

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po il vento del papa rinforzava e premeva alle porte del re-gno, per questo era fondamentale per i della Marra che Rug-gero divenisse vescovo di Trani, per tutelarsi dal rischio di buriane. Per riuscire a mantenere stabili i propri commerci e il proprio potere Giozzolino, con cura estrema, predisponeva i suoi pezzi sullo scacchiere.

L’anno precedente quello stabilito per le nozze si conclu-se con un dicembre particolarmente rigido e piovoso e il ca-podanno del 1270 vide lo svilupparsi di una epidemia di feb-bre, che falcidiò molte vite. In Puglia il contagio fu virulento quanto una peste e, senza che nessuno potesse prevederlo o impedirlo, una pedina si staccò dallo scacchiere e cadde. Giovanni, figlio di Risone e di Adelicia Tricarico, si spense, colpito dalle febbri, alla sola età di undici anni.

Giozzolino della Marra apprese la notizia della morte del nipote mentre era a Napoli, al seguito del suo nuovo re, Car-lo I d’Angiò, e impossibilitato ad allontanarsene. La sciagura che li colpiva era grande: i della Marra non avevano più ma-schi da offrire in matrimonio alla giovane Chura che ormai tredicenne era in età da marito. Impensabile che Matteo Ru-folo accettasse ulteriore ritardo alle nozze della figlia tanto da permettere a Bertoldo, l’ultimo nato di Giozzolino, di diven-tare uomo. I rapporti tra le due famiglie e il potere che ne derivava erano in bilico. Bisognava prendere una qualche de-cisione e subito, prima che la notizia della morte avvenuta a Barletta del nipote Giovanni divenisse nota e altre famiglie si facessero avanti presso i Rufolo con le loro proposte di ma-trimonio. Giozzolino, dopo aver riflettuto a lungo, prese un rotolo e scrisse:

All’Arcidiacono Ruggero della Marra Figlio, è una triste lettera questa che ti invio, tuo cugino

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Giovanni, che Dio lo accetti tra i suoi angeli, è morto colpito dalle febbri a Barletta. Tuo zio Risone e tutti noi lo piangia-mo e preghiamo per la sua anima. A te, Ruggero, non chiedo solo messe e orazioni per il defunto Giovanni. Un più grave compito ti attende nel nome del casato dei della Marra a cui appartieni. Tua cugina Chura e tutti i Rufolo ignorano ancora il lutto che ci ha colpito e tu sarai il latore di questo triste an-nuncio. Oggi stesso partirai per Ravello e in capo a qualche giorno porterai la triste novella. Ora, figlio, attento alle mie parole: Chura è il prezioso gioiello dei Rufolo e grazie alle sue nozze i rapporti di potere del suo futuro marito verran-no accresciuti. I della Marra non hanno uomini scapoli da offrire alla giovane, a meno di non vedere vedovo precoce qualche tuo fratello. Capisci, figlio mio, quanto ti chiedo? Se la tua vocazione è ferrea e se la tua decisione per i voti è pre-sa provvederò altrimenti, anche se preferirei non dover ope-rare una qualche scelta dolorosa. Va’ a Ravello, compi la tua opera e raggiungimi a Napoli per riferire. Nessuno è a cono-scenza del lutto, non vogliamo, Risone e io, che altre famiglie giungano a cogliere il bocciolo dei Rufolo prima di noi. Tuo padre ti stringe e benedice

Giozzolino Nei giorni che seguirono, il della Marra, mentre attendeva

ai suoi compiti a corte riferendo come era uso al sovrano sulle finanze del regno, non abbandonava con la mente nemmeno per un attimo i suoi pensieri. Correva al fianco di Ruggero e con lui entrava a Ravello, dopo aver sfiancato un cavallo ora ricoperto di schiuma, e con Ruggero incontrava i Rufolo e sempre con lui fissava negli occhi la giovane Chura.

“Sono certo spiaciuta che la morte del cugino Giovanni

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non mi permetta di accontentare mio padre, che mi voleva sua sposa. Da parte mia non l’ho mai conosciuto e, sebbene per anni ogni sera abbia pregato per lui e mi sia sforzata d’amarlo, mi è stato difficile renderlo caro al cuore. Non ho mai avuto la minima immagine di quale sia stato il suo aspet-to anche se penso che chiunque fosse lo sposo scelto da mio padre, per me sarebbe stato ed è uguale. Ubbidirò come una Rufolo, e onorerò il mio ruolo.”

Negli splendidi giardini affacciati sul mare, Ruggero ave-va udito queste parole, pronunciate dalla cugina con volto sereno, voce calma e occhi senza lacrime, quando le aveva ri-ferito dell’enorme disgrazia che l’aveva colpita.

Matteo Rufolo, invece, aveva lanciato in aria ogni suppel-lettile gli fosse innanzi, maledicendo il giorno che aveva stretto la mano di Giozzolino, accettando il figlio di Risone quale sposo per sua figlia.

