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CARLO CASSOLA

LA RAGAZZA DIBUBE

PREMIO STREGA 1960

ISBN: 8817009660

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L’Autore

Carlo Cassola

Carlo Cassola (Roma 1917 -

Montecarlo, Lucca, 1987) ha scrittonumerosi romanzi e racconti, diventandoautore molto amato dal pubblico edemblema della stagione dei bestseller.

Lontano da correnti e precettistiche

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letterarie, conserva nella tonalità liricadel suo realismo l'eco degli esordipoetici. Alla scrittura esistenzialealterna, nel dopoguerra e negli anni tardidelle battaglie antimilitariste, quellaimpegnata. La sua opera più nota è Laragazza di Bube (1960, premio Strega)da cui nel 1963 Luigi Comencini trasseil celebre film omonimo.

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Il Libro

Mara è una giovane di Monteguidi,piccolo paese della Val d'Elsa, cheall'indomani della Liberazione conosceil partigiano Bube, eroe dellaResistenza, e se ne innamora. Questi,tornato alla vita civile imbottito diprecetti di violenza e vendetta, hacommesso un delitto e, dopo un periodoalla macchia, viene catturato econdannato a quattordici anni di carcere.Mara, maturata proprio grazie alla forzadel sentimento per Bube e divenutaormai donna, decide di aspettare l'amatocon animo fedele e ostinato.

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Con questo romanzo - pubblicato nel1960 e seguito nel 1963 da una celebreversione cinematografica interpretata daClaudia Cardinale - Cassola siaggiudica il premio Strega e raggiunge ilsuccesso anche internazionale. Laragazza di Bube segna una profondacesura nella narrativa italiana deldopoguerra: benché ispirato a unavicenda realmente accaduta, il romanzosi arricchisce di elementi psicologici elirici superando le istanze neorealiste,tanto per il linguaggio quanto per ilrifiuto dei dogmatismi ideologici. «Ilromanzo» sostiene infatti Cassola «vieneprima di ogni interpretazione dellarealtà, è la ricerca continua della veritàdegli uomini.»

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Introduzione

Nell'estate del 1960. subito dopo lapubblicazione. La ragazza di Bube fuaccompagnata da un successotravolgente. Lo scrittore, che sino alloraera stato uno scrittore per pochi; che,anche con i libri di esplicito temapolitico, antifascista e resistenziale(Baba, 1946; Fausto e Anna, 1952: Ivecchi compagni, 1953; La casa di viaValadier, 1956) aveva raccoltonumerose testimonianze di stima maanche taccia di «intellettualistico» e dimoralista e che comunque non erariuscito a stabilire un contatto reale conun pubblico vasto; che viveva

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modestamente in provincia, a Grosseto,insegnando in un liceo; che, infine,aveva dovuto stampare il racconto cherimane ancor oggi forse al vertice dellasua opera, Il taglio del bosco (1954)presso un piccolo editore pisano, NistriLischi, con la malleveria di un lettore ecritico squisito precocementeappartatosi, Niccolò Gallo; entrava oradi colpo nel mondo delle alte tirature,delle interviste, dei soggetticinematografici; e proprio a lui, alloracosì scontroso e riservato, toccava insorte di siglare l'ingresso del romanzoitaliano nel «boom» dei consumi checaratterizzò l'attesa e l'avvento delcentro-sinistra.

Le ragioni di quella imprevista

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esplosione di successo non erano tutteletterarie, anche se la qualità letterariadel racconto fu viatico fondamentale.Molti altri elementi entrarono in gioco.E forse, ancor più della storia, che pureè storia romantica, di amore, fedeltà esacrificio, incarnata da un'eroinapopolare, capace di suscitare emozioni esolidarietà profonde, contò il fatto che sitrattava di una vicenda reale. Iprotagonisti, la Mara e il Bube delromanzo, furono individuati, ritrovati,interrogati; dalla loro biografia si risalìa ricostruire gli episodi di cronaca chestanno al centro del racconto, e ariaprire il libro della Resistenza, con leluci e le ombre di quel momentoesaltante di liberazione e riscossa

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popolare, che aveva peraltro assuntoanche caratteri di guerra civile.

Il romanzo di Cassola si innestavadunque su un «caso» che accendevapassioni roventi; e poneva un temaangoscioso e drammatico, universale,ricorrente di continuo nella storiaumana, tale da coinvolgere in sé l'ideastessa di politica, il rapporto tra lapolitica e la morale, il senso autenticodella libertà; un tema che ancor oggi, informe storicamente più complesse emeno categoriche, è terribilmenteattuale: il tema della violenza, in tuttol'amplissimo ventaglio delle sueimplicazioni etiche e politiche sulleresponsabilità dei singoli e dei gruppi opartiti, del progetto politico a cui si

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ispira, della cultura cui si richiama, suivalori che afferma e su quelli cheinfrange. Nel libro di Cassola erachiamata in causa la storia di unagenerazione, della generazione che conla Resistenza era divenuta classedirigente, protagonista della vitademocratica della repubblica; ed erachiamata in causa l'immagine che quellagenerazione aveva di se stessa.

Non a caso una rivista politicasocialista, «Mondo Operaio», nel suofascicolo del luglio-agosto del '60, detteampio spazio a La ragazza di Bube,invitando «scrittori, critici letterari euomini della Resistenza» a darne ungiudizio «dichiaratamente"contenutistico"». Si chiedeva infatti di

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valutare «i giudizi storici e politici»espressi da Cassola nel suo romanzo, esi chiedeva se «i personaggi e levicende siano effettivamenterappresentativi della realtà sociale epolitica alla quale l'autoreevidentemente si richiama».

Non mancò chi, come Elena Croce, siribellò al tipo di lettura proposto dallarivista, che le sembrava una impropriautilizzazione di un'opera d'arte comestrumento di giudizio storico e politico.Né mancò chi, come Pio Baldelli, sipose in una prospettiva criticadiametralmente opposta, mettendo aconfronto fantasia romanzesca e realtàstorica, per concludere che i personaggicassolianj «non riescono a reggere il

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peso della vasta vicenda storica in cuisono inseriti». Ma in genere gliinterrogati stettero al gioco eaffrontarono il discorso politico checiascuno di loro avvertiva ineludibile,prepotente, consustanziale al romanzo.

È necessario d'altra parte ricordare,per ricostituire nella sua concretezza ildibattito, che l'accoglienza della criticaa La ragazza di Bube era statafortemente condizionata proprio dalgiudizio politico. Uno dei più fini lettoridell'area marxista, Piero Dallamano,aveva riassunto la severità dei comunistinella inequivocabile definizione di«romanzo perfettamente reazionario»; ecosì ne interpretava la filosofia politica,o il messaggio: «…la Resistenza è stata

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un errore; le speranze popolari, natedalla guerra partigiana, furonogrottesche, stupide, generatrici dicrudeltà senza esito; val meglio, ora,rassegnarsi nell'espiazione di questierrori e nell'accettazione di un mondomanzonianamente governato dalla forza;ed è utile che la gente abbia dallasocietà e dal destino la sua parte disofferenza». Mutato ciò che è da mutare,sembra di leggere il rifiuto che più di unsecolo prima Settembrini e altri criticidemocratici opponevano a I promessisposi.

Ripercorreremo dunque brevementele risposte a «Mondo Operaio» inquanto esse non fanno parte soltantodella «fortuna» de La ragazza di Bube,

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ma aiutano a capire il clima culturale(un clima, non va dimenticato, ancoraassai inquieto per gli echi dei fattid'Ungheria del '56, che avevano laceratoprofondamente la cultura di sinistra eriportato in primo piano lecontraddizioni del comunismo) nelquale, prima di essere letto, il romanzofu scritto, qualunque fossero leintenzioni poetiche dell'autore. Ma èopportuno, per comodità del lettore,riassumere le linee essenziali dellavicenda.

La vicenda è ambientata in Toscana,in uno dei luoghi deputati del mondocassoliano, la Val d'Elsa, e i suoiprotagonisti vivono ancoranell'atmosfera appassionata della

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Resistenza da poco conclusasi con laliberazione. Bube è stato valorosopartigiano, e ha trovato nella lottaun'immagine di sé che lo soddisfa ma altempo stesso lo chiude come in unostereotipo. Giovane timido, elementare ein sostanza impreparato alla vita, larudezza spicciativa della suadeterminazione di combattente gli haconquistato il titolo di «Vendicatore»; equando scende dalle montagne e tornaalla vita di pace (una vita incolore edeserta di funzionario di partito),sentirsi ancora «Vendicatore» è per luiun povero orgoglio ma anche un oscuro,toccante, e in fondo generoso,sentimento di fedeltà. C'è un episodioassai significativo a questo proposito.

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Una sera Bube incontra il prete Ciolfi,vecchio fascista che, come tale, eradovuto scappare dal paese; insieme alrancore politico c'è nell'animo di Bubeun sentimento di pietà per quel vecchioconosciuto sin dall'infanzia; fa quindifinta di non vederlo, e cerca poi diproteggerlo dalla furia di qualche donnapiù aggressiva. Ma quando sente chel'accanimento popolare control'avversario è più tenace della sua pietà,si trasforma da difensore in aggressore:è a lui, al «Vendicatore», che tocca ilcompito e l'onore di picchiare. Conquesto spirito incorre in un incidente piùgrave, da cui tutta la sua vita saràsegnata. Nato un alterco tra comunisti eun maresciallo dei carabinieri (decorato

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della Resistenza; ma questo si sapràdopo; nel '45, agli occhi di uncomunista, non può essere che unfascista), si accende una sparatoria incui il maresciallo uccide un compagno,un altro compagno uccide il maresciallo,e Bube, ripreso nel vortice dellaspregiudicatezza crudele di combattentevissuto tanto tempo alla macchia,insegue e uccide il figlio delmaresciallo.

Bube si era innamorato di Maraquando la guerra era finita da poco;prima degli incidenti sopra accennati.L'assassinio si mescola proprio alfiorire più trepido e appassionatodell'amore, allo sbocciare tenerissimodella giovinezza di lei. L'incontro

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d'amore nel capanno, ove i due giovanisi nascondono in attesa degli uomini delpartito incaricati di organizzare la fugadi Bube dopo l'uccisione del figlio delmaresciallo, non solo raccoglie alcunetra le più delicate pagine d'amore delnostro Novecento, ma ha quasi unafunzione di lavacro, di rigenerazione,come se, insieme a Mara, Bube avessemiracolosamente attraversato le acquedel Lete. La vita invece procedealtrimenti. Il delitto non vienedimenticato o archiviato: Bube subisceprocesso e condanna.

Si inserisce qui uno dei temi piùcontroversi del romanzo, che supera lasituazione contingente nel quale èinserito dal narratore e consente, per

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esempio, anche una lettura attuale, post-sessantottesca, de La ragazza di Bube.È il tema che possiamo definire della«educazione politica». Bube si sentetradito dal suo partito, non soltantoPerché, dopo il delitto (che egli pensa diaver compiuto quasi per delega del suopartito), il partito non lo difendeabbastanza. Il «tradimento» di cui Bubesi sente vittima è retrospettivo, e haavuto inizio sin da quando il partito loha educato ai valori della violenzapunitiva, lo ha accettato o sollecitato nelruolo di «Vendicatore», senza avvertirlodei rischi mortali che egli correva, delnon-valore etico (e ora anche politico)implicito nell'ideologia della violenza.

Nella parte finale la funzione di

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protagonista passa a Mara, la piùconsapevole dell'atroce tranello che lavita ha teso al suo uomo. Mentre Bube èin prigione in attesa del processo, lavediamo andare a Colle val d'Elsa aservizio; incontra un giovane operaio edè sfiorata dalla casta tentazione di unnuovo amore; ma dopo la condanna diBube decide di essere per sempre la suadonna, di aspettarlo per tutti gli anni chea lui restano da passare in carcere, perricostituire e riconsacrare un affetto cheè anche un dovere verso un uomo che hasbagliato la propria vita. Amore edovere s'intrecciano con gli errori delpassato; ma l'esito non può essere che lafedeltà, a se stessa, al fiore dellapropria giovinezza e alla ragione del

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proprio destino.Nelle risposte a «Mondo Operaio» si

avvertono due diverse linee di tensione;da un lato è chiaro che il romanzo diCassola è stato un'occasione e unostimolo a ripensare criticamente ilnostro dopoguerra e a misurare ancorauna volta la distanza tra le illusioni del'45 e la realtà della storia; dall'altro c'èla preoccupazione di rispettarel'autonomia del romanzo come operad'arte, di non discuterlo come un saggioo un documento. Il discorso politico diquasi tutti gli interventi va quindi moltoal di là del romanzo; ma il gioco dellerisposte mira a stabilire un rapporto«equo» tra discorso politico e romanzo.Fa eccezione Piero Caleffi, il quale

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avrebbe voluto che il partigiano Bubevestisse panni da «eroe positivo», e nonfosse Io «straccetto umano» che a luisembra che sia; quello dello scrittore gliappare «qualunquismo bello e buono».Italo Calvino invece osserva come nonsia registrato nel romanzo il contrasto difondo che ha caratterizzato la storia delpartito comunista nel dopoguerra (è ildiscorso che preme a lui Calvino): ilcontrasto cioè tra il partito armato,votato all'estremismo, quale era uscitodalla Resistenza, e il partito«modernamente strumentato, da classeoperaia egemone, capace di agire sulpiano d'una democrazia avanzata». Manon per questo condanna: PerchéCassola intendeva darci, e ci ha dato, il

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romanzo di Mara, «cioè di come puòattuarsi in un mondo estremista unacondotta morale».

Anche Cesare Cases illumina ilsottofondo politico del periodo in cui ilromanzo si svolge: «l'errore… (fu) laprospettiva, diffusa dalla sinistra neiprimi anni del dopoguerra, di una rapidaconquista del potere». E da qui trascorrea un giudizio severo sulle responsabilitàdel partito comunista in rapporto aquell'errore di «immaturità» di cui Bubeè la vittima: «Perché l'esperienzapartigiana non aveva condotto a unacerta maturazione della coscienza?». Maanch'egli assolve lo scrittore con unamotivazione simile a quella di Calvino:«a Cassola non interessava la vicenda di

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Bube quanto quella della sua ragazza».Ancora più severa e approfondita

l'analisi di Roberto Guiducci della«grande macchina comunista, tracotantee insieme pavida», alla quale risale «laresponsabilità per la mancataeducazione politica dei giovani Bubeusciti dalla Resistenza con molti atti dicoraggio e nessuna preparazione». Ciònon soddisfa, secondo lui, lo schemaleninista, e si riduce invece allo schematogliattiano per cui «tutto, anche larivoluzione stessa, deve esseresubordinato e strumentalizzato al mezzopartitico; alla sua esistenza, potenza efortune quotidiane». Quando Bube vienearrestato e condannato, «ha ormaicoscienza di essere stato bruciato in un

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gioco che non era la rivoluzione, masoprattutto è umiliato e offeso nella suasperanza organica e quasi fisica di uomosubalterno, maturata in secoli diavvilimento e di sofferenze della classecontadina». Quella di Bube, insisteGuiducci, è «una vera catastrofe etica».«Se la rivoluzione lo ha tradito, ritorna avalere la morale preesistente, di frontealla quale è costretto ad accettare diessere un assassino.» A questo punto1'«assoluzione» del romanziere ha inGuiducci una motivazione più sottile diquella già registrata (che avesse volutoscrivere soprattutto il romanzo di Mara).Bube non può essere secondo lui privatodel ruolo di co-protagonista, ed è anzimerito di Cassola di aver «provato a

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verificare su un caso (quello appunto diBube) una intera politica». La ragazzadi Bube non è «romanzo ideologico»,ma «si rifà a un criterio di verità piùmodesto, più empirico ma non perquesto meno decisivo».

Con una vigorosa sterzata verso leragioni dell'arte, Roberto Battaglia negache La ragazza di Bube si possaconsiderare «romanzo a tesi» e contestai quesiti stessi posti da «MondoOperaio», quesiti che «dànno perscontato che Cassola abbia volutoesprimere giudizi storici e politici», ilche lui non crede. Il tema del romanzo,tema cassoliano ricorrente, è la «crisidella Resistenza»; o meglio un aspetto,peraltro fondamentale, di quella crisi: se

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la «pietà» della storia abbia ragioned'essere anche nei momentirivoluzionari. Ma tutto ciò lo scrittore,seguendo la propria natura, non l'haindagato sul piano e con strumentistorici, ideologici o politici, ma nellasfera morale, come «quesito dicoscienza».

Ecco allora che possiamo tornare allarisposta di Calvino, là dove egliriconosce come tema centrale delromanzo cassoliano «il tema dellafedeltà». «Il valore del libro è nella suatensione poetica ed esistenziale, e quindimorale, e quindi storica.» Esso ci diceche «in tempi in cui la storia non ha altrometro morale che se stessa (…), lamorale è momento individuale, di scelta

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interiore». Di qui la priorità del ruolo diMara: «Mara si sacrifica a qualcuno checerto non la vale, Perché solo così puòesprimere l'importanza della vita». Ilquadro politico, in questa bella paginadi Calvino, si allontana; e lasciaemergere, come una marea che si ritiri,antichi valori, il dolore, la giustizia, lafedeltà (la perenne «importanza dellavita»).

Subito dopo La ragazza di BubeCarlo Cassola mutò registro; occorreattendere quasi vent'anni, sino al '78, perveder ripresi, in Un uomo solo, i temidella politica e dell'antifascismo cheavevano tenuto il campo nella suanarrativa per tutto il decennio dal '50 al'60. Nel '61, con Un cuore arido, si apre

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la serie dei racconti che svolgono,protagoniste alcune indimenticabilifigure femminili, il tema del sentimentoesistenziale e della sua impossibilepurezza, sino a Paura e tristezza (1970)che di quella serie segna probabilmenteil punto più alto.

Ciò può rendere oltremodo remotaper i lettori di oggi la mia riesumazionedei documenti critici d'archivio sepoltinelle vecchie pagine di «MondoOperaio». Se ho voluto riaprire quellacartella, non è soltanto per cercare diricollocare La ragazza di Bube nelcontesto polemico del periodo in cui fupubblicato (contesto per lo meno utile,se non necessario alla lettura), ma perdue altre ragioni che mi preme far

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rilevare.La prima è esterna al libro. Quanto di

quel dibattito su politica e morale, supubblico e privato, su morale dellarivoluzione e morale della «pietà» non è(pur in una situazione e sotto le specie diun linguaggio tanto diversi) ancoraattuale, coinvolgente, irrisolto?Rileggere queste pagine, oggi, dopol'esperienza del terrorismo (e puravendo ben chiari i termini dellaincomparabilità tra Resistenza eterrorismo) ci fa riflettere, con lacapacità di avvertimento morale propriadella poesia, che i problemi e i quesitifondamentali, coscienziali, del nostrorapporto con la vita e il suo significatorimangono dello stesso ordine, ci

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pongono nello stesso modo di fronte alleresponsabilità delle nostre scelte.L'opera d'arte si dimostra, ancora unavolta, via e momento di libertà.

La seconda ragione è interna al libro;ed è che a La ragazza di Bube ènecessaria una lettura «storica». Viritroviamo spesso, è vero, il Cassola piùlimpido e lirico: la presenza magica efamiliare del paesaggio toscano, resocon la sensibile evidenza di una pitturaquattrocentesca; la tenera e malinconicaambiguità femminile di Mara,vulnerabile e forte; l'aria trepida diadolescenza che spira nella prima partedel racconto, pur traversato daminacciose passioni; la semplicità dellinguaggio, piuttosto trasparenza, musica

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naturale, che non soltanto puradomesticità.

Ma nel racconto c'è anche altro (eforse per questo l'autore per qualcheanno ha guardato al suo libro senzasimpatia). C’è quella che Battaglia dice«crisi della Resistenza»; c'è l'intrusione,l'ombra, la violenza della storia nelmondo dei sentimenti; c'è dunque, alcontrario di quanto sembrava a Calvinoe a Cases, la presenza ineliminabile,accanto a Mara, di Bube. Innanzitutto,Bube impersona una sorta di continuitàtematica nel discorso svolto da Cassolasulla Resistenza. La Resistenzacassoliana non è univoca e patriotticacome quella ipotizzata dalla storiografiadi sinistra degli anni '50. Nel suo

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esplodere, nel suo momento spontaneo eincontrollato, assai grande rimane inessa l'eredità prefascista: un complessodi moti, aspirazioni, sentimenti erisentimenti schiettamente popolari,libertari, massimalisti, anarchici,esasperati, in qualche modopoliticamente irresponsabili. Esoprattutto in Toscana e nell'Italiacentrale in genere, ove più viva eriottosa era stata, anche nelpersonalizzarsi degli odi e delle rivalitàdi rione o di paese, l'insofferenza alfascismo e alla borghesia, quel residuoindisciplinato di rancori e di ingenueattese della palingenesi rivoluzionaria,quel grumo elementare di protesta, divendetta e di violenza ebbe le sue

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espressioni più forti. Bube nasce entroquesto mondo.

In secondo luogo, e proseguendo, se ilrapporto di Cassola con la Resistenza èdiviso tra sentimento poetico e giudiziomoralistico, Bube, in qualche istantedella sua vita (vita di personaggio neltesto, s'intende), raccoglie in sé, di làdal moralismo, quel sentimento poetico.Dal suo povero gigionismo paesano, chevediamo trasferito nella violenza maanche in un indocile e quasi atavicoimpulso di rivincita, si sprigiona unaluce di verità (la patetica, anche secrudele, luce della verità dei poeti).

In terzo luogo, e proseguendo ancora,Bube riassume e incarna la sostanzialeambiguità e irresolutezza tra moralismo

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e sentimento poetico con cui Cassolaguarda alla Resistenza, e lo costringe,felicemente, a dare di essa un'immaginemetaforica. Lo scrittore è affascinatodalla dolente verità del suo personaggio.Non riesce ad assolverlo, ma non riesceneppure a condannarlo. Dell'assassinioammette, insieme con Bube, l'errore; manon affronta il problema della colpa odella giustificazione. Bube ha del suopassato più fastidio che rimorso. Hasbagliato: ma qual è stato il suo errore?La risposta, il narratore la affida algesto con cui Mara si affianca a lui nelsuo destino.

Mara (e con lei il narratore) nonindaga le ragioni dell'«errore» di Bube:lo accetta come un errore e lo ripaga con

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la fedeltà. Sostituisce il giudizio moralecon il sentimento. Non per nulla, comeho già osservato, il nodo degliavvenimenti (l'assassinio compiuto daBube, la rapida liquidazione delmomento rivoluzionario) è intrecciatocon il fiorire dell'amore. Mara e Bubeconcludono la loro storia riconoscendodi essere stati ingannati nel misurare larealtà con il metro del partito, ma nonvanno oltre. E qui nasce la metafora chefa la sostanza poetica del romanzo.Quell'errore, quella inconsapevolezza,quell'inganno sono per Bube e Marainestricabilmente avvinti alla lorogiovinezza, al momento puro e fataledella loro vita. Ed essi, ripiegando suuna diversa considerazione dei fatti, ne

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escono, passando gli anni, diminuiti,impoveriti, sconfitti.

Il significato politico de La ragazzadi Bube coincide con il suo significatopoetico: una generazione sconfitta nellasua giovinezza. La Resistenza italiananon è tutta qui, ma è anche questo.

GENO PAMPALONI

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Cronologia della vita e delleopere

1917Carlo Cassola nasce il 17 marzo a

Roma. Il padre, socialista e redattoredell'«Avanti!» al tempo della direzionedi Leonida Bissolati, era divenuto, dopoil primo conflitto, un convintomussoliniano.

1932Frequenta la prima liceo al Tasso di

Roma e si avvicina ai novisti, un gruppodi giovanissimi intellettuali. LeggeDedalus e Gente di Dublino, si

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appassiona al cinema americano e aRené Clair. Entra nel gruppo di RuggeroZangrandi e Mario Alicata e collabora auna rivista studentesca, «La penna deiragazzi», fondata da Vittorio Mussolini.

1935 – 1936Si iscrive alla facoltà di

Giurisprudenza dell'Università di Roma.Insieme al suo amico più intimo, ManlioCancogni, decide di allontanarsidefinitivamente dal gruppo dei novisti.

1937Presta servizio militare alla Scuola

allievi ufficiali di Spoleto e poi aBressanone. Scrive i suoi primiracconti, che verranno in seguito raccolti

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in volume. Uno di essi, Paura etristezza, viene pubblicato su «I1Meridiano di Roma».

1939Si laurea con una tesi in Diritto civile.

Inizia a frequentare un gruppo difiorentini tra i quali Franco Fortini,Romano Bilenchi, Franco Calamandrei,Paolo Cavallina. Pubblica sulla rivista«Letteratura» i racconti La visita, Ilcacciatore e Tempi memorabili.

1940Si sposa. Pochi mesi dopo viene

richiamato in servizio per l'interventodell'Italia in guerra.

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1942Partecipa a un concorso per la

cattedra di Storia, Filosofia e Pedagogianei licei e inizia la sua attività diinsegnamento prima a Foligno e poi aVolterra. Parallelamente si intensifical'impegno narrativo. Nascono le raccoltedi racconti La visita e La periferia.

1943Dopo l'armistizio dell'8 settembre

partecipa alla resistenza nel volterrano eabbandona quasi del tutto la scrittura,ma da questa esperienza trael'ispirazione essenziale per laproduzione successiva, fortementeispirata ai motivi ideologici della lottapartigiana. Comincia a stendere i

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racconti che confluiranno nella raccoltaLa moglie del mercante.

1944 – 1946Dopo la liberazione, si iscrive al

Partito d'azione nel quale rimane fino alsuo scioglimento nel 1946. PubblicaBaba in quattro puntate sulla rivistadiretta da Bonsanti e Montale «IlMondo». Il lungo racconto presentaormai pieni caratteri resistenziali.

1947Scrive il racconto Le Amiche, ancora

legato al motivo intimistico dellanarrativa precedente.

1948

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Si stabilisce a Grosseto, dove resteràfino al 1962, salvo un breve intervallo aCecina, città in cui si trasferisce perinsegnare dal 1949 al 1951. Inizia lastesura de Il taglio del bosco, chepubblica solo nel 1954, prima conun'anticipazione sulla rivista«Paragone» e poi in volume. Nelromanzo lo scrittore descrivel'esperienza dolorosa della morte dellamoglie avvenuta nel 1949. Da questomomento, il suo sguardo letterario sisposta verso il "realismo subliminare" esi fa sempre più attento a cogliere la vitainteriore e privata dei personaggiattraverso i quali vengono filtrati igrandi eventi della storia. Durante glianni trascorsi a Grosseto, Cassola si

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risposa e ha una figlia. 1949Scrive Fausto e Anna, un romanzo di

decisa ispirazione autobiografica, chepubblicherà nel 1952 nella collanaeinaudiana dei Gettoni, diretta daVittorini. Ambientato al tempo dellalotta di resistenza, il racconto faconoscere Cassola al grande pubblico eattira le critiche dei neorealisti, dellacultura marxista e di Italo Calvino,poiché considerato ambiguo e critico neiconfronti della lotta partigiana.

1952Pubblica I vecchi compagni, sempre

nella collana dei Gettoni, questa volta

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suscitando critiche entusiastiche ancheda parte di Calvino e un maggioreapprezzamento da parte dello stessoVittorini. Collabora a «I1 Mondo» diPannunzio e al «Contemporaneo».

1953Appare sul «Ponte» La casa sul

Lungotevere, che prenderà poi il titolodi Esiliati; inizia a scrivere La casa divia Valadier e Il soldato.

1954Pubblica Il taglio del bosco, in un

primo momento rifiutato da Einaudi peropposizione di Pavese.

1955

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Con un gruppo di altri intellettualiitaliani compie un viaggio in Cina, di cuipubblicherà un resoconto pressoFeltrinelli. Nello stesso anno incontra ilgiovane direttore della bibliotecacomunale di Grosseto, LucianoBianciardi, e con la sua collaborazionescrive per Laterza I minatori dellaMaremma.

1956Escono Il matrimonio del

dopoguerra, Viaggio in Cina e La Casadi via Valadier.

1958Pubblica Il soldato, con il quale

vince il Premio Salento, I boscaioli

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della Maremma e l'edizione de Il tagliodel bosco che comprende tutti i raccontilunghi e i romanzi brevi.

1960Esce La ragazza di Bube, una storia

di fedeltà e sacrificio ispirata a unavicenda reale, che conosce un successostraordinario e che, in quello stessoanno, si aggiudica il Premio Strega.Cassola si dedica alla ristesura deiracconti giovanili e ritorna a una poeticaminimale e volutamente astorica, chesuscita una violenta critica da parte diPasolini e, successivamente, diSanguineti in occasione del convegnodel Gruppo 63.

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1961Pubblica Un cuore arido e inizia a

maturare una svolta ideologica eletteraria, di fatto ripudiandocompletamente il periodo di impegnopolitico legato alla resistenza eritornando alla primitiva poetica.Abbandona l'insegnamento e, fattaeccezione per la collaborazione con iFogli di diario del «Corriere dellaSera», si dedica esclusivamente allanarrativa.

1962 – 1968Pubblica Il cacciatore, Tempi

memorabili, Storia di Ada, La maestrae Ferrovia locale. Esce l'adattamentocinematografico del romanzo La

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ragazza di Bube, per la regia di LuigiComencini e l'interpretazione di ClaudiaCardinale, George Chakiris, MareMichel e Dany Paris.

1969Il racconto Una relazione vince il

Premio Napoli. Da esso è stato tratto nel2004 il film di Carlo MazzacuratiL'amore ritrovato, con Stefano Accorsie Maya Sansa. Pone definitivamentetermine

alla sua tormentata militanzaall'interno di diverse formazionisocialiste e si schiera per un decisoantimilitarismo.

1970

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Pubblica Paura e tristezza, romanzoche segna ancora una volta unallontanamento nella poetica delloscrittore dai motivi intimistici per trarreispirazione da argomenti di attualitàpolitica e problematica sociale,volgendosi in particolare all'ecologia eall'antimilitarismo.

1971 – 1976In seguito a una grave crisi cardiaca

si trasferisce a Marina di Castagneto. Enella tranquilla cornice del luogo chescrive tutte le opere che pubblica inquesti anni: Monte Mario, con il qualevince il Premio Selezione Campiello,Gisella, Fogli di diario, Troppo tardi,L'ultima frontiera, Il gigante cieco e

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L'antagonista, che gli vale il PremioBancarella.

1977Fonda la Lega per il disarmo

unilaterale dell'Italia. Escono Ladisavventura, L'uomo e il cane eL'uomo solo, che rispecchiano la suanuova concezione narrativa polemica neiconfronti di ogni asservimento eastrattezza e in particolare nei confrontidella cultura italiana.

1978Esce Il superstite, romanzo che

conferma la volontà dello scrittore diconiugare impegno politico e letterario.Tale poetica trova piena espressione in

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altri pamphlet pubblicati nello stessoperiodo (La lezione della storia, Larivoluzione disarmata) e nell'ultimoromanzo, il secondo della cosiddetta"quadrilogia atomica", Il paradiso deglianimali, nel quale l'autore si prefigurauna nuova civiltà di animalisopravvissuti alla catastrofe nucleare.

1980Esce la raccolta di racconti La

morale del branco, i romanzi Vitad'artista e Il ribelle, la raccolta discritti di teoria e critica letteraria Ilromanzo moderno, e il terzo titolo della"quadrilogia atomica", Ferragosto dimorte.

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1981 – 1982Escono L'amore tanto per fare,

seguito della storia narrata in MonteMario, La zampa d'oca, Colloqui con leombre, Gli anni passano e 11 mondosenza nessuno, ultimo pamphlet per ildisarmo, che aveva già scritto nel 1978.

1987Stremato da una grave e lunga

malattia, muore il 30 gennaio aMontecarlo, in provincia di Lucca.

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Bibliografia

Le opere di Carlo Cassola sono statepubblicate da Rizzoli sia in edizionerilegata, sia nelle diverse collane diBUR.

Il suo romanzo di maggior successo,La ragazza di Bube, fu pubblicato per laprima volta da Einaudi,Torino 1960.

Biografie e saggi criticiAlicata, M., in «Primavera», 1° marzo

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Cassola, in «Nuova Corrente», 18,1960.

Angelini, M. H., Perception

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subliminaire et réalisme danslespremiers écrits de Carlo Cassola, inAA. VV., Du réalisme à la l'irréalité,Paris 1982.

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A Beppina

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PARTE PRIMA

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Capitolo 1

Mara sbadigliò. Era una bella noiaessere costretta a stare in casa per colpadel fratello! Le venne in mente cheavrebbe potuto lo stesso andarsenefuori: Vinicio si sarebbe messo astrillare, e la sera lo avrebbe raccontato"alla madre; ma lei avrebbe potutosempre dire che non" era vero. E, dopo,gliele avrebbe anche date, a Vinicio.

Le piacque talmente l'idea che levenne una gran voglia di farlo. Ma poiindugiò a guardarsi nello specchio ovaledel cassettone. Si mise le mani sotto icapelli, per vedere come sarebbe statase li avesse avuti gonfi. Il vetro era

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scheggiato per traverso, sì che non ci sipoteva specchiar bene: la faccia nonc'entrava tutta.

Dopo qualche minuto, scese in cucina.«Dove vai?» le gridò dietro il

fratello.«Sto qui. Uggioso.»«No, tu vai fuori» piagnucolò il

fratello. Era incredibile la paura cheaveva di restar solo.

«Non vado fuori. Sto qui». Si eramessa alla finestra.

La finestra dava su uno spiazzo tra lecase. In fondo lo spiazzo si restringevain una specie di vicolo, che immettevanell'unica strada del paese.

Mauro era seduto sullo scalino dellacasa di fronte.

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«Ehi! Non ci sei andato a lavorare?»lo apostrofò Mara.

Mauro non rispose. Si alzòpigramente e attraversò il piazzale. Icalzoni gli scivolavano lungo i fianchimagri, e ogni poco era costretto atirarseli su.

«Vieni fuori» le disse.«Non posso. Devo guardare a

Vinicio.»«Vengo io dentro.»«Nemmeno.»«E perché?.»«Mamma non vuole che tu venga

quando sono sola.» Aveva risposto cosìsenza pensarci, e un momento dopo neera già pentita. La faccia di Mauro si erainfatti aperta in un sorriso malizioso.

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«Lo so dov'è andata tua madre. Aspigolare.»

«No» mentì Mara. «È andata quivicino e ora torna.»

Mauro ridacchiò:«È andata a spigolare» ripeté.

«Sicché prima di buio non torna. Vediche puoi farmi entrare.»

«Non voglio io.»«E io entro lo stesso.»«Non puoi. Ho messo il paletto.»Se Mauro si fosse dato la pena di

provare, si sarebbe avvisto che la portaera solo accostata. Ma non lo fece; eMara fu molto soddisfatta della suafurberia. «Lasciami entrare» la supplicò.«Ti piacerebbe, eh?» lo stuzzicò lei.

Mauro stette zitto. Aveva una faccia

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larga, con l'attacco delle mascelle moltopronunciato; sopra il labbro gli crescevauna fitta peluria nera, ma le guance e ilmento erano senza peli. I capelli liaveva sempre arruffati. «Hai paura?»

«Di che dovrei aver paura?» si risentìlei.

«Di me» e la sua faccia si allargòancora di più in un sorriso compiaciuto.«Figuriamoci se ho paura di te.»

«Allora aprimi.»«No.» E gli fece uno sberleffo.«Bene, tu intanto devi stare in casa

mentre invece io me ne vado in giro»disse dopo un po' Mauro. «M'importaassai.»

«Vado a trovare Annita.»«Vacci.»

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«Scommetto che ti dispiace.»«Povero scemo.»Mauro assunse l'aria di chi la sa

lunga: «Voi donne fate finta di niente…ma poi vi rodete il fegato.»

«sentiamo perché mi dovrebbedispiacere?»

«Perché Annita ti ha portato vial'amoroso.

«Saresti tu il mio amoroso?» Marascoppiò a ridere. «Io te, guarda,nemmeno ti vedo. Se tu sparissi,nemmeno me ne accorgerei.»

«E a me, credi che me ne importiqualcosa di te?»

«E allora perché non te ne vai?»«Da dove me ne devo andare?»«Da sotto la mia finestra. Se non te ne

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importa, perché ci stai?»«Io sto dove mi pare.» Si frugò in

tasca, tirò fuori un mozzicone, poi unfiammifero, e l'accese strofinandolocontro il muro.

Tanto per far vedere che non stava lìper lei, le aveva voltato le spalle; alloraMara, spenzolandosi dal davanzale, glitirò i capelli.

«Ahi! stupida. Mi hai fatto male.Perché non mi lasci entrare in casa?»

«Te l'ho detto perché.»«Ma non c'è nessuno che vede.»«Perché vuoi venire in casa?»«Per parlare.»«Si può parlare anche così.»«Ho da dirti una cosa. Un segreto.»«Dimmelo.»

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A un tratto il ragazzotto fece unafaccia contrita: «Ti prometto che tengole mani a posto.»

«Sì, e io sono così stupida da crederealle tue promesse!» Si arrabbiò: «Miavevi giurato che non le parlavi più, aAnnita; e invece, l'altro giorno, ti ci hovisto insieme.»

«Perché tu non mi dai piùsoddisfazione» rispose Mauro.

«E lei invece te la dà, vero? Bellasoddisfazione ci dev'essere, ad andarecon quella. È anche guercia» e rise.Abbassò la voce: «Lo sai come dice miopadre? Le donne di quella famiglia…sono tutte svelte ad alzare le sottane» etornò a ridere.

Il ragazzo invece rimase serio. «Ti

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prego, fammi entrare» ripeté ostinato.«No.»«Un minuto solo.»Mara lo guardava ironica. Le piaceva

eccitarlo coi discorsi, per lasciarlo poiinsoddisfatto.

A un tratto il ragazzo smise disupplicarla; si tirò su i calzoni, e dissecon aria fiera: «È inutile che fai laschizzinosa con me; tanto quelle cose cele hai fatte…»

«Parla piano, stupido.»«Non è vero che ce le hai fatte?»

ripeté lui a voce più bassa. «Quando? Ionon me ne ricordo più.»

«Bugiarda. Ancora l'anno scorso, diquesta stagione…»

«Sei tu bugiardo.»

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«Guarda: ti dico anche il posto: lìsotto il forno. O vorresti negare?»

«Lo nego, sì, lo nego.»«Sei una bugiarda e una vigliacca.»«Tu sei un bugiardo e un vigliacco. Io

le sottane non le ho alzate, se è questoche intenderesti dire.»

«Ma mi hai sbottonato i calzoni»replicò il ragazzo.

Mara non gli parlò più, smise anchedi guardarlo. "Poteva essere morto",pensava con rabbia. Proprio la settimanaavanti andava al campo insieme con unazia e a un'altra donna, e quest'ultimaaveva messo il piede su una mina ed erasaltata in aria. Anche la zia era rimastaferita, ma leggermente, tanto che era giàtornata dall'ospedale. E Mauro, nulla,

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nemmeno un graffio."Quanto avrei pagato che ce l'avesse

messo lui il piede sulla mina", siripeteva Mara. Erano cresciuti insiemein quella specie di cortile, lei, Annita eMauro; c'erano anche altri ragazzi, maloro tre erano inseparabili. E neavevano fatte di porcherie (lechiamavano proprio così: «leporcherie»). Annita già allora era unasvergognata, che andava con tutti iragazzi, mentre lei solo con Mauro. Unavolta per la verità anche con un altro, maper far rabbia a Mauro. Quellecomunque erano cose da ragazzi, chi glidava importanza; le facevano tutte.Liliana magari no, ma perché era unastupida, sempre attaccata alle sottane

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della mamma.Il guaio era stato l'anno avanti, che

ormai non erano più ragazzi, né lei néMauro. Lui, che per anni nemmenol'aveva guardata, a un tratto le s'eramesso intorno, e ogni momentoallungava le mani, quando la toccavadavanti, quando di dietro; e Mara,schiaffi. Era un divertimento, perché luiquando era eccitato non era buono areagire: si prendeva il ceffone, e zitto.Gliene aveva stampati in faccia con tuttala forza, da lasciarci l'impronta delledita.

Una sera, invece, che lei le avevaprese dalla madre, e si era rifugiata apiangere sotto il forno: era sopraggiuntoMauro, e si era messo a consolarla; poi

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aveva cominciato a farle le carezze, maper bene, come un vero innamorato…"Era buio, nemmeno lo vedevo in faccia;sennò, non mi sarei lasciataabbracciare". Perché quel ragazzotto leera odioso, proprio, odioso. E a untratto, nemmeno lei sapeva com'erastato… Certo, non si era fatta far niente;lui, da questo punto di vista, non avevaproprio di che vantarsi.

«Io da te non mi sono fatta far niente»gli disse.

Mauro ridacchiò:«Ma a me qualcosa m'hai fatto.»«Tanto non lo sa nessuno. Anche se lo

vai a ridire, io dico che sei unbugiardo.»

«La gente crede ai giovanotti, non alle

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ragazze.»«A un bugiardo come te non ci crede

nessuno.»«Facciamo un patto. Io ti giuro che

non lo ridico, ma te, adesso, mi faientrare cinque minuti.»

«Su che cosa lo giuri?»«Sulla Madonna. Anzi, guarda, su

santa Lucia, che possa rimanereaccecato se non mantengo ilgiuramento.»

«Tu in testa ci hai le pigne, vedi»disse improvvisamente Mara. Gli rise infaccia e si tirò bruscamente indietro. Poirimase ferma in ascolto.

«Mara» chiamò il ragazzo. «Mara,senti. Dove sei andata?»

Lei soffocava a stento le risate.

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«Ascoltami, Mara.»Chiamò e supplicò ancora per un

poco, quindi lo sentì che si allontanava.Il pomeriggio del giorno dopo, Mara

era di nuovo affacciata alla finestra dicucina. Guardava in fondo al vicolo, nelbreve tratto di strada che era datovedere, sperando che comparisse unamacchina americana. Era stato cosìdivertente i primi giorni dell'arrivodegli americani! Ce n'erano una quantitàaccampati sotto la canonica; arrivavanocon le macchine in mezzo agli olivi, inun punto ci avevano anche spianato pergiocarci col pallone. La sera eranosempre in giro per il paese, bussavano atutte le porte chiedendo il vino: incambio davano pacchetti di sigarette e

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roba in scatola.A lei avevano regalato tavolette di

cioccolata, caramelle e biscotti. Ledicevano: «Signorina, bella signorina».Ma lei ne aveva paura e scappava. A untratto, erano partiti; ne erano arrivatidegli altri, ma c'erano rimasti due giornisoltanto; dopo di allora, passava ognitanto qualche macchina, ed era tutto.

Si sentì il rumore di una macchina.Ansava su per la salita breve ma ripidache immetteva in paese. Mara guardòancora più intensamente da quella parte,sperando che fosse un camionamericano.

Non era americano. Era un camioncivile, piccolo e sgangherato; c'eranosopra la rete di un letto, un materasso, un

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comò, una catasta di sedie, altri mobili.C'era anche un giovanotto, che saltò giùprima ancora che il camion si fermasse.Aveva uno zaino in spalla, e unfazzoletto rosso al collo.

Benché un partigiano non fosse cosìinteressante come un americano, Mararimase a guardarlo. Lo vide parlare colconducente. Il camion ripartì. Ilgiovanotto si guardò intorno, come senon sapesse dove andare. Chiesequalcosa a una bimbetta, e questa glirispose indicando proprio in direzionedella loro casa.

Il giovane venne diritto verso di lei.Si fermò sotto la finestra:

«Sta qui Castellacci?»«Sì» rispose Mara. «Ma ora non c'è.»

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Di nuovo il giovane parve indeciso.Mordicchiandosi un dito, Mara loosservava. Era magrolino, bruno, coicapelli lisci e i baffetti.

«Dov'è?» fece a un tratto.«A Colle» rispose Mara.«Ma torna?»«E chi lo sa. Certe sere torna, e certe

altre rimane a dormire a Colle.»«Allora era meglio se mi fermavo a

Colle» disse il giovane, come parlandotra sé. «Lei chi è? La figlia?» Maraannuì. «Non c'è nessuno in casa?» Marafece segno di no. «Io ero un compagnodel povero Sante» disse a un tratto ilgiovane.

Mara non rispose nulla. Le davafastidio quando rammentavano il

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fratello.«Be', ormai che ci sono, lo aspetto» si

decise bruscamente il giovane. Mara siscostò dalla finestra, ma senza andargliincontro.

Il giovane entrò, salì i due scalini cheimmettevano in cucina, si sfilò lo zaino elo appoggiò contro il muro. Poi siguardò intorno incerto; e, di nuovo, ebbeun'uscita brusca:

«Sua madre c'è?»«No» rispose Mara. Continuava a

osservarlo. Sembrava molto giovane,perché aveva la barba fatta solo sulmento. E nello stesso tempo aveva unaspetto serio, da uomo. Era tuttostracciato: una tasca della giacca erascucita; uno strappo su un pantalone gli

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metteva a nudo il ginocchio.Il giovane si guardò anche lui lo

strappo:«Ha mica un po' di filo e un ago?

Almeno, mentre aspetto, mi ricucio qui.»E aggiunse: «C'è da vergognarsi, atornare a casa in queste condizioni.»

Mara salì nella camera di sopra.Vinicio dormiva mezzo fuori dellenzuolo, con la faccia rossa sudata.Mara prese in un cassettino del comò ungomitolo di filo nero e una pezza in cuierano infilati gli aghi; si specchiò perqualche momento, e tornò abbasso.

Lo trovò che s'era tolto la giacca. Incamicia, sembrava anche più magro.Dalle maniche rimboccate sbucavanodue avambracci sottili e senza muscoli.

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Senza parlare, Mara tese la mano perfarsi dare la giacca.

Il giovane si confuse.«Sono buono anche da me… Con la

vita che s'è fatto, abbiamo imparatoanche a rammendare.»

Tuttavia le diede la giacca, e Maraandò nel vano della finestra e ricucì latasca.

«No, qui non importa» disse ilgiovane, quasi avesse ritegno a farsimettere le mani addosso. Mara ridacchiòdentro di sé: era proprio ungiovanottello timido. Gli fece segno disedere e gli s'inginocchiò accanto: «Nonabbia paura, non la buco» disse vedendoche istintivamente si tirava indietro.

«È mica perché ho paura» fece il

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giovane, serio.«Ecco servito» disse Mara alzandosi.

Anche al giovane venne fatto di alzarsi.Per un po' stettero in piedi l'una di fronteall'altro, lei guardandolo condisinvoltura, anzi con sfacciataggine, elui che invece non sapeva da che parteguardare.

Al solito, uscì dall'imbarazzo in modobrusco:

«Me lo aveva detto Sante di lei. Macredevo… voglio dire, non è che glisomiglia tanto.»

«Non eravamo proprio fratelli»rispose Mara.

«Cosa?»Ancora una volta le venne da ridere,

ma si contenne:

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«Eravamo fratellastri» spiegò.«Ah» fece il giovane, aggrottando la

fronte. Si rimise seduto e per darsi uncontegno cominciò a tamburellare con ledita sul tavolo. Fischiettava, anche, main modo goffo, gonfiando esageratamentele gote e sporgendo troppo le labbra.

Smise di colpo:«Sante e io eravamo come fratelli»

disse. «Voi in che modo l'avete saputo?»«Venne un contadino di quelle parti»

rispose Mara. Ne parlava conripugnanza, perché le tornavano in mentele scene che c'erano state in casa… lamadre che gridava al padre che la colpaera sua se a Sante gli era venutaquell'idea di andare tra i partigiani.Quanto a lei, non gliene era importato

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nulla; anzi, era contenta che ormai lacamera di Sante era diventata sua,mentre prima le toccava dormire incucina.

Tornò per primo il padre. «Mammadov'è?» chiese con malgarbo.

«A spigolare» rispose Mara. E,vedendo che il padre faceva l'atto disalire in camera: «Guarda, c'èquesto…» si scostò e indicò il giovane.

Il padre si fermò, interdetto.«Ero un compagno di Sante» disse il

giovane.«Ah» fece il padre. «Piacere,

giovane. Sono contento…» Non trovavale parole. «E mamma?» ripetévoltandosi verso la figliola.

«Te l'ho detto, è a spigolare.»

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«Ah, sì.» Sembrò rammentarsi diqualcosa: «E Vinicio? Ha sempre lafebbre? Ma accendi, che non ci si vedeun accidente.»

«Non hanno ancora dato la luce»rispose Mara.

«Ah.» Tornò a rivolgersi al giovane:«Accomodati. Fai come se fossi in casatua. Dunque, tu eri con Sante…»

«Anche quella volta a Montespertoli»rispose il giovane.

«Ah.» E il padre si passò una manosulla faccia nera di barba. «E dimmi: seidi queste parti?»

«Di Volterra» rispose il giovane.«Ora sono in viaggio per tornare a casa.Potevo magari arrivare in serata; ma hopensato, giacché ero sulla strada, di

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fermarmi a casa di…»«E hai fatto bene. Ti ho visto con

tanto piacere. Questa è casa tua, figliolo.I compagni di Sante, per me sono comefiglioli. Ora appena torna mamma sicena, e poi te ne vai a dormire. Lomettiamo in camera di Sante» aggiunserivolto a Mara. «Te, magari, puoi andareda zia.»

«Ma io non voglio arrecare disturbo»si affrettò a dire il giovane. «Io possoadattarmi anche qui in cucina. Sonoabituato a dormire in terra» aggiunse conun leggero sorriso.

«Neanche per idea» fece il padre. «Tel'ho detto, qui devi far conto di essere acasa tua. Puoi restare tutto il tempo chevuoi. E, scusa la mia curiosità,

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giovane… Come ti chiami?»«Cappellini Arturo. Però m'hanno

sempre chiamato Bube.»«Ma da partigiano, come ti

chiamavi?»«Vendicatore» rispose il giovane.«Ah, sì. L'avevo sentito fare il tuo

nome, da Sante… Vendicatore, appunto»ripeté come per convincersi che quelnome gli era noto.

Era entrata la madre. Il giovane sialzò di scatto. Per qualche istanterimasero tutti quanti zitti.

«Mamma, questo era un compagno delnostro figliolo» disse il padre.

La donna guardò con indifferenza ilgiovane, poi riprese a salire e sparì perle scale.

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«Eh» fece il padre scuotendo il capo.«Tu devi capire» disse rivolto algiovane «per una madre è un colpotroppo duro… Anche per me, s'intende,è stata dura. Ma, cosa vuoi? noi uominisappiamo farcene una ragione.»

«Per tutti è stata dura» disse ilgiovane. «Sante per me era come unfratello.»

«Eh» fece il padre. «Purtroppo, nellerivoluzioni, nelle guerre, non si puòpretendere di arrivare in fondo tutti…Ogni causa esige i suoi caduti.»

«Ecco la corrente» disse Mara, chedalla finestra aveva visto accendersi laluce nella casa di fronte.

Al tasto trovò l'interruttore. La stanzas'illuminò fiocamente.

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«Oh, ora ci vediamo meglio infaccia» disse il padre soddisfatto.«Perbacco, sei più giovane di comem'eri sembrato… Quanti anni hai?»

«Diciannove.»«Un anno meno del mio Sante»

commentò il padre. «Avanti, dacci dabere» disse alla figliola. Mara aprì lacredenza, prese il fiasco e due bicchierie li posò sul tavolo. Il padre mescéfacendo traboccare i bicchieri, e neporse uno al giovane.

«Alla salute» disse questi bevendo unpiccolo sorso.

«Alla tua, compagno» rispose ilpadre. Vuotò il bicchiere e se ne versòsubito un altro. «Perché sei un compagnoanche tu, no?»

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«Vorrei vedere» fece il giovane, conaria quasi offesa.

«Io sono comunista da quando fufondato il Partito. Vedi qui?» disseindicando una cicatrice sulla fronte. «Èun segno di quando quei vigliacchi mibastonarono, in tempo di elezioni, nel'24…»

Seduta su uno sgabello, Maraaspettava che fosse pronta l'acqua perrigovernare. Rigovernare toccavasempre a lei, perché alla madre era unperiodo che le faceva male mettere lemani nell'acqua. Quella sera poi nonaveva nemmeno cenato e se n'era andatasubito a letto.

Bube e il padre erano rimasti a tavolaa chiacchierare e a bere. Per la verità,

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chiacchierava e beveva soltanto ilpadre; e a un tratto, come gli accadevasempre in questi casi, rimase con undiscorso a mezzo; chiuse gli occhi, eabbassò il capo sul petto. Un momentodopo russava.

Il giovane si voltò a guardarla,sconcertato.

«Quello fa venire il mal di capo, daquanto chiacchiera» rispose Mara, erise.

«Mi stava parlando… delle cose delPartito» disse serio il giovane.

«E lei ci provava gusto a starlo asentire?»

Il giovane fece una facciameravigliata. «La politica, certo, non èfatta per le donne» disse dopo un po',

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con una sfumatura di disprezzo nellavoce. «È una cosa che guarda noiuomini» e si batté in petto, per daremaggior forza all'affermazione. Si alzò,aprì lo zaino, cominciò a frugarcidentro. A un tratto Mara se lo videdavanti con una rivoltella.

