La riga rossa
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Le parole scritte dallʼamico Livio Comisso raccontano il suo percorso di vita, partendo da un fatto che diventa per lui una sorta di nemesi, intesa come concetto fondamentale dell'equilibrio inalterabile della conditio humana. Nell'antica Grecia, Nemesi era una Dea che assegnava agli essere umani la propria sorte secondo criteri di equità e di merito, e sui quali ricadeva poi la sua punizione per le colpe, da essi commesse, che avessero modificato questo equilibrio. Tali punizioni, tuttavia, servivano anche a ripristinare quellʼequilibrio spezzato, riportando il destino alla giusta armonia. E questo è esattamente il modo in cui Livio ha vissuto il suo dramma personale, riuscendo a comprenderlo e ad elaborarlo volgendolo in positivo. Tutto questo viene narrato attraversando i ricordi e le contraddizioni di una generazione di creativi, nata tra gli anni ʻ50 e ʼ60, che sognava il cambiamento attraverso lʼarte. Questa generazione ha visto scorrere davanti ai propri occhi eventi che hanno lasciato un segno indelebile nella storia, come la ripresa economica e sociale del dopoguerra, in bilico tra utopia e speranza di un destino migliore, il Muro di Berlino, la guerra del Vietnam, la conquista dello spazio, il ʼ68, gli anni di piombo del terrorismo e della lotta armata, la questione medio-orientale, le guerre in Iraq e nella ex-Yugoslavia, solo per citarne alcuni. In campo culturale, abbiamo assistito a rivoluzioni epocali, nella musica come nella letteratura e nella pittura. Ma siamo riusciti a cogliere la grande opportunità di costruire una società migliore, essendo stati testimoni diretti ed imparando da questi avvenimenti, o siamo piuttosto una generazione senza qualità, per dirla alla Musil, fatta da individui incompiuti che vivono nellʼillusione
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dellʼarte, avendo sostanzialmente fallito il nostro compito in una realtà da cui saremmo i primi a voler fuggire? I nostri genitori hanno combattuto a mani nude per dare un senso al nostro futuro e noi, che ci riteniamo furbi, abbiamo lasciato che tutto svanisse nello spazio di un mattino, lasciando ai nostri figli un vuoto culturale che fa paura. Ci riconosciamo a vista… siamo quelli che custodiscono gelosamente i vinili dei Genesis, dei King Crimson, di Jimi Hendrix, siamo i quaranta-cinquantacincinquenni i cui figli hanno visto nei loro genitori il fallimento umano di una generazione di idealisti che hanno rincorso visioni utopiche del mondo, facendo terra bruciata attorno ad ogni speranza. Scorrendo le pagine di questo libro ho avvertito la vaga sensazione di aver perduto il nostro Tempo, nel senso che lo stato di inquietudine creativa e le energie dissipate da un intera generazione abbiano fatto in modo che la nostra epoca ci sia sfuggita dalle mani. Livio, attraverso la sofferenza, ha capito che non dobbiamo più sprecare talento, impegno, intelligenza e cultura e sta trasformando la sofferenza in nuove opportunità di vita. La metafora della riga rossa, che la maestra usava a scuola per evidenziare gli errori, viene da lui utilizzata per darci una chiave di lettura, una chiave tanto semplice e banale quanto efficace e preziosa: traiamo insegnamento dai nostri errori e non permettiamo che la nostra sia ricordata come una generazione che conosce solo se stessa.
(Marina Tuni)
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Il Moleskine…il taccuino di appunti preferito da
Hemingway, (un gradito regalo di Paola) con la sua carta
leggermente giallina, perfetta per ricevere la biro, mentre
scrivo questi appunti, la mente rincorre ricordi evocati via
via da frasi che ritornano.
Basta una parola per aprire un capitolo, come fosse un
rubinetto per innaffiare lʼorto, con il rigagnolo dʼacqua che
cerca la sua strada.
La storia che voglio raccontare è quella di un passaggio
di vita che mi ha fatto vedere le cose con unʼaltra
prospettiva.
Una malattia che si manifesta allʼimprovviso, il
ribaltamento dei valori e la “riga rossa” con la quale tiri le
prime somme della tua vita.
Il Moleskine di Hemingway mi fa ricordare una curiosità:
quando ero ragazzo, durante le vacanze estive,
racimolavo qualche soldo dipingendo stanze o interi
appartamenti. Ebbene, unʼ estate ero a Gorizia in uno
stabile dʼepoca e davo una “mano” di bianco ad un
grande stanzone, quando la proprietaria mi disse: “…sai
che in queste stanze cʼè passato Hemingway?
Questo era un ospedale militare e lui, ferito, ha
soggiornato proprio qui e tra queste mura ha scritto il suo
Addio alle armi…”
Hemingway lʼho incrociato ancora una volta a Key West,
in Florida, dove ha vissuto in una casa che ora è meta
turistica.
È una casa bianca con le inglesine e, tutto intorno, un
prato verdissimo e curato.
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Allʼinterno, il sapore dei ricordi, con foto e scritti alle
pareti.
Fuori dalla casa, diversi gatti, tutti belli.
I gatti a Key West sono una presenza costante; ogni sera
cʼè la festa del tramonto: centinaia, forse migliaia di
persone si radunano sulle banchine del porto.
Ci sono giocolieri, mangiafuoco, trampolieri e tutti i
personaggi più strani e inimmaginabili che cercano unʼ
offerta.
Cʼè anche un ammaestratore di gatti.
Avvicina qualche esemplare che dorme, attira intorno a
se tutti i turisti curiosi che può e poi fa finta di
addormentare il gatto.
Nel caso che la bestiola si svegli e se ne vada, fa credere
che è stato lui ad ordinare al felino di andarsene.
È un gioco che fa ridere i presenti e guadagnare qualche
spicciolo al “domatore”.
Le navi da crociera (quelle più belle costruite a
Monfalcone) attraccano con estrema precisione e velocità
deponendo sul molo, come fossero uova di tartaruga,
centinaia di turisti tutti uguali, americani, che in file
ordinate si dirigono verso qualche punto di osservazione.
Guardano il sole che scompare allʼorizzonte, risalgono
sulla nave come su un autobus, e questa, con altrettanta
velocità e precisione, salpa per le Barbados…
Il sole è lo stesso, lo spettacolo anche, ma il sentimento
del guardare, probabilmente no.
Vedere le cose da unʼaltra prospettiva è, in fin dei conti,
ciò che il nostro professore di disegno dal vero, Agostino
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Piazza, ci insegnava giornalmente.
Guardare le cose con altri occhi, ribaltare il punto di vista,
osservare attentamente anche i particolari più
insignificanti.
Era un uomo mingherlino, con la barba e la voce flebile,
gli occhi curiosi di un bambino e le mani che inseguivano
le sue parole.
Ci portava fuori dalla scuola, come i bambini delle
elementari, alla ricerca di un posto adatto ad essere
ripreso in qualche schizzo veloce o di qualche architettura
particolarmente affascinante di Gorizia.
Talvolta anche un sasso era analizzato nella sua forma e
colore.
Diventava così opera dʼarte, posto in evidenza come nel
movimento Ready-made.
Il guardare le cose con unʼaltra ottica mi accompagna da
quel tempo.
È stata una grande lezione di vita perchè mi ha permesso
di vivere certi momenti in maniera “distaccata” o con altri
occhi.
Per esempio, ho visto la mia malattia come un drago da
sconfiggere in un epico duello.
Lʼavevo detto a Piera, la conduttrice di un corso di
scrittura creativa a cui avevo partecipato qualche mese
prima, dove si prendeva spunto dalle fiabe per poi
lavorare su noi stessi e sui nostri processi creativi.
In un messaggio, Piera mi invitò ad andare nella mia città
natale a cercare un luogo che mi ispirasse, e assorbirne
lʼenergia: “è per i tuoi reni” - disse.
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Come se si trattasse di una fiaba, credetti subito a quel
messaggio, anche perchè Piera era una persona che,
come me, andava “aldilà” delle cose, alla ricerca della
nostra energia cosmica.
Così decisi di seguire il suo consiglio.
Stavo entrando nella città stellata di Palmanova, in un
pomeriggio assolato di luglio, attraverso una delle sue
storiche porte.
Dovevo cercare un punto che mi risultasse familiare o
quantomeno mi ispirasse qualcosa.
Poteva essere un angolo, un arco o una fontana,
qualsiasi cosa che attirasse la mia attenzione e lo
rendesse in qualche modo familiare.
Ero nato in questa città solo perché qui cʼera lʼospedale,
in un tempo in cui tutte le donne partorivano in casa e
solo le “privilegiate” si potevano permettere tutte le
assistenze di sala parto.
Lo scooter sembrava cercare anche lui qualcosa di
particolare e per il momento trovammo solo lʼombra di un
parcheggio vicino al Duomo, in piazza.
Forse allʼinterno avrei trovato qualcosa.
La chiesa, in quel pomeriggio caldo, stranamente non
attirava nessuno, nemmeno con le sue navate fresche e
ampie.
Cʼerano due studenti che osservavano attentamente gli
affreschi del coro, leggendo alcuni cartelli descrittivi degli
autori. Li seguii a ruota, scoprendo così che alcune opere
erano del ʻ600 e che gli affreschi più grandi, di epoca più
tarda, erano stati eseguiti da un pittore di maniera, che
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aveva lavorato molto in regione e anche nel santuario
della Beata Vergine della Marcelliana a Monfalcone.
Mi venne in mente un giro artistico che feci molti anni
prima con un mio compagno di classe, Lucio Zambon.
Girammo per il Friuli osservando opere quasi sconosciute
ma piene di fascino.
Come se avessimo intuito qualcosa, visitammo molte
chiese che lʼanno successivo crollarono o furono
danneggiate dal Terremoto in Friuli del ʻ76.
Osservavo attentamente tutti gli angoli della chiesa, le
splendide vetrate decorate, gli altari in legno,
lʼostensorio... poi decisi di uscire.
Sulla porta principale mi colpì, in alto, una decorazione in
vetro che raffigurava una bilancia, il mio segno zodiacale.
Era una bilancia del tipo usato dai farmacisti, con i due
piatti: sul piatto a destra cʼera un cuore rosso fuoco,
sullʼaltro un elemento poco chiaro, una lettera… e sotto
una spada che sorreggeva tutta la figura. Stetti parecchi
minuti ad osservare questo simbolo, certo che era ciò che
dovevo cercare.
“Quella energia è per i tuoi reni...” mi ripetei.
Cinque giorni dopo, dallʼospedale, finito un esame
terribile, mandai un sms a Piera: “devo combattere contro
un Drago maligno che si porterà via un rene. Ma ho un
cuore che ha voglia di emozioni e la spada dellʼArte...”.
Non ci avevo pensato, ma avevo inserito nel messaggio i
due elementi della bilancia, il cuore rosso e la spada...
Piera mi rispose subito con un messaggio pieno di amore
che feci leggere a Emanuela, la mia amatissima
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compagna, che mi chiese: ”quale lettera cʼera sullʼaltro
piatto della bilancia?”
“Sembrava una T...” - le risposi rabbrividendo; avevo
avuto lʼesito degli esami quel giorno a Palmanova, ma
non me ne ero accorto subito.
Ora dovevo subire un esame medico piuttosto
complesso, per stabilire una diagnosi certa su alcuni
sintomi che avevo da alcuni mesi e lei, amorevolmente,
mi dava consigli.
I giorni seguenti furono un susseguirsi di messaggi
telefonici e di telefonate di sostegno.
Iniezioni di energia.
La vetrata sulla facciata del Duomo di Palmanova
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Era la prima volta in vita mia che andavo allʼospedale ed
avevamo deciso (Manu ed io) di affrontare la cosa con
spirito combattivo, positivo ed anche con un pizzico di
ironia.
Arriva la vigilia dellʼintervento. Manu ed io siamo in una
bella camera con aria condizionata, in compagnia di un
signore anziano di Udine che ci racconta lʼavventura della
sua TAC.
In mattinata il disbrigo di formalità quali colazione (lʼultima
prima dellʼintervento) e la rasatura.
Mi sembrava di essere un porco disteso sul lettino,
mancava lʼacqua bollente e non mi avevano ancora
scannato!
Lʼinfermiere, molto meticolosamente, rade in senso
orizzontale la mia trippa, arrivando alle palle. “Che lavoro
del cazzo!” - gli dico con comprensione - “...eeh, toca
anche questo!” - mi risponde, forse con una punta di
rammarico perchè sono un uomo e non lʼinfermierina
mora che zampetta in corridoio. “Poi passeremo per il
consenso da firmare.”
”Consenso per che cosa?”
Ah, ho capito, si tratta di questo: fuori della sala
operatoria ci sono 3 o 4 gabbie ognuna con un gatto
dentro. Sono i mici dei chirurghi e ce nʼè uno anche
dellʼanestesista (è quello dal pelo rosso). Bisogna dare il
consenso per dar da mangiare il rene asportato a uno o
allʼaltro micio!
Il chirurgo, quando taglia lʼorgano, chiama con il classico
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richiamo per gatti, che corrisponde al bacino con
risucchio. A questo punto si apre la gabbia del fortunato,
che se ne scappa in corridoio con lʼambìto trofeo. Gli altri
mici aspetteranno un altro intervento, magari in
pneumologia visto che vanno ghiotti anche per il
polmone!
Ci siamo fatti una risata in corridoio, così esplosiva che
un gruppo di medici ed infermieri si è girato mormorando:
“ma quel rosso lì, sa cosa lʼaspetta?”
Io so che mi operano in laparoscopia (quindi con tre buchi
sulla pancia) e subito mi viene in mente una foto di
Maurizio Frullani su San Sebastiano trafitto dalle frecce.
Potrei posare io: i buchi li ho, non servirebbe tanto
trucco... sarei anche “magro” giusto!
Beh, vedremo; per le foto cʼè tempo.
Mi ha telefonato Teddy Reno: “Anche tu sei del Club? Il
Club degli sderenati!”. Quota associativa 100 euro che
comprende la tessera, una bottiglia di Riesling Renano,
una gita in barca sul Reno. Ma se mi tagliano il fegato?
Gita a Venezia!
Arriva lʼora del beverone per rendere immacolato
lʼintestino. Trattasi di 2 litri di soluzione allʼaroma non ben
definito ma che quando, dopo diversi anni, ti trovi in un
bar a bere cocktail con quel sapore, chiedi subito: “Dovʼè
il bagno?”
Il water mi accoglie a “braccia” aperte, sapendo che ci
vedremo spesso nelle prossime ore.
A me farà piacere quando lo vedrò dopo lʼintervento.
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Intanto ho scoperto che il mio anziano compagno di
stanza è lʼarchitetto capostipite di uno studio associato,
figlio, figlia & co.
Il figlio, in effetti, poteva essere architetto, visto il senso
pratico vicino allo zero dimostrato dal padre per aprire
una confezione di fette biscottate.
Prontissima la reazione di Manu che si è prestata ad
aprirle, ben sapendo che altrimenti avremmo fatto notte
con quella colazione. Il figlio, da par suo, con un borsello
a tracolla assicurato ad una catena che non si capisce
dove vada a finire, è un tipo di quelli a cui non chiederesti
mai aiuto, di nessun tipo.
Un attimo che vado al bagno... Eccomi. Due etti
abbondanti in meno!
Ma il drago è ancora lì, tra il rene e la vescica, pronto a
uscire e a farmi vedere i sorci verdi.
Intanto gli faccio vedere un passaggio ininterrotto di
diarrea, comprendente una dose di brodo di pollo che non
è riuscita nemmeno a farsi vedere dallʼintestino… subito
via, nel condotto fognario!
Sembrava di essere allʼAquasplash a Lignano, entri nel
serpentone e ne esci, senza aver capito niente, dieci
secondi dopo, espulso con grandi spruzzi di acqua...
Ho attivato il mio “SALVAVITA”, una giusta dose di sano
egoismo e ironia accompagnata da tutta la voglia di
vivere possibile; è un aggettivo di Manu ma
assolutamente azzeccato. Nulla dovrà distogliermi dalla
voglia di recuperare e vivere.
Come lo chiamo? E rimasto con me per 53 anni, fin
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dallʼinizio, ottimo servizio, insieme al fratello gemello, con
un lavoro a volte massacrante e magari con qualche
infreddatura ma sempre lì, a sinistra. Mi mancherai... ma
come ti chiamo? RENÈ!
È il giorno della battaglia, mi sento bene e pronto al
combattimento. Il drago sta ancora dormendo...
“Amore, i pantaloni sono leggermente lunghi?” È la Manu
che si è fatta accorciare un paio di pantaloni alla
pescatora; sua mamma ha deciso quanto accorciare,
nonostatante le misure prese insieme e adesso le braghe,
secondo Manu, sono un poʼ lunghe...
che braghe ha il drago?
Ore 8.30.
Arrivano i dottori, primario, secondario, apprendisti,
praticanti, ecc.
In tutto una quindicina di persone, tanto che nella stanza
non entran tutti.
Il primario (lo dice la parola stessa) guarda per primo la
cartella clinica sulla sponda del letto, commenta,
diagnostica, pontifica e tutti quanti, attenti, ascoltano il
verbo; solo lʼultimo dottorino con gli occhiali, magro, in
fondo, che non è riuscito neanche ad entrare e non ha
sentito niente, chiede, si informa, ma ormai il primario ed
il suo staff sono nellʼaltra stanza. È in ritardo perenne di
un paziente e talvolta confonde le diagnosi con la
patologia. Avrà vita dura!
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Ore 9.30. (Appunti di Manu)
Esce dalla stanza sul letto spinto dallʼinfermiera, mi
manda un bacio e dice: “Tien de ocio i gati!”
Ore 18.00.
Esce dalla sala operatoria è stremato e pallido ma riesce
ugualmente a dire qualche flebile battuta.
Ore 20.50.
Telefona la Giulia, il tuo amore, ti manda un grande,
grande, grande bacio. Non te lo dico perchè stai male. Lo
leggerai domani...
Mi sembra di essere nudo, in un groviglio di filo spinato, al
freddo e al buio.
Non è una bellissima sensazione ma passerà.
Il drago mi ha procurato diverse cicatrici; ho la spada
insanguinata, lʼarmatura ammaccata, ma sono qui, a
pensare.
Capisco gli animali quando stanno male, rimangono
immobili per giorni, fino a che il dolore si dipana e torna la
vita.
Sono sforacchiato dai tubi: due per il drenaggio, il
catetere, lʼalimentazione sul polso e una sonda gastrica
che entra dal naso.
Non succede mai, ma questʼultimo tubicino è risalito
dallʼesofago e si è attorcigliato con uno o due cerchi alla
lingua.
