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1 LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO NEL QUADRO DELLA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE: IL PUNTO DI VISTA DEL GIUDICE Dott. ALESSANDRO FAROLFI Giudice del Tribunale di Modena 1. PREMESSA: TENDENZE EVOLUTIVE DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE IN AMBITO SANITARIO Affrontare il tema significa assegnato significa necessariamente, quantomeno in sintesi e per linee di tendenza, dare conto della rilevanza anche statistica del fenomeno per cui in numero sempre crescente medici e, più in generale, personale sanitario e strutture erogatrici dei relativi servizi finiscono per essere evocati in giudizio al fine di rispondere dei danni causati a pazienti o anche, più semplicemente, del mancato raggiungimento dei risultati da questi sperati. Non è certo questo lo spazio per affrontare in modo esaustivo la tematica della responsabilità civile in ambito sanitario e la sua evoluzione dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale 1 . 1 In argomento, la ricerca bibliografica può utilmente iniziare, pur senza pretese di esaustività, dalla consultazione delle seguenti opere: ALPA e BESSONE, Giurisprudenza sistematica Bigiavi, Torino, 1997, p. 781; AA.VV., La responsabilità professionale dei medici. Profili medici, civili, penali e riflessi assicurativi , Atti del convegno AIDA – Crotone, 8 dicembre 2000, in corso di pubblicazione; BARNI, Diritti doveri responsabilità del medico dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1999; ID., La responsabilità medica verso il difficile approdo dell’assicurazione obbligatoria, in Resp. civ. previd. , 2000, p. 830 ss.; BARNI- SANTOSUOSSO, Medicina e diritto, Milano, 1995; BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1995; CARUSI, Responsabilità del medico ed obbligazioni di mezzi, in Rass. Dir. Civ. , 1991, p. 485 ss.; CATTANEO, La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982; COSTANZA, Informazione al paziente e responsabilità del medico, in Giust. Civ. , 1986, I, p. 1432 ss.; DE MATTEIS, La

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LA RESPONSABILITA’ DEL MEDICO NEL QUADRO

DELLA RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE: IL PUNTO DI VISTA DEL GIUDICE

Dott. ALESSANDRO FAROLFI

Giudice del Tribunale di Modena

1. PREMESSA: TENDENZE EVOLUTIVE DELLA RESPONSABILITA’ CIVILE IN AMBITO SANITARIO

Affrontare il tema significa assegnato significa

necessariamente, quantomeno in sintesi e per linee di tendenza, dare conto della rilevanza anche statistica del fenomeno per cui in numero sempre crescente medici e, più in generale, personale sanitario e strutture erogatrici dei relativi servizi finiscono per essere evocati in giudizio al fine di rispondere dei danni causati a pazienti o anche, più semplicemente, del mancato raggiungimento dei risultati da questi sperati.

Non è certo questo lo spazio per affrontare in modo esaustivo la tematica della responsabilità civile in ambito sanitario e la sua evoluzione dottrinale e, soprattutto, giurisprudenziale1. 1 In argomento, la ricerca bibliografica può utilmente iniziare, pur senza pretese di esaustività, dalla consultazione delle seguenti opere: ALPA e BESSONE, Giurisprudenza sistematica Bigiavi, Torino, 1997, p. 781; AA.VV., La responsabilità professionale dei medici. Profili medici, civili, penali e riflessi assicurativi , Atti del convegno AIDA – Crotone, 8 dicembre 2000, in corso di pubblicazione; BARNI, Diritti doveri responsabilità del medico dalla bioetica al biodiritto, Milano, 1999; ID., La responsabilità medica verso il difficile approdo dell’assicurazione obbligatoria, in Resp. civ. previd. , 2000, p. 830 ss.; BARNI-SANTOSUOSSO, Medicina e diritto, Milano, 1995; BILANCETTI, La responsabilità penale e civile del medico, Padova, 1995; CARUSI, Responsabilità del medico ed obbligazioni di mezzi, in Rass. Dir. Civ. , 1991, p. 485 ss.; CATTANEO, La responsabilità medica nel diritto italiano, in AA.VV., La responsabilità medica, Milano, 1982; COSTANZA, Informazione al paziente e responsabilità del medico, in Giust. Civ. , 1986, I, p. 1432 ss.; DE MATTEIS, La

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Non può, tuttavia, non mancarsi di rilevare come la crescente attenzione dei giuristi e, perché no, delle stessa compagnie assicuratrici al fenomeno sia esso stesso il riflesso di alcune linee di tendenza che occorre preliminarmente a riassumere.

In primo luogo, prima ancora di affrontare le cause giuridiche della crescente rilevanza dell’argomento trattato, si deve constatare come sul piano sociale e fenomenologico, il paziente sia oggi assai meno conciliante e disposto ad accettare fatalisticamente i limiti del progresso scientifico e delle terapie adottate, determinando, con comportamento in qualche misura mutuato dalla stessa esperienza nordamericana ed agevolato molto spesso da associazioni di tutela del consumatore o del malato, un numero sempre crescente di cause civili o penali in cui si chiede conto non soltanto del risarcimento di eventuali danni dovuti a comportamenti od illeciti commissivi ma, soprattutto, di illeciti omissivi che finiscono per imporre una rivalutazione a posteriori delle stesse scelte terapeutiche adottate e delle metodologie con le quali le stesse sono state applicate o comunicate al paziente.

Sul piano giuridico, poi, l’evoluzione giurisprudenziale in materia ha determinato, nel più ampio alveo della responsabilità civile, la creazione di un vero e proprio “sottosistema” retto da regole molto spesso più stringenti che verso altri operatori o professionisti, sia per la particolare diligenza richiesta all’operatore sanitario, sia per la rilevanza costituzionale e

responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1996; FIORI, BOTTONE, D’ALESSANDRO, Quarant’anni di giurisprudenza della Cassazione nella responsabilità medica , Milano, 2000; GALGANO, Contratto e responsabilità contrattuale nell’attività sanitaria, in Riv. Trim. dir. Proc. civ., 1984, p. 710 ss.; GORGONI, Disfunzioni tecniche e di organizzazione sanitaria e responsabilità sanitaria , in Resp. civ. previd. , 1999, p. 1007 ss.; IUDICA, Danno alla persona per inefficienza della struttura sanitaria, in Resp. civ. previd., 2001, p. 3 ss.; PARODI-NIZZA, La responsabilità penale del personale medico e paramedico, Torino, 1996; PRINCIGALLI, La responsabilità del medico, Napoli, 1983; TOSCANO, Il difetto di organizzazione: una nuova ipotesi di responsabilità? (nota a Trib. Monza, 7 giugno 1995), in Resp. civ. previd., 1996, p. 398 ss.; ZANA, Responsabilità medica e tutela del paziente, Milano, 1993.