«Ma che le piglia?» fece spaventata.«La posi subito.» Bube sorrise:

«Non abbia paura, è scarica.» Guardòla rivoltella con aria compiaciuta:«Questa qui, vede? ha già sistematodiversi conti. E non è mica finita.» Alzòla voce: «Cosa credevano? Che il nomedi Vendicatore lo avessi preso pernulla?»

Mara cominciò a rigovernare. Con lacoda dell'occhio o vedeva che si dava di

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nuovo da fare intorno allo zaino. Daultimo tirò fuori una pezza gialla:«Prenda, gliela regalo.» Aggiunse: «Èstoffa di paracadute. Seta.»

Mara si affrettò ad asciugarsi le mani,strofinandole contro il grembiule ruvido.Era proprio seta, e anche 0andeabbastanza da farci una camicetta.

«Le piace?»«Certo che mi piace.»Il giovane sembrò soddisfatto. «Ah»

fece stirandosi, «comincio proprio a nonpoterne più. È da stamani che sono inpiedi.»

«E Allora, perché non se ne va adormire?»

«Le tengo compagnia finché non hafinito. Anzi, guardi, mentre lei lava, io le

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asciugo, così fa prima.»Mara ogni tanto gli dava un'occhiata:

le veniva da ridere, a vederlo cheasciugava piatti e bicchieri con la suasolita espressione seria.

Quando ebbe finito, si slacciò ilgrembiule e diede un urtone al padre,che si svegliò con gli occhi stralunati:«Che c'è?» disse.

«C'è che devi andare a letto. Asmaltire il vino» e si mise a ridere. Sirivolse a Bube: «Allora, arrivederci;e… grazie del regalo.»

«Ma le pare? Nulla, nulla» balbettò ilgiovane. Di colpo cambiò tono: «Avevodue pezze con me… una la porto a miasorella, e l'altra, l'ho voluta dare allasorella di Sante.»

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Alla finestra si affacciò una formanera: «Sei tu? Ora scendo.»

C'era la luna piena, che dava unrisalto esagerato alle ombre. Sidistinguevano nitidamente la vallata, e iprofili delle colline al di là. E si udivadistintamente il canto dei grilli. A untratto echeggiò l'urlo rauco della civetta:Mara si spaventò.

La porta fu socchiusa: era Liliana, incamicia da notte, col candeliere inmano.

«Come mai? E andata via la luce?»«Non lo sai che la levano sempre a

quest'ora?»«Ma è molto tardi?»«Sì. Ormai credevo che non venissi

più.»

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La camera di Liliana era piccola, colsoffitto che spioveva. Ma almeno c'eratutto: il comodino, il cassettonel'armadio. Nella sua, invece, pensavaMara con rabbia, c'era soltanto uncantonale.

Quando furono a letto, Liliana lechiese:

«Chi è questo giovane?»«Un amico di Sante.»«Di dov'è, di Colle?»«No. Di Volterra» rispose Mara.

L'insistenza della cugina le facevapensare che si fosse messa in testaqualcosa. Subito si sentì in dovere dialimentare i suoi sospetti: «Pensa,doveva andare a casa, sono nove mesiche non vede la sua famiglia; ma prima,

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s'è voluto fermare da noi.»«Aveva da riportarvi della roba di

Sante?»«No. La roba di Sante l'aveva

riportata quel contadino. Lui è venuto…perché aveva da portare un regalo ame.» Liliana fece un movimento. «Maperché tieni la candela accesa? Spengi.Si può parlare anche al buio.» Al buio leriusciva più facile dire le bugie.

Dopo che ebbe spento la candela,Liliana rimase per un po' zitta e ferma;poi tornò ad agitarsi, e alla fine chiese:

«Che regalo?»«Una pezza di seta, per farci una

camicetta. Domani te la mostro.»«Ma tu quando lo avevi conosciuto?»Mara fu lì lì per inventare chissà che

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storia. Ma sapeva che Liliana nonavrebbe mancato di venire a informarsidalla madre; perciò disse: «No, io nonlo conoscevo. Ma lui sì: mi aveva vistoin fotografia». Questo del resto potevaesser vero, Sante s'era portato dietro unafotografia dei genitori, e c'era anche lei,ma figuriamoci, quando era ancora unabambina.

«Come, in fotografia?» Ormai Liliananon cercava nemmeno più di nasconderela sua curiosità; e Mara dovetteraccontarle per bene com'erano andatele cose. Dunque Sante aveva con sé unafotografia di lei: «Sai quella che mi sonfatta l'anno passato». L'aveva mostrata aBube, e Bube se l'era tenuta. Una voltapoi che Sante era venuto a casa, Mara

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gli aveva detto: «Rendimi la fotografia».Sante allora aveva dovuto confessarle diaverla data a un amico. «Io mi sonoarrabbiata, figurati… Non volevo cheuna mia foto fosse finita in tasca a ungiovanotto.» Liliana non fiatava.Finalmente disse: «E allora?»

«E allora cosa?»«Che ti ha detto quando ti ha visto?»«Mi ha detto che ero come in

fotografia. Anzi, meglio ancora che infotografia. Ma io, figurati, l'ho trattatomale; gli ho detto che non aveva ildiritto di tenersi una mia foto, dalmomento che non c'era nulla tra noi enemmeno ci conoscevamo. E lui sai

come mi ha risposto? "Signorina daquando ho visto la sua foto non ho fatto

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che pensare a lei". Poi mi ha dato lapezza in regalo, ma io non la volevoaccettare.»

«Però l'hai accettata» disse prontaLiliana.

«Mica subito. Dopo cena, quando cisiamo riparlati. Lui mi ha detto che senon avessi accettato il suo regalo, gliavrei dato un dolore da morire… Eallora, che dovevo fare? Ho accettato.»

«Secondo me hai fatto male.»«E perché?»«Perché ti sei legata.»«Niente affatto. Io non ho detto mezza

parola che glielo potesse lasciarcredere.»

«Insomma, faresti bene a pensarci duevolte, prima di metterti con uno che in

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fin dei conti l'hai conosciuto soltantooggi.»

«E chi ha intenzione di mettercisi? Io,figurati, non è mica il solo giovanottoche mi sta dietro. Ora però basta, ètardi, dormiamo» e le voltò la schiena.

Liliana non osò più dir nulla, ma lasentì cambiare posizione parecchievolte. "Mangiati il fegato, vai", pensavaMara, lasciandosi scivolare soddisfattanel sonno.

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Capitolo 2

Bube ricomparve il mese dopo. Erauna mattina che facevano il pane: Maraaveva aiutato la madre a infornare, poiera tornata a casa. Ed ecco, davanti allaporta, con la sua solita aria indecisa,c'era Bube. «Buongiorno» disse. Subitodopo domandò del padre. «È a Colle.»

Bube fece un gesto di disappunto:«Avevo proprio bisogno di vederlo…Stasera torna?»

«Credo di sì.»«È che io non posso aspettare fino a

stasera.» E Spiegò che era venuto inmotocicletta con un amico, il qualeaveva proseguito: «Siamo d'accordo che

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ripassa a prendermi dopo mangiato.»Entrarono in casa. Bube indossava lo

stesso vestito blu dell'altra volta, peròsmacchiato e rassettato. Aveva anchequalcosa di diverso, nella faccia,nell'espressione…

«Perché si è tagliato i baffi?»«Come? Ah, sì, è vero» e sorrise.

«Erano un avanzo della vita allamacchia» aggiunse poi. «Tutti, allamacchia, c'eravamo fatti crescere ibaffi… qualcuno anche la barba.»

«Lei sta meglio senza.»«Eh» fece Bube, incerto.Rimasero in silenzio. Poi Mara ebbe

un'idea:«Vado a mettermi la camicetta. Vedrà

come mi sta bene.»

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«Che camicetta?»«Quella che mi son fatta con la pezza

che mi ha regalato». E corse in camera.In un momento si levò il vestito, indossòla gonna e la camicetta, e si legò icapelli con un nastro celeste.

Il giovane stava fumando. La guardò,ma non disse nulla. «Come mi sta?»

«Bene» rispose Bube, asciutto.Mara sedette su uno sgabello. Per

l'appunto aveva anche fame, ma leseccava mangiare in presenza di lui.Cos'era venuto a fare, se stava lì senzadire una parola?

Cercò di avviare lei laconversazione:

«A casa… ha trovato tutti bene?»«Sì» rispose Bube. «Mia madre,

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magari, non tanto bene. È a causa di tuttigli spaventi che s'è presa. Queivigliacchi l'hanno tenuta in carcere unmese, perché non voleva dire dov'eroio.»

«E… la sua fidanzata?» azzardòMara.

«Io non ce l'ho mica la fidanzata»rispose serio il giovane.

«Non sarà magari fidanzato in casa…una ragazza però ce l'avrà anche lei.Tutti i giovanotti ce l'hanno.»

«Io… non ho avuto il tempo dipensare a certe cose» rispose Bube.«L'anno scorso di questi tempi ero giàalla macchia.»

«Ma ora è un bel po' che è tornato acasa.»

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«Sì, ma cosa crede? Il giorno lavoro,e la sera vado in sezione. Nono mai unmomento libero, nemmeno ladomenica.»

«Oggi però se l'è presa una giornatadi libertà.»

«Be', oggi… Era tanto che volevovenire a farle una visita» aggiunseimprovvisamente. Si spaventò delleproprie parole: «Intendo dire che,trattandosi della sorella di Sante… Ionon li dimentico, i compagni che sonomorti» disse alzando il tono della voce.«Non sono come tanti, che a queste cosenon ci pensano nemmeno più.»

Ma lei aveva smesso di ascoltarlo:aveva saputo quello che le premevasapere, le bastava così. Era tutta

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trionfante, dentro di sé. Ora Liliana nonavrebbe più potuto mettere in dubbioche quel giovanotto s'era innamorato dilei subito a prima vista…

«Mara! Ma dove ti sei cacciata?» Erala madre, che veniva a vedere che stavafacendo la figliola.

Dopo uscirono per andare allabottega. Più che altro era una scusaescogitata da Mara per farsi vedereinsieme con quel giovanotto forestiero.

Ebbe fortuna: subito fuori dellabottega, s'imbatté nella cugina.

«Dove vai?» le chiese.«A casa» rispose Liliana. Se ne stava

lì con aria seccata, fingendo di nonaccorgersi di Bube, che s'era fermato adue passi di distanza. «È vero che tuo

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padre è tornato a stare a Colle?»«No» rispose Mara. «Va su e giù con

la bicicletta.»«Io avevo sentito dire che ci stava

proprio fisso.»«Non è vero niente» ribatté Mara con

vivacità. Le era parso che ci fossequalche allusione maligna sotto. Già unavolta infatti il padre aveva abbandonatola famiglia per andare a stare conun'altra donna.

«E che ci va a fare a Colle?» insistéLiliana.

«Lavora per conto dei comunisti»rispose Mara.

«Ma quello non è un lavoro.»«Vedo che prende la paga, dunque è

un lavoro.»

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«Mica come quello che fa miopadre.»

«E perché? Il muratore, è forse unmestiere meglio degli altri?»

«Per lo meno, ai muratori il lavoronon gli manca mai. Tuo padre, invece, èstato a casa anche un anno di seguito. Epoi, mio padre non è mica piùmuratore.»

«E cos è, allora?»«Capomastro» rispose Liliana. Mara

non seppe come replicare, anche perchénon conosceva bene il significato dellaparola. «Sai? Ora che deve cominciareun lavoro a Colle, si porterà dietroMauro.»

«Mauro?» fece Mara ridendo. «Hauna bella voglia di lavorare, quello.»

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«Voglia o non voglia, bisogna beneche cominci. Sai? Sua madre è venuta araccomandarsi a mio padre, perché lomettesse al lavoro.»

«E cos'è diventato tuo padre, permettere gli altri al lavoro? Il padrone diuna fabbrica?»

«Capomastro, non te l'ho detto che ècapomastro? Lo sai o no chi sono icapimastri?»

«Certo che lo so» si affrettò arispondere Mara.

«E allora perché ti meravigli se mettela gente al lavoro? Potrebbe assumereanche tuo padre» aggiunse dopo un po'.«Certo, bisognerebbe che smettesse dibere.»

«Mio padre non ha bisogno del tuo

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per trovar lavoro; ce l'ha già, come te lodevo dire?»

«Quello della politica non è unlavoro» ripeté testarda la cugina. «Be',ora devo andare.»

«Dove? Aspetta un minuto.»«No. Ho da fare in casa, e poi, vedo

che sei in compagnia.»«Già. Sono in compagnia. E questo ti

dà fastidio, vero?» Liliana diventòrossa: «E perché dovrebbe darmifastidio?»

«Come se non ti conoscessi, bellamia.»

«Non capisco quello che vuoi dire.Ciao, devo andare.» Mara la trattenneprendendola per un braccio:

«Vorresti farmi credere che non te ne

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importa niente se ho un giovanotto chemi sta dietro… mentre te non t'ha maiguardato nessuno?»

«Per questo, cara, ti sbagli: io neavrei potuti avere anche dieci, digiovanotti. Ma non sono mica come te,che si attacca al primo venuto.»

«Lui non è il primo venuto.»«Ma se è la seconda volta che lo

vedi! A ogni modo, come dice ilproverbio? contenta te, contenti tutti.Ciao, cara; rallegramenti e auguri.»

«Ciao, smorfiosa.» Ma Liliana finsedi non avere inteso e se ne andòimpettita.

In tutto quel tempo Bube se n'era statoda una parte, e quando aveva sentito cheparlavano di lui si era allontanato un

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altro po'. Mara cominciò a dirgliene ditutti i colori sul conto della cugina:«Quella strega Ha un anno più di me, enon c'è stato ancora un cane che l'abbiaguardata. Per questo crepa d'invidia. Havisto che faccia ha fatto quando ci haincontrato?»

L'imbarazzo del giovane si accrebbe.Ma a interrompere Mara venne loscampanio di mezzogiorno.

«Oh, com'è tardi; dobbiamo andare acasa.»

Bube si mise in agitazione:«Vado a vedere se fanno servizio di

trattoria» disse indicando la bottega.Mara replicò che ormai avevano

preparato anche per lui; e Bube, dopoaver fatto un po' di complimenti, si

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lasciò convincere.Il desinare fu silenzioso. Bube era più

impacciato che mai, e anche a Maraseccava di parlare in presenza dellamadre. Questa rivolse la parola a Bubeuna volta soltanto, per chiedergli se aVolterra si trovava il sale. Bube risposedi sì, e assicurò che si sarebbeincaricato di fargliene avere unpacchetto.

La madre da quel momento fu piùgentile con lui, e dopo mangiato,vedendolo che sbadigliava, gli disse diandarsi a stendere sul letto.

Rimasta sola, Mara rigovernò, poi simise seduta e prese a rosicchiarsi leunghie. Di solito, appena finito dirigovernare scappava fuori: le prime ore

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del pomeriggio, erano le sole in cuifosse libera. Ma ora che c'era Bube incasa, non aveva certo voglia di andarfuori.

Bube: non le piaceva troppo quelnome. "Lo chiamerò Arturo", e le venneda ridere, al ricordo di una sconcezzache diceva sempre Mauro a propositodel nome Arturo. "Gli inventerò unnome. Lo chiamerò… Bruno. Bruno è unbel nome, e poi a lui gli sta bene, perchéè bruno davvero. Invece ci sono diquelli che sono biondi, e si chiamanoBruno. A me per esempio se m'avesserochiamato Bruna, mi sarebbe stato male".

Era abituata a fantasticare, e a farelunghi discorsi da sola. Nelle sered'inverno, quando se ne stava

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rannicchiata sul palco sopra il focolare,quante cose le venivano in mente.

A volte pensava quanto eradisgraziata, a essere nata in una famigliacome quella, col padre che era unoscansafatiche e si era fatto mettere anchein prigione. E con la madre, che volevabene soltanto a Sante. E invidiavaLiliana, che almeno era figlia unica, e leattenzioni dei genitori erano tutte per lei.

Ma, da un po' di tempo, non invidiavapiù né Liliana, né nessun'altra ragazzadel paese. Le sembrava, per cominciare,di essere la più bella. Anche se i capellile stavano ritti sulla testa a mazzetti, chenon c'era verso di tenerli a posto.Semmai, si rammaricava di aver pocheforme. Andava in continuazione da

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Liliana, che aveva uno specchio grande,dove ci si poteva vedere per intero:stava lì delle mezz'ore a spiare ansiosase il petto le s'era fatto più pieno, se leerano venuti un po' più di fianchi. E, aseconda della risposta dello specchio,diventava gaia oppure triste.Camminando, dimenava il sedere, comeaveva visto fare alle attrici, le raredomeniche che era andata al cinema aColle. Se tornava dal campo con unafascina, era capace di allungare lastrada, pur di passare per il paese:perché sapeva che un peso in bilicosulla testa fa più flessuosa la figura.

Di essere vestita male, le importavafino a un certo punto; ma avrebbe pagatochissà che cosa per avere un paio di

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scarpe coi tacchi alti. Un giorno che siprovava quelle di Liliana, l'aveva vistala zia, ed era andata su tutte le furie.«Che gliele hai date a fare?» avevagridato alla figliola. «Non lo sai che laroba sua ognuno se la deve tenere persé?»

«Ma io me l'ero messe solo unmomento, per vedere come stavo» si eragiustificata Mara. E la zia: «Tanto tu lescarpe coi tacchi alti non sei destinata aportarle. Tu non sei mica nellecondizioni di Liliana, che può aspirareanche a un capomastro, o a un fattore: tu,bisogna che ti contenti di un giornaliero.E ringrazia Dio se lo trovi, perché chivuoi che s'imparenti con una famigliacome la tua?». «La mia famiglia non ha

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proprio niente di meno delle altre»aveva ribattuto lei. «Già, come se non sisapesse che tua madre quando eraragazza ha avuto un figlio da un uomosposato! E che tuo padre rubava el'hanno messo in prigione!»

«Ma lei non si era lasciata smontare:«M'importa assai di quello che hannofatto mio padre e mia madre. I giovanottimica guardano alla famiglia, guardanocom'è una ragazza. E io, se proprio lovuoi sapere, sono fatta cinquanta voltemeglio della tua figliola». E se n'eraandata con un'alzata di spalle.

Era sicura di sé, delle proprierisorse: aveva un'illimitata fiducia nellasua bellezza e nella sua furberia…

Ma quanto dormiva quello là. Aveva

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detto che il suo amico sarebbe ripassatonel pomeriggio presto, dunque non cisarebbe stato più tempo di parlare! Einvece, avevano ancora tante cose dadirsi! O meglio, era lui che avrebbedovuto dire qualcosa…

"Bisogna che lo svegli." Bussò piano;non ebbe risposta. Rimase un momentoincerta, poi spinse adagio la porta. Lacamera era immersa nella penombra,perché Bube aveva accostato gli scuri. Apoco a poco, distinse meglio gli oggetti:le scarpe erano in terra, messe unavicino all'altra; la giacca appesa allaspalliera della seggiola. Si avvicinò alletto: Bube dormiva supino, con unbraccio ripiegato, l'altro disteso. Erabello, con la massa oscura dei capelli,

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la fronte leggermente aggrottata, labocca semiaperta. Ebbe voglia dibaciarlo, più ancora, di stendersiaccanto a lui e abbracciarlo stretto. Siera così intenerita, che gli occhi les'erano velati: ormai non lo vedeva piùche attraverso una nebbia…

Bube aprì gli occhi. Rimase così perqualche secondo; bruscamente balzò asedere: «Che c'è?» disse. La guardavacon gli occhi sbarrati; poi,riconoscendola e rendendosi contodov'era, spianò la fronte e le sorrise.

Per un po' rimasero a guardarsi, eMara si aspettava che egli l'attirasse asé e la baciasse. Ma la faccia di lui siricompose nell'espressione abituale:«Ho dormito molto? Dev'essere tardi» e

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si affrettò a guardare l'orologio. «Sonole tre e mezzo; il mio amico avrebbedovuto essere già qui.»

Svelto scese dal letto, aprì gli scuri;si mise le scarpe, tirò fuori un pettine esi diede una ravviata davanti allospecchio. Sopra il cantonale c'era anchequella fotografia formato cartolina cheMara s'era fatta l'anno prima a Colle:una delle poche spesucce che avevapotuto permettersi coi soldi guadagnatialla coglitura delle olive. Bube la presein mano; senza dir niente la rimise aposto, infilò la giacca e uscì dallastanza. Mara, delusa, lo seguì in cucina.

«Doveva essere già qui» ripeté Bube.«Non gli sarà mica successo qualcosa?»Si affacciò sulla porta a guardare verso

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la strada: «Eppure gli ho spiegato benedove doveva venirmi a riprendere» fecevoltandosi un momento verso di lei.«Non vorrei che avesse tirato di lungo»aggiunse di lì a un po'.

«Io non ho sentito passare nessunamoto» disse Mara.

Egli risalì i gradini e sedette sullapanca. Accese una sigaretta. Via via cheil tempo passava, si faceva sempre piùnervoso; si alzava, si rimetteva seduto; ea Mara le prese una stizza tale che nonvedeva l'ora che se ne andasse.

«Oh, finalmente» disse Bube balzandoin piedi. Si era inteso il rumore di unamotocicletta; sparì per un poco, quindisi risentì vicinissimo. Bube era corsoalla finestra: «Vengo subito» gridò.

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«Allora… arrivederci» fece rivolto aMara.

Sulla porta, si voltò ancora indietro:«Mi saluti suo padre. Gli dica che m'è

dispiaciuto di non averlo trovato.»Mara non rispose nulla. E fu soltanto

la curiosità di vedere com'era l'amico diBube che la fece andare alla finestra aguardarli partire.

Bube mantenne la promessa fatta allamadre. Pochi giorni dopo, si presentòCarlino col pacchetto del sale. Carlinoera un sensale di Volterra, che capitavaspesso a Monteguidi. Era un bell'uomo,alto, robusto, coi capelli castaniondulati, i baffi arricciati, e gli occhichiari. Estate e inverno, indossava unvestito di fustagno, e in testa portava un

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cappello verde peloso, con una piuma difagiano infilata nel nastro.

C'era la madre in casa, Carlino leconsegnò il pacchetto, bevve ilbicchiere di vino che gli era statoofferto; e in un momento in cui la donnagli voltava le spalle, tirò fuori unalettera ripiegata in due e la porse aMara.

Mara scappò su nel granaio. Tremavaper l'emozione mentre apriva la busta;nello stesso tempo, le veniva da ridere.

Lo scritto riempiva mezza facciata:«Cara Mara, per il latore della presenteinvio il sale a sua madre e a lei questemie righe. Spero di avere occasione ditornare presto a rivedere lei e famiglia.Se non le porta incomodo, sarei contento

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di ricevere una sua foto. Saluti, Bube».Dopo averci riflettuto un po', Mara

andò alla bottega a comprare un foglio euna busta. Prese la penna e il calamaionella credenza di cucina e scrisse lalettera sul cantonale in camera sua:«Caro Bube, grazie del gentile pensierodi avermi mandato a salutare. Io efamiglia stiamo bene, e così spero di leie famiglia. Se vuole avere una mia foto,prima me ne faccia pervenire una di lei.Saluti, Mara».

Chiuse la lettera e andò alla ricerca diCarlino. Lo trovò davanti alla bottega, inmezzo a gente del paese. Come guardòdalla sua parte, gli fece un cenno. Eglimostrò di aver capito, ma rimase achiacchierare coi paesani. Finalmente li

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lasciò, indirizzandosi verso la stradettadi fianco alla bottega. Mara dopo un po'gli andò dietro facendo finta di niente.Lo vide che orinava contro la siepe;aspettò che avesse fatto, poi svelta gli siavvicinò e gli diede la lettera.

Una settimana dopo, le arrivò un'altralettera di Bube, tramite il solitomessaggero, che stavolta non siarrischiò a venire in casa, ma le fece unleggero fischio dal cortile. Come leiuscì, egli s'incamminò girando l'angolo.Mara lo raggiunse, prese la lettera e feceper tornarsene indietro.

«Bube mi ha detto che aspetta unarisposta.»

Mara corse in camera, aprì la busta,ma non c'era nessuna lettera, solo la

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fotografia di lui vestito da partigiano,col fazzoletto al collo e la rivoltellabene in vista sul fianco. Dietro ci avevascritto: «A Mara, Bube». Mara laconfrontò con la sua, non c'era paragone,quella di Bube era piccola e anche unpo' sfuocata, mentre la sua era stata fattanello studio di un fotografo, inoltre leiera venuta benissimo, con l'incarnatolucido e i capelli ondulati Le era statoperfino detto che in quella fotografiasembrava una Madonna.

Alla fine, si decise a privarsene;tanto, ne aveva un'altra copia. Ma non cifece la dedica.

«Se deve continuare un pezzo,bisogna che ci mettiamo d'accordo»disse l'uomo. «Io un piacere a Bube

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glielo faccio volentieri… e anche a lei,signorina. Ma bisognerebbe trovare unposto dove vederci.»

Mara ci pensò un momento:«Qui dietro casa» disse. «Sotto il

forno, lì siamo al sicuro.»«Allora, senta come si fa: io vengo il

martedì: lei, verso quest'ora, stia attentaalla finestra. Se mi vede passare, vuoldire che vado ad aspettarla al forno.»

Il martedì seguente, infatti, fecero inquel modo. Si scambiarono le lettere.L'uomo, ora che erano al riparo dasguardi indiscreti, non aveva più frettadi separarsi da lei.

«Ma aspetti un momento! Ha unasettimana per leggere quella lettera. Hatempo di impararla a memoria.»

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Mara fece di nuovo l'atto di andar via;quello la trattenne per un braccio:«Perché scappa? Non la mangio mica».Mara rimase, soggiogata dal suo sguardodolce, dalla sua voce carezzevole.«Volevo farle una domanda, signorina…È molto che lo conosce, Bube?»

«Saranno… due mesi.»«E non ha avuto paura a mettersi con

lui?» Rise piano: «Scommetto che intutta Volterra non c'è una ragazza cheavrebbe avuto il coraggio di mettersicon Bube».

Mara alzò le spalle:«M'importa assai» disse. Lo guardò

ironica: «Si può sapere perché mi faquesti discorsi?».

«Io voglio solo farle del bene,

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ragazza mia» e le sfioro la guancia conuna carezza.

«Tenga le mani a posto.»«Lei fraintende le mie intenzioni…

non lo sa che sono un uomo sposato? eche ho una figlia grande quasi quantolei? E poi, non mi azzarderei mai a darfastidio alla ragazza di Bube. Brrr»aggiunse facendo una smorfia di paura,quasi che il solo nome bastasse aspaventarlo.

Passò una settimana, ne passaronodue, e Carlino non si era fatto piùrivedere. Ed ecco, una mattina, sentìfischiettare. Lei era in sottana, si stavalavando in cucina Si vestì in fretta, ecorse al forno. Ma non c'era Carlinoc'era Bube. «Ah… sei tu.»

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«Sì, sono con Carlino.»«E perché non sei venuto in casa?»«Volevo parlarti, prima.»«Be', parla, allora.»«Prima di tutto, volevo dirti che vado

a stabilirmi a San Donato.»«Dove?»«A San Donato. Vicino a Firenze.»«E come mai?»«Be', a Volterra… non mi ci trovavo

più bene. Figurati che l'altra settimana ilmaresciallo pretendeva di mettermi inprigione… Poi, s'intende, c'è stata unaprotesta, e mi ha dovuto rilasciare.»

«E perché ti voleva mettere inprigione?»

«Per niente. Perché avevo picchiatoun fascista» aggiunse improvvisamente.

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«Così, ho deciso di tornare a SanDonato, dove i compagni mi aspettano.»

Mara s'insospettì:«Non ti aspetta mica qualche

ragazza?» Bube fece una facciasorpresa:

«Ma che dici? Io là non conosconessuna ragazza… In paese proprio cisono stato due giorni soltanto, dopo chearrivarono gli americani.»

«Uhm» fece Mara, poco persuasa.«Carlino mi porta fino a Colle; di lì

cercherò un mezzo per arrivare aFirenze, e poi, da Firenze a SanDonato… Ma mi stai a sentire?»

«Non sono mica sorda» rispose Marasgarbatamente.

«Ora, come si fa? Perché bisogna

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assolutamente che veda tuo padre.Dov'è, a Colle?» Mara fece segno di sì.«Andrò a cercarlo in sezione» concluseBube. Le venne un dubbio: «Perché devivedere mio padre?»

«Per dirgli di noi, no?»«E che bisogno c'è?»«Come, che bisogno c'è? Io le cose di

nascosto mica le voglio fare. A casa mial'ho già detto, e ora, bisogna dirlo ancheai tuoi.»

«Ma neanche per sogno» risposeMara. Lei era abituata a come andavanole cose lì in paese, che i giovanottifacevano all'amore con le ragazze peranni, prima di fidanzarsi in casa. E poi,si ribellava all'idea che i suoi dovesseroentrarci per qualcosa in una faccenda

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che riguardava lei sola.«Vorresti seguitare così, a scriverci e

a vederci di sotterfugio?»«E che male c'è?»«Io non voglio ingannare la tua

famiglia» dichiarò Bube. «Sante era ilmio migliore amico… sarebbe stato ilprimo a cui l'avrei detto, se fosse statovivo.»

«Uff» si spazientì Mara. Fu sul puntodi mandarlo al diavolo; di dirgli che lerestituisse la fotografia, e le lettere,perché non aveva più nessuna intenzionedi mettersi con lui.

«Senti, non c'è tempo da perdere:Carlino è là che aspetta, bisogna chevada.»

«E allora vai, corri» fece Mara

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ironica.«Sì, è meglio» rispose lui senza

capire. «Dunque… ti saluto.»«Ciao.»Egli rimase un attimo incerto:«Ci vogliamo dare un bacio? Sai, si

potrebbe stare anche del tempo senzavederci.»

Mara non rispose niente, e lui, senzaabbracciarla, si sporse e le posò unmomento la bocca sulle labbra.

- Ciao, - disse ancora."Ma guarda un po' che razza di modi"

pensava Mara. "Fidanzati; ma è matto,quello".

L'aveva talmente indispettita il mododi fare di Bube, che scacciò la suaimmagine e non pensò più a lui per tutto

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il giorno.Il padre quella sera arrivò tardi: loro

avevano già cenato e messo a lettoVinicio.

«Buonasera» disse allegro. Si rivolsea Mara: «Brava, figliola». Lei era cosìlontana dal pensiero di Bube che attribuìquelle parole al vino. «Datemi cena,donne». Sedette sulla panca, si versò unmezzo bicchiere e lo bevve d'un fiato.Fregandosi le mani, guardava Mara chegli riempiva la scodella: «Allora,figliola, cosa mi dici? Sei contenta, no?Anche io sono contento. Sì, sonocontento» aggiunse alzando la voce econ un tono che voleva essere solenne«sono contento che mia figlia si siafidanzata con un compagno e amico del

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povero Sante.»"Ma guarda un po': quell'imbecille c'è

andato davvero a parlargli". Ma nonebbe il tempo ché la madre la scostò conviolenza:

«Che ha fatto tua figlia?»«Come, non te l'ha detto? S'è

fidanzata con Bube. Cioè, Bube è venutoa chiedere il mio permesso… e iogliel'ho dato, perché lo stimo un giovaneonesto… perché è un compagno, eperché lui e Sante…»

«Lascia stare Sante. Sante, tu, non lodevi nemmeno nominare». S'era puntatacon le braccia sul tavolo e si sporgevaverso il marito fissandolo con odio.«Quella è figlia tua, può fidanzarsianche col diavolo. Ma qui in casa non ce

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lo deve portare. Hai capito?» gridòrivolta alla figliola. «Portalo nei campi,portalo nei fossi, portalo dove ti pare!Ma qui in casa no, non ce lo voglio. Nonvoglio più vederlo, quella brutta facciadi delinquente!»

Mara fissava l'impiantito, poi alzò gliocchi per guardare la madre, che dopola sfuriata s'era rimessa alle suefaccende. Ebbe voglia di dir qualcosa;ma non le riuscì. A un tratto corse incamera, si buttò sul letto, schiacciò lafaccia contro il guanciale e scoppiò insinghiozzi.

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Capitolo 3

Durante l'inverno, Bube si fece vivocon due o tre lettere, recapitate in varimodi (una la portò il padre da Colle).Poi, quando la posta ebbe ripreso afunzionare, cominciò a scriverleregolarmente una volta la settimana. Manon erano vere lettere, come quelle cheMara immaginava dovessero scriveregli innamorati. E la contrariava il fattoche Bube parlasse di sposare.

Una volta venne anche a trovarla,durante il carnevale; ma si trattenne solopoche ore, e non fece che parlare dipolitica col padre. Lei in quel tempoaveva un altro giovanotto che le stava

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dietro, uno di campagna, conosciuto auna festa da ballo data in un granaio.

Così, Mara pensava molto poco aBube. Le faceva piacere di poter vantareun innamorato forestiero davanti alleamiche, e soprattutto davanti alla cugina;ma non si struggeva certo dal desideriodi rivederlo. La fotografia, l'avevabuttata da una parte, e non la guardavamai. E si seccava quando il padre lechiedeva di Bube. La madre dopo lascenata di quella sera non ne aveva piùparlato.

Un pomeriggio Mara era giù nellachiusa, quando arrivò di corsa il fratelloa chiamarla.

«Mara! Vieni subito a casa! E arrivatoBube!» le gridò di lontano.

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Ciò che Mara non poteva sopportare,era che il fidanzato costituisse un nuovoobbligo. Nemmeno gli rispose, aVinicio, e continuò a trafficare nell'orto.

«Ma sbrigati; che cosa aspetti?»Vinicio bruciava dalla impazienza,vedendo gl'indugi della sorella. «Io tel'ho fatta l'ambasciata» esclamò allafine; «peggio per te se non vieni.» Etornò indietro di corsa.

Quando ebbe finito, Mara scese neltorrente a lavarsi i piedi. Se li asciugòal sole, poi si mise le scarpe. Erano ilsolo paio di scarpe leggere che avesse:la tela era macchiata e sdrucita, e lesuole di gomma mandavano cattivoodore.

Fece la salita senza affrettarsi, e una

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volta arrivata nel cortile si fermò. Bubestava fumando: buttò via il mozzicone, ele andò incontro. Mara torse il viso, ericevette il bacio sulla tempia.

«Come stai?» le domandò Bube;aggiunse: «Scommetto che non miaspettavi».

«Non ti aspettavo no. Credevo chefossi morto.»

«Perché non ho più scritto?» Maraalzò le spalle. «Ho avuto un mucchio dilavoro» si giustificò Bube. «Si andavafuori col camion anche la domenica. Eh,abbiamo lavorato sodo… Ma un po' disoldi da parte ce l'abbiamo messi.»Cercò qualche altra cosa da dire; ma nonla trovò. Mara dal canto suo taceva diproposito.

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«Andiamo in casa?» disse finalmenteBube.

Entrarono in cucina, seguiti daVinicio, che non levava gli occhi didosso a Bube. Questi aveva il solitovestito blu, in condizioni anche peggioridella prima volta: Mara aveva subitonotato una grossa macchia d'unto sullagiacca, e un'altra su un pantalone. Lerisvolte dei calzoni erano sfilacciate, edal dietro della giacca pendeva un pezzodi fodera lacerata. Alla fine non potétrattenersi dal dirgli:

«Sei vestito che sembri un pezzente.»«Che?» Bube si accigliò. «Certo, il

vestito è in cattivo stato… Ma nellavaligia ho due tagli di stoffa. Ora aVolterra me li faccio cucire. Ho messo

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da parte quasi ventimila lire, cosacredi.»

«Allora potevi anche portarmi unregalo» disse pronta Mara.

«Ci ho pensato» rispose Bube. «Ma èche sono dovuto venire viaall’improvviso…» La sua faccia assunseun'espressione preoccupata: «Non èmica venuto qualcuno a cercare di me?»

«Chi doveva venire a cercare di te?»«Nessuno… Facevo così per dire.» Si

mise a sedere sulla panca, e rimase aguardare fisso davanti a sé. Mara stavain piedi, appoggiata al muro.

«M'ero fermato a Colle per vederetuo padre» disse improvvisamente Bube.«Ma era fuori… Avevo da parlargli diuna faccenda che mi è capitata ieri.»

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«E allora perché sei venuto qui, sedovevi parlare con mio padre? Non losai che a quest'ora lui non c'è mai?»

«Be', vuol dire che lo vedrò quandotorna. Almeno fino a domattina mi possoanche trattenere… Sono di passaggio»disse dopo un po'. «Ho deciso di tornarea Volterra.»

«Ti sei trovato male anche a SanDonato?» fece Mara ironica.

«Non è che mi ci sia trovato male…Anche la cooperativa andava bene,abbiamo guadagnato un bel po' diquattrini. Benché il maresciallo cimettesse i bastoni tra le ruote» aggiunsedopo un momento. «Ma lo sai che èarrivato a sequestrarci il camion?»

«Tu coi marescialli si vede proprio

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che non ci vai d'accordo» disse Mara, erise.

«Per forza non ci vado d'accordo,sono tutti fascisti. Questo magari volevaanche far credere di essere statopartigiano… Lui e il suo figliolo, già.Ma quando siamo andati a protestare peril sequestro del camion, cosa credi cheabbiamo trovato appeso al muro? Ilritratto di re Vittorio… Ecco in chemodo era partigiano il marescialloCècora.»

«Il maresciallo cieco?»«No, Cècora; si chiama così. Be',

perché ridi, adesso?»«Rido perché avevo capito male…

Un maresciallo cieco, certo, nonpotrebbe acchiappare i ladri» e

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ricominciò a ridere.«Ora non acchiappa più nessuno,

vai.» Si alzò, e si mise a camminare perla stanza: «Era un pezzo che ciprovocava, quel delinquente… Quandoper una cosa e quando per un'altra… Ilmese scorso, te l'ho detto, era arrivatoperfino a sequestrarci il camion. Ieri,poi, ci s'è messo di mezzo anche ilprete… Ma mi stai a sentire?»

«Ti sto a sentire, sì.»«Dunque, ieri era non so che festa in

chiesa… l'Ascensione, mi pare. Io eroinsieme con Ivan e Umberto, duecompagni; Umberto è passato a prenderela fidanzata; con lei è venuta ancheun'altra ragazza…»

«Ah» disse Mara, e da quel momento

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si fece attenta.«Ora queste ragazze andavano alla

Messa, e noi si volevano accompagnare.Ma il prete è venuto a dirci che nonpotevamo entrare perché eravamo incalzoni corti.»

«Cosa?» fece Mara, e scoppiò aridere.

«Cioè, io ero vestito come adesso, maIvan e Umberto erano in calzoncini…Però quella del prete era una scusa, nonci voleva far entrare perché eravamopartigiani. E difatti Umberto gliel'hadetto, quando venivano i fascisti colgagliardetto li facevate entrare, allorafate entrare anche noi col fazzolettorosso. Ma lui, niente, non ne ha volutosapere. E il maresciallo, che aveva visto

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dalla finestra, perché la caserma èproprio di fronte alla chiesa, è sceso giùa dargli manforte. Noi abbiamo provatoa dirgliele le nostre ragioni… maquando ci siamo accorti che era inutile,l'abbiamo stretto contro il muro, perchéuna prepotenza non la volevamo subire.E allora è accaduto il fatto.»

«Ma che cosa è accaduto? Racconti lecose in un modo che non ci si capisceniente».

«Lui ha tirato fuori la rivoltella e s'èmesso a sparare… E così, Umberto ci harimesso la vita. Ma lo abbiamovendicato» si affrettò a soggiungere.«Prima abbiamo ammazzato ilmaresciallo, poi anche il figliolo.» Sifermò un momento: «L'ho ammazzato io,

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quello. Era sbucato non so di dove evedendo il padre cadavere s'era messo agridare… Poi, quando s'è accorto che loprendevo di mira, se l'è data a gambe.Ma io non me lo sono lasciato sfuggire.Gli sono corso dietro, e quando stavoper raggiungerlo, lui s'è infilato dentrouna casa. Io l'ho inseguito su per lescale, e una volta in cima si è dovutofermare… e s'è voltato, perché ormainon aveva più scampo. Gli ho trapassatola testa al primo colpo. La pallottola gliè entrata di qui» si toccò la fronte «e gliè uscita dalla nuca. Eh» fece guardandoVinicio che seduto in terra seguivaaffascinato il racconto «io non sbagliomai un colpo. Non ho mai sbagliato uncolpo con questa» gridò battendosi sul

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dietro dei calzoni. «E il prossimo saràper quel delinquente del prete. S'eranascosto sotto l'altare, quel vigliacco…e allora, che vuoi, andarlo adammazzare in chiesa… Ma lì fuori dellachiesa, dovevi vedere che scene. S'eraradunata tutta la gente, e quella poveraragazza, la fidanzata di Umberto, che loabbracciava, e piangeva, e gridava chenon era vero… L'abbiamo dovutaportare via a forza.»

Si rimise seduto, e accese unasigaretta. «Per questo capisci, volevoparlare con tuo padre.»

Sotto il forno c'era, al solito, il puzzodelle gabbie dei conigli e delle cassettedei piccioni; ma non fu per questo cheMara smise di cercare e venne via in

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fretta. Improvvisamente le era presa lapaura che ci fosse nascosta qualchebestiaccia. Un ramarro, o unasalamandra, o peggio ancora una vipera:suo padre ce ne aveva ammazzata una,anni indietro.

Era ormai il crepuscolo. Giù nellavallata la pioppeta non si distinguevapiù bene, era solo una macchia chiaratra lo scuro dei campi. Al di là la vistaspaziava su successive ondulazioni delterreno, quali nude, quali coperte dibosco; qualche lume brillava fioco. Aquell'ora, Mara aveva sempre avutol'abitudine di trattenersi fuori; soloquando era proprio notte, sentival'impulso a rientrare in casa.

Sul piazzale incontrò Mauro che

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spingeva a mano la bicicletta.«Che ti è successo?»«Ho bucato la ruota di dietro» rispose

Mauro.«Perché non l'hai accomodata?»«Ma sì; mica metteva conto. Ci

vedevo poco, e poi, non ne avevovoglia.»

«Io ero andata al forno a cercare lagatta; sai, va sempre a nascondersi lìsotto, quando è vicina a partorire. Misono messa a spostare le casse, ma nonm'è riuscito trovarla.»

«Bastava che la chiamassi, se c'era sifaceva sentire.»

«E invece no. Sono curiose le gatte:quando devono fare i gattini, non civogliono nessuno intorno. E hanno anche

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ragione: perché glieli ammazzano quasitutti, povere bestiole…»

«Per forza bisogna ammazzarglieli»disse Mauro. «Altrimenti non ci sisalverebbe più dai gatti. Be', io vado adire a queste donne che preparino cena:m'è venuta una fame tale a farmi lastrada a piedi…»

Sentendo aprire la porta, il padreaveva smesso di parlare; vedendo cheera la figliola, ricominciò a dire:

«A Volterra, certo, sei più sicuro chequi. Domattina presto prendi la miabicicletta, e te ne vai a Colle. E, nelpomeriggio, prosegui per Volterra.»

«A me m'era venuta anche un'altraidea» disse Bube. «Dato che mi sipresenta l'occasione, vorrei portare

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Mara a conoscere la mia famiglia.»«Mara? Be', sì, certo… Verrei magari

anche io, farebbe piacere anche a meconoscere la tua famiglia… Ma questoper l'appunto è un momento che non miposso assentare. Domani ho una riunionequi, e domani l'altro a Cavallano… Sai,c'è da organizzare la lotta dei mezzadri,e bisogna farlo ora, prima dellamietitura. Perché, o i padroni scendonoa patti, oppure non si miete.» E si mise aparlare della lotta dei mezzadri;interrompendosi solo quando sentìscalpicciare fuori della porta e, stavolta,era davvero la moglie.

«Allora siamo intesi, a lei non si diceniente.»

La donna salutò appena Bube, e si

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mise subito alle sue faccende. Mezz'oradopo, erano a tavola. Mangiarono laminestra di cavolo, poi il padreconsigliò a Bube di fare come lui lazuppa nel vino.

«Qui, caro mio, bisogna che ticontenti. Minestra di cavolo e panezuppato nel vino… È così il mangiaredei poveri. Io a mio figlio gliel'avevoinsegnato fin da quando era piccolo:questa è la razione del borghese, equesta è la razione dell'operaio. Ilborghese, carne e polli e ogni ben diDio; e l'operaio una minestra, un piattodi verdura… Allora siamo intesi» dissesaltando di palo in frasca com'era suaabitudine quando cominciava a risentiregli effetti del vino: «Domattina prendi la

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bicicletta, poi, me la lasci in sezione. Eil pomeriggio, ve ne andate a Volterra.Mamma, domani Mara va con Bube aVolterra… La porta a conoscere la suafamiglia.»

La madre non disse niente; nonsembrò nemmeno che avesse sentito.

«Io te l'affido volentieri la miafigliola» ricominciò il padre, e non sicapiva se gliel'affidava volentieri perandare a Volterra, o come moglie, pertutta la vita. «Te l'affido volentieriperché sei un ragazzo onesto, e perchései un compagno. Dio…!» bestemmiò.«Tu fossi stato di quegli altri, non tel'avrei data, nemmeno se avessi avuto lavilla della contessa. Io non sono maistato di quelli che si fanno delle idee

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sulle figliole. Come per esempio quellostupido di mio fratello. Io non ho maidetto: speriamo che la mia figliola troviun marito così o un marito cosà… No epoi no, Madonna…! La mia figlioladeve sposare uno come me, un operaio.Io, ti dico la verità: anche nel Partito,non ci vorrei altro che gli operai. Lo so,alcuni compagni dicono che il Partito habisogno di elementi intellettuali. Ma ame non la dànno a bere quelli che hannole mani pulite, che si vede lontano unchilometro che non hanno mai preso unbadile in mano… Dicono di essere connoi perché in questo momento hannopaura. Ma potergli entrare nellacoscienza, si vedrebbe quello chesono.» Prese per un braccio Bube: «Lo

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sai come diceva Marx? Dittatura delproletariato, diceva… E dunque chi nonè un operaio non ha diritto di nulla. Glioperai devono comandare, e i borghesi,più se ne mette al muro e meglio è. Esenza pietà, questa volta: c'è qualcunoanche qui in paese che bisognasaldarglielo il conto. Vigliacchi cheprima erano sempre in camicia nera…eh, me li ricordo, non dubitare. M'hannofatto sputar sangue per vent'anni. Lorosempre al lavoro, e io niente… E unaltro è Carlino, il tuo compaesano…Quello è uno che ha picchiato, altro chestorie. Quando è ricomparso, io l'hoaffrontato e gliel'ho detto in faccia cosapensavo di lui. E lui sai cosa mi harisposto? Che era del comitato. E m'ha

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fatto vedere un foglio… Questi sono glisbagli, ti rendi conto, compagno? Non sidovevano rilasciare fogli a nessuno.S'era detto sempre, quando viene ilmomento, si sradica una volta persempre la malerba. Ma sì, è bastato chevenisse la moglie a piangere, oppure ifiglioli… Come se uno, perché hamoglie e figlioli, gli si dovesseroperdonare vent'anni di delinquenza! Ioglielo dico sempre ai compagni: siamostati a perder tempo con le chiacchiere,e invece, quello era il momento di agire.Ma io lo proposi: prendiamo quei tre oquattro, portiamoli nel bosco, una bellascarica nella schiena, e via Ma saicom'è nei paesi, questo è cugino diquello, quest'altro è cognato di

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quell'altro…I suoi discorsi si facevano sempre più

incoerenti, finché alla fine siaddormentò. La madre era già andata aletto con Vinicio, e Mara stava finendodi rigovernare.

«Sarà bene andare a letto anche noi,perché domattina dobbiamo alzarcipresto» disse Bube.

A Mara l'idea di andare a Colle e aVolterra non dispiaceva affatto; per lei,che aveva girato così poco,rappresentava una piacevole novità. Mala irritava che Bube disponesse le cosesenza nemmeno chiederle il parere;perciò rispose:

«Te, caro mio, a Colle ci vai da solo.E a Volterra anche.»

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«Ma come?» fece Bube sorpreso.«Non avevamo deciso…»

«Chi, avevamo deciso? Te e miopadre, avete deciso; ma io, bello mio,non sono mica la tua serva. E perciòfigurati se vengo a Volterra.»

«Ma volevo farti conoscere la miafamiglia.»

«Sai che bel piacere.»«Volevo anche comprarti un regalo…

subito domattina a Colle.»«Potevi avermelo comprato oggi. Non

ci sei stato anche stamani a Colle?»«Ma avevo fretta di arrivare… E poi

non lo sapevo quello che ti piaceva.»Bruscamente Mara cambiò idea: «Me locompri un paio di scarpe?»

«Un paio di scarpe? Certo. Io… ho un

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bel po' di soldi, sicché, chiedimi purequello che vuoi…»

«Un paio di scarpe coi tacchi alti.»«Coi tacchi alti, si capisce. Ma

allora, lo vedi, bisogna che vieni anchetu, perché come si fa a comprare un paiodi scarpe senza misurarsele?»

Di lì a poco andarono tutti a dormire.Bube era stato messo, al solito, nel lettodi Mara, e lei s'era portato unpagliericcio in cucina. Il padre infattiaveva detto che non era il caso cheandasse da Liliana, perché in paese nonsi risapesse che c'era Bube.

Una volta coricata, con una vecchiacoperta buttata addosso, Mara si mise ariflettere. A Colle ci sarebbe andatasenz'altro, per via delle scarpe. Chissà

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che faccia avrebbe fatto Lilianavedendola coi tacchi alti! Ma a Volterra,no, non ci sarebbe andata: non volevadar questa soddisfazione a Bube. "Senon mi vuole riaccompagnare inbicicletta, tornerò a piedi; l'ho fatta tantevolte a piedi". Il padre era stato subitod'accordo che lei andasse a Volterra conBube. La madre, invece, non aveva dettonulla… E a un tratto Mara pensò: "Nonha detto nulla perché non gliene importa,ma è contenta se me ne vado, e anzi,vorrebbe che non tornassi più". E fu inquel momento che decise che sarebbeandata con Bube anche a Volterra.

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PARTE SECONDA

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Capitolo 1

La finestra di cucina era senzaimposte, e così, Mara si svegliò colprimo sole. Sul soffitto anneritofiammeggiava una striscia rettangolare;da fuori venivano i versi dei polli. A untratto il pensiero che quella non sarebbestata una giornata come le altre, la colpìcon forza; buttò via la coperta e balzò inpiedi.

Aprì i vetri e le persiane. La casa difronte gettava una lunga ombra leggerasulla terra battuta del piazzale; porte efinestre erano chiuse. Mara versòl'acqua nel catino, e si sfilò il vestitodalla testa. Per fare in fretta, non s'era

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sganciata l'abbottonatura sui fianchi; ilvestito non passava, tirò con forza: sentìuno strappo. Ma le importava assai:tanto si sarebbe messa la gonna a pieghee la camicetta gialla.

Si stava asciugando quando la portadi camera si aprì e comparve Bube. «Ohscusa scusa» disse ritraendosi.«Credevo che fossi già vestita.»

«Sono in sottana» rispose Mara. «Be',vieni pure… Non c'è mica nulla di malese mi vedi in sottana.» Bube si decise aentrare, ma guardava da un'altra parte.«Se vuoi lavarti, l'acqua è nellamezzina. Oh… guarda bello.» La panciadella mezzina mandava infatti deilampeggiamenti La striscia di fuoco erainvece scomparsa dal soffitto, dopo che

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lei aveva aperto le persiane.Mentre Bube si lavava, Mara andò in

camera, si vestì, si pettinò e legò icapelli con un nastro rosa. Gliene sfuggìperò un ciuffo, drizzandosi propriosopra la fronte, come una cresta; Maraprovò a pettinarsi e a legarli un'altravolta, ma fu peggio che mai. AncheBube, del resto, aveva i capelli comelei, lisci e irti, e per quanto li pettinassenon gli stavano mai a posto. "Ci siamoaccoppiati bene", pensò Mara ridendo.Finalmente mise insieme la roba che lesarebbe servita per il viaggio: duefazzoletti, un paio di mutande, ilportamonete con pochi spiccioli dentro,il pettine, lo spazzolino, il dentifricio,cinque o sei nastri: solo di quelli aveva

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abbondanza, ma erano tutti scoloriti.Fece un fagottino, e aprì la valigia diBube per mettercelo.

«Bube. Bubino.»Egli si affacciò sulla porta, un po'

sorpreso e contrariato di esserechiamato in quel modo.

«È tutta qui la tua roba?»«Sì; perché?»«Perché allora sei anche te povero in

canna» disse Mara, e rise.«Eh, sì, sono un po' a terra come

corredo» ammise Bube.Anche la valigia era in cattive

condizioni: sgraffiata e ammaccata, econ la maniglia fissata ai ganci permezzo di uno spago. Mara glielo fecenotare; Bube, seccato, brontolò che era

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bene non perdere altro tempo. «Saràmeglio che svegli tuo padre.»