Se una lacrima fu versata per il nipote morto tanto pre-maturamente, la pianse solo Anna della Marra, sorella di Ri-sone, zia di Giovanni, madre di Chura.

Anna non piangeva il matrimonio mancato ma il lutto del fratello. Lei e Risone tanti anni prima a Barletta avevano giocato e sognato insieme. Davanti al chiaro mare di Puglia, aveva visto Risone partire con Federico II, fiero nell’armatu-ra, dignitoso accanto al suo imperatore. Non l’aveva rivisto al ritorno dalle battaglie, perché in quei mesi era andata in spo-sa a Matteo Rufolo, e aveva lasciato quelle rive basse color acquamarina per il blu profondo del mare di Amalfi. In se-guito, dei figli di Risone aveva conosciuto solo i nomi.

Ruggero si era ritirato nelle sue stanze e nel vuoto e va-sto palazzo dei della Marra si era taciuto ogni rumore. Dai vicini giardini salivano fragranze di erbe odorose e Ravello

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scintillava qui e là di maioliche illuminate dalla luna. In gi-nocchio davanti a una croce, conversava più con se stesso che con Dio.

L’incarico di arcidiacono che ricopriva nella Chiesa di Tra-ni, il sacerdozio che ne sarebbe di lì a breve derivato, e poi ancora la carriera ecclesiastica che certo sarebbe seguita, era-no stati una espressa volontà paterna, più che una sua voca-zione. Egli, da buon cristiano, aveva accettato convinto della superiorità della scelta sacerdotale su ogni altra.

Sua madre lo aveva fin da piccolissimo avvicinato alla pre-ghiera e aveva cercato di sviluppare in lui tutte le pietà cri-stiane. Ricordava ancora come, mentre i suoi fratelli veniva-no spinti al gioco delle armi e della giostra, lui veniva sottrat-to ai suoi pomeriggi di ozio e inviato presso i vari monasteri a portare l’obolo dei della Marra. Dalla fede aveva sempre ri-cevuto grande conforto e non si era mai giudicato, parago-nandosi a Angelo e Galgano, un infelice.

Ora gli si offriva, inattesa, la possibilità di cambiare la rotta degli eventi. Se della sua fede era certo e fino a ieri era stato sicuro della sua vocazione, oggi tutto gli appariva di nuovo in discussione.

Ruggero era un giovane uomo e quando poco prima Chura gli era stata accanto, non più negata ma accessibile, ne aveva sentito il profumo, ne aveva guardato le forme e mira-ta la pelle bianca e perfetta dalla grana sottile e poi gli occhi marroni, profondi, e i capelli del colore del miele di castagno. Quel voto di castità, facile fino a ieri da sopportare ora co-minciava a vacillare.

Aveva imparato, fin dalla prima formazione ecclesiale, che la donna è la via che conduce al diavolo, con la sua lasci-via e il suo discendere da Eva. L’ambiente clericale in cui era

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vissuto lo aveva tenuto lontano dal peccato ed egli stesso, durante i soggiorni a casa, era caduto ben poche volte vitti-ma della tentazione. Conosceva bene, d’altra parte, le parole del Cantico dei Cantici, dove la sposa attende adorna di tutte le sue grazie lo sposo:

Mettimi come sigillo sul tuo cuore,

come sigillo sul tuo braccio;

perché forte come la morte è l’amore,

tenace come gli inferi la passione:

le sue vampe son vampe di fuoco,

una fiamma del Signore!

Nel matrimonio non vi era peccato e Chura avrebbe po-tuto significare la gioia senza la lussuria, la carne senza la perdizione. Avrebbe potuto gioire di un corpo di donna e af-fondare il viso in serici capelli e riposare il capo sui suoi seni, e... la verecondia non gli permetteva di spingere oltre le im-magini che gli si formavano in mente, mentre il suo corpo di giovane uomo premeva con urgenza.

Cercò, allora, di rivolgere ad altro il suo pensiero. Come terzogenito aveva sempre pensato a sé come al fratello pove-ro, ché la dote decisa dal padre per la sua carriera sacerdotale era ben poca cosa se paragonata ai beni destinati a Angelo e a Galgano. Tutto ora si sovvertiva, se fosse stato lui a sposare Chura, e quindi a rafforzare l’unione tra i due casati, avreb-be avuto di diritto da suo padre terre e beni. Certo più di Gal-gano e forse pari a Angelo. Ricco e potente e con una dolce sposa nel letto. La sua vocazione si allontanava sempre più a ogni considerazione e pensiero.

Quando l’alba, dopo la notte insonne di Ruggero, sorse, la decisione era presa: avrebbe sposato Chura Rufolo.

Indossata la veste d’arcidiacono si recò al Duomo a ser-

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vir messa. I Rufolo erano ai loro scanni e Chura era tra loro, Ruggero nel guardarla l’amò. Quella giovane non era solo la sua futura sposa, ma anche la chiave per il potere e la libertà.

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