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primaria del bene salute (art. 32 Cost.) coinvolto e potenzialmente messo a repentaglio dall’erogazione del servizio sanitario.

Non può che rilevarsi come la giurisprudenza attuale abbia pressochè abbandonato il tradizionale favor verso i professionisti intellettuali e gli esercenti professioni liberali. Ciò è dato cogliere, in primis, nell’ormai accettata lettura restrittiva dell’art. 2236 c.c., la cui esenzione da responsabilità in caso di “colpa lieve” è oggi limitata alle ipotesi di imperizia e non di semplice negligenza od imprudenza. In altri termini, poiché la norma citata afferma “se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore non risponde dei danni se non in caso di dolo o colpa grave”, il ragionamento svolto lega teleologicamente la valutazione della colpa in concreto alla presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà, concludendo che solo la lieve imperizia in questi casi debba andare esente da responsabilità, in quanto la speciale difficoltà del caso non può esimere il medico da cali di attenzione anche lievi o da lievi negligenze che, per l’appunto, potranno portare comunque alla responsabilizzazione del professionista.

In secondo luogo, per rimanere all’interno del divisato processo evolutivo giurisprudenziale, può cogliersi la tendenza a ricostruire in un sempre maggiore numero di casi la responsabilità del medico quale nascente da una vera e propria obbligazione di risultato e non di mezzi. Si allude alle c.d. prestazioni chirurgiche o sanitarie di routine , in cui il mancato raggiungimento del risultato “sperato” porta a ritenere sussistente una culpa in re ipsa del medico, al quale incombe perciò l’onere di dimostrare che, nonostante il caso comportasse l’applicazione di tecniche collaudate, nondimeno l’insorgenza di fattori esterni a sé non imputabili hanno determinato l’esito infausto. Il professionista, quindi, in questi casi, si trova soggetto ad un duplice onere probatorio: dimostrare di aver eseguito la prestazione in modo diligente e perito; dimostrare la causa

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specifica che, in assenza di propria colpa, ha determinato l’aggravamento delle condizioni del paziente od il mancato raggiungimento del risultato positivamente preconizzabile sulla scorta degli standars di settore e diligente applicazione delle leges artis.

Più in generale, la sempre più frequente valutazione delle ipotesi di responsabilità civile del medico o della struttura sanitaria nell’ambito della responsabilità contrattuale comporta due rilevanti vantaggi per il paziente che agisca in giudizio: a) in primo luogo il termine di prescrizione applicabile è quello ordinario decennale e non il più breve termine di cinque anni previsto dall’art. 2947 comma 1 c.c.; b) l’attore non è tenuto a dare la prova della colpa del medico, ma unicamente della fonte dell’obbligazione (molto spesso coincidente con la stessa accettazione o ricovero, secondo la teoria del “contatto sociale”), del danno e del nesso causale, spettando al professionista l’onere di dimostrare, anche alla luce del criterio generale di cui agli artt. 1218 e 1176 c.c. la propria assenza di colpa (e nei casi di non difficile esecuzione l’ulteriore dimostrazione di una causa esterna determinante il danno). Tale più favorevole posizione dell’attore sembra oggi accentuarsi alla luce delle più recenti prese di posizione della Cassazione.

2. L’ONERE DELLA PROVA NELLA RESPONSABILITA’

CONTRATTUALE E L’ADEMPIMENTO DELLE PRESTAZIONI SANITARIE

Come è noto, la dottrina più avvertita ha sottoposto a

convincente revisione critica la tradizionale interpretazione in termini di colpa presunta della responsabilità da inadempimento contrattuale (rilevando come la stessa tralatizia affermazione di una presunzione di colpa si accompagnasse alla richiesta per il

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debitore, al fine di andare esente da responsabilità, di provare l’impossibilità non imputabile, ovvero la non esigibilità dell’adempimento avuto riguardo alle circostanze concrete ed al regime di profittabilità del negozio e, in ultima istanza, l’insorgenza di un nesso causale autonomo). Dall’altro, la stessa giurisprudenza di legittimità, a Sezioni Unite, ha composto un precedente contrasto fra sezioni semplici, parificando l’onere probatorio del creditore che agisca per il risarcimento del danno da inadempimento con quello gravante sullo stesso soggetto che agisca per ottenere l’adempimento. Se infatti si era precedentemente affermato che, nel primo caso, dare la prova del fatto costitutivo significasse dimostrare, oltre alla fonte negoziale del diritto ed al mancato soddisfacimento dello stesso anche lo specifico inadempimento della controparte, il S.C., con la recente decisione a Sezioni Unite 6 aprile – 30 ottobre 2001, n. 13533 (in Guida al diritto, 2001, n. 45), ha affermato che “il creditore, sia che agisca per l’adempimento, per la risoluzione o per il risarcimento del danno, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto e, se previsto, del termine di scadenza, mentre può limitarsi ad allegare l’inadempimento della controparte. Sarà il debitore convenuto a dover fornire la prova del fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento”.

Trattasi di presa di posizione autorevole, successivamente ribadita dal S.C., che fondandosi sull’applicazione secondo principi di ragionevolezza dell’art. 1218 c.c., conferma l’applicabilità alla presente fattispecie dell’onere della prova secondo cui spetta al debitore opponente, una volta dimostrato o reso pacifico il titolo negoziale e l’esigibilità della prestazione richiesta, dimostrare il proprio adempimento o altro fatto estintivo od impeditivo della prestazione domandata.

Tali principi appaiono estensibili al tema della responsabilità del medico e della struttura sanitaria, considerato che, quanto a questo ultimo profilo, si è da tempo affermato che:

