La satira latina e il suo ‘inventore’: Lucilio

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Riflettere ridendo. La satira latina (e la sua attualità) Terza Università 2019 La satira latina e il suo ‘inventore’: Lucilio Quintiliano, Istituzioni oratorie 10, 1, 93 Satura quidem tota nostra est («La satira è tutta nostra»). La poetica T1) Lucilio, Saturae 480-489; XXVI 587-589; 590-591; 595-596; 671-672 Marx Gli uomini guardano come mere invenzioni questi esseri straordinari descritti nei versi di Omero, a cominciare da questo Polifemo alto duecento piedi, che portava a mo’ di bastoncino un legno più grande del più grande albero maestro di qualsiasi nave. Ha un sacro terrore degli spettri, e dei vampiri introdotti da Fauno e da Numa Pompilio; da quelli fa dipendere ogni accadimento. Come i bimbi credono che tutte le statue di bronzo siano vive e siano uomini veri, così costoro attribuiscono verità a simili invenzioni, credono che ci sia un’anima dentro le statue di bronzo. Ma non è nient’altro che una galleria di statue: niente di vero, tutte invenzioni. nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis. 587 Nunc itidem populo <placere nolo> his cum scriptoribus: voluimus capere animum illorum voi credete di non interessare il popolino, se non gli descrivete esseri straordinari, come serpenti alati o draghi volanti. Ma io non voglio piacere al popolino come questi scrittori: io voglio piacere a quelli… ego ubi quem ex praecordiis 590 ecfero versum, quando traggo i miei versi dall’intimo dell’animo mio, nec dottissimis <nec scribo indoctis nimis>. Man<il>ium 595 Persium<ve> haec legare nolo, Iunium Congum volo. non scrivo né per i troppo dotti né per i troppo ignoranti. Non voglio che mi legga Manilio o Persio: preferisco piuttosto Giunio Congo. publicanus vero ut Asia fiam, ut scripturarius, 671 pro Lucilius, id ego nolo, et uno hoc non muto omnia. Io certo non voglio diventare un esattore o un appaltatore di imposte in Asia piuttosto che essere Lucilio, e non c’è niente che accetterei in cambio di questa sola cosa.

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La satira latina e il suo ‘inventore’: Lucilio

Quintiliano, Istituzioni oratorie 10, 1, 93

Satura quidem tota nostra est («La satira è tutta nostra»).

La poetica

T1) Lucilio, Saturae 480-489; XXVI 587-589; 590-591; 595-596; 671-672 Marx

Gli uomini guardano come mere invenzioni questi esseri straordinari descritti nei versi di Omero, a

cominciare da questo Polifemo alto duecento piedi, che portava a mo’ di bastoncino un legno più

grande del più grande albero maestro di qualsiasi nave. Ha un sacro terrore degli spettri, e dei vampiri

introdotti da Fauno e da Numa Pompilio; da quelli fa dipendere ogni accadimento. Come i bimbi

credono che tutte le statue di bronzo siano vive e siano uomini veri, così costoro attribuiscono verità

a simili invenzioni, credono che ci sia un’anima dentro le statue di bronzo. Ma non è nient’altro che

una galleria di statue: niente di vero, tutte invenzioni.

nisi portenta anguisque volucris ac pinnatos scribitis. 587

Nunc itidem populo <placere nolo> his cum scriptoribus:

voluimus capere animum illorum

voi credete di non interessare il popolino, se non gli descrivete esseri straordinari, come serpenti alati

o draghi volanti. Ma io non voglio piacere al popolino come questi scrittori: io voglio piacere a

quelli…

ego ubi quem ex praecordiis 590

ecfero versum,

quando traggo i miei versi dall’intimo dell’animo mio,

nec dottissimis <nec scribo indoctis nimis>. Man<il>ium 595

Persium<ve> haec legare nolo, Iunium Congum volo.

non scrivo né per i troppo dotti né per i troppo ignoranti. Non voglio che mi legga Manilio o Persio:

preferisco piuttosto Giunio Congo.

publicanus vero ut Asia fiam, ut scripturarius, 671

pro Lucilius, id ego nolo, et uno hoc non muto omnia.

Io certo non voglio diventare un esattore o un appaltatore di imposte in Asia piuttosto che essere

Lucilio, e non c’è niente che accetterei in cambio di questa sola cosa.

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Il buon tempo antico e la corruzione del presente

T2) Lucilio, Saturae 11-17; 1228-1234 Marx

famam inhonestam autem turpemque odisse popinam

praetextae ac tunicae, Lydorum opus, sordidulum omne,

psilae atque amphitapae, villis ingentibus, molles

miracla ciet tylyphantas

porro «clinopodas» «lychnos»que ut diximus semnos 15

ante «pedes lecti» atque «lucernas»

«arutaenae»que, inquit, aquales.

Gli antenati erano soliti odiare una brutta fama e le vergogne della taverna, mentre le nostre matrone

vanno in visibilio per le toghe preteste e le tuniche prodotte da donne della Lidia, e disprezzano ogni

prodotto nostrano; di tappeti semplici e doppi, dal pelo folto e morbido […] il materassaio fa veri

prodigi. E mentre un tempo si diceva «i piedi del letto» e «le lucerne», ora si sono messi a dire con

enfasi «i clinopodi» e «i licni» […] e chiamano «arutene» comuni brocche per l’acqua.

nunc vero a mani ad noctem, festo atque profesto

totus item pariterque die populusque patresque

iactare indu foro se omnes, decedere nusquam; 1230

uni se atque eidem studio omnes dedere et arti,

verba dare ut caute possint, pugnare dolose,

blanditia certare, bonum simulare virum se,

insidias facere, ut si hostes sint omnibus omnes.

Ora, dalla mattina fino a notte inoltrata, sia nei giorni feriali sia in quelli festivi, cittadini e senatori

hanno tutti un gran da fare nel foro, da dove non si allontanano mai; e tutti hanno un solo identico

scopo, quello di imbrogliarsi a vicenda – ma con circospezione! – , di lottare con inganno, di vincere

con blandizie, di fingersi uomini per bene e di tramare insidie, come se tutti fossero nemici a tutti.