«E perché?»«Dobbiamo salutarlo, no?»«Che bisogno c'è? Piuttosto…» ma

non terminò la frase.Piuttosto voleva salutare la madre.

Poco prima l'aveva sentita scendere eandar fuori. Lei era sempre moltomattiniera.

La trovò dietro casa che stendeva ilbucato sul filo tirato fra un gancioinfisso nel muro e un palo piantato nelcampo.

«Mamma, allora io parto.» La madrenon sembrò nemmeno avere inteso.«Starò fuori… quattro o cinque giorni.»

La madre finì di stendere i panni che

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aveva in braccio. La guardò:«Se non gliene importa niente a tuo

padre di mandarti via con quello lì…»«Vado a conoscere la sua famiglia» si

giustificò Mara. La madre alzò le spalle.Si chinò sulla cesta e prese un'altrabracciata di panni.

«Vuoi che ti aiuti?» disse Mara.«No no, vai. Vai!» gridò quasi.Mara rimase lì un altro minuto, senza

saper che fare; alla fine disse: «Alloraciao mamma. Arrivederci». Le andòvicino e la baciò. La madre si lasciòbaciare, ma non restituì il bacio e non ledisse una parola di saluto.

Bube era già pronto, con la valigia ela bicicletta. Mara montò in canna.

«Te pensa solo a tener ferma la

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valigia sul manubrio» le disse Bube.«No, non così, mettila di traverso.»

Montò anche lui in sella, e diede ilprimo colpo di pedale: la biciclettaondeggiò, ma fu pronto a rimetterla inequilibrio con una pedalata energica.Imboccarono il vicolo, furono sullastrada; c'era soltanto una persona, unuomo, ma lontano; loro del restodovevano prendere dalla parte opposta.Così, tutto era andato per il meglio:nessuno li aveva visti.

La strada cominciò a scendere, e labicicletta acquistò velocità. Alla primacurva Mara mandò un grido di spavento,ma la voce seria di Bube la rassicuròalle spalle:

«Basta che non mi muovi il manubrio,

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non c'è pericolo di cadere.»La seconda curva, comunque, la

affrontò con maggiore prudenza: ladiscesa era già finita, e davanti a loro siparava un rettilineo, tra un campopolveroso e un prato che era inveceverdissimo, perché vi serpeggiavano deirigagnoli.

«Fa un po' fresco, eh?» disse Maravoltandosi a guardarlo.

Bube aveva la solita espressioneseria; assentì leggermente.

«Attento, c'è un'automobile» disseMara, che era tornata a guardare avanti.

«L'ho vista, non dubitare.»L'automobile scendeva fra i castagni;

sbucò quindi sul rettilineo, alzando lapolvere. Mentre passava, Mara grido

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gioiosamente: «Salve» e si affrettò avoltare il viso.

«Lo conoscevi?» fece dopo un po'Bube.

«No» rispose Mara.«E allora perché l'hai salutato?»«Così per fare.»Quella corsa in bicicletta le metteva

una gran voglia di parlare e di ridere.Nel suo animo non c'era più traccia deldispiacere di poco prima, quando lamadre s'era mostrata indifferente allasua partenza.

Cominciò la salita fra i castagni.Mara alzando il braccio riuscì astrappare una foglia. «Stai ferma» laammonì Bube. «Se fai un movimentobrusco, rischiamo di cadere.»

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Alla prima curva, dovette rizzarsi suipedali. Ansimava. «Sei stanco?» glichiese Mara. A fatica Bube riuscì arispondere di no. «Vuoi che scenda?»Stavolta lui nemmeno ce la fece aparlare, ma pigiò ancora di più suipedali. Mara si voltò a guardarlo: avevail viso contratto, l'occhio velato; sudava;si vedeva che ci s'era messo con tuttol'impegno per figurare davanti allafidanzata. «Sei un campione» gli disse; elui fece una smorfia, che voleva essereun sorriso.

Finalmente furono in cima. Labicicletta continuò ad andare a passod'uomo, perché Bube, esausto, avevasmesso di pedalare.

«Povero il mio Bubino» disse

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affettuosamente Mara. Ora il paesaggioera diverso: brullo, pietroso, senza unalbero; con cespi di ginestra fioriti.Ancora una leggera salita, tutta diritta, esi aprì la vista della Valdelsa. Maramandò un'esclamazione di gioia.

Il sole era ancora basso sull'orizzontee un po' annebbiato. Si vedeva solo lasommità delle colline di fronte, perchéla base era cancellata dalla nebbia cheindugiava nel fondovalle. Un luccicoresinuoso indicava il corso del fiume.

«Siamo vicini!» gridò Maraeccitatissima. Era andata molte altrevolte a Colle, in bicicletta e anche apiedi; ma stavolta la gita aveva il saporedi un'avventura.

Sorpassarono un barroccio, poi due

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contadine che camminavano una dietrol'altra sul bordo erboso, con una cesta incapo e le scarpe in mano; poi tre uomini,che camminavano in mezzo alla stradaparlando forte. «Sai che oggi c'èmercato a Colle?» disse Mara. E anchequesto la rendeva allegra.

Il falsopiano stava per finire. Colleera nascosta dietro il ciglio: se nescorgevano solo poche case, e una portamerlata, verso cui puntava diritta lastrada. Ma loro presero a sinistra, per unviale di platani, che s'incassò semprepiù profondamente tra una forra e unfosso di scarico, di là dal quale silevava il bastione delle case, con lefinestre piccole, i panni tesi, un'ariavecchia e tetra. Descrivendo un'ampia

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giravolta, il viale sbucò infine nellaparte bassa del paese, fra tettoie,capannoni, piccole ciminiere; e macerie,anche, su cui cresceva un'erbacciapolverosa. Il selciato sconnesso e ipassanti sempre più numerosicostringevano Bube ad andare piano e ascampanellare in continuazione.

Scesero in piazza, con gran sollievodi Mara, che cominciava a sentirsiindolenzita. «Io vado a lasciare labicicletta in sezione; tu aspettami quicon la valigia.»

Bube stette un bel po' a tornare, ma leinon si annoiò: lo spettacolo di tuttaquella gente, gente di campagna per lopiù, che veniva a fare il mercato, erasufficiente a distrarla. Un uomo la urtò,

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un altro, che camminava rivoltatoindietro, inciampò nella valigia; uscì inun'imprecazione, ma vedendo Marasorrise: «Per poco non cascavo,bellezza» e lei gradì il complimento.

Arrivò Bube: «La sezione era semprechiusa, la bicicletta l'ho dovuta lasciareal posteggio». La prese sottobraccio:«Andiamo a far colazione».

In quel caffè, il migliore di Colle,Mara c'era entrata una volta o duesoltanto. I tavolini erano di ferro, coitondi di marmo; il banco, di legnoscolpito. «Ti vuoi sedere?» le domandòBube. «O si consuma in piedi?» Mara cipensò un momento:

«E meglio in piedi» disse. A farladecidere era stata la specchiera annerita

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dietro il banco.«Allora che prendi? Un cappuccino?

Due cappuccini» disse con tonoautoritario. «Serviti, intanto» feceindicando le briosce e le paste dispostenei vassoi di cartone sotto il vetro. Maraprovò a far scorrere la lastra, maspingeva in senso contrario; Bube levenne in aiuto. «Prendi quello chevuoi». Mara ebbe paura a prendere unapasta, temeva di sporcarsi; si contentò diuna brioscia. C'era parecchia gente, e leistava in soggezione, ma anche questo incerto qual modo era piacevole: lefaceva venir voglia di ridere; e poiessendo insieme con Bube non correvarischio di sfigurare, lui sapeva comecomportarsi. Era andato alla cassa a

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pagare e a lasciare la valigia; tornò conlo scontrino, lo posò sul banco, ci misesopra una moneta. «Grazie signore» feceil cameriere posando a sua volta le tazzefumanti.

«Bube.»«Che c'è?»«Sei un tesoro.»«Parla piano, ti sentono.»«E che male c'è?» Ma lo sapeva

anche lei che non bisogna farsi sentirequando si dicono delle frasi amorose. Ilfatto è che la sua non era una fraseamorosa: piuttosto un'espressione dicontentezza.

Uscirono sotto i portici. «E ora che sifa?» disse Bube.

«Dobbiamo andare al mercato.»

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«Per che fare?»«Prima di tutto per vedere; e poi, non

mi avevi promesso di comprarmi lescarpe?»

«Ah, ma mica al mercato; in unnegozio. Al mercato vendono solo laroba andante».

Mara in vita sua aveva fatto sempre lecompere al mercato, perciò rimasemeravigliata; a vedere, comunque, volleandarci lo stesso.

Il mercato era in una piazzettaquadrangolare limitata da due file dicasucce, da un campo di macerie e dallafacciata di un palazzo, coi buchi al postodelle finestre. Bube era un po' riluttantead addentrarsi fra i banchetti, in mezzoalla folla dei compratori e dei curiosi;

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ma lei lo prese sottobraccio dicendogli:«Mi piace tanto il mercato».

«Questo è poca roba» disse Bube; «aVolterra è dieci volte meglio.»

«Com'è Volterra? Più grande diColle?»

«Certo. Molto più grande. Volterra èuna città.»

S'erano fermati davanti a un banco ditessuti, e il venditore, un giovanotto altoe bruno, con la camicia a scacchi rossi eblu, gridava raucamente prendendo inmano una pezza, gualcendo la stoffa,mettendola sotto il naso delle persone epoi buttandola da una parte per passarea un altro articolo.

«Favorisca, bella signora, diaun'occhiata qui, per piacere; si avvicini

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anche lei, bella signorina, mi faccia lacortesia. Questa è roba di prima qualità,roba di prima della guerra; tocchi qui,per favore, la strapazzi pure quantovuole e mi dia del bugiardo se prendeuna sola la piega…» Mara teneva inmano la stoffa, fingendo di esaminarla;ma Bube le diede uno strattone:«Andiamocene».

«Perché?» fece Mara, seguendolomalvolentieri, mentre alle loro spalleseguitava a levarsi la voce delvenditore. «Non mi piace che uno siprenda confidenza con te.»

«Perché m'ha chiamato bellasignorina? Ma lo dice a tutte: bellasignora, bella signorina…» e si mise aridere. «Lo dicono magari a certe

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brutte…» e di nuovo rise. «Che per casosei geloso?»

«No… ma non mi piace il modo difare che hanno.»

«Se dai peso a una parola… saiquante me ne dicono dietro i giovanotti.»

«Fai che ne sento uno, e poi vedicome gliene levo la voglia.»

«E in che modo?» lo stuzzicò lei.«Quello lì hai visto com'era grande egrosso? Aveva certi muscoli…» Glistrinse il braccio: «Tu, povero Bubino,non ce la potresti mica fare». «E invece,di me hanno paura tutti.»

«Io no» rispose Mara; ma vedendoche egli si scuriva ancora di più: «Su,scherzavo; possibile che tu non sappiastare allo scherzo?»

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«Io non scherzo. Non ho maischerzato, io» aggiunse alzando la voce.

«Eh, lo so… Invece, faresti meglio aprenderle meno sul tragico le cose.Sennò, lo vedi che guai ti capitano?»

«Di che guai stai parlando?»«Di quel maresciallo… e del suo

figliolo.»«Oh, ma quella è una faccenda che

l'aggiustiamo subito. Ci pensa il Partito,ad aggiustarla.»

«Sì, ma intanto t'è toccato scappare.»Bube si offese della parola:

«Non sono scappato affatto… Hogirato tutto il giorno per il paese…abbiamo portato il nostro compagnonella Casa del Popolo, gli s'è fatta lacamera ardente… e i carabinieri se ne

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stavano rintanati in caserma, e avevanouna paura…»

Uscirono dalla calca e tornarono nellapiazza principale. I migliori negozierano lì, sotto i portici.

«Ora per prima cosa si pensa alle tuescarpe» dichiarò Bube.

Sui tre piani di vetro erano in mostrascarpe di tutte le qualità. Ma lo sguardodi Mara fu subito attratto da una con lapelle a macchie gialle e brune.

«Guarda, Bubino! Ti piacerebbe unpaio di scarpe cosi?»

«Devono piacere a te, non a me»rispose Bube serio.

«Ma anche un pochino a te, no? Nonsei contento di vedermi elegante?»

«A me piaci così come sei.»

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«Con questi capelli?» civettò Mara.«Sembrano stecchi» e rise.

Bube le guardò i capelli e, quasi cifacesse caso per la prima volta:

«Effettivamente li hai un po'… come imiei. Su, entriamo» disse impaziente.

La commessa era bruna, con ungrembiule nero lucido e attillato e labocca dipinta a cuore.

«Vorrei un paio di scarpe coi tacchialti» disse Mara.

«Come le desidera?»«Come quelle che sono fuori.»«Quali? Ce ne sono tante in vetrina»

rispose la commessa.Uscirono, e Mara indicò la scarpa che

le era piaciuta.«Ah, quelle di pelle di serpente»

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disse la commessa. «Di pelle diserpente?» fece Mara stupita. E fu lì lìper dirle che ci rinunciava, ma lacommessa era già rientrata e avevatirato giù una scatola.

Provando un po' di vergogna, Mara silevò le sue scarpacce sdrucite epuzzolenti, e si provò quelle bellescarpe lucide, coi tacchi alti e sottili.

«Ci stai bene?» le domandò Bube.«Certo che ci sto bene.»«Allora le prendo. Quanto costano?»«Milleduecento» rispose la

commessa. Bube pagò senza batterciglio. «Se le lascia in piedi?» domandòla commessa.

«Sì» rispose Mara, e fece per uscire,ma quella la richiamò per consegnarle la

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scatola in cui aveva messo le scarpevecchie.

«Speriamo che non sia un serpentevelenoso» disse Mara, e rise. «Ma tu,dovevi lasciarmi pagare a me; più dimille non gliene avrei date.»

«Sei matta? Al mercato, puoi tiraresul prezzo; ma mica in un negozio.»

I tacchi alti facevano un rumore seccosull'impiantito a mattonelle. Mara un po'si guardava le punte lucide, un po'sbirciava nelle vetrine per vedersipassare. Era tutta un'altra figura che unafaceva coi tacchi alti. Intanto, era piùalta: mentre prima arrivava poco più sudella spalla di Bube, ora gli arrivavaall'orecchio. E poi, benché camminandonon le riuscisse di specchiarsi bene, era

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sicura che le forme del corpo venivanomesse in risalto.

«Oh, ma bisogna portare la biciclettain sezione» esclamò Bube. «Altrimentifinisce che me ne dimentico.»

«Vai» disse Mara. «E tu?»«Io girello per qui.»Bube restò un momento incerto:«Ma non ti allontanare, sennò

rischiamo di perderci.»«Non aver paura.»«Faccio in un momento» disse ancora

Bube. Mara risalì il portico. Si fermòdavanti a una vetrina.

«Guarda chi c'è.» Si voltò: eraMauro, in tenuta da lavoro, con unoschizzo di calcina in fronte e la camiciache gli usciva dai calzoni. «Che ci fai a

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Colle?»«Niente. Sono insieme col mio

fidanzato.»«Allora è vero che sei fidanzata.»«Certo che è vero» rispose Mara

impermalita.Mauro la osservava:«Come ti sei fatta elegante… anche le

scarpe coi tacchi alti…»«Ti piacciono?» disse Mara

lusingata.» Sono un regalo del miofidanzato.»

«È ricco il tuo fidanzato?»«Be', ricco no; ma insomma, guadagna

bene. E sai, basta che gli chieda unacosa, me la regala subito.»

«E tu che gli dai in cambio? Io, seavessi la fidanzata, e mi chiedesse un

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regalo, le direi: subito bambina mia,prima però voglio qualcosa io.»

«Che cosa?»«Vai là che hai capito. Be', io bisogna

che me ne vada. Accidenti al lavoro»aggiunse con tono sconsolato.

Mara riprese a girellare. Le sembravache gli uomini la guardassero coninsistenza e ammirazione. A un tratto siaccorse di essere seguita. Si fermòdavanti a una vetrina. Si fermò anche ilgiovanotto. "Uff!", pensò Mara. Che laguardassero, le faceva piacere, ma chele venissero dietro, le seccava e lefaceva quasi paura. Respirò sollevatavedendo Bube; e si affrettò ad andargliincontro.

I tacchi alti cominciavano a stancarla:

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e poi faceva caldo, e non c'era piùniente da vedere. Sedettero su unapanchina di cemento nel giardinetto inmezzo alla piazza.

«Che ore sono?»«Le undici e mezzo» rispose Bube.

«Uff, che noia. Non vedo l'ora di esserea mezzogiorno.»

«E perché?»«Per andare a mangiare.»«Hai già fame?»«No, fame no… Ma non vedo l'ora di

essere in trattoria.»«Si va in quella dove ho mangiato

ieri» dichiarò Bube.«Insomma, qui è una noia, facciamo

qualcosa» disse Mara dopo cinqueminuti.

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«Ma se hai detto che t'eri stancata acamminare. Aspetta: m'è venuta un'idea:andiamo al caffè.»

Al caffè stentarono a trovare untavolino libero, perché era arrivataallora la corriera di Firenze, e parecchiviaggiatori s'erano piazzati lì, con levalige e i fagotti.

Presero una bibita. Mara veramenteavrebbe voluto anche una pasta, maBube disse che in quel modo si sarebbeguastata l'appetito. «Tanto fra un'oretta siva a mangiare.»

«Perché così tardi?» protestò Mara.«Non s'era detto a mezzogiorno?»

«In trattoria mica ci si può presentaretanto presto… si farebbe una cattivafigura.» Bevendo la sua bibita, Mara si

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guardava intorno incuriosita. «Bubino,guarda quello là che pancione.»

«Parla piano, ti potrebbe sentire.»«Guarda quella vecchia col

cappellino. Non ti sembra… unacornacchia?»

«Eh, sì» ammise Bube.«Guarda quel prete che tonaca

frittellosa. Voltati: ce l'hai propriodietro.»

Bube si voltò a guardare il prete, esubito fu preso da una grande agitazione:

«Quello lo conosco. Speriamo chenon mi veda, sennò…» e tornò a dargliun'occhiata di straforo. «Te sbrigati abere, così ce ne andiamo.»

«E perché? Se siamo venuti appenaadesso.»

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«Te l'ho detto, non voglio che quelprete mi veda.»

«Ma per quale ragione.»«Perché… mi conosce. Era il prete

della mia parrocchia: da ragazzo, gli hofatto anche da chierichetto.»

Mara si mise a ridere:«Dovevi esser bellino, vestito da

chierichetto.» Bube s'irritò:«C'è poco da ridere… quando siamo

piccoli non si sa mica quello che si fa. Ame mi ci mandavano, e io ci andavo.Mica lo sapevo, allora, chi sono ipreti.» Rimase soprappensiero: «E poi,era un tipo che ci sapeva fare, con noiragazzi. Ci attirava con le caramelle, coiregalini… ci faceva giocare dietro lacanonica… a volte si rimboccava la

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tonaca e si metteva anche lui a tirar calcial pallone. Sai, un prete in questo modo,simpatico, alla mano. Dicevano ancheche prendeva le sbornie».

«Oh, per questo il nostro diMonteguidi è sempre ubriaco. Sai comegli ha detto l'altro giorno a mio padre?Noi due per le idee non andiamod'accordo; ma per il vino…»

«Quello però non prendeva solo lesbornie» disse Bube. «Era anche… unosporcaccione.»

«Sono tutti sporcaccioni, i preti» feceMara convinta.

«E per di più era un fascista.»«Allora, se era un fascista, anche se ti

vede non ti viene certo a cercare.»«Ma sai, con la cosa che mi ha

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conosciuto ragazzo… Guarda che cosafa» disse di lì a un momento.

«Niente fa. Guarda le donne» e simise a ridere. «Davvero, c'è quellaragazza alla cassa, non le leva unmomento gli occhi di dosso. Dovrebbevergognarsi: oltre tutto, è anchevecchio.»

Quando fu mezzogiorno e mezzo Bubedisse:

«Be', ora si può anche andare amangiare.»

La trattoria era in un seminterrato.Scesi i primi gradini, Bube si fermò:nella sala lunga e stretta non si vedevaun tavolo libero.

«Che si fa?» disse incerto, e Marastava già per rimproverarlo di non

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essere voluto venire prima, quando ilcameriere li invitò a entrare: «Prego, siaccomodino». Obbedirono, e quello liprecedette nel corridoio tra le due file ditavoli. «Possono sedere lì» disseindicando un tavolo con un solooccupante: un giovanotto in maniche dicamicia che stava mangiando glispaghetti.

Il giovanotto alzò la testa; fece unafaccia stupita; si affrettò a inghiottire:«Oh, ciao, Bube» disse alzandosi.

«Memmo!» esclamò Bube. «Che cosafai a Colle?»

«Sono venuto… per lavoro» risposeil giovanotto; e guardava Mara.

«Ti presento la mia fidanzata» disseBube.

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«Ah… piacere, signorina.» Mara nonrispose nulla.

«Non volevi andare alla toeletta?» ledisse Bube. «È quella porta lì.»

La toeletta era un bugigattolo cheprendeva luce da una finestrella alta.Mara aveva richiuso la porta, ma non leriuscì di tirare la stanghetta. "E ora?"Ma aveva troppo bisogno di far la pipì,così si accucciò, sperando che nonvenisse nessuno.

Adesso che i suoi occhi si eranoabituati a quella mezza oscurità, in unarientranza distinse un minuscololavandino. Il rubinetto era legatostrettamente con uno spago; ma un po'd'acqua gocciava lo stesso. Sopra unamensola di vetro, era poggiato un grosso

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pettine a cui mancavano la maggior partedei denti. Mara si guardò nellospecchio: era in uno stato da far pietà,coi ciuffi quali ritti, quali schiacciati.

«Non uscivi più» la rimproverò Bube.«Mi son dovuta pettinare» si

giustificò lei. «Con questi stecchi…» erise. Passato il primo momento, l'amicodi Bube non le metteva più soggezione,benché si vedesse che era di condizionesociale superiore alla loro. Era anche unbel giovane, coi capelli soffici eondulati, il viso rotondo e un po' paffuto,la corporatura robusta.

«Ho aspettato te per ordinare» disseBube. «Cameriere» chiamò con voceautoritaria. «Vengo subito» rispose ilcameriere.

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«Ci vuole un po' di pazienza» disse ilgiovanotto sorridendo. «Io sono qui datre quarti d'ora, e ho avuto appena ilprimo…»

Bube tamburellava con le dita sultavolo, con aria assorta. Si riscosse:

«Insomma cameriere vieni o nonvieni? Sennò ce ne andiamo in un altrolocale.»

«Non posso mica farmi in quattro»ribatté il cameriere, che stava servendoal tavolo vicino. Tuttavia di lì a pocovenne a prendere le ordinazioni. «Leisignore per secondo che cosa le facciopreparare?»

«Una cotoletta» rispose il giovane.«C'è la carta?» domandò Bube.

«Ma chissà dov'è andata a finire»

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disse il cameriere dando un'occhiataintorno. «Tanto glielo dico io: letagliatelle sono terminate; ci sonorimasti spaghetti, o pastina in brodo…»

«Tu che prendi?»«Io, spaghetti» rispose Mara. «Ne

voglio una scodella così.»«Due spaghetti.»«Vino?» domandò il cameriere.«Vino, rosso. Aspetta: avete acqua

minerale?» Completata l'ordinazione, sirivolse all'amico: «E allora, Memmo,cosa mi dici? Che c'è di nuovo aVolterra?»

«Le solite cose» rispose Memmo.«Segretario della sezione è sempre

Baba? E Lidori che fa? E Bomboniera?»Mara cominciò a ridere. «Perché ridi?»

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fece Bube brusco. «Che cognomi buffi ciavete a Volterra.»

«Non sono mica cognomi. Sonosoprannomi» rispose Bube serio. «Eora… torni a Volterra definitivamente?»gli chiese dopo un po' Memmo. «Be'…dipende. Non lo so ancora.»

«A San Donato non ci torni di certo»interloquì Mara. «Perché?»

«Perché ti metterebbero in gattabuia»e si mise a ridere. Bube ebbe un gestononcurante:

«Ne ho passate ben altre, al tempo deinazifascisti… Tu non far caso a quelloche dice lei» aggiunse rivolto a Memmo.

Mara aveva in animo di punzecchiarloancora, ma arrivarono gli spaghetti e lacotoletta. Il cameriere ora non aveva più

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tanto da fare, e dopo che ebbe portato laformaggera si trattenne al loro tavolo. Sirivolgeva più che altro a Memmo, comese lo considerasse un cliente di maggiorriguardo:

«Non c'è sugo nemmeno per noi,quando è mercato: quello ti chiama diqua, quell'altro ti chiama di là…»

«Già, mi ricordo anche l'altrosabato…»

«Ah, ecco» esclamò il cameriere.«Mi sembrava, infatti, che non fosse unafaccia nuova… Anche lei l'ho già visto,o mi sbaglio?»

«Io c'ero ieri» rispose Bube.«Difatti mi sembrava.» Tornò a

rivolgersi a Memmo: «Il signore è percaso un viaggiatore di commercio?»

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«No» rispose Memmo.«Sa, le avevo visto la borsa» spiegò

il cameriere. E aggiunse: «Prima questolocale era molto frequentato daiviaggiatori di commercio. Ora, invece,bisogna contentarsi dei clienti checapitano. Contadini per la maggiorparte» disse chinandosi verso Memmo,come se gli facesse una gran confidenza.«Ora son loro ad avere il maneggio diquesti» e fece l'atto di spicciolare ildenaro. Si raddrizzò: «Per dopo, checosa gli faccio preparare?» chiese aBube. Bube inghiottì in fretta:

«Che cosa c'è? Ma roba pronta,perché ho poco tempo.»

«Una cotoletta come al signore?»«Ti va la cotoletta?» le domandò

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Bube. «Due cotolette.»«Si può sapere che fretta hai?» gli

disse Mara dopo che il cameriere se nefu andato. «Tanto, fino a stasera, acorriera non ce l'abbiamo.»

«Non mi va di aspettare tutto questotempo» dichiarò Bube. «Adesso ce neandiamo sulla strada di Volterra avedere se si trova un imbarco.»

«E io invece voglio rimanere aColle.» Bube si alterò: «Te farai comedico io.»

«Povero scemo.» Bube si arrabbiòproprio:

«Ringrazia la sorte che siamo in unpubblico locale… Altrimenti ti avreidato uno schiaffo.»

«Sì, e io sarei stata lì a prenderlo»

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replicò Mara, e gli fece uno sberleffo.«Non è mica una cattiva idea» disse a

un certo punto Memmo, «andarcene sullastrada di Volterra. Se non altro,troveremo un posto dove fare unadormita. Io è da stamani alle cinque chesono in piedi.»

Il locale si stava vuotando.Mangiarono le cotolette; poi Bube, perfare il grande, le chiese se voleva ilformaggio.

«Ma sì, sono piena; non mi c'entra piùniente.»

«Nemmeno la frutta?» insisté Bube.«La frutta, ce l'ho a casa, voglio

proprio venire a mangiarla in trattoria.»«Il conto, cameriere» disse forte

Bube. «Aspetta: e se ci facessimo

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portare il caffè?»Memmo scosse la testa:«Quello, sarà meglio andarlo a

prender fuori.»Tornarono nel solito caffè. Il prete era

sempre lì, col capo reclinato su unaspalla. Aveva il colletto sbottonato, estringeva nel pugno un fazzoletto. Siriscosse un momento mentre loroentravano, aprì gli occhi, li richiuse. Latesta gli riprese a ciondolare.

«Ma guarda» fece Memmo piano «ilprete Ciolfi.»

«Io l'avevo già veduto» rispose Bube.«Dev'essere arrivato con la corriera diFirenze.»

«Uhm» borbottò Memmo. «Farebbemeglio a tornarsene indietro. Non tira

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aria per lui a Volterra. Ne hannopicchiati parecchi, in questi giorni. Liaspettano all'arrivo della corriera… Ionon lo capisco: sono proprio degliincoscienti. Ora che la guerra è finita, sene tornano a Volterra come se nientefosse…» Guardò ancora il prete: «Certoche è ridotto male assai».

«Magro per la verità è sempre statomagro» osservò Bube.

«Ma ora è macilento addirittura. Epoi lo vedi che brutto colore. Dev'esseremalato.»

Presero il caffè, poi Bube andò aritirare la valigia. Ma dalla cassadovevano averla portata in qualche altroposto: Bube scomparve dietro a uncameriere.

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«E così, si fa volterrana anche lei»disse Memmo.

«Io? No davvero.»«Ma dal momento che è fidanzata con

Bube… Certo siete ancora troppogiovani per pensare a sposare. Leiquanti anni ha, scusi?»

«Sedici» rispose Mara.«Mi pareva, infatti.»"Potevo dirgli diciotto", pensò Mara

indispettita. Non le andava che quello lìla trattasse come una ragazzina.

«Lei c'è già stata a Volterra?»«No davvero» rispose Mara pronta.

«A Volterra ci vanno solo quelli chehanno i parenti matti o carcerati» e simise a ridere.

Memmo rimase zitto.

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Capitolo 2

Svegliandosi, Mara stentò araccapezzarsi: forse perché avevasognato. Il fogliame alto dei pioppi erapercorso da un fremito continuo; e quelfruscio avrebbe potuto anche farlecredere di essere nella sua chiusa,vicino al torrente. Bube, che avevadormito con la testa appoggiata al suogrembo, era scomparso.

Si sollevò a sedere: Memmo eraanche lui seduto e la stava guardando."Mi guarda le gambe", pensò Mara, e siaffrettò a tirar giù la gonnella. Non fu ilpudore a spingerla a coprirsi, ma ilgusto di fargli dispetto.

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Poi, sempre attenta a non mostrare legambe, si alzò; si scosse la gonnella, silevò un filo d'erba rimasto appiccicato.

«Ha dormito?» le domandò Memmo.«Perché, lei no?»«Mi davano noia le formiche.» Rise

sforzatamente: «Mi salivano su per unagamba…»

Bube era spuntato dal folto deglialberelli. «Son passate macchine?»domandò a Memmo.

«Ma sì. Non è passato un cane. Vedraiche fino alle sette si resta qui.»

«Andiamocene sul fiume, allora.Almeno si prende un po' di sole.»

Nascosero la roba nel folto, epassando per un viottolo fangosoattraversarono l'albereta.

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Il greto era largo, ma quasi asciutto.«Perché non ti sei messe le altre

scarpe?» la rimproverò Bube. «Guardacome te le sei infangate.»

Mara si batté in fronte:«Non ce le ho mica più.» Si mise a

ridere: «Le ho dimenticate al caffè».«Ah; e ci ridi anche?»«Tanto erano vecchie e rotte.»«Ma ora, t'avrebbero fatto comodo.»«Ora, guarda in che modo faccio» si

levò le scarpe e a piedi nudi si avviòper il greto motoso. Era mota secca, chenon si attaccava. In un tratto un velod'acqua scorreva sui ciottoli; Bubeallora si scalzò anche lui. Memmoinvece lo attraversò camminando suitacchi. Il rigagnolo vero e proprio non

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era più largo di un paio di metri: losuperarono con un salto.

Ora si trovavano in una specie dibanco di ghiaia, con al centro alcunimassi levigati e venati di bianco.«Vedi?» fece Bube soddisfatto. «Adessoci possiamo anche prendere il sole,come se fossimo al mare». E si levò lacamicia e la maglietta.

«Già, ma io come faccio?» disseMara ridendo. «Non posso mica rimanernuda». E aggiunse piano: «Se non cifosse quello lì, potrei anche farlo.»Bube la guardò; sembrò turbato; siricompose subito: «Te il sole lo pigli inviso e sulle braccia: ecco come fai.» Malei insistette:

«Perché ti sei tirato dietro quello lì?

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Ora si potrebbe fare il comodo nostro.»«Se me lo sono tirato dietro, vuol dire

che ho le mie ragioni. Memmo è delcomitato di liberazione. Voglio parlarglidella faccenda di San Donato.»

«Dì la verità: tu fai mostra che sia unacosa da niente; invece, sotto sotto, haiuna bella paura.»

«Macché paura.»«E allora, perché ne vuoi parlare a

quello?»«Mah, così. Per un consiglio.»«E va bene, parlagli e poi mandalo al

diavolo. Vuoi che te lo dica? M'èproprio antipatico.»

«Parla piano, ti potrebbe sentire.»«Meglio, se mi sente.»«Ascolta, Mara…» ma lei aveva visto

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un granchio muoversi di sbieco sullaghiaia: «Bubino, guarda! Prendilo primache Si rintani.»

«E che dovrei prenderlo a fare?»«Dì la verità: non hai coraggio.»Ma queste del coraggio erano

allusioni che lui non poteva sopportare:«Ho fatto delle cose io che se non

avessi avuto coraggio… Io, per tuaregola, del coraggio ne ho da vendere.»

«Però hai paura a prendere in manoun granchio.»

«Non dire stupidaggini.»«E allora prendilo.»«Io faccio quello che mi pare». Si

voltò minaccioso verso di lei:«Ricordati bene… di noi due, sono ioche comando… e te devi obbedire».

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Mara gli rise in faccia. «Guarda che leprendi.»

«Ma a chi credi di far paura concoteste braccine?» lo canzonò Mara. Aun tratto Bube si batté sul rigonfio dellatasca di dietro: «È con questa che facciopaura, io.»

Memmo che senza parere avevaseguito la scena gli si avvicinò:

«Bada che è pericoloso a portartidietro la rivoltella. Se ti pescano, soncapaci di farti fare un mese di carcere Esai, specie quelli che sono statipartigiani, li tengono d'occhio.»

Bube non rispose. Erasoprappensiero. Dopo un po' fece:

«Senti, Memmo… a Volterra, c'èsempre il solito maresciallo?»

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«Sì» rispose Memmo. «Noi s'èreclamato parecchie volte, ma non c'èriuscito di farlo mandar via. Perché? Seiin pensiero per quella volta di…»

«Non è per quello che sono inpensiero. È per una faccenda che mi ècapitata a San Donato.»

E cominciò a raccontare.Mara s'era seduta sul rialto, coi piedi

nell'acqua. Mentre Bube faceva ilracconto, lei guardava fisso Memmo,per vedere come la prendeva. QuandoBube riferì la risposta che avevano datoal prete: i fascisti col gagliardetto lifacevate entrare, allora fate entrareanche noi col fazzoletto rosso, Memmoapprovò: «Gli avete risposto a dovere».Ma appena sentì che c'erano stati dei

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morti, cambiò faccia.Bube rifaceva il racconto quasi con le

stesse parole con cui lo aveva fatto alei: «…e quando è arrivato in cima s'èvoltato perché ormai non aveva piùscampo. Io così ho avuto tutto il tempodi mirare e al primo colpo gli hotrapassato la testa. La pallottola gli èentrata di qui, e gli è uscita dalla nuca.»

Memmo rimase un bel po' zitto.Finalmente disse:

«È una faccenda… piuttosto bruttina.Naturalmente andrebbe tutto bene se sifosse noi a comandare; ma la questione èche comandano sempre loro. Gli inglesie gli americani.»

«Secondo te, cosa dovrei fare?»«Stare nascosto per un po' di tempo

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mi sembra la cosa migliore. Ora aVolterra sentirai anche quello che tidicono Baba, Lidori… E, dammi retta:non raccontare il fatto a nessuno…nemmeno ai tuoi. In questi casi, a menopersone si dice, e meglio è». E conclusecon una frase che a Mara sembrò strana:«E, soprattutto, non dire che ne haiparlato con me. Nemmeno a Baba e aLidori.»

Memmo era tornato sulla strada, ma inmezzo al greto era venuto un barroccio acaricare la ghiaia. Mara commentò:

«Proprio non ci riesce di rimanersoli». Lo guardò: «Ma mi pare che a te,mica ti preme tanto».

«Che cosa?»«Di rimaner solo con me». Stavano

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seduti con le spalle appoggiate a unmasso; lei infilò il braccio sotto il suo:«Se non ti piaccio, perché ti seifidanzato con me?»

«Ma che stupidaggini dici? Certo chemi piaci.»

«Allora guardami». Egli obbedì. «Eora dammi un bacio.»

«Sei matta? Ci sono quegli uomini…»«Ma non stanno mica a guardare noi!»

esclamò Mara spazientita. Ritirò ilbraccio: «Del resto, fai come credi; nonvoglio certo starti a pregare». Si alzò:«E anzi, sai cosa ti dico? Che me netorno anche io sulla strada».

Saltò dall'altra parte del rigagnolo, esi avviò per il greto. Bube le andòdietro, ma poi si dovette fermare a

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rimettersi i calzini e le scarpe.«Aspettami» le disse, ma lei nemmenoSi voltò.

Memmo era già salito sulla strada.Mara rimase nel praticello sottostante:prima con delle foglie, poi con unostecco, cercò di togliersi la mota dallescarpe. Ma era sempre fresca, e nonveniva via.

Bube la trovò intenta in questaoccupazione:

«Guarda come ti sei conciata.»«Per forza, con tutto quel fango. Ohè,

dico, ci sei voluto andar te sul fiume.»«Ma se non avevi dimenticato

quell'altro paio… Ora ti presenti a casamia con le scarpe in queste condizioni.»

«E a te che te ne importa?»

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«Non voglio fare una cattiva figuraper causa tua.»

«Sentimi bene: sei stato tu a volermiportare a Volterra; io, non avevo bisognodi scappare. Perciò non farmi tantestorie, sennò ti pianto e me ne torno acasa mia.»

Bube non replicò nulla. Fumò unasigaretta, poi disse:

«Andiamo sulla strada». Prima, però,aprì la valigia e ci mise la rivoltella.

«Te che ore fai?» domandò a Memmo.«Le sette e dieci.»«E come mai non si vede ancora la

corriera? Sono stufo di aspettare» dissepoi.

«Stai calmo poverino» lo canzonòMara.

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«Sono sei mesi che manco da casa;avrò voglia d'arrivare, no?»

«Eccola» disse Memmo.La corriera era infatti comparsa in

fondo alla strada. Quando fu più vicina,si vide che accanto all'autista c'eranodelle persone in piedi.

«Ora non troveremo nemmeno dasedere» brontolò Bube.

«La colpa è tua» disse Mara, «che haiinsistito per venire qui; se fossimomontati a Colle il posto l'avremmotrovato.»

«Io speravo in un imbarco» ebbeancora il tempo di dire Bube. Alzò ilbraccio. Ma la corriera aveva giàrallentato per conto suo. Prima che fosseferma, una donna si sporse tutta dal

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finestrino e si mise a gridare: «Bube!Bube! Meno male che ci sei te! C'è ilprete Ciolfi!

Mara e Bube erano saliti davanti,dove le cinque o sei persone in piedi siaffrettarono a far loro posto. Bube avevaappena sistemato la valigia che unadonna, la stessa che lo aveva chiamatodal finestrino, gli afferrò le manidicendo: «Ci volevi proprio te, Bube.Ora c'è chi lo concia per le feste, ilprete» e si guardò intorno compiaciuta.Ma gli altri viaggiatori non laguardavano, ed evitavano di guardarsitra loro.

«Puoi andare» disse il fattorinoall'autista. La corriera ripartì. «Voidovete fare il biglietto?»

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«Sì» rispose Bube. «Quant'è?»«Due, novanta lire.»Bube tirò fuori un foglio da mille. Il

fattorino gli stava contando il resto,quando a un tratto la donna ricominciò aparlare forte:

«Ora appena si arriva a Volterra ti siconcia per le feste. Ci pensa Bube aconciarti per le feste.»

«Buona, buona» disse il fattorinofinendo di contare.

Improvvisamente la donna urlò:«Schifoso di un prete… Delinquentevigliacco». E come eccitata dalleproprie parole si alzò e fece perslanciarsi nel corridoio. Ma il fattorinofu pronto a trattenerla.

«Vigliacco» gridava la donna fuori di

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sé. «Ce l'hai sulla coscienza te tutti queimorti… Sono stati i tuoi compagni, sì…Un figliolo le hanno ammazzato a miasorella.. lo conoscevate tutti, BaldiniSilvano, un ragazzo di diciannoveanni… È per colpa tua, vigliacco» etentò nuovamente di slanciarsi, ma ilfattorino glielo impedì:

«Intendiamoci, sposa: qui in corriera,non voglio storie.»

«Delinquente» gridò ancora la donna.«E ora basta, intesi?» le intimò il

fattorino. «Basta anche di gridare. Lei èun suo parente?» fece rivolto a Bube.

«No» rispose Bube.«Insomma glielo dica anche lei di star

tranquilla. Altrimenti faccio fermare e lascendo». E, senza rivolgersi a nessuno

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in particolare: «Una volta scesi,facciano quello che vogliono; ma qui incorriera, se succede qualcosa, ci vadodi mezzo io.»

«Via, signora, si calmi» disse Bubealla donna. Questa lo guardò, gli occhile si accesero; e tornò a stringergli lemani tra le sue.

Così Bube era costretto a viaggiare inuna posizione parecchio scomoda, curvosulla donna, che non gli lasciava le manie lo guardava fisso con aria avida eimplorante. A Mara, le veniva da ridere.Avrebbe avuto voglia di dirgli: "Checonquista hai fatto Bubino". La donnainfatti era grassa e scarmigliata, con leguance accese e lucide: ispiravarepulsione solo a guardarla.

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Giù in fondo era cominciata unadiscussione. Mara distinse la voce diMemmo: «Insomma il torto è suo che ètornato.»

Ora anche la donna diceva qualcosapiano a Bube: piano, ma in tonoconcitato, continuando a guardarlo conocchi lucenti e febbrili. "Dev'esserematta", pensò Mara. A un tratto la donnasmise di parlare; e cominciò a piangere.Piangeva silenziosamente, facendo dellesmorfie come se avesse male da qualcheparte.

Bube cercava di consolarla:«Eh, signora, abbiamo avuto tutti le

nostre perdite… Il fratello della miafidanzata era partigiano con me: l'hannoammazzato i tedeschi.»

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La donna smise di fare smorfie;guardò Mara; le sorrise. "Ora prende lemani anche a me", pensò Mara.

Invece la donna si volse al ragazzoche le sedeva accanto: «Alzati» gli disse«fai venire la signorina.»

E così Mara si ritrovò seduta vicinoalla donna. Perché non si prendesseconfidenze anche con lei, si mise aguardare fuori del finestrino. Un'ariafitta e oscura gravava ormai sullacampagna. Poi, ai pendii coltivati,successe il bosco: arrivava giù fino almargine della strada, con le masseoscure dei cespugli isolati. Semprefiancheggiata dalla boscaglia, la stradacominciò a salire. La corriera andava apasso d'uomo. L'argine si elevò, le

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forme tozze degli alberi sfilavano unadopo l'altra sullo sfondo di un cielo cheancora conservava una parvenza di luce.

«Dio, come va piano» disse la donnacon voce tranquilla. Si rivolse alragazzo: «Hai sonno, eh?» e gli batté unamanata sulla coscia nuda.

«Lo faccia rimettere a sedere» disseMara.

«Ma no, che le pare? Tanto ormai c'èpoco ad arrivare.»

La salita era terminata: sulla sinistracomparve una miriade di luci. Lacorriera si lanciò a tutta corsa per ladiscesa, e le luci si misero a ballare nelvetro del finestrino.

«È Volterra?» domandò Maraaccennando alle luci.

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«È Volterra, sì… Chissà se c'è miasorella ad aspettarci» aggiunse comeparlando tra sé. «Perché anche lui micaè figliolo mio; io figlioli non ne ho. Malui e quello più grande, Silvano, sonostati per me come figlioli…» la voce lesi incrinò. «Come figlioli, e Silvano mel'hanno assassinato!»

A un tratto si rimise a parlar forte:«Se ne accorgerà il prete che

accoglienza gli riserba Volterra». Sivoltò indietro: «Cosa credevi? Chelassù comandassero sempre queidelinquenti dei tuoi compagni? Oraperdio comanda il popolo.»

«Io non ho fatto male a nessuno» disseuna voce nel silenzio generale.

«Ah, non hai fatto male a nessuno?

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Dicono tutti come lui, io del male non neho fatto a nessuno. Stai a vedere che ilmale ce lo siamo fatto da noi. Queiragazzi» urlò «chi l'ha ammazzati queiragazzi. Rispondi ora, assassino.»

«Non sono un assassino» gridò ilprete. «Io.» ma giù in fondo successe untrambusto e non s'intese più la sua voce.

«Ma se ci andavi a braccetto insieme,con quelli che hanno ammazzato i nostriragazzi! Anche il figliolo di mia sorella»singhiozzò «la mia sorella ora è unadisgraziata, per colpa vostra, per colpatua, brutto schifoso di un prete!» Maraguardava sorpresa la donna che s'eracoperta la faccia con le mani ed era tuttascossa dai singhiozzi: «Il bimbo di miasorella!» mugolava. «Aveva diciannove

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anni, aveva…»«Bube, vieni un momento qua». Era la

voce di Memmo.«Pensaci te a lei» disse Bube a Mara.La donna aveva smesso di

singhiozzare, ma teneva sempre la testachina e la faccia nascosta. Mara le posòuna mano sulla spalla. Non lo fece perconvenienza, ma perchéimprovvisamente aveva provato pietàper quel grosso torso piegato in avanti,per quella testa china e nascosta.Sentendosi toccare, la donna ebbe unsussulto, ma rimase in quella posizione.

Allora Mara le disse: «Bisogna farsicoraggio». La donna alzò la testa, sivolse verso di lei; la faccia le si spianòquasi in un sorriso. Poi dovette

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ricordarsi che a Mara avevanoammazzato un fratello: «Poverina anchete. Povera la tua famiglia. Ragazzi,quando in una famiglia succede unadisgrazia così… che muore un figliogiovanotto…».

Aveva la faccia rossa e bagnata, conun filo di capelli appiccicato allaguancia. Ma a Mara non faceva piùsenso, le era venuto anzi l'impulso diabbracciarla e di accarezzarla.

«Via, si asciughi gli occhi» disse condolcezza; e la donna obbedì,continuando a guardarla e a sorridere.

Improvvisamente Mara fu investita dauna luce violenta. Guardò fuori: era unlampione; ne sopraggiunse un'altro,infisso in un muro; poi l'autobus

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imboccò una strada fiancheggiata da unafila di casette contigue, con le finestrepiccole, e pentole e vasi coi fiori suidavanzali. «San Lazzero» si udì la vocedel fattorino «chi scende a SanLazzero?» Ma già tre o quattro personesi erano preparate per scendere.

Bube era tornato; le disse:«Anche noi si dovrebbe scender qui.»«E allora perché non scendiamo?»«Devo sbrigare una faccenda, prima.»Dietro di lui era comparso Memmo:«Dobbiamo portare in prigione il

prete». Parlando si rivolgeva anche alladonna: «Ce ne incarichiamo io e Bube.Perché è meglio che non succedanoincidenti… Qui comandano sempre gliinglesi e gli americani, e non bisogna

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dar loro il pretesto di intervenire. Hacapito signora? Noi comprendiamo ilsuo grande dolore e il suo giustorisentimento; ma, ripeto, il CLN vuoleevitare incidenti per impedireintromissioni da parte del governomilitare alleato.»

La donna lo guardava con una facciainespressiva. Probabilmente non avevacapito nulla di quello che Memmo leaveva detto.

L'autobus s'era fermato; i viaggiatorierano scesi; lo sportello fu richiuso. Masubito dopo qualcuno da fuori lo riaprìcon violenza; e un giovane pallido emagro, un ragazzo quasi, saltò sulpredellino. Bube, pronto, si slanciòcontro di lui: «Te che vuoi? Scendi.»

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«Fammi vedere chi c'è.»«Scendi, ti dico.»Ma il giovane aveva già visto quello

che gli interessava vedere; perché sivoltò indietro annunciando trionfante:«Ohi, ragazzi, c'è il prete Ciolfi!»

Bube ne approfittò per dargli unaspinta; quello perse l'equilibrio e pernon cadere all'indietro fu costretto asaltar giù. Bube si sporse ad afferrare lamaniglia dello sportello per tirarlo a sé,ma glielo impedirono. Mara, che s'eraalzata in piedi per veder meglio, scorsequattro o cinque giovani giù nella strada.

«Facci salire.»«No, fai scendere il prete» disse un

altro, e tutti risero.«Oh, ma è Bube».

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«Sono Bube, sì; e voi nonv'immischiate in faccende che non viriguardano. Me ne incarico io delprete». Quelli mollarono lo sportello eBube lo tirò a sé richiudendolo conforza. L'autobus ripartì.

«Allora siamo intesi» disse Bube aMara «io mi devo occupare del prete; tuscendi, e aspettami.»

«E la valigia?» fece Mara contrariata.«La valigia, bisogna che ci pensi tu».

E se ne andò verso il fondo.L'autobus passò sotto un arco.

«Eccoci a Volterra» disse la donna.Stava infilando un golf al ragazzo; poi simise in testa un fazzoletto, annodandolosotto il mento. «Si metta anche leiqualcosa in testa, signorina; a Volterra fa

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fresco, la sera». Quindi la salutò e laringraziò della compagnia.

Si misero in fila per scendere; avantiil ragazzo, poi la donna, poi Mara. Unuomo le disse alle spalle: «Scenda puresignorina, ci penso io alla valigia.»

Si fermarono in una piazza alberata.C'era un bel po' di gente ad attenderel'arrivo della corriera. La donna, primadi scendere, si voltò a dirle un'altravolta: «Arrivederla signorina». Marascese subito dopo, poi fu la voltadell'uomo con la valigia: «Gliela mettoqui da una parte, perché se succedequalche confusione…»

«Tante grazie» rispose Mara.Davanti la corriera s'era già vuotata;

di dietro, invece, scendeva ancora gente;

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scese Memmo; scese Bube; quando perultimo comparve il prete, si levò unasalva di fischi.

A un tratto si udì una gran risata. AMara venne voglia di correre a vedere;ma la corriera stava facendo marciaindietro per entrare nell'autorimessa, elei dovette scansare precipitosamente lavaligia.

Quando la corriera fu passata, videche di gente ce n'era rimasta poca. Duegiovani tornavano indietro torcendosidalle risate; Mara, non resistendo allacuriosità, li fermò:

«Ma cos'è successo? Perché ridete?»«Per via del cappello» rispose uno.

Si rivolse al compagno: «Ma dire chenon tirava un soffio d'aria…»

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ricominciò a ridere «e appena il pretes'è incamminato, un colpo di vento e via!gli è volato il cappello…»

«Io gli ci ho dato un calcio tale chedevo averglielo sfondato» disse l'altro.

«E io, allora? M'è capitato proprio trai piedi, e giù! una gran pedata…»

«Ma poi glielo avete ridato?»domandò Mara.

«Macché ridato! È finito in fondo alloscarico.»

Ora che s'erano calmati, facevanomaggiore attenzione alla ragazza.

«Ma lei non è di Volterra, signorina?»domandò quello che aveva parlato perprimo.

«No» rispose Mara.«E… aspetta qualcuno?»

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«Il mio fidanzato.»«Doveva venire a prenderla alla

corriera?»«No, era in corriera con me. Ma voi

lo conoscerete anche. Bube.»«Bube?» fece il giovanotto sorpreso.

«Certo che lo conosciamo; è amiconostro, Bube. Però io non sapevo chefosse fidanzato. Tu lo sapevi?»

«No» rispose l'altro. «Ma poi è datanto che non s'era più visto. Sta in unpaese vicino a Firenze… vero?»

«Sì» rispose Mara. «A San Donato.»«E lei è di San Donato?» domandò il

primo giovanotto. «No» rispose Mara.«E allora di dove?»

«Di Monteguidi… vicino a Colle.»«Ah: senti. E… mi dica un po',

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signorina: sono tutte come lei le ragazzedi Monteguidi?»

«Che intende dire?»«Carine come lei?»Mara alzò le spalle, ma intimamente

era soddisfatta del complimento.«Perché sennò la fidanzata me la vado

a trovare anche io a Monteguidi» disseil giovanotto. E, insistendo nelloscherzo: «Lei per caso non ha unasorella… o una cugina?» Mara si mise aridere:

«Una cugina ce l'ho, ma brutta come ilpeccato.»

«Un'amica, allora… Se mi dice ilnome e l'indirizzo…»

«Via, la faccia finita. Mi dica,piuttosto: sono lontane le carceri?»

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«No. Sono proprio qui sopra.»«E allora Bube come mai sta tanto a

tornare?»«Eccolo, Bube» disse quell'altro.Era infatti lui, ma pallido, trafelato,

come se avesse fatto una corsa. I due losalutarono con calore, stringendogli lamano e battendogli colpi sulla spalla.Bube invece si limitò a dire: «Ciao» esubito dopo si rivolse a Mara:«Andiamo.» Prese la valigia e prese leiper il gomito. Più che tenerlasottobraccio la spingeva.

«Si può sapere che fretta hai?» disseMara cercando di svincolare il braccio.Oltre tutto sulla ghiaia del giardinetto adandare svelta rischiava di prendersi unastorta.

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A un tratto Bube la lasciò; evoltandosi verso i due:

«L'ha avuta la lezione che meritava, ilprete.» E sollevò il pugno, mostrando lenocche sbucciate e sanguinanti.