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“Il ricovero in una struttura deputata a fornire assistenza sanitaria avviene sulla base di un contratto tra il paziente ed il soggetto che gestisce la struttura, e l'adempimento di un tale contratto, per quanto riguarda le prestazioni di natura sanitaria, e' regolato dalle norme che disciplinano la corrispondente attivita' del medico nell'ambito del contratto di prestazione d'opera professionale. Il soggetto gestore della struttura sanitaria (pubblico o privato) risponde percio' per i danni che siano derivati al paziente da trattamenti sanitari praticatigli con colpa, alla stregua delle norme dettate dagli artt. 1176, secondo comma, e 2236 cod. civ. In queste ipotesi la responsabilita' puo' comportare un'obbligazione di risarcimento estesa non al solo danno patrimoniale (art. 1223 cod. civ.), ma anche al danno biologico, e cioe' al danno non patrimoniale costituito dalle conseguenze pregiudizievoli per la salute derivanti dalle menomazioni fisiopsichiche prodotte dal comportamento inadempiente. Ed inoltre, stante la configurabilita' oggettiva anche degli estremi di un reato ove la menomazione dell'integrita' psicofisica si renda riconducibile ad un comportamento colposo, la conseguente estensione della responsabilita' anche al danno morale (art. 2059 cod. civ. e art. 185 cod. pen. ) si configurera' anche a carico del soggetto (pubblico o privato) gestore della struttura sanitaria, costituendosi a criterio di imputazione ( rispettivamente sulla base degli artt. 28 Cost. e 2049 cod. civ.) la circostanza che l'attivita' sanitaria rivolta all'adempimento del contratto sia stata svolta dalle persone, inserite nella propria organizzazione, di cui il gestore si sia avvalso per renderla. Piu' in particolare, allorche' il ricovero sia avvenuto presso una struttura sanitaria gestita da un ente pubblico, perche' a quest'ultimo si renda imputabile la responsabilita' civile conseguente al fatto - reato, si rende sufficiente che il fatto si atteggi oggettivamente come reato e che la condotta che ne contribuisca a costituire l'elemento oggettivo rappresenti una manifestazione del servizio di cui il paziente e' stato ammesso a fruire, giacche', per imputare la responsabilita' all'ente pubblico, basta che l'azione od omissione sia riconducibile ad un'attivita' di un organo dell'ente”.

(Cass. 01/09/1999, n. 9198).

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Mentre sul tema del danno risarcibile si tornerà, resta da aggiungere che il rapporto con il quale si assume l’obbligazione di somministrare cure o prestazioni terapeutiche, diagnosi, ecc., costituisce un vero e proprio contratto (tipico o “di spedalità”, secondo alcune tesi, atipico secondo altri interpreti, posto che non rileva unicamente la valutazione dell’atto medico, ma anche quelle prestazioni accessorie dipendenti dalla corretta organizzazione e struttura dell’ente sanitario)

L’applicazione dei principi in tema di responsabilità contrattuale allo svolgimento di prestazioni sanitarie, con conseguente onere probatorio favorevole al paziente che si ritenga leso, è stata affermata in termini espliciti dalla seguente decisione – resa in un caso di malformazione detta paralisi ostetrica, provocata all’arto superiore destro del minore al momento della nascita.

Si è infatti affermato che “Applicando questo principio all'onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l'onere di provare l'esatto adempimento. Più precisamente, consistendo l'obbligazione professionale in un'obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l'esistenza del contratto e l'aggravamento della situazione patologica o l'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell'onere della

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prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà.

Porre a carico del sanitario o dell'ente ospedaliero la prova dell'esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno a quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell'effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla. Infatti, nell'obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell'inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. In queste obbligazioni in cui l'oggetto è l'attività, l'inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell'esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia "vicina" a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell'inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto” (vds. Cass. 28/05/2004, n. 10297).

Tale principio è stato da ultimo ribadito dalle stesse Sezioni Unite della Cassazione, sent. 11 gennaio 2008, n. 577, le quali hanno sostenuto che va accolta una…

“…lettura del rapporto tra paziente e struttura (anche in quel caso, privata) che valorizzi la complessità e l'atipicità del legame che si instaura, che va ben oltre la fornitura di prestazioni alberghiere, comprendendo anche la messa a disposizione di personale medico ausiliario, paramedico, l'apprestamento di medicinali e di tutte le attrezzature necessarie anche per eventuali complicazioni. In virtù del contratto, la struttura deve quindi fornire al paziente una prestazione assai articolata, definita genericamente di "assistenza sanitaria", che ingloba al suo interno, oltre alla prestazione principale medica, anche una serie di obblighi cd. di protezione ed accessori.

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3.3. Così ricondotta la responsabilità della struttura ad un autonomo contratto (di spedalità), la sua responsabilità per inadempimento si muove sulle linee tracciate dall'art. 1218 c.c., e, per quanto concerne le obbligazioni mediche che essa svolge per il tramite dei medici propri ausiliari, l'individuazione del fondamento di responsabilità dell'ente nell'inadempimento di obblighi propri della struttura consente quindi di abbandonare il richiamo, alquanto artificioso, alla disciplina del contratto d'opera professionale e di fondare semmai la responsabilità dell'ente per fatto del dipendente sulla base dell'art. 1228 c.c..

…Ciò comporta che si può avere una responsabilità contrattuale della struttura verso il paziente danneggiato non solo per il fatto del personale medico dipendente, ma anche del personale ausiliario, nonché della struttura stessa (insufficiente o inidonea organizzazione).

Dalla ricostruzione in termini autonomi del rapporto struttura-paziente rispetto al rapporto paziente-medico, discendono importanti conseguenze sul piano della affermazione di responsabilità in primo luogo, ed anche sul piano della ripartizione e del contenuto degli oneri probatori. Infatti, sul piano della responsabilità, ove si ritenga sussistente un contratto di spedalità tra clinica e paziente, la responsabilità della clinica prescinde dalla responsabilità o dall'eventuale mancanza di responsabilità del medico in ordine all'esito infausto di un intervento o al sorgere di un danno che, come nel caso di specie, non ha connessione diretta con l'esito dell'intervento chirurgico. Non assume, in particolare, più rilevanza, ai fini della individuazione della natura della responsabilità della struttura sanitaria se il paziente si sia rivolto direttamente ad una struttura sanitaria del SSN, o convenzionata, oppure ad una struttura privata o se, invece, si sia rivolto ad un medico di fiducia che ha effettuato l'intervento presso una struttura privata. In tutti i predetti casi è ipotizzabile la responsabilità contrattuale dell'Ente”.

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3. SEGUE: IL CONTRATTO CON LA STRUTTURA SANITARIA E GLI OBBLIGHI DI PROTEZIONE A FAVORE DEL TERZO

Il tema della tutela risarcitoria civilistica del nascituro

rappresenta da sempre uno dei punti più controversi in dottrina e giurisprudenza. Se, infatti, si diventa soggetti di diritto con la nascita, gli orientamenti più tradizionalisti ritenevano che fatti colposi verificatisi prima di tale momento (es. deficit diagnostico) non potessero dare luogo ad un danno direttamente risarcibile in capo al nascituro che in quel momento non avendo soggettività, non poteva risentire di un danno (al più, venivano invece risarcite le conseguenze subite dalla madre).

Superando tale più antico indirizzo, il S.C. ha da tempo affermato che il contratto con la struttura ospedaliera si costituisce mediante il semplice “contatto sociale” e che gli obblighi di diligente assolvimento alle prestazioni nascono non soltanto nei confronti della degente (nel caso la madre gestante), bensì anche nei confronti di soggetti formalmente terzi rispetto a tale contratto (è il caso del nascituro, al momento del ricovero soggetto in fieri). Conseguentemente l’inadempimento può sussistere anche quando il diritto leso sia quello di detti terzi qualificati.

