La satira latina e il suo ‘inventore’: Lucilio
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Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019
La satira latina e il suo ‘inventore’: Lucilio
Quintiliano, Istituzioni oratorie 10, 1, 93
Satura quidem tota nostra est («La satira è tutta nostra»).
La poetica
T1) Lucilio, Saturae 480-489; XXVI 587-589; 590-591; 595-596; 671-672 Marx
Gli uomini guardano come mere invenzioni questi esseri straordinari descritti nei versi di Omero, a
cominciare da questo Polifemo alto duecento piedi, che portava a mo’ di bastoncino un legno più
grande del più grande albero maestro di qualsiasi nave. Ha un sacro terrore degli spettri, e dei vampiri
introdotti da Fauno e da Numa Pompilio; da quelli fa dipendere ogni accadimento. Come i bimbi
credono che tutte le statue di bronzo siano vive e siano uomini veri, così costoro attribuiscono verità
a simili invenzioni, credono che ci sia un’anima dentro le statue di bronzo. Ma non è nient’altro che
una galleria di statue: niente di vero, tutte invenzioni.
nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis. 587
Nunc itidem populo <placere nolo> his cum scriptoribus:
voluimus capere animum illorum
voi credete di non interessare il popolino, se non gli descrivete esseri straordinari, come serpenti alati
o draghi volanti. Ma io non voglio piacere al popolino come questi scrittori: io voglio piacere a
quelli…
ego ubi quem ex praecordiis 590
ecfero versum,
quando traggo i miei versi dall’intimo dell’animo mio,
nec dottissimis <nec scribo indoctis nimis>. Man<il>ium 595
Persium<ve> haec legare nolo, Iunium Congum volo.
non scrivo né per i troppo dotti né per i troppo ignoranti. Non voglio che mi legga Manilio o Persio:
preferisco piuttosto Giunio Congo.
publicanus vero ut Asia fiam, ut scripturarius, 671
pro Lucilius, id ego nolo, et uno hoc non muto omnia.
Io certo non voglio diventare un esattore o un appaltatore di imposte in Asia piuttosto che essere
Lucilio, e non c’è niente che accetterei in cambio di questa sola cosa.
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Il buon tempo antico e la corruzione del presente
T2) Lucilio, Saturae 11-17; 1228-1234 Marx
famam inhonestam autem turpemque odisse popinam
praetextae ac tunicae, Lydorum opus, sordidulum omne,
psilae atque amphitapae, villis ingentibus, molles
miracla ciet tylyphantas
porro «clinopodas» «lychnos»que ut diximus semnos 15
ante «pedes lecti» atque «lucernas»
«arutaenae»que, inquit, aquales.
Gli antenati erano soliti odiare una brutta fama e le vergogne della taverna, mentre le nostre matrone
vanno in visibilio per le toghe preteste e le tuniche prodotte da donne della Lidia, e disprezzano ogni
prodotto nostrano; di tappeti semplici e doppi, dal pelo folto e morbido […] il materassaio fa veri
prodigi. E mentre un tempo si diceva «i piedi del letto» e «le lucerne», ora si sono messi a dire con
enfasi «i clinopodi» e «i licni» […] e chiamano «arutene» comuni brocche per l’acqua.
nunc vero a mani ad noctem, festo atque profesto
totus item pariterque die populusque patresque
iactare indu foro se omnes, decedere nusquam; 1230
uni se atque eidem studio omnes dedere et arti,
verba dare ut caute possint, pugnare dolose,
blanditia certare, bonum simulare virum se,
insidias facere, ut si hostes sint omnibus omnes.
Ora, dalla mattina fino a notte inoltrata, sia nei giorni feriali sia in quelli festivi, cittadini e senatori
hanno tutti un gran da fare nel foro, da dove non si allontanano mai; e tutti hanno un solo identico
scopo, quello di imbrogliarsi a vicenda – ma con circospezione! – , di lottare con inganno, di vincere
con blandizie, di fingersi uomini per bene e di tramare insidie, come se tutti fossero nemici a tutti.
La virtù
T3) Lucilio, Saturae 1326-1328 Marx
Virtus, Albine, est pretium persolvere verum
Quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse;
virtus est homini scire id quod quaeque habeat res,
virtus scire homini rectum, utile quid sit, honestum,
quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum; 1330
virtus quaerendae finem re scire modumque;
virtus divitiis pretium persolvere posse;
virtus, id dare, quod re ipsa debetur, honori;
hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum,
contra defensorem hominum morumque bonorum, 1335
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hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum;
commoda praeterea patriai prima putare,
deinde parentum, tertia iam postremaque nostra.
La virtù, o Albino, consiste nell’apprezzare adeguatamente le cure e gli affari della vita. La virtù è
per l’uomo sapere il valore di ciascuna cosa; virtù è per l’uomo riconoscere il giusto, l’utile, l’onesto
e il bene, il male, l’inutile, il vergognoso, il disonesto; virtù è conoscere un termine e un limite
all’accumulare; virtù è dare il giusto peso alle ricchezze; virtù è onorare ciò che veramente lo merita;
essere nemico e avversario degli uomini malvagi e dei costumi viziosi, e al contrario esaltare i buoni
uomini e i comportamenti virtuosi, stimarli, amarli, vivere al loro fianco; infine mettere al primo posto
gli interessi della patria, al secondo quelli dei nostri genitori, e solo al terzo ed ultimo posto i nostri
personali interessi.