Comincio ad avere dei conati che mi procurano un dolore
acuto a tutto il corpo, poi, sollecitata, arriva una
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dottoressa che si accorge che sto soffocando e ordina all’infermiera di togliere (con movimento deciso) il sondino dal naso. È stato il momento più terribile di tutta l’avventura. Non deve essere stato un bel momento neanche per il mio compagno di stanza che doveva essere operato il giorno dopo e che ha assistito alla scena. Gian ed io siamo diventati amici dopo questa avventura. Un’ amicizia vera, perché nata senza condizionamenti. Eravamo entrambi vulnerabili, nudi di fronte alla vita o alla morte, e questo ci ha unito con un filo robustissimo che è dentro di noi. Il drago era sconfitto, ma con quali dolori... Eppure non c’è un momento di disperazione o abbandono; sento un’energia, che viene da lontano, che mi avvolge e protegge. Ho Manu vicina, che soffre con me ma che mi regala una forza inimmaginabile. C’è anche mio fratello, preoccupato, vicinissimo come mai in questi anni. La nostra storia fatta di separazioni lunghe, ma anche di periodi di avvicinamento intensi, avrebbe potuto avere diversa fortuna, ma, tant’è... “Siamo sempre stati precari nei luoghi dove abbiamo vissuto..” - mi dice in un momento di riflessione, dove entrambi ci confessiamo. Avremmo potuto raggiungere qualsiasi obiettivo nella vita, se non fosse stato per il DNA compromesso da esodi, spostamenti, fughe. Dapprima i nostri genitori, con l’esodo degli istriani, che se ne vanno dal paese dov’erano considerati dei “signori”, portandosi via quel poco che si poteva, lasciando casa, negozio, campagna, cisterna, cuore... per andare in Friuli,
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in un paese scelto su una improbabile cartina geografica dove, ipoteticamente, gli eserciti non sarebbero transitati... e invece… Rimettere in piedi un’attività, vivere di lavori precari, poi l’incontro di nostro padre con Dolores (un nome atipico per una friulana), il matrimonio, il breve ritorno in Istria, la fuga definitiva con mio fratello in braccio. Una donna con le palle, nostra madre. Aveva caricato su un camion tutte le masserizie possibili ed impossibili (un torchio per l’uva ed altri attrezzi) che erano vietate. La Milicija iugoslava obbligava a lasciare tutto nella casa in Istria. Ma Dolores aveva caricato il camion e alla frontiera, all’intimazione di scaricare tutto per i controlli, aveva assalito il “graniciaro” con la frase: “Se volete controllare, scaricate voi e poi rimettete tutto a posto.” Aveva mio fratello Licio in braccio e probabilmente questo le dava la forza di un animale che protegge il suo cucciolo con tutta la determinazione necessaria. Ci ha raccontato più volte, negli anni, la sensazione liberatoria e di enorme felicità che le ha provocato l’alzarsi di quella sbarra di confine, linea di demarcazione tra l’oppressione e la libertà, tra il passato ed il futuro, con un figlio e una famiglia che comunque se la sarebbero cavata. Una sera a cena, parlando di questo episodio con Licio, mi dice che per tutta la vita ha avuto uno strano rapporto con le auto o i veicoli di color verde. Quel verde non ben definibile tra il verde ringhiera e il verde marcio tipico dei veicoli dell’est. Poi nella sua mente si è palesato un ricordo: quel camion che lo ha portato via dall’Istria era verde… Dopo aver concluso le scuole elementari e quelle medie, un po’ in un collegio, un po’ in un altro, aveva deciso di
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frequentare l’Istituto Nautico a Trieste... di nuovo in collegio e di nuovo un allontanamento. Quando ci capitava, raramente, di dormire assieme, mi diceva che lui sarebbe partito per mare: sognava d’imbarcarsi e navigare. E così fece. Il suo primo imbarco fu su una barca di legno che trasportava bauxite dall’Istria a Porto Nogaro, il paesino dove a quel tempo abitavamo. C’erano delle cave vicino a Gimino, la bauxite veniva poi imbarcata a Rovigno, arrivava a Porto Nogaro e finiva il percorso in qualche industria veneta che ne estraeva l’alluminio. Lui dormiva in un’angusta cuccetta, sistemata a prua, molte volte invasa dall’acqua... ma era felice. Più avanti si sarebbe imbarcato sulle più grandi petroliere del mondo, ricoprendo il grado di direttore di macchina. Avrebbe girato il mondo, dimenticandosi velocemente quel paesino di trecento abitanti con un piccolo porto! Lui aveva (ed ha) il mare dentro, la barca, il navigare, forse la fuga. Con i primi soldi degli imbarchi, aveva deciso di farsi costruire la prima “batela”, un barchino in legno di 4 metri e con fondo piatto, tipico della navigazione fluviale e lagunare. Aveva contattato un “costruttore” del paese, molto abile, procurato il legname, e incominciato la costruzione. Io assistevo qualche volta alla sagomatura dello scafo, che comprendeva la lavorazione e la piega delle assi di legno a fuoco vivo, fino a portarle alla forma voluta. Dopo che lo scafo era pronto, si passava all’impermeabilizzazione, con catrame dall’odore improbabile quasi quanto il nome: carbulineo. Infine la pitturazione: celeste, bellissima. Ho rivisto il suo sorriso di quel varo degli anni ‘60, esattamente quando ha comperato uno sloop d’epoca,
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qualche anno fa. E anche qui una fuga, più “matura”, più avvincente e più fascinosa. Una splendida barca a vela in legno con la quale, penso, abbia passato alcuni anni come voleva. Siamo ritratti, lui ed io, in un volume sulle barche partecipanti alle regate d’epoca di Imperia. Ed è una foto, scattata nel Golfo di Trieste, una delle poche foto che ci ritrae insieme, come vorremmo che fosse sempre. Quando era ragazzo, sognatore di grandi viaggi, mi accompagnò nel piccolo porto dov’era ormeggiata una splendida barca a vela in legno, un dragone (allora non era d’epoca), senza cabine, con la coperta liscia. Aveva una linea splendida, quella che si ritrova spesso nelle riproduzioni di mezzo scafo che si appendono nei salotti. La guardava estasiato e allo stesso tempo pensava che un giorno l’avrebbe posseduta. Mi disse anche che lui ed io saremmo arrivati in quel porticciolo natio, risalendo il fiume con la sua barca. Era bello quel fiume con le sue anse piene di vegetazione. Nasceva a pochi chilometri da quel porto, si allargava dapprima in un piccolo cantiere navale, specializzato in chiatte e rimorchiatori, poi sulle banchine dove si ormeggiavano le navi mercantili e dove arrivava anche la ferrovia. Quindi, lentamente, sempre più ampio, arrivava al mare, in laguna. Quando c’era la festa del paese, la prima domenica di agosto, la processione della Madonna della Neve avveniva risalendo il fiume con un rimorchiatore, dove era collocata la statua della Vergine tutta illuminata. Verso la sorgente del fiume si accendevano lumini galleggianti, a centinaia, tenendo conto dei tempi di percorrenza e della corrente. Così il rimorchiatore, seguito da tante “batele” festanti,
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incrociava, al tramonto e contro corrente, tutti quei piccoli fuochi proprio davanti al porto, dove i fedeli aspettavano la Madonna. Era, senza dubbio, una serata speciale, alla quale ho assistito da una posizione privilegiata: sul ponte del rimorchiatore.
Ebbene, anni più tardi mio fratello, il papà ed io risalimmo il fiume con la barca a vela, che assomigliava moltissimo a quella ormeggiata trentʼanni prima. Fu una conquista perchè, comunque, un sogno si era realizzato. Con quella barca intraprendemmo, qualche tempo dopo, la circumnavigazione dellʼItalia.
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Partimmo un venerdì Santo, da Lignano.
Lʼequipaggio era composto dal capitano Licio, uno
skipper, Aldo, proveniente dal Tirreno, dal Capitano in
seconda, Tomas e dal cuoco/mozzo che ero io.
Tomas fece una promessa perentoria: “Si naviga facendo
la rotta solo con il sestante, sarà più avventuroso ed
avvincente.”
Io, da parte mia, avevo fatto le provviste per una decina di
giorni ed ero pronto per sfamare la ciurma. Licio e Aldo
erano i tecnici/tattici e quantʼaltro!.
Mio fratello aveva anche acquistato un GPS, (per quegli
anni, uno strumento allʼavanguardia), che aveva
sistemato, rigorosamente imballato, in un gavone.
Si va... rotta su Ravenna, arrivo previsto: boh!
A nemmeno tre ore di navigazione il mare ingrossa, il
vento si rafforza, diamo due mani di terzaroli, via il fiocco.
Tomas sta male, Licio pure, Aldo anche.
Lʼunico pimpante è il cuoco/mozzo che. dopo un
brevissimo indottrinamento, si ritrova a timonare in piena
burrasca notturna, seguendo un numero sulla bussola.
Ma se questo è lʼinizio dellʼavventura...
Viste le previsioni meteo, il mal di mare, il sestante, ecc.
decidiamo, dopo una notte di tregenda, di ritornare a
Lignano allʼalba del giorno di Pasqua.
Fine del viaggio, senza aprire nemmeno una scatoletta di
tonno...
Negli anni a seguire navigherò con Licio in Tirreno, nei
raduni di barche dʼepoca, attraverserò lo stretto di
Messina e sarà comunque un bel navigare.
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Ora navigo con lui, spero per un breve tratto, in questa
stanza dʼospedale e la sua presenza mi conforta.
Quando lui ebbe lʼinfarto, qualche tempo fa, il mondo mi
crollò addosso, pensando al peggio; poi le notizie
divennero via via sempre più positive e infine, quando
sentii la sua voce al telefono, scoppiai in un pianto a
dirotto e liberatorio.
Facemmo un blitz allʼospedale di Siena partendo la
mattina e ritornando la sera, tenendo allʼoscuro papà.
Ora mi rivedo sul suo letto dʼospedale, in pensiero per la
sua salute, ed i ruoli si scambiano, con Licio che mi
osserva preoccupato.
Oggi, dopo aver tolto il catetere, mi sale la febbre in
maniera improvvisa. Chiedo una borsa di ghiaccio che
raffreddi la testa e un farmaco.
È la seconda febbre forte questʼanno.
La prima, allʼinizio di gennaio, in pieno deserto libico. In
un accampamento tendato nellʼAkakus, lontano da ogni
civiltà, in un mare di sabbia, affascinante e misterioso.
Le mie difese, evidentemente, si sono allentate, ho
mandato a quel paese le preoccupazioni e lo stress di
tutti i giorni ed il corpo ne ha approfittato.
Siamo partiti (Manu ed io) per un viaggio che avrebbe
segnato in qualche modo la nostra vita.
Il deserto ci ha conquistato con la sua forza, lasciandoci
senza parole davanti alle sue dune altissime, con spazi
inimmaginabili e colori da tavolozza.
Il deserto sembra vivere con il nulla, con le rocce o con le
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montagne che hanno visto lʼuomo incidere scene di
caccia con giraffe, elefanti, leoni...
”Che cosa ci manca qui?” - ci siamo chiesti.
A parte un poʼ di cibo e acqua, non ci manca niente.
Cʼè una forza nella natura che ci circonda, cʼè una pulizia
del nulla che, senza saperlo, abbiamo sempre cercato.
Ci siamo noi.
Con la febbre sono rimasto alcune ore da solo
nellʼaccampamento. La responsabile era andata a fare
provviste ed il gruppo era in tour.
Sono uscito dalla tenda per capire qualcosa di più sul
silenzio e la totale assenza di... tutto.
Ho ritrovato me stesso, la mia dimensione, il mio respiro.
Il deserto ti protegge dalla massa inutile di mercanzia di
tutti i giorni, ti protegge dalla stupidità umana, fa affiorare
in te lʼistinto primordiale che preserva, innanzitutto, il
corpo e la mente.
Ero libero e felice...
Il giorno prima, in visita ai graffiti sullʼ Akakus, avevo
acquistato un oggetto particolare da un improvvisato
venditore Tuareg. Era un minuscolo strumento musicale,
fatto con una scatoletta di sardine che fungeva da cassa
armonica; nella parte superiore una serie di 5 lamelle,
tese come fossero tasti di un piano e riproducenti cinque
note.
Il venditore Tuareg mi disse che era lo strumento del
deserto, quello che tiene compagnia nella solitudine.
Ed era vero.
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Provai a suonarlo ed era come se il deserto iniziasse a
cantare.
La sensazione di libertà lʼhanno provata tutti i componenti
del gruppo, che abbiamo risentito a viaggio concluso.
Per tutti, un ritorno alla pura essenza delle cose... anche
se per pochi giorni. Poi il ritorno, pian piano, alle abitudini,
allo stress...
Avevo organizzato, circa un anno prima, una mostra di un
artista amico, Cristiano Leban, il quale, in quel periodo,
dipingeva sulla carta fatta a mano da lui stesso.
Oltre allʼesposizione nella Galleria AlternʼArt, avevamo
organizzato un evento anche in una palestra della zona,
molto frequentata e con una grande sensibilità da parte
dei titolari per certe manifestazioni.
Tempo prima avevamo sentito degli ottimi concerti e
anche esposto altre opere dʼarte.
Questa performance aveva come tema la carta.
In una sala avevamo appeso grandi fogli bianchi, dove
ognuno poteva esprimere la propria creatività, sotto la
guida di Cristiano. Lo scopo era quello di far provare a
chiunque lʼemozione, o lʼansia, di avere di fronte uno
spazio da riempire con qualcosa; un segno, un colore,
una scritta...
In unʼaltra sala, una ventina di persone aspettavano le
mie direttive per un esercizio/gioco molto divertente e
liberatorio.
Lo avevamo sperimentato in un corso di espressività
31
corporea, organizzato da Aldo Rupel, un grande uomo di
cultura mentale e fisica.
Si tratta di togliere le scarpe, sistemare fogli di giornali
quotidiani fino a coprire tutto lo spazio della sala,
camminarci sopra con un sottofondo musicale adeguato;
bisogna sentire sotto i piedi il fruscio dei fogli, percepirne
il rumore.
È un esercizio che si fa senza parole.
Poi, ad un mio invito perentorio, accompagnato da una
musica travolgente (in quel caso Goran Bregovic) si
corre, ci si rotola, si scivola sulla carta, la si appallottola,
ci si libera insomma da ogni tensione.
Quello che avevo provato io, quando avevo fatto questo
esercizio, era un gran timore di rovinare le pagine, di
spiegazzarle camminandoci sopra.
Rupel mi dette una spiegazione molto semplice: “tu lavori
con la carta, per te è sacra, quindi ti sembra di rovinare il
tuo lavoro…”
In un altro spazio della palestra avevo collocato un pallet
di carta, circa 200 chili in un unico blocco. Avevo portato
unʼaccetta, una mazza ed un coltello.
Lʼinvito era quello di tentare di distruggere quel blocco di
carta di un metrocubo.
Naturalmente era impossibile!
Spiegai allora il perchè di quella esposizione.
“Questo blocco è composto solo ed esclusivamente da
fogli di carta, uno sullʼaltro; ogni foglio è facilmente
distruttibile, tagliabile, eliminabile ma, insieme, uno
sullʼaltro, formano uno dei materiali più resistenti, persino
32
al fuoco. I fogli sono i nostri stress quotidiani, le
arrabbiature che non sappiamo gestire ed eliminare;
allora le appoggiamo lì, una sullʼaltra, finchè avremo un
blocco così massiccio e pesante che ci porterà alla
malattia.”
Ribadii che queste tensioni non risolte portano anche a
forme tumorali, che si manifesteranno nei nostri organi
più deboli.
Mai fui più profetico, soprattutto per me stesso.
33
Nei giorni successivi allʼoperazione, quando mi medicavo
da solo le ferite, lʼodore del disinfettante mi riportò indietro
negli anni (la memoria degli odori é uno dei temi che mi
affascinerà di più…).
Eravamo a Dubai, Emirati Arabi, per seguire la carovana
del Mondiale Offshore (quegli enormi motoscafi che filano
a oltre 200 km sullʼacqua).
Il mio socio Aldo curava tutta lʼospitalità del Team Agip
che, pur non avendo un motoscafo in gara, presentava
tutti i prodotti da competizione, dalla benzina arricchita,
agli oli più performanti. Avevamo allestito una serie di
gazebo, una fontana con il marchio Agip riprodotto sulla
base, un autobus inglese che serviva da cucina; il tutto
nel sito più centrale di Dubai, il municipio.
Eravamo sul giardino antistante, dove cʼè anche la statua
del cammello, simbolo sacro agli arabi; un posto
verdissimo.
Con oltre 40 gradi dʼinverno ci chiedevamo come faceva a
crescere tutto quel verde.
Ebbene, dove cʼè del verde a Dubai, ci sono delle
condotte sotterranee di acqua dolce che irrigano, giorno e
notte, la terra.
Acqua a Dubai non manca, grazie ai dissalatori a mare.
Avevamo anche portato dallʼItalia una Ferrari Formula 1,
che era arrivata in aereo smontata in tre tronconi.
Nellʼefficientissimo Cargo Terminal di Dubai, alla
presentazione dei documenti, un carrello elevatore era
immediatamente sparito negli enormi corridoi dellʼhangar,
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ritornando pochi istanti dopo con una prima cassa
marchiata Ferrari. Era comunque stata unʼemozione
particolare avvitare con brugole in titanio i tre corpi della
vettura.
Era una Ferrari.
Tutti noi provammo a sederci nel posto di guida, un
bozzolo strettissimo per me, ma pieno di fascino.
La sistemammo su una pedana illuminata, proprio di
fronte alla fontana con il marchio Agip.
Attirò subito lʼattenzione di tutti i passanti sul viale
principale, soprattutto la sera, quando il caldo era più
sopportabile.
Anche la gara con i monopattini allʼinterno del paddock
era troppo divertente!
Avevamo portato tre monopattini elettrici e una sera, per
ingannare il tempo e far divertire i curiosi, organizzammo
una gara tra gazebo, molo e giardino pubblico.
Il monopattino elettrico lo vidi per la prima volta da Aldo.
Era un veicolo al quale non potevo resistere. Ecologico,
pieghevole, veloce e comodo.
Ne avevo uno in studio, personalizzato con i miei colori, il
grigio chiaro ed il giallo, e viaggiavo per strada, in città,
suscitando qualche volta lʼilarità dei passanti, ma, più
spesso, una certa invidia per la praticità del mezzo.
Mi riconoscevano tutti, era troppo bello... troppo!