Il S.C. è orami orientato a ritenere che: “In tema di responsabilità professionale del medico chirurgo, sussistendo un rapporto contrattuale (quand'anche fondato sul solo contatto sociale), in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c. il paziente ha l'onere di allegare l'inesattezza dell'inadempimento, non la colpa né, tanto meno, la gravità di essa, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità (nel caso di cui all'art. 2236 c.c.) essere allegate e provate dal medico. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto che il giudice di merito non avesse fatto corretta applicazione di tale principio, avendo rigettato la domanda

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di risarcimento danni nei confronti del medico ecografista per la nascita di un bambino malformato senza accertare se nel corso dell'ecografia gli arti erano stati diligentemente ricercati per verificarne eventuali malformazioni e senza considerare che l'incertezza del risultato di un'indagine non comporta che la stessa sia necessariamente da qualificare come particolarmente difficile, onde il fatto che l'ecografia non consenta di vedere sempre (e bene) gli arti non esclude la necessità di cercarli, o di consigliare la ripetizione dell'indagine, né qualifica quest'ultima come particolarmente difficile)” (Cass. civ., Sez. III, 21/06/2004, n.11488).

Più recentemente si è affermato che: “Il rapporto che si instaura tra paziente (nella specie: una

partoriente) e casa di cura privata (o ente ospedaliero) ha fonte in un atipico contratto a prestazioni corrispettive con effetti protettivi nei confronti del terzo, da cui, a fronte dell'obbligazione al pagamento del corrispettivo (che ben può essere adempiuta dal paziente, dall'assicuratore, dal servizio sanitario nazionale o da altro ente), insorgono a carico della casa di cura (o dell'ente), accanto a quelli di tipo "lato sensu" alberghieri, obblighi di messa a disposizione del personale medico ausiliario, del personale paramedico e dell'apprestamento di tutte le attrezzature necessarie, anche in vista di eventuali complicazioni od emergenze. Ne consegue che la responsabilità della casa di cura (o dell'ente) nei confronti del paziente ha natura contrattuale, e può conseguire, ai sensi dell'art. 1218 cod. civ., all'inadempimento delle obbligazioni direttamente a suo carico, nonchè, ai sensi dell'art. 1228 cod. civ., all'inadempimento della prestazione medico - professionale svolta direttamente dal sanitario, quale suo ausiliario necessario pur in assenza di un rapporto di lavoro subordinato, comunque sussistendo un collegamento tra la prestazione da costui effettuata e la sua organizzazione aziendale, non rilevando in contrario al riguardo la circostanza che il sanitario risulti essere

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anche "di fiducia" dello stesso paziente, o comunque dal medesimo scelto. (Nella specie, relativa a parto gemellare in seguito al quale una neonata aveva riportato encefalopatia da asfissia secondaria ad una sofferenza fetale, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità della casa di cura, pur avendo rilevato l'omessa effettuazione di idonei controlli, quali il monitoraggio CTG, all'ingresso in clinica della partoriente e la circostanza che l'ostetrica in servizio presso la clinica aveva ascoltato il battito di un solo feto senza sollecitare interventi medici o ulteriori accertamenti)” (Cass. civ., Sez. III, 26/01/2006, n.1698).

La risarcibilità dei danni indiretti è stata estesa anche al padre dalla seguente decisione del S.C. che si occupa altresì del diritto ad una piena informazione ai fini della decisione (consapevole) in ordine ad una anticipata interruzione della gravidanza:

“In tema di responsabilità del medico per omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata, il risarcimento dei danni, che costituiscono conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento del ginecologo all'obbligazione di natura contrattuale gravante su di lui, spetta non solo alla madre, ma anche al padre, atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l'ordinamento, si incentrano sul fatto della procreazione, non rilevando, in contrario, che sia consentito solo alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, atteso che, pur sottratta alla madre (e non al padre) la scelta in ordine all'interruzione della gravidanza, agli effetti negativi del comportamento del medico non può ritenersi estraneo il padre, che deve perciò considerarsi tra i soggetti "protetti" dal contratto col medico e, quindi, tra coloro rispetto ai quali la prestazione mancata o inesatta è qualificabile come inadempimento, con il correlato diritto al risarcimento dei conseguenti danni, immediati e diretti”

Cass. civ., Sez. III, 20/10/2005, n.20320

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In precedenza si era peraltro precisato che: “L'ordinamento positivo tutela il concepito e l'evoluzione della

gravidanza esclusivamente verso la nascita, e non anche verso la "non nascita", essendo pertanto (al più) configurabile un "diritto a nascere" e a "nascere sani", suscettibile di essere inteso esclusivamente nella sua positiva accezione: sotto il profilo privatistico della responsabilità contrattuale o extracontrattuale o da "contatto sociale", nel senso che nessuno può procurare al nascituro lesioni o malattie (con comportamento omissivo o commissivo colposo o doloso ); sotto il profilo - latamente pubblicistico, nel senso che debbono venire ad essere predisposti tutti gli istituti normativi e tutte le strutture di tutela cura e assistenza della maternità idonei a garantire (nell'ambito delle umane possibilità) al concepito di nascere sano. Non è invece in capo a quest'ultimo configurabile un "diritto a non nascere" o a "non nascere se non sano", come si desume dal combinato disposto di cui agli artt. 4 e 6 della legge n. 194 del 1978, in base al quale si evince che: a) l'interruzione volontaria della gravidanza è finalizzata solo ad evitare un pericolo per la salute della gestante, serio (entro i primi 90 giorni di gravidanza) o grave (successivamente a tale termine); b)trattasi di un diritto il cui esercizio compete esclusivamente alla madre; c) le eventuali malformazioni o anomalie del feto rilevano esclusivamente nella misura in cui possano cagionare un danno alla salute della gestante, e non già in sé e per sé considerate (con riferimento cioè al nascituro). E come emerge ulteriormente: a) dalla considerazione che il diritto di "non nascere" sarebbe un diritto adespota (in quanto ai sensi dell'art. 1 c.c. la capacità giuridica si acquista solamente al momento della nascita e i diritti che la legge riconosce a favore del concepito - artt. 462, 687, 715 c.c. sono subordinati all'evento della nascita, ma appunto esistenti dopo la nascita), sicché il cosiddetto diritto di "non nascere" non avrebbe alcun titolare appunto fino al momento della nascita, in costanza della quale proprio esso