La virtù

T3) Lucilio, Saturae 1326-1328 Marx

Virtus, Albine, est pretium persolvere verum

Quis in versamur, quis vivimus rebus, potesse;

virtus est homini scire id quod quaeque habeat res,

virtus scire homini rectum, utile quid sit, honestum,

quae bona, quae mala item, quid inutile, turpe, inhonestum; 1330

virtus quaerendae finem re scire modumque;

virtus divitiis pretium persolvere posse;

virtus, id dare, quod re ipsa debetur, honori;

hostem esse atque inimicum hominum morumque malorum,

contra defensorem hominum morumque bonorum, 1335

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hos magni facere, his bene velle, his vivere amicum;

commoda praeterea patriai prima putare,

deinde parentum, tertia iam postremaque nostra.

La virtù, o Albino, consiste nell’apprezzare adeguatamente le cure e gli affari della vita. La virtù è

per l’uomo sapere il valore di ciascuna cosa; virtù è per l’uomo riconoscere il giusto, l’utile, l’onesto

e il bene, il male, l’inutile, il vergognoso, il disonesto; virtù è conoscere un termine e un limite

all’accumulare; virtù è dare il giusto peso alle ricchezze; virtù è onorare ciò che veramente lo merita;

essere nemico e avversario degli uomini malvagi e dei costumi viziosi, e al contrario esaltare i buoni

uomini e i comportamenti virtuosi, stimarli, amarli, vivere al loro fianco; infine mettere al primo posto

gli interessi della patria, al secondo quelli dei nostri genitori, e solo al terzo ed ultimo posto i nostri

personali interessi.

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Le Satire di Orazio

Un programma poetico (e ideologico)

T1) Satire I 4

Eupoli, Cratino e Aristofane, questi poeti e gli altri autori della commedia antica, se uno meritava

d'essere messo alla berlina, perché furfante e ladro, adultero o assassino, o in ogni caso malfamato,

lo bollavano senza complimenti. Da questi in tutto deriva Lucilio, che ne segue l'esempio mutando

solo metro e ritmo: arguto, di fiuto sottile, ma duro nel comporre i versi. Questo appunto fu il suo

difetto: nello spazio di un'ora, come fosse gran cosa, dettava s'un piede solo duecento versi. Poiché

scorreva limaccioso, v'era zavorra che avresti voluto togliere: loquace, certo, ma insofferente alla

fatica dello scrivere, dello scrivere bene, intendo: della quantità io non so che farmene. Ecco che

cento a uno Crispino mi sfida: "Prendi le tavolette, se ci stai; le prenderò anch'io; fissiamo luogo, ora

e testimoni: vediamo chi di noi sa scrivere più versi". Grazie agli dei, che mi fecero d'animo modesto

e timido, di concise e pochissime parole: e tu imita fin che vuoi l'aria chiusa nei mantici di pelle che

soffia senza posa, finché il fuoco non fonde il ferro. Beato Fannio che divulga libri e ritratto di propria

iniziativa: i miei scritti invece non li legge nessuno, ed io non oso recitarli in pubblico, perché c'è chi

non gradisce il genere mio, visto che i più sono degni di biasimo. Scegline uno qualsiasi in mezzo

alla folla: se non è l'avarizia, lo tormenta una meschina ambizione. Uno perde la testa per le spose,

l'altro per i fanciulli; questo è sedotto dai bagliori dell'argento, Albio va in estasi davanti ai bronzi;

quello baratta merci in ogni luogo, da dove sorge a dove nel vespero intiepidisce il sole, e quasi non

bastasse, si lancia a capofitto tra i pericoli, come polvere sollevata da un ciclone, temendo di perdere

il capitale o tentando di accrescerlo. Tutti questi temono i versi e odiano i poeti. "Ha il fieno sulle

corna, fuggilo! Pur di strappare una risata, costui non risparmia se stesso e neppure l'amico; in più,

scarabocchiate le sue carte, smanierà che le conoscano tutti, schiavi e vecchiette, chi torna dal forno

o dalla fontana". Via, ascolta due parole in difesa. Innanzitutto io voglio togliermi dal novero di quelli

a cui darei il nome di poeta: non mi dirai che basta chiudere in ritmi un verso per essere poeta o che

sia tale chi come me scrive al limite della conversazione. Solo a chi ha genio, afflato divino e sublimità

d'espressione puoi concedere l'onore di questo titolo. Così alcuni si sono chiesti se la commedia sia

poesia o no, perché nel contenuto e nella forma le mancano forza e slancio d'ispirazione e se non

fosse per la regolarità del metro, che la distingue, non sarebbe altro che prosa. "Ma v'è pure il padre

che, acceso d'ira, s'inalbera se un figlio scioperato, persa la testa per una sgualdrina, rifiuta una moglie

ricca di dote e, ubriaco che è una vergogna, se ne va in giro con le fiaccole prima di notte". Credi che

Pomponio, se vivesse suo padre, subirebbe rimbrotti più lievi di questi? Non basta, dunque, costruire

un verso con parole comuni, che se le sciogli, chiunque avrebbe modo di adirarsi come quel padre

sulla scena. Se ai versi che vado scrivendo o a quelli che scrisse un tempo Lucilio, togliessi il ritmo

che regola i metri e sconvolgessi l'ordine delle parole, mettendo in fondo quelle dell'inizio e all'inizio

quelle del fondo, non troveresti del poeta, come se sciogliessi "dopo che l'orrenda discordia di guerra

infranse le porte e gli stipiti di ferro", che brandelli delle sue membra.

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Basta questo per adesso: un'altra volta, se si tratti o no di vera poesia; ora questo solo indagherò: se

questo genere di letteratura ti sia sospetto a ragione. Sulcio va in giro minaccioso e anche Caprio,

terribilmente rauchi e con le scartoffie in mano. Entrambi grande spauracchio per i malfattori. Ma se

uno vive onestamente e con le mani pulite, non si dia alcun pensiero di entrambi. Mettiamo pure che

tu rassomigli a due furfanti come Celio e Birro, io però non somiglio né a Caprio né a Sulcio: perché

dunque temermi? Nessuna bottega e colonnetta di libraio esponga i miei libretti né sudi su essi la

mano del volgo e di Ermogene Tigellio; io non recito per nessuno, fuor che per gli amici e soltanto

forzato, non dovunque e davanti a chiunque. Che recitano i propri scritti in mezzo al foro ce n'è molti,

molti anche ai bagni pubblici: ha un suono dolce la voce nei locali chiusi. Sono gli sciocchi che si

dilettano di simili cose, quelli che non si chiedono se non sia questo un agire insensato, se non sia