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Le Satire di Orazio
Un programma poetico (e ideologico)
T1) Satire I 4
Eupoli, Cratino e Aristofane, questi poeti e gli altri autori della commedia antica, se uno meritava
d'essere messo alla berlina, perché furfante e ladro, adultero o assassino, o in ogni caso malfamato,
lo bollavano senza complimenti. Da questi in tutto deriva Lucilio, che ne segue l'esempio mutando
solo metro e ritmo: arguto, di fiuto sottile, ma duro nel comporre i versi. Questo appunto fu il suo
difetto: nello spazio di un'ora, come fosse gran cosa, dettava s'un piede solo duecento versi. Poiché
scorreva limaccioso, v'era zavorra che avresti voluto togliere: loquace, certo, ma insofferente alla
fatica dello scrivere, dello scrivere bene, intendo: della quantità io non so che farmene. Ecco che
cento a uno Crispino mi sfida: "Prendi le tavolette, se ci stai; le prenderò anch'io; fissiamo luogo, ora
e testimoni: vediamo chi di noi sa scrivere più versi". Grazie agli dei, che mi fecero d'animo modesto
e timido, di concise e pochissime parole: e tu imita fin che vuoi l'aria chiusa nei mantici di pelle che
soffia senza posa, finché il fuoco non fonde il ferro. Beato Fannio che divulga libri e ritratto di propria
iniziativa: i miei scritti invece non li legge nessuno, ed io non oso recitarli in pubblico, perché c'è chi
non gradisce il genere mio, visto che i più sono degni di biasimo. Scegline uno qualsiasi in mezzo
alla folla: se non è l'avarizia, lo tormenta una meschina ambizione. Uno perde la testa per le spose,
l'altro per i fanciulli; questo è sedotto dai bagliori dell'argento, Albio va in estasi davanti ai bronzi;
quello baratta merci in ogni luogo, da dove sorge a dove nel vespero intiepidisce il sole, e quasi non
bastasse, si lancia a capofitto tra i pericoli, come polvere sollevata da un ciclone, temendo di perdere
il capitale o tentando di accrescerlo. Tutti questi temono i versi e odiano i poeti. "Ha il fieno sulle
corna, fuggilo! Pur di strappare una risata, costui non risparmia se stesso e neppure l'amico; in più,
scarabocchiate le sue carte, smanierà che le conoscano tutti, schiavi e vecchiette, chi torna dal forno
o dalla fontana". Via, ascolta due parole in difesa. Innanzitutto io voglio togliermi dal novero di quelli
a cui darei il nome di poeta: non mi dirai che basta chiudere in ritmi un verso per essere poeta o che
sia tale chi come me scrive al limite della conversazione. Solo a chi ha genio, afflato divino e sublimità
d'espressione puoi concedere l'onore di questo titolo. Così alcuni si sono chiesti se la commedia sia
poesia o no, perché nel contenuto e nella forma le mancano forza e slancio d'ispirazione e se non
fosse per la regolarità del metro, che la distingue, non sarebbe altro che prosa. "Ma v'è pure il padre
che, acceso d'ira, s'inalbera se un figlio scioperato, persa la testa per una sgualdrina, rifiuta una moglie
ricca di dote e, ubriaco che è una vergogna, se ne va in giro con le fiaccole prima di notte". Credi che
Pomponio, se vivesse suo padre, subirebbe rimbrotti più lievi di questi? Non basta, dunque, costruire
un verso con parole comuni, che se le sciogli, chiunque avrebbe modo di adirarsi come quel padre
sulla scena. Se ai versi che vado scrivendo o a quelli che scrisse un tempo Lucilio, togliessi il ritmo
che regola i metri e sconvolgessi l'ordine delle parole, mettendo in fondo quelle dell'inizio e all'inizio
quelle del fondo, non troveresti del poeta, come se sciogliessi "dopo che l'orrenda discordia di guerra
infranse le porte e gli stipiti di ferro", che brandelli delle sue membra.
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Basta questo per adesso: un'altra volta, se si tratti o no di vera poesia; ora questo solo indagherò: se
questo genere di letteratura ti sia sospetto a ragione. Sulcio va in giro minaccioso e anche Caprio,
terribilmente rauchi e con le scartoffie in mano. Entrambi grande spauracchio per i malfattori. Ma se
uno vive onestamente e con le mani pulite, non si dia alcun pensiero di entrambi. Mettiamo pure che
tu rassomigli a due furfanti come Celio e Birro, io però non somiglio né a Caprio né a Sulcio: perché
dunque temermi? Nessuna bottega e colonnetta di libraio esponga i miei libretti né sudi su essi la
mano del volgo e di Ermogene Tigellio; io non recito per nessuno, fuor che per gli amici e soltanto
forzato, non dovunque e davanti a chiunque. Che recitano i propri scritti in mezzo al foro ce n'è molti,
molti anche ai bagni pubblici: ha un suono dolce la voce nei locali chiusi. Sono gli sciocchi che si
dilettano di simili cose, quelli che non si chiedono se non sia questo un agire insensato, se non sia
inopportuno. «Ci godi a recare del danno» mi dice «e lo fai di proposito, malvagio come sei». Dove
sei andato a prenderla quest'accusa che mi scagli contro? Chi insomma te l'ha imbeccata, di quelli coi
quali ho familiarità di vita? Chi rode l'amico alle spalle, chi non lo difende quando un altro lo attacca,
chi va in caccia di risa sfrenate e della fama di uomo mordace, chi è capace di inventare ciò che non
ha visto, chi non sa tenere il silenzio su quello che gli è confidato: costui è un'anima nera, da questo
sta' in guardia, cittadino di Roma. […] Se mi accadrà di dire qualche cosa con una certa franchezza o
motteggiando un tantino, questo dirittuccio me lo concederai e me ne darai licenza: quel galantuomo
di mio padre me l'ha insegnato, a fuggire i vizi facendomeli conoscere ad uno con gli esempi. Quando
mi esortava lui stesso a vivere con parsimonia e frugalità, contento di quel che lui stesso mi avesse
procurato: «Non vedi il figlio di Albio, che vita disordinata, e Baio, com'è ridotto in miseria? Grande
insegnamento a non voler dissipare il patrimonio paterno». Quando mi dissuadeva dall'amore
infamante per le cortigiane: «Non somigliare a Scetano». Perché non andassi dietro alle adultere,
mentre potevo servirmi dell'amore che è a disposizione di tutti: «Non è per niente bella la nomea di
Trebonio, colto sul fatto», così mi diceva. «Che cosa sia meglio evitare e che cosa cercare, il filosofo
te ne spiegherà le ragioni; a me basta, se riesco a conservare il costume tramandato dagli antichi e a
preservarti dai danni, finché hai bisogno di una guida, vita e reputazione; non appena poi l'età t'avrà
indurito corpo e l'animo, nuoterai senza sugheri» Così modellava con le parole il fanciullo che ero e,
se mi spingeva a fare una cosa: «Ce l'hai un esempio che t'incoraggi a fare così», e mi metteva davanti
uno di quelli scelti come giudici; oppure, se vietava qualcosa: «E tu hai dubbi che fare ciò sia
disonorevole e dannoso, quando questo e quest'altro avvampano di cattiva fama?». Come il funerale
del vicino mozza il respiro ai malati ingordi e la paura della morte li spinge ad aversi riguardo, così
spesso avviene che le vergogne altrui distolgano dai vizi gli animi teneri. Grazie a questo, io sono
sano dai vizi che portano rovina, mentre quelli che ho sono di poco conto, e veniali; e c'è caso che
anche di questi ne potrà eliminare parecchi l'età, la franchezza degli amici, il mio proprio giudizio:
né infatti, quando il lettuccio o il portico m'accoglie, io manco a me stesso. «Questo è più giusto. Così
agendo, vivrò più onestamente. In questo modo mi mostrerò gradevole agli amici. Quest'azione del
tale non è bella: potrebbe forse capitarmi un giorno di fare, anche senza intenzione, qualche cosa di
simile?» Questi pensieri fra me rimugino a labbra serrate; non appena mi si dà un po' di tempo libero,
mi diverto a buttar giù sulla carta. È questo uno di quei difetti di poco conto; del quale se non mi
vorrai perdonare, verrà un folto plotone di poeti a darmi man forte: siamo infatti di gran lunga
maggioranza e, come fanno i Giudei, ti costringeremo a passare fra i nostri.