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risulterebbe peraltro non esistere più; b) dalla circostanza che ipotizzare un diritto del concepito a "non nascere" significherebbe configurare una posizione giuridica con titolare solamente (ed in via postuma) in caso di sua violazione, in difetto della quale (per cui non si fa nascere il malformato per rispettare il suo "diritto di non nascere") essa risulterebbe pertanto sempre priva di titolare, rimanendone conseguentemente l'esercizio definitivamente precluso. Ne consegue che è pertanto da escludersi la configurabilità e l'ammissibilità nell'ordinamento del c.d. aborto "eugenetico", prescindente dal pericolo derivante dalle malformazioni fetali alla salute della madre, atteso che l'interruzione della gravidanza al di fuori delle ipotesi di cui agli artt. 4 e 6 legge n. 194 del 1978 (accertate nei termini di cui agli artt. 5 ed 8 ), oltre a risultare in ogni caso in contrasto con i principi di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. e di indisponibilità del proprio corpo ex art. 5 c.c., costituisce reato anche a carico della stessa gestante (art. 19 legge n. 194 del 1978 ), essendo per converso il diritto del concepito a nascere, pur se con malformazioni o patologie, ad essere propriamente - anche mediante sanzioni penali - tutelato dall'ordinamento. Ne consegue ulteriormente che, verificatasi la nascita, non può dal minore essere fatto valere come proprio danno da inadempimento contrattuale l'essere egli affetto da malformazioni congenite per non essere stata la madre, per difetto d'informazione, messa nella condizione di tutelare il di lei diritto alla salute facendo ricorso all'aborto ovvero di altrimenti avvalersi della peculiare e tipicizzata forma di scriminante dello stato di necessità (assimilabile, quanto alla sua natura, a quella prevista dall'art. 54 c.p. ) prevista dall'art. 4 legge n. 194 del 1978, risultando in tale ipotesi comunque esattamente assolto il dovere di protezione in favore di esso minore, così come configurabile e tutelato (in termini prevalenti rispetto - anche - ad eventuali contrarie clausole contrattuali: art. 1419 c.c., secondo comma) alla

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stregua della vigente disciplina” (Cass. civ., Sez. III, 29/07/2004, n.14488).

4. IL NESSO DI CAUSALITA’ Si è accennato che spetta al danneggiato offrire la

dimostrazione del nesso causale. Anche su questo punto, tuttavia, la giurisprudenza ha fino ad ora consentito un alleggerimento del relativo onere probatorio, ritenendo sussistente il nesso eziologico fra l’omissione del medico ed il danno anche quando l’intervento chirurgico omesso non sia tale da garantire in termini di certezza la sopravvivenza del paziente ma offra una probabilità di successo, sia pure limitata, purchè apprezzabile, indipendentemente da una determinazione matematico-percentuale della stessa (Cass. Pen. 11 novembre 1994 – 18 gennaio 1995, n. 360), giungendo in talune ipotesi a ritenere sufficiente probabilità di esito positivo del 30% (ed estese non alla sola sopravvivenza ma anche al miglioramento dello stato di salute del malato).

Peraltro, la sinteticità di queste osservazioni non può portare a sottacere come la recentissima Cass. Sez. Unite 10 luglio – 11 settembre 2002, n. 30328 (in Guida al diritto, n. 38, 2002, p. 62) seguita immediatamente da Cass. IV pen. 3 ottobre – 15 novembre 2002, n. 38334, per la responsabilità di carattere omissivo (in Guida al diritto, n. 6, 2003, p.67), abbia sancito in favore di esigenze di certezza della responsabilità ed al fine di contenere le spinte espansive ed altrimenti incontrollate della “colpevolizzazione” dell’esercizio della funzione sanitaria, che il giudizio controfattuale condotto sulla base di generalizzazioni di esperienza o basate su di una legge scientifica non sia di per sé sufficiente, dovendosi accertare in concreto ed in termini di

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certezza processuale, escludendosi l’interferenza di fattori alternativi, che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale, l’insufficienza, contraddittorietà od incertezza del riscontro probatorio circa la reale efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto alla produzione dell’evento lesivo comportando l’esito assolutorio del giudizio.

Nonostante l’indubbio elemento di novità derivante dalla presa di posizione autorevole delle Sezioni Unite, non può che confermarsi la tendenziale spinta espansionistica della responsabilizzazione in materia sanitaria, su tale aspetto incidendo in misura consistente almeno altre due dinamiche giurisprudenziali cui, per la limitata estensione di queste pagine, può solo accennarsi: a) l’aumento del novero dei soggetti legittimati a richiedere giudizialmente il risarcimento dei danni, attraverso la ormai acquisita risarcibilità del c.d. danni mediati o riflessi gravanti su quelle che altra dottrina suole icasticamente definire “vittime di rimbalzo” (l’esempio forse più attuale, assieme alla crescente monetizzazione di pregiudizi di carattere patrimoniale o da lucro cessante in capo a congiunti della vittima primaria dell’illecito, risiede nel riconoscimento dei danni morali ai parenti ed al convivente di soggetto che abbia subito lesioni personali, pur non tanto gravi da determinarne il decesso); b) l’individuazione di nuovi pregiudizi risarcibili, fra cui può esemplificarmente accennarsi, nel settore forse più frequentemente evocato in giudizio dell’ostetricia-ginecologica, al danno “da nascita indesiderata” configurato non soltanto nell’ipotesi di errore medico nell’intervento di sterilizzazione ma, come sempre più spesso avviene, nella stessa incompleta o mancata informazione alla paziente e, più in generale, al controverso “danno esistenziale” risarcibile al di fuori della previsione di cui all’art. 2059 c.c. e, quindi, anche nei casi in cui non sia ipotizzabile un fatto astrattamente costituente reato.

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Tali spinte espansive appaiono confermate dalla recente Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, già citata, secondo cui il paziente ha unicamente l’onere probatorio di dimostrare l’esistenza del contratto e del danno, mentre è sufficiente l’allegazione causale della derivazione del pregiudizio dall’inesatta prestazione o qualificato inadempimento del primo:

“Sotto il profilo dell'onere della prova, la distinzione (talvolta costruita con prevalente attenzione alla responsabilità dei professionisti intellettuali e dei medici in particolare) veniva utilizzata per sostenere che mentre nelle obbligazioni di mezzi, essendo aleatorio il risultato, sul creditore incombesse l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da scarsa diligenza, nelle obbligazioni di risultato, invece, sul debitore incombeva l'onere della prova che il mancato risultato era dipeso da causa a lui non imputabile.