Di là in camera, avevano spento laluce, e non si sentiva più nessun rumore.Lei s'era già spogliata, s'era tolta lacamicetta, la gonna e le mutande; s'eraanche sfilata il reggipetto; ma indugiavaa coricarsi. Ripensava al battibeccoavuto con Bube, che pretendeva di farladormire con la madre e la sorella. "Cidorma lui con le sue donne". Il letto eraa una piazza e mezzo, sicché sai che belpiacere dormirci in tre. E le federe deiguanciali avevano una macchia scura nelmezzo, chissà quant'era che non le

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cambiavano. Ma soprattutto avevaripugnanza per le persone. La madre diBube era calva e sdentata, e la sorellapelosa e piena di nei.

Che razza di famiglia. E che razza dicasa. Due stanze soltanto, infilate unadentro l'altra: la cucina e la camera. Ilgabinetto era per le scale: un bugigattolopuzzolente, che serviva anche per lafamiglia del piano di sopra. Sia incucina che in camera, i mattoni degliimpiantiti erano mezzo rotti, le paretisporche e macchiate d'umidità, i soffittiscrostati. In confronto, pensava Maracon soddisfazione, casa sua era unareggia addirittura.

Mara era stata abituata dalla madrealla pulizia e alla precisione, perciò

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aveva notato subito lo sporco e ildisordine che c'erano in casa di Bube.Glielo aveva anche detto, un momentoche le donne non sentivano. «Abitiproprio in un tugurio». Bubenaturalmente s'era risentito: «Io sono dipovera famiglia; ma non me ne vergognomica… Anzi, se lo vuoi sapere, me netengo». Ma che c'entrava esser poveri. Èche erano sudici, altro che storie. Incamera c'era puzzo di pipì, e lì incucina, tanfo di rigovernatura.

Questo non gliel'aveva detto, maquando Bube aveva preteso che andassea dormire in camera, s'era ribellata; epoco le importava che sentissero anchela madre e la sorella: «Io sono abituata adormire sola, e con delle persone

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estranee specialmente, non miriuscirebbe davvero di dormirci». E lui,offeso: «Non sono mica personeestranee: sono mia madre e miasorella». «E che vuol dire? Se un'ora fanemmeno le conoscevo». Bube avevaalzato la voce (chissà: in presenza dellamadre e della sorella voleva far vedereche era lui a comandare), ma lei gliaveva tenuto bravamente testa:«Insomma, o mi fai dormire sola incucina, oppure piglio e me ne vadoall'albergo». «Te invece fai quello chedico io.»

«No bello». «Mara, guarda che leprendi». «Ma chi ti credi di essere?Perché hai picchiato un prete,pretenderesti di picchiare anche me.

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Bella forza picchiare un vecchio» avevaaggiunto con disprezzo. «E vi ci sietemessi in cinquanta». «Niente affatto: glialtri stavano a guardare, ho picchiato iosolo». «Ma appena sono arrivati icarabinieri, ve la siete data a gambe! Tuper primo». «Niente affatto». «Ma sel'hai detto tu! Vero?» fece rivolta allasorella. Quella era rimasta zitta, dovevaessere proprio un'idiota, in tutta la seranon aveva aperto bocca che per direstupidaggini. «Insomma sono iol'uomo… e te devi obbedire» avevaconcluso Bube. Lei s'era messa a ridere:«E io sono la donna… perciò voglioaverla io l'ultima parola. E poi non seigentile, scusa: io te l'ho ceduto il mioletto quando sei venuto a casa mia;

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perché non vuoi ricambiarmi il favore?»«Io facevo perché stessi più comoda»

aveva borbottato Bube; e s'era messo afumare, truce in volto, ma ormairassegnato a cedere.

Di lì a poco la madre se n'era andataa dormire; e la sorella non aveva tardatoa seguirla.

«Bubino per piacere te ne vai di làanche te? Perché io ho sonno e voglioandare a letto.»

«E vacci.»«Ma bisogna che mi spogli, no? Non

posso mica spogliarmi davanti a te.»«Va bene, vado». Sulla porta s'era

voltato, puntandole contro il dito:«Perché non t'ho voluto fare una scenatadavanti a mia madre e mia sorella…

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sennò mi obbedivi, e di corsa».Povero Bubino. Voleva sempre dare a

intendere che cedeva spontaneamente.Ma ormai lei lo aveva capito che tipoera. Non le faceva paura, con le sueminacce.

Raccattò il reggipetto, che era caduto,e lo appese alla sedia, dove avevaammucchiato la roba. A piedi nudiattraversò la stanza, girò l'interruttore;tastoni ritrovò la branda. S'infilò sotto illenzuolo. Non era propriamente buio: laluce di fuori filtrava dalla finestra privad'imposte: riverberandosi sul soffitto, indue losanghe sfuocate. Ma meglio così:perché restare completamente al buio inquella casa sconosciuta, le avrebbe fattoimpressione…

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Certo, non ci sarebbe rimasta molto."Ci rimarrò fino a lunedì; poi mi facciodare i soldi per la corriera e me ne tornoa casa". L'indomani era domenica, inegozi erano chiusi, e lei pensava invecedi farsi regalare qualche altra cosa. Unreggipetto, per esempio. Ma sì, unreggipetto era roba da poco, Bubeavrebbe potuto benissimo farle un altrobel regalo, tipo le scarpe. Una borsetta,magari… Ecco un'altra cosa che nonaveva mai posseduto; non solo: ma nonce l'aveva nemmeno Liliana. "Creperà dirabbia se mi vede arrivare con laborsetta". Certo, una borsetta costavacara, ma tanto Bube era pieno di soldi, epoi, bisognava riconoscerlo, non era pernulla avaro. Anzi, faceva il grande. E

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Mara pensò che faceva il grande proprioperché era sempre stato poverissimo.Era accaduto lo stesso a uno del suopaese, un disgraziato che, figuriamoci,non aveva nemmeno una casa, dormivain una stalla; arrivati gli americani, s'eramesso a fare il mercato nero, e avevaguadagnato un bel po' di soldi, e ora,spendeva e spandeva, pagava da bere atutti… come se fosse un signore. E unaltro caso c'era stato, quando lei erabambina: di un tale che aveva ricevutoun'eredità, e l'aveva sperperata inpochissimo tempo. Tra l'altro s'eracomprata una macchina fotografica, efaceva fotografie a tutti: quando nonpoteva fotografare le persone,fotografava i cani, i maiali, gli asini…

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Era stato lui a fare quella fotografia chepoi Sante s'era portato alla macchia… esulla quale lei aveva imbastito tutta unastoria alla cugina.

Però, com'era strano. Lei aveva dettouna bugia che, in seguito, s'era avverata.Perché Bube s'era veramente innamoratodi lei… e avevano finito colfidanzarsi…

Ma che caldo faceva. Le venneaddirittura l'idea di levarsi la sottana ela maglia e rimanere nuda. Fosse statanel suo letto, l'avrebbe fatto. Ma lì,sebbene le lenzuola fossero di bucato,soltanto a pensare che le aveva toccatela sorella di Bube…

Si rigirava, senza riuscire a trovare laposizione adatta per dormire. Il

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pagliericcio era duro, e con certispunzoni… Forse non le aveva fatto prola cena, aveva mangiato contro stomaco,specie dopo che aveva trovato uncapello nella minestra. "Sarà stato uncapello o un pelo?" Aveva certi pelilunghi la sorella di Bube: uno le uscivada un grosso neo sopra il labbro, e colrespiro si muoveva, andava su e giù…

Più che altro non le riusciva dormireperché si sentiva a disagio e inquieta.Cercò di concentrarsi su pensieripiacevoli. Sul pensiero del propriocorpo. Dianzi, stando in sottana, si eratirata i seni fuori, e li aveva consideratia lungo. E non c'è dubbio, erano propriograziosi, piccoli ma sodi, e rosei, conqualche peletto soltanto intorno ai

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capezzoli. Mentre Liliana, per esempio,li aveva scuri, macchiati, e con certi pelineri…

Le tornò in mente la madre quandoallattava Vinicio. Lei era una bimbetta disei o sette anni, e di queste cose era giàcuriosa. Ma un giorno che la madre siera accorta d'essere spiata, le avevadato uno schiaffo. Perché la madre eracosì, gelosa della propria intimità, e maiche Mara l'avesse vista una voltaspogliata. Il padre invece non ci badava,magari girava per casa in mutande… Eanche questo era un motivo di litigi fra igenitori.

Ma aveva ragione la madre. In unafamiglia dove si va a finire se genitori efiglioli si spogliano gli uni in presenza

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degli altri… se magari dormono nellostesso letto? E anche questa, che Bubedormisse con la madre e la sorella, erauna cosa che non le garbava per niente.Ma non aveva un amico, da cuiandarsene a dormire?

Ricacciò il pensiero di queste cose.Pensò alle scarpe che le aveva regalatoBube; alla borsetta che le avrebberegalato… Le tornò in mente quello chele aveva detto Mauro quando l'avevavista tutta elegante: i regali allafidanzata glieli farei anche io, ma vorreiqualcosa in cambio… Ridacchiò. Nonc'era pericolo che Bube le chiedessequalcosa in cambio. Erano rimasti solianche abbastanza a lungo, lì suquell'isolotto in mezzo al fiume; e lui,

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non le aveva fatto una mezza carezza, néaveva cercato di baciarla. "Liliana potràdire tutto quello che vuole, ma non chenon è un giovane serio". Eppure il fattoche fosse un giovane così serio, nondissipava la sua inquietudine; anzi,chissà come mai, la accresceva…

"No, io proprio non me la sento dicontinuare. Domattina glielo dico. Glidico: Guarda, ci ho ripensato e hodeciso di rompere il fidanzamento. Mifaccio rendere la fotografia e le lettere,e me ne rivado, domani stesso. Dellaborsetta, pazienza, ne farò a meno. Lescarpe, s'intende, me le tengo, oltre tuttoquelle altre le ho perdute."

Non appena ebbe preso questadecisione, si sentì più leggera; la

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sottana, il lenzuolo smisero diinfastidirla poco dopo Si addormentò.

«Bube. Svegliati Bube.»Mara guardava il chiarore sul soffitto.

Non capiva, non si raccapezzava… A untratto si sentì gelare dallo spavento. Laporta cigolò: si apriva lentamente: unospicchio d'impiantito s'illuminò.«Svegliati Bube» ripeté la voce.

«Chi è?» gridò Mara balzando asedere sul letto. Era atterrita all'idea chefosse un matto scappato dal manicomio.

Invece di rispondere, l'intruso giròl'interruttore: «Ah» disse. «Credevo checi dormisse Bube.»

«Ma lei chi è, scusi?»«Io sono Lidori, un amico di Bube.»Mara si ricordò di aver sentito fare

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quel nome da Bube a Memmo: «Ah, hocapito» disse. «Ma che spavento mi hafatto prendere!» e rise, sollevata.

Anche il giovanotto sorrise:«Eh, lo capisco che non è un'ora

adatta per venire nelle case. Ma hobisogno di parlare con Bube, subito.Dov'è? Di là?» fece indicando lacamera.

«Sì. Ma ora dorme.»«E allora bisogna che lo svegli. È

meglio che sia io a svegliarlo piuttostoche i carabinieri; non le pare?» e Maralo vide aprir la porta e scivolare dentro.Prima di Bube, dovette svegliarsi lasorella, che mandò un piccolo grido dispavento. Poi li sentì parlottare; ma nonriusciva a capire le parole.

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Dopo qualche minuto, Lidori tornò incucina. Tirò fuori la scatola del tabaccoe le cartine, e con calma prese a farsiuna sigaretta. Era alto, magro, robusto,con un gran naso aquilino; e un intrico divenuzze a fior di pelle sugli zigomi esulle narici.

«Ma cos'è successo?» gli domandòMara.

«È successo che i carabinieri lostanno cercando; perciò bisogna che filivia, e subito.»

«Per il fatto del prete?»«Per il fatto di San Donato.» Entrò

Bube, vestito:«Questa, vedi, è Mara la mia

fidanzata.»«Sì, l'avevo capito» rispose Lidori.

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«Dunque, in presenza delle donne non hovoluto dirlo: ma la faccenda è seria; tugliene hai parlato?» Bube fece cenno dino. «Bravo, è meglio che non sappianonulla. Ma te come mai non ti sei subitofatto vivo con noi, appena sei arrivato aVolterra?»

«Pensavo di parlarvene domattina.»«Domattina, sarebbe stato troppo

tardi. Se i carabinieri di Colle eranoavvertiti, la comunicazione devonoaverla ricevuta anche quassù. Una cosanon riesco a capire: se quelli eranovenuti alla partenza della corriera,com'è che non t'hanno beccato?»

«I carabinieri erano venuti allapartenza della corriera?»

«Così almeno ci hanno telefonato i

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compagni di Colle.»Bube guardò Mara: «Allora è stata

una fortuna che ce ne siamo andati…»S'interruppe, perché era entrata lasorella, anche lei vestita, ma a piedinudi.

«Dunque, Lidori, cosa è successo?»«Ma niente, Elvira, niente. Solo

bisogna che Bube si nasconda.»«E perché?»«Be'… lo sai che il maresciallo ce

l'ha con lui. E siccome abbiamo sentitodir qualcosa… Insomma, se venissero, èmeglio che non si faccia trovare.»

«Forse è per via della picchiatura alprete» suggerì Bube.

«Ma come? I carabinieri ora simettono ad arrestare quelli che

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picchiano i fascisti? Ma alloradovrebbero arrestarci tutti; l'altrogiorno, quando fu picchiato Amilcare,c'era la piazza piena… C'ero anche io»aggiunse con soddisfazione.

«Andiamo, via» disse Lidori; «non c'èmica da perdere altro tempo.»

«E dove mi porteresti?» domandòBube.

«S'è pensato con Baba che il postomigliore è quel capanno dove siete statinascosti prima di andare nei partigiani.»

Bube aveva tirato fuori una sigaretta,accendendola al mozzicone di Lidori;aspirò il fumo tre o quattro volte diseguito; a un tratto disse:

«Io resto qui.»«Ma sei ammattito? Lo sai o no che

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hai un mandato di cattura sulle spalle?»«Non voglio che se la rifacciano con

mia madre e con mia sorella. Non voglioche succeda come l'altra volta, che leportarono in carcere perché nontrovarono me.»

«Ma su questo punto puoi startranquillo; non siamo mica più al tempodei repubblichini. Al caso, ci si pensanoi, se avessero l'intenzione dicommettere qualche angheria…»

«Sai che ti dico?» fece Bubetoccandosi dietro, dove spiccava dinuovo il rigonfio della rivoltella. «Io liaspetto in casa; e come si azzardano avenir su per le scale…»

«Tu invece verrai via con me, esubito. È l'ordine del Partito.»

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Bube restò un momento incerto; poidisse:

«Be', se è l'ordine del Partito, alloranon discuto più. Ma non che mi faccianopaura i carabinieri… Nemmeno itedeschi mi facevano paura, figurati unpo'.»

E si mise a sistemar la roba nellozaino, aiutato dalla sorella.

A un tratto Mara pensò che leisarebbe dovuta rimanere sola; disse:«Bube, io domattina me ne torno a casa.Dammi i soldi per il viaggio».

«Domani è domenica, la corriera nonfa servizio… Partirai lunedì.»

«Cosa?» La prospettiva di passare unaltro giorno e un'altra notte in quellacasa, con quelle due donne, era troppo

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brutta…«Allora vengo con te». Le parole le

erano uscite di bocca quasi senzavolerlo; ma un momento dopo erarisoluta a imporre la sua decisione.

«Sei matta? Si tratta di andare in uncapanno in campagna… non è mica unposto per te.»

«E io vengo lo stesso.»«Sì, e come fai a camminare, con

coteste scarpe?»Intervenne Lidori:«Certo, se non fosse per via delle

scarpe… non l'ha mica pensata male, lasignorina. È meglio che i carabinieri nonla trovino qui».

«Delle scarpe non vi dovetepreoccupare; in caso, cammino scalza.

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Su, uscite, che mi voglio vestire». Buberientrò in camera; Lidori scese a dareun'occhiata giù in strada. Maraveramente avrebbe voluto che uscisseanche la sorella; ma quella se ne stava lìcon la sua solita aria imbambolata; così,dovette vestirsi davanti a lei. Il fagottinodella roba era sulla credenza, lo avevasfatto per prenderci un fazzoletto; lorifece, e lo ficcò nello zaino.

Gli addii furono rapidi. Bube baciò lasorella sulle guance:

«Non stare in pena per me; pensa amamma, piuttosto.»

«Se venissero i carabinieri, dite cheBube è ripartito» consigliò Lidori «eche non sapete dov'è andato.»

In fondo alle scale, si fermarono;

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Lidori scrutò fuori, poi guardòl'orologio: «È l'una» disse; «alle due,dovremmo essere nel capanno.»

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Capitolo 3

Il finestrino si era aperto durante lanotte, e uno straccio di ragnatela simuoveva nell'aria fresca del mattino.Mara cercò di tirare a sé la coperta, poisi voltò sull'altro fianco; e vide laschiena di Lidori. La scena della notte letornò alla mente con chiarezza: Bubeaveva subito detto che per lui andavabenissimo dormire sull'impiantito; lei eLidori, allora, s'erano stesi sul letto.

Per forse un minuto Mara rimase fissanel pensiero che si trovava lì, in quelcapanno, in compagnia di Bube e di unestraneo; anzi, proprio quell'estraneodormiva insieme con lei sul letto. "Se lo

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sapessero!"; e pensava a sua madre, allamadre di Liliana, a Liliana; ma già ilsonno la riafferrava e la tirava giù.

Quando si svegliò di nuovo, laragnatela fluttuava in un raggio di sole, etutto lì in quel bugigattolo era chiaro eben visibile. Il soffitto rugosoincombeva su di lei; le pareti eranougualmente senza intonaco, con appenaun po' di calce secca nelle commessuredelle pietre.

«Bube. Sei sveglio?»«Sì» rispose la voce di Bube.«E Lidori dov'è?»«L'ho sentito andar via». Si tirò su,

senza guardare dalla parte del letto.«Ahi…» fece «sono tutto indolenzito».Bube aveva dormito su due balle stese

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in terra, con lo zaino per guanciale.«La colpa è tua, perché non ci sei

venuto tu a dormire sul letto?»«Non sarebbe stato bene» rispose

Bube continuando a non guardarla.«Allora non è stato bene nemmeno

che abbia dormito con Lidori.»«Che c'entra. Lidori non ti è niente; e

poi è anziano.»«Mica tanto anziano. E ancora un

giovanotto, invece.»Bube aveva acceso una sigaretta e

s'era messo sulla porta. Scalza com'era,Mara gli andò accanto e gli mise unamano sulla spalla.

«Non mi dai nemmeno un bacio?»Bube la guardò: «Tutte le mattine,quando ci si sveglia, devi darmi un

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bacio.»Bube si curvò a baciarla, ma anche

questa volta Mara non ebbe il tempo diavvertire il calore delle labbra che eglisi tirò indietro.

«Perché stai scalza? Ti fa male, puoiprenderti un raffreddore.»

«Oh, ma io ci sono abituata a starescalza. L'estate, sto sempre scalza. Sonouna contadina, io; con chi credevi diesserti fidanzato?» Egli abbozzò unaprotesta, ma lei insisté: «Sono andata alcampo fin da quando ero piccola. Ma mipiace più la contadina della serva. Unanno m'hanno mandato a servizio da unafamiglia di Colle; ma ci sono rimastapoco. Non mi piace venir comandata»concluse sorridendo.

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«Oh, ecco Lidori» disse Bube, conun'intonazione di sollievo, come se sisentisse a disagio stando solo con lei.

Mara, stizzita, rientrò nella stanza.Aprì lo zaino, e tirò fuori la sua roba.

«Salve» disse Lidori entrando. «Vi hoportato la colazione» e posò sul letto unintero pane e un fagotto che si aprìlasciando vedere alcune grosse fette diprosciutto e due uova. «Avanti:servitevi». Affettando il pane,continuava a parlare: «Mi fa male ilcapo… Stanotte non ho dormito perniente.»

«Bugiardo» disse Mara. «Russavi cheera una bellezza». La sera prima a uncerto punto Lidori si era messo a darledel tu, e lei naturalmente aveva fatto

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altrettanto.«Io, russare? Tu te lo sei sognato,

vedi.»«Ma se m'hai anche svegliato, da

quanto russavi forte.»«Te m'hai svegliato, da quanti calci

tiravi. Disgraziato chi ti piglierà permoglie» aggiunse strizzando l'occhio aBube.

«Be', ora bisogna che vi lasci,ragazzi». Di colpo era tornato serio:«Devo andare a vedere come si mettonole cose.»

«Passa da casa mia, mi raccomando.»«Stai tranquillo. E te, non farti vedere

in giro». Si mise la giacca sulle spalle euscì. «Per mezzogiorno, l'una almassimo, conto di essere di ritorno».

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Dopo pochi passi si voltò, e di nuovoaveva una faccia allegra: «E… fate ibravi ragazzi; intesi?»

Lo guardarono scendere giù nellastrada. Di lì, fece ancora un segno disaluto col braccio. «È un amico, Lidori»disse Bube. «È simpatico» ammiseMara.

Mangiarono seduti sullo scalino fuoridella porta. Il vento scorrevaleggermente per il pendio, curvando ilgrano basso e rado. Di là dalla strada,c'era un terreno pianeggiante diviso intanti rettangoli dai filari di viti che sisuccedevano a intervalli regolari; e inquei rettangoli l'occhio esperto di Maradistinse subito le varie coltivazioni: quaerba medica, là zucche, o rape, o fagioli

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e pomodori. Poi c'era il torrente,coperto da una fitta macchia, sopra cuisi levavano grossi alberi isolati. Di làdal torrente si estendevano altri campi,ma non c'erano case: le case erano incima ai poggi brulli e non molto alti checircoscrivevano la vista.

«È quella l'Era?» domandò a boccapiena.

«No, quella è… Non lo so come sichiama. È un affluente dell'Era.»

«Che vuol dire affluente?»«Che va a finire nell'Era. Oh, ma siete

ignoranti forte dalle vostre parti.»«Basta che siate sapienti voi» lo

schernì Mara. Ingoiò l'ultimo pezzo dipane e si alzò: «Andiamo?» dissetendendogli la mano.

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«Dove?»«Al torrente. All'affluente» e si mise a

ridere. «A lavarci il musino.»«Oh, sì, ne sento proprio il bisogno di

darmi una lavata». Rientrarono aprendere la roba: il sapone, glispazzolini, il dentifricio: involtaronotutto nell'asciugamano. Bube lo diede atenere a lei: «Dimenticavo una cosa.»

Mara lo vide che si affannava intornoallo zaino. La rivoltella gli scintillònelle mani; se la mise nella tasca didietro. E Mara sentì come un malesseredentro… Ma fu un attimo: e mentrescendevano quasi correndo per ilviottolo, non c'era che un sentimento inlei, il piacere di trovarsi in campagna,libera di fare quello che voleva, e

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l'eccitazione di esser sola col fidanzato.Il torrente era come un strada

incassata tra due argini alti, sopra cuicresceva rigogliosa la macchia; che inqualche tratto stendeva i suoi rami nelmezzo, fino quasi a coprire la vista delcielo. Il rivolo d'acqua bastava appena ainumidire la terra giallastra. Un po' piùsu c'era una cascatella, e fu lì che silavarono.

Bube si sbrigò in un minuto e risalìnel campo, perché lei potesse fare il suocomodo.

«Bubino. Non guardi mica, eh?Perché sono nuda.»

Era nuda fino alla cintola, infatti: silavò il petto e le spalle, quindi si tirò sula maglia di cotone e la sottana, e tornò

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a infilarsi il reggipetto e la camicetta,che aveva appeso a un ramo.

Bube era sdraiato ai piedi di ungigantesco ciliegio al cui tronco eraabbarbicata una vite, che arrivataall'altezza dei rami ricadeva all'indietro.

«Bubino, questo ciliegio e questavite… a che cosa ti fanno pensare?»Egli non capì, e lei: «A me, a dueinnamorati. Lui è il giovanotto, e lei, laragazza.»

«Lui chi?»«Lui il ciliegio. Vedi, lei vorrebbe

abbracciarlo, e lui la respinge.»Bube aveva afferrato l'idea:«Si potrebbe dire anche il contrario:

lui la abbraccia, e lei gli sfugge.»«No, è come dico io. Sono come io e

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te» aggiunse improvvisamente. «Tu mirespingi sempre, Bubino.»

«Dici così per via di ieri? Ma c'eranoquelli a caricare la ghiaia…»

«Ora però non c'è nessuno. Perchénon mi abbracci?»

Bube la guardò, incerto:«Ora sto fumando.»«Vedi, una scusa la trovi sempre.»Egli si alzò, poi tornò a mettersi

seduto. Mara gli andò più accosto.«Fammi un favore: agganciami ilreggipetto». E gli voltò la schiena.

Sentì le dita di lui strisciarle sullapelle in cerca dei ganci.

«Ahi! mi fai il solletico» disseridendo. «Scusami» rispose lui, serio.«Proprio non sei buono a niente,

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Bubino: nemmeno ad agganciare unreggipetto». «È che non mi riesce dicapire…» Ci s'era messo con tuttol'impegno; alla fine ci riuscì.

«Ecco fatto» disse. Ritirò una mano,ma con l'altra indugiava a toccarla.«Come sei calda» disse.

Era turbato; lei se ne avvide subito,appena si girò a guardarlo.

«Bube» disse in un soffio, e gli siavvicinò col viso, chiudendo gli occhi.

A un tratto egli le prese la faccia trale mani; poi la baciò, con impeto, erimase a lungo con le labbra schiacciatecontro le sue. Si scostò un momento, e labaciò una seconda volta, e una terza.

Dopo, rimasero senza parlare e senzanemmeno guardarsi. Anche lei era

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turbata, perché erano stati i suoi primiveri baci. I loro sguardi s'incontrarono,ella fece per dir qualcosa, ma si limitò ascuotere il capo e abbassò gli occhi.

«Che cosa…?» balbettò lui.Ma lei non aveva la forza di parlare.

Posò una mano sulla sua: se la sentìstringere. Poi si sentì abbracciare Alloraappoggiò la testa sulla spalla di lui.

E così rimasero a lungo, ed eranotutt'e due turbati, turbati e felici come sipuò essere una sola volta nella vita:perché anche per lui era la prima volta.Ma questo Mara lo aveva capito già damolto tempo…

Li riscosse il passaggio di gente sullastrada. Erano tre contadini vestiti conl'abito nero della festa; subito dopo fu la

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volta di due donne, che parlavano forte,tanto che si sentivano distintamente leparole:

«… ma cosa ci puoi fare contro ilmale? Quando il male entra in una casa,povera famiglia.»

«È proprio così: c'è rimedio controtutto, ma contro il male non c'è rimedio.Ma sì, dottori, medicine! Tutti denaributtati via…»

«Bisogna andarsene, qui ci vedonodalla strada» disse Bube. «Ora quandosono passate quelle donne ce neandiamo lassù» e indicò la striscia dibosco che orlava la sommità del poggiodi fronte.

Egli s'incamminò lungo il filare; e leidietro, sulla terra zappata di fresco,

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dove i piedi affondavano piacevolmente.Prima di attraversare la strada, Bubescrutò destra e a sinistra. Le due donneerano ormai lontane e dall'altro capodella strada non era sbucato nessuno Infretta salirono per il viottolo, che finivaal capanno, sopra, dovettero andare inmezzo al grano. Il terreno era tuttocrepato; poi si fece anche sassoso; edecco, si trovarono davanti al bosco. Coisuoi tronchi sottili e fitti, si ergeva difronte a loro come un muro; ma andandolungo la proda, trovarono una raduracoperta da un'erba folta e tenera.

Si rimisero seduti, nella stessaposizione di prima: lui con le gambestese, lei rannicchiate; ma l'incanto erarotto, e non era facile riformarlo, per

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quanto lo desiderassero. Né l'uno nél'altra si decideva a fare un gesto. Bube,innervosito, finì con l'accendersi unasigaretta; Mara strappò un filo d'erba ecominciò a mangiucchiarlo.

Non riuscivano a parlare. Il ricordodi quello che era accaduto liparalizzava. Oh, che confusione avevanella testa lei! I pensieri le tumultuavanodentro, ma non erano veri pensieri:informi, indefiniti, si succedevano senzatregua, stordendola.

Poi Bube, con un gesto sbadato,lasciò cadere la cenere calda sulginocchio di Mara. «Oh, scusami» disse;lei per tutta risposta lo guardò. Sibaciarono. Fu un bacio rapido, ma dopoessersi staccati continuavano a

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guardarsi: lei non provava piùimbarazzo, e ora avrebbe potuto farequalsiasi cosa; ma voleva che fosse lui acominciare. Egli la afferrò per lebraccia; e la spingeva giù; la spingeva einsieme la sorreggeva: finché lei sitrovò supina. Allora chiuse gli occhi,invitandolo al bacio.

Egli la baciò parecchie volte: ognivolta premendo più forte le labbra suquelle di lei. Le schiacciava il viso; elei sentiva sotto la nuca il duro dellaterra e la sporgenza aguzza d'unsassolino, ma anche il dolore simescolava alla dolcezza del baciofondendosi in un'unica sensazione divoluttà. Soffocava, anche; le pareva cheil cuore le scoppiasse: finché lo

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respinse, ma per riabbracciarlo subitodopo e stringersi tutta a lui. Ora eranocoricati di fianco; di nuovo lei sentivamale, a un braccio, a un orecchio; matutto si fondeva nella voluttà. «Oh…amore» disse alla fine, tornando ariversarsi supina; e certo, se lui avessevoluto prenderla, avrebbe potuto farlo,perché lei era come senza forze.

S'erano seduti sulla proda. Ai loropiedi, un'ape svolazzava intorno a uncespo di minuscoli fiori azzurri.

«Lo sai che ho un alveare?» disseMara.

«Sì, ho visto l'arnia vicino al forno.»«Quando sono in giro per i campi e

vedo un'ape, mi domando sempre: "Saràuna delle mie?" Una volta, un'ape, ho

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cercato di seguirla. Sul serio: le saròstata dietro un'ora almeno. Volevovedere dove andava. Ma quando si furimpinzata volò via alta e non la vidipiù.»

«Questa qui non è certo tua.»«Eh, no» ammise Mara ridendo. «Non

può essere venuta così lontana. Quantosarà lontano di qui il mio paese?»

«Mah. Un trenta chilometri.»«Dimmi: tu ci credi al destino?»«Che intendi dire?»«Al destino che ci ha fatto

incontrare.»«Sono state… le circostanze» disse

Bube. Cercò di spiegarsi meglio: «Io èper un caso che non sono andato coipartigiani qui di Volterra… e sono finito

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invece dov'era tuo fratello… Perché, senon avessi incontrato Sante, non avreiconosciuto nemmeno te.»

«E invece noi due ci si dovevaincontrare per forza». Lo guardava: «Epensare che siamo così diversi. Vogliodire, tu sei bruno e io bionda… anchegli occhi, tu li hai neri, mentre io li hogialli… Come ho fatto a piacerti conquesti occhi gialli?»

«Prima di tutto, non sono gialli…semmai verdi. E poi, vuoi che te lodica? Sono stati proprio gli occhi che mihanno fatto innamorare.»

«Dimmelo un'altra volta.»«Perché te lo devo dire un'altra

volta?» Aveva paura che lei locanzonasse. «Le cose, mica c'è bisogno

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di ripeterle.»«Oh, Bubino, perché non vuoi farmi

contenta? Non lo sai che gli innamoratile cose se le ridicono centomila volte?»

«Quali cose?»«Ti voglio bene, ti amo, sei tutta la

mia vita, sei come un sogno per me.Giusto, queste cose mica me le haiancora dette. Dimmele, su. Dimmi: tivoglio bene. Anzi, no, prima dimmi: tiamo». Bube stava zitto. «Ma alloraBubino non è vero che mi ami.»

«Ma sì che è vero.»«E allora dimmelo.»«Ti amo» fece lui spazientito.«Oh, no, Bubino, non così. Me lo devi

dire col cuore. Ecco, così come te lodico io: Ti amo…» Ma non lo disse col

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cuore, piuttosto con malizia e civetteria.«L'hai detto come l'ho detto io.»

«No. Io l'ho detto col cuore. Senticome l'ho detto: Ti amo… ti amo, Bube,caro… ti amo, ti amo…» La sua voce siera fatta tenera; ma lei fingeva di esserecommossa; in realtà le veniva da ridere,e anche provava soddisfazione, alpensiero di come le riusciva benerecitare la parte dell'innamorata. «Oradevi dirmelo te, tante volte quante te l'hodetto io.»

«Ora non mi viene» disse Bube cupo.«Oh Bubino che dolore m'hai dato.»

«Senti, Mara…» ma non disse altro.Tirò fuori una sigaretta. «Ecco come fa:si mette a fumare e alla sua Mara non cipensa più. Ciao, Bubino: io ti lascio;

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addio.»«Dove vai?»«Via, perché sei cattivo. Via per

sempre, sai? E così tu rimarrai solo,cattivo Bubino…» Bruscamente eglidisse: «Smettila di far storie… Vieniqua.»

Lei si fermò, ma senza tornareindietro. Bube si alzò e la raggiunse:«Dove avevi intenzione di andare?» Aun tratto lei si voltò e scoppiò in unarisata:

«Giù al capanno. Perché mi è venutafame, una fame da lupi! Devi esserestato tu» aggiunse languidamente «chemi hai fatto venir fame… Mi hai baciatotanto…»

Egli si turbò subito, l'abbracciò, si

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curvò su di lei; le cercava la bocca, malei gli sfuggiva.

«No, Bubino, no; ora no; ora basta»diceva in tono abbandonato, e lui sentivacrescere il desiderio. La strinse; lei sidibatteva; a un tratto esclamò: «GuardaLidori». Egli si affrettò a lasciarla.

«Non è vero, non c'è nessuno, ma ioho una gran fame e me ne vado amangiare» e così dicendo si mise acorrere giù per la discesa. Bube dopo unpo' la seguì.

C'erano rimaste due fette diprosciutto; Mara spezzò il pane ecominciò a mangiare. Mangiava davverocome un'affamata, dando un morso alprosciutto e uno al pane; e intantoguardava Bube con tenerezza e ironia.

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Egli s'era ricomposto, faceva le cosecon la calma abituale Scocciò un uovopicchiandolo contro la ringhiera delletto, e lo bevve rovesciando la testaall'indietro. Si pulì la bocca col dorsodella mano e buttò via il guscio. Diedequindi un'occhiata giù nella strada:

«È curioso che Lidori non sia ancoravenuto… Aveva detto che all'una almassimo sarebbe stato qui».

«E adesso che ore sono?»«Ieri sera mi dimenticai di caricare

l'orologio… Ma dev'essere tardi.Saranno forse le due.»

Quando ebbe finito di mangiare, Maradisse:

«Ora Bubino voglio dormire un po'perché sono stanca. Non far rumore, ti

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prego.»Egli fumò una sigaretta seduto sullo

scalino, poi si alzò; e rimase fermo aguardarla, rannicchiata sul letto. Dinuovo il desiderio lo invase, con lastessa intensità di prima, quando lei loaveva eccitato con la sua ritrosia.Cautamente, senza far rumore, si stese alsuo fianco. Gli sembrava, dallaregolarità del respiro, che dormisse…ma ecco, lei lo guardava, con gli occhispalancati.

«Mara» mormorò, e cominciò adaccarezzarle il fianco. «Mara, tesoro…»Lei continuava a guardarlo, con un'ariameravigliata che ne accresceva ilfascino… Rimase a fissarla incantato,poi le schiacciò il viso con un

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lunghissimo bacio.«Perché m'hai svegliato?» disse lei.Egli la guardava, continuando ad

accarezzarle il fianco, poi scese piùgiù…

«Che fai?» disse lei, ma non in tonodi rimprovero, anzi. Mara non eraeccitata, voleva solo provare il potereche aveva su di lui; e quando egli ebbeperso del tutto la testa, lo frenò: «No,Bube, no… Non bisogna farlo… Nonsiamo ancora sposati.»

Bastò questa ripulsa perché eglitornasse in sé. «È vero… non bisognafarlo» disse. Si staccò da lei; si alzò dalletto; andò a sedere al sole.

Lei lo raggiunse:«Sei in collera con me?» disse

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prendendogli la mano.«No, Mara, no, Io… scusami di

prima, ma avevo perso la testa. Hairagione tu, non bisogna…» Arrossì enon fu buono di continuare.

«Bube caro» disse lei appoggiandoglila testa sulla spalla.

E di nuovo conobbero le dolcezzedell'amore tenero e affettuoso.

L'aria nitida era spazzata da folate divento. E, con le folate, arrivavanoscrosci di musica da ballo.

Mara si riscosse:«Da dove viene, questa musica?»«Da Iano, immagino» rispose Bube.

«E un paese la dietro» e indicò i poggidi fronte già profondamente corrugatidall'ombra.

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«Peccato che non ci si possa andare»disse Mara dopo un momento.

«Dove?»«A questa festa da ballo.»«Io tanto non potrei ballare… non

sono buono» confessò Bube arrossendo.«Oh, ma t'insegnerei io.»«Temo di esser poco bravo per queste

cose» disse ancora Bube.«È facile, invece… Anche io, prima,

non sapevo… ho imparato quest'inverno.Prima, c'era la guerra, e non se nefacevano feste da ballo. Quest'anno,invece, abbiamo ballato tre volte:l'ultimo dell'anno, per l'Epifania el'ultimo giorno di carnevale… E io hoimparato subito la prima volta. Èdivertente ballare, sai? Dì un po': ora

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che siamo fidanzati, non me lo proibiscimica di andare qualche volta a ballare?Perché lì a Monteguidi non ci sono altrisvaghi…» Bube non diceva nulla, maaveva l'aria contrariata. Allora Mara glidisse: «Come sarebbe bello ballare io ete! Tutti direbbero: che bella coppia!Perché siamo una bella coppia, non tipare? Io bionda e te bruno… e anchecome altezza siamo giusti, perché io nonsono tanto piccola e te non sei tantoalto… A volte si vedono di quellecoppie che lei, magari, è piccina piccinae lui, invece, uno spilungone. Oppureche sono alti uguali, e anche quello,mica sta bene». Gli accarezzò la testa:«I capelli li abbiamo brutti tutti e due,sembrano stecchi…» si prese un ciuffo

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dei suoi: «Ma è meglio così, non tipare? Altrimenti, se io li avessi belli ete no, saresti invidioso; oppureall'inverso…» e si mise a ridere. Masubito dopo un pensiero molesto dovetteattraversarle la mente: «Dimmi la verità,Bube: credi che dovrai rimanere moltotempo nascosto?»

«Eh» fece Bube, incerto. «Perl'appunto anche questo fatto di Lidoriche non è tornato… Non vorrei chefosse successo qualcosa.»

«Ma quanto tempo, dimmi? Un mese?O di più ancora?»

«Eh… chi lo sa. I compagni, certo,cercheranno di mettere a posto lafaccenda…»

«Ho capito» fece Mara tristemente.

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«Tu non ci speri più che la cosa si possaaccomodare con facilità. Pazienza»disse con un sospiro. «Purché vada afinir bene… Oh, Bubino, scusa se te lodico: ma c'era proprio bisogno che ticacciassi in questo guaio? Che te neimportava di quel prete e di quelmaresciallo? Non potevi lasciarliperdere?» Egli non rispose nulla e leicontinuò: «Ora ce ne potremmo andarein giro tranquilli… potremmo andarcenea spasso insieme, o a ballare…»

«Be', vedrai che le cose siaggiustano» la rassicurò Bube; ma iltono non era convinto. E come sevolesse farsi perdonare che per colpasua erano costretti a star nascosti: «Perquella borsetta che ho promesso di

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regalarti… vuol dire che ti darò i soldi ete la comprerai da te».

«Oh, grazie, Bubino». Gliel'avevachiesta la mattina, mentre stavano sedutisulla proda; gliel'aveva chiesta così,perché c'era capitato il discorso; ma nonche le importasse molto. Ora poi, che leerano venuti i pensieri, non glieneimportava più affatto.

Bube aveva già messo mano alportafoglio:

«Quanto credi che ti ci vorrà?Duemila lire? Tremila?» e faceva l'attodi darle tre biglietti azzurri

"Mette mano al portafoglio con lastessa facilità con cui mette mano allarivoltella", pensò Mara sgomenta. «Mati pare?» gli disse. «Riponili nel

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portafoglio, ora non saprei nemmenodove metterli. Ma poi, se devi staretanto tempo lontano, ne avrai bisognotu… non te ne devi privare per darli ame. Mi hai già comprato le scarpe, èanche troppo. Sai che ti dico? i soldi lispendi con troppa facilità… ti comportiproprio come un ragazzo Ma se davverohai intenzione di prender moglie,bisogna che diventi una persona seria.»

Bube stette zitto. Ma era diventatonervoso; tirò fuori il pacchetto dellesigarette, sfilò l'ultima; accartocciò ilpacchetto vuoto e lo scagliò via.

«Sei rimasto senza sigarette? Alloraquesta serbala per dopo» e fece l'atto dilevargliela.

Egli reagì:

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«No, la voglio fumar subito».L'accese e si mise a fare una tirata dietrol'altra.

«Sei arrabbiato perché non hai più dafumare… o per quello che t'ho detto?Ma è vero che in certe cose sei sempreun ragazzo… un ragazzo sventato» e loaccarezzò sulla guancia.

Egli ebbe un moto d'insofferenza:«Non sono un ragazzo… Credi che

abbia avuto una vita facile? A undicianni, mi toccava già andare al lavoro.»

«Eppure in certe cose sei sempre unragazzo. Altrimenti non ti ci sarestimesso in questo guaio… Ma non farequella faccia! Io lo dico per il tuo bene.E poi Bubino io voglio essere sinceracon te… e non nasconderti mai nulla di

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quello che penso. E tu devi fare lostesso con me. È proprio questo il bellodi volersi bene» aggiunse dopo unmomento: «Che c'è una persona allaquale si può dire tutto… Io, vedi, non misono mai potuta confidare connessuno… se avevo qualche dispiacere,dovevo tenermelo per me. Neanche conmia madre, ho mai avuto confidenza.Con le amiche, poi, dicevo sempre ilcontrario di quello che pensavo… E semi sentivo infelice, allora sì che mifacevo vedere allegra. Perché sono tantoorgogliosa, sai? e non volevo esserecompatita da nessuno… volevo anzi chetutti mi invidiassero. Mentre con te… iprimi tempi, veramente, non ero sinceranemmeno con te… Ora invece provo il

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bisogno di dirti tutto, ma proprio tutto,sai, Bubino? E tu, lo stesso, devi sempreconfidarti con me. Oh, ma tu non mi stainemmeno a sentire!»

«Ma sì che ti sto a sentire!».«Lo vogliamo fare questo patto?»«Che patto?»«Di dirci sempre tutto… di non

nasconderci mai niente.»«Ma sì, facciamolo.»«Allora dimmi che hai in questo

momento.»Bube la guardò:«Sto in pensiero, ecco che ho. Mi

domando che cosa è successo a Lidori.»«Credi proprio che gli sia successo

qualcosa?»«Per forza: sennò era tornato.»

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Per un po' rimasero in silenzio. Poilei gli disse:

«Appoggia la testa qui sulla miaspalla». Egli la guardò sorpreso, ma finìcon l'obbedire. «Ecco: così». Gli baciòi capelli. «Stiamocene così, senzaparlare. Non ci stai bene così?» Gliaccarezzava i capelli: «Io vorrei starsempre così…» Egli cercava diabbracciarla: «No, stai fermo». Egli sirimise quieto. «Ecco, così; rimaniamocosì. Non parlare.»

E se lo tenne con la testa stretta controla spalla, accarezzandogli lievemente icapelli, dentro si sentiva struggere, enon sapeva nemmeno lei se era unpiacere o una pena.

Il sole era calato dietro una grande

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nube oscura acquattata di là dallecolline; e il paesaggio eraimprovvisamente scolorito, e l'ariastessa sembrava divenuta smorta.

Mara si riscosse:«Come passa presto il tempo»

sospirò. «Ma che hai? ti seiaddormentato?» e le venne da ridere.

Egli si riscosse:«Sì, quasi quasi… mi addormentavo.

Ci stavo così bene» aggiunseguardandola con tenerezza.

«Bube.»«Mara.»Erano tutt'e due commossi.«Io ti amo, Mara.»«Anche io ti amo, Bube.»Una volta sulla strada, Mara si mise

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le scarpe; poi lo prese a braccetto.Camminavano in silenzio. Il paesaggiointorno non cambiava: sempre gli stessiappezzamenti coltivati dalla parte deltorrente, e il declivio brullo dall'altra.

«A Volterra come si chiama la stradadove vanno a passeggio i fidanzati?»domandò Mara.

«Il Corso» rispose Bube.«È una strada grande?»«No, tutt'altro… Volterra è una città

vecchia, le strade sembrano tuttevicoletti. Di questa stagione però si puòandare sul viale… quello è bello,largo… ci sono gli alberi, lepanchine…»

«Sai che ho una gran voglia di bere?Tutto quel prosciutto, m'ha fatto venir

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sete.»«E io ho voglia di fumare. Facciamo

una cosa: arriviamo al ponte sull'Era: lìc'è una bottega dove vendono anche lesigarette…»

Il ponte era vicino, ma loro perserotempo per strada, perché Mara volle cheBube montasse su una pianta a coglierlele ciliege. Bube veramente avevascrupolo a farlo, ma lei lo convinsedicendo che i contadini non ci guardano,alle ciliege.

«Fosse l'uva, allora sì, perché cifanno il vino; ma della frutta, non sannoche farsene.»

La campagna era ormai livida.Quando si rimisero in cammino, giàqualche lume punteggiava l'oscurità.

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«Ecco, è lì la bottega» disse Bubeindicando un gruppo di case. Tirò fuoridue fogli da cento: «Prendimi sigaretteNazionali… se non sono in vendita,compra le americane. E tu, beviti unagassosa.»

«No, io voglio una bibita come quellache abbiamo preso a Colle.»

«Un'amarena, allora.»Non c'era nessuno nella bottega.

«Padrone» disse forte Mara.Dalla porta dietro il banco sbucò una

donna asciugandosi le mani algrembiule.

«Che cosa vuole?»«Sigarette. Nazionali.»«Non ci sono fino a domani.»«Allora… americane.»

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La donna aprì il cassetto e porse aMara un pacchetto di americane.«Centosettanta» disse.

Mara aveva già adocchiato labottiglia dell'amarena sullo scaffale, maebbe paura che costasse più delle trentalire che le restavano. «Potrei avere unbicchier d'acqua?»

La donna si chinò, sciacquò unbicchiere di vetro grosso.

«Si accomodi» disse. E, mentre Marabeveva: «Ma lei da dove viene? Nonl'avevo mai vista.»

«Sono di fuori» rispose pronta Mara eperché la donna non le facesse altredomande, salutò e uscì.

Bube saltò giù dalla spalletta e levenne incontro.

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«Le hai trovate le sigarette.»«Sì. Ma americane».«Quanto hai speso?»«Centosettanta lire. Amarena

compresa» mentì Mara. Egli si accesesubito una sigaretta: la punta infuocatabrillò vividamente, e dalla bocca gliuscì un gran getto di fumo bianco.«Andiamo» disse.

«No, stiamo un po' qui». Si miseseduta sulla spalletta. «Come si chiamaquel paese?»

«Non è mica un paese: sono tre oquattro case.»

«E come mai c'è una bottega? È anchegrande; più della nostra di Monteguidi.»

«Sai, serve tutti questi poderi. Per icontadini di qui, sarebbe troppo

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scomodo andare a Volterra.»Non si sentivano rumori; ma alcune

finestre erano illuminate. Mara si divertìa contarle: una, due, tre, quattro, cinque.Le ricontò poco dopo, ed erano quattrosoltanto.

«Che ore saranno?» domandò a Bube«E chi lo sa?«Possibile che vadano già a

dormire?»«Eh, sai, in campagna sono abituati ad

andare a letto presto.»«Guarda, Bubino: s'è spenta un'altra

luce.»«Anche noi, sarà meglio andare. Se

Lidori c venuto e non ci trova…»«Ma lo avremmo visto passare.»«Be', può essere passato anche da

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un'altra parte.»Camminando Mara si voltò a guardare

indietro parecchie volte, finché la stradafece una curva, e le luci scomparvero.Pochi minuti dopo salivano su per ilviottolo. Dal capanno si staccò unaforma scura: ma non era Lidori.

Tirava vento, ma non faceva perniente freddo. Nuvole bianchepassavano basse e veloci sulla sua testa,annerendo il disco della luna.

Lontano si vedevano dei lumi, isolatie a gruppi. Il loro scintillio tremolava,tremolava senza posa; e Mara si sentivasola e sperduta.

"Ma quando torna Bube?" Bube eraandato ad accompagnare il cugino; ilcugino era un ragazzo e forse aveva

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paura a fare la strada da solo. «Loaccompagno fino al ponte» aveva dettoBube; ma se lo avesse accompagnatosolo fino al ponte, sarebbe già tornato.«Te intanto mangia qualcosa» le avevaanche detto Bube; ma sì, lei non sentivafame, non le andava né il prosciuttoavanzato dal giorno, né la carne portatada Arnaldo. E poi non ci si vedeva, nonera possibile nemmeno trovar la roba.

"Dio mio, che cosa succederà,adesso?" pensava Mara sentendocrescere la pena che aveva dentro.Cercava di farsi un'idea di quello chesarebbe potuto succedere, ma non ci siraccapezzava: la politica, non era unacosa da donne. Lidori era stato fermatodai carabinieri mentre usciva dalla casa

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di Bube; qualcuno aveva visto, ed eracorso a riferire in sezione; i compagniallora avevano preso una macchina ederano andati a Pisa; e a Pisa s'eranoarrabbiati moltissimo per l'imprudenzadi Lidori… Questo era ciò che avevariferito Arnaldo; e aveva ripetuto laraccomandazione che stessero nascosti,che per carità non si facessero vedere ingiro…

Ma perché, se dopo tutto ilmaresciallo di San Donato era unfascista? Forse che i fascisticomandavano di nuovo? No, i fascistinon comandavano più, ma era lo stessoun guaio quello che Bube avevacombinato, ammazzando il maresciallo eil suo figliolo.

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Mara rinunciò a capirci qualcosa.Intuiva solo che era una faccenda grave,una faccenda che chissà per quantotempo li avrebbe costretti a star nascostio a star divisi… Perché, a quanto lepareva di aver capito da una frase diArnaldo, Bube sarebbe dovuto andarlontano, per evitare il pericolo di esserearrestato.

Finalmente scorse un'ombra chesaliva per il viottolo.

«Sei tu?»«Sì» rispose la voce di Bube.«Ma dove sei andato, che non tornavi

più?»«Qui al ponte dell'Era» rispose Bube.

E Aggiunse: «S'è perso un po' di tempoalla bottega. Ho dato i soldi ad Arnaldo

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perché si bevesse una gassosa… glieneho fatte comprare due anche per noi.Almeno abbiamo da bere mentre simangia.»

«Io non ho fame» disse Mara.«Ma qualcosa devi mangiare». Entrò

nel capanno, e accese tre o quattro ceriniper trovar la roba; tornò col pane, ilprosciutto e la carta dov'era involtata lacarne. «Che cosa vuoi: prosciutto ocarne?»

«Voglio pane solo» rispose Mara. Edera vero: non aveva voglia di nulla, solodel pane. Masticando adagio, ne mangiòun pezzo, quindi si alzò e disse: «Iovado a buttarmi sul letto.»

«Fumo una sigaretta, poi vengoanch'io.»

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Lo sentì che si sdraiava accanto a leie si accomodava sotto la coperta.

«Bube.»«Che c'è?»«Non mi dai nemmeno un bacio?» Lui

s'era coricato supino, lei invece s'eramessa su un fianco, voltata verso di lui econ le gambe rannicchiate. Con unginocchio, gli toccava l'anca.

Lo sentì girarsi, sfiorarla appena conle labbra, e rimettersi supino.

«Bube.»«È tardi, Mara… Cerca di dormire.»«Che cosa ti ha detto veramente quel

ragazzo?»«Lo hai sentito, no? C'eri anche tu

quando ha raccontato di Lidori, diBaba…»

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«Ma dopo, quando lo haiaccompagnato.»

«Niente, mi ha detto. Che volevi chemi dicesse?»

«Non sarete mica stati zitti durantetutta la strada.»

«Si è parlato… della cosa.»«Ricordati che devi dirmi la verità.

Me lo hai promesso, che non mi avrestimai nascosto nulla.»

«Lì a Pisa… vogliono che miallontani per un po'. Forse verranno aprendermi domani con una macchina.»

«E dove ti porteranno?»«Mah, non so… forse mi faranno

andare all'estero.»«All'estero?» disse Mara sgomenta.«Sì, ma solo per un po' di tempo…

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tanto, dicono, ci sarà presto un'amnistia,e così, potrò riprendere a circolare. Su,non pensarci, e dormi.»