inopportuno. «Ci godi a recare del danno» mi dice «e lo fai di proposito, malvagio come sei». Dove

sei andato a prenderla quest'accusa che mi scagli contro? Chi insomma te l'ha imbeccata, di quelli coi

quali ho familiarità di vita? Chi rode l'amico alle spalle, chi non lo difende quando un altro lo attacca,

chi va in caccia di risa sfrenate e della fama di uomo mordace, chi è capace di inventare ciò che non

ha visto, chi non sa tenere il silenzio su quello che gli è confidato: costui è un'anima nera, da questo

sta' in guardia, cittadino di Roma. […] Se mi accadrà di dire qualche cosa con una certa franchezza o

motteggiando un tantino, questo dirittuccio me lo concederai e me ne darai licenza: quel galantuomo

di mio padre me l'ha insegnato, a fuggire i vizi facendomeli conoscere ad uno con gli esempi. Quando

mi esortava lui stesso a vivere con parsimonia e frugalità, contento di quel che lui stesso mi avesse

procurato: «Non vedi il figlio di Albio, che vita disordinata, e Baio, com'è ridotto in miseria? Grande

insegnamento a non voler dissipare il patrimonio paterno». Quando mi dissuadeva dall'amore

infamante per le cortigiane: «Non somigliare a Scetano». Perché non andassi dietro alle adultere,

mentre potevo servirmi dell'amore che è a disposizione di tutti: «Non è per niente bella la nomea di

Trebonio, colto sul fatto», così mi diceva. «Che cosa sia meglio evitare e che cosa cercare, il filosofo

te ne spiegherà le ragioni; a me basta, se riesco a conservare il costume tramandato dagli antichi e a

preservarti dai danni, finché hai bisogno di una guida, vita e reputazione; non appena poi l'età t'avrà

indurito corpo e l'animo, nuoterai senza sugheri» Così modellava con le parole il fanciullo che ero e,

se mi spingeva a fare una cosa: «Ce l'hai un esempio che t'incoraggi a fare così», e mi metteva davanti

uno di quelli scelti come giudici; oppure, se vietava qualcosa: «E tu hai dubbi che fare ciò sia

disonorevole e dannoso, quando questo e quest'altro avvampano di cattiva fama?». Come il funerale

del vicino mozza il respiro ai malati ingordi e la paura della morte li spinge ad aversi riguardo, così

spesso avviene che le vergogne altrui distolgano dai vizi gli animi teneri. Grazie a questo, io sono

sano dai vizi che portano rovina, mentre quelli che ho sono di poco conto, e veniali; e c'è caso che

anche di questi ne potrà eliminare parecchi l'età, la franchezza degli amici, il mio proprio giudizio:

né infatti, quando il lettuccio o il portico m'accoglie, io manco a me stesso. «Questo è più giusto. Così

agendo, vivrò più onestamente. In questo modo mi mostrerò gradevole agli amici. Quest'azione del

tale non è bella: potrebbe forse capitarmi un giorno di fare, anche senza intenzione, qualche cosa di

simile?» Questi pensieri fra me rimugino a labbra serrate; non appena mi si dà un po' di tempo libero,

mi diverto a buttar giù sulla carta. È questo uno di quei difetti di poco conto; del quale se non mi

vorrai perdonare, verrà un folto plotone di poeti a darmi man forte: siamo infatti di gran lunga

maggioranza e, come fanno i Giudei, ti costringeremo a passare fra i nostri.

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L’incontro con Mecenate

T3) Satire I 6

Non perché, o Mecenate, di quante genti di Lidia abitarono le terre etrusche, nessuno è più nobile di

te, né perché il tuo avo materno e il tuo avo paterno comandarono un tempo a eserciti grandi, non per

questo, come sogliono i più, arricci il naso ad uncino di fronte a chi è figlio di nessuno, come me, che

son nato da padre liberto. Quando dici che non importa da che genitore ciascuno sia nato, purché nato

libero, di una cosa a ragione tu sei persuaso: che anche prima del potere di Tullio e del suo regno

plebeo, non di rado uomini discesi da oscuri antenati vissero rispettati e furono anzi insigniti di cariche

importanti. […] Torno ora a me, figlio di padre liberto, che tutti rodono perché figlio di padre liberto,

ora perché, o Mecenate, sono tuo compagno di mensa, un tempo invece perché avevo ai miei ordini,

come tribuno, una legione di Roma. Una cosa, questa, chi somiglia poco a quell'altra, perché uno

potrebbe forse a ragione guardar di traverso una mia carica, ma la tua amicizia no, tanto più che tu

sei attento nell'ammettere soltanto chi è degno ed è lontano dalle storture dell'arrivismo. Non avrei

ragione di dirmi fortunato per questo, per aver avuto in sorte dal caso la tua amicizia; non è stata

infatti la fortuna che ti ha regalato a me; il buon Virgilio una volta e Vario dopo di lui t'hanno detto

chi io fossi. Quando ti venni davanti, poche cose io dissi, a singhiozzi (la soggezione mi legava la

lingua, m'impediva di dire di più): non che ero nato da padre famoso, non che mi facevo portare in

giro per le mie terre da un cavallo tarentino, ma quello che ero ti dico. Mi rispondi, come tuo costume,

poche parole; vado via e tu mi richiami nove mesi più tardi e m'inviti a essere nel numero dei tuoi

amici. Io la ritengo una cosa grande questa, esser piaciuto a te, che il sai distinguere l'uomo onesto

dall'indegno, non per la nobiltà di suo padre, ma per purezza di vita e di cuore. Eppure, se la mia

indole, per il resto diritta, è intaccata soltanto da difetti non gravi e non numerosi, come i nèi che tu

riprendessi sparsi qua e là in un corpo di egregia bellezza; se nessuno potrà, in buona fede,

rimproverarmi avidità, sordidezza o malfamati bordelli; se io vivo, tanto per lodarmi da me, puro e

senza colpe e caro agli amici, di tutto questo ha merito mio padre: povero del suo magro campicello,

egli non volle mandarmi alla scuola di Flavio, dove andavano i ragazzi, grandi figli dei gran

centurioni, astuccio e tavoletta sulla spalla sinistra, portando ogni quindici del mese gli otto assi di

retta; osò invece portarlo a Roma il suo ragazzo, perché fosse istruito nelle discipline che un qualsiasi

cavaliere o senatore fa imparare ai propri rampolli. Se uno avesse visto il mio vestito e i servi al mio