Una mattina, una pattuglia dei Carabinieri mi inseguì e mi
fermò, con la classica manovra dedicata solitamente ai
trasgressori di qualcosa: tagliandomi la strada!
“Buongiorno, favorisca i documenti”
35
Quali documenti? La carta dʼidentità basterà?
“Questo veicolo è omologato per circolare in città?”
“Mah, credo di sì, però non ho il libretto di circolazione,
quindi non paga bollo nè assicurazione...è elettrico!”
“Scenda! Vada a piedi fino a casa e non circoli più per
strada. Per questa volta non le faremo nessuna
contravvenzione!”
È la legge con tutte le sue regole, qualche volta non
chiare, che comunque preferisce proibire che lasciar
correre.
A Barcellona, sempre con Aldo, un week-end
presentammo la Pireña, una corsa di sleddog sui Pirenei.
Ma la partenza, con tanto di cerimonia di presentazione,
la facemmo sulla spiaggia con i cani, le slitte, gli
equipaggi.
Arrivammo con una serie di camion. Allestimmo un ufficio
stampa, un palcoscenico ed un piccolo percorso,
delimitato da picchetti, per una dimostrazione con i cani.
Gli equipaggi avevano dormito in tenda, sulla spiaggia,
ognuno con la sua muta di cani, in fila come sulla neve,
con il capobranco in testa.
Si capiva che era il capobranco non solo perchè era il
primo della fila, ma anche perchè i cani vicini, nonostante
fossero legati, si avvicinavano a lui e si sdraiavano
porgendogli la gola.
Lui li mordicchiava, stabilendo così le gerarchie.
La presentazione avvenne verso le 14.30, prima di
pranzo, davanti a non meno di tremila curiosi. Per avere il
premesso di allestire questo “circo” bastò una
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comunicazione al Comune di Barcellona, che rispose
affermativamente praticamente subito.
In Italia, per una manifestazione simile, ci sarebbero voluti
una dozzina di permessi rilasciati forse dopo mesi.
E comunque non si sarebbero potuti portare i cani in
spiaggia, tantomeno le jeep e le tende…
Ma parlavo di Dubai...
Nel programma dei due week-end di gare cʼera anche
una cena di gala offerta dal Team allʼemiro. DallʼItalia
avevamo studiato un menù tipico che tenesse conto del
fatto che alcuni cibi sono banditi dai musulmani.
Idea delle idee! Minestrone di fagioli (senza cotiche!).
Con noi era venuto un cuoco, nostro compagno di
avventure. Era un tipo burlone, grande e grosso, sempre
allegro e pronto a cucinare qualsiasi cosa. Aveva portato i
fagioli dallʼItalia e adesso, la mattina della cena, eravamo
a colloquio con il responsabile dello Sheraton di Dubai,
uno svizzero mingherlino, cordiale ed efficiente.
Ci mise a disposizione un angolo della cucina dellʼHotel
ed incominciammo a cucinare. Incominciammo (al
plurale) perchè io facevo da assistente e riprendevo con
la mia telecamera tutte le fasi della preparazione.
Beh, cucinare pasta e fagioli allo Sheraton di Dubai, per
poi servirla allʼEmiro, non era cosa di tutti i giorni!
La cena fu un successo: cʼerano tutti i Vip del circo
dellʼOffshore, alcuni attori, sportivi famosi, gente nota, e la
pasta e fagioli mise tutti su uno stesso piano... questa fu
la mia sensazione. Seguirono un menù tipico italiano,
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francese e arabo. La coreografia comprendeva una
grande scultura in ghiaccio, al cui interno era inserito il
marchio dellʼAgip.
Lʼaveva fatta un giapponese, allo Sheraton. Lavorava
praticamente tutto il giorno in una stanza/frigorifero, con
enormi blocchi di ghiaccio che sagomava con martello e
scalpello.
Erano le sculture a tema per le cene di gala, mediamente
due al giorno, che si svolgevano nei saloni dellʼHotel.
Le figure erano tratte da libri, illustrazioni o di fantasia. Da
una parte dello “studio” cʼerano ancora elementi
coreografici di ispirazione italiana: un improbabile David
di Michelangelo, insieme a gondole veneziane e vulcano
(Vesuvio o Etna non si capiva).
Il nostro totem di ghiaccio era però un capolavoro che
durò qualche ora nel caldo serale di Dubai. E la cena
rimase memorabile.
Il giorno dopo arrivò al residence dove alloggiavamo un
nuovo ospite che, senza disturbare, si mise a dormire su
un divano.
Al mattino facemmo colazione insieme e si presentò. Era
Franco Acerbis, quello degli accessori in plastica per le
moto, conosciutissimo nellʼambiente e un gran simpatico.
Ci chiese cosa avremmo fatto quella mattina; avevamo
deciso di andare al mare e lui si unì al gruppo.
Partimmo verso una zona dove cʼera una lunga spiaggia,
assolutamente deserta, dove si alternavano le ville degli
sceicchi e dei ricconi di Dubai.
Ne notai una in particolare, che aveva una recinzione di
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almeno un chilometro, con un entrata hollywoodiana dove
cʼera un posto di guardia che era di per sè una villa
bellissima.
Figuriamoci cosa doveva essere la casa vera e propria!
La spiaggia era una lingua di sabbia chiara, non tanto
larga, senza nessuna struttura, pulita, con un mare dalle
onde azzurre e calde.
Trovammo dei noleggiatori di moto dʼacqua; arrivavano al
mattino con grossi pick-up con a rimorchio, avevano 4/6
moto, piantavano un ombrellone e aspettavano i clienti.
Arrivammo noi quattro, eccitati per lʼopportunità di poter
volare sullʼacqua, saltare sulle onde e fare i matti!
Pagammo per unʼora e incominciammo a scaricare le
moto. Mentre aiutavo a sistemare la mia nellʼacqua,
tirandola verso di me, il propulsore mi ferì lʼalluce
tagliandolo quasi in due.
Dolore fortissimo, sangue, unghia che sarebbe caduta fra
poco, ma la voglia di andare in mare era troppo forte. Mi
feci medicare alla meglio e poi – idea!! - mi avvolsi il
piede con un sacchetto di nylon. Prendemmo dunque il
mare e filammo come pazzi verso il largo: virate, salti
sulle onde, cadute piacevoli in acqua...
Decidemmo di andare a curiosare dal mare le ville dei
ricconi; tutte con porticciolo privato, mega yacht
ormeggiato e piscina a livello mare.
Franco, il più scatenato di tutti, ci indicò un punto al largo
dove cʼera un gran ribollire dʼacqua; probabilmente un
branco di pesci, sardine o altro...
Arrivammo sul posto e dopo una serie di salti, evoluzioni,
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tuffi in acqua, ci acorgemmo che dalla riva ci stavano
facendo dei segnali con grandi gesti. Probabilmente lʼora
era finita, volata!
Ritornammo a riva e, appena toccato terra, il noleggiatore
ci raggiunse trafelato, facendoci capire, in inglese, che
non avremmo dovuto allontanarci così dalla riva e che nel
posto dove avevamo visto brulicare il mare, cʼera in effetti
un branco di pesci ma sicuramente anche qualche squalo
affamato.
Ed io avevo un sacchetto di nylon avvolto su un piede
sanguinante...
In farmacia avevo trovato una serie di bende ed un
disinfettante che aveva lʼodore che adesso ricordo
perfettamente.
Lʼavventura di Dubai con le sue cene, il gran premio (vinto
per la prima volta dal Team Victory degli Emirati), la
Ferrari e la pasta e fagioli, mi rimasero a lungo nella
memoria.
Di incontri con gli squali non ne ebbi più, al massimo con
un tonno nel reef di Ras Mohammed, durante
unʼimmersione piena di meraviglie in un viaggio a Sharm
el Sheik assolutamente tradizionale, che però mi fece
conoscere un altro amico interessante.
Aveva una piccola ditta in Italia e conosceva bene il Sinai
perchè ci era venuto in moto anni prima, quando i viaggi
erano pioneristici, in una zona dove il turismo non era
ancora arrivato e gli israeliani se nʼerano andati da poco.
Aveva trovato diversi posti di blocco ma poi il suo ricordo
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si concentrò su un lunghissimo rettilineo asfaltato che
arrivava a Sharm dal deserto, percorso al tramonto, dopo
giorni di sabbia.
Era stata unʼavventura, e ricordarla aveva un nuovo e
diverso sapore: voleva tornare a Dahab.
La spiaggia dellʼultimo attentato terroristico in Sinai.
Così noleggiammo unʼauto e dopo un centinaio di
chilometri e due posti di blocco, arrivammo nel paradiso
degli hippies.
Eravamo nel 2000 ma lʼatmosfera di quel posto era anni
ʻ60. Ci aspettavamo da un momento allʼaltro di veder
comparire da qualche parte Jimi Hendrix o Janis Joplin,
vestiti con quelle camicione indiane di Woodstock e
suonando Hey Joe o qualche altra ballata di quegli anni.
Passammo la giornta a ciondolare tra botteghe di profumi
ed improbabili bar/pizzeria.
La “vita” a Dahab iniziava di sera.
Ritornammo a Sharm, perchè il giorno dopo ci aspettava
un giro nel deserto in “quad”, unʼesperienza della quale si
può fare tranquillamente meno.
Più preparati e temerari erano i motociclisti solitari che
ogni tanto si vedono nel deserto ed il pensiero corre verso
Edi Orioli, vincitore di diverse Parigi Dakar e grandissimo
pilota, che avevo conosciuto anni fa durante la 12 Ore
Enduro di Lignano Sabbiadoro.
Era una bellissima gara che si svolgeva sulla spiaggia e
durava, appunto, 12 ore.
Il mio studio ne curava lʼimmagine fin dalle prime edizioni
ed ebbi così modo di conoscere diversi campioni, da De
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Petri a Marinoni (morto durante una delle ultime edizione
della Parigi Dakar) a Edi Orioli appunto, con il quale
facemmo più di qualche cena pre e post-gara.
Quello che mi colpì, sin dal primo momento, era la sua
struttura: un corpo massiccio che si evidenziava già dalla
stretta di mano poderosa.
Mi raccontò di una caduta con la moto sui sassi del
Tagliamento a gran velocità e rialzarsi senza un graffio...
impensabile per un uomo normale, ma il suo corpo era
più forte.
Ne sono convinto più che mai adesso che sto vivendo
questa esperienza in ospedale.
Il corpo guarisce in fretta, con grandi progressi giornalieri;
ritrova lʼequilibrio, calma i dolori, riassorbe i traumi.
Quante volte abbiamo sentito di qualche incidente in cui il
protagonista era in fin di vita per poi, dopo qualche
settimana, seppure con stampelle o ingessature varie,
ritrovarlo, quasi di buonumore, a riprendere il cammino
della normalità?
A pochi giorni dal mio intervento (che è durato otto ore e
mezza) il mio corpo reagisce progressivamente alle cure,
migliorando ora dopo ora.
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Ricordo quando Edi ebbe un serio incidente alla Parigi-Dakar. Era quasi spacciato, con numerose lesioni vertebrali. Lo aspettammo alle 3 di notte, allʼaeroporto regionale. Arrivava dallʼAfrica con un aereo ambulanza. Era completamente intubato e stretto in barella. Suo padre, preoccupatissimo, lo tenne stretto accompagnandolo allʼambulanza, mormorandogli qualche frase e tranquillizzandosi piano, piano. La forza del suo fisico gli permise di reagire in fretta e dopo qualche mese riprese a correre in moto. La stessa struttura fisica, la ritrovo in un altro grande amico. Gianfranco Crivellari: campione di motocross, moto dʼacqua, kite surf... e basta, direi! Anche su di lui, le cicatrici parlano di infortuni ed incidenti che il corpo ha subito guarito. Era arrivato allo studio un pomeriggio e mi aveva chiesto alcuni consigli per il suo futuro. Si era accorto che fino a quel momento aveva vissuto in un mondo parallelo a quello reale: quello delle gare sportive, degli allenamenti, dei piloti, dei camper, dei premi vinti... ma ora che gli anni bussavano alla porta, si ritrovava con un pugno di mosche, senza lavoro, una casa, una sicurezza. Non che fosse a fine carriera, perchè era in piena forma - lo è tuttora - ma perchè forse si sentiva mancare la terra sotto i piedi. Lo rincuorai offrendogli quello che potevo; sʼinnamorò del
lavoro e qualche tempo dopo trovò casa e una
sistemazione lavorativa concreta in unʼazienda che
commercializza strutture per ospedali, sale operatorie,
ecc.
Quando mi portarono in sala operatoria per la seconda
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volta, osservai la lampada scialitica sopra di me e dissi ad
un medico che mi stava operando: “Ma questa lampada è
vecchia, non avete una Trumpf Med® a led?”
Il medico si meravigliò della mia conoscenza: “ No, quelle
sono in sala al piano terra.”
Verificai lʼaffermazione con Gianfranco, il quale confermò
che cʼera stata una fornitura in quellʼospedale, montata al
piano terra.
È tornato in zona perché era scontento del suo lavoro,
troppo stressante, con la voglia di tornare a casa, ad una
vita più semplice, senza ore di code, di traffico, consegne
da brivido, problemi tecnici di ogni tipo e viaggi in giro per
lʼItalia per risolverli.
È ciò che cercano tutti. Una tranquillità fatta di ritmi diversi
ma che presuppone esigenze diverse;
molto più contenute.
Quali sono le priorità?
Dopo unʼesperienza come questa la mente cerca di
dimenticare le sofferenze, il dolore e i momenti
drammatici nei quali si pensa alle cose importanti della
vita: la salute, i rapporti con il prossimo, in unʼottica
totalmente diversa dallʼ”avere” o dal “dimostrare”, lʼessere
positivi non “a tutti i costi”, ma, con una visione razionale
delle difficoltà da affrontare.
Comunque, la priorità è di vivere bene con se stessi e con
gli altri, attraverso una serie di attenzioni alle proprie e
altrui esigenze.
Nella mia vita ho cercato sempre di ascoltare gli altri, le
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loro visioni, i loro problemi, e questo è sempre stato un
arricchimento.
Quando parlavano di malattie come il Drago, ascoltavo
con attenzione cercando di immedesimarmi nelle loro
angosce.
Ma si può arrivare fino ad un certo grado di
comprensione, poi cʼè un solco...
È il solco di chi ci è passato e chi no.
Per quanto si può star vicino ad una persona che soffre
per queste patologie, con tutte le conseguenti cure
debilitanti e il terrore del male, non si può capire se non ci
si trova di persona davanti alla morte.
Cʼè il bianco e il nero. Il vivere e il non vivere, in una sorta
di atteggiamento quasi di onnipotenza. È paradossale ma
in questi momenti non cʼè più niente di terreno che
spaventa.
Cʼè la roulette che fa uscire il rosso o il nero.
Si delinea la riga rossa...
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Dove sta andando la vita?
I viali alberati, diritti e ombrosi si sono trasformati in ripidi
sentieri arsi dal sole o freddi e scivolosi.
I compagni di viaggio cambiano ogni tanto e, a seconda
della voglia di arrivare, si allunga il passo.
Parlo con tantissimi colleghi di lavoro, fornitori o clienti,
sullʼandamento delle cose; non ce nʼè uno che non si
lamenti e che sia contento. Non è un lamento di
circostanza ma qualcosa di più profondo, che viene da
lontano: problemi economici, mancanza di tempo.
Ecco, è la mancanza di tempo, comune a tutti, che ci
frega.
Non cʼè tempo per pensare, elaborare qualche idea,
sviscerarla completamente. Penso agli inizi del mio
lavoro, quando dovevo studiare un marchio.
Partivo da una prima idea grafica, poi, piano piano la
modificavo, ribaltandone linee e colori, poi ancora e
ancora, fino a che le proporzioni erano esatte, i colori
bilanciati ed io ero soddisfatto. Sembrava che il tempo
facesse maturare le linee, proporzionasse i testi e
“guarisse” i difetti della fretta.
Osservare le cose come al tempo della scuola, meditare
come certi artisti che lasciano per giorni sul cavalletto una
traccia, un colore e li riprendono poi con un tempo
“maturato”.
Mi capita spesso, quando realizzo qualche quadro, che le
varie fasi siano dilatate.
Quando si dipingeva solo ad olio su tela, i tempi erano
obbligatoriamente lunghi per far si che il colore si
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asciugasse.
Ora si preferisce la tecnica più veloce, ma io, tra una fase
e lʼaltra, lascio “riposare” lʼimmagine e quasi mai prevedo
il risultato finale, che può arrivare anche dopo sei mesi.
Tempo fa, preparando una collettiva di artisti dellʼIsontino,
grazie alla collaborazione di Franco Savadori, andai a
trovare la mamma di un artista che si è tolto di mezzo
giovanissimo, Mario Di Iorio.
A casa sua, oltre trecento quadri riposti con cura in varie
stanze. Unʼorgia di colori ma anche tanto bianco e nero.
Ecco, Mario era un artista che aveva iniziato dipingendo
quadri geometrici, molto accurati, con linee precise,
campiture di colore perfette, qualche figura... poi
allʼAccademia a Venezia, Emilio Vedova, la malattia… ed
ecco la violenza del segno, lʼastrattismo puro, la rabbia
del pensiero, lʼenergia dei colori.
La mamma ci confidò che lui tornava a casa
periodicamente; lei gli preparava le tele, dipingendo il
fondo di bianco, grandi superfici, che lui quando arrivava,
carico del suo malessere, ma pieno anche di talento,
riempiva di grida colorate, di canti di speranza, di
mormorii o di stridio di bianco e nero. Il tempo
accumulava, dentro di lui, tutta lʼenergia del bene e del
male, probabilmente senza filtri, senza attese meditative.
In questa mostra, che avevamo allestito Franco ed io,
cʼerano otto artisti che avevano attraversato cinquantʼanni
di storia, ognuno con la sua arte, specchio del proprio
periodo, attenta alla società. In realtà, al di là della
figurazione, dellʼastrattismo o del neorealismo, tutti loro
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denotavano il proprio rapporto con il tempo attraverso il
segno, soprattutto.
Come le incisioni di migliaia di anni fa del deserto Libico
(prepotentemente attuali), anche qui il segno era legato
ad una temporalità.
Cesare Mocchiutti, mio insegnante allʼArte, aveva un
segno che denotava una profonda riflessione.
Tempo dilatato sulle colline di Mossa, nella sua
casa/studio, circondato da vigneti.
Ogni tanto gli faceva visita Mario Di Iorio, che era
diventato, in qualche modo, il suo pupillo.
La pittura di questʼultimo diventava così più “tranquilla” e
riflessiva, il colore calibrato... i segni meno violenti.