«Ma allora, se vengono a prendertidomani… questa è l'ultima sera chestiamo insieme». Bube non disse niente.«Non vuoi abbracciarmi?» Ma lui stavainerte e duro, come se non avessesentito. «Bube.»

«Che vuoi?»«Perché non mi abbracci? Potremmo

dormire abbracciati…»Bube non rispose. «Se non mi vuoi

abbracciare, significa che hai qualcosa.»«Niente ho. Voglio dormire.»«No, tu hai qualcosa… qualcosa

contro di me.»«Perché dici questo?»

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«E allora abbracciami. Possibile chetu non abbia più voglia diabbracciarmi?»

«Ma che dici? Ne ho anche troppa, divoglia…» Stette un momento in silenzio,poi disse: «Visto che dovrò andarelontano… e che dovremo stare divisichissà per quanto tempo… puoiriprenderti la parola. Voglio dire, nonsei più in obbligo di considerartifidanzata con me. Ti ridò la tua libertà.»

«Allora è vero che non mi vuoi piùbene.» Lo sentì che si sollevava su unfianco:

«Ma non capisci che è perché tivoglio bene che ti dico così? Io ti vogliobene, Mara… e vorrei farti felice… mase questo non è possibile, allora, è

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meglio che non pensi più a me. Potraitrovare un altro, che ti farà felice.»

Più che dalle parole, lei fu colpita daltono della voce: così serio, così triste.Rimase zitta, trattenendo il respiro… Lepareva di non poter più parlare, némuoversi…

«Mara, dormi?» domandò lui dopomolto tempo.

Lei aveva quasi perduto la coscienza;ebbe un soprassalto; subito dopo loabbracciò stretto. «Bube» gli disse;«Bube, amore mio». E gli impresse lelabbra sulla guancia, disperata.

Lui non diceva nulla, e nemmeno labaciava, ma si stringeva a lei con tutta laforza, come se solo così gli fossepossibile sopportare la propria pena.

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«Oh, Bubino, quanto siamodisgraziati!» singhiozzò Mara.

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Capitolo 4

La calotta boscosa che copriva lasommità del poggio era solo l'estremaappendice di una grande macchiadigradante verso l'Era: come Marascoprì la mattina dopo, quando Bubes'internò per un viottolo, uscendo, allafine, in un'ampia radura, da cui la vistaspaziava sulla vallata. Simili a radicisporgenti fuori del terreno, le propagginiboscose scendevano verso la pianacoltivata, in mezzo a cui s'intravedeva illetto sassoso del fiume.

«Vedi che stamani non ho avuto pauraa venire con te in mezzo al bosco?» glidisse Mara ridendo. «Tanto ormai, dopo

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quello che è successo stanotte…»«Ma ora sarà meglio tornare indietro.

Potrebbe venir qualcuno…»«Meglio, se viene e non ci trova. Così

se ne torna via. Antipatici» aggiunsedopo un momento. «Vengono adisturbarci, mentre si sta così benesoli… Vero che ci stai bene solo conme?»

«Sì» rispose Bube. Era serio ecommosso. «Purtroppo, chissà quantodovremo star lontani…»

«Zitto» gli disse amorosamente Mara.«Non parlarne. E poi, io spero ancorache non sia necessario. Ci ho pensatostanotte, e m'è venuta un'idea.»

«Quale?»«Che ti potresti nascondere a casa

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mia. Voglio dire, non proprio in casa,nella chiusa che abbiamo vicino altorrente.. In una capannina di fraschedove stava nascosto Sante quando eraanche lui renitente alla leva.»

«Ma non è più la stessa cosa» disseBube sconsolato. «Allora ce n'eranotanti nascosti… mica potevanoricercarci tutti. Mentre ora ci sonosoltanto io. No, è impossibile» aggiunsecome parlando tra sé. «Bisogna chevada via, lontano.»

«Però oggi non devi partire. Anche seti vengono a prendere, non devipartire… Partirai domani. Perché iovoglio stare con te un altro giorno… eun'altra notte.»

Egli la abbracciò con impeto, ma lei

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non l'assecondo Non era questo chevoleva: era sazia di baci.

«Bube.»«Dì.»«Devo domandarti una cosa. Tu gli

vuoi bene ai tuoi?»«Che discorsi. Certo che gli voglio

bene.»«Sì, l'avevo capito» disse Mara, ed

era come delusa. «Ma vuoi più bene aloro o a me?»

«Che c'entra. Il bene che voglio a miamadre e a mia sorella… è un'altra cosa.Non è mica l'amore.»

«E a tuo padre, gli volevi bene?»«Mio padre, che vuoi, non l'ho

nemmeno conosciuto. morto che avevotre anni. Pensa che guaio è stato per la

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mia famiglia… Non so come ha fattomia madre a tirarci su. Andava a lavare»aggiunse di lì a un momento. «Si sfiniva,a forza di far bucati. E poi c'è chi simeraviglia se ho le idee che ho. Macome? La società deve permettere cheuna povera donna si sfianchi dalla faticasolo perché ha avuto la disgrazia dirimaner vedova?»

«Non parliamo di queste cose, ora»disse Mara, dimenticando che era statalei la prima. «Parliamo di me e di te.»

«E invece ne voglio parlare. Crediche non lo sappia quello che certa gentepensa di me? Anche Memmo, che pure ècomunista anche lui. Mi ha fatto unarabbia tale, l'altro giorno… Aveva quasil'aria di dire che se è successo quel fatto

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a San Donato, la colpa è stata mia. Fapresto a parlare, Memmo» aggiunsedopo un momento. «Lui, la miseria, nonl'ha mai conosciuta. È figlio di gente cheha i soldi. Ha studiato, ha preso ildiploma… Ma come volevi che miamadre potesse farmi studiare? Se amalapena riusciva a guadagnare unpezzo di pane per sfamarci. Io non homai avuto un giocattolo, mai un regalo…i dolci, in casa mia, non sono maiusati… Se qualche volta uno miregalava una cioccolata, o unacaramella, mi pareva di toccare il cielocon un dito…» Tacque, e si mise astrappare le foglie da un rametto cheaveva divelto.

«A che pensi?» gli chiese Mara dopo

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un po'.Bube rispose con un gesto di fastidio.«No, tu pensavi a qualcosa. Sai, io lo

vedo subito quando hai un pensiero… Telo leggo negli occhi.»

«Per forza pensavo… si pensa semprea qualcosa.»

«Allora dimmi a cosa.»«Ma niente…» A un tratto disse:

«Pensavo al prete Ciolfi».Non aggiunse altro.«Perché lo hai picchiato?»Bube la guardò sorpreso:«Perché era un fascista, no?»«Sì, ma prima t'eri messo d'accordo

con Memmo di accompagnarlo allecarceri… in modo da evitare che lopicchiassero.»

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«È vero, ma…» La guardò: «E poi,come dovevo fare? Mi avrebberogiudicato un vigliacco, se l'avessilasciato picchiare alle donne.»

«Come, alle donne?»«Furono le donne ad aggredirlo…

quella che era in corriera e alcunealtre… erano corse avanti, e ciaspettarono sulla rampa di Castello. Perdi più, andò anche a inciampare.»

«Chi? Raccontami per bene.»Bube, si vedeva, era restio, come se il

ricordo di quella scena gli dessefastidio; tuttavia disse: «Dalla rampa diCastello, si sale all'ingresso delcarcere… perciò eravamo quasiarrivati, e non era successo niente. Poi,lì, ci trovammo le donne. Forse si

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sarebbero limitate a urlargli che era undelinquente… ma lui s'impaurì… eallora, si vede, non guardò più dovemetteva i piedi e inciampò in unoscalino. E così, quelle ebbero modo didargli addosso. Io, ripeto, se non altroper il ricordo di quando ero ragazzo…Perché, lo riconosco, a me aveva fattodel bene.»

«Allora non dovevi picchiarlo»dichiarò Mara.

«Ma io non volevo! Hai visto, no?anche quando la corriera si fermò a SanLazzero… che quelli intendevano saliree io gliel’ho impedito…»

«E così dovevi fare anche dopo.»«Sì, ma vedi… a volte uno si trova in

una situazione che non può agire

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diversamente. Prendi quello che èsuccesso a San Donato…»

«Anche lì, hai fatto male» disse Mararecisa.

«Ma come? Dovevo lasciare che ilmio compagno rimanesse invendicato?Perché il primo a sparare è stato lui:quel delinquente del maresciallo…»

«Ma il maresciallo l'avevateammazzato; perché, allora, hai volutoammazzare anche il figliolo?»

Bube la guardò smarrito:«Sai, in quei momenti lì… uno mica

ci riflette sulle cose. Però da te non mel'aspettavo» esclamò irato. «Chem'abbia dato contro Memmo, lo possoanche capire: perché lui dice di esseredei nostri, ma mica è vero. Lui non ha

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sofferto. Lui non l'ha conosciuta, lamiseria! Ma tu, sì; tuo padre, l'hannoperseguitato; e tuo fratello, l'hannoassassinato, questi vigliacchi!»

Era scattato in piedi, e ora tremavatutto; gli occhi gli s'erano intorbidati;sembrava che cercasse qualcosa oqualcuno su cui sfogare la propria ira.

«Io li ammazzo tutti, hai capito?Tutti!»

«Oh, Bubino, non voglio che tu dicacosì!»

«E io lo dico, invece; lo dico e lofarò, anche…»

«Allora significa che non mi vuoibene. Che non te ne importa niente dime…»

Più tardi, quando ebbero fatto la pace,

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Mara gli disse:«Tu Bubino non mi potrai mai

nascondere niente. Perché io lo capiscoquello che pensi… è come se ti fossidentro al cuoricino»

«Ma io non ti nascondo niente.»«E allora perché non me lo dici

quello che hai dentro al cuoricino?» Gliposò l'orecchio sul petto: «Toc toc toc»fece. Si rialzò ridendo: «Ecco quelloche dice il cuoricino: toc toc toc! E losai che vuol dire toc toc toc?». Ritornòseria: «Vuol dire… io amo tanto la miaMara… e non intendo darle piùdispiaceri… e perciò non farò piùquelle cose… altrimenti mi toccheràandare via lontano… e io invece vogliostare sempre con lei!».

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«Sì, Mara, è così: è proprio quelloche penso» disse Bube commosso.

«Allora me lo prometti?»«Che cosa?»«Che non farai più… quelle cose.»«Te lo prometto» disse Bube. Lei gli

diede un bacio in premio.Dopo, parlarono del futuro. Quando

fosse venuta l'amnistia, lui sarebbetornato, e subito si sarebbero sposati…«E dove andremo a stare?»

«Mah… nel posto dove troverò unlavoro» disse Bube. «Io però preferireiandar via da Volterra.»

«Sì, è meglio andare in un postonuovo» approvò lei. «In un posto dovenon ci conosca nessuno. Perché io e te sista bene soli, vero, tesoro? E di tutta

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l'altra gente non ce ne importa nulla.Però, non rimarremo sempre soli…Avremo un bambino… Tu che cosapreferisci, un bambino o una bambina?»

«Non sono mica cose che si possanovolere noi» osservò Bube.

«E io invece sono sicura che se vorròuna bambina, avrò una bambina… Ma iopreferisco un maschio: un maschiettoche ti somigli.»

«E io una bambina: una bambina cheti somigli.»

«Oh, Bubino, come sarà bello! Pensa,una casina tutta per noi… e io la terròsempre in ordine, perché sono brava,sai? a fare le faccende… E ti prepareròdella buona roba da mangiare… perchésono brava anche in quello, cosa credi?

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Oh, Bubino, io ti voglio rendere felice,tanto felice!»

«Ma anche tu devi essere felice.»«Io sarò felice se riuscirò a rendere

felice te.»«E io…» cominciò Bube, e avrebbe

voluto dire qualcosa anche lui, mas'impappinò e non gli riuscì diconcludere la frase.

Mara si mise a ridere:«Oh, Bubino, sono più brava io a fare

i discorsi! Ma l'ho capito lo stesso cosavolevi dire. E allora, ascoltami: quandosaremo sposati, non saremo più due, mauna persona sola. Saremo feliciinsieme… e se avremo qualche dolore,lo avremo insieme. Per esempio, se tifarà male un dente, anche io sentirò male

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a un dente… Oh Bubino, ma tu ti annoicoi miei discorsi. E hai ragione, sai…Dice tante sciocchezze la tua Mara…Ma non gliene devi volere. Perché sonosciocca, è vero, ma in compenso tivoglio tanto bene… mi sembra di nonpoterlo contenere il bene che ti voglio.»

Poi parlarono di quello che erasuccesso la notte. Che notte lunga erastata! Si addormentavano, sisvegliavano, tornavano adaddormentarsi… «Bube, davvero possostar tranquilla?»

«Ma sì.»«Eppure… ci siamo amati.»«Sì… ma non è successo nulla.»«Oh, Bubino, ma perché diventi

rosso! Ormai è come se fossimo marito

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e moglie…»Lo vennero a prendere alle due del

pomeriggio. Avevano appena finito dimangiare. Bube chiuse in fretta lo zaino,lo afferrò per le cinghie e scese per ilviottolo. Mara gli corse dietro, seguitada Arnaldo. Al volante c'era ungiovanotto col berretto, mentre un uomodi mezza età e di media statura, piuttostogrosso, col cappello calato sugli occhi,camminava su e giù sul bordo dellastrada. Vedendo Bube, gli disse:«Andiamo, presto» e Bube salì inmacchina senza nemmeno pensare asalutarla. Si diedero un bacio attraversolo sportello. «Stai tranquilla; non tipreoccupare» ebbe appena il tempo didirle Bube. E l'uomo grosso: «Tu aspetta

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qui, non muoverti… La macchina tiverrà a prendere e ti riporterà a casa».Montò accanto all'autista; le rivolseancora la parola: «E se ti dovesserointerrogare, tu non sai nulla e non haivisto nessuno».

La macchina partì; e a lei rimase inmente l'espressione impotente erassegnata che aveva Bube… Erastordita. Tornò nel capanno. «Civorranno due ore almeno prima che lamacchina sia di ritorno» le disseArnaldo «è meglio che ti butti sul letto,sto di guardia io.»

Lei si buttò sul letto, ma non le riuscìdi dormire; o forse si addormentò ancheun poco, ma non se ne accorse. Poi simise sullo scalino con Arnaldo; e gli

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fece una quantità di domande, su Bube,sulla famiglia di Bube. E il ragazzorispondeva a tono, come se invece diavere quindici anni ne avesse venti oventicinque.

La macchina ricomparve.«Allora addio, Arnaldo; e grazie di

tutto.»«Addio, Mara» disse Arnaldo.

Improvvisamente la abbracciò e lestampò con foga due baci sulle guance.E a Mara le venne da piangere.

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PARTE TERZA

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Capitolo 1

Mara era tornata a casa volentieri. Lamadre, cosa insolita, era stata piena dipremure con lei: «Sarai stanca, Marina»le aveva detto subito dopo averlaabbracciata e baciata «ora ti scaldo unatazza di brodo». Lei era andata incamera sua, poi, senza un motivopreciso, era salita in camera deigenitori; dopo essere stata in casa diBube, e dopo aver passato due giorni inquel capanno, casa sua le apparivaspaziosa e piena di comodità. Poi lamadre l'aveva chiamata a bere il brodo;e poi era venuto di corsa Vinicio a dirleche la gatta aveva fatto quattro gattini.

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Andarono insieme a vederli. La gattaera stata sistemata in una cesta, e Mara afatica riuscì a distinguere le quattrobestiole che si arrampicavano sul dorsodella madre, la quale se ne stava buonae quieta. «Sai? Uno è grigio e gli altritre sono neri.»

«Sì? Allora noi terremo quellogrigio» disse Mara. Accarezzava i lorocorpicini con tenerezza.Improvvisamente Vinicio era scoppiatoa piangere: «Non voglio che liammazzino! Non voglio che liammazzino!» gridava. «Smetti, sciocco,chi vuoi che li ammazzi?»

«Babbo li vuol buttare nel pozzonero!» Mara allora lo aveva consolatodicendo che si sarebbero informati se

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qualche famiglia aveva bisogno di ungatto; uno, certamente, lo avrebbe volutola zia… Poi gli aveva dato un bacio e loaveva condotto fuori.

Il padre aveva lasciato detto che nonsarebbe tornato; e anche questo, chissàperché, fece piacere a Mara. Mentrecenavano, la madre le domandò se incasa di Bube era stata accolta bene.«Oh, sì, certo» rispose Mara. «Ma nondovevi starci una settimana?» insisté lamadre. «Oh, ma avevo detto così perdire» si affrettò a rispondere Mara.«Che vuoi che ci facessi a Volterra». E,per sviare il discorso: «Ti piacciono lemie scarpe? Me le ha regalate Bube.»

«Le avete comprate a Volterra?»«No, a Colle.»

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«Sono belle davvero. Ma devi tenernedi conto, altrimenti ti si sciupano subito.Le devi serbare per quando vai aColle». E, come se si accorgesse per laprima volta che la sua figliola era ormaiuna ragazza: «Ma se vuoi far figura, devistare pettinata.»

«È che i miei capelli non voglionosaperne di stare a posto. Sembranostecchi» e rise, imbarazzata.

«Storie. È perché non li curi. Li devilavare spesso e spazzolare forte…Anche io li avevo come te, ma io eroambiziosa, non sarei mai andata in girocoi capelli in quelle condizioni.»

«Ma tu li avevi morbidi, mamma, sivede anche da quella fotografia conbabbo…»

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«È che ne avevo cura» ripeté lamadre.

Poi Mara rigovernò, e la madre viavia le asciugava. Continuarono aparlare. Si vedeva che la madre eracontenta che lei fosse tornata.

Così Mara si sentiva quasi felice,mentre a letto aspettava diaddormentarsi. "Dove sarà Bube?" sichiese, ma si affrettò a scacciare quelpensiero. Era stanca, e allungava qua elà le gambe, gustando la morbidezza delmaterasso.

Dormiva sempre quando la madre leentrò in camera e spalancò la finestra:«Alzati, Mara, c'è da andare alla villa aritirare il bucato». E Mara si alzò, conla malinconica consapevolezza che per

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lei ricominciava la solita vita.La villa era a un chilometro dal

paese, su un cocuzzolo di fianco allastrada provinciale: ci si accedeva per unviale di cipressi che saliva ripido a zig-zag. Mentre tornava via con la cesta dipanni in capo, la fermò il fattore, perchiederle se il padre era in paese; maera una scusa per attaccar discorso erivolgerle dei complimenti. In passato,non le sarebbero dispiaciuti; ora lairritarono, troncò il discorso a mezzo econtinuò la strada.

La madre era già al lavatoio:insaponarono le lenzuola, e lepressarono dentro la conca. Poi lamadre tornò a casa, non senza averleraccomandato di sorvegliare il bucato.

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«Ma sì, lo so da me» rispose Maracon rabbia. Al diavolo il bucato! Cosagliene importava delle lenzuola dellacontessa?

Nel pomeriggio girellò per il paese;vide Liliana, la chiamò. Liliana stavasulle sue, e non mancò di scoccarlequalche frecciata maligna. Mara nonreagì, era semplicemente sconfortata.Pensare che il giorno prima era insiemecol suo amore; e ora era sola, o letoccava subire la compagnia di personeche le erano indifferenti, peggio, leerano odiose… "Sarà questione di pochimesi", le aveva detto Bube. Pochi mesi?Ma se lei non ce la faceva ad arrivare infondo alla giornata! Erano le quattro delpomeriggio, e Mara avrebbe sbattuto la

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testa nel muro, per la disperazione dinon saper che fare.

Tornò in casa, si mise ad aggiustare labretellina del reggipetto; ma lasciò amezzo il lavoro. Non aveva scopoquello che stava facendo. Uscì di nuovo,rientrò in casa; il tempo non le passavamai.

Arrivò il padre in bicicletta. Siabbracciarono; poi il padre, con unascusa, si appartò con lei: voleva saperedi Bube. Mara gli raccontò brevementequello che era accaduto: non disse, però,che erano rimasti soli durante la notte.

«Ma dove l'hanno portato?» chiese ilpadre.

«All'estero; Bube almeno mi ha dettocosì, che l'avrebbero fatto espatriare.»

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«Ho capito» rispose il padre. Cipensò un poco, poi disse:

«Sicuramente lo mandano in Russia».«In Russia?» fece Mara sgomenta.«In Russia, sì; e là stai tranquilla che

è al sicuro. Eh, al Partito lo sanno comefare». Era soddisfatto che Bube fossesfuggito alle grinfie dei carabinieri:«Gliel'abbiamo fatta sotto il naso»disse, come se fosse anche merito suo.

Dopo cena capitarono la madre diLiliana e una parente di Mauro. E lì,vennero fuori i soliti discorsi tra donne,sulla tale, che il marito la picchiava,sulla tal altra, che doveva farsiun'operazione, e su quell'altra ancora,che da tre mesi non aveva più lasciato illetto. A un certo punto la zia si rivolse a

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lei: «Beata te, Mara, che sei giovane enon hai pensieri. Eh, io glielo dicosempre alla mia Liliana: goditela lagioventù, perché quando avrai marito ticominceranno i pensieri e non avrai piùun giorno di pace». A Mara questasaggezza spicciola delle persone anzianeera sempre parsa insulsa e manierata:ora poi le faceva rabbia addirittura. Macome? I pensieri cominciavano soloquando una prendeva marito? Ma lei ipensieri ce li aveva ora; e magari sifosse potuta sposare con Bube! Lesarebbero importate assai lepreoccupazioni della vita, cos'erano maidi fronte a quell'unico bene, di stareinsieme con la persona amata?

Si affrettò a finir di rigovernare e

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andò a letto. Ma anche in camera learrivava il fastidioso chiacchiericcio diquelle streghe. "Bube, Bube mio". Oh,con che furore di desiderio ripensava aisuoi abbracci, ai suoi baci!

Si rovesciò bocconi, affondando lafaccia nel guanciale. Non ricordava ilmomento in cui era stata completamentesua: tutto era accaduto così rapidamente,e Mara, lì per lì, nemmeno se n'eraaccorta. No, erano gli abbracci, lestrette forsennate, che ricordava; e ibaci. I baci, soprattutto, quei baci lunghi,appassionati, in cui le sembrava che eglile suggesse l'anima. Quei baci che lalasciavano senza forza e senza fiato,spossata e soddisfatta…

Le donne se n'erano andate; dalla

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fessura della porta non passava più laluce; tutto era silenzio, in casa e fuori.Ma lei rimase a lungo sveglia, supina eimmobile, fissa nel pensiero dolorosodel suo amore perduto.

Diventò insensibile: quando il padre,di lì a due giorni, si sbarazzò dei gattinibuttandoli nel pozzo nero, non solo nonprovò dispiacere, ma quasi ne fucontenta. A Vinicio avevano detto che igattini erano stati dati a una famiglia diColle; ma lei, siccome il ragazzo laimportunava con le domande, gli rivelòbrutalmente la verità: «Stupido, credevidavvero che babbo li avesse portati aColle? Li ha buttati nel pozzo nero,invece». Il ragazzo ebbe una crisi didisperazione; e lei lo lasciò disteso

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sull'impiantito di cucina, che urlavacome un forsennato.

La domenica uscì con Annita. Comedi consueto, andarono a spassosull'unica strada del paese. Marasfoggiava le sue scarpe coi tacchi alti,ma questo non le dava nessun piacere.Aveva occhi solo per le coppie: cosac'era di più bello che andare a spassotenendosi abbracciati?

Lo disse a Annita, ma l'amica risposeche era un'usanza proprio stupida, quelladi andare su e giù per la strada delpaese; lei, se avesse avuto un fidanzato,si sarebbe rifugiata in qualche postosolitario. «Ma poi a me non mipiacerebbe stare fidanzata tanto tempo.Guarda quei due: ero piccina, e li

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vedevo andare insieme a braccetto.Saranno dieci anni che sono fidanzati.Che aspettano a sposarsi, dico io?» e simise a ridere sguaiatamente. Poi enunciòle sue idee intorno al marito: «Io sono dibocca buona, cosa credi? Per me, ilmarito, basta che sia maschio, poi nonstarei a guardare tanto per il sottile.Come dice il proverbio? Magari zoppo,magari gobbo…» Mara la guardò condisprezzo.

In compenso, Annita aveva una bellavoce. Non soltanto era intonata, ma cimetteva l'anima; sembrava un'altra,quando cantava.

Avevano oltrepassato le ultime case, esi erano fermate sull'argine di un campo.Annita si mise a cantare.

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Sola me ne vo per la città; passo trala folla che non sa; dove sei perdutoamore…

Mara ascoltava, rapita e angosciata.Di colpo la canzone aveva risvegliato lasua pena d'amore. Come la tristemelodia rispecchiava il suo statod'animo! Come le parole raffiguravanola sua situazione! Passo tra la folla chenon sa… Nessuno, nessuno sapeva lasua pena d'amore! Dove sei perdutoamore… Le veniva da piangere… il suoamore era lontano, forse perduto; e leiera sola, abbandonata, e il dolore lasopraffaceva, diveniva intollerabile.

Volle che Annita gliela cantasseun'altra volta.

«Come mai ti piace tanto?» le chiese

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Annita alla fine.«Perché mi ricorda… il mio

fidanzato.»«A me mi ricorda quest'inverno,

quando si ballava nel granaio…» Simise a ridere: «Ti ricordi quella voltache scappò fuori un topo?» Poi disse chesperava che avrebbero ballato anche ilprossimo inverno.

«A me, invece, non me ne importaniente» fece Mara.

«Davvero? Be', anche a me, cosacredi? mica ci vado pazza per il ballo.Ti strusci un po' a un giovanotto, e tuttofinisce lì.»

«Per piacere, cantami un'ultima voltaSola me ne vo per la città.»

E di nuovo la triste melodia s'insinuò

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nel suo animo, e le parole esacerbaronoil suo dolore. La sera, a letto, la ricantòa se stessa, piano, almeno dieci volte.Soffriva e gioiva insieme: sì, perché eracontenta di riaprire la piaga.

Un orgoglio doloroso fioriva nel suoanimo. Gli altri, le persone che nonamavano, che non soffrivano, ledisprezzava e quasi le compativa. Eracosì, per Annita, per Liliana, per le altreragazze, non sentiva che disprezzo e infondo compatimento.

Un pomeriggio tornava dalla chiusa edavanti a lei, sul viottolo ripido, c'erauna vecchia curva sotto una fascina. Laoltrepassò, ma si sentì chiamare:«Bimba, per favore, aiutami». Volevache le accomodasse la fascina, che le

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era scivolata giù. Mara la aiutò di malagrazia, e la vecchia: «Ma chi sei? Mipare di conoscerti. Sei la figliola diGildo?»

«No.»«E allora chi sei?» insisteva la

vecchia. Oh, maledetta lei. VolentieriMara le avrebbe dato uno spintone. Cheviveva a fare, una vecchiaccia simile?

Per tornare a casa, prese la strada piùlunga, che sboccava sotto la canonica.Sul piazzale erboso della chiesa, il pretestava parlando con una donnetta.Passando davanti alla casa della zia,Mara ebbe l'idea di chiamare Liliana;ma poi non ne fece di nulla. Dallafinestra aperta di una casetta bassa,costruita di recente, veniva una

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musichetta allegra. Mara rallentò ilpasso. Sapeva chi abitava in quellacasa: una giovane siciliana, moglie diuno del paese. Mara li aveva visti, ladomenica, andare a spasso tenendosiabbracciati. La zia diceva: «La sicilianae il marito, non fanno che darespettacolo. In presenza di tutti, siabbracciano, si baciano, come alcinematografo». In questo modo credevadi dirne male, e invece, pensava Mara,era la più bella lode che si potesse farea un giovanotto e a una ragazza, disembrare una coppia del cinematografo.Forse che doveva succedere solo alcinematografo che due si volesserobene? e non si saziassero mai di darsibaci? e fossero felici, e lo facessero

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vedere a tutti?Mara sospirava. Lei doveva farne a

meno, dell'amore; chissà per quantotempo avrebbe dovuto farne a meno. Persfuggire al vuoto angoscioso delpresente, si rifugiava nel passato:rievocando in tutti i particolari le pocheore d'intimità con Bube. Oppure cercavadi immaginarsi il futuro. Anche loro dueavrebbero avuto una casetta come quellache il muratore aveva costruito per lasua sposa siciliana: con la camera e lacucina, niente altro: però nuova, pulita,graziosa, con le mattonelle colorate interra, le mattonelle bianche dietrol'acquaio, i vasi di gerani sui davanzali.Anche lei avrebbe tenuta aperta la radioquando trasmettevano le canzonette: così

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le sarebbe passato meglio il tempomentre aspettava il ritorno di Bube.

Benché non avesse detto una parola anessuno, gli altri avevano finito conl'accorgersi del suo stato d'animo.

«Si può sapere cos'hai?» le chiese lamadre.

«Niente ho» rispose lei; e subito dopoaggiunse: «Ho i nervi; non sono padronadi avere i nervi?».

«Perché il tuo innamorato è lontano?»fece la madre ironica. «Io, fossi in te,non me la prenderei tanto. Non vale lapena davvero di prendersela per questecose.»

Mara non ribatté, ma quando la zia letenne un discorso simile, le disse dioccuparsi degli affari suoi.

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E la zia:«E chi ti ha detto niente? Ma si vede

lontano un miglio che sei innamoratacotta… E di chi, poi. È proprio vera lastoria del moscon d'oro: te, sembravachissà che pretese avessi, e ti seicontentata di quello scalzacane. E fossesoltanto uno scalzacane!» aggiunse conl'aria di chi la sa lunga.

«Cosa intendi dire?» reagì Mara.«Intendo dire che deve averla fatta

grossa, il tuo Bube… se è vero che loricercavano i carabinieri e che è dovutoscappare. Non è così, forse?» Colta allasprovvista, Mara non seppe cosarispondere; e la zia, che la spiavaattenta, si affrettò a trarre laconclusione: «Lo dicevo io che c'era

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qualcosa sotto.»«Che c'entra; è un affare politico»

disse Mara.«Sì, un affare politico! Le persone

perbene, cara mia, coi carabinieri non cihanno mai a che fare.»

Così la faccenda era trapelata anche aMonteguidi. Mara sospettò che fossestato Carlino: lo aveva visto la mattinafermo a parlare con la zia.

Il giorno dopo (erano due settimaneche era tornata a Monteguidi) uncarabiniere in bicicletta le portò unavviso. C'era scritto che la mattinaseguente doveva presentarsi allaTenenza di Colle.

Dietro il tavolo era seduto un uomo dimezza età, basso, tarchiato, coi capelli

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biondi lanosi, il naso schiacciato, lelabbra grosse e prominenti; aveva alzatogli occhi un momento, e s'era rimesso ascrivere, senza dir nulla. Mara nonconosceva i gradi, ma capì subito cheera il maresciallo. «Speriamo che sia iltenente a interrogarti» aveva detto ilpadre per strada. «Col tenente ancora cisi ragiona, ma il maresciallo è unabestia, proprio». Ebbe tempo anche dinotare il ritratto del re alla parete; e letornarono alla mente le parole di Bube,a proposito di quell'altro maresciallo diSan Donato.

Il maresciallo smise di scrivere, ledisse brusco: «Si accomodi» e le indicòla sedia. Dopo averle chiesto l'età e ilnome dei genitori, la guardò fisso: «E

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ora, signorina, stia bene attenta a comerisponde: perché deve dirmi la verità…Lei conosce Cappellini Arturo dettoBube?»

«Sì.«Lo conosce bene?»«Certo: è il mio fidanzato.»«Quanto tempo è che lo conosce?»«L'ho conosciuto l'anno scorso di

questi tempi. No, un po’ dopo…»«E in che modo vi siete conosciuti?»«Lui era partigiano insieme con mio

fratello Sante, che è stato ammazzato daitedeschi; così, dopo il passaggio dellaguerra, è venuto a conoscere la miafamiglia.» Era stato il padre a istruirlacosì: «Digli che sei sorella di unpartigiano caduto; è sempre una cosa che

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gli fa impressione, a quei brutti musi.»«Quando l'ha visto l'ultima volta?»«Saranno… quindici giorni.»«Mi dica il giorno preciso.»«Era. di venerdì.»«Venerdì 28 maggio?»«Sì» rispose Mara. «E dove l'ha

visto?»«Come, dove l'ho visto? A

Monteguidi.»«E da dove veniva?»«Da San Donato.»«E lei non si è meravigliata di

vederselo arrivare a Monteguidi?»«Perché mi sarei dovuta

meravigliare? Ogni tanto veniva atrovarmi.»

«Ma che cosa le ha detto il suo

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fidanzato? Le ha spiegato il motivo percui era venuto via da San Donato?»

«Niente… mi ha detto che era venutoa trovarmi.»

«Signorina, stia bene attenta a non dirbugie. Le bugie, con noi, hanno le gambecorte. E chi dice le bugie durante uninterrogatorio, lo sa dove va a finire?» ela guardò di nuovo fisso, ma lei ormai siera ripresa e sostenne intrepida il suosguardo. «In galera». Lei non battéciglio. «Le ha detto il suo fidanzatoquello che aveva fatto a San Donato?»

«No, non mi ha detto nulla.»«Ma lo sa, lei, quello che il suo

fidanzato ha fatto a San Donato?»«No, non so nulla.»«Lo sa che il suo fidanzato è un

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assassino?» A quella parola, si sentìtremare dentro; ma non parlò. «Dunquelo sa.»

«No, io non so nulla.»«Ma se non lo avesse saputo, non se

ne starebbe lì tranquilla! Non capitamica tutti i momenti di venire a sapereche il fidanzato è un assassino! Forseche a lei non le fa né caldo né freddo disapere che ha per fidanzato unassassino?» Mara alzò le spalle.«Signorina, lei non vuole aiutarci ascoprire la verità, ma vedrà che ilpeggio è per lei.»

Senza saperlo, Mara aveva scelto ilpartito migliore: starsene lì ferma edura, e non smuoversi dalla risposta:«No, io non so niente». Il maresciallo

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finì con l'esasperarsi: «Ma io la faccioincriminare come complice! Ha capito?»E Mara zitta e impassibile.

«Insomma, vuol parlare, sì o no?»«Lei mi domandi le cose, e io le

rispondo» disse Mara calma. Ilmaresciallo sudava. «Lei è andata aVolterra con questo Bube. Non tenti dinegarlo, Perché è stata vista.»

«E chi lo nega?»«Che c'è andata a fare, a Volterra?»«A conoscere la famiglia del mio

fidanzato.»«Non è vero!» e il maresciallo batté il

pugno sul tavolo. «Lei in casa di questoBube non c'è andata per niente.»

«E invece io ci sono andata.»«Lei mentisce.»

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A Mara le veniva quasi da ridere: peruna volta che aveva detto la verità,quello non le credeva.

«I carabinieri non ce l'hanno trovata,in casa di Bube.»

«Non mi ci hanno trovata, perché erouscita.»

«E dov'era andata?»«A spasso» rispose Mara.Il maresciallo la guardò storto: si

capiva che temeva di essere preso ingiro. Ma si contenne:

«Lei conosce un certo FantacciPiero?»

«No.»«Invece lei lo conosce.»«E dai» fece Mara divertita. Questo

Fantacci Piero davvero non lo aveva

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mai sentito nominare; ma se ilmaresciallo avesse detto anche ilsoprannome, allora forse si sarebbetrovata imbarazzata a rispondere.

«E dopo?»«Dopo cosa?»«Dopo essere stata a Volterra… dov'è

andata?»«Sono tornata a Monteguidi» rispose

Mara.«E Bube dov'è andato?»«E io che ne so?»«Ma secondo lei dov'è Bube, ora?»«A Volterra.» Mara mentì

sfacciatamente. Ormai, capiva di averavuto la meglio; poteva anche divertirsi,con quel somaro di maresciallo.

«Ah, davvero; a Volterra; o magari,

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chissà, sarà tornato a San Donato. Leicosa ne pensa?» A un tratto ilmaresciallo smise di fare lo spiritoso:«Bube è scappato; ma noi loacchiapperemo. Stia certa che loacchiapperemo. E allora l'ergastolo nonglielo leverà nessuno… e anche lei faràuna brutta fine. Perché chi aiuta la fugadi un criminale, commette un crimineanche lui.»

La porta si aprì, comparve unufficialetto:

«Ha finito, maresciallo?» E nelcontempo diede una guardata allaragazza.

«Sì, signor tenente.»«E allora batta subito il verbale e

glielo faccia firmare… Ah, e compili

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anche la lettera di trasmissione:dobbiamo mandarlo via con la posta distamattina.»

«Subito, signor tenente.» E con unafaccia scura si alzò e andò a sederedavanti a una grossa macchina dascrivere. Mara poté così notare cheaveva le gambe storte. "Sembra unoscimmiotto". Era contenta di averglitenuto testa; e anche di averlo preso ingiro, quel brutto scimmiotto.

Le toccò star lì una mezz'ora buona,mentre il maresciallo batteva amacchina, un tasto alla volta; e con dellelunghe pause, durante le quali si grattavala testa. Poi si sporgeva in avanti arileggere quello che aveva scritto, efaceva delle smorfie come se non fosse

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per niente soddisfatto. Alla fine sfilò ilfoglio, tornò al suo posto dietro il tavoloe disse: «Ora le leggo il verbaledell'interrogatorio; lei stia bene attenta,perché poi lo deve firmare». E con vocescolorita cominciò: "Oggi 14 giugno1945 davanti a me maresciallo maggioreSciacca Vincenzo si è presentata lanominata Castellucci Mara di Antonio edi Del Testa Maria, nubile, di annisedici, residente in questo comune,frazione di Monteguidi. A domandarisponde: Conosco Cappellini Arturodetto Bube col quale sono fidanzata… "

Il padre la aspettava ansioso; ma sirassicurò vedendola sorridente.

«Allora? E andata bene?» le domandòappena fuori.

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«Benone» rispose Mara. E gliraccontò che il maresciallo avevacercato di spaventarla; ma lei non s'eralasciata intimidire; e non gli aveva dettonulla di ciò che voleva sapere. «Daultimo mi ha chiesto: "Dove crede chesia Bube in questo momento?" e io gli horisposto: "E che ne so? Sarà a Volterra".E gli ho riso anche sul muso, a quelloscemo.»

Il padre era soddisfatto e commosso:«Brava, figliola; sei la degna

fidanzata di quel ragazzo.»La condusse con sé in sezione, dove

Mara fu costretta a rifare il racconto alsegretario, che era un giovanotto sul tipodi Lidori.

«Che ti dicevo?» esclamò il padre

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alla fine. «È in gamba, questa figliolina.Eh, i miei figli, non faccio per dire, mali ho educati da comunisti. Lo vuoisapere? Lei, e sì che allora era propriouna ragazzina, non aveva nemmenoquindici anni: un giorno che c'era Santea casa, nascosto giù nel capanno, e ilpaese era pieno di militi, venuti appuntoa ricercare i renitenti alla leva; be', ionaturalmente m'ero infilato nel granaio, emia moglie, non si azzardava a uscire,perché se la vedevano col pentolino selo sarebbero immaginato che andava aportare da mangiare al figliolo. Per farlabreve, lo demmo a Mara il mangiare; elei, appena fuori, intoppa in unapattuglia. La fermano: "Che ci hai lìdentro?" E lei: "Un pentolino di

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minestra". "E a chi lo porti, eh? Aqualcuno che sta nascosto?" E lei: "Loporto a mia nonna che è inferma". E glidisse anche, in tono di sfida: "Se non cicredete, venitemi dietro". E quelli, avederla così sicura di sé, cicredettero…»

A mezzogiorno andarono a mangiarein un'osteria lì vicino; c era anche ilsegretario. Lui e il padre parlavano dipolitica: Mara non ci capiva molto, male faceva piacere lo stesso ascoltarli.Provava meno il dolore dellaseparazione: forse perché quei discorsili aveva sentiti fare anche con Bube; eperché quel giovanotto nel modo diparlare le richiamava alla menteLidori…

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Dopo mangiato, il padre tornò insezione. Lei rimase a girellare per ilpaese. Volle tornare in tutti i postidov'era stata con Bube: nella piazzettadel mercato, vuota e squallida; nelgiardinetto in mezzo alla piazza; sotto iportici, a guardare le vetrine deinegozi… Prima di partire, Bube avevavoluto per forza regalarle quelle tremilalire. Lei, arrivando a casa, le aveva datealla madre perché gliele custodisse. Edopo le erano passate di mente al puntoche solo ora se ne ricordava! Ma leimportava assai della borsetta; non lavoleva; e con quei soldi non ci sisarebbe fatta niente, ecco!

"Com'ero stupida prima a dareimportanza a queste cose, alle scarpe

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coi tacchi alti, alla borsetta…" A untratto ebbe un brivido: aveva visto, duepassi avanti a lei, il maresciallo.Camminava svelto con le sue gambestorte. "Fortuna che lui non m'ha visto"pensò Mara. "Certo, anche se m'avessevisto, non ci sarebbe stato nulla dimale… Non mi possono fare niente, ame… Ma a Bube?" E ripensò alle paroledel maresciallo: è scappato, noi però loacchiapperemo, e allora l'ergastolo nonglielo leverà nessuno…

L'ergastolo? Ma l'ergastolo era cheuno rimaneva in prigione fino a chemoriva! Si sentì venir meno…Continuando a camminare come unautoma, era uscita dal portico e oraseguiva la palizzata di cemento lungo la

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ferrovia… C'era un treno in partenza,con la locomotiva che sbuffava. "Se loacchiappano, io mi butto sotto il treno",pensò improvvisamente Mara.

Ma no, non era niente vero, ilmaresciallo aveva detto così per farlepaura. Non aveva forse minacciato dimettere in prigione anche lei? Risedentro di sé, sollevata. Mica dovevacredere al maresciallo, doveva crederea quello che le aveva detto Bube, aquello che le aveva detto il padre, aquello che le aveva detto Lidori… cheera questione di poco tempo, e poi cisarebbe stata un'amnistia…

La attraversò un dubbio: "E sem'avessero nascosto la verità? Se loavessero fatto apposta a dir così perché

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io non mi disperassi? Se si fosseromessi tutti d'accordo per non dir niente ame? Oh, Signore, come faccio asaperlo?"

Suo padre. Lo avrebbe chiesto a suopadre. Gli avrebbe detto: "Babbo, devidirmi la verità. Giuramelo. Giuralo suSante". E andò in sezione.

Nella stanza il padre non c'era. Sirivolse a un giovanotto che stava lì nelcorridoio.

«È in riunione» rispose questi.«Ma io ci devo parlare subito.»«Non si può, sono in riunione.»«E quando finisce questa riunione?»«E chi lo sa?»Mara rimase lì, seduta sulla panca, a

torcersi le mani. Ogni tanto arrivava

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qualcuno, diceva di voler parlare con…;e il giovanotto rispondevainvariabilmente: "Non si può, sono inriunione".

Finalmente la porta in fondo alcorridoio si aprì, e ne uscirono ilsegretario con un altro, e subito dopo ilpadre e diversi uomini. Parlavano forte:ridevano, anche; Mara si era alzata, sifermò davanti al padre: «Babbo, devodirti una cosa.»

«Ora andiamo subito.» Seguitava aparlare con questo e con quello; entròanche un momento nella sua stanza;finalmente disse al segretario: «Allora,se non c'è altro, io me ne vado, devoportare a casa la figliola» e ilsegretario: «Vai, vai pure». Venne a

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salutarla: «Arrivederla signorina; e…congratulazioni».

Nell'androne il padre prese labicicletta. Le fece segno di salire.

«Babbo, ascolta una cosa, prima;stamani me n'ero dimenticata. Ilmaresciallo ha detto che Bube loacchiapperanno di sicuro; e che dopo,gli daranno l'ergastolo.»

«Sì, lo acchiappano davvero!»rispose il padre. «A quest'ora Bube sene ride di loro.»

«Ma se lo acchiappassero?»«Dove? In Russia ci comandano i

comunisti; mica questi brutti ceffi…»«Ma allora Bube dovrà rimanere

sempre in Russia; perché, se torna inItalia, lo acchiappano.»

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«Ma sì. Lascia che vadano via questipidocchiosi di inglesi e di americani,poi gli si fa vedere noi al maresciallochi è che comanda. Avanti, monta incanna.»

Mara si accorse subito che la madrela guardava in modo strano. E a cena,improvvisamente, si sentì domandare:«Si può sapere che cos'ha combinato iltuo Bube?»

«Ma niente» rispose Mara; però lavoce le tremava. «E allora cosavolevano da te i carabinieri?»

«Niente. Volevano sapere di un fatto,del tempo in cui Bube era partigiano…»Col padre erano rimasti d'accordo di dircosì alla madre. «E perché non l'hannochiesto a lui?»

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«Perché Bube in questo momento nonc'è» rispose per lei il padre. «Allora èvero che è dovuto scappare.»

«Chi l'ha detto?»«Tutti, lo dicono.»«Be', sì… è stato il Partito a

ordinargli così. I carabinieri lovolevano interrogare, e allora, alPartito, gli hanno detto di nonpresentarsi. perché noi comunisti nondobbiamo render conto del nostrooperato ai carabinieri. Dio…!»bestemmiò. «Sarebbe proprio da riderese un comunista dovesse render contodelle sue azioni alla giustiziaborghese…»

A un tratto la madre lo interruppe:«Tu con questi discorsi hai rovinato

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Sante. E ora rovini lei» e indicò Mara. Ilpadre smarrì di colpo la sua sicurezza:«Ma cosa vai dicendo?» balbettava.

«Sì, sei stato tu, coi tuoi discorsi, ametter su Sante… e a fargli fare la fineche ha fatto. Sei stato tu la causa dellasua morte…»

«Ma sei impazzita?»«Perché se non eri tu a mettergli in

testa l'idea dei partigiani» continuò lamadre senza badargli «lui sarebberimasto qui… come hanno fatto tutti glialtri giovani… che non ce n'è stato uno,in paese, che sia andato tra i partigiani.Solo il mio figliolo c'è andato!» gridòquasi. «E sei stato tu a farcelo andare.»

«Volevi che io consigliassi Sante dipresentarsi ai repubblichini?»

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«Bastava che non gli mettessi in testal'idea dei partigiani» ripeté implacabilela madre. «Oh, Signore! Se fosserimasto qui, il mio Santino sarebbeancora vivo! Sarebbe ancora vivo!» e simise a singhiozzare forte.

«Calmati, mamma» cominciò a dire ilpadre. Era sconvolto. «Sante… ha fattoil suo dovere. Io non ne ho colpa seaveva quei sentimenti… Tu, mamma,non lo devi dire che io ne ho colpa…»Improvvisamente gridò: «Io, loriconosco, sono stato un cattivo padre…i figlioli li ho abbandonati che eranopiccini… io mi son fatto mettere anchein prigione… Ma a Sante gli volevobene… Era il mio orgoglio, Sante… ioero orgoglioso di avere un figlio così…

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Tu, mamma, non me lo devi dire in quelmodo… dimmi quello che vuoi, maquesto no, non me lo devi dire…Figlioli, vi prendo anche voi atestimoni: io non ne ho colpa, non ne hocolpa…» Parlava e piangeva: Mara nonlo aveva mai visto in quello stato.

Con voce tremante disse:«Mamma. Babbo. Via, fate la pace.»La madre alzò gli occhi, si asciugò le

lacrime:«Sì» disse con un soffio di voce. Si

volse verso il marito: «Non ci guardarea quello che dico. È il dolore che mi faparlare così… il dolore per quel poverofiglio che mi è morto… Sì, anche tu glivolevi bene… non era figlio tuo, ma glivolevi bene lo stesso…».

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«Ecco, sì, mamma, così» balbettò ilpadre; «non piangere più, va bene così.»

Non dissero altro, non fecero più ungesto: per la prima volta uniti nel doloreper il figlio morto. E Mara, mentrerigovernava voltando le spalle aigenitori, versò in silenzio le sue primelacrime per il fratello.

Mara poté parlare con Lidori solodopo la fine della cerimonia funebre:

«Hai saputo niente?»«No. Niente ancora» rispose Lidori.

Si tirarono da parte.«Eppure è già passato un mese.»«Ma che vuoi, non è facile per lui far

sapere qualcosa. Bisogna che siaprudente. E poi su nel Nord la guerra èfinita da poco, la posta mica funziona

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ancora.»«Ma dove si trova? Sapessi almeno

questo…»«Io credo in Jugoslavia. A proposito,

so che sei stata chiamata dai carabinieridi Colle…»

«Sì» rispose Mara; e gli raccontòcom'era andata. «Ma poi mi faceva certedomande strane… per esempio, mi hadomandato se conoscevo un certoFantoni Piero… no, Fantacci Piero…»

«E tu che gli hai risposto?» feceLidori sorridendo.

«Che non lo conoscevo» risposeMara: «ed è la verità, non lo conoscomica uno che si chiama in questo modo.»

«Ma sono io che mi chiamo in questomodo.»

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«Tu?» E Mara si mise una mano sullabocca, spaventata e divertita. «Ma io ticonoscevo solo come Lidori!»

Egli doveva ripartire subito: sisepararono con una forte stretta di mano.E Mara si sentiva rasserenata, benchéLidori non le avesse saputo dir nulla.

Trovò la casa piena di gente. Gliuomini erano in cucina, intorno al padre,che la chiamò perché portasse un altrofiasco di vino. C'era il sindaco, c'era ilsegretario della sezione di Colle, inoltrelo zio e parecchi altri del paese. Il padreera eccitato, non faceva che parlare; magli tremava la mano, mentre versava dabere.

Anche la camera era piena di gente:di donne; facevano compagnia alla

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madre, che s'era buttata sul letto. Lapovera donna era disfatta: il funeralel'aveva riportata ai giorni della tragedia.«Oh, Marina!» esclamò appena la vide;e ricominciò a piangere.

La sera, quando finalmente potéandare a letto, Mara era stanca morta.

Ora che la salma di Sante riposavanel cimitero del paese, la madre siriebbe. Per lo meno, non aveva piùquell'aria assente, di persona a cui nonimporta più nulla di nessuno. I figli chele erano rimasti, tornarono a essere perlei una ragione di vita.

Mara, in primo luogo: era inquieta perla figliola. Un giorno, erano a spigolare,e lei disse:

«Dai retta a tua madre, Marina… quel

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Bube, lascialo perdere. Non ci pensarpiù; non è il tipo che fa per te.»

«Ma, mamma, tu non lo conosci; l'haivisto due o tre volte appena.»

«Sì, e mi è bastato. Ha uno sguardoche non mi piace. E poi, sempre conquella rivoltella in tasca… A mettersicon un tipo così, una si ritrova per forzaa dei dispiaceri.»

«Lui ha quelle idee, mamma.»«Non vuol dire le idee. Anche Sante

aveva quelle idee, ma sarebbe statoincapace di far male a una mosca. Anchetuo padre, cosa credi? dice, dice, ma delmale proprio non lo ha fatto mai anessuno. Ha tanti difetti, è infingardo,beve; ma non è cattivo.»

«Nemmeno Bube è cattivo, mamma;

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io lo conosco bene e ti possoassicurare…»

La madre la interruppe:«E allora perché non mi hai voluto

dire quello che ha fatto?» La spiavaansiosa.

«Si è trovato… in una rissa; ma lui,credi, non ne ha colpa: c'è stato tiratoper i capelli…»

«Che rissa? Raccontami per bene.»Mara si provò a parlare, ma non le

riuscì. Qualcosa le faceva groppo allagola. No, non poteva raccontare il fattocosì com'era andato…

«Vedi che non me lo vuoi dire? Èsegno che te ne vergogni anche tu.»

Neanche stavolta fu capace dirispondere.

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La madre non le fece più domande;ma non passava giorno che nonalludesse alla «disgrazia» della figliola.E Mara a poco a poco cominciò apensarlo anche lei, che era una disgraziaessersi legata con uno come Bube.

Una mattina di domenica, Mara entròquasi correndo nella bottega; e rimaseimpietrita vedendo il prete Ciolfi.

Era in piedi accanto al banco, colcappello rialzato sulla fronte; e aveva lastessa tonaca logora e frittellosa. Laguardò un momento, e si rimise a leggereil giornale.

Mara si sbrigò a far la spesa e a venirvia. Che ci faceva il prete Ciolfi lì aMonteguidi?

La spiegazione l'ebbe poi dal

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discorso di una donna: il Ciolfi era ilnuovo parroco di Cavallano, un paesinodistante tre chilometri.

Lo rivide poche mattine dopo:stavolta insieme con Carlino: che,appena la scorse, disse qualcosa pianoal prete.

Quando Mara tornò indietro, il preteera sempre lì, fermo davanti allabottega; e stavolta la scrutò attentamente."Quel maligno di Carlino gli ha dettoche sono la fidanzata di Bube". Perfargli vedere che non aveva paura, gliripassò davanti, e glieli piantò lei gliocchi addosso. Il prete si affrettò aguardare da un'altra parte.

La sera il padre era di malumore. Disolito in casa si tratteneva dal parlare di

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politica, perché la madre dava subitosegni di insofferenza; ma quella sera eratroppo arrabbiato, e così, cominciò unodei suoi discorsi lunghi e arruffati,rivolgendosi più che altro alla figlia,come se lei fosse in grado di capire. Maanche la madre, cosa insolita, seguivaattenta le sue parole.