seguito, come si usa nelle grandi città, avrebbe creduto che i denari per quelle spese mi venissero dal

patrimonio degli avi. E poi, lui di persona mi stava a fianco, il più impeccabile degli istitutori, nel

mio giro fra un professore e l’altro. Perché tirarla lunga? Mi ha conservato, ed e questo il primo

ornamento della virtù, il senso del pudore non solo per le azioni, ma anche per le accuse infamanti; e

non aveva a temere che gli venisse fatta una colpa, nel caso che un giorno mi guadagnassi una paga

modesta facendo il banditore o, come lui stesso, l'esattore; né io mi sarei lamentato: ma oggi, per

questo, io gli devo un elogio e una riconoscenza più grande. Mai avvenga, finché sono sano di mente,

ch'io mi mostri, neanche un poco, scontento di un simile padre, mai dunque io abbia a cercarmi delle

scuse, come fa la più parte degli uomini, che dice non esser sua la colpa se non ha genitori nati liberi

e illustri.

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Assai diversi da questi sono, in me, e parole e pensiero: se infatti la natura, a partire da una determinata

età, ci facesse percorrere a ritroso il tempo trascorso e ci permettesse di scegliere, in ragione della

nostra vanità, altri genitori, ciascuno quelli che preferisce, e se io, contento dei miei, non volessi

prendermeli onorati di fasci e di seggi, pazzo certo sarei a giudizio del volgo, savio forse per te, per

aver rifiutato di caricarmi un peso molesto, cui avvezzo non sono. Subito infatti mi toccherebbe

cercarmi un patrimonio più grosso e avrei più gente b da salutare, dovrei portarmi dietro uno o due

accompagnatori, per non andarmene da solo in campagna o in viaggio, dovrei dar da mangiare a un

maggior numero di cavalli e lacché, viaggiare in carrozza. Ora, invece, nessuno mi vieta di andare

fino a Taranto se ne ho voglia, su un mulo castrato, cui il peso del bagaglio ulcera i fianchi e il

cavaliere le spalle: nessuno a me rinfaccerà la grettezza che rinfacciano a te, o Tillio, quando sulla

via per Tivoli hai al tuo seguito (tu un pretore!) cinque schiavi soltanto, che portano vaso da notte e

fiasca del vino. In questo, e in mille altre cose, io faccio vita più comoda di te, mio illustre senatore:

da qualsiasi parte mi viene voglia, me ne vado da solo, chiedo a quanto vanno legumi e farro, giro e

rigiro sovente fra gli imbroglioni del Circo e nel Foro di sera, mi fermo davanti agli indovini. Poi me

ne torno a casa, a una scodella di porri, ceci e frittelle. Tre garzoni a servire la cena, un piano di

marmo con sopra due coppe e una mestola, e accanto una saliera da poco, un'ampolla con il suo piatto,

tutta suppellettile campana. Quindi me ne vado a dormire, senza il pensiero che domani mi tocca

levarmi di buon mattino, andare verso la statua di Marsia, quello che dice di non farcela più a

sopportare la faccia del più giovane dei Novii. Sto a letto fino alle dieci; poi vado a spasso, oppure,

dopo aver letto o scritto in silenzio quello che mi va, mi ungo di olio, ma non di quello che Natta il

sudicione ruba alle lucerne. Poi però, quando il sole più pungente mi fa sentire la fatica e mi consiglia

di andare al bagno, lascio il Campo e il gioco della palla in triangolo. Pranzato che ho senza avidità,

quel tanto per non restare a pancia vuota l’intera giornata, me ne sto a casa a far nulla. È questa la

vita di chi è libero dall’ambizione che rende infelici e opprime. Ed io mi consolo a pensare che , in

questa maniera, vivo una vita più piacevole che se avessi avuto un questore per nonno e per padre e

per zio.

La misura delle cose

T2) Satire I 1

Come mai, Mecenate, nessuno, nessuno vive contento della sorte che sceglie o che il caso gli getta

innanzi e loda chi segue strade diverse? "Fortunati i mercanti", esclama il soldato oppresso dagli anni

e con le membra rotte da tanta fatica; "Meglio la vita militare" ribatte il mercante sulla nave in balia

dei venti, "Che vuoi? Si va all'assalto e in breve volgere di tempo ti rapisce la morte o ti arride la

vittoria". Quando al canto del gallo batte il cliente alla sua porta, l'esperto di diritto invidia il

contadino; quell'altro invece, tratto a viva forza di campagna in città a testimoniare, proclama che

solo i cittadini sono felici. Esempi simili, tanto son numerosi, finirebbero per rendere afono persino

un chiacchierone come Fabio. A farla breve, ascolta dove voglio arrivare: se un dio dicesse: "Eccomi

qui, pronto a fare ciò che volete: tu, ch'eri soldato sarai mercante, e tu, giurista, un contadino:

scambiatevi le parti e via, uno di qua, l'altro di là. Che fate lì impalati?". Rifiuterebbero eppure era

possibile che fossero felici. Non ha forse ragione Giove a sbuffare irritandosi con loro e a sancire che

d'ora in poi non sarà più tanto arrendevole da porgere orecchio a preghiere simili?

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Insomma, per non continuare negli scherzi, tal quale una farsa (per quanto, che cosa vieta di dire la

verità scherzando? Anche i maestri a volte con blandizie danno delle chicche ai bambini, perché si

decidano a imparare l'alfabeto; ma bando alle burle: pensiamo a cose serie), quello che sotto il peso

dell'aratro rivolta a fatica la terra, quest'oste imbroglione, il soldato e i marinai che in ogni dove

percorrono audaci il mare, a sentir loro si sobbarcano a tante fatiche con l'intenzione in vecchiaia di

ritirarsi a riposare in pace, una volta messo da parte il necessario: così la formica, minuscola ma

laboriosa (l'esempio è proverbiale), trascina con la bocca tutto quel che può e l'aggiunge al mucchio

che innalza, consapevole e previdente del futuro. Ma mentre lei, al volgere dell'anno che l'Aquario

intristisce, non esce più dal suo buco e, saggia, si serve delle provviste accumulate in precedenza, per

te non c'è torrida estate che possa distoglierti dal guadagno, né inverno, fuoco, mare o ferro, niente è

d'ostacolo perché nessuno mai sia più ricco di te. Che gusto provi a sotterrare di nascosto e pieno di

paura una caterva simile d'oro e d'argento? "Ma se l'intacchi, si ridurrà a un soldo bucato". E se ciò

non avviene, che ha di bello il mucchio raccolto? La tua aia ha trebbiato centomila moggi di grano:

non sarà per questo il tuo ventre più capace del mio; così se tra gli schiavi condotti al mercato toccasse

a te di trascinarsi in spalla il canestro del pane, non riceveresti nulla di più di chi non ha portato niente.