5.5. Ma anche sotto tale profilo la distinzione è stata sottoposta a revisione sia da parte della giurisprudenza che della dottrina. Infatti, come detto, questa Corte (sent. n. 13533/2001) ha affermato che il meccanismo di ripartizione dell'onere della prova ai sensi dell'art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale (in conformità a criteri di ragionevolezza per identità di situazioni probatorie, di riferibilità in concreto dell'onere probatorio alla sfera di azione dei singoli soggetti e di distinzione strutturale tra responsabilità contrattuale e da fatto illecito) è identico, sia che il creditore agisca per l'adempimento dell'obbligazione, ex art. 1453 cc., sia che domandi il risarcimento per l'inadempimento contrattuale, ex art. 1218 cc., senza richiamarsi in alcun modo alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

6.1. Prestata piena adesione al principio espresso dalla pronunzia suddetta, ritengono queste S.U. che l'inadempimento rilevante nell'ambito dell'azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni così dette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l'allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è proprio stato

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ovvero che, pur esistendo, non è stato nella fattispecie causa del danno.

6.2. Nella fattispecie, quindi, avendo l'attore provato il contratto relativo alla prestazione sanitaria (ed il punto non è in contestazione) ed il danno assunto (epatite), allegando che i convenuti erano inadempienti avendolo sottoposto ad emotrasfusione con sangue infetto, competeva ai convenuti fornire la prova che tale inadempimento non vi era stato, poiché non era stata effettuata una trasfusione con sangue infetto, oppure che, pur esistendo l'inadempimento, esso non era eziologicamente rilevante nell'azione risarcitoria proposta, per una qualunque ragione, tra cui quella addotta dell'affezione patologica già in atto al momento del ricovero”.

Il tema si connette strettamente anche alle prestazioni sanitarie svolte in equipe, rispetto alle quali il S.C. ha adottato un indirizzo – in sede sia civile che penale – particolarmente responsabilizzante:

“In tema di colpa professionale, nel caso di équipe chirurgiche e, più in generale, in quello in cui ci si trovi di fronte a ipotesi di cooperazione multidisciplinare nell'attività medico-chirurgica, ogni sanitario, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, è tenuto a osservare gli obblighi a ognuno derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune e unico. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio a errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (da queste premesse, la Corte di cassazione ha ritenuto congruamente motivato il giudizio di responsabilità formulato dal giudice di merito anche a carico di un medico non specialista in ginecologia, componente dell'équipe che assisteva una paziente durante il parto, al quale era stato addebitato di non essere intervenuto, in una situazione che non richiedeva particolari

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cognizioni specialistiche, sul medico specialista che procedeva secondo la tecnica del parto naturale, segnalandogli una situazione dubbia che obiettivamente e in modo evidente - colore verde del liquido amniotico - attestava lo stato di asfissia del feto e doveva conseguentemente imporre l'immediato utilizzo della "cardiotocografia", metodica strumentale che avrebbe consentito di rilevare tempestivamente l'insorgere della sofferenza fetale e di ricorrere così al parto operativo per via laparotomica; per l'effetto, correttamente anche tale sanitario era stato ritenuto responsabile del reato di omicidio colposo per l'intervenuta morte del feto per insufficienza respiratoria)”

Cass. pen., Sez. IV, 24/01/2005, n.18548 La giurisprudenza è inoltre orientate a ritenere causalmente

collegati – e quindi risarcibili – I pregiudizi patiti dalle c.d. vittime secondarie dell’inadempimento o dell’illecito, fra cui rientrano a pieno titolo i parenti (genitori, coniuge, figli, ecc..) del paziente leso:

“Ai prossimi congiunti di persona che abbia subito, a causa di fatto illecito costituente reato, lesioni personali, spetta anche il risarcimento del danno morale concretamente accertato in relazione ad una particolare situazione affettiva con la vittima, non essendo ostativo il disposto dell'art. 1223 c.c., in quanto anche tale danno trova causa immediata e diretta nel fatto dannoso; ne consegue che in tal caso il congiunto è legittimato ad agire "iure proprio" contro il responsabile. (Principio espresso in fattispecie di danno morale richiesto dai genitori in proprio per l'invalidità totale derivata al loro bambino dall'anossia, e dalla successiva sindrome asfittica, di cui egli aveva sofferto al momento della nascita per dedotta responsabilità del medico e della struttura sanitaria ove la madre era stata ricoverata al momento del parto)” (Cass. civ., Sez. Unite, 01/07/2002, n.9556).

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5. IL CONSENSO INFORMATO Tematica di crescente rilevanza giudiziaria è quella relativa

alla correttezza e completezza delle informazioni spiegate dal medico o comunque dal personale sanitario al momento della scelta se e come precedere alle terapie. Questo in relazione alla necessità – sancita anche a livello costituzionale dall’art. 32 Cost – che l’atto terapeutico o chirurgico sia preceduto dal consenso informato del paziente.

Anche tale complesso di informazioni costituisce uno degli obblighi accessori gravanti sulla struttura sanitaria e rilevante ai fini dell’esattezza del proprio adempimento.

Pertanto, anche con riferimento alla quantità e qualità delle informazioni fornite, deve ritenersi che l’onere del danneggiato sia quello di svolgere una deduzione non generica, mentre spetterà alla struttura od al medico convenuto dare prova della valenza effettivamente “informata” del consenso prestato (ad esempio mediante la compilazione e sottoscrizione di moduli di consenso di contenuto non generico ma tipizzato in relazione ai diversi interventi da praticare, ma non può neppure escludersi il ricorso alla prova testimoniale).

La valenza della completezza o meno del consenso è tale che in mancanza di consenso (ovvero prestato sulla scorta di informazioni incomplete o fondate su falsi presupposti di fatto) tutte le conseguenze derivanti dall’intervento vengono ritenute risarcibili:

“In tema di responsabilità dell'ente ospedaliero per violazione dell'obbligo di informare il paziente sulla natura dell'intervento, sulla portata ed estensione dei suoi risultati e sulle possibilità e probabilità dei risultati conseguibili, la correttezza o meno del trattamento non assume alcun rilievo ai fini della sussistenza dell'illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta

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omissiva dannosa e dell'ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, con la conseguenza che tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso ed appare eseguito in violazione tanto dell'art. 32, comma secondo, Cost., (a norma del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge), quanto dell'art. 13 Cost., (che garantisce l'inviolabilità della libertà personale con riferimento anche alla libertà di salvaguardia della propria salute e della propria integrità fisica), e dell'art. 33, legge 23 dicembre 1978, n. 833 (che esclude la possibilità d'accertamenti e di trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, se questo è in grado di prestarlo e non ricorrono i presupposti dello stato di necessità ex art. 54 c.p.). L'obbligo d'informazione grava sul sanitario che, una volta richiesto dal paziente dell'esecuzione di un determinato trattamento, ne decide l'esecuzione in piena autonomia, a nulla rilevando che la richiesta del paziente discenda da prescrizione di altro medico specialista”