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L’incontro con Mecenate
T3) Satire I 6
Non perché, o Mecenate, di quante genti di Lidia abitarono le terre etrusche, nessuno è più nobile di
te, né perché il tuo avo materno e il tuo avo paterno comandarono un tempo a eserciti grandi, non per
questo, come sogliono i più, arricci il naso ad uncino di fronte a chi è figlio di nessuno, come me, che
son nato da padre liberto. Quando dici che non importa da che genitore ciascuno sia nato, purché nato
libero, di una cosa a ragione tu sei persuaso: che anche prima del potere di Tullio e del suo regno
plebeo, non di rado uomini discesi da oscuri antenati vissero rispettati e furono anzi insigniti di cariche
importanti. […] Torno ora a me, figlio di padre liberto, che tutti rodono perché figlio di padre liberto,
ora perché, o Mecenate, sono tuo compagno di mensa, un tempo invece perché avevo ai miei ordini,
come tribuno, una legione di Roma. Una cosa, questa, chi somiglia poco a quell'altra, perché uno
potrebbe forse a ragione guardar di traverso una mia carica, ma la tua amicizia no, tanto più che tu
sei attento nell'ammettere soltanto chi è degno ed è lontano dalle storture dell'arrivismo. Non avrei
ragione di dirmi fortunato per questo, per aver avuto in sorte dal caso la tua amicizia; non è stata
infatti la fortuna che ti ha regalato a me; il buon Virgilio una volta e Vario dopo di lui t'hanno detto
chi io fossi. Quando ti venni davanti, poche cose io dissi, a singhiozzi (la soggezione mi legava la
lingua, m'impediva di dire di più): non che ero nato da padre famoso, non che mi facevo portare in
giro per le mie terre da un cavallo tarentino, ma quello che ero ti dico. Mi rispondi, come tuo costume,
poche parole; vado via e tu mi richiami nove mesi più tardi e m'inviti a essere nel numero dei tuoi
amici. Io la ritengo una cosa grande questa, esser piaciuto a te, che il sai distinguere l'uomo onesto
dall'indegno, non per la nobiltà di suo padre, ma per purezza di vita e di cuore. Eppure, se la mia
indole, per il resto diritta, è intaccata soltanto da difetti non gravi e non numerosi, come i nèi che tu
riprendessi sparsi qua e là in un corpo di egregia bellezza; se nessuno potrà, in buona fede,
rimproverarmi avidità, sordidezza o malfamati bordelli; se io vivo, tanto per lodarmi da me, puro e
senza colpe e caro agli amici, di tutto questo ha merito mio padre: povero del suo magro campicello,
egli non volle mandarmi alla scuola di Flavio, dove andavano i ragazzi, grandi figli dei gran
centurioni, astuccio e tavoletta sulla spalla sinistra, portando ogni quindici del mese gli otto assi di
retta; osò invece portarlo a Roma il suo ragazzo, perché fosse istruito nelle discipline che un qualsiasi
cavaliere o senatore fa imparare ai propri rampolli. Se uno avesse visto il mio vestito e i servi al mio
seguito, come si usa nelle grandi città, avrebbe creduto che i denari per quelle spese mi venissero dal
patrimonio degli avi. E poi, lui di persona mi stava a fianco, il più impeccabile degli istitutori, nel
mio giro fra un professore e l’altro. Perché tirarla lunga? Mi ha conservato, ed e questo il primo
ornamento della virtù, il senso del pudore non solo per le azioni, ma anche per le accuse infamanti; e
non aveva a temere che gli venisse fatta una colpa, nel caso che un giorno mi guadagnassi una paga
modesta facendo il banditore o, come lui stesso, l'esattore; né io mi sarei lamentato: ma oggi, per
questo, io gli devo un elogio e una riconoscenza più grande. Mai avvenga, finché sono sano di mente,
ch'io mi mostri, neanche un poco, scontento di un simile padre, mai dunque io abbia a cercarmi delle
scuse, come fa la più parte degli uomini, che dice non esser sua la colpa se non ha genitori nati liberi
e illustri.