«Ma insomma cos'è quest'uomoQualunque?» domandò al marito.

«I fascisti, sono; i fascisti che ora sichiamano così. Razza di delinquenti, nongli è bastata la lezione; ci voglionoriprovare, ci vogliono. E hanno trovatoqualcuno anche qui in paese… ora dipreciso non sappiamo chi è; ma teniamogli occhi addosso a quei tre o quattro…A Cavallano, poi, ce n'è già un

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gruppetto. Il capo è quel pretacciovenuto da Volterra.»

«Il prete Ciolfi?» disse Mara.«Ciolli, Ciolfi, un nome così.

Abbiamo già avuto le informazioni…Figurati che il vescovo l'aveva mandatoin una parrocchia vicino a Volterra, mail popolo s'è ribellato e non ce l'havoluto. E allora il vescovo ce l'haregalato a noi. Ma già, Cavallano èsempre stato un covo… Ah, e sai chi èun altro? Carlino. Anche lui, sempre conl' "Uomo Qualunque" in tasca…Ricordatene, Mara: se si azzarda a venirqui, sbattigli la porta in faccia. Io tipicome lui non ce li voglio per casa.Razza di mascalzone! Dopo che gli s'erafatto grazia del passato… e anzi, a

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Volterra i compagni gli avevano ancherilasciato un foglio… Ma quanto ci siscommette» esclamò «che la prima voltache mi capita lo prendo per il petto… egliene dico quattro… E anche a quelprete: se ne stia nella sua parrocchia, sene stia. Ma se intende venir qui a portarconfusione… Alla donna della bottegagliel'ho già detto: il pacco dell' "UomoQualunque", lo deve rimandare indietro.A Monteguidi quella porcheria non ladeve leggere nessuno. Dio…!»bestemmiò. «Non ci devono provocare,non ci devono: o sennò, stavolta, finiscemale davvero.»

«Tu lasciali perdere» disseimprovvisamente la madre. «È gentesenza coscienza: dopo tutto il male che

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hanno fatto…»Si rivolse alla figlia: «Marina,

domani che vai alla villa, ricordati diprendere le dalie per Sante.»

«Vinicio! Dove sei?»«Sono qui. Sto cercando i granchi.»«Bada di non mettere i piedi

nell'acqua. Lo sai che non ti ci vuolniente ad ammalarti. Faresti meglio adaiutarmi a cogliere i pomodori»aggiunse dopo un po'.

Doveva riempire due panieri: eranoper farci la conserva. Poi aveva daannaffiare il riquadro dell'insalata e lecanne dei fagioli. Ma tanto non c'erafretta. Si stava così bene laggiù: soltantoil fruscio dei pioppi dava un senso difrescura.

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Gli altri orti erano come il loro, unbreve appezzamento di terra cinto dauno steccato e chiuso da un cancelletto.Si susseguivano lungo il folto dellamacchia, da cui sbucavano i tronchi deipioppi, diritti e nudi, con appena unciuffo di foglie in cima.

A un tratto scorse Mauro chescendeva per il viottolo. Si affrettò achiamar Vinicio, perché non voleva farsitrovar sola. Il fratello non rispose, e lei:«Vinicio! Dove ti sei cacciato? Non losai che nel torrente ci hanno visto unaserpe lunga così?»

Il fratello non rispose nemmenoquesta volta, ma poco dopo lo videsbucar fuori. «Che serpe?» dicevaspaventato. «Che serpe?»

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«Una serpe lunga di qui a lì. Vacci,vacci a cercare i granchi, poi vedraicosa ti capita.

«Bugiarda» disse il ragazzo. Marimase a girellare nei pressi.

Mauro si avvicinava cauto e quasifurtivo, come se non fosse ben certodell'accoglienza che avrebbe ricevuto.Da un po' di tempo era a casa; così, lestava di nuovo dietro. Sapendolafidanzata, non osava più metterle le maniaddosso: si contentava di far discorsisporchi.

Spinse il cancelletto ed entrònell'orto.

«Stai attento a non pestare le piante»gli disse Mara sgarbatamente.

«Ehi, Mauro, è vero che nel torrente

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ci sta una serpe?» lo interpellò Vinicio.«Sì» rispose Mauro. «Una serpe che

buca le ragazze» e si mise a ridere. «Te,t'ha mai bucato?» fece rivolto a Mara.

«Non so nemmeno di che parli.»«Sentila, com'è innocente. Lo sai

almeno cosa gli succede alle ragazze,quando si son lasciate bucare dallaserpe?» Ma lei era scomparsa nel foltodei pomodori. «Vuoi che ti aiuti?» dissecon voce gentile.

«Voglio che ti levi di torno.»«Come mai ti sei fatta così superba?

Ma guarda un po': Madama Stoppa s'èfatta superba». La chiamava così per viadei capelli. «Madama Stecchi ha messosuperbia.» Era un'altra allusione aicapelli. «Madama…»

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«Senti, se non ti va come son fattaperché mi giri sempre intorno?»

«Chi è che ti gira intorno?»«E allora che ci fai nella mia chiusa?

Vattene nella tua.»«Ora ci vado». Ma non si mosse di lì.

Anzi, si accoccolò sui talloni perguardarle le gambe mentre stava china.Mara se ne accorse e si affrettò ariprendere la posizione eretta. «Tanto tele ho già viste». Siccome lei nemmenolo ascoltava, disse: «Va bene che seifidanzata, ma non è una ragione pertrattarmi in questo modo».

«Per favore, non fare discorsi stupidi,perché, guarda, ho anche i nervi; perciòstai zitto, e sennò, vattene.»

«Hai i nervi, eh? Come mai? Perché il

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tuo fidanzato è lontano?» Ridacchiò:«Le ragazze sono sempre nervose,quando hanno il fidanzato lontano… Lovedi che avresti fatto meglio a metterticon uno di qui? Almeno, la sera, ti cipotresti strusciare un po'».

«Mi fai il favore di smetterla? Anzi,mi fai il favore di andartene via, esubito?»

«Proprio non mi puoi più vedere,allora» si lamentò lui.

«Non ti posso più vedere, no.»«Ma perché? Cosa ti ho fatto?»«Niente, mi hai fatto. Ma mi fai

rabbia, sempre a dire porcherie; proprionon hai altro per la testa che le cosesudicie. Brutto sporcaccione che non seialtro.» Era indignata. «Ti vuoi levare di

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torno, sì o no?»Vinicio, a pochi passi di distanza, si

godeva la scena. Lui naturalmente eraper Mauro. Mara lo vide, notòl'espressione ottusa e maliziosa a untempo; gli piombò addosso: «E tu, cosastai ad ascoltare i discorsi dei grandi.Fila via! Scemo».

Vinicio per tutta risposta le sputòaddosso, e allora lei gli diede unceffone. Il fratello cominciò a piangere adirotto. A un tratto smise, raccattò unapietra e la scagliò contro la sorella,prendendola nella schiena. «Accidenti ate» gridava. Poi si precipitò sul panieredei pomodori, lo rovesciò e cominciò acalpestarli infuriato. Mara gli diede unaspinta mandandolo lungo disteso. «Io ti

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ammazzo» gridava china su di lui. «Haicapito? Com'è vero Dio ti ammazzo. Elasciami in pace anche tu» fece a Mauroche s'era interposto prendendola per unbraccio.

Si svincolò e corse via. Presel'annaffiatoio e scese nel torrente ariempirlo. Ma quando l'ebbe riempito,non tornò di sopra…

«Ti ha fatto male con quella sassata?»Era Mauro, le era arrivato alle spallesenza farsi sentire. «Allora cos'hai?Perché piangi?»

«Io, piango?» Non se n'era nemmenoaccorta che stava piangendo.

«Tuo fratello è scappato a casa. Orachissà cosa le racconta a tua madre. Masemmai ti difendo io: glielo dico che ti

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ha tirato un sasso e ha spiaccicato ipomodori.»

«M'importa assai di lui» disse Mara.«E allora, perché piangevi? Hai

qualche dispiacere? Ho sentito direcerte cose, sul conto del tuo fidanzato…Oh, scusa, scusa, non volevooffenderti.»

«A me delle chiacchiere della gentenon me ne importa un fico secco: haicapito? E anzi, sai cosa ti dico? Che mene andrò via… e non mi farò piùrivedere…»

«E dove vorresti andare?»«Via. Lontano. Dove non mi conosce

nessuno. Piuttosto che restar qui,preferisco andarmene per il mondo coicarrozzoni degli zingari». Lo guardò:

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«Ah! fossi un uomo, non ci rimarreineanche un giorno, in questo schifosopaese…» Ma la vista della faccia chiusae incomprensiva di Mauro la scoraggiòa continuare.

L'estate era passata; e lei non pensavapiù tanto a Bube. E tuttavia non eratornata quella di prima. Le piccolevanità di un tempo, i battibecchi con lacugina, i chiacchiericci con le amiche, lafacevano sorridere di commiserazione,quando ci ripensava. Ora si sentivasuperiore a queste cose. Era infelice,addirittura disperata; ma non avrebbepiù voluto tornare a essere la stupidaragazzetta di un tempo.

Venne la stagione della coglitura delleolive, e come ogni anno Mara andò a

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giornata insieme con le altre ragazze delpaese. Era un'annata cattiva, ma allafattoria avevano assunto tutte quelle ches'erano presentate: così era statoimposto dalla Camera del Lavoro. SoloLiliana non ne aveva approfittato: suamadre ormai si dava troppe arie perpermettere che la sua figliola andasse agiornata.

E invece, per loro ragazze, era ancheuno svago; e certo Liliana dovevainvidiarle, quando le vedeva passare afrotte, col paniere e lo scaldino. Benchéfosse soltanto novembre, erano giàvestite da inverno, con gli scarponi e lecalze di lana, addosso due maglioniinfilati uno sopra l'altro, in testa unfazzoletto annodato sulla nuca. A volte

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compariva il fattore: col fucile in spalla,aveva l'aria di andare a caccia e disorvegliare il lavoro, in realtà glipiaceva scherzare con le ragazze.

Quando avevano le mani intirizzite,scendevano e si raccoglievano intornoallo scaldino; poi tornavano a coprire icarboni con la brace, e si rimettevano allavoro. E a metà del pomeriggiofacevano merenda con una fetta di pane,un pizzico di sale e le olive secche dicui era seminato il terreno, specie dopole giornate di tramontana. Ma anchelavorando, continuavano a parlare e aridere. Si punzecchiavano a vicenda pergli innamorati veri o supposti. Mara untempo era la più svelta a prendere ingiro le compagne e a rintuzzare le

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canzonature. Ma quest'anno se ne stavaper conto suo. Non accettava gli scherzi,andava subito in collera; un giorno,piantò in asso il lavoro e scappò via.

Verso la fine del mese, venne a sapereche una famiglia di Poggibonsi cercavauna ragazza a servizio; e volleassolutamente andarci, perché lì aMonteguidi non ci poteva più vivere.

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Capitolo 2

Prima di spogliarsi Mara indugiò aguardare attraverso il vetro dellafinestrella, reso opaco dalla lungaincuria. Si scorgevano come in unanebbia le sagome buie delle case e leluci delle finestre e delle strade:sembrava di essere in una grande città,invece che in un paese. Attraverso i suoifinestroni, un edificio alto e strettobuttava fuori una luce abbagliante: erauna fabbrica, dove si lavorava anche dinotte.

Quella vista cominciò a riconciliarlacol suo nuovo stato. L'odore di polvereche c'era nel ripostiglio, non le dava più

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fastidio come appena arrivata. Si coricònella branda, spense la luce e siaddormentò subito.

La famiglia da cui era a servizio sicomponeva di cinque persone: che peròin casa ci stavano pochissimo. A Maratoccava metterli a tavola, dopo averrifatto quattro camere e sbrigato tutte lealtre faccende. Ma era abbastanzalibera, quasi nessuno le dava ordini, emeno di tutti la padrona, una donna pigrae sciatta, che in negozio stava alla cassa,e in casa non si occupava di niente. Lasignorina, era occupata anche essa innegozio, e così il figliolo. Il padre sivedeva che non contava nulla; il nonnoinvece brontolava sempre, ma nessunogli badava, e Mara imparò presto anche

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lei a non farci caso.Subito una delle prime sere s'incontrò

con Ines, la compaesana che le avevatrovato il servizio. Si conoscevanoappena, ma si fecero grandi feste. Inesaveva cinque anni di più, ed era rozza egrossolana, nell'aspetto e nei modi; maessendo da molto a servizio, avevaacquistato un'aria cittadina.

Fu Ines a consigliarla di andare dalparrucchiere. La sera del sabato, senzacurarsi di dir niente alla signora, Maraandò nel salone che le aveva indicatol'amica. Le tagliarono i capelli, glielilavarono e le fecero la messa in piega; eMara dovette convenire che ciguadagnava moltissimo, i capelli ora lestavano a posto, erano soffici e lucenti.

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Tornò che avevano già chiuso ilnegozio, ed erano saliti tutti in casa; manon ebbe a subire rimproveri. Lasignorina anzi la lodò: «Ora sì che faifigura; prima, con quei ciuffi, sembraviproprio una povera diavola». Anche ilvecchio la guardò compiaciuto: «Porta ilvino, bionda» le disse, e tutti risero.

Mara aveva fatto presto ad accorgersiche non erano signori, anche se avevanosoldi. Il vecchio bestemmiava:suscitando l'indignazione della nuora edella nipote, che gli dicevano: «Staizitto, bocca d'inferno». Il giovanotto poiera capace di qualsiasi villania: a direuna parolaccia alla sorella, e anche allamadre, non ci rimetteva nulla.

Il giorno dopo Mara andò al cinema

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con Ines. C'era un film con RobertTaylor; l'attrice, invece, era unasconosciuta, e sulle prime Mara non latrovò nemmeno bella. Ma a poco a pocos'immedesimò nella sua tragica vicenda.Lei e Robert Taylor si amavano, lei erauna ballerina, lui un ufficiale; poi luipartiva per la guerra, e lei non ne sapevapiù niente, anzi le arrivava la notizia cheera morto. Allora, dalla disperazione, sidava al vizio. Ma una sera lo ritrovava:perché era stato solo ferito. Lui non siaccorgeva che lei era caduta in basso; laconduceva con sé in un castello, perpresentarla alla sua famiglia; facevanola festa del fidanzamento; ma lei,rendendosi conto di non potersi piùsposare, la notte fuggiva e andava a

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buttarsi nel fiume.Ines non aveva fatto altro che

piangere durante tutto il tempo; eall'uscita le disse: «Senti, a unapellicola così non ci vengo più. Quantoci sono stata male… ma poi ormaipoteva far finta di nulla, che ne sapevalui del suo passato?». Si mise a ridere:«Che stupida sono a prendermelatanto… non è mica un fatto vero.»

Canticchiando il motivo del film,Mara salì le quattro rampe di scale eandò a cambiarsi. Ancora sottol'impressione della tragica vicenda a cuiaveva assistito, si sentiva più estraneache mai a quella famiglia rumorosa egrossolana. Rigovernò in fretta, spazzòla cucina e il tinello, spense le luci e

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salì nella sua camera.La prima occhiata, come ogni sera, la

diede alla sagoma nera della fabbrica,con la luce che fiottava dalle vetrate.Nemmeno la domenica smettevano dilavorare. E con quell'immagineabbagliante negli occhi, e la dolcemelodia del film dentro di sé, scivolònel sonno.

Quel motivo diventò subito di moda:si sentiva fischiettare in continuazione.Mara imparò anche le parole in unfoglio rosa comprato da Ines. Così,mentre faceva le faccende sola in quellagrande casa, poteva sfogarsi a cantare:

Domani tu mi lascerai e più nontornerai; domani tutti i sogni miei liporterai con te…

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Quelle parole, le rivolgevamentalmente a Bube esprimevano ciòche lei aveva provato la notte in cui sierano amati, sapendo già che lui dovevapartire…

Era contenta di non essere più al suopaese. Anche Poggibonsi era un paese,ma grande, in pianura, e la notte sianimava misteriosamente. Mara uscivasolo quando era buio. Dopo avercomprato il latte, girellava per la stradaprincipale e nella piazza, tra le luci deinegozi e dei caffè, i clacson delleautomobili e delle corriere chepercorrevano il viale alberato di làdalla ferrovia, il passaggio di un treno odi una locomotiva in manovra. Sispecchiava nelle vetrine: ma non più per

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la vanità di constatare che aveva uncorpo ben fatto e un viso grazioso. Lafigura che compariva per un attimo sullalastra di vetro era un'immagine tragica,dolorosa. E quando si fu comprato unimpermeabile chiaro, l'illusione fucompleta: le sembrava di essere laragazza perduta del film e della canzone.

Il padre si era opposto che leiandasse a servizio: gli pareva una cosacontraria ai suoi principi. «Mia figlianon deve far la serva a nessuno» diceva.E anche quando Mara era tornata a casaper Natale, aveva insistito perché nonripartisse. «Sì, e gli lascio tutta la miaroba» ribatté Mara. «Che c'entra: laroba, ci vado io a riprenderla.»

«Ma non si può piantare una famiglia

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così su due piedi.»«Ah, davvero: è il caso proprio di

avergli tanti riguardi, a quella gente. Sifanno servire e riverire epretenderebbero anche che uno glidicesse grazie…» È vero che alcuni anniprima, quando lei era ancora unaragazzetta, non si era fatto scrupolo dimandarla a servizio da una famiglia diColle. Ma in quel tempo era un poverodiavolo, disoccupato e perseguitato perle sue idee; mentre adesso era lamaggiore autorità del paese.

La madre invece non era statacontraria: sperava che Mara,andandosene in un posto nuovo, sisarebbe dimenticata di Bube.

Mara comunque faceva di testa sua.

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Era appena arrivata, e non vedeva ilmomento di ripartire. La vita sonnolentadel paesino, la stessa vista dellacampagna, le dava un senso di sconforto.

La mattina dopo, tanto per rendersiutile, andò alla villa a comprare i fiori.

«Perché non prendi un vaso?» le dissela contadina.

Mara si decise subito. I soldi dellamadre non bastavano, ma aveva i suoi. Ilguaio fu portarlo. Non volle caricarselosulla testa, per paura di sciuparsi lapettinatura; e a tenerlo sotto un bracciofaceva presto a stancarsi.

S'era fermata a riposare su un muretto.Il cielo era più bianco che azzurro; ilsole traspariva appena. Giù in basso unavoce femminile cantava uno stornello:

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facendo una lunga pausa tra un verso el'altro. Mara percorse con lo sguardo lavallata. Gli alberi ormai spogli nonnascondevano più la vista del terreno:era tutto un uniforme susseguirsi ditronchi nudi e di campi brulli. Anche icolori erano spenti: violaceo deicastagni, bianco sporco dei pioppi,marrone delle siepi e dei filari, brunodella terra arata. Con un sospiro Mara sialzò e si rimise in cammino.

La madre era già pronta per andare alcimitero. «E i fiori?» le domandòvedendola tornare a mani vuote.

«Ho comprato una camelia, mamma.Non ce la facevo più a portarla, e l'holasciata da Liliana. L'ho comprata coimiei soldi» si affrettò a soggiungere.

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La madre ci rimase male. E quandovide la pianta, non disse nulla.

«Ti piace?»«Sì sì. Ma dimmi quanto l'hai pagata,

voglio restituirteli.»«No no, l'ho voluta comprare io.»Mentre erano lì che lavavano la

pietra, arrivò il padre. Aveva un vestitonuovo, di panno scuro: con la camiciapulita e una cravatta rossa fiammante.Era accuratamente sbarbato e pettinato;dimostrava molto meno dei suoiquarantacinque anni. I capelli li avevasempre nerissimi: appena qualche filobianco gli scintillava sulle tempie.

Mara gli andò vicino, perché non ciaveva ancora potuto parlare di quelloche le stava a cuore.

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«Hai saputo niente?» gli domandò abassa voce.

«Ti pare?» fece il padre. «Avessisaputo qualcosa, sarei venuto subito adirtelo.»

«Ma come mai non si fa vivo.»«Eh» fece il padre. «Ci possono

essere tante ragioni… Ma stai tranquillache non gli è capitato nulla; altrimenti sisarebbe venuto a sapere.»

«E dell'amnistia?»«L'amnistia? Ah, sì, un'amnistia la

faranno certamente. Ma poi, lascia chese ne vadano questi americani e lemettiamo noi le cose a posto. Vogliovedere, allora, chi gli dice qualcosa aBube…»

Tornarono a casa. La madre non

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guardava né a destra né a sinistra, comese volesse passare inosservata; il padre,invece, salutava tutti. Finì col rimanereindietro; e si fermò poi nel cortile, aparlare con due che l'avevanoaccompagnato nell'ultimo tratto distrada. Quando la zuppiera fu in tavola,Mara lo chiamò dalla finestra.

Mangiarono; poi Mara aiutò la madrea rigovernare. Dopo, sarebbe potutaandare a ricercare qualcuna delleamiche; ma non ne ebbe voglia. Salì incamera, dove la madre s'era messa alavorare a maglia. Prese a raccontarle lavita che faceva a Poggibonsi:

«… le faccende, toccano tutte a me. Aparte la spesa, che la va a fare ilmarito…»

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«Ma allora c'è troppo lavoro in quellacasa; ti strapazzerai, Marina.»

«Lavoro ce n'è tanto, ma almeno ho lasoddisfazione di fare tutto io. Non siazzardano più a dirmi niente: comefaccio io, è ben fatto. L'altro giorno ilfiglio s'è lamentato che non gli avevostirato i pantaloni, e io gli ho risposto, inpresenza di tutti: "Con quanto lavoro c'è,non posso mica stare ogni momento astirarle i pantaloni"».

«Bada che non si prenda confidenzecon te» la ammonì la madre.

«Oh, non c'è pericolo. Non averpaura, mamma, so farmi rispettare.»

«Vedi, Mara, io sto sempre tanto inpena per te. Ora è ancora troppo presto,ma quando verrà il momento… vorrei

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proprio che trovassi un giovaneammodo, lavoratore…»

Mara rimase zitta.Dopo un po' andò in camera sua. Non

aveva nulla da fare, e finì con lostendersi sul letto. Pensava a Bube, aquello che c'era stato fra loro; i ricordierano sempre netti, ma non le davanopiù quell'emozione a richiamarli allamemoria. Quasi non le pareva vero chefosse accaduto a lei.

Sbadigliando, andò a far merenda, poisi mise alla finestra. I ricordi del suobreve amore si erano allontanati ma leiera cambiata: non aveva più nulla incomune con la Mara di un tempo. Lepareva addirittura di non aver più nullain comune col suo paese: quelle vecchie

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case, la gente seduta sugli scalini, gliasini attaccati agli anelli di ferro infissiaccanto alle porte, i polli cherazzolavano negli spiazzi, tutto leappariva sporco, vecchio, misero…

Meno male che si avvicinava l'oradella partenza. C'era l'occasione di unamacchina che andava a Colle; di lìsarebbe stata in tempo a prenderel'ultimo treno per Poggibonsi. Giàpregustava la gioia del ritorno nella suacameretta, confortata dal flusso vitaledei rumori e delle luci.

I padiglioni del Luna Park eranosparsi in un piazzale sotto il livellodella strada. Una grande folla siaggirava tra le pozzanghere, mentre glialtoparlanti diffondevano musiche e

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canzonette.«Oh! chi si vede» esclamò Ines

salutando un giovanotto.«Questa è la mia amica» disse

presentando Mara.«Piacere» fece quello; presentò

quindi il suo amico, che se ne stava a trepassi di distanza.

Benché colta di sorpresa, Mara capìsubito cosa c'era sotto quell'incontroapparentemente casuale. Lanciòun'occhiata furibonda a Ines, poi si misea guardare ostentatamente da un'altraparte.

«Andiamo sugli aeroplani?» proposeil giovanotto di Ines. Ines accettò:

«Arrivederci» disse rivolgendo loroun sorriso di complicità, che fece

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montare Mara al colmo della rabbia.«Ci andiamo anche noi due…

signorina?»«No» rispose seccamente Mara; e

quasi gli voltò le spalle.«Ha paura che le giri la testa?»Mara allora gli piantò gli occhi in

faccia:«Niente affatto. Ma non mi va di

andarci con chi non conosco». E permettere bene in chiaro le cose, aggiunse:«Quella stupida della mia amica, hacombinato tutto lei senza dirmi niente.Se lo avessi saputo, non sarei venuta.»

II giovanotto aveva abbozzato unsorriso; ma rendendosi conto che eradavvero arrabbiata, abbassò gli occhiconfuso.

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Ines tornava ridendo seguita dal suocavaliere:

«E così? abbiamo fatto conoscenza?»Mara alzò le spalle.«Perché non fate un giro anche voi?»

insistette Ines. «È divertente… mettepaura, ma non c'è pericolo.»

A un tratto Mara la investì:«Perché non mi hai detto che avevi

combinato un appuntamento? Non sareivenuta di certo, se avessi immaginatouna cosa simile.»

«E che male c'è?» disse Ines.«Per te non ci sarà niente di male, ma

per me sì. Non mi piace stare insiemecoi giovanotti che non conosco.»

L'amico di Ines ritenne opportunometterci bocca lui:

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«Via, signorina, non prenda le cosesul tragico. Ora le spiego io com'èandata. Noi due avevamo appuntamento,ma poi Ines mi ha detto che era conun'amica… così anche io mi son portatodietro un amico.»

«L'ho fatto per non lasciarti sola» sigiustificò Ines.

«In questo modo Ines fa coppia conme, e lei fa coppia con Stefano»concluse il giovanotto.

«Io non faccio coppia con nessuno»ribatté Mara. «Io, questo Stefano, non sonemmeno chi sia.»

«Ma è lui!» esclamò il giovanottomettendosi a ridere. «Ancora non seistato buono di presentarti?» disserivolto all'amico.

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«Smettila» fece quello seccato.L'altro non se ne diede per inteso: era

sicuro che sarebbe riuscito a dissipare ilmalumore di Mara. «Si vede proprio chetu non ci sai fare con le ragazze; io,anche quando sono musone, mica miperdo d'animo, Comincio a dire tante diquelle stupidaggini che alla fine sonocostrette a ridere.»

«Mica siamo tutti uguali» risposel'amico. A un tratto si volse a Mara: «Miscusi, signorina, anche io, non volevovenire. Ma poi mi sono lasciatotrascinare…»

«Ma questo è il colmo!» esclamòl'altro. «Io gli procuro una ragazza, einvece di ringraziarmi. Sai cosa ti dico?Sbrigatela un po' da te. Vieni,

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andiamocene sulle automobili» e presaInes per mano la condusse via.

«Che stupido» disse Mara. «E la miaamica, lo stesso. Stanno bene insieme»aggiunse con disprezzo. «Oltre tutto, percolpa di quella stupida mi sono persoanche il film».

«Ma è sempre in tempo ad andarci»fece premurosamente il giovanotto.

«Ormai è troppo tardi per trovarmiuna compagnia.»

Il giovane esitò un momento:«Potrei… accompagnarla io. Oh, non

abbia paura, lo dico senza cattiveintenzioni. Avevo voglia anche io divedere quella pellicola.»

Il giovanotto aveva un'aria così seria,che Mara finì con l'accettare. Mise solo

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la condizione che avrebbe pagato da sé.«Come vuole lei» rispose pronto il

giovanotto. «Mi aspetti qui, vado a dirloa quelli.»

«No. Andiamocene senza dirgliniente.»

Salirono sulla massicciata dellastrada, e s'incamminarono in silenzio.Camminavano discosti, e solonell'attraversare la piazza, poiché Maranon aveva badato a un'automobile, eglila fermò toccandole il braccio.All'ingresso, Mara gli diede i soldi, elui andò a fare i biglietti.

«Ho dovuto prendere la galleria»disse tornando. «In platea non c'è piùposto nemmeno in piedi.»

«Allora devo darle la differenza.»

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«Me la darà dopo.»Anche in galleria c'era pieno.

Rimasero vicino all'entrata, appoggiatial muro.

Il film era alla fine. Venne la luce, masi alzò poca gente. Loro non fecero intempo a muoversi, che i posti erano dinuovo occupati.

«Ho paura che dovremo stare tutto iltempo in piedi» disse il giovanotto.

«Ma guarda un po' che per colpa diquella stupida…» ricominciò Mara.«Oltre tutto lo sa che sono fidanzata,perché allora combina questi pasticci? Epoi, anche se fossi libera, queste cosenon le farei lo stesso. Non mi piaceandare col primo venuto. Non si offenda,non lo dico per lei…»

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«No, lei ha ragione.»Proiettarono il documentario, poi ci fu

un nuovo intervallo.«Fuma?»«No» rispose Mara. E, sentendosi in

vena di far la moralista, disse chesecondo lei non stava bene che unaragazza fumasse. Specialmente inpubblico. «Ines invece non si vergognaanche a fumare al cinema… così, igiovanotti che vedono, si immaginanochissà che cosa. L'altra domenica ci siappiccicarono due, non si sapeva comelevarseli di torno. Perché si fa presto adire: chiamo la maschera, oppure gli douno schiaffo; ma una ragazza ci rimettesempre a fare una chiassata.»

«Lei non è di qui, vero?»

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«No. Sono di Monteguidi. È perquesto che mi sono rassegnata ad andarecon Ines; perché non conosco altreragazze.»

«Nemmeno io sono di qui» disse ilgiovanotto. «Sono di Castelfiorentino.»

«Che cosa fa?»«Lavoro alla vetreria». Si tolse

l'impermeabile, e Mara gli videall'occhiello il distintivo del partitocomunista.

«Ah» fece il giovane.«Anche mio padre. E mio fratello…

era comunista anche lui. L'hannoammazzato i tedeschi.»

«Era partigiano?»«Sì» rispose Mara. «Era insieme col

mio fidanzato Cioè, a quel tempo non

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eravamo fidanzati; non ci conoscevamonemmeno». Si fermò: che le era preso,di mettersi a raccontare i fatti propri aquello sconosciuto?

Cambiò discorso:«Lei ci si trova bene qui a

Poggibonsi?»«Mi trovo un po' solo» rispose il

giovanotto.«E quel suo amico?»«Oh, è un amico per modo di dire. È

un barbiere; ma più che altro fa ilmercato nero.»

L'inizio del film venne a interromperela conversazione. Finito il primo tempo,si liberarono due posti lì accanto, e ci sipoterono infilare.

«L'ha visto Il ponte di Waterloo?» gli

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domandò Mara.«Ah, quello sì che era un bel lavoro.»«A me piacciono così le pellicole;

non m'importa se vanno a finir male.»«Anche io la penso allo stesso modo»

si affrettò a dire il giovane.«Mi dimenticavo: quant'è la

differenza?»«Trenta lire. Ma almeno quella,

permetta che gliel'offra.»«No, preferisco…» tirò fuori il

borsellino, e gli diede le trenta lire.Dopo un po' il giovane disse:«Io, creda, lì al Luna Park ci sono

rimasto proprio male… Mi pareva di farla figura del dongiovanni. Perché io nonsono davvero di quelli che molestano leragazze… specie se sono fidanzate. Io,

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quand'ero fidanzato, mi dispiaceva se igiovanotti davano fastidio alla miaragazza; benché, nel mio caso, fossepiuttosto lei che col suo contegno…»

Non poté continuare, perché eraricominciato il film.

Quando arrivarono al punto cheavevano già visto, Mara propose diandar via.

Una volta fuori, gli domandò che oreerano.

«Le sette» rispose il giovane. «Per leiè tardi?»

«No, io posso star fuori… anche finoalle otto. Vogliamo tornare al LunaPark?» Quando si furono incamminati,gli chiese: «Che cosa mi stava dicendodella sua fidanzata?»

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«Che non era una ragazza seria; l'holasciata per questo. Io sono stato via treanni, perché ero militare; e quando sontornato, me l'hanno detto un po' tutti cheil suo comportamento aveva lasciato adesiderare. lei mi giurava che eranochiacchiere messe in giro dalle personeinvidiose. E io le credevo, perché lo sacome succede quando uno è innamorato:diventa cieco. Finché ne ho avutoproprio la prova, che lei m'ingannava.»

«E come?» domandò Mara.«Io per un certo periodo sono stato a

lavorare a Empoli; partivo la mattina etornavo la sera. Ora m'avevano detto chelei approfittava della mia assenza perandare con un suo vecchio innamorato…un mascalzone, oltre tutto, uno che ha

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messo incinta una ragazza e se n'è lavatole mani. E così, un giorno non sonoandato al lavoro e l'ho colta sul fatto.Ma lei, sfacciata, ancora negava: dicevadi averlo incontrato per combinazione…È anche per questo che mi son deciso avenir via dal paese» aggiunse dopo unpo'. «Perché, fin tanto che mi capitava diincontrarla, mi sentivo rimescolaretutto… e mi veniva la voglia diperdonare.»

«Forse avrebbe fatto meglio, aperdonare.»

«No. Avrei fatto uno sbaglio. Perché èuna donna che non merita nulla. Vede, iosono comprensivo: io dico: a una donnale si può anche perdonare, se cade mauna volta, al massimo due… E poi, non

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mi piaceva nemmeno il contegno cheaveva quando era insieme con me.»

«Che intende dire?»«Che anche con me si comportava da

quello che era. Da sgualdrina.»Mara si rendeva conto di far brutta

figura, a insistere nelle domande; ma leera presa una tale curiosità di conosceretutta la storia… «Come, si comportavada sgualdrina?»

«Quando due sono fidanzati, è ladonna che deve tenere indietro l'uomo»sentenziò il giovanotto. «Perché unuomo, arriva anche a perdere la testa…Invece nel caso nostro era lei che tiravale cose in peggio. E così, non era più unfidanzamento; era come se fossimo giàsposati. Ma allora, dove va a finire la

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poesia dell'amore? Non c'è più purezza,non c'è più nemmeno rispetto… diventatutto uno sfogo della carne.»

Stettero un po' senza dir niente.Avevano ripreso a camminare, mainvece di dirigersi verso il Luna Parkpiegarono a destra, lungo la ferrovia.

«Io, da come parla, penso che ne siasempre innamorato» disse Mara.

Il giovane scosse il capo:«No, innamorato non sono più… e

forse non lo sono mai stato. Perché nonero innamorato di quella persona, ma diun'immagine che avevo fabbricato io…Prima di andar militare, ci avevo fattoun po' all'amore, ma così, perpassatempo. È stato quando ero lontanoche ho cominciato a pensare a lei… uno

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da soldato ha sempre bisogno di pensarea una ragazza. E mi sono fabbricatoun'immagine che, ripeto, era moltodifferente dalla realtà…»

«Scommetto che ha sempre lafotografia nel portafoglio.»

Il giovane si stupì:«Come ha fatto a indovinarlo?»«Su, me la faccia vedere.»Il giovane tirò fuori il portafoglio: nel

mezzo c'era una fotografia formatocartolina. Mara l'aveva intravista alcinema, quando lui aveva riposto letrenta lire.

«Qui è troppo buio, andiamo sotto unlampione. Perbacco» esclamò quandol'ebbe vista alla luce.

La ragazza era vestita molto

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semplicemente, con una gonnella scura euna camicetta chiara. Una cintura neralucida le stringeva la vita, mettendo inrisalto i fianchi larghi e il pettoesuberante. Aveva la faccia larga, congli zigomi appiattiti, e la linea dellesopracciglia un po' obliqua; anche ilnaso doveva averlo schiacciato, esoprattutto aveva larghe e schiacciate lelabbra. Gli occhi piccoli sorridevanomaliziosamente nella fessura dellepalpebre. I capelli li aveva crespi elucenti.

«È molto bella» disse Mara conconvinzione.

È troppo bella. Una ragazza così dàsubito nell'occhio… e poi gliel'ho detto,no? che sentimenti aveva. È una

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svergognata, proprio. E dire che sonostato sul punto di fare una pazzia!»

«La pazzia di sposarla?»«No, una pazzia ancora peggiore».

S'era fermato e la guardava fisso:«Capisce cosa voglio dire? M'ha salvatoil pensiero di mia madre. Quando hopensato al dolore che avrei dato a miamadre…». Si riscosse: «Ma lei nonvoleva andare al Luna Park?»

«Ormai sarà tardi» disse Mara.«È vero, sono quasi le otto. La colpa

è mia, che con tutte queste chiacchiere…Mi scusi di averla annoiata.»

«Al contrario» rispose Mara. Pensòun momento alla frase che si deve direin simili circostanze: «Tanto piacere diaver fatto la sua conoscenza».

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«Il piacere è stato tutto mio,signorina» ribatté compitamente ilgiovanotto.

«Allora… arrivederci.»«Arrivederci». Esitò un momento:

«Al Luna Park ci potremo andarequest'altra domenica.»

Mara tornò a casa stordita ed eccitata.Non s'era mai trovata, in passato, adover sostenere una conversazione conun giovanotto: perché con quelli delpaese, e anche con Bube, si era sentita inconfidenza fin dal primo momento.Stavolta invece si trattava di unosconosciuto, che sulle prime l'avevaintimidita anche per la differenza di età.Era contenta di averci saputo parlare. Ela lusingava il fatto di avergli ispirato

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confidenza… Ma poi finì col prevalereun senso di vergogna. Ricordandosi dicome l'aveva spronato a continuarequella specie di confessione, arrossìtutta.

La sera dopo incontrò Ines; che subitole disse:

«Bella parte mi hai fatto ieri:andartene senza nemmeno avvertire. Eio, come una stupida, a cercarti per tuttoil Luna Park…»

«Sono andata al cinema» si giustificòMara.

«Già: sei andata al cinema con quelgiovanotto. Prima hai fatto tanto lasdegnosa, ma poi non ti è parso vero difilartela con lui.»

«Che c'entra: al cinema, non ci potevo

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mica andare da sola.»«Davvero!» esclamò Ines ironica.

«Però, non l'hai mica pensata male: ilcinema è il posto ideale per stareinsieme al buio…»

Mara cominciò ad arrabbiarsi:«Sentila cosa va a pensare! Figurati

un po', non c'era nemmeno posto asedere: siamo stati in piedi, io da unaparte e lui dall'altra…»

«E dopo il cinema? Non mi dirai chesei andata subito a casa. Magari saretestati a fare una passeggiata lungo laferrovia… è lì che vanno lecoppiette…»

«Sai che sei una bella maligna, Ines?»«Ma non far tanto l'innocentina,

andiamo! Io sarò una maligna, ma tu sai

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cosa sei? Un'ipocrita.»«Guarda come parli.»«E che, non è vero forse? Ieri, quando

t'ho presentato quel giovanotto,sembrava che t'avessi fatto chissà cheoffesa… e poi, non sono stata in tempo avoltar gli occhi, che te l'eri già portatovia. E mica per recitarci il rosarioinsieme!»

«Sei una maligna e una vigliacca»proruppe Mara. «E stai certa che non tiguarderò più: nemmeno se crepi tivoglio più guardare in faccia». E levoltò le spalle.

Bruciava di rabbia impotente. Sì,perché si rendeva conto anche da sé ches'era comportata in modo da dare aditoai peggiori sospetti.

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E gliene venne un tal disgusto per tuttala faccenda, che non solo giurò a sestessa che non avrebbe più guardatoInes, ma nemmeno quel giovanotto, semai le fosse capitato di incontrarlo.

Intanto, però, era rimasta senzacompagnia. La domenica dopo, nonavendo con chi uscire, si disse:"Pazienza, resterò in casa"; ma quandofurono vicine le quattro, non potétrattenersi dal fare un po' di toeletta; silavò, si diede il rossetto; e con unapinzetta della signorina si strappò anchequalche pelo delle sopracciglia. A untratto sentì rumore per le scale,riconobbe i passi del signorino; sveltascappò in camera, per non farsisorprendere in sottana.

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Il giovanotto entrò nel bagno:fischiettava. Lei intanto si vestì. Quellodovette sentir rumore, perché tornò sulpianerottolo: «Sei tu, Mara? Credevoche fossi uscita». Mara finalmente vennefuori; il giovanotto era sempre lì, ecommentò: «Oh! come ci siamo fattebelle». Mara tirò di lungo, e ilgiovanotto le gridò dietro: «Giacché cisei, preparami il tè».

Mara aveva in animo di lasciarglielosul tavolo di cucina; ma il giovanotto fusvelto a scendere prima che il tè fossepronto.

«Dove vai? Al cinema? E alloradove?»

«Da nessuna parte. Esco a prendereun po' d'aria.»

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«Ti aspetta l'innamorato?»Mara non rispose: versò il tè nella

tazza e fece l'atto di andarsene. «Se haitanta fretta, vuol dire proprio che tiaspetta qualcuno.» Mara non poté fare ameno di replicare:

«Si occupi degli affari suoi, perfavore; gli affari miei non la riguardanoper nulla.»

«Che caratterino hai, Mara». S'eramesso sulla porta e le sbarrava il passo.«E che bel faccino.»

«Non si provi a darmi noia, perché lodico a sua madre.» Il giovanotto scoppiòin una fragorosa risata: «Se credi difarmi paura…»

«O paura o no, lei mi lascia stare…Si levi dalla porta.»

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«Non sono nemmeno padrone di staresulla porta?»

«Devo passare.»«E tu passa» fece il giovanotto

allargando le braccia.«Io stasera lo dico a sua madre che ha

cercato di darmi noia; e domattinafaccio fagotto e me ne vado. Poi cipenserà mio padre, o il mio fidanzato, avenirle a rompere la faccia.»

«Rompere la faccia a me? Non saràfacile, bella mia» rispose il giovanottogonfiando il torace. Allora il sentimentodi impotenza la esasperò; dandole laforza di reagire:

«Sa cosa le dico? Che mi fa schifo.Sì, schifo; lei si crede padrone di farequello che vuole perché è figlio di gente

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ricca… Io sono figlia di gente povera,ma cosa crede? Che per questo siadisposta a subire qualsiasiumiliazione?»

«Ma io scherzavo…»«Sì, sì, li conosco i suoi scherzi. Si

vergogni» urlò. «Crede di potersiapprofittare di me perché siamo soli incasa… Vigliacco. Si levi di lì, esubito.»

«Mi levo, mi levo» disse ilgiovanotto tutto vergognoso. «Ma non laprendere in questo modo…»

«E mi dia del lei; ha capito? Maguarda se voglio sentirmi dare del tu dauno scemo simile». Si sbatté la portadietro e uscì.

Una volta in strada, si mise a

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camminare in fretta. Andava a caso,scegliendo istintivamente le vie menofrequentate. Che lei, solo perché eracostretta a stare a servizio, dovesseanche subire un affronto… "Ma verràanche il momento nostro" pensò confurore. "Verrà il momento che glielefaremo pagare tutte, ai ricchi. Civendicheremo una buona volta". E letornarono mente il padre, e il fidanzato,che si ergevano a vendicatori delleumiliazioni subite dai poveri; ed ebbe unmoto d'orgoglio al pensiero che Bubeaveva perfino assunto il nome diVendicatore…

«Mara!» Si voltò: era Ines, trafelata.«Ma dove andavi? M'hai fatto fare unacorsa…» S'era fermata a due passi di

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distanza e la guardava con due occhitimidi e buoni. «Facciamo la pace,Mara?»

Mara non rispondeva: tutta presadall'affronto del signorino, stentava aricordare la lite con l'amica. A un trattos'intenerì: afferrò la mano che Ines leporgeva, e subito dopo la abbracciò.Povera diavola anche lei: non potevacerto serbarle rancore.

«Ma tu piangi» disse Ines; «che cosati è capitato?»

«Niente niente» rispose Mara. Siasciugò gli occhi; si soffiò il naso;quando finalmente si fu calmata, disse:«Il signorino ha tentato di darmi noia».

«Eh» sospirò Ines «quando c'è ungiovanotto in casa, è un pasticcio per

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noialtre donne. A volte ti dànno noiaanche gli sposati…»

«Che vigliacchi sono. Solo perchéuna è povera, credono di potersiapprofittare…»

Era decisa a lasciare il servizio; Inesse ne allarmò: «Ma come? Ora che chec'eravamo affiatate…» E la consigliò didirlo alla padrona, minacciando diandarsene se la cosa si fosse ripetuta.«Se ci tengono ad averti, vedrai che lorimettono a posto, il signorino. Be', chefacciamo, adesso?»

«Te dove stavi andando?»«Io? Da nessuna parte. Guardavo se ti

vedevo.»«Di' te dove hai voglia di andare.»«No, decidi te.»

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A Mara le venne da ridere:«Insomma, smettiamola di far

complimenti! Sennò a forza di dire:decidi te, decidi te, non si va da nessunaparte.»

Andarono al Luna Park. Già eranoaccese le luci; e, per contrasto, i vicolitra le baracche e i padiglionisembravano bui. Da uno dei padiglionilontani, veniva una musichetta. A untratto un altoparlante vicino si mise agridare le parole di una canzone,coprendo l'altra musica, e sopraffacendoanche le voci, i cozzi delle automobilielettriche e gli spari dei tirassegni.

Mara e Ines scesero per il decliviocosparso di ciottoli, mescolandosi allagente che faceva ressa intorno alla pista

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delle automobili.«Ci andiamo?» propose Ines. «L'altra

volta mi ci divertii un mondo.»«Ma eri con un giovanotto. Due donne

sole, sono capaci di prenderle di mira…guarda quelle là» disse indicandoun'auto che sbandava in continuazionesotto i colpi che riceveva dalle altremacchine. Le due ragazze ridevano, maerano anche rosse di vergogna.

Ines aprì la borsetta, tirò fuori lesigarette; ma i cerini, li avevadimenticati. Si fece accendere lasigaretta da uno che passava.

Mara non poté trattenersi dal dirle:«Tu gli dai troppa confidenza ai

giovanotti.»«E invece, niente affatto. Io sono di

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compagnia, rido, scherzo, ma almomento opportuno li so rimettere aposto. Prendi Mario… quello didomenica scorsa: m'ha portato sugliaeroplani, sulle automobili, sull'ottovolante; e poi siamo andati in un caffè, emi ha offerto la consumazione. Devoavergli fatto spendere un sacco disoldi!» e si mise a ridere. Tornò seria:«Ma quando dopo ha cercato dimettermi le mani addosso, l'ho subitofermato. Quello stupido» aggiunseindispettita. «Perché m'aveva pagatoqualcosa, si credeva in diritto… È statoil modo che m'ha urtato. Perché, se fossevenuto con altre maniere, lo avrei anchelasciato fare… È un bel ragazzo, non tipare?»

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«Certo» ammise Mara, ma non era pernulla convinta. Lo ricordava come untipo lungo e magro, con la testa piccolae l'aria da scimunito.

«Io, vedi, sono sincera» riprese Ines;«non mi vergogno mica a dirti che conun giovanotto che mi piace ci facciovolentieri la stupida. Non che si arrivi anulla di male: giusto abbracciarsi un po',qualche bacetto… Qui a Poggibonsi, hogià fatto all'amore con quattro» aggiunsecon soddisfazione.

«Ma anche così, a farsi vedereinsieme con questo e con quello, unaragazza si attira addosso lechiacchiere.»

«Tanto io mica devo trovar marito aPoggibonsi» ribatté Ines. «Io ce l'ho già

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il fidanzato a Monteguidi.»«Cosa?» fece Mara sorpresa.«Che, non lo sapevi? Siamo fidanzati

in casa; e al più tardi fra un anno cisposiamo.»

Dopo un po' Mara disse:«Secondo me fai male; se sei

fidanzata, non devi andare con altrigiovanotti. Anche un bacio è sempreun'infedeltà.»

Ines alzò le spalle:«Cosa vuoi che sia, un bacio. Per

essere sincera, con qualcuno di questigiovanotti mi ci sono divertitaparecchio: non ci siamo limitati aibaci…»

«Ci hai fatto… all'amore proprio?»«All'amore proprio no». La guardò; si

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mise a ridere: «Oh, Mara, non vogliomica essere io a istruirti. A volte non cipenso che sei ancora una ragazzina.»

"Ecco" pensava Mara "lei è sincera,mi dice tutto; io, bisognerebbe chefacessi altrettanto; ma come posso dirleche non sono più una ragazzina e cheaddirittura… ho fatto all'amore conBube?" Ma quello che era accaduto nelcapanno era tutta un'altra cosa da ciò cheintendeva Ines. Tant'è vero che leinemmeno ricordava più i particolari:solo le era rimasto il ricordo di unafelicità senza limiti… Dio, Dio, com'erastato bello!

D'un tratto le era divenuto indifferentetutto, il Luna Park, le chiacchiere diInes, e anche quel giovanotto che, fino a

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un momento prima, desiderava rivedere.«Oh, eccoli» disse Ines dandole una

gomitata.«Chi?»«Mario e Stefano. Non voltarti, mi

raccomando; è meglio far finta di niente.Tanto, ci hanno già visto; vedrai che traun po' si fanno avanti.»

«Senti, Ines, io non ho proprio vogliadi starci insieme.»

«Ma perché? Sole, finisce che ci siannoia. Ah, lo dicevo io: stannovenendo.»

Si presentarono insieme con un«buonasera, signorine»; e Mario anchecon un bel sorriso.

«Buonasera» rispose Ines.«Intendiamoci, l'ho detto a lui

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buonasera» fece indicando Stefano;«perché te, non ti voglio più vedere».Ma il tono della voce smentiva laminaccia. «Per via dell'altra volta?»disse Mario. «Come la fate lungavoialtre donne.»

«Ah, ti pare anche di aver ragione?»«Be', se proprio ci tieni ti presento le

mie scuse. Andiamo sulle automobili?»«Vuole andarci anche lei?» disse

dopo un po' Stefano. «Dove?» feceMara, che s'era distratta. «No, non ne hovoglia.»

«Mi sbaglio… o ha qualcosa,stasera?»

«Sono di cattivo umore: ecco tutto.»«Anche io sono di cattivo umore»

disse il giovane. «O per dir meglio,

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sono inquieto… Ieri ho ricevuto unalettera di quella ragazza.»

«E che cosa le ha scritto?» fece Mara,subitamente interessata. «Oh, ma se nonvuol dirmelo… scusi anzi se sono statacosì indiscreta da chiederglielo…»

«Glielo dico volentieri, invece. Mi hascritto le solite cose: si dice pentita,implora il mio perdono…»

«Ma le scrive spesso?»«Anche due volte la settimana.»«E lei risponde?»«Le rispondo, sì… ma per dirle che

non credo nella sincerità del suopentimento, né dei suoi buoni propositiper l'avvenire. Mi dispiace solo per lafamiglia» aggiunse dopo un po'. «Non simeritavano una figlia così. Pensi, le

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sorelle sono portate a esempio: dueragazze serie, che non hanno mai avutouna chiacchiera… Ma si vede che lamalerba nasce dappertutto. Io, quandopenso a lei, faccio proprio il paragonecon la malerba. L'altra sera ho scrittouna novella: e l'ho intitolata così: Lamalerba.»

«Lei scrive le novelle?»«Per passatempo» rispose il giovane.

«A dir la verità, è la prima che hoscritto; in passato scrivevo solo lepoesie. Ma l'altro giorno ho letto su"Toscana Nuova" che c'era un concorsoper una novella, e così, m'è venuto inmente di scriverne una. Ho raccontato népiù né meno che la storia del miofidanzamento. Naturalmente ho cambiato

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i nomi.»La conversazione fu interrotta dal

ritorno degli altri due. Litigavano: Inesdiceva di essersi fatta male al polso, ene dava la colpa a Mario, che sidivertiva a cozzare contro le altremacchine, invece di girare per contosuo.

«Ma se il divertimento è quello»rispondeva Mario. «E poi non farl'esagerata, mica te lo sei rotto, ilpolso.»

«Già: perché non è roba tua, non sentimale. Maleducato.»

Mario non si offese affatto: i suoiocchietti brillavano furbescamente, e lasua bocca era atteggiata a un sorrisocompiaciuto. «Ma voi non vi siete mossi

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di qui?» disse a Mara e Stefano. «Belgusto venire al Luna Park senza andarein nessun posto.»

«Ho mal di capo» fece Mara, tantoper trovare una scusa.

«E allora vai sugli aeroplani: ti passasubito il mal di capo» disse Mario,dandole disinvoltamente del tu. Di lì aun momento fece: «Per forza t'è venuto ilmal di capo: a furia di sentire lechiacchiere di quello lì… Stefano, micaè un giovanotto come gli altri: è unfilosofo» e si mise a ridere.

«Invece è proprio un ragazzoammodo; mica un maleducato come te»intervenne Ines.

Rimasero lì fino alle sette. Mariocomprò il croccante e lo zucchero filato

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per tutti, insegnò alle ragazze a tirarecon la carabina e diede prova didestrezza infilando un cerchietto nelcollo di una bottiglia di vermut, cheregalò a Ines. Chiamava Stefano «ilfilosofo», Ines «la monteguidese», Mara«la monteguidina» e se stesso «lo zio».

Dopo che ebbero lasciato il LunaPark, si riformarono le coppie: Mario eInes avanti, Stefano e Mara dietro.All'imbocco della strada lungo laferrovia, Mario si fermò ad aspettarli:«Andate avanti voi; non vogliamo darviil cattivo esempio». Ines rideva.