Il tempo si prendeva tutte le responsabilità, calmando le
ferite di gioventù e placando i dolori della vecchiaia.
Mocchiutti a circa ottantʼanni ebbe un calo della vista e
smise con la pittura per un periodo.
Il tempo aveva decretato uno stop.
Poi la vista ritornò, anche se non completamente; riprese
allora il suo corso pittorico: come un fiume in piena, egli
inondò tele su tele di splendidi colori, in una serie di
mostre di grande successo.
Questo grande uomo, vinto dalla sofferenza fisica, a
novantʼanni, si tolse la vita.
Secondo me, con un grande gesto “vitale”.
Prima di entrare in ospedale, mentre preparavo questa
mostra, ebbi la sensazione di essere circondato di
energia.
Osservavo i quadri di questi grandi artisti, li maneggiavo,
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li posizionavo per fotografarli ed essi emanavano una
forza che arrivava da lontano.
Forse aspettavano me, forse queste personalità messe
insieme per la prima volta (alcuni morti da anni ma altri
vivi e prolifici), si erano incontrate nei colori, nellʼodore
delle tele, nel tempo delle immagini.
Le foto di Maurizio Frullani (un grande), riconsegnavano,
anche dopo anni, tutto lo spirito che lui aveva percepito
andando nello studio di ognuno di loro a fotografare il
personaggio, lʼartista, lʼuomo che traduce la realtà o la
fantasia con la sapienza dellʼascoltatore in una tela o in
una scultura.
Ora mi guardano, disposti in semicerchio, e sembrano
chiedere qualcosa, sperano che la loro arte travalichi i
confini piccoli e la cultura minima del nostro territorio.
Vorrei anchʼio essere una foto...
Ho provato una grande emozione qualche anno dopo
quando Maurizio mi chiese se mi faccio fotografare da lui.
Così farò parte della grande galleria fotografica di artisti,
grafici, poeti e personaggi in genere, che muovono la
cultura del territorio.
È bellissimo.
Dopo il suo servizio nel mio studio di pittura, rimango
imbarazzato dalla bellezza di quegli scatti che mi
ritraggono nella maturità.
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Mio fratello è anche un grande fotografo, ma il suo
carattere ha “intaccato” anche questa passione, ormai
dismessa da anni.
Le sue foto erano sfuggenti, sembrava che lui fosse da
unʼaltra parte, che i suoi soggetti fossero da soli davanti
allʼobiettivo.
Era unʼennesima fuga da un momento “statico”.
Cʼè una serie di bellissime foto del nostro gruppo
musicale degli anni ʼ70, e una in particolare che ci ritrae
mentre Franco ed io solleviamo da terra Francesco, dopo
una corsa in un campo grandissimo.
Franco era il chitarrista del gruppo, Francesco il tastierista
ed io il “drummer”.
Lʼentusiasmo di quegli anni traspare in tutta la foto, che è
un inno allʼenergia della giovinezza.
Facevamo da spalla a gruppi famosi e non del
Progressive italiano.
In quegli anni, la creatività musicale aveva portato alla
ribalta internazionale la musica italiana: Il Banco del
Mutuo Soccorso, la PFM, Osanna, Area e innumerevoli
altri stavano creando un nuovo sound, ispirati dai maestri
inglesi quali i Genesis, i Gentle Giant, i Led Zeppelin, gli
Yes, gli ELP, ma con una propria originalità.
A proposito dei Led Zeppelin, abbiamo visto di recente un
concerto di Robert Plant, un animale da palcoscenico di
sessantʼanni che ripropone ancora oggi le canzoni di
quegli anni con la stessa determinazione.
E con lo stesso entusiasmo!
Sotto il palco, moltissimi giovani ballano e si dimenano
52
come facevamo noi.
A quel tempo, andare a vedere i Led Zeppelin poteva
provocarti un poʼ di mal di testa.
Ora hai problemi di prostata...
Sono rimasto immobile anche quando la chitarra ha
intonato Whole lotta love, che, assieme a Smoke on the
water dei Deep Purple e a Satisfaction dei Rolling Stones,
bastano due note per scatenare lʼapoteosi.
È un brano da pelle dʼoca che ha già tirato fuori da noi
(della nostra generazione, intendo) tutta lʼenergia durante
gli anni. E ho fatto un pensiero.
È come se questi anni, queste preoccupazioni, il lavoro, i
figli ecc. abbiano cancellato piano quei brividi giovanili,
non lasciando più nessuna traccia.
Solo il ricordo di quei tempi.
Ma questa musica è grandiosa, attraversa tre generazioni
riuscendo a mantenere intatta la sua forza.
Due gruppi hanno suonato prima di Robert Plant.
Giovani, bravi tecnicamente, sembravano cercare
qualche strada non ancora tracciata... ma tutto è già stato
scritto in quegli anni meravigliosi.
Noi, piccolo gruppo di provincia, ci facevamo notare:
eravamo assolutamente originali.
Venivamo quindi chiamati ad aprire i concerti di band
come Le Orme, gli Osanna, Latte e Miele, Osage tribe
ecc... e qualche volta suscitavamo più interesse dei
gruppi “grandi”.
Abbiamo lasciato sicuramente una traccia nel panorama
pop della nostra zona.
53
Forse, con un manager cocciuto, avremmo potuto fare
qualche passo in più con successo.
Cʼera una grande creatività in noi, anche perchè stavamo
attraversando gli anni più vitali, dove cʼera
sperimentazione in tutti i campi artistici, dove la cultura
proponeva nuove tematiche di vita, la musica esplodeva
in innumerevoli proposte e tendenze, grazie a numerosi
gruppi che avrebbero fatto storia per vari decenni.
Nel nostro piccolo, noi eravamo un gruppo che proponeva
musica progressiva.
Ascoltavamo gruppi inglesi, Yes, Emerson Lake e
Palmer, Genesis, John Mc Laughlin e la sua Mahavishnu
Orchestra, Chick Corea, Weather Report.
Un passo più avanti, verso il Jazz.
Assorbivamo la musica e poi, durante le prove, uscivano
le nostre composizioni, assolutamente filtrate ed originali.
Ci furono anche concorsi musicali a cui partecipammo e
vincemmo.
Uno, in particolare, rimane nel ricordo di molti.
Era organizzato molto bene, in un paese del Friuli,
allʼinterno della festa patronale.
Bel palco, bella amplificazione ed i gruppi erano
agguerriti.
Il palco era sistemato al centro del paese, praticamente in
piazza, in mezzo alle case.
A noi toccò il compito di aprire la serata, non ricordo
esattamente con quale brano, forse Rondò dei Nice, ma
era certamente un inizio travolgente.
Quel concorso durò una sera, anche perchè, il giorno
55
dopo, arrivò la notizia che in un allevamento di polli, a
pochi metri dal palco, si era consumata una tragedia.
I pennuti, atterriti dal volume sonoro, si erano ammassati
verso il fondo del capannone.
Ne erano morti soffocati almeno un centinaio!
Un settimanale italiano trattò la notizia, con tanto di
illustrazione alla Walter Molino, che ritraeva sul palco un
gruppo di scatenati con i capelli lunghi (un classico
dellʼiconografia dellʼepoca) e un gruppo di polli che,
spaventatissimo, fuggiva incontro alla morte!
La festa del paese propose, durante i giorni successivi,
ottimi polli allo spiedo e noi ritirammo il premio in tutta
segretezza.
Fu lʼestate in cui cambiai la batteria (la prima era stata un
premio per una promozione); lʼavevo adocchiata in un
negozio di Gorizia. Non era di marca, ma per me era un
sogno.
Avevo risparmiato qualche soldo facendo il cameriere
dʼestate e, con qualche piccola entrata dai concerti,
lʼacquistai da un musicista professionista che aveva
smesso; era una Rogers, americana, colore grigio striato,
con le custodie.
Ora ero un professionista.
Naturalmente personalizzai la pelle della cassa con il
nostro nome Hoc Opus (Questa Opera), un nome latino,
lontano dai nomi inglesi.
Lʼunico gruppo che aveva un nome in latino, in quel
periodo erano i Colosseum. E John Hiseman era uno dei
miei idoli.
56
Negli anni cambiai diversi strumenti, suonando anche
generi diversi.
Ma quella prima batteria fu come il primo amore e quei
primi anni di musica rimangono un ricordo meraviglioso.
Fu un periodo assolutamente prolifico, che io auguro a
tutti i ragazzi di passare.
Franco, il chitarrista, dopo aver saputo della mia
disavventura di salute, mi telefonò appena seppe del mio
ritorno a casa: “senti, Francesco (il tastierista) è stato
derubato a casa sua dopo essere stato narcotizzato, io
sono stato investito sulle strisce pedonali e ne avrò per
mesi, tu hai avuto un tumore... non credi che sia un
messaggio chiaro per il nostro gruppo?”
Dopo trentʼanni ci siamo riuniti nella sfortuna... con una
cena.
Adesso parleremo dʼaltro, non ci saranno passaggi al
piano e le dissonanze di Francesco, non ci sarà la mitica
chitarra Vox semiacustica rossa di Franco a distorcere
note su note e nemmeno i miei tempi impossibili.
Comunque ognuno di noi suona ancora, con una
sensibilità diversa e una nuova intensità, da “vecchi
leoni”.
Francesco è diventato architetto di grido.
Dopo diverse esperienze musicali, che hanno portato il
suo nuovo gruppo alle soglie della celebrità (contratto con
una multinazionale, registrazione di un CD e di un
videoclip), ha intrapreso la professione di architetto,
partendo con diversi progetti in Germania, in Italia e
adesso in Cina.
57
Ha progettato il recupero di una antica città e la
realizzazione, su unʼisola, di un albergo, un centro
commerciale e un residence.
La Cina in questo momento, insieme a Dubai, ha la più
grande concentrazione di gru da cantiere al mondo.
Ha partecipato anche ad una recente Biennale
dellʼArchitettura di Venezia, con uno stand da lui
progettato assieme ad un architetto cinese.
Ogni tanto ci troviamo su un palco, tra amici, e la canzone
che tutti vogliono che lui canti è Purple Rain di Prince che
lui storpia in Par purè (sembra purè), facendo sbellicare
tutti.
È un poʼ tornare ai nostri anni.
Ora, quando ascolto musica, oltre al jazz preferisco
ancora le sonorità degli anni ʻ70/ʼ80 e la grande creatività
espressiva.
Anni fa ci fu anche il periodo “demenziale” con due gruppi
con cui suonavo, totalmente pazzi.
Nel primo (era un trio), al basso Fender cʼera un
grandissimo personaggio, che ha lottato per anni con una
malattia terribile, che lo ha portato a consumarsi su una
sedia a rotelle.
Massimo era lʼironia pura!
Anche durante la sofferenza era un genio della musica
ma anche della scrittura.
Con pochissime persone sono riuscito ad esprimermi
come con lui. Cʼè stato un periodo in cui avevo
selezionato dentro di me alcune persone che avessero
una grande apertura mentale, un fortissimo sense of
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humor e una voglia di giocare con tutto.
Volevo fare una cena del non sense, naturalmente con
menù adeguato e in un posto atipico, nella quale ognuno
sarebbe stato libero di spararle grosse, senza paura che
qualcuno non capisse o non fosse pronto a partire da
quella stronzata per dirne altre dieci.
E così, con un meccanismo che si espandeva come
unʼepidemia, venivano fuori idee e concetti tipici delle
sedute di brainstorming.
Lʼavevo sperimentato con qualche amico, ma mai con più
di tre.
Ora avevo individuato una decina di elementi e, a loro
insaputa, stavo organizzando “lʼevento”, che
puntualmente doveva essere filmato e registrato in
segreto.
Massimo ci lasciò prima e non me la sentii di proseguire
con gli altri, per rendergli memoria.
Qualche tempo dopo istituimmo un gruppo che organizzò
un concerto e fece pubblicare un libro, presentandolo in
una serata multimediale.
Fu emozionante per tutti, ma non triste: Massimo non
avrebbe voluto.
Nel concerto suonammo anche un brano inciso dal nostro
trio demenziale dal titolo Ki gʼhanda; il titolo era la
storpiatura di Chi canta?, domanda che ci ponevamo ogni
qualvolta, componendo il brano, ci accorgevamo che era
solo musicale.
La frase veniva pronunciata come la parlata di un negro:
“Buana, chi ganda?”. Successivamente venne modificata
59
nel nostro dialetto “Chi ga ánda?”, cioè chi ha spirito o
atteggiamento particolare.
Insomma, giocavamo con tutto ed era assolutamente
bellissimo.
Il pezzo musicale è tuttʼora accettabile ed io ne vado fiero.
Ah, dimenticavo, il gruppo si chiamava Idee Salvagent e il
tastierista era Roberto Verzegnassi, oggi grande chef.
Non sto qui a spiegare il significato...
Lʼaltro gruppo “fuori dagli schemi” si chiamava Estensione
Est.
Anche questo gruppo, un sestetto, era allʼavanguardia per
quegli anni, perchè suonavamo musica etnica.
Lʼispirazione era balcanica, prima ancora che Goran
Bregovic avesse messo il naso a Trieste.
Lʼanima del gruppo era il cantante.
Andrea aveva una voce baritonale molto allenata.
Ricordava quella di Demetrio Stratos degli Area e riusciva
anche ad emettere due note contemporaneamente.
Istrionico e teatrale, si presentava sul palco vestito come
un bulgaro e se avesse mangiato tre o quattro cipolle
prima del concerto sarebbe stato perfetto nel suo ruolo!
Gli altri componenti non erano da meno: Gianni,
polistrumentista, si cimentava anche con strumenti a fiato
improbabili che aveva acquistato nei suoi viaggi nei
Balcani e in Turchia. In testa un fez colorato, contornato
di perline, e panciotto ricamato. Braghe “alla zuava” e via,
sul palco!
La nostra pianista era un elemento a sè stante.
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Grandissima musicista, si perdeva nei suoi pensieri e per
le strade in macchina… Sul palco vestiva un tubino di
lamè e in testa una fascia con una grande piuma di
struzzo...
Il violinista, diplomato al Conservatorio, non aveva
bisogno di cappelli. Aveva una capigliatura esagerata,
nera e riccia ed era un mostro come musicista.
Basso, chitarra e batteria, i più “normali”.
Grandi camicie a fiori, pantaloni dai colori impossibili e
cappelli da clown.
La musica era travolgente; e non solo quella!
Andrea, in apertura del concerto, presentava il gruppo
con voce possente, fingendo di essere di origine
balcanica:
“Dove il contorno del mondo occidentale si frastaglia e
diventa meno consistente sfumando nellʼinsolito, là cʼè
Gorizia: città di frontiera, di mercati, dogane e
contrabbandieri, città poliglotta dove anche il fenomeno
rock assume, a volte, una natura inconsueta. Dal rombo
dei pesanti autotreni, tra bivacchi di camionisti slavi e
bulgari, turchi e magiari nasce quel linguaggio narrativo,
rude e universale che è il motore rombante
dellʼEstensione Est, un insieme eterogeneo, riunito in una
carovana itinerante che è la musica rock popolare, senza
egemonie anglofone o statunitensi, per nutrire di linfa
musicale balcanica e mediterranea lʼentusiasmo delle
feste fra i popoli.”
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Un brano, in particolare, rimaneva nella memoria di tutto il
pubblico.
Raccontava del lavoro in cantiere, con gli operai trattati
quasi da schiavi.
Per renderlo ancora più vivace, salivamo sul palco con un
demolitore e con una flex.
La flex la usavo io, passandola sul metallo della batteria e
sprigionando un sacco di scintille; il demolitore lo
azionava, in mezzo al brano musicale, Andrea, che
demoliva veramente qualcosa che trovava lì intorno.
Ci chiamarono ad una festa di compleanno, sapendo che
eravamo un gruppo particolare, e quando, ad un certo
punto, Andrea demolì un muretto nel giardino, ci fu
unʼovazione, anche del proprietario, che andò in estasi.
Mah, non so perché ma facemmo pochi concerti, forse
avevamo una musica piuttosto “distruttiva”.
A proposito di distruttivo, mi viene in mente un episodio
che ha per protagonista un gruppo di bikers.
Per alcuni anni, insieme a mia moglie, abbiamo gestito
una trattoria che riscuoteva un successo clamoroso.
Il segreto di questo successo era semplice: buon cibo,
buon vino, musica giusta e simpatia.
Da noi arrivavano le persone più disparate, dagli artisti al
commissario di polizia, da primari dellʼospedale a qualche
tossico.
Tutti comunque in armonia con il mondo, grazie
allʼospitalità e al buon bere.
La domenica sera era delle coppiette, che venivano a
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cena.
Si sedevano in una piccola saletta piena di quadri, con
unʼatmosfera molto calda e intima, e passavano qualche
ora in compagnia di musica scelta.
Atmosfera tranquilla, bella gente, relax anche per noi.
Verso metà serata, con un rombare di moto, arrivò questo
gruppo di bikers dallʼaspetto piuttosto aggressivo.
Entrarono schiamazzando, con un gran clangore di
catene e metalli.
Con loro cʼera anche un mio amico pittore.
Era uno di quegli artisti che negli anni ʻ60/ʼ70 vivevano
una vita alternativa.
Aveva fondato una comune, in una casa di Ronchi, dove
arrivavano gli hippies di allora (oggi manager o impiegati
di banca).
Musica, qualche spinello, niente roba pesante, gran
pittura, sesso libero. Non so quanto, ma libero.
Era entrato nel locale per ultimo ed io, vedendolo, mi ero
un poʼ tranquillizzato. Ma non troppo…
Davanti ad una scena del genere, gli avventori
cambiarono espressione; la serata avrebbe potuto
trasformarsi in un incubo.
In questi casi, lʼistinto avrebbe suggerito di mettermi sulla
difensiva e di chiudere gli spiragli di dialogo per non
provocare alcun incidente.
Poi, ripensandoci, decisi di allearmi con loro.
Prima di tutto uscii dal bancone e chiesi a quello che
sembrava il più feroce di accompagnarmi a vedere le
moto; come per incanto, un sorriso si stampò sulla sua
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faccia tatuata.
Le motociclette erano tutte splendide! Cʼerano due o tre
Harley e il resto erano custom esagerate.
Dentro di me un poʼ di Easy Rider cʼera ancora e adoravo
Born to be wild degli Steppenwolf, che naturalmente
avevo tra i dischi in locale.
Rientrando, scortato dalla “bestia”, mi misi nel gruppo che
sostava davanti al bancone e presi una bottiglia di vino
ma non la offrii: sarebbe stato come pagarli per stare
buoni.