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Assai diversi da questi sono, in me, e parole e pensiero: se infatti la natura, a partire da una determinata
età, ci facesse percorrere a ritroso il tempo trascorso e ci permettesse di scegliere, in ragione della
nostra vanità, altri genitori, ciascuno quelli che preferisce, e se io, contento dei miei, non volessi
prendermeli onorati di fasci e di seggi, pazzo certo sarei a giudizio del volgo, savio forse per te, per
aver rifiutato di caricarmi un peso molesto, cui avvezzo non sono. Subito infatti mi toccherebbe
cercarmi un patrimonio più grosso e avrei più gente b da salutare, dovrei portarmi dietro uno o due
accompagnatori, per non andarmene da solo in campagna o in viaggio, dovrei dar da mangiare a un
maggior numero di cavalli e lacché, viaggiare in carrozza. Ora, invece, nessuno mi vieta di andare
fino a Taranto se ne ho voglia, su un mulo castrato, cui il peso del bagaglio ulcera i fianchi e il
cavaliere le spalle: nessuno a me rinfaccerà la grettezza che rinfacciano a te, o Tillio, quando sulla
via per Tivoli hai al tuo seguito (tu un pretore!) cinque schiavi soltanto, che portano vaso da notte e
fiasca del vino. In questo, e in mille altre cose, io faccio vita più comoda di te, mio illustre senatore:
da qualsiasi parte mi viene voglia, me ne vado da solo, chiedo a quanto vanno legumi e farro, giro e
rigiro sovente fra gli imbroglioni del Circo e nel Foro di sera, mi fermo davanti agli indovini. Poi me
ne torno a casa, a una scodella di porri, ceci e frittelle. Tre garzoni a servire la cena, un piano di
marmo con sopra due coppe e una mestola, e accanto una saliera da poco, un'ampolla con il suo piatto,
tutta suppellettile campana. Quindi me ne vado a dormire, senza il pensiero che domani mi tocca
levarmi di buon mattino, andare verso la statua di Marsia, quello che dice di non farcela più a
sopportare la faccia del più giovane dei Novii. Sto a letto fino alle dieci; poi vado a spasso, oppure,
dopo aver letto o scritto in silenzio quello che mi va, mi ungo di olio, ma non di quello che Natta il
sudicione ruba alle lucerne. Poi però, quando il sole più pungente mi fa sentire la fatica e mi consiglia
di andare al bagno, lascio il Campo e il gioco della palla in triangolo. Pranzato che ho senza avidità,
quel tanto per non restare a pancia vuota l’intera giornata, me ne sto a casa a far nulla. È questa la
vita di chi è libero dall’ambizione che rende infelici e opprime. Ed io mi consolo a pensare che , in
questa maniera, vivo una vita più piacevole che se avessi avuto un questore per nonno e per padre e
per zio.
La misura delle cose
T2) Satire I 1
Come mai, Mecenate, nessuno, nessuno vive contento della sorte che sceglie o che il caso gli getta
innanzi e loda chi segue strade diverse? "Fortunati i mercanti", esclama il soldato oppresso dagli anni
e con le membra rotte da tanta fatica; "Meglio la vita militare" ribatte il mercante sulla nave in balia
dei venti, "Che vuoi? Si va all'assalto e in breve volgere di tempo ti rapisce la morte o ti arride la
vittoria". Quando al canto del gallo batte il cliente alla sua porta, l'esperto di diritto invidia il
contadino; quell'altro invece, tratto a viva forza di campagna in città a testimoniare, proclama che
solo i cittadini sono felici. Esempi simili, tanto son numerosi, finirebbero per rendere afono persino
un chiacchierone come Fabio. A farla breve, ascolta dove voglio arrivare: se un dio dicesse: "Eccomi
qui, pronto a fare ciò che volete: tu, ch'eri soldato sarai mercante, e tu, giurista, un contadino:
scambiatevi le parti e via, uno di qua, l'altro di là. Che fate lì impalati?". Rifiuterebbero eppure era
possibile che fossero felici. Non ha forse ragione Giove a sbuffare irritandosi con loro e a sancire che
d'ora in poi non sarà più tanto arrendevole da porgere orecchio a preghiere simili?
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Insomma, per non continuare negli scherzi, tal quale una farsa (per quanto, che cosa vieta di dire la
verità scherzando? Anche i maestri a volte con blandizie danno delle chicche ai bambini, perché si
decidano a imparare l'alfabeto; ma bando alle burle: pensiamo a cose serie), quello che sotto il peso
dell'aratro rivolta a fatica la terra, quest'oste imbroglione, il soldato e i marinai che in ogni dove
percorrono audaci il mare, a sentir loro si sobbarcano a tante fatiche con l'intenzione in vecchiaia di
ritirarsi a riposare in pace, una volta messo da parte il necessario: così la formica, minuscola ma
laboriosa (l'esempio è proverbiale), trascina con la bocca tutto quel che può e l'aggiunge al mucchio
che innalza, consapevole e previdente del futuro. Ma mentre lei, al volgere dell'anno che l'Aquario
intristisce, non esce più dal suo buco e, saggia, si serve delle provviste accumulate in precedenza, per
te non c'è torrida estate che possa distoglierti dal guadagno, né inverno, fuoco, mare o ferro, niente è
d'ostacolo perché nessuno mai sia più ricco di te. Che gusto provi a sotterrare di nascosto e pieno di
paura una caterva simile d'oro e d'argento? "Ma se l'intacchi, si ridurrà a un soldo bucato". E se ciò
non avviene, che ha di bello il mucchio raccolto? La tua aia ha trebbiato centomila moggi di grano:
non sarà per questo il tuo ventre più capace del mio; così se tra gli schiavi condotti al mercato toccasse
a te di trascinarsi in spalla il canestro del pane, non riceveresti nulla di più di chi non ha portato niente.
Dimmi che differenza fa, per chi vive entro i limiti della natura, arare cento iugeri o ararne mille?
"Ma è piacevole prendere da un mucchio grande". Lasciami attingere altrettanto a uno piccolo: perché
mai dovresti lodare i tuoi granai più di queste mie ceste? Come se tu avessi bisogno solo di una brocca
o di un bicchiere d'acqua e dicessi: "Preferirei riempirli a un grande fiume che a questo rigagnolo".