Fatti un centinaio di passi Mara sivoltò e vide due ombre abbracciate aridosso del muro. Di colpo sentì unalanguidezza allo stomaco… Guardò

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Stefano: camminava con le maniaffondate nelle taschedell'impermeabile; aveva tutto il viso inombra, solo l'occhio brillava.

Alla fine sembrò accorgersi di lei:«Ha freddo? Vedo che si è tirato su il

bavero.»«Ho un po' freddo, sì.»«Io ne patisco tanto di caldo durante

il lavoro, che il freddo mi fa semprepiacere.»

«Come mai?»«Non lo sa com'è il lavoro nelle

vetrerie?» E si mise a spiegarglielo.Mara porgeva un orecchio distratto

alle sue parole, e intanto, senza parere,si voltava a guardare l'altra coppia. Livide camminare strettamente

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abbracciati, e poi fermarsi e baciarsi alungo. Stavolta poté veder bene, perchési erano fermati alla luce.

«… e così siamo costretti a lavorareseminudi anche nel colmo dell'inverno.Eh, soprattutto mandare il mantice èfaticoso. Però, uno finisce sempre conl'affezionarsi al lavoro che fa. Anche seè un lavoro duro e nemmeno sano. Io mici adatterei male, a fare un altromestiere.»

«Mara! Si torna indietro». Era la vocedi Ines.

Rientrando in casa, Mara si sentivacome defraudata. Non approvava ilcomportamento dell'amica, che puressendo fidanzata si lasciavaabbracciare e baciare da un giovanotto;

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e nello stesso tempo la invidiava diessere così spregiudicata.

Sperava di rivedere Stefano ladomenica dopo; e invece, si presentò ilsolo Mario. Finché rimasero al LunaPark, Mara non si sentì di troppo; Marioanzi fu così gentile da condurre anche leisulle automobili; ma dopo, capì chedoveva lasciarli soli. Tornò a casaprima del solito, e per tutta la serata sisentì triste.

La domenica successiva Stefano siscusò: era dovuto partire, perché avevala madre malata. Andarono tutti e quattroal cinema.

Al momento di separarsi, Stefano ledisse: «Le ho portato una poesia» e lediede un foglio ripiegato in quattro.

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Mara lesse la poesia prima di andarea letto. Era scritta a macchina, incaratteri turchini:

A mia madre

Mamma,

tu sai perché sto lontano:per lavorare, mamma,

e per non vedere più una donna,che sarebbe fatale alla mia vita.

Mamma,tuo figlio è forte,

quando allarga il mantice,quando forgia il vetro:

ha i muscoli temprati, non sente lafatica.

Ma tuo figlio perde la forza quando

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vede quella donna.Mamma,

tu comprendi il figlio tuo, tu lo perdoni,tu preferisci saperlo lontano

che tra le braccia di una maliarda.Mamma,

io guarirò del mio male,io diventerò forte nello spirito come

nei muscoli.E allora, fatto veramente uomo,

tornerò a te,abbraccerò la tua testa bianca,dormirò sul tuo seno, mamma!

Mara si chiedeva che cosa provava

per Stefano. Le piacevano l'intensitàdello sguardo, la fermezza del profilo, lacalma dei gesti. Ma il suo modo di fare,

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quei lunghi discorsi, quei lunghi silenzi,la metteva a disagio.

Ella era in questo stato d'animoquando, ai primi di marzo, le arrivò unalettera di Bube.

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Capitolo 3

Stefano era appoggiato alla stangarossa e bianca del passaggio a livello.Aveva un vestito nuovo, a doppio petto.Buttò il mozzicone e le venne incontro.

«Scusi se sono in ritardo» cominciòMara.

«Oh, non fa nulla.»«Io veramente non volevo nemmeno

venire.»«Perché?» disse Stefano sorpreso.«Perché non è una cosa ben fatta. Io

sono fidanzata… anche lei Si scrive conuna ragazza…»

«Be', non stiamo a parlarne qui» disseStefano; e sollevò la stanga invitandola

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a passare.I platani del viale erano sempre senza

foglie; e lo stesso, nel campo, i gelsi intesta ai filari. Anche i filari erano nudi:lo sguardo passava oltre il loro fragileschermo scoprendo altri campi, giù giùfino all'albereta. In terra il grano erasolo un'erbetta verde e tenera. Mal'uniforme vacuità della campagnainvernale era già rotta da alcunenuvolette bianche e rosate. Mara lemostrò al suo compagno.

«No, quelli che hanno i fiori rosasono peschi; bianchi ce li hanno imandorli e i meli.»

«Io non me ne intendo delle cosedella campagna» ammise Stefano. Orache l'esclamazione di Mara aveva

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interrotto il silenzio, si sentì in doveredi riprendere il discorso: «Perché primami ha detto in quel modo?»

«Ma non c'è bisogno di spiegarlo; locapisce anche da sé che non è una cosafatta bene.»

Stefano non rispose. Dopo un po'disse:

«Come mai queste volte indietro nonci trovava niente di male… e ora invecesì?»

«Be', perché… non ci avevo riflettuto.E poi ieri ho ricevuto una lettera del miofidanzato.»

«Ah» disse Stefano. E aggiunse:«Forse che il suo fidanzato è venuto asapere di me… e gliene ha fatto unrimprovero?»

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«Il mio fidanzato non può saper nulladi quello che faccio io. Si figuri, è inFrancia.»

«In Francia?» esclamò Stefanostupito.

«Sì, in Francia. Erano nove mesi chenon avevo notizie; ieri finalmente mi èarrivata una lettera.»

«È là per ragioni di lavoro?»domandò Stefano.

Mara non rispose. Camminavaguardando in terra. Sentiva crescere ildesiderio di confidarsi con Stefano,come già Stefano si era confidato conlei. Alla fine la sua decisione fu presa:non l'avrebbe più rivisto, ma ora gliavrebbe raccontato tutta la storia. Eratroppo tempo che aveva bisogno di

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sfogarsi.«Senta, è d'accordo che non

dobbiamo più vederci?»«Se proprio le dispiace…»«Non è che mi dispiaccia, è che non

si deve fare. Dunque questa è la nostraultima passeggiata. D'accordo?»

«D'accordo» fece Stefano remissivo.«In questo modo mi sarà più facile

dirle una cosa… Ci fermiamo daqualche parte?»

«Lì sul ponticello.»Una volta seduti sul muretto del

ponticello, Mara cominciò il suoracconto:

«Il mio fidanzato si trova in Franciaperché è dovuto scappare: era ricercatodai carabinieri. Oh, non pensi male: è

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per motivi politici. Gliel'ho detto, no?che il mio fidanzato era partigiano; anzi,io l'ho conosciuto proprio in questomodo, perché era insieme con miofratello e dopo il passaggio della guerraè venuto a conoscere la mia famiglia…Dunque l'anno scorso si trovava in unpaese vicino a Firenze: dove insiemecon altri due aveva messo su unacooperativa di partigiani. Finché ungiorno è accaduto il fatto che ledicevo… per cui il mio fidanzato è statocostretto a scappare.»

Stefano ascoltava attento, ma, perdiscrezione, evitava di far domande.

«Io me lo son visto arrivareall'improvviso a Monteguidi… e mi haraccontato quello che era successo. Il

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prete non li voleva far entrare in chiesa,perché avevano il fazzoletto rosso alcollo. Non che loro ci tenessero adandare alla Messa, ma volevanoaccompagnare una ragazza… lafidanzata di uno degli altri due.Sopraggiunse il maresciallo deicarabinieri…» qui Mara cominciò asentire che le costava uno sforzocontinuare il racconto; tuttavia ilbisogno di andare avanti era più forte «eloro cercarono di spiegargli che era unsopruso quello che il prete gli volevafare, di non lasciarli entrare in chiesa;ma il maresciallo prese le parti delprete. Allora cominciò un litigio: finchéil maresciallo estrasse la rivoltella eammazzò quello che era con la

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fidanzata.»«Come?» esclamò Stefano.«Sì, il maresciallo sparò,

ammazzando Umberto… alloraquell'altro tirò fuori anche lui larivoltella e uccise il maresciallo. Ma fuuna cosa giusta, dico io: perché, va beneche era un maresciallo dei carabinieri,però non aveva mica il diritto diammazzare uno.»

«Comunque, non è stato il suofidanzato.»

«No, è stato quell'altro, Ivan… maaspetti, non è finita. Dunque il figliolodel maresciallo venne a vedere quelloche era successo. E allora Bube, il miofidanzato…» Mara si fece forza,continuò «lei capisce, in un frangente

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simile, uno perde la testa… gli avevanoammazzato un compagno sotto gliocchi… così inseguì il figliolo delmaresciallo…» volle proprio dir tutto«questi si rifugiò in una casa… ma luigli corse dietro, e in cima alle scale glisparò e l'uccise. E così ci furono tremorti: pensi un po' che tragedia. Ora ionon voglio mica dire: anche da parteloro poteva essere evitata: ma ilprincipale responsabile è il maresciallo.Lui e il prete. Non le pare?»

«Sì, certo… Ma dopo, che cosa èavvenuto?»

«Il mio fidanzato rimase lì tutto ilgiorno, vestirono il compagno morto egli fecero la camera ardente nella Casadel Popolo; finché, la sera, arrivarono

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altri carabinieri, e allora lui fu costrettoa nascondersi. O meglio, ce locostrinsero, perché lui avrebbe volutopresentarsi. Infatti non si sentiva incolpa: erano stati provocati, avevanoreagito… Ma il Partito gli diede l'ordinedi non farsi prendere. E così, primavenne da me a Monteguidi, poi io loaccompagnai a Volterra, e di lì, è partitoper la Francia. E in tutti questi mesi nonmi ha potuto far saper niente; solo ieri,come le dicevo, ho ricevuto unalettera… dove mi dice che sta bene, cheè tranquillo, che spera di poter tornarepresto… me lo dicono tutti, veramente,che ci sarà presto un'amnistia… maintanto è lontano, e io sapesse come misento sola… senza nemmeno aver

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nessuno con cui sfogarmi… perché oltretutto è una faccenda che bisogna tenersegreta.»

Stefano si era messo a fumare. Allafine disse:

«Io l'avevo capito che lei avevaqualcosa… la vedevo troppo seria, perl'età che ha. Mi dicevo: quella ragazzadeve avere qualche pensiero… Stavoquasi per domandarglielo; ma poi non neho avuto il coraggio…»

«Vede bene che non sono più fortunatadi lei.»

«Già: è per questo, forse, che cisiamo sentiti attratti l'uno dall'altra…inconsciamente sentivamo che c'era unacomunanza di destini.»

«Forse è così» ammise Mara.

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«Ma allora, non è un male se civediamo: per lo meno, ci diamo confortoa vicenda.»

«No, Stefano». Era la prima volta chelo chiamava per nome. «Ormai loabbiamo stabilito, che è l'ultima voltache stiamo insieme.»

«E sia» disse Stefano. «Ma allora, seproprio non ci dobbiamo più rivedere,permetta che le dica una cosa ancheio…» Le stava davanti in piedi:«Mara… io rimpiango di non averlaconosciuta prima.»

Ella abbassò gli occhi:«Quando, prima?»«Quando era libera». E aggiunse:

«Mara, mi dica una cosa sola: se il suocuore fosse stato libero, crede che

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avrebbe potuto avere della simpatia perme?» Ella assentì con la testa. «No, melo dica guardandomi negli occhi». Maraobbedì macchinalmente e ripeté: «Sì.»

«Grazie, Mara. Sarà una consolazionemagra, ma mi fa piacere pensare che seci fossimo conosciuti in un'altracircostanza, anche lei avrebbe potutovolermi bene. Perché io le ho volutobene fin dalla prima volta.»

Mara distolse gli occhi dal viso brunoe appassionato di Stefano per guardaredi sbieco la parete rocciosa al di là deltorrente e della strada. Risentiva, per laprima volta dopo tanto tempo, lastruggente dolcezza delle paroled'amore; ed era grata a Stefano di averlepronunciate.

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Quanto tempo passò? Il giallo di uncespo di ginestre si era spento sopra labazzia; e da questo Mara capì che stavafacendosi sera. «Si va?» disse senzaguardarlo.

Tornarono lentamente indietro, e soloquando furono in paese, tra le luci, lesagome buie delle case, e il frastuonolontano del Luna Park, poterono dinuovo guardarsi in faccia e parlare.Come se fosse stato inteso che dovesseessere così, parlarono di altre cose. Maal momento di lasciarsi Stefano lechiese:

«Davvero non vuole che ci vediamopiù?»

«Stefano, cerchi di capirmi…»«Sì, la capisco, Mara» e le strinse

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forte la mano.Nemmeno lei disse altro; e così, senza

una parola di saluto, si lasciarono.In aprile, ella ricevette un'altra lettera

di Bube. Anche stavolta, gliela portò ilpadre, che venne di domenica e sitrattenne con lei tutto il pomeriggio.

La lettera diceva quasi le stesse cosedell'altra. C'era solo un'allusione alleimminenti elezioni e all'amnistia chesarebbe stata concessa subito dopo.

«Quando ci sono le elezioni?»«Il 2 giugno» rispose il padre.

«Vinceremo di sicuro; s'è già visto, inqueste prime elezioni amministrative,che il popolo è con noi.»

Egli era preso più che maidall'attività politica. Mara gli domandò

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della madre: non stava bene, avevaavuto dei disturbi: il padre però non leseppe spiegare bene che disturbifossero.

Andarono a spasso per il vialealberato. La campagna aveva già mutatoaspetto: i filari di viti, ora, facevanosiepe, spartendo ordinatamente i campilunghi e stretti, in cui il granoverdeggiava compatto.

Il padre camminava con le mani intasca, fischiettando. All'occhielloportava il distintivo del partitocomunista e un nastrino azzurro, colbordo nero e una minuscola stella dibronzo in mezzo. Mara gli domandò checos'era.

«Padre di un caduto medaglia di

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bronzo». E riprese a fischiettare.Arrivarono al ponticello. Lì il

torrente s'incassava in una specie digola. Tanto per far qualcosa, Mara siarrampicò su una balza a coglier fiori. Ilpadre la aspettava sulla strada, fumando.

Quando furono tornati in paese, eragià quasi l'ora della partenza del treno.Si misero in sala d'aspetto, uno stanzonenudo, fiocamente illuminato.

«Stasera torni a casa?» gli domandòMara.

«No. Arriverei troppo tardi. E poifare la strada di notte… Finché nonrimettono il servizio, è un guaio.»

Finalmente arrivò il treno.Mara finì la serata passeggiando su e

giù per la via principale. Mentre serviva

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a tavola, il giovanotto disse:«Gliel'avete data quella lettera a

Mara?»«Oh, già» fece la sorella; «t'è arrivata

una lettera, Mara; m'ero dimenticata didartela.»

L'indirizzo era battuto a macchina.Mara riconobbe i caratteri turchini; e siaffrettò a ficcar la lettera nella tasca delgrembiule.

L'aprì quando fu a letto. Contenevasoltanto un foglio di carta velina su cuiera scritta una poesia:

A Mara

Mara,

fanciulla coraggiosa, che sai soffrire in

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silenzio. Mara,se ti avessi incontrata prima, ti avrei

fatto le più infuocate profferte d'amore.Ma tu sei di un altro; e io ti rispetto

troppo per dirti: «Ti amo».Perciò dico addio al sogno, dico anche

a te: «Addio, fanciulla». Non c'era nemmeno la firma, e Mara,

che si aspettava una vera lettera, rimasedelusa. Rilesse anche la lettera di Bube:nemmeno quella parlò al suo animo."Ma dunque sono destinata a passare lamia giovinezza così, senza l'amore?" Unmese prima, aveva compiuto diciassetteanni; e le pareva che il meglio della vitafosse già passato.

La domenica seguente venne a

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chiamarla Ines. Aveva rotto con Mario, econ l'abituale franchezza gliene spiegòla ragione: Mario, via via, si era fattosempre più esigente: non si contentavadei baci. Ma lei non gli aveva voluto darsoddisfazione.

«Mica per nulla, ma quello è il tipoche poi si va a vantare con gli altrigiovanotti… Lo avrebbe raccontato atutti, che con me ci aveva fatto i suoicomodi.»

Ma era scontenta; al cinema si annoiò;e dopo disse a Mara:

«Lo vedi? Senza la compagnia di ungiovanotto, si passa male il tempo.»

Passeggiavano per la via principale:quando videro Stefano. Era sull'altromarciapiede e non le aveva viste; fu Ines

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a chiamarlo; e Mara non fece nulla perimpedirglielo.

Stefano era molto imbarazzatosalutandola. Per fortuna c'era Ines. Disseche erano state al cinema, che lei s'eraannoiata a morte; poi gli chiese se avevapiù visto Mario.

«No» rispose Stefano. «I giorni dilavoro non vedo nessuno, e la domenicadi solito vado a casa.»

«Be', se lo vedi digli da parte mia cheè un bel maleducato. Digli che questavolta non gliela perdono più. Oh, ma voidue volete stare un po' soli: vi saluto»fece strizzando l'occhio a Mara.

Per un po' non si dissero niente.«E così… abbiamo fatto la pace con

la fidanzata?»

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«No, perché?» disse Stefanosorpreso.

«Dal momento che va tutte ledomeniche a casa.»

«Ci vado perché altrimenti non so chefare.»

«Nemmeno io so mai cosa fare ladomenica» ammise Mara.

«È stata lei che ha voluto che non civedessimo più» la rimproverò Stefano.

Mara non disse nulla. Dopo un po' glichiese:

«Anche alla sua fidanzata scriveva lepoesie?»

«No, a lei no… non avrebbe capito.Vede, della mia fidanzata, quello che miattirava era soltanto il fisico… non c'eraaffinità tra noi. Con lei è un'altra cosa,

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Mara, io ho sentito subito che lei era lamia anima gemella.»

«Ma le piaccio… anche comeaspetto?» lo provocò Mara.

Stefano rifletté prima di rispondere:«L'aspetto è lo specchio dell'anima»

disse alla fine.«Non sono due cose separate. La mia

fidanzata è bella, ma ha un aspettovolgare; mentre la sua, è una bellezzaspirituale. Il suo sguardo, voglio dire;l'espressione del viso; e i suoimovimenti, così pieni di grazia… Iom'incanto a guardarla. Oh, non siacrudele: non mi tolga l'unico confortoche mi rimane: quello di poterla vedere,di poter ascoltare il suono della suavoce…»

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Mara era stordita da tutte quelle frasi,ma non provò più la commozionedell'altra volta, quando con poche esemplici parole Stefano le aveva dettodi volerle bene. Pure, sentiva di nonpoter più fare a meno di lui; e, almomento di separarsi, si lasciòstrappare un appuntamento per ladomenica dopo.

Così, ripresero a vedersi. Ogni voltaMara andava piena di speranzaall'appuntamento, e poi rimanevaleggermente delusa dal comportamentodi lui. Stefano faceva lunghi discorsi:anche di politica: ma in un modo moltodiverso da come ne parlava suo padre.Diceva di esser diventato comunistaquando era soldato, in seguito alla

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lettura di un romanzo: E le stelle stannoa guardare. Volle prestarglielo; ma lei,che fino ad allora aveva letto solo igiornali illustrati, non ci siraccapezzava; dopo un paio di sere, sistancò di leggerlo.

Stefano parlava, parlava; poirimaneva a lungo in silenzio, pensandochissà a che cosa. E se quei lunghidiscorsi la stancavano, quei lunghisilenzi la intimidivano. Ma la sera,rientrando in camera, restava a lungo aguardare la fabbrica coi finestronipalpitanti di luce: benché sapesse chenon era la vetreria.

In maggio il padre venne a prenderlaper riportarla a casa: la madre dovevaoperarsi d'ulcera.

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L'operazione era andata bene, ma lamadre stentava a rimettersi. Mara e ilpadre mangiavano in casa del segretariodella sezione; lei ci dormiva anche,mentre il padre aveva una branda nellasua stanza. Vinicio era rimasto aMonteguidi in casa della zia.

Si era ormai nel pieno dellacampagna elettorale, e il padre certigiorni non aveva nemmeno il tempo difare una capatina in ospedale. La sera,c'era sempre qualche comizio; Mara,passando, si fermava ad ascoltare.Quando parlava un comunista o unsocialista, la piazza era piena; mentre aicomizi dei democratici cristiani non ciandava mai nessuno, e un monarchico,che osò presentarsi una delle ultime

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sere, nemmeno lo fecero parlare.Improvvisamente venne la notizia che

era stata concessa un'amnistia. Mara loseppe da una ricoverata che aveva ilmarito in carcere per una frodealimentare. Impaziente di saperne di più,andò subito in sezione: ma il padre erain giro per la campagna; il segretario lostesso; e poté parlarci solo la mattinadopo.

«È proprio un capolavoroquest'amnistia!» diceva il padre irato. «Ifascisti, andranno tutti fuori; e quelli chesi sono arricchiti affamando il popolo,lo stesso.»

«Ma Bube?»«Bube è un partigiano; e l'amnistia

mica l'hanno fatta per i partigiani.»

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«Ma non l'ha fatta Togliatti?»«Già, l'ha fatta Togliatti! Ma a quanto

pare, gli premeva di più mettere fuori ifascisti.»

Il segretario, dal canto suo, cercava digiustificare il provvedimento; ma sivedeva che non era convinto nemmenolui. C'era molto fermento in giro e unasera, a un comizio comunista, nacquerodegli incidenti: quando l'oratore venne aparlare dell'amnistia, lo coprirono difischi. Addirittura ci furono di quelli cheandarono in sezione e fecero la tesserain quattro pezzi.

«M'era venuta la voglia anche a me»disse il padre alla moglie, presenteMara. «Ma come? Si deve fareun'amnistia per danneggiare il popolo? E

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dev'essere proprio il capo delcomunismo a farla?»

«Ma allora Bube non potrà maitornare» disse Mara disperata.

«Tornerà, tornerà; stai certa chetornerà. Quando avremo preso ilpotere…»

«Se vincete le elezioni, Bube potràtornare?»

«Macché elezioni. S'è mai visto che ilcomunismo vince con la scheda? Ilcomunismo vince, ma con la rivoluzione.Allora, se ci si fosse illusi anche noi cheil potere si prende con la scheda, perchémai si sarebbe fatta la scissione diLivorno? Io a quel tempo ero un ragazzo,ma me li ricordo i discorsi dei nostricapi. Il potere, dicevano, si conquista

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con la rivoluzione, non con la scheda.»Arrivò il giorno delle votazioni, poi

ci fu l'attesa per conoscere i risultati;quando si seppe che la repubblica avevavinto, venne improvvisato un corteo, cheMara guardò da una finestradell'ospedale. Anche la madre vollealzarsi per vederlo. Poi ci fu laproclamazione ufficiale dellaRepubblica, e la sera, in piazza, c'erauna folla enorme, venuta anche dallacampagna; la banda suonò l'Inno diMameli e l'Inno di Garibaldi. Mara,presa anche lei dall'entusiasmo, battevale mani e cantava. Il padre era di nuovoallegro, diceva che la faccenda di SanDonato era dimenticata e Bube sarebbepotuto benissimo tornare.

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Proprio quel giorno le era arrivatauna lettera: anche Bube si dicevafiducioso di poter tornare presto. EMara si persuase che era così, che Bubesarebbe tornato presto e che avrebberopotuto sposare.

Ma questa prospettiva non larallegrava più come in passato.

Lì a Colle, e poi quando la madre sifu ristabilita e poterono tornare a casa,si sorprendeva a pensare a Stefanomolto più di quanto non pensasse aBube. A Bube anzi non ci pensavaaffatto, era semmai il padre o qualcunaltro a parlargliene. Stefano, invece, eracostantemente presente nei suoi pensieri.Non proprio lui, magari, ma il ricordodei mesi passati a Poggibonsi. Erano

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stati dei bei mesi. Sospirava, ripensandoalla strada lungo la ferrovia, al vialealberato, al cinematografo, al Luna Park,alla vista del paese di notte, con legrandi vetrate luminose della fabbrica.

Non aveva avuto modo di informareStefano della sua partenza. Si chiedevase non avrebbe fatto bene a scrivergli.Se avesse conosciuto il suo indirizzo, gliavrebbe scritto. Certo, poteva fargliavere una lettera tramite Ines. Ma leseccava metterci di mezzo l'amica: laquale, oltre tutto, si sarebbe potutaformare l'idea che tra lei e Stefano cifosse stato qualcosa. Non c'era statonulla, invece: lui non l'aveva nemmenosfiorata con una carezza. C'erano statesolo le sue parole appassionate, che

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l'amava, che rimpiangeva di non averlaincontrata prima… Ora che era sicuradel ritorno di Bube, Mara rimpiangevaanche lei di non avere incontrato primaStefano.

La madre riprendeva lentamente leforze. Per il momento, era Mara chefaceva tutto: in casa e nei campi. Avevada lavorare quasi più lì a Monteguidiche da quella famiglia a Poggibonsi. E,nei momenti di libertà, non sapeva chefare.

Le novità del paese non lainteressavano più. Quando vedevaLiliana a braccetto con Mauro (s'eranofidanzati tre mesi avanti) non soltantonon provava dispetto, macompassionava Mauro per essere finito

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nelle grinfie di quella strega.Un giorno il postino chiamò:

«Castellucci!» Mara corse a prendere lalettera: era per lei. Ma non era lascrittura di Bube. Che fosse Stefano? Ilcuore cominciò a batterle forte. Non eranemmeno Stefano: era la signora: lediceva che aveva dovuto assumereun'altra donna, ma che era pronta ariprender lei, in qualunque momento sifosse decisa a tornare.

Inaspettatamente le arrivò unacitazione da parte del pretore di Colle.Ci andò accompagnata dal padre. Ilpretore le disse che era incaricato diinterrogarla per conto della Corted'Assise di Firenze, che stava istruendoil processo a carico di Ballerini Ivan e

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Cappellini Arturo. Le chiese seconfermava la deposizione resa davantiai carabinieri. Lei confermò, e fucongedata.

Non aveva capito molto in tutta lafaccenda, ma il padre s'era allarmato:fece una telefonata a Volterra, e Lidorigli confermò che a Firenze stavanoistruendo il processo: non solo, ma chequell'altro, Ballerini Ivan, era statoarrestato a Milano. Dunque l'amnistianon aveva cancellato il fatto di SanDonato; mentre criminali fascisticondannati a trent'anni erano statirimessi fuori! Per qualche giorno ilpadre tornò a inveire «contro chim'intendo io»; e Mara ripiombònell'incertezza. Ora pensava di nuovo a

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Bube, a se stessa, al suo triste destino.Aveva diciassette anni e mezzo, e la suagioventù stava consumandosiinutilmente, legata com'era a un uomoche non avrebbe potuto rivedere maipiù.

Una mattina si sentì chiamare: la vocele era nota, però non riusciva a capire…Era Ines. Si abbracciarono contrasporto.

«Come mai sei qui?»«Sono venuta via dal servizio»

rispose Ines.Era venuta via dal servizio, e non

aveva intenzione di cercarsene un altro.Anche perché presto si sarebbe sposata.Poi Mara le domandò di Mario, ed erauna scusa per spingerla a parlare di

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Stefano.Ines si rabbuiò:«Ma tu, mica hai fatto chiacchiere?»«Che chiacchiere avrei dovuto fare?»«Non sei mica andata a raccontare

che a Poggibonsi mi vedevo con ungiovanotto?»

«Ma no, te lo assicuro.»«Vorrei proprio sapere chi è stato».

Le spiegò che la voce era arrivataall'orecchio del fidanzato, che le avevafatto una terribile scenata. «Ionaturalmente ho negato; gliel'ho anchegiurato, tanto i giuramenti alzando iltacco mica hanno valore.»

«Ti ha mai visto nessuno diMonteguidi?»

«Di Monteguidi proprio, no… ma una

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sera, che ero appunto insieme conMario, è passato Carlino: sai, quelsensale di Volterra…»

«Allora è stato lui di certo: è unantipatico maligno che non te loimmagini nemmeno. Lo so peresperienza». Poi, visto che Ines non neparlava, si decise a chiederle se avevapiù visto Stefano.

«Sì, l'ho visto, ci ho anche parlato…Mi ha domandato di te.»

«Gli hai detto che ero dovuta venirvia all'improvviso?»

«Gliel'ho detto, sì… Senti, Mara, orache è passata, puoi anche dirmi laverità: cosa ci hai fatto con Stefano?»

«Niente, ci ho fatto.»«Avanti, sii sincera.»

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«Sono sincera, Ines: te lo giuro. Luimi ha detto di volermi bene: questo èvero; ma non mi ha toccato nemmenocon un dito.»

«E tu?»«Anche io gli ho detto… che mi

piaceva.»«Oh, Mara, proprio non ti capisco; se

ti piaceva, perché non ti ci sei messa?»«Ma perché sono fidanzata.»«E dai. Sei fidanzata con uno che

nemmeno sta in Italia: che vattelapescadov'è. E non ti vuoi prendere lo svago diandare insieme con un giovanotto… Mapoi, non hai detto che ti piaceva? Eallora potevi mandare al diavolo ilfidanzato e metterti con lui.»

«Non potevo…»

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«E perché?»«Ines, il mio fidanzato è dovuto

scappare all'estero per una faccenda dipolitica: ora non ti posso spiegar bene.Ma mi raccomando, non andarlo aridire. Be', immaginati un po' in chestato d'animo si trova: è solo, in unpaese straniero… Il solo conforto che haè di sapere che io sono qui adaspettarlo: come potrei venir meno allasua fiducia? Metti che domani torni e mitrovi fidanzata o magari sposata con unaltro: come ci rimarrebbe?»

«Ma tu a chi vuoi bene, al tuofidanzato o a Stefano?»

«Non lo so» rispose Mara sconsolata.«Ma scusa, come posso fare unconfronto… tra uno che è lontano ormai

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da più di un anno… e un altro cheinvece è qui, voglio dire pocodistante… e con cui sono stata insiemefino a poco tempo fa?»

Ines scosse la testa:«Tu prendi le cose troppo sul tragico.

Se Stefano ti piaceva, potevi intantometterti con lui… e quando poi questofamoso fidanzato fosse ricomparso,saresti stata sempre in tempo ascegliere… A me non mi sarebbe parsovero di aver due giovanotti che mistessero dietro.»

«E non ce li hai avuti?» disse Marasorridendo. «Sì, il tuo fidanzato, eMario…»

«Mario lo so io come mi stava dietro.Voleva divertirsi, e basta. Stai a sentire:

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l'ultima volta che ci sono andatainsieme, ho commesso lo sbaglio difarmi portare in campagna… E lì, devivedere che lotte. M'ha strappato lasottana, le mutande, tutto… Ma non sel'è levata la soddisfazione.»

«Stefano invece con me è statosempre rispettoso.»

«Perché ti voleva bene veramente.Mica come Mario a me» disse Inesrattristata.

Mara ricevette altre due lettere diBube, quasi insieme. Non erano piùfiduciose, tutt'altro. Nella secondadiceva addirittura di aver perduto ognisperanza di poter tornare in Italia.«Dovrai esser tu a raggiungermi. Ora stocercando il mezzo di farti venire, ne ho

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già parlato con i compagni…»No, questo no. Non sarebbe arrivata

al punto di andarlo a raggiungere inFrancia. Se proprio per lui non erapossibile rientrare in Italia, allora…

Quando la madre si fu completamenterimessa, scrisse alla signora per tornarea Poggibonsi.

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Capitolo 4

Lo incontrò subito una delle primesere. Doveva essere appena uscito dallavoro, perché era in tuta e aveva l'ariastanca. Per un momento la guardò comese non la riconoscesse; poi gli s'illuminòil viso.

«Ma come» disse.«Sono tornata» rispose lei.«Da quando?»«Da lunedì.»«È sempre… da quella famiglia?»«Sì. E lei… lavora sempre alla

vetreria?»Stefano annuì. La aspettò fuori della

latteria, e la riaccompagnò fin quasi a

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casa.«È contento che sia tornata?»«E me lo domanda?»«Anche io sono contenta.»«Mara…» cominciò Stefano; ma lei

lo interruppe dicendo che dovevaandare. Per quella sera, le bastava diaverlo rivisto.

Si videro il pomeriggio delladomenica; e, come in passato, andaronoa spasso per il viale. I platani stavanogià perdendo le foglie; e nei campi ifilari erano color ruggine. La terra, aratadi fresco, appariva nera e lucente.

«Io sono rimasto senza parole, l'altrasera» cominciò Stefano. «Non speravopiù di rivederla.»

«Scommetto che non si ricordava

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nemmeno che esistevo» civettò lei.«Al contrario» rispose Stefano serio.

«Non ho fatto che pensare a lei, in tuttiquesti mesi. Mara, mi ascolti: quello chele dissi allora, è vero; non è stato uncapriccio. Mara, io ho cercato di lottarecontro questo sentimento; ma non è statopossibile. Io non posso scacciarla dalmio cuore, Mara.»

«Anche io ho fatto di tutto perdimenticarla; ma non m'è riuscito»confessò lei.

Erano arrivati al ponticello. «Lericorda nulla questo posto?» cominciòStefano.

Mara fece segno di sì.«Fu qui che le dissi di volerle bene».

Tenne ancora a mettere in rilievo la sua

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lealtà: «Glielo dissi, perché avevamodeciso di non vederci più; altrimenti,non mi sarei mai permesso… Ma ildestino ha deciso diversamente. Mara,noi non possiamo opporci al destino»aggiunse con calore.

«Che cosa dobbiamo fare?» chieseMara piano; più che Stefano, sembravache interrogasse se stessa.

«Abbandonarci al destino; civogliamo bene, e dunque…»

«Il mio destino è un altro» disseMara; «ho preso un impegno, e lo devomantenere.»

«Ma noi due ci amiamo». Le eravenuto vicinissimo col viso.

«No, Stefano, no» disse ancora lei;ma già si abbandonava. Si lasciò

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baciare. Avvertì dapprima il contattodelle labbra, poi una sensazioneindistinta di molle, di voluttuoso.

Si staccò da Stefano e riaprì gliocchi:

«Non è bene» disse.«È bene, Mara, amor mio». Le si

avvicinò di nuovo; lei volse gli occhiper non farsi baciare; rimasero così, conle guance accostate, mentre le loro ditasi intrecciavano.

«Non dobbiamo, Stefano.»«Ma anche tu mi ami.»«Non importa. Non dobbiamo lo

stesso.»«Mara, ascoltami…»Diceva così, e intanto si lasciava

stringere alla vita; si lasciava

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accarezzare la mano, e baciare sullaguancia.

«Stefano, no.»«Ho fatto di tutto per contenermi,

Mara; ma non ho potuto.»«Non bisogna, non bisogna…»«Lasciati amare almeno per un poco;

ti chiedo un'ora soltanto. Un'orad'amore; e dopo, se vuoi, non mi vedraipiù.»

«Ma sarà peggio che mai, dopo… Tiprego, lasciami stare. Sono già troppoinnamorata di te, e se tu mi baci,anche…»

«Che colpa ne ho se ti amo?»Le parole erano intermezzate dalle

carezze e dagli abbracci. Finché Mara silasciò baciare senza più opporre

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resistenza.Tornarono indietro tenendosi per

mano. Si guardavano, poi riabbassavanogli occhi sulle foglie, i rametti e lepallottole giallastre e pelose di cui eracosparso l'asfalto. Mara non pensava anulla: si abbandonava tutta alla dolcezzadi quel contatto, di quegli sguardi. Mauna volta in paese, tornò in lei lacoscienza che non doveva abbandonarsia quel sentimento.

«Stefano, non dovevamo.»«Ma perché? Se ci vogliamo bene.

Perché dovremmo nascondere la verità anoi stessi? Tu e io ci amiamo, Mara; nonè così?»

«È cosi.»«E allora perché non dovremmo stare

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insieme? Perché non dovremmofidanzarci? Che cosa ce lo impedisce?»

«Io sono fidanzata con un altro,Stefano.»

«Ma ami me; e allora rompi quellegame…»

«Non posso.»«Ma perché. Scusa, mica è difficile:

tu gli scrivi che ti eri ingannata nei tuoisentimenti verso di lui…»

«Ma, Stefano, non posso fargli questaparte. Vedi, se lui fosse qui, allorapotrei anche fargliela; ma è lontano, èsolo, vive come un disperato; possodargli questo dolore, di scrivergli chenon ne voglio più sapere di lui?»

«Glielo dirai quando tornerà.»«Ma forse non tornerà mai, Stefano.»

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«Come?» esclamò lui stupefatto.«È così; c'è stata l'amnistia, ma per

lui non vale; a Firenze, stanno già perfargli il processo. Lo condanneranno achissà quanti anni, e non potrà piùtornare.»

«Be', potrebbero anche assolverlo.»Mara scosse la testa:«No, è come dico io. Ma scusa, se

non lo fanno presentare, vuol dire chesono sicuri che sarà condannato; e perchi non si presenta, ho sempre sentitodire che la condanna è più grave.»

«Certo, se non si presenta, aggrava lasua posizione» ammise Stefano. «Delresto, lo deve aver capito anche lui,perché mi ha scritto di raggiungerlo inFrancia.»

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Stefano si spaventò: «E tu pensi difarlo?»

«No: gliel'ho già scritto, che non misento. Non mi sento di raggiungerlo, manon mi sento nemmeno di lasciarlo…Non so nemmeno io cosa fare.»

Dopo un po' Stefano le disse:«Comprendo i tuoi scrupoli, Mara.

Ma lasciami almeno un filo disperanza…»

Quando fu buio del tutto, andarono apasseggiare lungo la ferrovia. Stefanotaceva e le stava discosto. Fu lei aprenderlo a braccetto:

«Sei arrabbiato con me?»«Arrabbiato con te? No, semmai…

con me stesso. Sono stato un egoista,Mara. Non ho pensato a te, ai problemi

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che ti avrei creato. Avrei dovuto…» manon terminò la frase. «D'ora in avanti,farò quello che vuoi tu. Non ti toccherònemmeno con un dito, se tu non vuoi.Guarda: se mi dici che non dobbiamopiù vederci, lascio il lavoro, vado astare in un'altra città. Io… non voglioturbare il tuo cuore, Mara. Voglio che tusia contenta. Dimmi che cosa devo fareperché tu sia contenta ti obbedirò.»

«Baciami.»Sorpreso, Stefano la baciò, ma senza

calore «Baciami un'altra volta. E oratienimi fra le braccia non voglio pensarepiù a nulla…» Bruscamente si scostò elo guardò fisso: «Stefano. Anche se ilnostro è un amore senza domani… nonme ne importa.»

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Lui voleva ricominciare a parlare;glielo impedì. E passò il resto dellaserata fra le sue braccia, senza dirniente, senza nemmeno pensare.

La sera, ora, scendeva precocemente,e incontrandosi alle quattro delpomeriggio, non avevano da aspettaremolto perché l'oscurità e la nebbiaavvolgessero la strada lungo la ferrovia.I lampioni erano radi, non passava quasinessuno; e le altre coppie, avevanoanche esse interesse ad appartarsi.

Era bello anche andare al cinemainsieme. Si tenevano a braccetto, con ledita intrecciate, e ogni tantodistoglievano gli occhi dallo schermoper guardarsi e magari per sussurrarsiuna parola amorosa. Poi c'era sempre

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tempo di fare una passeggiata, diabbracciarsi e baciarsi al riparo di unacatasta di traversine.

Mara non viveva che per quelleserate. Cominciava a contare i giornisubito il lunedì. La sera, prima di andarea letto, rivolgeva un saluto al fantasmaluminoso della fabbrica, e si diceva cheun altro giorno era passato.

Ogni volta, recandosiall'appuntamento, le prendeva il tremito,come se fosse stato il primo. E si sentivauno struggimento interno, scorgendoStefano.

Le piaceva tanto quando laabbracciava. Le piaceva sentire ibicipiti che si contraevano ogni qualvolta la stringeva. E restare abbracciata

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a lui senza parlare, guardando l'alonegiallognolo dei lampioni nella nebbiaoscura, o l'occhio rosso di un fanale chespiccava netto nel buio. E cambiareposizione di tanto in tanto, per rinnovarela dolcezza del contatto.

Questo era l'amore: qualcosa cheriscaldava il cuore e struggeva lemembra. Mara non sentiva il bisogno dilunghi discorsi, ma solo del genericobisbiglio degli innamorati. E ledispiaceva quando Stefano rompeval'incanto mettendosi a parlare. Nonvoleva essere richiamata alla realtà.

«Mara, ti devo domandare una cosa.»«Non domandarmi nulla.»«Hai più ricevuto lettere da Bube?»«Perché me lo vuoi ricordare.»

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«Ma bisogna parlarne, Mara.»«Che bisogno c'è?» E gli impediva di

continuare abbracciandolo stretto.Ma egli si svincolava:«Mara, dobbiamo prendere una

decisione.»«Stefano, perché mi tormenti? Si sta

tanto bene così…»«Ma dobbiamo pensare all'avvenire.»«Perché? È così bello il presente…

Facciamo come in quel film cheabbiamo visto… Amanti senzadomani… Godiamoci l'ora presente, enon pensiamo al futuro. Oh, Stefano, tigiuro, non ho mai passato ore così felicicome con te. Perché vuoi turbare la miafelicità ricordandomi le cosespiacevoli?»

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«Ma se con me sei felice, perché nonci fidanziamo? Anzi, perché non cisposiamo?»

«Oh, Stefano, sarebbe troppo bello.»«Ma chi ce lo impedisce.»«Non lo so; ma ho paura anche a

pensarlo, che questa felicità potrebbedurare sempre. Ho paura di vederlasvanire. Non voglio pensare al domani,Stefano. Non voglio far progetti. Mibasta di stare fra le tue braccia e nonpensare a niente.»

Ma a lui quelle ore felici nonbastavano, con l'egoismo del maschio,che tiene più al possesso dell'amata chealla felicità dell'amore, voleva essersicuro che Mara sarebbe stata sua persempre. E perciò tornava sempre a

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insistere che rompesse con Bube, e silegasse con lui.

«Hai paura che i tuoi non vogliano?»«Non è per questo. Mia madre, anzi,

sarebbe contenta che mi lasciassi conBube… Mio padre magari no, ma io hosempre fatto di testa mia.»

«E allora, perché non lo fai.»«Ma non possiamo andare avanti in

questo modo?»«No, Mara. Io… voglio sposarti. Ci

potremmo sposare anche subito: conquello che spendo stando a pensione, cipotremmo vivere in due. Cicercheremmo una camera con l'uso dicucina…»

Ma più Stefano si slanciava a parlaredella loro futura vita matrimoniale, più

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lei si raffreddava. Il matrimonio, lacamera con l'uso di cucina, i bambiniche avrebbero avuto… chissà perché,non era una prospettiva attraente. Eraassurdo, che le facesse questaimpressione; pure, era così.

E c'erano altre cose, in Stefano, chenon le piacevano. Per esempio, leiaveva insistito per vedersi anche le altresere: egli usciva dal lavoro alle sei, eMara, verso quell'ora, andava acomprare il latte; e poteva trattenersibenissimo un'oretta fuori. Ci sarebbestato tutto il tempo di fare unapasseggiata lungo la ferrovia… Ma luidoveva andare a casa a lavarsi e acambiarsi: «Non posso stare sporco». Epoi, aveva da leggere, da istruirsi. «Se

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non approfitto delle ore della sera, comeposso fare a leggere, a istruirmi? Io hostudiato solo fino alla secondaavviamento…»

Si faceva consigliare nelle letture daun professore che era anche uncompagno. «Noi operai non saremo mainiente se non ci facciamo un'istruzione»diceva. «Io non sono come tanti che glibasta leggere "l'Unità"… che non tileggono nemmeno "Toscana Nuova"…Io voglio diventare un operaiocosciente.»

Continuava anche a scrivere:incoraggiato dal fatto che la sua novellaaveva ottenuto una segnalazione alconcorso ed era stata pubblicata su"Toscana Nuova" insieme con le novelle

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premiate. «Io mi sforzo di capire lavita» diceva spesso.

«Ma che c'è da capire nella vita?»«Tutto, c'è da capire, per noi che

siamo ignoranti. C'è per esempioGiglioli, quel compagno professore… èstando con lui che mi sono accortoquanto sono indietro. Naturalmente nonposso pretendere di arrivare a esserecome Giglioli. Ma non è detto che uno,perché non ha studiato, debba rinunciarea farsi un'istruzione.»

E cercava di interessarla ai suoi studi,alle sue letture; mentre lei avevasoltanto desiderio di farsi abbracciare.

«Quel tuo amico professore non loconosco, ma dev'essere proprioantipatico» gli disse una sera, punta

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dalla gelosia.«Ma che cosa dici?» fece Stefano

esterrefatto.«Antipatico, sì; l'ho detto e lo ripeto.

Scommetto che è piccino, brutto…porterà anche gli occhiali, se è unprofessore.»

«E che vuol dire? Lui intanto è unapersona istruita… mentre io sono unpovero ignorante.»

«Ma tu sei bello. E hai dei muscoligrossi così.»

«Per forza ho i muscoli: col lavoroche faccio…»

«E lui per forza è istruito: dalmomento che fa il professore… Unprofessore che fosse un asino nonsarebbe mica possibile» e si mise a

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ridere.Una sera parlavano di Mario. «Io

quello lì non lo capisco proprio» disseStefano. «È un comunista, ma non siperita di fare il mercato nero… C'ècoscienza, domando io? Ma quanti ce nesono come lui. Giovani che magari sonofidanzati, e intanto hanno una relazionecon una donna sposata… E un'altra cosache non mi piace: il modo come trattanoi genitori. C'è la famiglia da cui sto apensione: il figliolo lavora con me allavetreria. Perciò lo so quanto guadagna.Ebbene, in casa non dà nemmeno uncentesimo. La madre, povera donna, siammazza dalla fatica, e lui, tutti i soldiche prende, li scialacqua. Si è già fattoquattro vestiti dacché sto in casa loro.»

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Erano discorsi che avrebbero dovutoispirarle fiducia: un giovane che avevaqueste idee, sarebbe stato certo un buonmarito. Ma sotto questa veste, Mara nonriusciva a immaginarlo.

Una volta che lui insisteva a dire chedovevano sposarsi, lo interruppe:

«Ma io sono troppo giovane perpensare a sposarmi.»

Era vero: il matrimonio, non eraun'idea che l'allettasse più. "Sonogiovane, voglio vivere", questo era ciòche pensava nel suo intimo.

Andò a casa a Natale; ed era di ottimoumore. Ma dagli sguardi diversamenteansiosi della madre e del padre capì chesapevano o sospettavano qualcosa.

Lei però era decisa a non dir nulla: la

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cosa più bella, nella sua relazione conStefano, era che avveniva all'insaputa ditutti. Nemmeno a Ines disse nulla. Omeglio, le mentì, perché Ines le chiesesubito di Stefano, e lei rispose che nonl'aveva più visto.

«E Mario?» le domandò l'amica.«Nemmeno lui mi è più capitato di

vederlo.»Ines sospirò:«Eh, bisogna che me li levi dalla testa

i giovanotti… Il mese prossimo misposo.» Né la madre, né il padre sierano azzardati a farle domande, ma sivedeva che ne avevano una gran voglia.Il padre, un momento che riuscì a starsolo con lei, le chiese notizie di Bube.«Il solito» rispose Mara.

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«Quando penso che quel poveroragazzo è là, solo..» disse il padremelodrammaticamente. «Per me è giàcome un figlio.»

«Non vorresti mica che andassi araggiungerlo in Francia? come lui mi hascritto.»

«No no» si affrettò a dire il padre. «Iospero solo che possa tornare presto…»

Per la Befana, tornò di nuovo a casa;tanto, anche Stefano andava a trovare isuoi. E lei lì a Poggibonsi a passare lafesta senza Stefano ci sarebbe morta dimalinconia.

Una domenica, stava finendo diprepararsi per andare all'appuntamento,quando sentì suonare. Scese a premere ilpulsante che faceva scattare la serratura.

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E rimase di stucco vedendo il padre.Subito presentì qualche guaio: «Che è

successo? Come sta mamma?»«Bene, figliola, bene» rispose il

padre baciandola. «Stiamo tutti bene.Solo che… essendo domenica, hopensato di venirti a trovare… C'ènessuno in casa?»

«No» rispose Mara.«Allora magari vengo in camera tua;

staremo più comodi per parlare.»Mentre la seguiva, ansimava; disse:

«Perbacco, ce n'è di scale in questacasa». Poi si scandalizzò della stanza disgombero che serviva da camera allafigliola: «Ma come, ti fanno dormire inquesto bugigattolo?»

«Ma io ci sto benissimo, babbo. Ho

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anche la comodità del bagno vicino.» Ilpadre si mise a sedere sul letto. Mara, inpiedi, aspettava che si decidesse a direla vera ragione per cui era venuto.

«Mara, bisogna che tu torni un'altravolta a casa.»

«Allora non è vero che mamma stabene.»

«Non è per via di mamma. È per viadi Bube.»

«Bube?» La sua immaginazione simise a lavorare febbrilmente; ma nonriusciva proprio a capire che cosapotesse essere successo… Certo, erauna cattiva notizia, la reticenza delpadre lo dimostrava chiaramente… «Lohanno arrestato» disse il padre senzaguardarla.

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«Cosa?» A un tratto le balenò chepoteva averne combinata qualcuna anchelà: «Perché? Che altro ha fatto?»

Il padre la guardò sorpreso:«Niente, ha fatto. È sempre per via…

di quella cosa. È stato arrestato allafrontiera.»

«Tentava di tornare in Italia?»«No, lo avevano espulso. Insieme con

un centinaio di compagni. In Francia lareazione ha trionfato, e così, il nuovogoverno ha decretato l'espulsione dimolti comunisti italiani… E Bube è statoarrestato alla frontiera. Chissà: forse lohanno già tradotto a Firenze.»

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Capitolo 5

La strada era deserta. Solo in cima lospazzino spingeva avanti il suo carretto;e in fondo il cameriere del caffè tiravasu la saracinesca.

"Che sia scesa troppo presto?" pensòMara. S'era regolata con la sveglia dicucina; ma non era certa che segnassel'ora giusta.

In risposta ai suoi timori, si alzò lasirena della fabbrica. Erano dunque lesette: per quell'ora il padre le avevadetto di farsi trovar pronta.

O forse aveva capito male? Lì altelefono la voce del padre appariva espariva; mentre si frammischiava la

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voce nasale della signorina:«Prontooo… Prontooo…» Ma no, erasicura, almeno l'ora, di averla intesabene.

Dopo un po' che se ne stava lì, fuscossa da un brivido; rientrò, lasciandola porta socchiusa. Ma tanto valevasalire in cucina: anche di su avrebbesentito il rumore della macchina.

C'era un gran silenzio in casa; ladomenica, non si alzavano mai primadelle nove. Mara non sapeva che fare:risciacquò una tazza, ripose unbicchiere; alla fine si mise seduta.

Tra poche ore avrebbe rivisto Bube.Era una cosa assurda solo a pensarla.Fece il conto del tempo che era passato:un anno e nove mesi. Bube: non

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ricordava nemmeno più la sua faccia. Ilineamenti forse sì, ma nonl'espressione.

"Che cosa gli dirò?" Oh, non eraquesto che la preoccupava.Semplicemente il fatto di comparirglidavanti. Di andarlo a trovare in carcere.Meno male che ci sarebbero stati ancheil padre e Lidori: da sola, non neavrebbe avuto il coraggio.

Sentì una macchina. Scese in fretta lescale, aprì la porta: l'auto era accostataal marciapiede, ne stavano scendendoLidori e il padre; al volante c'era ungiovanotto col berretto da autista.

«Salve, figliola» disse il padreabbracciandola e baciandola sulleguance. «Ciao, Mara» disse Lidori, e

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anche egli la abbracciò e la baciò. Marane fu sorpresa, si irrigidì, e nonricambiò i baci. «Devi farti forza» ledisse ancora Lidori; Mara non rispose, eguardò altrove. Che cosa volevano dalei? Perché non la lasciavano in pace?

La fecero montare dietro; il padre salìcon lei, Lidori si mise accantoall'autista. L'automobile ripartì:percorse la strada in leggera discesa,sbucò nella piazza: le stanghe delpassaggio a livello erano abbassate.«Hai fatto colazione?» le domandò ilpadre; e, rivolto a Lidori: «Giacché citocca aspettare, si potrebbe prenderequalcosa al bar». Ma lei disse che nonvoleva niente, e rimase sola inmacchina, perché era sceso anche

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l'autista.Aveva la sensazione che le usassero

violenza; che la costringessero a farequello che di sua spontanea volontà nonavrebbe fatto mai. Le veniva voglia discendere e di scappar via.

Gli uomini tornarono; una locomotivapassò davanti alle stanghe, che subitofurono sollevate: si ripartì. In un balenol'automobile percorse il viale alberato;tutti tacevano; Mara fece appena intempo a scorgere, fra un platano el'altro, un gruppo di mandorli in fiore;l'automobile entrò nella strozzatura,passò sopra il ponticello, rasentò laparete; imboccò un nuovo rettilineo.Mara guardava ostinatamente fuori delfinestrino. Sentì Lidori che si voltava

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indietro per offrire una sigaretta alpadre; sentì lo scrocchio del cerino, e ilfumo le passò davanti: lo scacciò con ungesto indispettito. «Ti diamo noia sefumiamo?» disse la voce di Lidori.Mara rispose di no senza voltarsi.