Cass. civ., Sez. III, 14/03/2006, n.5444. Voci contrarie ad addossare ogni conseguenza dell’intervento

alla struttura (od al medico) quando l’atto terapeutico sia stato eseguito in modo diligente ed abbia raggiunto risultati positive per il paziente, comunque non mancano:

Il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il medico non può più intervenire sul paziente senza averne ricevuto prima il consenso non ha per oggetto un atto puramente formale e burocratico, ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto illecito (la violazione dell'integrità psico-fisica) in un atto lecito. Da ciò consegue che la mancata richiesta del consenso effettivo informato deve valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del diritto

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costituzionalmente protetto di autodeterminazione, la cui lesione dà luogo ad un danno non patrimoniale. Tuttavia nelle ipotesi in cui all'esito dell'intervento cui non sia stato dato il consenso informato da parte del paziente (o in cui tale consenso sia stato prestato per un intervento eseguito con modalità diverse da quelle previste), in assenza di colpa medica, non consegua alcun pregiudizio alla salute del paziente, ma anzi un miglioramento delle sue condizioni psico-fisiche, la lesione del diritto all'autodeterminazione produce sì un danno non patrimoniale seppure ontologicamente trascurabile o comunque di entità economica non apprezzabile.

Trib. Milano, Sez. V, 29/03/2005 Mentre una recente sentenza emessa in ambito penale dal

S.C. a Sezioni Unite ha affermato, con principio favorevole rispetto alla prestazione comunque corretta eseguita in ambito sanitario, che:

“Nei casi in cui il medico sottoponga il paziente ad un trattamento chirurgico diverso da quello in relazione al quale era stato prestato il consenso informato, e tale intervento, eseguito nel rispetto dei protocolli e delle leges artis, si sia concluso con esito fausto, nel senso che dall’intervento stesso è derivato un apprezzabile miglioramento delle condizioni di salute, in riferimento, anche alle eventuali alternative ipotizzabili, e senza che vi fossero indicazioni contrarie da parte del paziente medesimo, tale condotta è priva di rilevanza penale, tanto sotto il profilo della fattispecie di cui all’art. 582 cod. pen., che sotto quello del reato di violenza privata, di cui all’art. 610 cod. pen.. Presidente T. Gemelli, Relatore A. Macchia, Ric. Mazzini. CORTE DI CASSAZIONE Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009 (Ud. 18/12/2008), n. 2437

6. L’ASSICURAZIONE DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE

IN AMBITO SANITARIO: CENNI

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Per la sua concreta rilevanza pratica, meritano di essere svolti alcuni cenni ai profili assicurativi delle prestazioni sanitarie.

L’assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario viene ricondotta dalla prevalente dottrina nel campo delle assicurazioni contro i danni e risulta amministrativamente ricompresa nel ramo c.d. “r.c. generale” ove confluiscono per espressa previsione legislativa anche le assicurazioni della responsabilità civile diverse da quelle derivanti dall’uso di veicoli terrestri, dall’uso di veicoli aerei, marittimi, lacustri e fluviali2.

Va ricordato come in passato siano state avanzate iniziative di legge in materia, il disegno n. 864 presentato al Senato il 03/07/1996 dal Sen. Tomassini e la proposta n. 3244 presentata alla Camera dei Deputati l’11/10/1995 dall’On. Scalisi, avevano infatti individuato quale possibile soluzione la previsione dell’obbligatorietà dell’assicurazione in campo sanitario, con scelta simile a quella già introdotta nel settore della circolazione di veicoli, prevedendosi l’azione diretta del danneggiato nei confronti della compagnia assicuratrice. La complessità delle due iniziative, articolate in riferimento, l’una, all’assicurazione individuale e l’altra all’assicurazione delle strutture sanitarie, nel primo caso arrivandosi a prevedere una forma di arbitrato apparentemente obbligatorio, non ultima l’opposizione di autorevoli esponenti ANIA, hanno determinato l’arresto del relativo iter parlamentare.

Peraltro, recentemente, risulta essere stato nuovamente presentato al Senato, in data 21/06/2001, un d.d.l. elaborato 2 Su questo argomento, vedi, in particolare: CHINDEMI, La responsabilità della struttura sanitaria pubblica e privata e riflessi assicurativi, in Dir. econ. assic., 2001, p. 947 ss.; GIANNINI, Problemi giuridici nella sperimentazione dei farmaci: la verifica del consenso e della copertura assicurativa, ivi, 1995, p. 35 ss.; INTRONA-RAIMONDO, E’possibile introdurre l’assicurazione obbligatoria per responsabilità professionale medica?, in Riv. It. Med. leg., 1997, p. 1121 ss.; MARZO, Appunti sulla r.c. in campo medico, in Giur. It., 1986, I, 2, p. 681 ss.; MINIELLO, L’assicurazione della responsabilità civile in ambito sanitario, in Dir. econ. assic., 2001, p. 1005 ss.; POLOTTI DI ZUMAGLIA, La copertura assicurativa in campo medico, ivi, 2001, p. 363 ss.; TASSONE, Evoluzione del rischio di responsabilità civile e suoi riflessi sull’assicurazione degli operatori sanitari, ivi, 1995, p. 853 ss.;

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dall’Sen. Tomassini, il quale affronta il tema della responsabilità civile delle strutture sanitarie prevedendo che del danno subito dai pazienti risponda sempre la struttura medesima, che potrà esercitare l’azione disciplinare avverso i medici responsabili soltanto in caso di dolo o colpa grave e soltanto successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di accertamento della responsabilità, mentre potrà esercitare il diritto di rivalsa unicamente mente in caso di dolo del personale sanitario. Viene inoltre imposto l’obbligo per la struttura di dotarsi di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile verso gli assistiti ed a questi si concede l’azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione. Anche tale tentativo di disciplina normativa non ha avuto esito favorevole e non si prevedono tempi certi per l’introduzione di una normativa ad hoc dell’assicurazione in ambito sanitario.

7. IL RISCHIO ASSICURATIVO Come è noto, l’art. 1882 c.c. definisce l’assicurazione come

“il contratto con il quale l’assicuratore, verso il pagamento di un premio, si obbliga a rivalere l’assicurato, entro i limiti convenuti, del danno ad esso prodotto da un sinistro, ovvero a pagare un capitale o una rendita al verificarsi di un evento attinente la vita umana”.

Questa definizione introduce la summa divisio dell’assicurazione contro i danni da un lato, alla quale può ricondursi anche l’assicurazione della responsabilità civile, rispetto all’assicurazione sulla vita, i cui principi di carattere latu sensu previdenziale, risultano estranei alla tematica in esame.