Sì, ma a chi fa gola una quantità maggiore al giusto, avviene che l'Aufido impetuoso se lo porti via
con parte della riva. Chi invece s'accontenta del poco che ha bisogno, non attinge acqua torbida di
fango e non perde la vita fra le onde. Eppure buona parte della gente, accecata da false brame: "Niente
è di troppo", dice, "perché quanto hai, tanto vali". Che vuoi fargli? Lascialo nella sua miseria, visto
che ci sta volentieri; come quel tale che, si racconta in Atene, spilorcio e ricco, era solito stornare così
le critiche: "La gente mi fischia, ma dentro casa, quando contemplo tutti quei denari nel forziere, io
mi applaudo da solo". Tantalo assetato cerca di suggere l'acqua via dalle sue labbra... Ridi? mutato il
nome, è il caso tuo: sogni a bocca aperta sui sacchi ammassati d'intorno e ti costringi a non toccarli
come fossero sacri o a goderne come dei quadri. Lo sai o no a cosa serve il denaro e l'uso che puoi
farne? Compraci pane, verdura, mezzo litro di vino e aggiungici anche ciò che, se viene a mancare,
la natura umana ne soffrirebbe. Forse vegliare mezzo morto di paura, è questo che ti piace? Temere
notte e giorno il flagello dei ladri, degli incendi o che i servi mettano a sacco la casa e poi fuggano?
Di beni come questi io vorrei proprio farne a meno. "Ma se, preso dai brividi, il corpo comincia a
dolerti o un altro accidente t'affligge a letto, hai chi ti assiste, chi ti prepara impiastri e chiama il
medico che ti rimetta in piedi e ti restituisca ai figli, all'affetto dei parenti". No, non ti vuole guarito
la moglie, non lo vuole tuo figlio; non ti può vedere nessuno, vicini, conoscenti, giovani e ragazze. E
ti meravigli tu, che avanti ogni cosa metti il denaro, se nessuno ti accorda quell'affetto che certo non
ti meriti? O forse pensi che perderesti il tuo tempo, se cercassi di tenerti i parenti, che per sorte la
natura ti ha dato, e serbarteli amici, come chi volesse addestrare un asinello a correre nel Campo
Marzio ubbidendo alle redini? E allora smettila con questa avidità: più ne hai e meno devi temere la
miseria; poni termine alla fatica, ottenuto ciò che agognavi, se non vuoi che t'accada come a quel tale
Ummidio.
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È storia breve: ricco al punto da contare i soldi a palate e così gretto da non vestirsi meglio di un
servo, temette sino all'ultimo di morire d'inedia. Ma ecco che una liberta, come la più forte delle
Tindaridi, in due lo spaccò con la scure. "Che mi consigli allora? Di vivere come Nevio o come
Nomentano?" Ti ostini a mettere di fronte cose che fanno a pugni: quando ti sconsiglio d'essere avaro,
non ti esorto a farti scioperato e scialacquatore. C'è pure una via di mezzo fra Tanai e il suocero che
ha Visellio: c'è una misura per tutte le cose, ci sono insomma confini precisi al di là dei quali non può
esistere il giusto. Torno al punto d'avvio: come mai nessuno, vedi l'avaro, è contento di sé e loda
invece chi segue strade diverse, si strugge d'invidia se la capretta del vicino ha mammelle più turgide
e, senza confrontarsi con la massa più povera di lui, s'affanna a superare questo e quello? Come
l'auriga, quando scalpitando i cavalli si lanciano coi cocchi oltre le sbarre, incalza quelli che lo
superano, sprezzando chi si è lasciato indietro e scivola in coda, così a lui che s'affanna sempre si
para innanzi uno più ricco. Ecco perché solo di rado s'incontra chi dica d'essere vissuto felice e, pago
del tempo trascorso, esca di vita come un convitato sazio. Ma ora basta; e perché tu non supponga
che abbia saccheggiato gli scrigni del cisposo Crispino, non aggiungerò una parola in più.
Un comune seccatore
T4) Satire I 9
Me ne andavo a spasso per la Via Sacra, come faccio di solito, meditando non so più su quali
sciocchezze e tutto immerso in quelle, quando incontro mi si fa un tale, che conoscevo soltanto di
nome, m'afferra la mano e: "Carissimo, come va?" "D'incanto, almeno per ora," gli rispondo,
"t'auguro ciò che vuoi". Poiché mi seguiva: "Forse vuoi qualcosa?" azzardo. E lui: "Dovresti
conoscermi," dice, "non siamo letterati?" "Se è così," gli faccio io, "mi sarai più caro". Cercavo
disperatamente di svignarmela, ora allungavo il passo, ora mi fermavo, sussurrando qualcosa senza
importanza nell'orecchio del mio schiavo, e intanto colavo sudore dalla testa ai piedi. "Beato te,
Bolano, che hai la testa calda", ripetevo a me stesso, mentre l'altro cianciava a ruota libera, tessendo
l'elogio dei rioni e dell'urbe. Visto che non fiatavo: "Tu hai una voglia disperata di andartene," mi fa,
"lo vedo da un pezzo; niente da fare: non ti mollo, ti seguirò dovunque. Dove mai sei diretto?" "Non
è il caso che tu faccia un simile giro: devo visitare un tale che non conosci; è a letto, lontano, oltre il
Tevere, vicino ai giardini di Cesare". "Non ho nulla da fare, e poi non sono pigro: t'accompagno fin
là". Abbasso le orecchie, come un asinello recalcitrante, quando si trova sulla groppa un carico troppo
pesante. E quello attacca; "Se mi conosco bene, so che non avrai cari Visco e Vario più di me:
dimmelo, chi può scrivere più versi in meno tempo? chi danzare con più grazia? e poi canto da fare
invidia anche ad Ermogene!" Era tempo di fermarlo: "Non hai una madre o dei parenti, che abbiano
a cuore la tua salute?" "Non ho più nessuno, li ho seppelliti tutti". "Beati loro! Ora resto io. Finiscimi:
un amaro destino mi sovrasta, quello che da ragazzo una vecchia sabina, scuotendo l'urna del futuro,
mi predisse: costui non lo stroncherà veleno mortale o spada nemica, né pleurite, etisia o blocco di
podagra; un giorno o l'altro lo porterà a morte un chiacchierone: eviti dunque in età le lingue
indiscrete, se avrà giudizio". Si era giunti al tempio di Vesta, ormai verso le dieci, e per fortuna quello
doveva comparire in tribunale avendo presentato garanzia: in caso contrario avrebbe perso la causa.