Dimmi che differenza fa, per chi vive entro i limiti della natura, arare cento iugeri o ararne mille?

"Ma è piacevole prendere da un mucchio grande". Lasciami attingere altrettanto a uno piccolo: perché

mai dovresti lodare i tuoi granai più di queste mie ceste? Come se tu avessi bisogno solo di una brocca

o di un bicchiere d'acqua e dicessi: "Preferirei riempirli a un grande fiume che a questo rigagnolo".

Sì, ma a chi fa gola una quantità maggiore al giusto, avviene che l'Aufido impetuoso se lo porti via

con parte della riva. Chi invece s'accontenta del poco che ha bisogno, non attinge acqua torbida di

fango e non perde la vita fra le onde. Eppure buona parte della gente, accecata da false brame: "Niente

è di troppo", dice, "perché quanto hai, tanto vali". Che vuoi fargli? Lascialo nella sua miseria, visto

che ci sta volentieri; come quel tale che, si racconta in Atene, spilorcio e ricco, era solito stornare così

le critiche: "La gente mi fischia, ma dentro casa, quando contemplo tutti quei denari nel forziere, io

mi applaudo da solo". Tantalo assetato cerca di suggere l'acqua via dalle sue labbra... Ridi? mutato il

nome, è il caso tuo: sogni a bocca aperta sui sacchi ammassati d'intorno e ti costringi a non toccarli

come fossero sacri o a goderne come dei quadri. Lo sai o no a cosa serve il denaro e l'uso che puoi

farne? Compraci pane, verdura, mezzo litro di vino e aggiungici anche ciò che, se viene a mancare,

la natura umana ne soffrirebbe. Forse vegliare mezzo morto di paura, è questo che ti piace? Temere

notte e giorno il flagello dei ladri, degli incendi o che i servi mettano a sacco la casa e poi fuggano?

Di beni come questi io vorrei proprio farne a meno. "Ma se, preso dai brividi, il corpo comincia a

dolerti o un altro accidente t'affligge a letto, hai chi ti assiste, chi ti prepara impiastri e chiama il

medico che ti rimetta in piedi e ti restituisca ai figli, all'affetto dei parenti". No, non ti vuole guarito

la moglie, non lo vuole tuo figlio; non ti può vedere nessuno, vicini, conoscenti, giovani e ragazze. E

ti meravigli tu, che avanti ogni cosa metti il denaro, se nessuno ti accorda quell'affetto che certo non

ti meriti? O forse pensi che perderesti il tuo tempo, se cercassi di tenerti i parenti, che per sorte la

natura ti ha dato, e serbarteli amici, come chi volesse addestrare un asinello a correre nel Campo

Marzio ubbidendo alle redini? E allora smettila con questa avidità: più ne hai e meno devi temere la

miseria; poni termine alla fatica, ottenuto ciò che agognavi, se non vuoi che t'accada come a quel tale

Ummidio.

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È storia breve: ricco al punto da contare i soldi a palate e così gretto da non vestirsi meglio di un

servo, temette sino all'ultimo di morire d'inedia. Ma ecco che una liberta, come la più forte delle

Tindaridi, in due lo spaccò con la scure. "Che mi consigli allora? Di vivere come Nevio o come

Nomentano?" Ti ostini a mettere di fronte cose che fanno a pugni: quando ti sconsiglio d'essere avaro,

non ti esorto a farti scioperato e scialacquatore. C'è pure una via di mezzo fra Tanai e il suocero che

ha Visellio: c'è una misura per tutte le cose, ci sono insomma confini precisi al di là dei quali non può

esistere il giusto. Torno al punto d'avvio: come mai nessuno, vedi l'avaro, è contento di sé e loda

invece chi segue strade diverse, si strugge d'invidia se la capretta del vicino ha mammelle più turgide

e, senza confrontarsi con la massa più povera di lui, s'affanna a superare questo e quello? Come

l'auriga, quando scalpitando i cavalli si lanciano coi cocchi oltre le sbarre, incalza quelli che lo

superano, sprezzando chi si è lasciato indietro e scivola in coda, così a lui che s'affanna sempre si

para innanzi uno più ricco. Ecco perché solo di rado s'incontra chi dica d'essere vissuto felice e, pago

del tempo trascorso, esca di vita come un convitato sazio. Ma ora basta; e perché tu non supponga

che abbia saccheggiato gli scrigni del cisposo Crispino, non aggiungerò una parola in più.

Un comune seccatore

T4) Satire I 9

Me ne andavo a spasso per la Via Sacra, come faccio di solito, meditando non so più su quali

sciocchezze e tutto immerso in quelle, quando incontro mi si fa un tale, che conoscevo soltanto di

nome, m'afferra la mano e: "Carissimo, come va?" "D'incanto, almeno per ora," gli rispondo,

"t'auguro ciò che vuoi". Poiché mi seguiva: "Forse vuoi qualcosa?" azzardo. E lui: "Dovresti

conoscermi," dice, "non siamo letterati?" "Se è così," gli faccio io, "mi sarai più caro". Cercavo

disperatamente di svignarmela, ora allungavo il passo, ora mi fermavo, sussurrando qualcosa senza

importanza nell'orecchio del mio schiavo, e intanto colavo sudore dalla testa ai piedi. "Beato te,

Bolano, che hai la testa calda", ripetevo a me stesso, mentre l'altro cianciava a ruota libera, tessendo

l'elogio dei rioni e dell'urbe. Visto che non fiatavo: "Tu hai una voglia disperata di andartene," mi fa,

"lo vedo da un pezzo; niente da fare: non ti mollo, ti seguirò dovunque. Dove mai sei diretto?" "Non

è il caso che tu faccia un simile giro: devo visitare un tale che non conosci; è a letto, lontano, oltre il