Più in particolare, è all’art. 1917 c.c. che occorre prestare attenzione in questa materia, il cui testo afferma letteralmente: “Nell’assicurazione della responsabilità civile l’assicuratore è obbligato a tenere indenne l’assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo

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dell’assicurazione, deve pagare a un terzo, in dipendenza della responsabilità dedotta nel contratto. Sono esclusi i danni derivati da fatti dolosi”.

L’assicurazione della responsabilità civile, come accennato, può farsi rientrare nel genere della responsabilità contro i danni, il danno essendo qui caratterizzato da un accadimento che, invece di determinare una lesione materiale, determina il sorgere della responsabilità civile dell’assicurato.

Questo rischio, inteso come possibilità del verificarsi di un evento pregiudizievole al patrimonio del soggetto che si assicura, diviene elemento essenziale del contratto, nel quale deve essere chiaramente descritto e circoscritto, in tal modo delimitandosi anche l’obbligazione di garanzia assunta dall’assicuratore.

La specificità dell’assicurazione della responsabilità civile risiede appunto nel tipo di rischio indicato, che è relativo alla possibile deminutio patrimoniale dell’assicurato in conseguenza di fatti da questo compiuti che lo espongano a responsabilità verso terzi ed esclusi i fatti commessi con dolo.

Questo comporta, in primo luogo, che il terzo leso non abbia azione diretta verso la compagnia assicuratrice e che eventuali richieste risarcitorie da questi avanzate saranno proposte direttamente nei confronti del medico o della struttura sanitaria presso la quale si è verificato l’evento lesivo. Infatti, salve le eccezioni previste dalla legge (si ricorda l’art. 18 L. 990/69 in materia di responsabilità da circolazione di veicoli) l’obbligo dell’assicuratore di pagare l’indennizzo sussiste solo nei confronti dell’assicurato e non nei confronti del danneggiato, quale corollario del principio di relativià dei contratti (art. 1372 c.c.). Un unico temperamento è previsto dal secondo comma del citato art. 1917 c.c., sia pure in fase esecutiva, laddove l’assicuratore può avvalersi della facoltà di pagare direttamente l’indennizzo dovuto all’assicurato nei confronti del terzo, previa comunicazione

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all’assicurato, ovvero lo stesso terzo può esigere in fase esecutiva detto pagamento diretto.

Dal punto di vista processuale questo significa altresì che spetterà al medico od alla struttura convenuta in giudizio chiamare in causa la propria assicurazione al fine di essere tenuto indenne da quanto, per avventura, dovesse essere condannato a pagare all’esito del processo in favore del danneggiato (i limiti temporali della presente esposizione non consentono di approfondire l’argomento nei suoi risvolti processuali; si ricorda comunque che il convenuto può chiamare terzi in giudizio nel rispetto dei termini rigorosi e nelle forme di cui agli artt. 167 e 169 c.p.c. e, quindi, sino a 20 giorni dalla prima udienza richiedendo contestualmente il differimento dell’udienza di comparizione già fissata).

Va inoltre rilevato che in materia di assicurazione della responsabilità medica le compagnie hanno generalmente adottato un sistema c.d. claims made che considera sinistro non l’episodio di negligenza medica bensì il pervenire della richiesta di risarcimento da parte del soggetto che si asserisce danneggiato, in tal modo postergandosi l’intervento assicurativo in epoca posteriore alla fattispecie in cui si sia verificato l’errore diagnostico o terapeutico. Questo perché la peculiarità del settore medico fa sì che la produzione del danno molto spesso non sia istantanea, ma si determini una discrasia temporale fra medical malpractice ed insorgenza dannosa.

La stipula del contratto è molto spesso preceduta dalla compilazione di un questionario da parte dell’assicurato che consente alla compagnia di delimitare l’entità del rischio e fissare l’entità del premio da richiedere. Domanda tipo richiesta è quella di non essere a conoscenza di atti o fatti che possano comportare richieste di risarcimento a termini di polizza.

A questo riguardo si ricorda che sono applicabili a questo tipo di assicurazione gli artt. 1892 e 1893 c.c. relative alle

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dichiarazioni inesatte o reticenti dell’assicurato compiute con dolo o colpa grave, ovvero non affette da elementi così gravi di intenzionalità o colpevolezza. Nel caso di dichiarazioni dolose od affette da colpa grave relative ad elementi essenziali del contratto, l’assicuratore può ottenere l’annullamento del contratto entro tre mesi dalla scoperta dell’inesattezza o reticenza in contrahendo (art. 1892 comma 2 c.c.)3. Nel caso di dichiarazione non dovuta a dolo o colpa grave del professionista, il contratto deve ritenersi valido ma l’assicuratore potrà liberarsi pagando un indennizzo ridotto proporzionalmente alla differenza fra il premio pagato e quello che sarebbe stato preteso in caso di dichiarazione esatta.

Si evidenzia, infine, l’applicabilità degli artt. 1913 e 1915 c.c. i quali impongono all’assicurato che abbia avuto conoscenza del sinistro (in questa materia, come avvertito, rappresentato dalla richiesta di risarcimento del terzo leso) di darne pronta comunicazione alla compagnia di assicurazione. Il codice prevede uno spatium temporis di soli tre giorni, mentre all’inadempimento di tale onere di collaborazione in capo all’assicurato viene collegata la perdita all’indennizzo assicurativo in caso di dolosa omissione, ovvero la sua riduzione in caso di omissione colposa.

Si consideri, infine, che ai sensi dell’art. 2952 comma 4 c.c. la comunicazione all’assicuratore della richiesta del terzo danneggiato o dell’azione da questo proposta sospende il corso della prescrizione finchè il credito del danneggiato non sia divenuto liquido ed esigibile oppure il diritto del terzo danneggiato non sia prescritto. E’quindi evidente come la pronta comunicazione alla compagnia assicuratrice di eventuali richieste di risarcimento da parte di terzi rivesta importanza fondamentale al fine di conservare il diritto ad essere tenuti indenni da eventuali conseguenze risarcitorie; fra l’altro, lo stesso art. 2952 3 Cfr. Cass. 14/02/2001, n. 2148, in Danno e resp., 2001, p. 638, secondo cui “In tema di contratto di assicurazione, la reticenza dell’assicurato è causa di annullamento del contratto quando si verificano, simultaneamente, le seguenti condizioni: che la dichiarazione sia inesatta o reticente; che la reticenza sia stata determinante ai fini della formazione del consenso dell’assicuratore; che l’assicurato abbia reso la dichiarazione con dolo o colpa grave “.

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comma 2 c.c. prevede per l’assicurato un termine di prescrizione di un anno soltanto per esercitare i diritti derivanti dal contratto, termine che decorre dal giorno in cui il terzo ha richiesto il risarcimento all’assicurato o ha promosso contro questi un giudizio.