"Fammi il piacere," mi dice, "assistimi solo un attimo".
Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019
"Mi prenda un colpo, se ho la forza di stare in piedi e se m'intendo di diritto: e poi devo affrettarmi
dove sai". "Sono in dubbio su che cosa fare" dice, "se lasciare te o la causa", replica. "me, me, non ti
pare?" "Non sia mai detto", fa lui e s'incammina per primo. Io, visto che è difficile combattere con
chi sa vincerti, lo seguo. "E con Mecenate," riprende, "come va?" "È uomo di poca compagnia, ma
che mente fina!" "Nessuno più di lui ha saputo prendere al laccio la fortuna. Ma tu avresti un aiutante
coi fiocchi a farti da spalla, se solo tu volessi presentargli quest'uomo: mi venga un malanno, se non
avresti soppiantato tutti". "Guarda che là non si vive, come tu credi: non vi è casa più pura o più aliena
da simili intrighi di quella; non mi fa certo ombra, ti ripeto, che qualcuno sia più ricco o dotto di me:
ognuno ha il proprio posto". "È straordinario, pare impossibile!" "Eppure è così". "Tu mi ecciti il
desiderio d'essergli vicino". "Basta che tu lo voglia: bravo come sei, lo conquisterai; è un uomo che
si lascia vincere, per questo rende difficili i primi approcci". "Non mi risparmierò: a forza di mance
m'ingrazierò i servi; e se oggi sarò messo alla porta, non mi darò per vinto; cercherò le occasioni
buone, l'aspetterò ai crocicchi, l'accompagnerò. Niente ai mortali ha dato la vita senza travagli".
Mentre quello parla, ecco che mi viene incontro Aristio Fusco, mio buon amico, che certo conosceva
bene quel tipo. Ci fermiamo. "Da dove vieni e dove vai?" chiede e risponde. Comincio a tirarlo,
stringendogli le braccia senza che reagisca, ammiccando con gli occhio gli faccio cenni, perché mi
cavasse dai pasticci. Ma quello sciagurato, ridendo faceva finta di non capire: la bile mi bruciava il
fegato. "Se non sbaglio, m'hai detto che volevi parlarmi di qualcosa a quattr'occhi". "Me lo ricordo
bene, ma te la dirò in un momento migliore; oggi è il novilunio ed è sabato: vuoi forse fare oltraggio
agli ebrei circoncisi?" "Non ho queste superstizioni", gli rispondo. "Ma io sì: soffro di certe debolezze,
come tanti. Abbi pazienza: te la dirò un'altra volta". Una giornata proprio nera doveva capitarmi!
Scappa il furfante e mi lascia sotto la lama. Fortuna vuole, che incontro a quel tipo gli venga
l'avversario urlando a gran voce: "Dove scappi, canaglia?" e a me: "Posso prenderti a testimone?" Io,
manco a dirlo, gli porgo l'orecchio. Lo trascina in giudizio; urla dalle due parti, gente che accorre da
ogni dove. E fu così che mi salvò Apollo.
Reazioni del pubblico al primo libro delle Satire
T5) Sermones II 1
ORAZIO C'è gente cui sembra ch'io sia troppo aggressivo nella mia satira e che tenda l'arco dell'opera
mia oltre quel che la legge consente; altri, invece, pensano che tutto ciò che ho composto sia privo di
nerbo e che versi come i miei mille al giorno se ne possono filare. Trebazio, prescrivimi tu cosa fare.
TREBAZIO Stattene quieto. ORAZIO Non fare più versi per niente, è questo che dici? TREBAZIO
Questo è il responso. ORAZIO Possa io di mala morte morire, se non sarebbe il partito migliore; il
fatto è che non mi riesce di dormire. TREBAZIO Per chi vuole un sonno profondo, tre nuotate al
giorno, spalmati di olio,' da una sponda all'altra del Tevere e, la sera, innaffiarsi ben bene il corpo di
vino schietto. Oppure, se proprio un così grande desiderio di scrivere ti trascina, osa cantare le gesta
vittoriose di Cesare, e molti premo alle tue fatiche riporterai. ORAZIO Io vorrei, Mio buon padre,
ma, le forze mi mancano; non è infatti da tutti descrivere irte di giavellotti le schiere e Galli morenti
per la punta spezzatasi in carne o il Parto ferito che scivola giù da cavallo. TREBAZIO Potevi però
scrivere della sua giustizia e del suo valore, come il saggio Lucilio fece con Scipione.
Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019
ORAZIO Non mi tirerà indietro, quando la cosa verrà da sé; non sarà, se non a tempo opportuno, che
le parole di Fiacco richiamino l'attenzione e penetrino nelle orecchie di Cesare, uno che, se lo carezzi
maldestramente, si mette a riparo sferrando calci da ogni parte. TREBAZIO Quanto meglio questo,
che aggredire con versi maligni Pantolabo il buffone e Nomentano lo scioperato: ecco che ognuno,
allora, anche se non viene toccato, teme per se stesso e prende a odiarti. ORAZIO Cosa vuoi che ci
faccia? Milonio si mette a ballare, non appena il calore del vino è arrivato a colpirgli la testa e le
lucerne gli crescono di numero; Castore ha la passione dei cavalli, il suo gemello, nato dal medesimo
uovo, ha la passione del pugilato; quante migliaia di teste, tante migliaia di inclinazioni: io mi diletto
di chiudere le parole nel verso alla maniera di Lucilio, dite. Come a fedeli compagni, ai libri egli
soleva affidare i suoi segreti; né altrove ricorreva se le cose gli andavano male, né se gli andavano
bene: perciò avviene che tutta la vita di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta
su un quadretto votivo». Seguo il suo esempio io, non si sa bene se Lucano o Apulo: infatti il colono
di Venosa ara i campi a cavaliere fra le due regioni, inviato qui, raccontano antiche storie, dopo che
ne furono cacciati i Sabelli, per questo scopo, che i nemici non potessero piombare addosso ai Romani
attraverso un territorio disabitato, fosse la gente d'Apulia o la Lucania bellicosa a scatenare la guerra.