Tevere, vicino ai giardini di Cesare". "Non ho nulla da fare, e poi non sono pigro: t'accompagno fin

là". Abbasso le orecchie, come un asinello recalcitrante, quando si trova sulla groppa un carico troppo

pesante. E quello attacca; "Se mi conosco bene, so che non avrai cari Visco e Vario più di me:

dimmelo, chi può scrivere più versi in meno tempo? chi danzare con più grazia? e poi canto da fare

invidia anche ad Ermogene!" Era tempo di fermarlo: "Non hai una madre o dei parenti, che abbiano

a cuore la tua salute?" "Non ho più nessuno, li ho seppelliti tutti". "Beati loro! Ora resto io. Finiscimi:

un amaro destino mi sovrasta, quello che da ragazzo una vecchia sabina, scuotendo l'urna del futuro,

mi predisse: costui non lo stroncherà veleno mortale o spada nemica, né pleurite, etisia o blocco di

podagra; un giorno o l'altro lo porterà a morte un chiacchierone: eviti dunque in età le lingue

indiscrete, se avrà giudizio". Si era giunti al tempio di Vesta, ormai verso le dieci, e per fortuna quello

doveva comparire in tribunale avendo presentato garanzia: in caso contrario avrebbe perso la causa.

"Fammi il piacere," mi dice, "assistimi solo un attimo".

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"Mi prenda un colpo, se ho la forza di stare in piedi e se m'intendo di diritto: e poi devo affrettarmi

dove sai". "Sono in dubbio su che cosa fare" dice, "se lasciare te o la causa", replica. "me, me, non ti

pare?" "Non sia mai detto", fa lui e s'incammina per primo. Io, visto che è difficile combattere con

chi sa vincerti, lo seguo. "E con Mecenate," riprende, "come va?" "È uomo di poca compagnia, ma

che mente fina!" "Nessuno più di lui ha saputo prendere al laccio la fortuna. Ma tu avresti un aiutante

coi fiocchi a farti da spalla, se solo tu volessi presentargli quest'uomo: mi venga un malanno, se non

avresti soppiantato tutti". "Guarda che là non si vive, come tu credi: non vi è casa più pura o più aliena

da simili intrighi di quella; non mi fa certo ombra, ti ripeto, che qualcuno sia più ricco o dotto di me:

ognuno ha il proprio posto". "È straordinario, pare impossibile!" "Eppure è così". "Tu mi ecciti il

desiderio d'essergli vicino". "Basta che tu lo voglia: bravo come sei, lo conquisterai; è un uomo che

si lascia vincere, per questo rende difficili i primi approcci". "Non mi risparmierò: a forza di mance

m'ingrazierò i servi; e se oggi sarò messo alla porta, non mi darò per vinto; cercherò le occasioni

buone, l'aspetterò ai crocicchi, l'accompagnerò. Niente ai mortali ha dato la vita senza travagli".

Mentre quello parla, ecco che mi viene incontro Aristio Fusco, mio buon amico, che certo conosceva

bene quel tipo. Ci fermiamo. "Da dove vieni e dove vai?" chiede e risponde. Comincio a tirarlo,

stringendogli le braccia senza che reagisca, ammiccando con gli occhio gli faccio cenni, perché mi

cavasse dai pasticci. Ma quello sciagurato, ridendo faceva finta di non capire: la bile mi bruciava il

fegato. "Se non sbaglio, m'hai detto che volevi parlarmi di qualcosa a quattr'occhi". "Me lo ricordo

bene, ma te la dirò in un momento migliore; oggi è il novilunio ed è sabato: vuoi forse fare oltraggio

agli ebrei circoncisi?" "Non ho queste superstizioni", gli rispondo. "Ma io sì: soffro di certe debolezze,

come tanti. Abbi pazienza: te la dirò un'altra volta". Una giornata proprio nera doveva capitarmi!

Scappa il furfante e mi lascia sotto la lama. Fortuna vuole, che incontro a quel tipo gli venga

l'avversario urlando a gran voce: "Dove scappi, canaglia?" e a me: "Posso prenderti a testimone?" Io,

manco a dirlo, gli porgo l'orecchio. Lo trascina in giudizio; urla dalle due parti, gente che accorre da

ogni dove. E fu così che mi salvò Apollo.

Reazioni del pubblico al primo libro delle Satire

T5) Sermones II 1

ORAZIO C'è gente cui sembra ch'io sia troppo aggressivo nella mia satira e che tenda l'arco dell'opera

mia oltre quel che la legge consente; altri, invece, pensano che tutto ciò che ho composto sia privo di

nerbo e che versi come i miei mille al giorno se ne possono filare. Trebazio, prescrivimi tu cosa fare.

TREBAZIO Stattene quieto. ORAZIO Non fare più versi per niente, è questo che dici? TREBAZIO

Questo è il responso. ORAZIO Possa io di mala morte morire, se non sarebbe il partito migliore; il

fatto è che non mi riesce di dormire. TREBAZIO Per chi vuole un sonno profondo, tre nuotate al

giorno, spalmati di olio,' da una sponda all'altra del Tevere e, la sera, innaffiarsi ben bene il corpo di

vino schietto. Oppure, se proprio un così grande desiderio di scrivere ti trascina, osa cantare le gesta

vittoriose di Cesare, e molti premo alle tue fatiche riporterai. ORAZIO Io vorrei, Mio buon padre,

ma, le forze mi mancano; non è infatti da tutti descrivere irte di giavellotti le schiere e Galli morenti

per la punta spezzatasi in carne o il Parto ferito che scivola giù da cavallo. TREBAZIO Potevi però

scrivere della sua giustizia e del suo valore, come il saggio Lucilio fece con Scipione.

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ORAZIO Non mi tirerà indietro, quando la cosa verrà da sé; non sarà, se non a tempo opportuno, che

le parole di Fiacco richiamino l'attenzione e penetrino nelle orecchie di Cesare, uno che, se lo carezzi

maldestramente, si mette a riparo sferrando calci da ogni parte. TREBAZIO Quanto meglio questo,

che aggredire con versi maligni Pantolabo il buffone e Nomentano lo scioperato: ecco che ognuno,

allora, anche se non viene toccato, teme per se stesso e prende a odiarti. ORAZIO Cosa vuoi che ci

faccia? Milonio si mette a ballare, non appena il calore del vino è arrivato a colpirgli la testa e le

lucerne gli crescono di numero; Castore ha la passione dei cavalli, il suo gemello, nato dal medesimo

uovo, ha la passione del pugilato; quante migliaia di teste, tante migliaia di inclinazioni: io mi diletto

di chiudere le parole nel verso alla maniera di Lucilio, dite. Come a fedeli compagni, ai libri egli

soleva affidare i suoi segreti; né altrove ricorreva se le cose gli andavano male, né se gli andavano

bene: perciò avviene che tutta la vita di questo vecchio ci sta davanti agli occhi, come fosse dipinta

su un quadretto votivo». Seguo il suo esempio io, non si sa bene se Lucano o Apulo: infatti il colono

di Venosa ara i campi a cavaliere fra le due regioni, inviato qui, raccontano antiche storie, dopo che

ne furono cacciati i Sabelli, per questo scopo, che i nemici non potessero piombare addosso ai Romani

attraverso un territorio disabitato, fosse la gente d'Apulia o la Lucania bellicosa a scatenare la guerra.