Il fatto che fossi tranquillo, in mezzo a loro, rilassò anche
tutti i clienti i quali, vedendo la situazione sotto controllo,
ripresero a mangiare e a scambiarsi effusioni.
Parlando scoprii che tutti, o quasi, lavoravano in porto a
Trieste e che non erano certo degli squattrinati.
Vedendo poi che avevamo un amico in comune (il pittore
hippie) diventai presto uno di loro… o quasi!
Si sedettero in un tavolo ad angolo e da alcuni sacchetti
di carta comparve tutta una serie di accessori cromati, e
assolutamente kitsch, per le loro moto.
Tornavano da una mostra-mercato in Austria e avevano
acquistato diversa mercanzia che si mostravano a
vicenda, ammirandola con gli occhi da bambini.
Se ne stettero buoni buoni a bere e mangiare per qualche
ora, poi si alzarono per pagare ed andarsene.
Io stavo tagliando il prosciutto a mano e lʼoperazione li
incuriosiva, perchè usavo un coltello dalla lama
sottilissima e affettavo il crudo con maestria.
Chiesi loro se cucinavano la minestra di fagioli poiché,
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avendo appena finito il prosciutto, avrei dato loro lʼosso
completo da metterci dentro. Risposero in coro che
sarebbe stata una “figata” avere un osso intero!
Fu il mio regalo di arrivederci.
Era quasi mezzanotte e se ne andarono dandosi
appuntamento in un altro locale, mio concorrente, sul
Carso.
Il giorno dopo avevo turno di chiusura ed ero in centro per
qualche spesa.
Incontrai un amico che mi disse: “hai saputo del Trulli?” -
era il locale sul Carso - “...una banda di motociclisti lo ha
distrutto ieri sera!”
Immediatamente pensai ai miei “amici” bikers.
Il mattino seguente comperai il quotidiano locale che
riportava la notizia in grande evidenza: “Distrutto locale
da una banda di teppisti in moto”
Leggendo lʼarticolo capii che erano proprio loro.
Avevano chiesto lʼultimo giro di birre e il titolare si era
rifiutato di servirle, minacciando di chiamare i Carabinieri
e provocando una reazione furibonda.
Curiosità: lʼarma usata dai teppisti per sfasciare tutto il
retrobanco con i liquori era... un osso di prosciutto!
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Sabato 2 Settembre
È la prima uscita in barca dopo lʼoperazione.
Dopo il maltempo e le piogge di agosto o dopo giornate
belle ma impegnate, finalmente un pomeriggio
incantevole.
La domenica prima di essere ricoverato, mentre
tornavamo allʼormeggio dopo un pomeriggio di mare e
sole, dissi a Manu: ”lʼunico desiderio che ho è di poter
uscire di nuovo domenica prossima.”
Voleva dire che lʼoperazione era riuscita e
ottimisticamente sarei uscito dallʼospedale in quattro
giorni.
Naturalmente, lʼottimismo esasperato che mʼaccompagna
sempre non rispettò questa tempistica. Ma non fa niente.
Ora eravamo in barca dopo un mese e mezzo, con le
ferite rimarginate, con il mio mare che mi aspettava e un
sole caldo.
Misi il motore ad una bassa velocità; volevo godermi
anche il trasferimento dal canale del Timavo alla foce
dellʼIsonzo, dove lʼacqua è bassa e pulita e si possono
raccogliere le vongole...
È come andare in un parcheggio di barche, visto che non
siamo i soli ad apprezzare quella zona, ma non importa,
quello che prima mi dava fastidio ora mi rallegra e mi fa
star bene.
Il mare lʼho pensato diverse volte, allʼospedale: è il mio
grande guaritore, il mio amico di sempre; vado a trovarlo
quando posso e mi ascolta, tra unʼonda e lʼaltra.
Lo cerco anche quando è incazzato, nelle giornate di
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vento, con lʼacqua sporca di temporali lontani.
Lui sta male, vomita sulla spiaggia rami, pezzi di rete,
galleggianti, tavole, fino a sfinirsi.
Allora sono io che lo ascolto, cercando di calmarlo, ma
non è facile.
Poi, piano piano, la brezza di terra si fa sentire, le nuvole
si aprono e spesso il sole, un altro grande amico, ci
regala tutti i colori di un tramonto.
Penso sempre che nel sole ci siano due doni: il primo è
per noi, quando scompare nel mare con pennellate rosso
fuoco, e lʼaltro è per un altro emisfero, che si risveglia con
unʼalba fatta di tonalità che ognuno di noi vorrebbe avere
dipinte sui muri di casa.
Bellissima lʼalba in barca, il risveglio con il mare
calmissimo, ancorati in rada...
“Ancorarsi in rada” è stato lʼargomento di unʼintera lezione
per il conseguimento della patente nautica.
Frequentavo da mesi le lezioni, con un istruttore molto
esperto, velista e organizzatore di charter. Avevo deciso
di fare la patente nautica perchè avevo un motorsailer di
otto metri, un Tortuga 27, sognato da molto tempo e
acquistato per fare qualche crociera... ma le questioni
familiari spesso si mettono di mezzo e allora il massimo
era “ancorarci” in rada per una notte solamente.
Io, però, volevo capire come si navigava e avevo deciso
di fare la patente dopo una gita domenicale fantozziana in
golfo.
Eravamo arrivati, come spesso accade, alla foce
dellʼIsonzo ed avevamo cercato “parcheggio”, un posto
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accettabile, più vicino possibile allʼacqua bassa (il
motorsailer pesca molto di più di un motoscafo).
Avevo gettato lʼancora, non calcolando esattamente il
rapporto tra la profondità e i metri di catena da svolgere.
Eravamo anche in prossimità di un segnale di pescatori,
che avevano gettato le reti proprio lì. Fatto il bagno e
pranzato avevamo deciso che era arrivato il momento di
fare un riposino.
Preferivo dormire sottocoperta, aprendo il tambuccio di
prua e rinfrescando lʼambiente con una manica a vento. Il
sonno arrivò veloce e dolcemente.
Dopo un poʼ, arrivò anche una serie di imprecazioni che
mi fecero sobbalzare.
Andai in coperta e vidi che eravamo a ridosso di un
peschereccio che stava ritirando le reti, o quello che ne
rimaneva, visto che noi, avendo gettato poca ancora,
avevamo “arato”, spostandoci con la corrente di quasi un
centinaio di metri.
Il pescatore era furibondo, avendo capito che ero un
inetto a non aver calcolato il rischio di finire contro il suo
pescato.
Mi scusai, liberai quel che potevo dal timone e dallʼelica,
restituii i brandelli di rete ed i galleggianti e filai lontano.
Passata una mezzʼora chiamai mio fratello chiedendogli
lumi.
“Devi calcolare tre volte la lunghezza della catena rispetto
alla profondità dellʼacqua” - mi disse perentorio.
Accesi lʼecoscandaglio e verificai che cʼerano due metri e
mezzo dʼacqua sotto di me, quindi avrei dovuto calcolare
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una decina di metri di catena, mentre io ne avevo calcolati
forse 5.
Lo ringraziai e dopo aver navigato un poʼ ci apprestammo
a rientrare.
Prima, però, volevo guardare da vicino, praticamente
sottobordo, lʼultima nave passeggeri costruita dal Cantiere.
Imboccai il canale dʼingresso al porto con unʼandatura
molto tranquilla quando, ad un certo punto, mi girai...
unʼenorme nave da carico stava anchʼessa entrando in
porto ad una velocità maggiore. Non sapevo che lato del
canale tenere ed accostai a destra, a ridosso dellʼargine
di accesso, dove una mezza dozzina di pescatori sportivi
pescavano.
Le lunghe canne, protese verso il canale, sembravano
antenne; probabilmente, per essere così lunghe e
maneggevoli, erano in fibra di carbonio. Tuttavia, mi stavo
accostando troppo e incominciavo a vedere un poʼ di
agitazione sullʼargine. Agitazione che diventò frenesia nel
recuperare lʼesca… troppo tardi!
Stretto fra trentamila tonnellate da una parte e lʼargine
dallʼaltra, piombai sui pescatori!
Il filo si impigliò sullʼalbero del Tortuga e due o tre
pescatori non riuscirono a tenere le canne, che finirono in
acqua.
Ebbi lʼimpressione che ognuno di loro avesse in repertorio
un intero libro, pure bello grosso, di bestemmie da
gridarmi addosso con un condimento di maledizioni mai
sentite prima...
Quella domenica decisi di fare la patente nautica...
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Non so come sia nata quella pazzia dei trentʼanni o giù di
lì.
Eravamo un trio di amici che al sabato andavano sul
Carso a passeggiare o a visitare qualche grotta/rifugio
della prima guerra mondiale e, in primavera, a raccogliere
gli asparagi selvatici per poi cucinarli in frittate.
La Rocca, monumento di Monfalcone che sorge su un
antico Castelliere, era molto spesso la nostra meta.
Ora che la strada di accesso era stata asfaltata, ma
chiusa al traffico con una sbarra, era più agevole
camminare fino lassù.
Dalla Rocca si vede Monfalcone, il mare fino a Trieste, la
pianura, Aquileia e, nelle giornate più limpide, lʼIstria,
Grado e la Laguna.
È un fortilizio di pianta circolare, con una torre bassa
centrale.
Compare su tutte le cartoline, le vedute, i marchi del
Comune, della Pro Loco, come marchio su tutte le attività
che ne fanno propria lʼimmagine per far capire che siamo
a Monfalcone.
Ogni associazione incrocia lʼimmagine della Rocca con
quella del falco, per poi metterci la propria ragione
sociale.
La Rocca era lì, in alto, e noi scendevamo a piedi da
quella discesa ripida, con due curve iniziali, un tornante,
un rettilineo veloce e una curva a gomito che finiva con la
sbarra, sentivamo che i nostri pensieri convergevano
verso qualcosa di simile ma non ben definito; una corsa,
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una gara… si, ma con che cosa?
Claudio esordì con: “potremmo costruirci dei carretti come
quelli che avevamo da bambini, con qualche tavola,
quattro cuscinetti a sfera (volgarmente chiamati
“baleniere”) e scendere gareggiando tra di noi...”
Il pensiero coinvolgente era quello. Ma tre pazzi, quasi
trentenni, non potevano costruire dei veicoli
“approssimativi”, senza un minimo di tecnologia o design.
Dopo accordi sulle regole costruttive (che poi si ridussero
solo al tipo di “baleniere” da usare) ognuno di noi portò
avanti il proprio progetto.
Io ero lʼunico che non aveva costruito un carretto da
piccolo, per una ragione molto semplice: fino a 14 anni ho
vissuto in un paese con il fiume ma senza uno straccio di
discesa, mentre Monfalcone era adagiata sulle pendici
del Carso, quindi con un gran numero di discese di tutti i
tipi.
Questo gap non fermò di certo la mia creatività!
Preparai un telaio robusto, con lʼasse anteriore
saldamente fissata ad esso con un fermo girevole munito
di vite a dado; la scocca era in multistrato sagomato, con
la forma delle auto da Gran Premio. Poi, siccome si
guidava distesi, avevo fissato uno schienale di sedia
imbottito di gommapiuma nella parte posteriore. Davanti,
qualche striscia adesiva di antiscivolo (quella che si fissa
sui gradini). Cavetti di acciaio con morsetti e maniglie
ergonomiche per lo sterzo, olio Singer per macchine da
cucire per la lubrificazione delle “ruote” che, avevamo
stabilito, essere cuscinetti di 1100 FIAT e che trovavamo
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da uno sfasciacarrozze.
Gli altri due “piloti” avevano realizzato dei bolidi non così
raffinati ma, in compenso, avevano lʼesperienza di guida
che io non avevo.
Decidemmo che il sabato pomeriggio era il momento
giusto per “testare” i veicoli, visto che sulla Rocca non ci
andava tanta gente.
La prima volta ci andammo da soli, senza le ragazze,
anche perchè non era proprio uno sport da trentenni!
Lʼabbigliamento era importantissimo: io avevo una tuta
bianca da meccanico americano, con un sacco di scritte
rosse ricamate. Anche in questo gli americani devono
distinguersi… non possono avere una tuta qualsiasi.
Calzavo gli anfibi da militare, una delle poche cose che
avevo tenuto e che adesso risultavano essere
indispensabili per la frenata. Avevano anche il tacco in
gomma sostituibile, avvitato senza incollaggio. Erano il
mio freno.
I guanti erano da saldatore, anche perchè se si usciva
fuori strada e non si finiva contro una roccia accuminata,
ci si infilava in qualche cespuglio di rovi, con
conseguenze immaginabili.Niente casco.
Unʼultima occhiata ai carretti sistemati sulla panchina, alla
base della salita, unʼoliata, una stretta di viti e via!
La salita era di circa 300 metri fino al piazzale vicino
allʼentrata della Rocca, da dove si partiva. Arrivati in cima
ci appostavamo a caso, senza tener conto delle curve
che avrebbero favorito uno o lʼaltro. Avevamo anche già
fatto qualche prova di discesa nel tratto più ripido.
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Era uno sballo!
Si arrivava alla curva a gomito finale a 50 Kmh e si
tagliava il traguardo, passando sotto la sbarra chiusa,
distendendosi sul carretto.
La cosa particolare era il rumore che facevamo:
sembrava quello di un jet in fase di decollo, ma avendo
lʼaeroporto a pochi chilometri, il rumore era confuso.
Tutto era pronto per quella gara di tre pazzi, che non
pensavano assolutamente ai rischi ma solo allʼadrenalina
che provocava quella discesa.
Al classico “un, due, tre, via!”, partimmo.
Il primo tratto era di “assestamento”, con un pendio medio
che arrivava alla prima curva a gomito e che permetteva
di attuare la strategia migliore: rimanere indietro per poi
sferrare lʼattacco, o in testa, cercando di non farsi
superare.
La curva a gomito precedeva la “vera”, discesa dove il
nostro sferragliare era assordante e la velocità era da
brivido!
Poi la frenata violenta con gli scarponi, lʼimpostazione
dellʼultima curva ed il traguardo, sfiorando con la testa la
sbarra di ferro...
Qualche spettatore rimaneva attonito da quello spettacolo
così inusuale, che lo riportava indietro nel tempo, e lo
sguardo denotava un pizzico di invidia.
Eravamo felici, amici, pazzi scatenati.
Così ogni sabato si rinnovava lo spettacolo. Adesso
anche le nostre ragazze venivano a guardarci e
probabilmente i loro pensieri erano altri nei nostri
73
confronti.
Poi, verso le cinque del pomeriggio, tutti al bar
Commercio, da Piero, dove arrivava il prosciutto cotto nel
pane, grande tradizione monfalconese persa oggi tra un
happy hour e un pestato al rum.
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Non porto più lʼorologio.
Un appassionato come me, che ne conserva una ventina,
un bel giorno si stufa e non ne porta più nessuno.
Il tempo, nella malattia, diventa relativo.
Passa veloce nel dormiveglia, provocato da qualche
farmaco antidolorifico; passa lento, attraversando qualche
dolore o nellʼattesa di qualche rimedio.
In qualche momento scompare, nascondendosi dietro ad
un cumulo altissimo di pensieri, per riapparire durante
una fitta alla schiena, che non ti permette nemmeno di
chiedere aiuto.
Il tempo poi, per farsi perdonare, cura le ferite
velocemente, rasserena, scorre come fiume che va via,
che arriva alla foce, si sporca di problemi stupidi, di ansie
inutili...
Anche il tempo ha i suoi limiti...
In bagno abbiamo un orologio da tavolo, regalo di mio
fratello. È uno splendido Movado, replica del Royal
Museum, quello, per intenderci, tutto nero con un punto
dʼoro alle ore 12.
Lʼaltro giorno si è fermato.
È un orologio con movimento al quarzo e ogni tanto si
cambia la pila.
Una volta inserita la batteria sento uno strano ticchettio;
normalmente lʼorologio scandisce i secondi ma ora il
“battito” è raddoppiato.
Non ci faccio caso più di tanto e mi faccio la barba.
Guardo lʼora e scopro… che sta andando al contrario.
Provo a girare la pila, pensando, non so come, che ci sia
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un motorino e, invertendo i poli, giri in senso inverso.
Ma la pila è inserita correttamente e lui ha deciso che
“dʼora in poi” andrà allʼindietro!
Mi piace molto questa idea, mi alleggerisce il futuro che
incalza con i giorni, ore e minuti velocissimi. Mentre lui
sembra assorbirne un poʼ, di questa fretta.
Ci vorrebbe uno bravo in matematica per trovare qualche
analogia con le ore vere.
Cioè, ad una data ora sarà preciso a dodici ore dopo, o
prima... per me è una battaglia persa.
Non sono mai stato un calcolatore, non sono bravo nei
giochi matematici, non ricordo i numeri, figuriamoci...
Ora, quando vado in bagno, lo guardo con
compiacimento.
Bravo, hai deciso di andare controcorrente, contro il
tempo, contro i tuoi simili tutti uguali, tutti puntuali...
Ma il Tempo al contrario è sempre Tempo, forse indica il
tempo perso.
“Non riesco a trovare il tempo per fare qualcosa a tempo
perso.”
Scrivevo questa frase ventʼanni fa, quando il fiume del
tempo era largo e i minuti abbondanti.
Penso che la vita sia un fiume da percorrere al contrario.
Quando si è giovani ci si trova vicino alla foce; le sponde
lontane, lʼacqua abbondante e calma.
Poi si risale, con gli anni, su un percorso sempre più
stretto e pieno di difficoltà, sempre più controcorrente.
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E poi diventa torrente, con le rapide da affrontare sempre
più insidiose ma con lʼacqua sempre più pura man mano
che si va verso la sorgente.
Là, la vita sembrerà un distillato di saggezza, poche
gocce di acqua cristallina che ripagheranno tutti gli sforzi
della risalita.
Dalla cima scorgeremo il percorso del nostro fiume, la
valle, le anse, le sue curve.
Nel suo scorrere riconosceremo i paesi o le città che ha
attraversato, i campi che ha bagnato...
E ora che si fa?
Guardo lʼorologio che va al contrario: forse era questo il
suo messaggio.
78
Un anno, a Carnevale, non sapendo quale costume
indossare, decisi allʼultimo momento di racimolare tutti gli
orologi della mia collezione, più quelli soprammobili e uno
che tenevo in studio, che era un orologio da stazione
ferroviaria, bifacciale, che appesi al collo.
Mi legai tutti gli altri attorno alla vita, indossai tutti quelli da
polso, presi il mio monopattino elettrico e partii per la
sfilata di Carnevale con un cartello appeso che diceva:
“Non ho tempo da perdere!” - filando come un matto in
mezzo alla gente.