Ma questo mio stilo mai attaccherà per imo anima viva e mi proteggerà come una spaia c usa nel
fodero; perché dovrei mettermi a sguainarla, finché sono al sicuro dall'attacco dei briganti? O Giove
padre e re, fa che quest'arma, riposta com'è, sia consumata dalla ruggine e che nessuno faccia del
male a me che non cerco che pace! Ma colui che mi avrà provocato (meglio non toccarmi, lo dico
chiaro) avrà di che piangere e diventerà la favola di cui si chiacchiera in tutta la città. […]
Saggezza e schiavitù: le contraddizioni di Orazio
T6) Satire II 7
“Da un bel po’ ti ascolto e vorrei dirti anch’io qualcosa, ma sono schiavo e ho paura”. “Davo?” “Sì,
sono Davo, schiavo amico del suo padrone e perbene… non troppo: puoi considerarmi longevo”.
“Coraggio, approfitta della libertà di Dicembre che i nostri padri hanno voluto: raccontami”. “Una
parte degli uomini gode sempre dei propri vizi e mira dritta allo scopo; una parte oscilla, ora cogliendo
il bene, ora schiava del male: così visse volubile Prisco, ora notato per i suoi tre anelli, ora con la
sinistra vuota, cambiando banda di porpora di ora in ora lasciando d’improvviso un palazzo per
nascondersi dove forse si sarebbe vergognato di uscire un liberto con un po’ di decoro; donnaiolo a
Roma, subito dopo studioso ad Atene, nato con sfavorevoli tutti i Vertumni che sono al mondo.
Volanerio il buffone, dopo che l’artrite gli ebbe giustamente storpiato le dita, assunse, pagandolo a
giornata, uno per raccogliere i dadi al suo posto e metterli nel bussolotto; più coerente nel vizio e
dunque meno infelice dell’altro che si affatica attorno a una fune ora tesa ora molle”. “Vuoi dirmi
dove vanno a mirare questi sproloqui, furfante, prima di notte?” “A te”. “In che modo, canaglia?”
“Lodi la sorte e i costumi della plebe in antico, ma se di colpo un dio ti ci riportasse, ti rifiuteresti, o
perché non pensi che quello che predichi sia davvero più giusto, o perché a difendere il giusto non
hai sufficiente fermezza e rimani attaccato al fango, per quanto cerchi di staccarne il piede.
Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019
Quando sei a Roma vuoi la campagna, ma in campagna porti alle stelle la città. Se per caso nessuno
ti invita, lodi i legumi consumati in pace e ti dichiari contento di non andare altrove a far bagordi,
come ci andassi legato. Ma se Mecenate ti invita a cena all’ultimo minuto, ecco che sbraiti a gran
voce: ‘Nessuno che si sbrighi a portarmi il profumo? Siete sordi?’, e scappi via. Mulvio e i parassiti,
dopo averti mandato maledizioni irripetibili, se ne vanno. ‘Confesso – direbbe Mulvio – mi lascio
guidare dal ventre, protendo il naso verso l’arrosto: debole, vile e, se ci tieni, ubriacone. Ma tu, che
sei come me e forse anche peggio, devi proprio investirmi con aria superiore e occultare il vizio con
belle parole?’. E se ti dimostro che sei più stolto di me, che sono stato comprato per cinquecento
dracme, smetti di farmi gli occhiacci, tieni a freno le mani e la rabbia mentre ti insegno la dottrina
che ho appreso dal portinaio di Crispino: a te piace la moglie di un altro, a Davo una puttanella; chi
di noi due merita più la croce? Quando la natura aspramente mi sprona, la donna nuda che al lume
della lampada accoglie i colpi della mia coda tumida o, muovendo il culo, mi eccita sotto di lei supino,
mi manda via senza infamia e senza preoccupazioni, che un altro più ricco o più bello venga allo
stesso punto. Tu quando getti le insegne, l’anello equestre, l’abito romano, e da giudice diventi un
lurido Dama con il mantello che cela la testa imbevuta di profumo, non sei forse quello che simuli?
Entri impaurito, e tremi nelle ossa per la paura che lotta con la libidine. Che differenza c’è se vai
nell’arena impegnato per contratto a farti colpire dalle verghe e ferire di spada o, rinchiuso turpemente
nella cassa dove ti ha messo la serva, complice del peccato della sua padrona, tocchi con le ginocchia,
rannicchiato, la testa? Non ha forse il marito della matrona colpevole il potere di punire entrambi, ma
ancora più il seduttore? Non è lei che si traveste, che esce di casa, che sta di sopra, perché ha
paura di te, non si fida del suo amante. Consapevole accetti la berlina ed affidi al marito infuriato le
tue sostanze, la vita e la fama. Quando poi l’hai scampata, si pensa che imparerai per paura a stare in
guardia; invece cerchi l’occasione di rischiare di nuovo e morire mille volte schiavo! Qual è l’animale
che, scappato dopo aver rotto le catene, contro natura ad esse si restituisce? ‘Non sono un adultero’,
dici. E neanche io sono un ladro, se per prudenza lascio perdere i vasi d’argento; ma togli il pericolo,
e la natura senza più freni balzerà libera in giro. E tu sei il mio padrone, tu che cedi a tanti domini di
uomini e di situazioni, che, se anche fossi emancipato tre o quattro volte, non saresti mai libero dal
terrore meschino? Aggiungi un’altra cosa, non di minor peso di quanto ho già detto: se il servo di un
servo si chiama, secondo il vostro costume, vicario o compagno di schiavitù, per te io chi sono? Tu
che comandi a me, sei un servo infelice di altri che ti muovono come una marionetta, con fili esterni.