Ma questo mio stilo mai attaccherà per imo anima viva e mi proteggerà come una spaia c usa nel

fodero; perché dovrei mettermi a sguainarla, finché sono al sicuro dall'attacco dei briganti? O Giove

padre e re, fa che quest'arma, riposta com'è, sia consumata dalla ruggine e che nessuno faccia del

male a me che non cerco che pace! Ma colui che mi avrà provocato (meglio non toccarmi, lo dico

chiaro) avrà di che piangere e diventerà la favola di cui si chiacchiera in tutta la città. […]

Saggezza e schiavitù: le contraddizioni di Orazio

T6) Satire II 7

“Da un bel po’ ti ascolto e vorrei dirti anch’io qualcosa, ma sono schiavo e ho paura”. “Davo?” “Sì,

sono Davo, schiavo amico del suo padrone e perbene… non troppo: puoi considerarmi longevo”.

“Coraggio, approfitta della libertà di Dicembre che i nostri padri hanno voluto: raccontami”. “Una

parte degli uomini gode sempre dei propri vizi e mira dritta allo scopo; una parte oscilla, ora cogliendo

il bene, ora schiava del male: così visse volubile Prisco, ora notato per i suoi tre anelli, ora con la

sinistra vuota, cambiando banda di porpora di ora in ora lasciando d’improvviso un palazzo per

nascondersi dove forse si sarebbe vergognato di uscire un liberto con un po’ di decoro; donnaiolo a

Roma, subito dopo studioso ad Atene, nato con sfavorevoli tutti i Vertumni che sono al mondo.

Volanerio il buffone, dopo che l’artrite gli ebbe giustamente storpiato le dita, assunse, pagandolo a

giornata, uno per raccogliere i dadi al suo posto e metterli nel bussolotto; più coerente nel vizio e

dunque meno infelice dell’altro che si affatica attorno a una fune ora tesa ora molle”. “Vuoi dirmi

dove vanno a mirare questi sproloqui, furfante, prima di notte?” “A te”. “In che modo, canaglia?”

“Lodi la sorte e i costumi della plebe in antico, ma se di colpo un dio ti ci riportasse, ti rifiuteresti, o

perché non pensi che quello che predichi sia davvero più giusto, o perché a difendere il giusto non

hai sufficiente fermezza e rimani attaccato al fango, per quanto cerchi di staccarne il piede.

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Quando sei a Roma vuoi la campagna, ma in campagna porti alle stelle la città. Se per caso nessuno

ti invita, lodi i legumi consumati in pace e ti dichiari contento di non andare altrove a far bagordi,

come ci andassi legato. Ma se Mecenate ti invita a cena all’ultimo minuto, ecco che sbraiti a gran

voce: ‘Nessuno che si sbrighi a portarmi il profumo? Siete sordi?’, e scappi via. Mulvio e i parassiti,

dopo averti mandato maledizioni irripetibili, se ne vanno. ‘Confesso – direbbe Mulvio – mi lascio

guidare dal ventre, protendo il naso verso l’arrosto: debole, vile e, se ci tieni, ubriacone. Ma tu, che

sei come me e forse anche peggio, devi proprio investirmi con aria superiore e occultare il vizio con

belle parole?’. E se ti dimostro che sei più stolto di me, che sono stato comprato per cinquecento

dracme, smetti di farmi gli occhiacci, tieni a freno le mani e la rabbia mentre ti insegno la dottrina

che ho appreso dal portinaio di Crispino: a te piace la moglie di un altro, a Davo una puttanella; chi

di noi due merita più la croce? Quando la natura aspramente mi sprona, la donna nuda che al lume

della lampada accoglie i colpi della mia coda tumida o, muovendo il culo, mi eccita sotto di lei supino,

mi manda via senza infamia e senza preoccupazioni, che un altro più ricco o più bello venga allo

stesso punto. Tu quando getti le insegne, l’anello equestre, l’abito romano, e da giudice diventi un

lurido Dama con il mantello che cela la testa imbevuta di profumo, non sei forse quello che simuli?

Entri impaurito, e tremi nelle ossa per la paura che lotta con la libidine. Che differenza c’è se vai

nell’arena impegnato per contratto a farti colpire dalle verghe e ferire di spada o, rinchiuso turpemente

nella cassa dove ti ha messo la serva, complice del peccato della sua padrona, tocchi con le ginocchia,

rannicchiato, la testa? Non ha forse il marito della matrona colpevole il potere di punire entrambi, ma

ancora più il seduttore? Non è lei che si traveste, che esce di casa, che sta di sopra, perché ha

paura di te, non si fida del suo amante. Consapevole accetti la berlina ed affidi al marito infuriato le

tue sostanze, la vita e la fama. Quando poi l’hai scampata, si pensa che imparerai per paura a stare in

guardia; invece cerchi l’occasione di rischiare di nuovo e morire mille volte schiavo! Qual è l’animale

che, scappato dopo aver rotto le catene, contro natura ad esse si restituisce? ‘Non sono un adultero’,

dici. E neanche io sono un ladro, se per prudenza lascio perdere i vasi d’argento; ma togli il pericolo,

e la natura senza più freni balzerà libera in giro. E tu sei il mio padrone, tu che cedi a tanti domini di

uomini e di situazioni, che, se anche fossi emancipato tre o quattro volte, non saresti mai libero dal

terrore meschino? Aggiungi un’altra cosa, non di minor peso di quanto ho già detto: se il servo di un

servo si chiama, secondo il vostro costume, vicario o compagno di schiavitù, per te io chi sono? Tu

che comandi a me, sei un servo infelice di altri che ti muovono come una marionetta, con fili esterni.