Qualche anno prima avevo sfilato vestendomi come un
lord, con tanto di bombetta originale inglese e con con
una gallina al guinzaglio.
Nellʼorto di casa avevamo un piccolo e scalcinato pollaio
e quando dissi alla mamma quello che volevo fare, come
sempre mi assecondò, realizzando anche un bel fiocco
rosso che applicò, in qualche modo, sul pennuto.
Per farla camminare avevamo previsto di darle dei chicchi
di mais avvolti ad uno ad uno in cartine, a moʼ di
caramelle.
Passeggiando, le parlavo promettendole cibo in
abbondanza e tirando fuori dalla tasca un chicco di mais
ogni tanto.
Il fatto è che la gallina, stupida comʼera, mangiava i miei
chicchi ma anche dei pezzetti di polistirolo da imballaggio
a forma di patatina sparsi sulla strada, cosicché
lʼindomani la trovammo nel pollaio stecchita ma con un
sorriso stampato sul becco: si era divertita un sacco!
Il Carnevale era un momento in cui mi piaceva recitare.
79
Non mi mascheravo in faccia, dovevo essere
riconoscibile, far divertire e divertirmi, far sorridere,
insomma un momento di teatro... o cinema.
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Anni prima, venni a sapere che cercavano comparse per
un film che si sarebbe girato nella nostra zona.
Mi presentai alla selezione, come quasi tutti quelli della
mia età.
Probabilmente bastava essere maschi e non ottantenni
poichè ci presero tutti!
Si girava un film sulla Grande Guerra, nelle trincee del
Carso.
Era un film per la televisione che trattava la nascita della
lingua italiana, con tutti i suoi neologismi, così come la
parliamo ora.
Per la prima volta, dopo lʼunificazione dʼItalia, si
trovavano, uno vicino allʼaltro, uomini di tutte le regioni,
ognuno con il suo dialetto, con la sua parlata tipica e tutti
dovevano capirsi.
Il regista non ci spiegò tutto questo; lo lessi da un
settimanale che riportava le foto di tutti i miei amici, in
divisa, che combattevano sul fronte del Carso contro
lʼesercito austriaco.
Il set delle riprese erano proprio le trincee, ripulite per
lʼoccasione e riadattate con gli “accessori“ dellʼepoca:
sacchi di sabbia, lamiere di protezione, filo spinato in gran
quantità.
Chissà se gli operai che hanno scavato nelle linee del
fronte hanno provato qualche emozione diversa; chissà
se tra loro cʼera qualcuno che aveva il nonno, o forse il
padre, che aveva combattuto su queste pietraie.
Sicuramente, anche in queste occasioni, cʼera un motivo
di unione tra italiani.
82
Noi, comunque, andavamo alla “guerra“ truccati di tutto
punto.
In un hotel di Monfalcone cʼera il quartier generale: sala
uniformi, sala trucco, zona ferite, armeria, ecc.
Quando tutti erano pronti, una serie di pullman ci portava
sul Carso, nei luoghi delle riprese, posti che noi
frequentavamo da ragazzi, soprattutto a Pasquetta per la
tradizionale scampagnata.
Il Carso rimane comunque, come del resto il mare, una
componente essenziale nella nostra cultura di bisiachi, ci
accompagna con le sue stagioni e in autunno si veste di
rosso sgargiante con il suo sommacco, un bellissimo
cespuglio di foglie che mio nonno raccoglieva in sacchi,
per poi venderlo a dei fabbricanti di colori.
Le sue pietraie ci ricordano la fatica ed il dolore dei
combattenti della Prima Guerra, durante la quale fu
versato un altissimo tributo di sangue, e la caparbietà di
chi lo coltiva adesso, ricevendone in cambio soprattutto
vino ed olio di eccellente qualità.
Il vino, ad esempio, vuole anchʼesso ricordare lʼasperità
della terra, con un gusto duro e intenso: si chiama
Terrano e le macchie sulla tovaglia o sulla camicia sono
macchie di sangue, si tolgono a fatica, come a ricordarci il
passato di queste colline.
I truccatori di noi comparse erano bravissimi a riprodurre
il sangue e le ferite.
Qualcuno, finito di girare, se ne tornava a casa senza
pulirsi per fare uno scherzo a qualche amico...
Le riprese, sostanzialmente, si svolgevano allʼinterno
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delle trincee, visto che bisognava evidenziare come i
soldati, provenienti da ogni parte dʼItalia, comunicavano
tra di loro.
Quindi, andirivieni su e giù, poi qualche battuta in qualche
dialetto, qualche sparatoria e il rancio (finto e vero!).
Il giorno seguente, lo scenario si movimentò con un
assalto alla baionetta.
Si tattava di uscire dalle trincee tutti insieme e correre,
fucile spianato, verso un ipotetico nemico. Il regista ci
dette le ultime indicazioni: “il nemico è là, dovete
conquistare la linea. Al mio via, tutti allʼassalto!“
Tutto era pronto, era lʼultima ripresa della giornata e, se
devo dire la mia, fare la guerra non era una passeggiata.
Eravamo pronti per lʼattacco: “pronti, motore, azione! Ok,
fuori dalle trincee, correte più veloci che potete...“
Uscimmo tutti insieme dalla trincea, posso assicurare che
non è facile con un fucile, lo zaino e tutto il resto, ci
scagliammo verso il nemico che, se ci fosse stato
veramente, avrebbe preso paura! La scena era
veramente impressionante, eravamo tanti, ormai “pratici”
della guerra dopo qualche giorno di riprese e cercammo
tutti di essere credibili in quellʼultimo assalto al tramonto.
“Qualcuno muoia, si getti a terra!”
Come colpiti da unʼipotetica batteria di mitragliatrici, con
un sincronismo perfetto, tutti “morimmo” allo stesso
istante. Vidi il regista, appollaiato sulla macchina da
presa, togliersi la coppola che aveva tenuto salda sulla
calvizie e gettarla a terra con unʼimprecazione...
Riprovammo a “morire” il giorno dopo.
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Dietro la cinepresa o la telecamera ci sono finito ancora
alcune volte.
Sergio Spina è un regista e lo si vede anche quando
gioca a scacchi da solo, con una scacchiera elettronica
che si porta sempre dietro.
Quando si gioca a scacchi bisogna essere registi e poi lui
ha il physique du rôle, con la sua pipa perennemente
accesa e gli occhiali tondi, dietro ai quali ci sono occhi
curiosi, pronti, entusiasti.
Era il regista di Gianni Minoli in Mixer ma lui non ne
parlava mai.
Con lui facemmo uno spot pubblicitario per la campagna
politica del PCI che diventava PDS.
Fui arruolato da un dirigente politico assieme ad altri tre
grandi: Altan, Calligaro, Cojaniz.
Io ero lo sconosciuto del gruppo, ma per qualche strana
alchimia ero diventato il punto dʼincontro per i primi brain
storming che avvenivano nel mio studio.
Cojaniz è un musicista eclettico, girovago con una grande
esperienza pianistica alle spalle. È un omone grande e
grosso, con grandi baffi e capigliatura lunga.
Era il musicista del gruppo, quello che doveva creare la
base musicale dello spot.
Renato Calligaro, grandissimo grafico ma anche pittore,
pubblicitario e fumettista è un personaggio che sfugge
alle etichette (ma ce nʼè bisogno?), si pone sempre con
una calma piena di significati, ponderando parole piene di
saggezza, mettendoti quasi in soggezione.
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Era il coordinatore grafico di tutta la faccenda.
E poi Altan, che non ha bisogno di commenti: come sono
le sue vignette così è lui. Calmo, tranquillo.
Lo andammo a trovare nella sua casa di Aquileia, un
grande casolare giallo sulla strada che porta verso Grado.
Era una casa molto accogliente e lui uno splendido
padrone di casa.
Il gruppo si riunì 4 o 5 volte per trovare unʼidea calzante
per quellʼavvenimento, che desse anche uno scossone
alla base del Partito e che facesse capire quali erano gli
obiettivi di quella politica.
Non era facile, ma unʼidea venne fuori quasi subito.
“Giocare a carte scoperte”, senza nascondere nulla, con
le mani bene in vista.
Altan produsse subito una decina di vignette che vennero
stampate e raccolte in un astuccio, tipo carte da gioco:
feci un lavoro di packaging molto semplice ma
accattivante, che venne apprezzato da tutti.
In quella occasione imparai da Calligaro la pulizia grafica,
importantissima nel mio lavoro.
Lui aveva lavorato molto in America Latina e aveva
portato in Italia il giusto mix di creatività e rigore.
Cojaniz intanto aveva scritto una partitura per lo spot
televisivo che era stato concepito così:
attorno ad un tavolo da gioco, con luce fioca, in un
ambiente fumoso - qui non cʼerano problemi per la pipa di
Sergio - quattro giocatori cercano di barare finchè uno,
stanco di quellʼandazzo, gioca a carte scoperte.
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Il messaggio era molto sottile, in quel periodo storico della
politica.
Io non ne capivo granchè, ma il tutto mi piaceva
moltissimo.
La musica interpretava bene la scena, con una suspance
iniziale e poi il colpo di scena.
Girammo lo spot in un pomeriggio, presso gli studi di una
TV privata di Pordenone.
Andò in onda pochi giorni dopo.
Non mi ricordo lʼesito di quel messaggio così diretto, come un pugno, alla classe politica di allora, ma mi rimane un disegno di Altan raffigurante un Cipputi, allʼinterno di un fumetto troppo piccolo, che mi dice: “ sempre più stretti Livio.”
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È una splendida domenica di primavera con il sole che
scalda, finalmente, e i pensieri si schiudono dopo un
inverno grigio.
Sto andando a fotografare alcune opere di Pino Furlan,
un artista locale che non ha avuto in vita i giusti
riconoscimenti per la sua opera.
Erano quadri perduti in un incendio, recuperati dopo mesi
di lavoro e di attese e in questo caso, il fuoco non era
purificatore ma distruttivo, della sua casa/studio di
Ronchi.
Quelle che fotografo ora sono opere che sono “avanzate”,
dopo una conta sommaria fatta quando sono state
recuperate. Si tratta di quattro piccoli monocromi, forse
bozzetti, una fotocopia ritoccata di una “madre” e di un
quadro 50x70, in pessimo stato, con una tela dipinta di
bianco e applicata a posteriori su un telaio di carta.
Lo stato è drammatico, due o tre fori, la carta
sporchissima e priva di qualsiasi segno pittorico, il telaio
in pessimo stato. Da buttare via.
Faccio le riprese di queste opere con la mia digitale.
Serviranno comunque alla catalogazione di tutto il lavoro
di Pino Furlan che abbiamo in programma.
Poi osservo meglio questo pezzo 50x70 e decido di
portarlo a casa. Lo butterò via più tardi.
Ma qualcosa mi ferma.
Un lembo è sollevato e sotto cʼè una pittura, un fondo
bruno; se ne percepisce solo un piccolo pezzo.
Quando arrivo a casa ho la sensazione che devo in
qualche modo scoprire se sotto cʼè qualcosa di dipinto, e,
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nel caso non ci fosse niente, butterei via tutto
inesorabilmente.
Trentʼanni fa acquistai da Pino quattro formelle in
truciolare, con una carta applicata e dipinta a vari strati.
Era una serie degli anni ʻ70 intitolata Divisione del mondo.
Quelle formelle mi piacquero molto e ancora oggi le tengo
esposte con molto amore.
Sono venuto in possesso, recentemente, di un foglio di
appunti dove Pino annotava gli incassi delle vendite dei
suoi quadri e le “uscite”, quasi tutte per cene e riunioni
conviviali con amici.
Cʼero anchʼio in uno di quegli appunti, con un incasso di
400.000 Lire, che al tempo erano una bella cifra. Era la
serie che mi piaceva di più.
Dopo aver scaricato il quadro, quasi non riesco ad entrare
nel garage, tanta è la curiosità.
Tolgo la tela superficiale con molta facilità, senza
nessuno sforzo.
Ho un sobbalzo ed il cuore comincia a battere forte.
Sotto cʼè un capolavoro, un quadro degli anni ʻ70 della
mia serie preferita.
La carta dipinta è intatta, cʼè solo una rottura che va
sistemata.
I colori sono caldi, al centro cʼè un “sole”, dipinto con dei
cerchi concentrici colorati in blu carta da zucchero, le
sfumature e i puntini ci sono tutti, la tempera annacquata,
i toni caldi di una terra, la parte superiore bianca...
Se avessi dovuto scegliere, tra settanta quadri avrei
scelto questo.
90
Il tempo, le sensazioni, i pensieri, le immagini e i ricordi di
Pino si mescolano come tessere di un grande puzzle e
piano piano si sistemano dentro di me.
Cʼè un dio che accompagna le nostre azioni, ci osserva
mentre apriamo il cuore a qualcuno.
I quadri, ancora una volta, diventano protagonisti di una
vita che non sa farne a meno.
Le lettere mai scritte, i discorsi solo accennati, i ricordi
sbiaditi di Pino sono impressi a tinte forti dentro di me.
La dolcezza di un vivere pacato, i gesti lenti ed il parlare
asciutto di un grande protagonista del mio tempo sono
grandi insegnamenti del vivere.
Non gli ho mai dato del tu, per un grande rispetto, ma ora
sento che devo essere io, ancora una volta, a leggere il
suo messaggio in una giornata di primavera, dove la
brezza, il sole, la pioggia improvvisa, i colori di un
tramonto con la quiete della sera fanno da sfondo.
Ed è meraviglioso vivere così.
Grazie Pino
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Gli artisti hanno una marcia in più.
Il mio sogno, fin dai tempi della Scuola dʼArte, era quello
di aprire una galleria dʼarte, dove far confluire giovani
talenti che non avessero la possibilità di esporre in sedi
prestigiose e quindi costose.
Volevo capire come la creatività si muove allʼinterno di un
movimento, di un gruppo e di un singolo. Volevo vedere,
negli occhi di una persona, brillare qualcosa di
difficilmente tangibile.
Lo stesso luccichio che probabilmente avevo io allora.
Durante il servizio militare avevo scritto ad unʼamica
parlandole di questo sogno.
Poi, i fatti della vita hanno coperto per un poʼ questo
fuoco.
Gli anni della maturità sono arrivati anche con questo
regalo.
Insieme a Pamela, una esperta in pubbliche relazioni e
proprietaria di un piccolo ufficio in centro, decidemmo di
aprire uno spazio alternativo dʼarte e di gestirlo in maniera
particolare.
Lʼintento era quello di proporre delle esposizioni dʼarte
con un metodo nuovo, arricchendo la mostra con una
scenografia adatta, scegliendo una base musicale
appropriata ed un profumo coerente. Ma per non
escludere nessun “senso”, proporre, nel momento della
vernice, anche qualche cibo sfizioso legato allʼartista.
La prima mostra del neonato spazio alternativo
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“Alternʼart” fu quella delle foto di Elisa.
Avevamo unʼamica, Marina Tuni, che a quel tempo era la
responsabile del fan club, o, come dice Elisa, del fun club.
Avevo chiesto a Marina se erano disponibili alcuni quadri
della cantante e dopo una breve indagine mi rispose che i
dipinti erano sparsi un poʼ qua e un poʼ là; cʼerano,
tuttavia, alcune foto interessanti che Elisa aveva scattato
in giro per il mondo e che destavano la mia curiosità.
Erano scatti di natura, di deserti, di alberi, di fiori di loto.
Marina ci fornì anche una serie di immagini di Elisa molto
carine.
Una di queste la ritraeva con lʼindice sulla bocca, come
ad indicare di far silenzio: la mostra la intitolammo “Shh...
i silenzi della natura”
Presi i file ed iniziai la stampa degli ingrandimenti.
Parlando con Marina cominciavo a capire un poʼ il
carattere dellʼartista e la sua ritrosia ad apparire in veste
di fotografa esponendo alcuni “momenti” solo suoi.
Applicai le foto su pannelli di agglomerato, quel materiale
fatto di un intreccio di corteccia che si usa negli
imballaggi; un prodotto povero ma molto decorativo.
Feci ricopiare in bella calligrafia, da Katy Frate, alcuni
pensieri che Elisa aveva scritto nei suoi viaggi e realizzai
dei piccoli leggii, fatti con uno stelo di bambù, una piccola
clip che sorreggeva un foglio di carta fatta a mano e
scritta con inchiostro di seppia.
Alla base del perimetro della galleria misi della corteccia
di pino e delle ciotole con una candela dentro, il tutto
accompagnato dal DVD di Lotus, il lavoro di quellʼanno
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fatto con i musicisti amici di Monfalcone.
La mostra coincideva con le feste di Natale e per far
risaltare ancor di più lʼavvenimento studiai una campagna
pubblicitaria per lʼAscom con il titolo Monfalcone città di
Luce dove Luce era anche il brano di Elisa vincitore del
Festival di Sanremo.
Per lʼoccasione, ad ogni acquisto di un certo importo, nei
negozi aderenti veniva regalato il CD della canzone.
Inoltre Monfalcone si vestiva di luce (quella elettrica) con
una serie di luminarie davvero spettacolari.
Quella mostra, grazie anche al lavoro di Marina presso il
fan club, portò circa duemila visitatori da tuttʼItalia, in
quella piccola galleria allestita con tantissimo entusiasmo.
Elisa, nonostante fosse in zona non passò a vederla e, a
parte Marina, non venne nessuno del suo staff e
nemmeno la mamma.
La mostra divenne itinerante.
Chiesi alla sorella di Elisa tutti i permessi per portare la
mostra a Monza, in una galleria gestita dagli Amici del
Parco, che erano rimasti colpiti dalle immagini del sito.
Poi venne Manzano, con unʼesposizione in Municipio a
cura della Pro Loco, poi la Sicilia, nel castello normanno
di Acicastello vicino a Catania, dove arrivarono in 15
giorni quasi 5000 persone.
Per questa mostra mi contattò una persona che poi
diventò un amico.
Voleva fare un regalo alla sua città e pensò di proporre
queste immagini di natura, in un contesto di rara bellezza.
Passammo cinque giorni nella splendida Sicilia, una terra
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generosa e non valorizzata appieno.
La mostra di Elisa, quindi, fece da apripista per la galleria
dʼarte AlternʼArt.
Unʼavventura piena di emozioni e riflessioni, che via via
ha messo in moto nuove idee e installazioni, che mi ha
fatto conoscere artisti veri e meno veri, ma tutti con la
voglia di fare e sperimentare.
Fin dal primo momento che ho sentito parlare di lei da
Enea Baldassi ho capito che doveva essere una persona
speciale.