Chi è libero dunque? Il saggio, che comanda a se stesso, che non ha paura della povertà, della morte,
del carcere, che affronta da forte le passioni e disprezza gli onori, che è tutto in sé stesso, compatto e
rotondo, in modo che niente dall’esterno trova appigli nella sua superficie, e su di lui falliscono
sempre gli assalti della fortuna. Di queste qualità puoi riconoscerne come tua qualcuna? Una donna
ti chiede cinque talenti, ti vessa e ti butta fuori, t’innaffia di acqua gelida, poi ti richiama: sottrai il
tuo collo al turpe giogo, liberati e di’ ‘Sono libero’. Non puoi: un padrone crudele tormenta il tuo
animo, ti pianta gli sproni nel corpo sfinito, ti piega se recalcitri. E quando resti stupito di fronte a un
quadro di Pausia, pazzo, perché hai meno colpe di me quando, in punta di piedi, guardo le battaglie
dipinte con l’ocra o il carbone da Fulvio, da Rutuba, o Placideano, come se combattessero nella realtà,
colpissero e schivassero, muovendosi, i colpi?
Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019
Ma Davo è un furfante e un perdigiorno, te invece ti chiamano giudice esperto e sottile di cose antiche.
Io sono un buono a nulla se mi faccio sedurre da una focaccia fumante; ma la tua grande virtù resiste
alle ricche cene? Perché cedere al ventre è più rovinoso per me? Io vengo percosso sulla schiena, ma
tu non sei meno punito quando cerchi leccornie che non si trovano a poco. Diventano amari i banchetti
smodati, e i piedi rifiutano di reggere il corpo corrotto. O forse è colpevole il servo che al buio scambia
lo strigile rubato con un grappolo d’uva, e chi vende il suo podere per compiacere la gola non è anche
lui un servo? Aggiungi che non riesci a restare un’ora assieme a te stesso, a far fruttare il tempo libero,
e come uno schiavo fuggitivo o un disertore, ti eviti, cercando nel vino e nel sonno di sfuggire alla
preoccupazione, invano; nera compagna, ti opprime, e se fuggi ti insegue”. “Datemi una pietra”. “E
che te ne fai?”. “Delle frecce!” “Quest’uomo è un pazzo o un poeta”. “Se non ti togli di qui in fretta,
raggiungerai gli altri otto al podere sabino”.
Vita di campagna e vita di città
T7) Satire II 6, 79-117
Si racconta che una volta un topo di campagna accolse un topo di città nel suo povero buco, un ospite
di vecchia data col suo vecchio amico, grossolano e attaccato alle sue cose, comunque tale da aprire
il suo cuore taccagno ai doveri ospitali. Perché farla lunga? Né gli fece risparmio di ceci tenuti da
parte nè di sottile avena, e portando con la bocca un acino secco, gli offrì dei pezzetti rosicchiati di
lardo, desiderando invano, con la varietà della cena, di vincere le ripugnanze dell’amico che toccava
appena ogni cosa con dente schizzinoso, mangiava il farro e il loglio, lasciando il meglio del
banchetto. Alla fine il topo di città gli disse: perché ti piace, amico, vivere in preda delle ristrettezze
sul dorso di un dirupo selvoso ? Vuoi preferire gli uomini e la città a queste selve incolte? Mettiti in
cammino, dammi retta, compagno, giacchè le creature terrestri vivono un’esistenza mortale e non c’è
nessuna via d’uscita o scappatoia dal destino, per il grande come per il piccolo. Perciò, caro, finchè è
possibile, vivi beato in mezzo ai piaceri, vivi memore di quanto tu sia di vita breve”. Queste parole
scossero il topo di campagna , infatti balzò leggero fuori dalla sua casa; poi entrambi percorrono il
cammino prefissato, vogliosi di insinuarsi di notte nelle mura della città. E già la notte era a metà del
corso, quando entrambi fermano i passi in un ricco palazzo, dove, dipinta di rossa porpora, una
tovaglia brillava sopra i divani d’avorio e dove erano rimasti molti avanzi da un grande banchetto che
giacevano da parte in canestri ammonticchiati. Dunque, quando il topo di città sistemò disteso sulla
tovaglia purpurea il topo di campagna, egli, con un vestito succinto, trotterella come fosse di casa e
porta in continuazione vivande e, come fanno i servi, adempie ai loro stessi doveri, pregustando ogni
piatto che porta. Quello, standosene sdraiato, si rallegra della sorte mutata, e per quelle squisitezze,
un gran sbattere di porte li fa saltare giù entrambi dal divano. Impauriti, correvano per tutta la sala da
pranzo e tremavano sempre più tramortiti, e l’alto palazzo rimbombò di cani molossi. Allora il topo
di campagna disse: questa vita non fa per me. Stammi bene: preferisco la selva, una tana al riparo da
molti pericoli.
Esopo, Fabulae
Un giorno il topo di città andò a trovare il cugino di campagna. Questo cugino era di modi semplici
e rozzi, ma amava molto l'amico di città e gli diede un cordiale benvenuto. Lardo e fagioli, pane e
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formaggio erano tutto ciò che poteva offrirgli, ma li offrì volentieri. Il topo di città torse il lungo naso
e disse: - Non riesco a capire, caro cugino, come tu possa tirare innanzi con un cibo così misero ma
certo, in campagna non ci si può aspettare di meglio. Vieni con me, ed io ti farò vedere come si vive;
quando avrai trascorso una settimana in città, ti meraviglierai di aver potuto sopportare la vita in
campagna! Detto fatto, i due topi si misero in cammino e arrivarono all'abitazione del topo di città a
notte tarda. - Desideri un rinfresco, dopo un viaggio così lungo? - domandò con cortesia il topo di
città; e condusse l'amico nella grande sala da pranzo. Qui trovarono i resti di un ricco banchetto e si
misero subito a divorare dolci, marmellata e tutto quello che c'era di buono. Ad un tratto udirono dei
latrati. - Che cos'è questo? - chiese il topo di campagna. - Oh, sono soltanto i cani di casa - rispose
l'altro. - Soltanto! - esclamò il topo di campagna. - Non amo questa musica, durante i pasti. -In
quell'istante si spalancò la porta ed entrarono due enormi mastini: i due topi ebbero appena il tempo
di saltar giù e di correre fuori. - Addio, cugino - disse il topo di campagna. - Come! Te ne vai così
presto? - chiese l'altro. - Si - replicò il topo di campagna: "Meglio lardo e fagioli in pace che dolci e
marmellata nell'angoscia."