Chi è libero dunque? Il saggio, che comanda a se stesso, che non ha paura della povertà, della morte,

del carcere, che affronta da forte le passioni e disprezza gli onori, che è tutto in sé stesso, compatto e

rotondo, in modo che niente dall’esterno trova appigli nella sua superficie, e su di lui falliscono

sempre gli assalti della fortuna. Di queste qualità puoi riconoscerne come tua qualcuna? Una donna

ti chiede cinque talenti, ti vessa e ti butta fuori, t’innaffia di acqua gelida, poi ti richiama: sottrai il

tuo collo al turpe giogo, liberati e di’ ‘Sono libero’. Non puoi: un padrone crudele tormenta il tuo

animo, ti pianta gli sproni nel corpo sfinito, ti piega se recalcitri. E quando resti stupito di fronte a un

quadro di Pausia, pazzo, perché hai meno colpe di me quando, in punta di piedi, guardo le battaglie

dipinte con l’ocra o il carbone da Fulvio, da Rutuba, o Placideano, come se combattessero nella realtà,

colpissero e schivassero, muovendosi, i colpi?

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Ma Davo è un furfante e un perdigiorno, te invece ti chiamano giudice esperto e sottile di cose antiche.

Io sono un buono a nulla se mi faccio sedurre da una focaccia fumante; ma la tua grande virtù resiste

alle ricche cene? Perché cedere al ventre è più rovinoso per me? Io vengo percosso sulla schiena, ma

tu non sei meno punito quando cerchi leccornie che non si trovano a poco. Diventano amari i banchetti

smodati, e i piedi rifiutano di reggere il corpo corrotto. O forse è colpevole il servo che al buio scambia

lo strigile rubato con un grappolo d’uva, e chi vende il suo podere per compiacere la gola non è anche

lui un servo? Aggiungi che non riesci a restare un’ora assieme a te stesso, a far fruttare il tempo libero,

e come uno schiavo fuggitivo o un disertore, ti eviti, cercando nel vino e nel sonno di sfuggire alla

preoccupazione, invano; nera compagna, ti opprime, e se fuggi ti insegue”. “Datemi una pietra”. “E

che te ne fai?”. “Delle frecce!” “Quest’uomo è un pazzo o un poeta”. “Se non ti togli di qui in fretta,

raggiungerai gli altri otto al podere sabino”.

Vita di campagna e vita di città

T7) Satire II 6, 79-117

Si racconta che una volta un topo di campagna accolse un topo di città nel suo povero buco, un ospite

di vecchia data col suo vecchio amico, grossolano e attaccato alle sue cose, comunque tale da aprire

il suo cuore taccagno ai doveri ospitali. Perché farla lunga? Né gli fece risparmio di ceci tenuti da

parte nè di sottile avena, e portando con la bocca un acino secco, gli offrì dei pezzetti rosicchiati di

lardo, desiderando invano, con la varietà della cena, di vincere le ripugnanze dell’amico che toccava

appena ogni cosa con dente schizzinoso, mangiava il farro e il loglio, lasciando il meglio del

banchetto. Alla fine il topo di città gli disse: perché ti piace, amico, vivere in preda delle ristrettezze

sul dorso di un dirupo selvoso ? Vuoi preferire gli uomini e la città a queste selve incolte? Mettiti in

cammino, dammi retta, compagno, giacchè le creature terrestri vivono un’esistenza mortale e non c’è

nessuna via d’uscita o scappatoia dal destino, per il grande come per il piccolo. Perciò, caro, finchè è

possibile, vivi beato in mezzo ai piaceri, vivi memore di quanto tu sia di vita breve”. Queste parole

scossero il topo di campagna , infatti balzò leggero fuori dalla sua casa; poi entrambi percorrono il

cammino prefissato, vogliosi di insinuarsi di notte nelle mura della città. E già la notte era a metà del

corso, quando entrambi fermano i passi in un ricco palazzo, dove, dipinta di rossa porpora, una

tovaglia brillava sopra i divani d’avorio e dove erano rimasti molti avanzi da un grande banchetto che

giacevano da parte in canestri ammonticchiati. Dunque, quando il topo di città sistemò disteso sulla

tovaglia purpurea il topo di campagna, egli, con un vestito succinto, trotterella come fosse di casa e

porta in continuazione vivande e, come fanno i servi, adempie ai loro stessi doveri, pregustando ogni

piatto che porta. Quello, standosene sdraiato, si rallegra della sorte mutata, e per quelle squisitezze,

un gran sbattere di porte li fa saltare giù entrambi dal divano. Impauriti, correvano per tutta la sala da

pranzo e tremavano sempre più tramortiti, e l’alto palazzo rimbombò di cani molossi. Allora il topo

di campagna disse: questa vita non fa per me. Stammi bene: preferisco la selva, una tana al riparo da

molti pericoli.

Esopo, Fabulae

Un giorno il topo di città andò a trovare il cugino di campagna. Questo cugino era di modi semplici

e rozzi, ma amava molto l'amico di città e gli diede un cordiale benvenuto. Lardo e fagioli, pane e

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formaggio erano tutto ciò che poteva offrirgli, ma li offrì volentieri. Il topo di città torse il lungo naso

e disse: - Non riesco a capire, caro cugino, come tu possa tirare innanzi con un cibo così misero ma

certo, in campagna non ci si può aspettare di meglio. Vieni con me, ed io ti farò vedere come si vive;

quando avrai trascorso una settimana in città, ti meraviglierai di aver potuto sopportare la vita in

campagna! Detto fatto, i due topi si misero in cammino e arrivarono all'abitazione del topo di città a

notte tarda. - Desideri un rinfresco, dopo un viaggio così lungo? - domandò con cortesia il topo di

città; e condusse l'amico nella grande sala da pranzo. Qui trovarono i resti di un ricco banchetto e si

misero subito a divorare dolci, marmellata e tutto quello che c'era di buono. Ad un tratto udirono dei

latrati. - Che cos'è questo? - chiese il topo di campagna. - Oh, sono soltanto i cani di casa - rispose

l'altro. - Soltanto! - esclamò il topo di campagna. - Non amo questa musica, durante i pasti. -In

quell'istante si spalancò la porta ed entrarono due enormi mastini: i due topi ebbero appena il tempo

di saltar giù e di correre fuori. - Addio, cugino - disse il topo di campagna. - Come! Te ne vai così

presto? - chiese l'altro. - Si - replicò il topo di campagna: "Meglio lardo e fagioli in pace che dolci e

marmellata nell'angoscia."