Devo confessarle che quando lui mi chiese di aiutarlo ad
allestire la sua mostra pensai: “ecco, la solita mostra
celebrativa; chissà come dipinge questa De Romans?”
Ma poi mi diede il catalogo con la sua biografia e
immediatamente capii che ero di fronte ad un pezzo di
Storia dellʼArte.
Io ho fatto lʼIstituto dʼArte di Gorizia e i miei maestri furono
numerosi artisti che sono diventati colonne portanti
dellʼArte della nostra regione.
Forse quello che conosce è Celiberti, che lʼha premiata al
Moret dʼAur qualche tempo fa.
Lui fu a Gorizia per un breve periodo di supplenza ma lei
sa che quando si rimane a contatto con un grande
personaggio, si assorbe un poʼ della sua energia.
Ed è proprio quello che è successo a me, allestendo la
sua personale a Torviscosa.
Anche se ho avuto modo di stare con lei poche ore, il
contatto con i suoi quadri mi ha coinvolto in un percorso
96
che lei ha fatto nel mondo artistico, pieno di grandi
movimenti culturali, di correnti artistiche, ma anche di
drammi personali che traspaiono, senza mentire, nelle
tele.
Il buon Franco Savadori, il critico dʼarte della mostra, una
persona ancora sprecata da noi, ha saputo cogliere tutte
le sfumature del suo lavoro in una sintesi non facile, che
gli rende merito e che esalta la grande artista che, come
tutti i grandi artisti è rimasta una persona semplice,
disponibile, curiosa, generosa.
Apprezzo tantissimo lʼomaggio che lei ha voluto farmi con
una cartella di sue opere. Per me è una testimonianza e
un riconoscimento molto importante poichè io vivo di
queste cose e vorrei in qualche modo restituirle lʼenergia
vitale che lei distribuisce a piene mani con la sua
presenza e le sue opere. Intanto accetti i miei più
affettuosi ringraziamenti.
È la lettera di ringraziamento che ho inviato a Maria Luisa
De Romans, figlia di Marinotti, il fondatore di Torviscosa.
È un paese nato dal niente, negli anni ʻ20, bonificando
una pianura paludosa che aveva come unica ricchezza
enormi distese di canna gentile.
Con questa canna si fabbricava la cellulosa e quindi la
carta, i tessuti e altri beni che hanno determinato il
progresso industriale della Bassa Friulana.
Lʼarchitettura è quella del ventennio, con un rigore ed una
pulizia nelle costruzioni assolutamente attuali.
Ampi viali alberati, parchi curati, case degli operai che
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adesso sono diventate ville con orto e giardino, piscine
olimpiche, teatro, museo… come dovrebbe essere in tutte
le città del mondo.
Torviscosa conta solamente duemila abitanti...
Marinotti, persona coltissima, ha costruito un edificio
adibito ad esposizioni e congressi, rimasto chiuso per
diversi anni dopo la sua morte.
Per iniziativa del Comune è stato riaperto proprio con una
mostra della figlia, che ora ha superato ottantʼanni...
È una persona minuta, molto raffinata e colta, che ha
attraversato la storia dellʼArte del Novecento. Sfogliando
un suo catalogo, la si vede fotografata con Andy Warhol e
altri grandi dellʼarte.
È stato un incontro pieno di significati, e per ringraziarmi
del lavoro che avevo svolto con così tanta passione
(avevamo allestito la sua mostra e preparato il pieghevole
illustrativo), mi ha fatto recapitare una cartella con 5
serigrafie degli anni ʻ70. Una meraviglia...
Lʼarte mi stupisce spesso con sorprese che sembrano premiarmi per lʼamore che le dedico.
98
Lʼestate del 2008 si è fatta attendere un poʼ troppo.
Il 20 giugno la temperatura era di 14 gradi con giorni
carichi di pioggia e così ci siamo presi una picola
parentesi di sole limpido e acqua cristallina a Malta.
Dopo forse 15 anni dalla prima visita, lʼisola è cambiata
profondamente, perdendo unʼidentità difficile da capire sul
momento, ma che riassume un poʼ di Sicilia, molta
Inghilterra e un cuore arabo.
Ora percepisco solo la voglia, da parte dei maltesi, di
entrare in un circuito turistico, saltando molti passaggi
storici di cultura dellʼaccoglienza, senza sensibilità verso il
proprio tesoro naturalistico e storico.
Eppure è un posto magico, pieno di atmosfera, dove ti
senti minuscolo e dove il corpo ritrova il tempo.
LʼIpogeo, sulla collina della Valletta, è un posto di questi.
3800 anni di età, dove i nostri antenati celebravano il
culto dei morti. 2200 mq scavati nella roccia, in
profondità, con percorsi, sale, aperture, che faremmo
fatica a realizzare ai giorni nostri.
E loro non avevano ancora scoperto il ferro e scavavano
usando corna di animali.
La visita, che dura circa unʼora, ci accompagna
lentamente dentro noi stessi con una spirale che scende
sempre più in profondità, a toccare i nostri sensi più
sopiti.
È una delle meraviglie entrate a far parte del patrimonio
dellʼUmanità, sotto la sovrintendenza dellʼUnesco.
Malta ci colpisce con la sua luce abbagliante, esaltata
dalla pietra delle costruzioni, che nelle foto sembra
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dorata.
Anche qui è prepotente la percezione dello sviluppo
turistico che prende la mano, che crea diverse situazioni
di inquinamento, deteriorando siti di importanza
universale.
Lʼuomo non si rende conto del danno che provoca a se
stesso e di ciò che lascerà ai propri figli.
Tornati a casa, abbiamo trovato strade pulite, poche
immondizie, meno caldo, ma una cappa di smog umido a
cui non siamo abituati.
La natura sta cambiando e risponde alle nostre continue
provocazioni. Nel nostro golfo ci sono i cormorani,
nellʼAdriatico pesci tropicali, le api stanno sparendo, non
vedo più le lucciole.
Le lucciole, insieme a certi odori e certi sapori, mi
riportano allʼinfanzia.
Verso la metà di giugno, dopo che il commercialista mi ha
comunicato quante tasse devo pagare e dopo un periodo
di poco lavoro, in attesa del ricovero per il controllo, ho
rivisto le lucciole ed erano bellissime.
Hanno aperto una porta segreta dentro di me,
riportandomi ad un passato un poʼ più spensierato, agli
amori di maggio, alle sere dʼinizio estate, quando si
mescolano i profumi delle erbe, svanito il glicine e pronto
il grano.
Fermo questo scorrere di sensazioni già vissute, che
rotolano come sassi.
Cʼera una grande luna ieri sera, stasera la luna è piena,
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domani il solstizio dʼestate.
Le lucciole sono arrivate, un poʼ in ritardo, a rischiarare i
ricordi, come i lampi dʼestate.
La pensa come me un amico, venuto in studio per un
lavoro accompagnato dal figlio (cuffiette inserite, piercing
e tatuaggi come se piovesse, vestito da naufrago) che
quando ci sente parlare di lucciole, con tutta quellʼenfasi,
sembra che abbia la nausea per le nostre frasi “melense”.
Gli dico che la nostra generazione, prima di innamorarsi
delle lucciole, ascoltava i Black Sabbath o i Van Halen,
rock duro che più duro non si può.
E poi abbiamo scoperto che la nostra più grande
ricchezza è il tempo.
Il tempo per “riosservare” le cose con gli occhi dei
cinquantʼanni e le lucciole rimangono una magia che
nessuno può toglierci.
102
Ho rivisto, dopo forse 15 anni, Josko Sirk.
Nei primi anni ottanta, con la mia attività pubblicitaria,
stavo realizzando un depliant illustrativo sul Collio, su
Cormòns e i suoi dintorni.
Un percorso tra vigneti, trattorie, cantine e uomini della
terra.
In quel periodo, quella zona si rendeva consapevole dei
grandi prodotti che coltivava, dello scambio di culture con
i confini che ne bloccavano lʼespansione, con una cucina
dai toni accesi, che ricordava le Langhe di Cesare
Pavese.
Nel percorrere quelle strade, per i servizi fotografici,
trovammo sapori nuovi, profumi intensi, lontani da quelli
marini del Golfo.
Ho conosciuto gran parte dei vignaioli: i padri stavano per
lasciare le briglie ai figli scalpitanti.
Si percepiva che quelle terre, ricche di tradizioni, si
sarebbero affacciate, prima o dopo, ad un mercato che
era alla ricerca di nuovi spunti.
Le cantine si sarebbero trasformate in splendide dimore, i
vigneti, come le grafiche di Piazza, in ordinate forme
illuminate da una luce tersa.
Le stalle sarebbero diventate delle sale di degustazione e
i fienili splendide terrazze da dove gustare il paesaggio
delle colline del Collio sloveno.
Conobbi Josko quando visitai la sua trattoria, Al
Cacciatore, ancora nella sua vecchia sede, con lʼentrata e
il bancone frontale, lo stile rustico vero, con i trofei, i
lampadari fatti con le ruote dei carri e lʼinsegna in ferro.
103
Era di qualche anno più vecchio di me, con gli occhi
piccoli e vivaci, un grande sorriso e la voglia di percorrere
una strada difficile, piena di ostacoli ma sicuramente
premiante.
Parlava già allora delle trasformazioni del suo locale,
della ricerca della qualità dei prodotti, della cultura del
territorio.
Credo sia arrivato dove voleva, anche grazie alla moglie e
ai suoi figli, che ne hanno condiviso il percorso.
Ho rivisto Josko Sirk dopo 15 anni ma ne ho seguito il
percorso.
Durante la convalescenza in ospedale ho ricevuto un
piccolo libro di fotografie di Maurizio Frullani, dove si
raccontava della Subida, la trattoria, con il suo contorno di
agriturismo, maneggio, tennis e piscina, tutto immerso
nella natura, dove il relax fisico e mentale sono messi al
primo posto.
In particolare, mi sono rimaste impresse alcune foto
ritraenti Josko mentre si occupa della sua cucina, o
quando cerca le erbe più profumate nei monti della
Slovenia, o mentre fa la spesa al mercato di Lubiana
sempre dalla stessa “venderigola.”
Mi hanno ricordato un sogno che ho sempre avuto. La
cucina fatta di cultura e ricerca.
Ma io, che sono un “assaggiatore” della vita non sarei mai
riuscito a percorrere fino in fondo quella strada.
In un letto di ospedale, quelle foto mi hanno dato una
nuova energia (unʼaltra), ho provato anche un senso
dʼinvidia per quellʼuomo che non so quanto sia stato
104
capito per quello che ha ridato alla sua terra. Perchè noi
dobbiamo restituire alla terra quello che le prendiamo.
Dobbiamo ridare al nostro universo la piccola parte che
usiamo per noi.
Quello con Josko Sirk è stato un incontro tra percorsi.
Due viottoli di campagna che si incrociano e proseguono
nella unica, stessa direzione.
Lʼho rivisto allʼinaugurazione di una mostra dʼarte ma non
solo, unʼincontro tra lʼarte e lʼospitalità delle trattorie di
questa zona: ogni artista che espone è abbinato ad un
locale o a unʼazienda agricola in uno scambio di immagini
e sapori.
È la magia del Collio Cormonese.
Tra la gente, tanti amici artisti, tanti sguardi
tranquillamente curiosi e poi lʼabbraccio di Aldo Rupel, per
lʼoccasione traduttore dei testi del catalogo e dei discorsi
al tavolo della presentazione.
Dopo un giro in galleria, con gli occhi pieni di immagini
familiari, un assaggio di ciò che questa terra offre
generosamente.
Josko rimane uno dei protagonisti più grandi e mi saluta
con lo stesso sorriso di sempre.
105
È una giornata calda di luglio e aspettiamo il presidente
dellʼAssociazione allʼingresso.
È un vecchio edificio, forse un ex magazzino navale, a
due passi dai centinaia di approdi sulle rive di Trieste.
Il presidente è un omone dallʼaspetto molto curato, con i
capelli tagliati a spazzola; fuma una sigaretta dietro lʼaltra.
Ci fa accomodare nellʼ“ufficio” di segreteria ed apre la
finestra.
“Quando mi hanno rieletto, perchè non cʼera nessuno
disposto a venire qui giornalmente, ho chiesto come
condizione di poter fumare dentro” - ci anticipa, quasi
scusandosi di quel viziaccio.
Poi ci illustra un poʼ la vita di questʼassociazione.
Il quadro che ne viene fuori è quello di una specie di club
per anziani marittimi, con la passione per le navi e tutto
quello che ci gira intorno: documenti, foto, libri ecc...
Li vedo riunirsi nelle sere dʼinverno, un giorno alla
settimana, a parlare del più e del meno, con qualche
discorso anche sulla nautica o a chiedere informazioni
sulla salute di qualcuno dei membri e se per caso uno dei
conoscenti se nʼè andato, ripercorrerne la vita, le
avventure, gli imbarchi...
Il presidente ci accompagna in una grande stanza dove
sono esposti numerosi modelli di navi di ogni epoca, ma
con particolare attenzione per quelle costruite nel secolo
scorso e le navi bianche, molte di queste realizzate nel
cantiere di Monfalcone nel dopoguerra, che hanno solcato
tutti i mari con migliaia di emigranti a bordo.
Partivano dalla stazione marittima di Trieste verso le
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Americhe o lʼ Estremo Oriente.
Molti modelli sono di navi militari, sommergibili,
dragamine, corazzate.
Poi ci fa vedere unʼaltra stanza dove ci sono centinaia di
libri e documenti, i registri dei Lloyds di Londra, dove
sono segnate tutte le unità navali del mondo. E poi
documenti rari, lastre fotografiche, fotografie e cartoline,
stivate in una bellissima cassettiera appesa.
Un oggetto appartenuto a qualche ufficio marittimo, che
veniva usato come schedario; e poi ancora oggetti navali,
curiosità, tutto odoroso di carta vecchia, di muffa, di legno
stagionato.
Quella mattina il tempo si è fermato, sommerso dai
ricordi, accarezzato dalla storia e anche da qualche
tragedia del mare.
Eravamo venuti (il segretario del Sindaco ed io) per
chiedere in prestito alcuni modelli di navi bianche,
possibilmente costruite a Monfalcone, poichè dovevamo
esporle allʼinaugurazione del rinovato Palazzetto Veneto,
che diventerà un museo.
Il Presidente, ad un complimento del segretario riguardo
la sua verve, ci precisa diverse volte che lui ha
settantaquattro anni.
“Cosa ve ne pare?” - ci chiede, e noi rispondiamo quasi in
coro: “però, complimenti!”
Ci offre ampia disponibilità sui modelli, consigliandone
qualcuno di particolare.
Poi, mi viene in mente di fargli una domanda: “ma quando
lei non ci sarà più, perchè stufo di venire qui ogni giorno o
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per qualche altro impegno o, speriamo di no, da qualche
acciacco, chi la sostituirà?”
“Purtroppo dietro di me cʼè solo una generazione di 50/60
anni e poi il vuoto.”
Tutto andrà nel dimenticatoio, in qualche magazzino, a far
compagnia a chissà quali oggetti anchʼessi dimenticati o
messi da parte.
E così un pezzo di storia perderà la sua importanza e
finiranno nellʼoblio anche i protagonisti.
Dopo questo incontro una riflessione ha aperto un
pensiero pessimista ma credo vero: buttare via tutto, tutti
gli oggetti modelli compresi.
In fondo le navi sono oggetti che non ci sono più, demolite
o affondate.
È come se tenessimo i modelli di camion, autobus, treni
che hanno trasportato persone e cose ma che ormai
hanno esaurito la loro storia.
Siamo pieni di libri che non leggiamo, fotografie che non
guardiamo, oggetti che non usiamo.
E allora via tutto.
Mio fratello, appassionato di fotografia, realizzò trentʼanni
fa qualche migliaio di diapositive 6x6 con una Hasselblad,
un mito che solo pochi si potevano permettere.
Non le ha mai guardate.
Riposano da trentʼanni nei contenitori di quel tempo.
Nessuno avrà la pazienza di guardarle perchè non cʼè
interesse, tutte le informazioni arrivano dalla Rete.
Siamo sommersi dalle immagini e dai dati che ci arrivano
da tutte le parti.
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Abbiamo bisogno di vuoto.
Come nelle foto di Hiroshi Sugimoto.
È un fotografo che ha esposto le sue opere in una grande
mostra a Villa Manin di Passariano.
Geniale.
Mi è piaciuto perchè ribalta il concetto di fotografia come
testimone della realtà.
Lui fotografa le statue di cera del museo di Madame
Trussaud a Londra. Le illumina in maniera personale e le
riprende in bianco e nero.
I personaggi, pur essendo morti, rivivono nelle statue e la
foto sembra fatta quandʼerano ancora in vita, compresi
Napoleone ed Enrico VIII con le sue sei mogli.
Oppure fotografa le sale cinematografiche americane
degli anni ʻ20 e ʼ30, nel buio di una proiezione, con lo
schermo riflettente di luce e la platea completamente
vuota.
E così è la sala la protagonista, non il film.
Ritorna il concetto di ribaltamento della realtà.
Con nuove meraviglie.
Il vuoto è il protagonista assoluto.
E così ho iniziato a buttare via un oggetto al giorno.
Di tutti i tipi.
Prima gli inutili, poi i più kitchs poi, via via gli altri, più
significativi o utili ma inutilizzati e dimenticati.
Piano piano ho un senso di leggerezza sempre più
grande.
Non mi mancano.
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È come se mano a mano che li getto via mi liberassero la
pelle e la facessero respirare.
Gli oggetti posso essere vitali solo in particolari
circostanze.
Alex Bellini arrivò in studio un tardo pomeriggio di
settembre, poco prima della chiusura.
Con quel suo sorriso disarmante ci chiese, con una
cortesia non del luogo, se noi realizzavamo scritte
adesive. ”Ecco un altro confuso” - pensammo tutti.
Era stata una giornata pesante, una di quelle in cui
capitano tutti con le richieste più svariate: gigantografie
per stand, pieghevoli per club privée, cartelli per
lavanderie automatiche, annunci immobiliari, biglietti
augurali personalizzati e “tutto per ieri”. Paola e
Domenico, grafici tuttofare ma anche front office, non ne
potevano più.
Paola sollevò lo sguardo dal video e squadrò quel tizio
con una chiavetta USB in mano che non prometteva
niente di buono.
Io stavo trafficando con qualcosa, tipo preventivi e simili,
e vedendo la situazione mi avvicinai cercando di capire a
che ora avremmo finito quella sera...
Presi la chiavetta e la aprii su un computer disponibile: la
prima foto che apparve era quella dʼun imbarcazione tipo
canoa, con un tizio barbuto che remava sorridendo.
Feci immediatamente un percorso a ritroso nel tempo
chiamando Paola a guardare la foto e ricordando assieme
la trasmissione di Radio2, Caterpillar, dove Cirri e
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Solibello, un anno prima, seguivano in diretta, ogni
venerdì, lʼimpresa di un navigatore solitario che stava
attraversando lʼOceano Atlantico a remi...
Improvvisamente lo studio si accese e lʼinteresse per quel
personaggio timido e sbarbato diventò totale.
Alex aveva compiuto unʼimpresa storica, che noi
avevamo seguito con grande interesse per radio e
adesso lo avevamo, chissà per quale strano destino, in
studio che ci chiedeva delle scritte adesive per la sua
barca.
Erano i marchi dei suoi sponsor che finanziavano una
seconda impresa, quella che si apprestava a realizzare
adesso: lʼattraversata del Pacifico, sempre a remi.
Davanti a certe imprese, compiute per di più da uomo
solo, bisogna inchinarsi.
Il nostro lavoro sembrava un giochino da femminucce in
confronto ad una fatica simile.
Alex, oltretutto, è una persona semplice, timida, “un
montanaro con la passione del mare”, come dice lui.
Potrebbe raccontarci la sua avventura, durata oltre 200
giorni, come se fosse stata una vacanza avventurosa, ma
pensando allʼOceano non è così.
Duro allenamento e una grandissima forza dʼanimo non
sono sufficienti per unʼimpresa così.
Ascoltando per radio le fasi dellʼarrivo in Brasile, un
venerdì pomeriggio, Alex comunicò che sarebbe sbarcato
il giorno dopo, con lʼaccoglienza festosa della gente
brasiliana, la Marina Militare e compagnia…
Solibello disse: “ma Alex, domani non andiamo in onda!
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Non è che potresti posticipare lʼarrivo a lunedì, così
facciamo una trasmissione in diretta e siamo più
contenti?”
Ora, qualsiasi persona, atleta, personaggio o no, dopo
oltre 200 giorni di Atlantico in solitaria, tra tempeste,
difficoltà di ogni genere, stremato dai remi, dimagrito, con
la moglie che lo aspetta in porto assieme ad una folla
festosa, li avrebbe mandati in mona, come si dice da noi,
assieme a tutti i bulldozer della radio!
Bellini - il carattere è anche nel nome - no.
Lui si fece ancora due giorni di remi, e possiamo
immaginare dove arrivò, per poi approdare il lunedì in
tempo per la trasmissione e fare il collegamento in diretta.
Questo è Alex, che ora ci sorride in un poster insieme a
Renato e Giulia, che gli hanno personalizzato “con due
scritte adesive” la sua barca.
La sua seconda traversata a remi, questa volta del
Pacifico lʼabbiamo sentita più da vicino, ricevendo,
praticamente ogni tre giorni, una e-mail con il resoconto
dellʼavventura...
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Venerdì santo.
Un tempo, da bambino, erano i giorni più tristi dellʼanno.
Frequentando da chierichetto la chiesa del paese, quei
giorni erano scanditi dalla Passione di Gesù, con i riti
della settimana santa.
Oggi, a cinquantacinque anni, alle ore 3 del pomeriggio,
mi sono fermato con un pensiero.
È un pomeriggio freddo e piovoso, con una pioggia fitta e
insistente; sto andando allʼospedale di Udine per una
ecografia di controllo.
Finora non ho pensato allʼesame, anzi, per essere
preciso, non ci penserò fino al momento in cui il medico
insisterà a passare lʼecografo colmo di gel sul mio fianco
destro.
In quel momento il cuore prende consapevolezza di ciò
che sto facendo.
E se ci fosse qualcosa che non va?
E se sul computer si manifestasse una macchia più scura
o qualcosa di anomalo e il dottore mormorasse:
“mmm,qui...cʼè qualcosa... ma... non è chiaro...”
Il mondo precipiterebbe di nuovo.
Basta così poco? Sì, basta così poco per far riaffiorare
tutto il percorso di una malattia.
Sono le due del pomeriggio e io penso alla crocifissione,
a quel pomeriggio di sole caldo che si trasforma in un
temporale improvviso, quando Gesù sembra non
respirare più.
Da bambino ero veramente abbattuto e triste prima di
Pasqua. E dopo, la domenica, si slegavano le campane e
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si festeggiava la resurrezione.
Si potevano finalmente gustare le “pinze”, le focacce
pasquali fatte dalle mamme il giovedì e che dovevano
rimanere intatte fino alla domenica (quella sì era una
passione).
Oggi è Venerdì Santo e lʼesame è andato benissimo, slego le mie campane e sono felice. Nel Duomo di San Sebastian, una splendida località di
villeggiatura nel nord della Spagna, mi soffermo un poʼ più
a lungo su un crocifisso.
Una lama di luce, in una navata un poʼ scura, ne mette in
evidenza tutta la sua tragicità.
Un uomo, cadavere appeso come un coniglio o un
animale, inchiodato su due assi di legno.
Ci meravigliamo delle immagini televisive di scene di
guerra, con cadaveri sulle strade o scene di fucilazione.
Rabbrividiamo allʼesecuzione, con un coltello piantato
nella carotide, del primo prigioniero americano in mano ai
talebani.
Internet ci ha mostrato tutto ormai.
È come se la scena televisiva sancisse che
quellʼavvenimento è vero poichè è stato trasmesso.
La violenza non si nasconde nemmeno davanti ai
bambini, a qualsiasi ora del giorno e della notte. Eppure
Gesù Cristo, da duemila anni si mostra come un animale
macellato, con il sangue e tutto il resto.
Il film di Mel Gibson, La Passione di Cristo, evidenziava
tutta la violenza del calvario di un uomo, massacrato di
botte, frustato a sangue, inchiodato ancora vivo e appeso.
115
Questo corpo lo abbiamo visto per duemila anni così. E
tutta la religione cristiana evidenzia questo momento
tragico e violentissimo.
Ho pensato che questo simbolo religioso, riportato ai
giorni nostri, sia un uomo su una sedia elettrica, nel
momento della sua esecuzione.
Con i muscoli facciali tirati, la testa fumante dalla corrente
scaricata e i nervi tesi fuori dai muscoli. Come se questo
simbolo (anche se non sanguinolento) venisse posto in
ogni luogo sacro sopra un altare, nelle nicchie delle
navate. Dipinto in tutte le maniere, stampato a colori sui
libri religiosi...
Un problema potrebbero essere le collanine, i simboli in
oro e le riproduzioni da appendere nelle aule
scolastiche...
Oppure, che cosa insegnare ai bambini al mattino: farsi il
segno della sedia?
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Posso scrivere sul Moleskine con la mia Montblanc
bicolore, ultimo residuato di almeno 4 o cinque esemplari
“morti” in svariate modalità.
Mi ricordo, per esempio, un esemplare Meisterstück
bordeaux, volato via dal taschino di una camicia estiva
che aveva cominciato a sventolare troppo, a 140 allʼora,
sullo scooter in autostrada.
Fulminea la caduta, fulmineo il pensiero di un camion che
seguiva, ignaro di appiattire, poco dopo, 300 mila lire di
biro.
Oppure lʼavventura fantozziana nella campagna friulana
dove, scorgendo da lontano un furgone conosciuto di una
ditta di Monfalcone, in evidente difficoltà in una stradina di
campagna, mi fermo per prestare aiuto allʼautista, mio
conoscente.
Imbrattandomi le scarpe per raggiungerlo vedo che si è
impantanato profondamente.
”Cosa succede?”
“Eh... sono venuto a fare la pipì e adesso... vedi... avrei
bisogno di una spinta…”
Mi metto dietro, lui alla guida, motore su di giri, partenza,
schizzi, come secchiate di fango, la Montblanc che avevo
nel taschino, chinandomi, mi cade e si immerge nel
fango, lʼuomo che mi saluta con un gesto dal finestrino e
ringraziandomi sʼallontana...
Rimango attonito, infangato e solo, in mezzo a quel
campo, senza rendermi conto del danno...
In quel periodo facevo il rappresentante e quindi la
117
giornata era compromessa. Torno a casa svuotato
(letteralmente) di tutto.
Sono cose che capitano... anche con gli occhiali.
Il dramma dei miei occhiali vale bene un capitolo di
questo scritto!
Da quando ho incominciato a portare gli occhiali da
lettura, il problema non è stato che non ci vedevo più, ma
la quantità di occhiali che ho distrutto in questi pochi anni.
Da vista e da sole, la strage è la stessa. Le modalità sono
diverse solo per un particolare: gli occhiali da vista sono
legati ad una cordicella al collo che provoca più danni di
una femmina di cinghiale con prole!
Questi cordini sʼimpigliano dappertutto, diventano come
elastici di una fionda e quando si sganciano, scagliano
fusto e lenti molto in là... verso le gomme di un auto, ad
esempio, in acqua, davanti ad un piede che sta per
toccare terra, eccetera...
Come, ad esempio, un paio di occhiali da vista, con il
fusto in titanio sottilissimo, a cui avevo applicato, anzichè
il solito cordino, un filo da pesca trasparente, proprio per
renderli più invisibili possibile.
Infatti, una sera, scendendo dalla macchina pieno di
cartelline, borse, fogli e quantʼaltro, impigliandosi non so
dove, presero il volo verso il centro della strada,
spaccandosi in due.
Panico.
Un pezzo lo trovo subito ma mi manca lʼaltra metà che,
essendo trasparente, ha pensato bene di rimanere
invisibile fino allʼarrivo di unʼauto...
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Con quei duecento euro avrei potuto comperare qualsiasi
altra cosa (non una Montblanc!) che sarebbe durata
sicuramente di più.
Un paio da sole (Rayban, bellissimi) ebbero un destino
beffardo.
Sempre lo scooter di prima, in un rettilineo, ad una
velocità sostenuta, li avevo nel taschino, visto che non
cʼera molto sole e per il solito effetto bandiera della
camicia, mi cadono.
Me ne accorgo subito e freno bruscamente.
Gli occhiali per effetto della velocità mi “sorpassano”
strisciando a terra e attraversano la strada. Una strada
piena di traffico ma in questo caso nessun veicolo
dallʼaltra parte li schiaccia.
Faccio inversione di marcia e mi fermo per raccoglierli,
tenendomi leggermente verso il centro della strada per
proteggerli...
Non riesco però a controllare lo scooter per scendere e gli
occhiali finiscono sotto la ruota davanti.
Il mio amico ottico, ogni volta che mi vede, chiama suo
fratello per renderlo partecipe dei miei racconti su come
ho ridotto lʼennesimo paio di occhiali.
Potrei tranquilamente fare il collaudatore, testando nelle
situazioni più estreme ogni fusto ed ogni lente.
Certi oggetti, che fanno parte della mia vita quotidiana,
non riescono a mantenersi integri per molto tempo,
oppure giocano a nascondino, tipo le chiavi o funzionano,
nonostante tutto, tipo il telefonino.
119
Trentadue anni per rincontrarsi di nuovo.
Trentadue anni dal servizio militare in Piemonte. Una
manciata di giorni insieme, quattro ragazzi di posti diversi,
uniti per forza, che si scoprono con lʼanima simile.
Qualche scherzo, qualche foto che ci ritrae mentre
fingiamo di essere quattro generali della II Guerra
Mondiale mentre elaborano qualche strategia militare,
pochi ricordi ma nitidi.
Tasselli indelebili di un mosaico.
Poi la vita scorre, con la storia più intensa, con la
tecnologia più veloce che mai, che fagocita tutto.
I sentimenti, il tempo dei ricordi, la corsa per vivere senza
specchietto retrovisore.
Passano i postumi del ʻ68, gli anni di piombo, la crisi
economica, il crollo del Muro, Internet.
Ma un filo sottilissimo ed impercettibile ci tiene legati.
Qualche telefonata, qualche e-mail ed eccoci
allʼappuntamento tanto aspettato.
Lucio, il nostro “generale in capo” è una persona che in
tutti questi anni non ha mai perso di vista il suo obiettivo
di riunirci, di riformare quel quartetto.
Da ogni parte del mondo mi sono arrivate le sue cartoline.
Il suo lavoro lo portava soprattutto negli States e penso
che lui ne era felice.
Valentino è il mio “vicino di casa”, poichè abitiamo ad una
ventina di chilometri di distanza. Ma in questi anni non ci
siamo mai visti nè sentiti.
Cʼè voluto un livornese per farci riunire. Saverio, animo
mite, è di Lanciano, vicino a Chieti.
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Il luogo dellʼappuntamento è la stazione di Bologna,
proprio davanti al cratere della bomba del terrorismo nero
dei NAR.
Ci riconosciamo tutti, subito.
Quattro uomini maturi con i segni della vita (o meglio con
le misure della “vita” abbondanti).
Siamo uomini normali sullʼorlo della pensione ma che
hanno cavalcato i mitici anni ʻ70/ʻ80 partecipando a
concerti rock, viaggiando per il mondo, sognando e
ripudiando lʼAmerica.
Siamo uomini come tanti altri ma ora “sappiamo”.
Trasmettiamo ai nostri figli lʼentusiasmo dei nostri anni.
A pranzo, il nostro “generale in capo” ci ha preparato una
sorpresa.
Torta celebrativa e spumante, cappellini con le 4 stelle
per noi, e 5 per lui: Ubi Maior...
Abbiamo gli stessi occhi, vitali e sinceri come trentʼanni
fa. Occhi che hanno visto di tutto, registrato nel bene e
nel male lo scorrere della storia. Occhi che hanno pianto
e che hanno riso mille volte.
Riprendiamo un discorso interrotto a quel tempo, con alle
spalle una montagna di discorsi fatti, di persone
incontrate, di figli, di amori, di affetti.
Tutto è filtrato dal tempo di vivere, da milioni di emozioni
vissute.
La vita ci è rotolata addosso e noi, comunque, ne siamo
stati protagonisti attivi.
La cosa strana è che non parliamo dei ricordi, dei tempi
del militare ma, come se ci fossimo conosciuti oggi,
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raccontiamo quello che stiamo facendo adesso, le nostre
esperienze di vita.
Prima di riprendere il treno di ritorno, in sala dʼaspetto, cʼè
un militare in divisa, senza mostrine (vuol dire che
appena partito per il servizio militare) che aspetta il treno
insieme ai genitori.
Non si vedono più i militari, visto che la divisa non è più
obbligatoria. È un segno inequivocabile che ci arriva alla
fine di una giornata carica di ricordi.
Lo osserviamo e ci rivediamo giovanissimi, ai piedi della
vita.
Ora gli anni si sentono, forse per la prima volta.
Tutto questo tempo trascorso si manifesta
improvvisamente, come fosse un registratore di cassa
che tira le somme.
Noi abbiamo pagato... finora.
122
Le rondini ci sono ancora, con i loro giri ampi ricordano le
sere dʼestate nelle piazze assolate.
Sono in pensiero per Giulia, che sta diventando matta con
il lavoro a Trieste ma ce la farà.
Lei è tosta, quando deve risolvere problemi.
É ancora la mia cucciola ma dimostra di crescere sempre.
Sono steso sul letto dʼospedale per il solito controllo
(anticipato a 4 mesi anzichè 6), forse un poʼ più attento,
visto che qualche cellula risulta recidiva e bisogna tenerla
dʼocchio.
Ho subito fatto amicizia con un fotografo vecchia maniera
e con un rappresentante di scarpe.
Due persone tradite dal proprio lavoro.
Il fotografo ricorda che negli anni passati lavorava molto
per lʼospedale: tutte le foto scattate dai medici, durante gli
interventi, le stampava lui. Ora, con lʼavvento del digitale,
ha perso completamente queste lavorazioni.
Il suo amore per la pellicola è stato, suo malgrado,
rimpiazzato dalle nuove tecnologie.
A nessuno importa più la qualità dellʼimmagine e dei
colori. Tutte le attrezzature non digitali, acquistate con
grandi sacrifici negli anni, non valgono nulla.
La sua esperienza non la cerca più nessuno.
Il rappresentante di scarpe è sfiduciato.
Lavora per uno dei marchi italiani più grossi, che ha
trasferito la produzione in Cina.
Mi dice:” capirei se dovessimo combattere con il prezzo,
ma le nostre calzature hanno un prezzo imposto di 130
euro e le paghiamo a malapena 5, io ho una provvigione
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di 1 euro al paio.”
E i nostri artigiani italiani? Chiudono tutti.
Due mondi diversi che convergono nella crisi attuale, con
i problemi di tutti e le ansie per il futuro.
Siamo davanti ad una recessione senza eguali.
Il crollo improvviso di unʼeconomia basata sul nulla,
generata da una speculazione immobiliare da parte
dellʼAmerica, ci sta travolgendo come un terremoto,
senza via di scampo.
Ci rendiamo conto solo ora della frenesia del possesso
che ci ha avvelenato negli ultimi decenni. Una vita al di
sopra delle possibilità, senza un attimo per pensare al
nostro “essere”.
Siamo pieni di sovvrastrutture inutili, sommersi da oggetti
che sembravano vitali e nel momento in cui li
possediamo, di colpo perdono ogni significato.
La ricerca, la cultura e la scienza, messe allʼultimo posto
nella scala delle priorità e così via.
E allora, estremizzando, mi viene in mente lʼacqua del
deserto libico.
Doppiamente preziosa: per la nostra vita nel Sahara ma
anche perchè fossile, cioè limitata nella quantità.
Una volta esaurito il pozzo, fine.
Le considerazioni fatte negli anni, come un cerchio che
sta per chiudersi, ritornano alle passeggiate da studenti
dellʼArte, dove il nostro prof. ci faceva osservare le cose
piccole, apparentemente insignificanti ma preziose per il
vivere.
Ora, quando guarderemo le macerie di questo terremoto
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insieme ai nostri figli, dovremo rispondere a diverse
domande.
Dovremo sperare che da loro parta un nuovo
Rinascimento, che quei pochi semi bianchi che ancora
abbiamo, servano loro per far crescere un nuovo mondo,
più semplice, più in armonia con la natura.
La riga rossa non è solamente per tirare le somme del
nostro vissuto ma, come a scuola, per evidenziare gli
errori nei compiti.
Manca comunque il voto.
126
Prima Edizione: Aprile 2011 Media Com Monfalcone
Progetto grafico ed impaginazione: Cinzia Pastorutti Fabrizio Prosperi
Revisione dei testi: Marina Tuni
Stampato dalle Poligrafiche S.Marco di Cormons
Le Foto sono di: Licio Comisso
Maurizio Frullani Livio Comisso MEDIACOM
Il carattere del testo è un Helvetica medium,
in occasione dei suoi 100 anni
in 300 copie