«Perché c'è a chi dà noia» disseancora Lidori. Dopo un po' fece: «Qui lacampagna è ben coltivata, mica come danoi». Aggiunse: «Peccato che sia bruttotempo».

L'aria, infatti, s'era fatta più scura; giùin fondo era addirittura buio, dovevapiovere. A un tratto alcune goccecolpirono il vetro; Mara istintivamentesi tirò indietro. Alle prime rigature se neaggiunsero altre, finché il vetro siappannò del tutto; e a Mara non rimase

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che contemplare il monotono spettacolodelle gocce che scendevano piano, sifermavano, riprendevano a scendere, ein ultimo si sfacevano inondando lalastra.

«Vai piano, mi raccomando» disse ilpadre all'autista. «Quando l'asfalto èbagnato, è facile slittare…» e si mise araccontare a Lidori di un incidente chegli era capitato poco tempo prima,andando con la macchina dellafederazione. «È stato un miracolo se nonsiamo finiti fuori strada.»

Mara si meravigliava che nonparlassero di Bube: forse era per viadell'autista… E invece fu propriol'autista a dire:

«L'altra domenica, quando portai giù

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la mamma e la sorella di Bube, era untempo come questo; ma poi si rimise.Speriamo che oggi faccia lo stesso…»

«Sai, Mara» cominciò Lidori «m'hadetto Elvira che Bube di salute sta bene.Ed è anche su di morale.»

«Eh, Bube è un ragazzo di spirito»commentò il padre. «Un vero comunista:non teme niente.»

Mara non vedeva l'ora checambiassero discorso; invece, ora cheavevano cominciato, non smettevano piùdi parlare di Bube.

«Io lo dico e non ho paura a dirlo» siaccalorava Lidori: «per me lo sbagliol'ha fatto il Partito. Perché mandarlo inFrancia? Lo avessero mandato inJugoslavia, non sarebbe successo.»

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«È perché in Francia hanno messo icomunisti fuori del governo» dissel'autista.

«Già; ma in Jugoslavia vedrai che nonli mettono fuori del governo. InJugoslavia siamo noi che comandiamo,mica quegli altri. Ora, dico: perché nonl'hanno mandato in un paese sicuro?»

«Ma perché chi andava a immaginareche in Francia ci avrebbero messo fuoridel governo?»

«Succederà presto anche qui» disseLidori cupo. «Ormai s'è visto comevanno queste cose. Ci siamo fattiingannare, ecco qual è la verità: nel '45,quello era il momento di agire…»

«Con gli inglesi e gli americani incasa?»

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Il padre non prendeva parte alladiscussione. Nel suo intimo, davaragione a Lidori; ma come funzionario dipartito, si era ormai abituato a nonmuover critiche all'operato dei dirigenti.Tanto per metter termine a unadiscussione che lo faceva stare sullespine, disse:

«Come si chiama l'avvocato diBube?»

«Raffaelli» rispose Lidori.«È un compagno, vero?»«Un compagno socialista.»L'automobile cominciò a salire.

Attraverso il velo liquido,s'intravedevano confuse forme d'alberi,la sagoma di una casa, due cipressiall'inizio di una stradina. Lidori

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sbadigliò: era in piedi dalle cinque.Anche a Mara, le era preso sonno;chiuse gli occhi. Ma i bruschicambiamenti di direzione lasballottavano troppo; e finì col riaprirli.

La pioggia, sembrava diminuitad'intensità; mentre prima flagellava conviolenza il vetro, ora solo poche goccecolavano adagio. Era cominciato unpaese: si vedevano le porte, le finestre,le botteghe, qualche raro passante checamminava lungo i muri. Lidori siriscosse: «Siamo già a San Casciano?».«No, a Tavarnelle» rispose l'autista.«Ora si scende di nuovo, e poi si risalea San Casciano. È tutta così questastrada: su e giù fino a Firenze».

Firenze: lei non c'era mai stata. Se

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non avesse dovuto veder Bube, sarebbestata contenta di andarci. Si rivolse alpadre: «Quando si torna?» Ma il padrenon rispose: s'era addormentato.

Rispose Lidori:«Il colloquio è fissato per

mezzogiorno… dopo s'andrà amangiare… e verso le due, due e mezzopotremo rimetterci in istrada. Quanto civuole da Firenze a Volterra?» domandòall'autista.

«Eh… un tre ore. Tanto più dovendofare la deviazione per Monteguidi…»

«E da Firenze a Poggibonsi?» chieseMara.

«Da Firenze a Poggibonsi, un'oretta emezzo. Poggibonsi rimane giusto a metàstrada.»

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Il peggio, dunque, era passare lamattinata: ma una volta che si fosselevato il pensiero del colloquio conBube, sarebbe andato tutto bene. Allequattro sarebbero stati di ritorno aPoggibonsi, e lei non avrebbe persol'appuntamento con Stefano.

Si rianimò; e quasi nello stessomomento, un raggio di sole venne arifrangersi sul vetro, facendo brillare lesuperstiti goccioline.

Quando entrarono in Firenze, il temposi era completamente rimesso, e Marapoté godersi lo spettacolo per lei nuovodelle vie e delle piazze piene di trafficoe di animazione.

Erano appena le nove, troppo prestoper andare dall'avvocato: così sedettero

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in un caffè. Mara prese due paste e uncappuccino. Osservava la gente, e nonprestava ascolto a quello che dicevanoil padre e Lidori. L'autista, se n'eraandato per conto suo.

Le dispiacque doversi muovere.Percorsero una strada affollatissima,piena di splendide vetrine; piegaronoper una stradetta, e si fermarono davantia un portoncino.

"Che ci vado a fare io?" pensavaMara; avrebbe preferito rimanere agirellare. Ma non ebbe il coraggio diproporlo.

La porta dello studio era a duebattenti foderati di stoffa, come quellidei cinematografi; la spinsero, edentrarono in una stanzetta dove c'erano

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due poltroncine, un divano, untavolinetto: una signorina con gliocchiali e il grembiule nero, sentiti iloro nomi, disse che l'avvocato liavrebbe ricevuti subito.

Sedettero; Lidori e il padre,intimiditi, parlavano sottovoce, benchéla signorina se ne fosse andata. Mara siguardava intorno, ma non c'era niente diinteressante da vedere. I minutipassavano; Lidori cominciava a darsegni d'impazienza. Dalla stanza accantoveniva una voce concitata; e, nellepause, si udiva il ticchettio rapido dellamacchina da scrivere.

Finalmente la signorina tornò, e disseche l'avvocato li aspettava.

Entrarono in una stanza ugualmente

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piccola, ma ammobiliata con più lusso.L'avvocato era in piedi dietro lascrivania: smilzo, pallido, con la testapiccola, aveva i capelli neri lisci e ibaffetti. Strinse la mano a tutti, e li feceaccomodare. Lidori e il padre sedetterosulle due poltrone di cuoio, Mara su unaseggiola.

«Dunque, che cosa volevate sapere?»«Mah» fece Lidori, «qualcosa su

come si presenta la causa… E, percominciare: quando ci sarà ilprocesso?»

L'avvocato giocherellava coltagliacarte:

«La data non è ancora fissata… e iocredo che al più presto lo faranno inmaggio-giugno… se pure non sarà

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rimandato all'autunno. In questomomento sono tali e tanti i processi…quelli per collaborazionismo, quelli peri reati annonari… Noi difensori,s'intende, ci daremo da fare perché siacelebrato prima possibile. Io el'avvocato Testa, il difensore delBallerini Ivan, siamo d'accordo suquesto. Più che altro per una ragione diordine politico. Oggi come oggi, c'èmaggiore possibilità di trovarecomprensione tra i giudici… mentredomani, in una situazione politicamutata…» Si sporse in avanti con fareconfidenziale: «Mettete che succeda danoi quello che è successo in Francia.Che ci mettano fuori del governo, voi enoi. Dico, voi PCI e noi PSI. È chiaro

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che la magistratura ne sarebbeinfluenzata… ci sono già molti sintomi,che le cose stanno volgendo al peggio.In questi ultimi due mesi, si sono avutetre sentenze scandalose a proposito dicollaborazionisti. Naturalmente, questenon sono cose che si possano dire…però sono vere…».

Mara si distrasse. Capiva poco inquei discorsi, e poi, non vedeva cheattinenza avessero col caso di Bube. Masi rifece attenta quando l'avvocatocominciò a parlare della causa.

«Come la vedo? Prima bisogna cheprenda visione degli atti istruttori… epoi vi potrò dare un giudizio preciso…Ma indubbiamente è una causa difficile.Col collega Testa abbiamo già avuto uno

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scambio d'idee. Il punto è questo: saràpossibile sostenere la tesi del moventepolitico? Io sono un po' scettico alriguardo. Il maresciallo e il figlio eranoanche essi ex partigiani…» con un gestointerruppe Lidori che volevaintervenire: «Lasciamo stare che speciedi partigiani erano. Ma il brevetto cel'avevano, ed è quello che conta. Chepoi il maresciallo fosse un monarchico,un reazionario e compagnia bella, non ècosa che abbia importanza agli occhi delgiudice. Si potrebbe ripiegare sullalegittima difesa. Ma è una tesi, al più,che può sostenerla Testa per Ballerini;perché il suo cliente è imputato solodell'omicidio del maresciallo. Mentre ilmio è imputato, oltre che di concorso

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nell'omicidio del maresciallo Cècora, diomicidio del Cècora figlio… e ilCècora figlio, non era armato… Potròtentare di far rubricare il reato comeeccesso di difesa? Ripeto» più che aloro l'avvocato sembrava parlare a sestesso «prima bisogna che esamini gliatti istruttori…»

«Ma che siano stati provocati, suquesto non c'è dubbio» sbottò Lidori.Fino a quel momento, aveva tentato diparlare, e l'avvocato glielo avevasempre impedito. «Finché il maresciallonon ha tirato fuori la rivoltella, loro nonhanno fatto niente. Anzi, finché ilmaresciallo non ha sparato e ucciso quelpovero Biagioni Umberto… Di questo igiudici ne dovranno tener conto, se non

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sono proprio dei venduti» e si rivolse alpadre di Mara, che assentì.

«Ma quello che il maresciallo ha fattonon è in discussione. Il processo, nonvien fatto mica al maresciallo. Non c'èdubbio che, se loro non avesseroreagito, il maresciallo sarebbe statochiamato a rispondere del suo atto… Ilguaio è che il maresciallo è stato ucciso;e, peggio ancora, che è stato ucciso ilfigliolo. E l'uccisione del figliolo non èavvenuta lì, ma a cento metri didistanza… e nemmeno per strada, madentro una casa… Non si tratta di unapallottola che lo ha colpito per sbaglio,voglio dire. E per l'appunto è proprio ilmio cliente che è chiamato a risponderedell'omicidio del figlio del Cècora…»

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Lidori s'era alzato in piedi:«Ma come? Si vuol far passare per

aggressore chi invece è stato aggredito?Ma insomma chi l'ha sparato il primocolpo, loro o il maresciallo? Il resto èvenuto di conseguenza. Dunque la colpadi tutto ce l'ha il maresciallo. Per me lacosa è chiara come il sole.»

«Ma anche per me, caro…» cercòinvano di ricordarsi il cognome, «caroamico e compagno; però, agli occhi delgiudice, le cose si presentano in mododiverso. Il maresciallo è morto, e perciònon deve rispondere di nulla. Quandoscoppia una rissa, e ci scappa il morto,sono chiamati a risponderne quelli cheson rimasti vivi: anche se magari erastato il morto a farla scoppiare.»

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«Ma come non si vuol riconoscerequella che è la verità delle cose? Che ilmaresciallo era un provocatore, e che cisono anche dei precedenti, per esempio,il sequestro del camion..».

«I precedenti sarà forse megliolasciarli stare» disse l'avvocato.«Potrebbero risultare un'arma a doppiotaglio. Dal sequestro del camion sipotrebbe dedurre, non dico unapremeditazione, ma una propensione avenire a una resa di conti con questomaresciallo…»

Lidori insistette ancora, e ogni voltal'avvocato gli ribatteva che non era luiche doveva essere convinto, ma chebisognava convincere i giudici. Anche ilpadre tentò di metterci bocca; ma

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s'imbrogliò nel discorso, e finì coltacere, mortificato.

A un tratto intervenne Mara:«Secondo lei, a quanto lo

condanneranno?»L'avvocato la guardò sorpreso;

allargò le braccia:«Cosa vuole che le dica, signorina

mia… Non si possono far previsioni,quando è ancora incerta laconfigurazione del reato… Bisognaaspettare la sentenza di rinvio agiudizio… Bisognerà vedere soprattuttola motivazione… allora potrò farmiun'idea della consistenza dei capid'accusa… e fino a che punto siapossibile impugnarli. E poi c'è unelemento imponderabile: quello

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politico. Per questo, vi dicevo prima, èimportante che il processo si celebri ilpiù presto possibile… finché i nostripartiti hanno ancora un'influenza nelgoverno.»

«Io invece aspetterei che fossescoppiata la rivoluzione» disse Lidoricupo. «Allora non si celebrerebbe piùnessun processo.»

L'avvocato ebbe un sorriso cheavrebbe voluto essere cordiale:

«Un radicale mutamento politico, èquello che ci auguriamo tutti,naturalmente… Ma è nella situazioneattuale che bisogna inquadrare lacausa… o in una situazione ancora piùsfavorevole…»

Mara, un carcere, se l'era immaginato

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in un modo molto più tetro. Salvo i duecancelli dell'ingresso, e le molteformalità per aprirli, all'internosembrava un edificio qualsiasi.Attraversarono una dopo l'altra quattro ocinque stanze che sembravano deinormali uffici, con impiegati vestiti inborghese; li fecero quindi passare in unastanza, anche essa arredata a ufficio, madove non c'era nessuno. Furono lasciatisoli.

«Lo faranno venire qui?» domandòMara.

Il padre scosse la testa:«No, ci faranno andare noi in

parlatorio… che è una stanza divisa indue da un'inferriata». E stava peraggiungere che lui queste cose le sapeva

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per esperienza personale; ma si fermò intempo: d'essere stato in carcere, infatti,non lo diceva a nessuno, perché nonc'era stato mica per ragioni politiche.

L'agente di custodia, un meridionale,tornò con un foglio. Disse:

«Qui il permesso c'è per una solapersona. Per la Castellucci Mara.»

«Ma come?» fece Lidori. «L'avvocatoci ha detto di averlo richiesto anche pernoi due.»

L'agente ebbe un gesto come per direche lui non ci poteva far niente: «Qui ilpermesso parla chiaro; è solo per lei»aggiunse indicando Mara. Mara s'erasentita stringere il cuore. Questo proprionon ci voleva. Non c'era preparata aveder Bube da sola… Si rivolse

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smarrita al padre e a Lidori.«Bisogna che ti faccia coraggio,

Mara» disse Lidori. «Devi andarci dasola.» Il padre si ribellò:

«Almeno me, potrebbero farmientrare… Giusto per accompagnarelei…»

«Mi dispiace, ma non posso farcinulla» disse l'agente. «O la signorinarinuncia al colloquio, oppure va sola.»

"No, sola no… rinuncio", stava perdire Mara; ma subitaneamente sentì unaforza straordinaria invaderla tutta; alzòfieramente la testa, e disse:

«Va bene, vado sola.»E rivolse a Lidori e al padre un

sorriso, come per dire che stesserotranquilli, che a lei non faceva

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impressione niente.Ed era proprio così: camminava

dietro l'agente tranquilla, sicura di sé;entrata nel parlatorio, guardò conindifferenza la doppia inferriata dietrocui sarebbe comparso Bube. L'agentesuonò un campanello; poi si rivolse alei:

«Il colloquio dura un quarto d'ora»disse con voce monotona. «Ricordateviche tra voi e il detenuto non cidev'essere nessuna comunicazionesegreta… né con gesti, né con parole…mi avete capito?»

Mara rispose di sì. Era fiera,immensamente fiera di essere cosìcalma… E quando Bube comparve,seguito anche lui da un agente, lo guardò

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tranquilla, gli sorrise perfino.«Ciao, Bube» disse con voce limpida

e forte. Lui invece era pallido etremante: «Ciao… Mara.»

«Sono felice di rivederti.» Egliinghiottì: «Anch'io.»

«Quanto tempo era che non civedevamo… Ma tu non sei per nullacambiato… Stai proprio bene. Sei ancheingrassato. E me, come mi trovi?» Eglibalbettò qualcosa. «Ci sono di là miopadre e Lidori. Ma loro, non avevano ilpermesso, e non li hanno fatti entrareSai? Stamani abbiamo parlato conl'avvocato. Ci ha detto di star tranquilli.Anche tu sei tranquillo, vero?» Lofissava negli occhi, ma non lo guardavaveramente; capiva che, se lo avesse

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guardato, le sarebbe venuto meno ilcoraggio… E continuò quella specie dimonologo, interrotto appena da qualchemonosillabo di Bube. Gli raccontò cosaaveva fatto in quel tempo: del periodopassato a Poggibonsi, della madre che siera operata, di lei che era tornata aservizio… «E tu?» gli disse. «Che haifatto in tutto questo tempo?»

«Io…» cominciò Bube; ma non andòavanti. "Forse non me lo vuol dire inpresenza di questi sbirri", pensò Mara.Ma no, era che non ce la faceva aspiccicar parola. «Ma che hai di startenecosì muto? Fatti animo, andiamo» e rise,per dargli coraggio.

«È che… avevo tanto desiderio dirivederti… ma rivederti dietro queste

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sbarre…» E cominciò a piangeresilenziosamente.

Mara aveva chiuso gli occhi."Bisogna che non lo guardi. Bisogna chenon lo guardi", si ripeteva. «Basta,smettila» gli intimò. «Che uomo sei adisperarti così?»

Bube smise. Ma continuava a tenerela faccia china.

«Non ti devi abbattere. Hai capito?Non ti devi abbattere. Cerca di starsereno. Hai i tuoi amici, fuori, che non tiabbandonano mica. Sei nelle mani di unbravo avvocato. Andrà tutto a finir bene,vedrai. Ma tu non ti devi far prenderedall'avvilimento. Devi reagire. Haicapito?»

«Sì, Mara. Scusami… Ma mi ha fatto

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così impressione rivederti… Io… non èche sia scoraggiato, tutt'altro. Io capisco,ci vuol pazienza; ma sai, la galera inprincipio fa effetto a tutti…»

«Piuttosto, hai bisogno di qualcosa?»«No no, di niente. È venuta mia

sorella domenica e mi ha portato labiancheria. Non ho bisogno di niente, tiassicuro.»

«Semmai fammelo sapere.»«Non dubitare.»«Quelle tremila lire che mi desti per

la borsetta, sono a tua disposizione.»«Grazie, ma non importa…»Ora che lui aveva ricuperato la calma,

Mara non aveva più paura di perdere ilcontrollo dei nervi; ma… non sapeva diche parlare. Fu lui a rompere il silenzio:

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«Mara, ti volevo domandare unacosa.»

«Dì.»Egli si voltò indietro, come se la

presenza del carceriere lo imbarazzasse;poi le disse:

«Tu per me… senti sempre quello chesentivi allora? Voglio dire, durante lamia lontananza non è che hai cambiatoidea… capisci cosa intendo dire?»

«E perché avrei dovuto cambiareidea?»

«Sai, quando uno è solo, lontano, simette in testa tante cose. Io quando erolà avevo un pensiero tale… Ora almenoti ho veduta. Sono più tranquillo.»

«Ma certo che devi star tranquillo.»«Tornerai a trovarmi?»

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«Ma naturalmente. Appena miridaranno il permesso.»

«Il tempo è scaduto» disse l'agente.«Andiamo, salutatevi.»

«Ciao, Bube. Stai di buon animo.»«Ciao, Mara. Mi ha fatto tanto bene

rivederti. Ora… non ho più paura diniente.»

Un nuovo pensiero cominciò a roderlamentre erano in trattoria. Sulle prime, ilsollievo di essere uscita dal carcere, ele strade piene di gente, e poi lasoddisfazione di sedere in trattoria, el'appetito, anche, che le era venuto: tuttoquesto l'aveva distratta. Ma dopo sirimise a pensare al colloquio con Bube.

Li in parlatorio, lei s'era volutamentevietata ogni sentimento di compassione:

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solo così aveva potuto consolare Bube,e risollevargli il morale. Ma ora lafaccia avvilita di lui, e certe cose cheaveva detto, e soprattutto quelle lacrimesilenziose, le tornavano alla memoria, ele stringevano il cuore.

"Dio, com'era pallido quando èentrato! Non gli riusciva nemmeno diparlare. Appena ha cominciato aparlare, s'è messo a piangere. Menomale che quando ci siamo lasciati eracontento. Me l'ha detto anche: Ora che tiho visto, sono contento…"

«Allora Marina che cosa vuoi perdopo?»

«Quello che ti pare, babbo.»«Prendi una bistecca; hai bisogno di

nutrirti: sei pallida, hai l'aria stanca.»

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«Ma no, sto bene.»«Quei delinquenti» inveì Lidori «ci

avessero lasciato passare anche noi, lesaremmo stati di aiuto…»

«T'ha fatto impressione, eh?» le disseil padre «vederlo dietro l'inferriata.»

«No, ti assicuro, non mi ha fattoimpressione. C'ero preparata.»

«Sai, mamma non volevaassolutamente che ti ci portassi. M'hafatto una scenata ieri sera… Ma io hopensato: per quel povero figliolo è unconforto se la può rivedere…»

Ecco qual era il pensiero che larodeva: ora se ne rendeva chiaramenteconto. Se non poteva lasciare Bubementre era lontano, meno che maiavrebbe potuto lasciarlo ora che era in

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carcere…«Babbo, hai ragione tu; non posso più

restare a Poggibonsi; devo tornare acasa.»

Poco dopo le quattro e mezzo, eranodi ritorno a Poggibonsi. Mara scese,suonò il campanello; ma, comeprevedeva, non c'era nessuno, e lei nonaveva la chiave.

«Te l'ho detto che avremmo trovatochiuso.»

«E che importa?» fece il padre. «Tuintanto vieni via con noi; poi, concomodo, torneremo a prendere la tuaroba.»

«No, è meglio che rimanga. Stasera lodico alla signora, e domattina prendo iltreno e me ne torno a casa.»

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Era sceso anche Lidori:«Dai retta a me, stasera intanto torna a

casa; ti farà bene, con quello che haipassato. Perché tu Mara sei una che lìper lì si fa forza, ma ne risente magaridopo.»

«Ma figurati. Io semmai l'impressioneforte l'ho avuta quando babbo è venuto adirmi che lo avevano arrestato. Ma oggi,cosa vuoi che sia stato.»

«Be', se proprio hai deciso… Intantoper un po' ti terremo compagnia noi.Andiamocene a un caffè.»

Nella prima stanza c'era pieno digente che ascoltava la trasmissione dellapartita; ma una seconda stanza era vuota.L'autista rimase anche lui a sentir laradio, e loro tre, si misero a un tavolo.

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Lidori ricominciò a parlaredell'avvocato. Bisognava assolutamentecercarne un altro, uno che fosse davveroun compagno, che si prendesse a cuorela causa…

Il padre obbiettò timidamente che, selo aveva scelto il Partito, ci se ne potevafidare.

«Ma il Partito, se lo vuoi sapere, hafatto tutto a rovescio. E poi è prestodetto: il Partito. Noi di Volterra sì che ciprendiamo a cuore la cosa: perché Bubeè un nostro compagno. Ma a Pisa, opeggio ancora a Firenze, le cose leprendono sottogamba. Ne hanno tante acui pensare. Ma già, voglio andarci dame a parlare in federazione. Vogliosapere, per cominciare, perché hanno

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scelto questo Raffaelli, e non, invece, unSignori, che è un nostro compagno ed èstato anche candidato alle elezioni…Oppure un luminare del foro, senzaguardare al colore politico. Bastapromettergli una bella cifra se lo tirafuori di galera, e poi lo vedi come simuove. Ecco: la cosa secondo meandrebbe aggiustata così: prendere dueavvocati: uno, un compagno, che senta lacausa dal punto di vista politico; el'altro, un grosso nome del foro diFirenze… o magari di Roma…»

Mara approvava con la testa: Lidorisì che era in gamba, non si accontentavadi quello che gli dicevano, ci volevaveder chiaro lui nelle cose.

«Ecco in che modo si fa: stasera

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stessa ne parlo coi compagni: e insettimana, rifaccio una scappata aFirenze. E vi assicuro che la causa lametto in buone mani. Ma come? Unavvocato che non sa dirci niente… chebisogna che aspetti la sentenza istruttoriaper farsi un'idea della causa… maquello, scommetto, alla causa non ci haancora pensato cinque minuti. Chissàmagari quante altre ne ha per le mani.»

«È che non è convinto» disse il padre.«È capace che si sia assuntoquest'obbligo di malavoglia…»

«E allora lo dica: non c'è mica altroche lui di avvocati.»

«Lidori, mi raccomando a te» disseMara. «Se non ti prendi a cuore la cosate, è finita.»

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«Non dubitare» la rassicurò Lidori:«io non starò fermo di certo. Se gli altridormono, ci penso io a svegliarli.»

La partita era terminata; l'autista siaffacciò alla porta:

«Si fa tardi, bisogna andare.»«Ora si va» rispose sgarbatamente

Lidori. «Anche dei permessi, noi ce lasiamo rifatta con quelli del carcere; mala colpa, anche lì, è dell'avvocato. Micasi doveva limitare a fare la richiesta;doveva accertarsi che i permessi cifossero… Metti che non l'avessero datonemmeno a lei: il viaggio, allora,l'avremmo fatto per nulla». Trascinatodal fervore del discorso, si alzò; e ilpadre lo prese per il segnale dellapartenza, perché si alzò anche lui.

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Gli addii furono rapidi. «Allora,Marina, mi raccomando: domani tiaspettiamo a casa». E il padre laabbracciò e montò in macchina.

«Ciao, Mara» le disse Lidori,stringendole con forza la mano eguardandola negli occhi. Mara ricambiòlo sguardo e la stretta; e in questo modosi dissero che facevano pienoaffidamento l'uno sull'altra. Anchel'autista le diede la mano e si affrettò amontare al volante. L'auto partì: dadietro le fecero ancora dei cenni disaluto. E Mara si ritrovò sola sulmarciapiede.

La sua giornata non era finita: letoccava ricercare Stefano. L'oradell'appuntamento era passata da troppo

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tempo, perché potesse pensare ditrovarcelo ancora; ma forse era rimastoper lì.

Fece due o tre volte la stradaprincipale. "A meno che non sia andatoal cinema. O è più facile al Luna Park."Ma non le andava di fare la strada finoal Luna Park: oltre tutto, cominciava asentirsi stanca.

Così rimase a girellare per il Corso:fermandosi a guardare le vetrine, e aspiare dentro i caffè, se per caso lovedesse. Imbruniva: i lampioni erano giàaccesi, e gli interni dei locali illuminati.C'era un capannello davanti a un caffèdov'era esposto il tabellone della Sisal.Mara si ricordò di aver giocato anchelei quella settimana; cercò di vedere i

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risultati, alzandosi sulle punte dei piedi.Un giovanotto, uscendo dalla calca, laurtò; le chiese scusa e subito dopoesclamò:

«Oh! chi si vede: la monteguidina.»«Hai visto Stefano?» gli domandò

subito lei.«Sì, l'ho veduto» rispose Mario:

«fammi pensare dove. Ah: stavaandando al cinema.»

«Quanto tempo fa?»«Eh, sarà stato… un'ora fa.»«Ma ne sei sicuro?»«Certo che ne sono sicuro. Ora dimmi

una cosa te, Mara: l'hai più veduta…Ines?»

«Sì, l'ho veduta. Sta per sposare.Anzi, si dev'essere sposata proprio in

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questi giorni.»«L'avessi saputo, le avrei mandato gli

auguri» disse Mario, e rise; ma sivedeva che c'era rimasto male.

Mara riprese a girellare. Vide lalatteria aperta, entrò con l'intenzione difar due chiacchiere con la lattaia; ma eratroppo occupata a servire i clienti. Uscì,si rimise in giro; si sentiva mortalmentestanca. Alla fine si appoggiò a unostipite all'ingresso del cinema: loavrebbe aspettato lì.

C'era un orologio sopra la cassa:segnava le sette meno dieci.L'appuntamento era alle quattro, Stefanotutt'al più poteva averla aspettata finoalle quattro e tre quarti… anche quellavolta che era venuto il padre a dirle

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dell'arresto di Bube, Stefano avevaaspettato tre quarti d'ora, poi se n'eraandato al cinema. Così le avevaraccontato lui stesso la domenica dopo.E lei gli aveva detto di Bube. Gli avevadetto di Bube e poi gli s'era buttata fra lebraccia… perché mai come in quelmomento aveva sentito bisogno del suoappoggio, della sua protezione… Eraarrivata a dirgli: «Sì, Stefano, sarò tua,ti sposerò. Considerami come se fossigià tua moglie… Portami in camera tua,Stefano. Mi hai detto che non c'ènessuno in casa, perché non mi ciporti?»

Voleva esser sua, subito, senza piùattendere un'ora. Far accaderel'irreparabile, perché poi non le fosse

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più possibile tornare indietro.Ma Stefano non la intendeva così.

Voleva averla, ma legalmente, e per tuttala vita.

E invece, la domenica dopo, lei era dinuovo incerta; e non aveva rispostonulla quando Stefano le aveva detto: «Èvenuto il momento che tu ti decida. O luio me, Mara: non si può continuare così.»

Bene, ora aveva deciso. Lì intrattoria, aveva deciso; un attimo primadi dire al padre che sarebbe tornata acasa.

Tornava a casa non perché avessepaura che in quella famiglia venissero asapere che il suo fidanzato era in galera.Figuriamoci se era per questo. Lei nonse ne vergognava mica, di Bube. E

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davanti a quella gente, poi. Quella gentenon faceva che parlar male deicomunisti… li sentiva, quando erano atavola, dire che i comunisti bisognavametterli tutti in galera, anzi no, chebisognava ammazzarli tutti. E sentivaanche il padre raccomandarsi di parlarpiano: che in cucina c'era quella là, cheera figliola di un comunista. E ilgiovanotto, forte: «E chi se ne frega se èfigliola di un comunista.»

«Ssst… parla piano: vuoi che vada aridir fuori i nostri discorsi?» Guardòl'orologio: erano le sette e dieci, Stefanonon avrebbe potuto tardar molto. Con luisarebbe stata franca: non gli avrebbenascosto nulla. Gli avrebbe detto:«Stefano, io non so se amo te o Bube;

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ma i miei sentimenti non c'entrano nelladecisione che ho preso: io… sono laragazza di Bube». Ecco, era così: lei erala ragazza di Bube; non potevaabbandonarlo; sarebbe stata un'inauditavigliaccheria se lo avesse abbandonatoora che era in galera.

«Mara!» Era la voce di lui, sorpresa econtenta insieme.

«Ciao, Stefano.»«Come mai sei qui?»«Me l'ha detto Mario che eri andato al

cinema. E sono venuta ad aspettartiall'uscita.»

«Ma che è successo? Perché non eriall'appuntamento? Io ti ho aspettata finoa un quarto alle cinque…»

«Io sono tornata giusto a quell'ora.

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Ma ero insieme con mio padre; hodovuto aspettare che ripartisse pervenire a ricercarti.»

«Ma dov'eri andata, a casa?»«No, a Firenze.»«A Firenze?»«Sì» rispose Mara. «Mi chiamò al

telefono mio padre ieri sera, per dirmiche mi avevano dato il permesso diveder Bube… Stamani è passato aprendermi con la macchina, e siamoandati.»

Parlando, s'erano avviati verso laloro strada. Ma dopo che Mara ebbedetto in quel modo, Stefano rimase zitto.Camminava con le mani affondate nelletasche dell'impermeabile, guardandodavanti a sé.

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«Stefano, ci fermiamo? Sono cosìstanca…»

Si fermarono accanto alla catasta ditraversine; Mara ci si appoggiò, eStefano rimase in piedi davanti a lei.

«Stefano» cominciò Mara «tu m'haidetto che non si poteva continuare così.E hai ragione. Bisogna prendere unadecisione…»

«Sei tu che devi prenderla, Mara.»«Sono io, sì… e l'ho presa…» ma

vedendo l'ansia che s'era dipinta sulviso di lui, si turbò; non era più capacedi andare avanti… Perchéimprovvisamente s'era accorta quantolui l'amava… e che cosa avrebbeperduto, perdendolo… «Stefano, io…»balbettò ancora.

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A un tratto egli le strinse il braccio:«Tu ami me, Mara; tu non puoi

decidere altro che di sposar me.»Lei lo guardò smarrita… Ma

improvvisamente ritrovò in sé quellaforza che l'aveva sorretta la mattina incarcere, quando aveva dovuto affrontareda sola il colloquio con Bube. Nonavrebbe saputo darle un nome, masapeva che era irresistibile: chespazzava via ogni timore, ogniesitazione; che la rendeva calma e sicuradi sé e indifferente a ogni cosa che nonfosse l'adempimento del suo dovere…Nulla, nulla poteva arrestarla, nemmenolo sguardo implorante di Stefano…

«Stefano, questa è l'ultima volta checi vediamo. Domani vado via da

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Poggibonsi. E non tornerò più… Perchéil mio posto è accanto a Bube. Persempre.»

Egli non disse nulla; solo, dopoqualche momento, allentò la stretta delbraccio; e alla fine la lasciò, come seavesse capito che non era possibileopporsi alla sua decisione. Tornò aficcare le mani in tasca; poi parlò convoce bassa, rassegnata:

«Lo sai che mi spezzi il cuoredicendo così?»

«Forse mi si spezza anche a me,Stefano. Stefano» disse dopo un po'. «Ionon dimenticherò mai le ore cheabbiamo passato insieme… e quantom'hai reso felice… forse saranno leultime ore di felicità che avrò avuto

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nella vita. Ma ora… dobbiamolasciarci, Stefano… dobbiamo andareognuno per la sua strada. Addio,Stefano: ti auguro tanta fortuna.»

Ella si era mossa, Stefano la trattenneper il braccio: ma solo per dirle piano,all'orecchio:

«Anche io te la auguro… Ma per mela fortuna non verrà mai… mi va semprea finir male. Mara… io ti rimpiangeròper tutta la vita…»

Allora le venne da singhiozzare; e perquesto si mise a correre. Quando fuvicino alla piazza, si voltò: Stefano erarimasto fermo, distingueva la macchiachiara dell'impermeabile accanto allamassa scura della catasta.

L'ultimo addio glielo diede la sera, in

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camera, lanciando uno sguardo disperatoalla sagoma luminosa della fabbrica.Oh, non credeva di amarlo tanto. Oh,sarebbe stato terribile non vederlo maipiù.

E tuttavia mise insieme la sua roba, laficcò nella valigia; si accertò di nonaver dimenticato nulla; ripose il denaronel borsellino, calcolò mentalmente sela signora aveva fatto il conto giusto; poicaricò la sveglia per le cinque, perchéaveva deciso di partire col primo treno.

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PARTE QUARTA

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Capitolo 1

Subito dopo San Casciano, dovetterofermarsi per cambiare una gomma.«Potevo essermene accorto prima» dissel'autista contrariato; e si mise dimalavoglia al lavoro, con l'aiuto delsegretario della sezione. Il padre,invece, s'era addormentato così bene chenon lo svegliò nemmeno la fermata.

Scese anche Mara. Quei luoghi ormaile erano familiari: c'era passata tantevolte in macchina. Riconosceva, al di làdella vallata, una collina tondeggiantecoperta di pini. L'ultima volta erastato… un mese prima. Allora nonavevano ancora fissato la data del

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processo.Sotto la strada, il vento scorreva sul

pendio erboso, schiarendolo via via:come la carezza di una mano sul velluto.Un carro guidato dai buoi avanzavalentamente su una carrareccia a mezzacosta. Più lontano ancora si vedeva unpaese. Era controluce, e Mara sulleprime non ci aveva badato: l'avevapreso per la sommità fra stagliata di unpoggio.

Era strano che non si sentisseemozionata, e che quasi non pensasse aBube. Eppure era per lui che andava aFirenze; e stavolta lo avrebbe vistodentro la gabbia degli imputati. Ma se siera abituata al carcere, non le avrebbefatto impressione nemmeno il

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tribunale…Ora, però, si sarebbe deciso il suo

destino. "Tra cinque, sei giorni, quandotornerò a passare di qui, il mio destinosarà segnato". Ma anche allora, la vitaavrebbe continuato a presentare gliaspetti consueti. Non era stato forse ungiorno come tutti gli altri quello in cuiavevano saputo della morte di Sante?Lei allora era una ragazzetta senzacervello, ma a distanza di tempo potevarendersi bene conto che sciagura erastata. Ricordava il momento in cuil'uomo era apparso nella corte. Lei eraalla finestra a mangiarsi le unghie, edecco, era apparso quell'uomo, uncontadino come tanti, e invece no,veniva a portare la notizia della morte di

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Sante…Senza farci caso, si era allontanata di

un centinaio di passi. Voltandosi, scorsei due uomini che orinavano sul cigliodella strada prima di risalire inmacchina. Anche nei momenti piùtragici, i bisogni elementari della vitareclamavano di essere soddisfatti: queidue orinavano, il padre dormiva, e leiaveva una gran fame e non vedeva l'oradi essere arrivata per poter farecolazione.

L'automobile si fermò per farla salire.In pochi minuti fu in fondo alla discesa;attraversò un abitato, poi si mise acosteggiare il corso di un torrente.Dall'altra parte c'era un oliveto recintoda un muro; e in cima all'altura una villa

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con la meridiana sulla facciata. Si eraormai vicini a Firenze, lo si capiva daltraffico in aumento, dalle case semprepiù numerose, dai muri chiari cherecingevano i campi.

Erano le otto quando entrarono in cittàda Porta Romana; avevano tutto il tempodi fare le cose con calma. Andarono nelsolito caffè. Lei mangiò due briosce e fuin forse se chiederne un'altra; ma poi sivergognò. Il cappuccino era bollente;aspettò che si raffreddasse.

Chi li vedeva, lei intenta a bere apiccoli sorsi, gli uomini immersi nellalettura del giornale, non avrebbe potutocerto immaginare la ragione per cuierano lì. "Tra poco lo vedrò nellagabbia", si ripeté Mara. Ma non si

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sentiva per nulla emozionata… Invece,si sentì stringere il cuore quando levenne in mente che avrebbe incontrato lamadre e la sorella di Bube.

«Babbo, mi raccomando, non milasciare sola» disse stringendogli ilbraccio.

«Come?» fece il padre. «Ma certo,figliola: dove vuoi che vada?»

«Ma così, quando siamo nell'aula, nonfare come fai sempre, che ti metti aparlare con questo e con quello.»

Il padre la guardò; le prese la mano:«Stai tranquilla, figliola.»In aula incontrarono molte persone di

Volterra, tra cui Elvira, Lidori, Arnaldo.La gabbia era ancora vuota, e così

pure il banco dei giudici e i tavoli degli

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avvocati; di là dalla transenna c'eranosolo due carabinieri.

Dopo la confusione dei primimomenti, Mara si ritrovò accanto aElvira.

«Quando comincia?» fece, tanto perdir qualcosa.

«Dianzi era qui l'avvocato, ha dettoche prima delle dieci sarà difficile checominci.»

«L'avvocato Raffaelli?»«No, quell'altro… quel siciliano.»«Ho capito: Paternò.» Le era

simpatico, Paternò: non si trinceravadietro frasi vaghe, spiegava le cosechiare e non nascondeva niente.

A un tratto si ricordò che dovevachiederle della madre:

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«E tua mamma… come sta?»«Mica tanto bene» rispose Elvira.

«Lei desiderava venire, ma noi nonabbiamo voluto… Le avrebbe fattotroppo impressione, non ti pare?»

Poi Elvira si mise a parlare conun'altra donna, e Mara tornò a guardarsiintorno. A due passi di distanza Arnaldola fissava. Mara gli sorrise:

«Sei diventato un giovanotto» glidisse.

«Ti ricordi di quella volta?» feceArnaldo.

«Già. Non c'eravamo più rivisti, daallora. Che cosa fai? Lavori?»

«No. Studio» rispose Arnaldo.«Studi?» disse Mara sorpresa.«Frequento l'ultimo anno della Scuola

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d'Arte.»«Ah.» Ma non sapeva bene di che si

trattasse, così dopo un po' gli chiese: «Epoi, che cosa farai?»

«Come, che cosa farò? Lo scultore.Studio appunto per imparare ilmestiere.»

«E stamani, non avevi scuola?»«Stamani, sono voluto venire…» Di lì

a un po', Mara gli chiese: «Quanti annihai?»

«Diciotto.»«Già, è vero, ne hai uno meno di

me… Scommetto che hai già lafidanzata.»

«No… la fidanzata proprio, non cel'ho ancora» rispose serio il giovane. Lachiamò il padre:

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«Che vuoi fare, figliola? Ripartirestasera, o restare qui fino a domani? Io,per l'appunto, non posso trattenermi…ma potresti restare con la sorella diBube, con Lidori… Loro si trattengonodurante tutto il processo.»

«Mah» fece Mara stringendosi nellespalle.

«Forse è meglio che vieni via con me.Mamma sennò brontola.»

«Sì, forse è meglio.»La madre non aveva più detto nulla,

da quando, un mese prima, c'era statauna terribile scenata. Era accadutoappunto alla vigilia dell'ultimocolloquio con Bube. Prima la madre sel'era rifatta col marito, e poi con lei.«Ma perché non lo lasci perdere quel

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disgraziato» diceva. Be', era già tantoche non lo chiamasse più delinquente.«Se lui è un disgraziato, vuoi essere unadisgraziata anche tu?» Il padre allora eraintervenuto dicendo: «Ma vedrai che loassolvono. E allora tornerà a essere uncittadino come gli altri». Il padre dicevacosì, ma non ci credeva nemmeno luiche lo assolvessero. Mara invece nonaveva sentito il bisogno di mentire:«Appunto perché è un disgraziato, non loposso lasciare. Lo dovresti capire,mamma: se lui trova la forza disopportare la prigione, è perché sa checi sono io ad aspettarlo. Impazzirebbe,se lo lasciassi». «Ma quanto lo vuoiaspettare? Sono tre anni che lo aspetti…Consumi la gioventù per una cosa

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impossibile…»«Lo aspetterò, dovessero passare altri

tre anni. Ne dovessero passare dieci.»«Oh, ma sei testarda, figliola! Quando

ti sei messa in testa una cosa…»«È proprio così, mamma. E perciò è

inutile che cerchi di dissuadermi.»La madre allora s'era messa a

piangere, a disperarsi; diceva che unadonna disgraziata come lei non c'erasulla faccia della terra… A un tratto liaveva guardati tutti e due, prima ilmarito, poi la figlia: « L'ho espiata lamia colpa, vai. Oh, Signore! Ma perchénon l'hai fatta scontare a me! Perché te lasei rifatta sui miei figlioli!».

Era così la madre, accumulava le suepene per settimane e mesi, finché veniva

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il momento che non ne poteva più, epiangeva e si disperava. La sera avanti,Mara aveva timore di un'altra scenata;per fortuna non era successo nulla.

«Buongiorno, signorina.» Era Paternò.«Come va? Si sente tranquilla?» Leifece cenno di sì. «Brava, lei è semprestata brava.»

Raffaelli, invece, non s'era curato disalutar nessuno e s'era seduto al tavolo;aveva tirato fuori dalla borsa unincartamento, e vi faceva dei segni conla matita. Paternò andò finalmente amettersi seduto; salutò anche l'altroavvocato, evidentemente quello diBallerini Ivan. Ma ne arrivò un quarto, esedette a un tavolo più piccolo.

«Chi è?» domandò Mara a Arnaldo.

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«Sarà l'avvocato di parte civile. Soche la vedova del maresciallo si ècostituita parte civile…»

«E questo è un male, vero?»«Certo non è un bene. Ma, d'altra

parte, era da prevedere. Mettiti neipanni di una donna a cui sono stati uccisiil marito e il figlio…»

Mara, a sentirla evocare dalle paroledi Arnaldo, se la immaginò come suamadre: una piccola donna vestita dinero… E si sentì sopraffaredall'angoscia: quasi si rendesse contosolo ora della gravità di quello che erasuccesso.

«Oh, perché lo ha fatto» disseaccasciata.

Arnaldo la guardò:

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«Bube ne ha colpa fino a un certopunto… Oh, non dico mica perdifenderlo. Ma ci sono tanti piùcolpevoli di lui… che ora sono liberi enon devono preoccuparsi di niente.»

Mara non capiva; e Arnaldo continuò:«Bube c'è stato spinto. Io ero un

ragazzo, ma me ne ricordo di questecose. Quando tornò dalla macchia,siccome aveva fama di essere statocoraggioso… la gente lo metteva su, glidiceva: Vai a picchiare quello. Vai apicchiare quell'altro. Dicevano cosìperché loro non volevano esporsi. EBube si sentiva quasi in obbligo, peressere pari al nome che aveva… Anchea San Donato, cosa credi? dev'esserestato lo stesso: c'è chi li ha messi su, e

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poi s'è tirato indietro. Succede semprecosì: ai veri responsabili non glisuccede nulla, e la pagano quelli chehanno meno colpa.»

«Già» fece Mara. Le tornò in mente ladonna che si sporgeva dalla corrieragridando: Meno male che ci sei tu,Bube!; perché voleva che picchiasse ilprete Ciolfi. "Quella strega", pensò.«Già, è proprio come dici tu.»

«Ne approfittavano perché era unragazzo. S'era un po' montato la testa…è tutta qui la sua colpa. Ma queglialtri… Uomini anche anziani, diquaranta e cinquant’anni… sono loro iveri responsabili. Mi ricordo una serache ero insieme con Bube e lo fermò unuomo… uno che da allora non l'ho più

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potuto vedere. Un omaccio sdentato,figurati… che voleva persuadere Bube apicchiare un tale… e magari ce l'avràavuta mica perché era fascista: ma perfatti personali.» Scosse la testa: «Ladisgrazia è stata una sola: che Bube nonavesse nessuno che gli facesse da guida.Cosa vuoi, in famiglia, con quelle duedonne… Fosse stato vivo il padre,avesse avuto un fratello maggiore…Perché un giovanotto di quello chedicono le donne non se ne cura mica.Bisognava che avessi avuto io qualcheanno di più… e allora lo avrei messo inguardia, Bube… glielo avrei fatto capireche s'era messo su una brutta strada».

«Ma queste cose gli avvocati lediranno.»

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«Quali cose?»«Quelle che stai dicendo tu.»«Ma che vuoi, queste cose non hanno

mica importanza… i giudici lo sai comefanno? Vanno a sfogliare il codice, ilreato tale, l'articolo tale… Nonconsiderano mica che ci possono esserestati tanti motivi…»

«Dimmi la verità, Arnaldo: tu come logiudichi Bube?»

Arnaldo sostenne tranquillo il suosguardo:

«Io lo giudico un bravo ragazzo»rispose.

Bube e il suo compagno erano giànella gabbia da un quarto d'ora almeno,e ancora la Corte non aveva fatto il suoingresso. Mara era rimasta sempre lì,

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aggrappata alla transenna. Con Bube sierano scambiati un cenno di saluto dopoche i carabinieri gli avevano tolto lemanette; fino a quel momento infatti egliera rimasto a capo chino, come se sivergognasse. Il suo compagno era moltopiù disinvolto; si guardava intorno esorrideva ai parenti e ai compaesani,che formavano un gruppo compatto infondo, vicino alla finestra. Era alto erobusto, coi capelli castani ondulati:indossava una giacca sportiva, colcolletto aperto. Bube aveva un vestitonuovo scuro e portava la cravatta.

Si erano seduti sulla panca; fumavanoe scambiavano qualche parola. Dietro aloro, in piedi, stavano due carabinieri.

A un tratto, ci fu agitazione nell'aula;

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avvocati e giornalisti si affrettarono ariprender posto dietro i tavoli; nelpubblico si fece silenzio; vennero spentele sigarette; e un uomo con un camicenero annunciò:

«La Corte.»Uno dopo l'altro entrarono sette

uomini: tre con la toga, gli altri quattroin borghese, con una fascia tricoloreattraverso il petto; rimasero un attimofermi in piedi, poi si sedettero.

«L'udienza è aperta» disse ilpresidente con voce bassa, appenapercettibile.

Il cancelliere si alzò e lesse l'atto diaccusa. Leggeva in fretta e non si capivaquasi nulla. Ma ogni volta che sentivapronunciare il nome: Cappellini Arturo,

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Mara trasaliva.«E ora? Che faranno?» domandò ad

Arnaldo.«Ora interrogheranno gli imputati,

credo» rispose Arnaldo.Non fu così: il presidente fece un

cenno all'avvocato Raffaelli, che si alzòe si avvicinò al banco; scambiaronoalcune parole sottovoce, poi l'avvocatotornò al suo posto e cominciò a parlare.Benché spiccasse bene le parole, Maranon riuscì a capir niente nel suodiscorso. Alla fine il presidente disseanche lui qualcosa, e la Corte si ritirò.

La Corte rientrò dopo un'ora,respingendo l'eccezione d'incompetenzasollevata dalla difesa e aggiornando laseduta alle due del pomeriggio. E Mara

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si ritrovò in strada in mezzo a un'altradiecina di persone.

Di nuovo, come al mattino, aveva unagran fame. E invece, prima dovetteroaspettare Paternò; poi in una trattorianon trovarono posto; e si dovetteroaccontentare di un'altra più modesta.Fecero unire i tavolini, e miserol'avvocato a capotavola.

«Speriamo, compagni, di poter fare ilpranzo insieme con Bube» esordìPaternò. La tensione delle lunghe ore diattesa in aula si era rilassata, e quasi sisentivano allegri. Parlavano, ridevano,mangiavano con appetito; Mara fral'altro notò che Elvira mangiava in modospropositato. Lei invece, dopo letagliatelle, si sentì sazia. Gli uomini

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ricorrevano anche con frequenza aifiaschi di vino. A un certo punto ella sisentì in dovere di frenare il padre:

«Basta, babbo, non bere più, ti famale.»

Il padre, vergognoso, posò il fiasco.Di faccia a lei Arnaldo mangiava

composto, in silenzio. Mara guardandolopensava com'era diverso dagli altri. "Èuno studente; per questo è diverso".

La tavolata richiamava l'attenzionedegli altri avventori. "Chissà, forsecrederanno che siamo riuniti per unafesta", pensò Mara. Ma era così, la gentemangiava, beveva, parlava, rideva perfarsi coraggio: "Anche Bube e il suocompagno mangeranno con appetito,parleranno e scherzeranno tra loro".

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Sapeva che nel pomeriggio li avrebberointerrogati… Chiuse gli occhi: con checuore Bube avrebbe rifatto ai giudici iltremendo racconto? "Voglio essercianche io", pensò. Sì, doveva rimanerefino a che Bube non avesse finito il suoracconto. Per dimostrare a tutti che nonsi vergognava di lui… che accettava didividerne le responsabilità. Si eccitò aquest'idea: "I veri responsabili non sonoimputati… Prima lo hanno spinto e poilo hanno lasciato solo a sopportare leconseguenze… Per questo io scelgo didividerne la responsabilità".

Di nuovo guardò Arnaldo. Quelragazzo, che al tempo in cui erasuccesso il fatto era ancora un bambino,aveva capito com'erano andate le cose.

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Possibile che i giudici, che eranopersone anziane, non lo capissero? Chenon si rendessero conto che Bube era unpovero ragazzo senza guida, a cui glialtri avevano fatto fare quello cheavevano voluto?

"Considerate un momento, signorigiudici: Bube era un ragazzo didiciannove anni… Orfano di padre, nonha mai avuto nessuno che loconsigliasse, che lo guidasse. Va a fareil partigiano: così giovane, si ritrova amaneggiare una rivoltella, un fucile; equando torna a casa, la gente gli si metteintorno, e lo incita a continuare, gli diceche bisogna vendicare i caduti, chebisogna picchiare, che bisognauccidere… Che ne sa lui che ora non è

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più tempo di sparare e di uccidere? Glidicono: tu devi tener fede al nome chehai preso: non ti sei forse chiamatoVendicatore? Oh, io me ne ricordo benecome andarono le cose su quellamaledetta corriera. Lui non avrebbevoluto fargli niente al prete… anzi,avrebbe voluto evitargli le busse. Mache figura ci avrebbe fatto, di fronte atutta la gente? Forse che uno fa quelloche veramente si sente di fare? No, unofa quello che gli altri si aspettano chefaccia… "

E così il tempo passava, gli altrifumando e chiacchierando, e leirimuginando tra sé tutta la faccenda.Finché le venne in mente che dovevaparlarne all'avvocato. Disse al padre di

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scambiare il posto, e andò a sedere leiaccanto a Paternò.

«Avvocato, bisogna che le dica unacosa. Io… vorrei testimoniare alprocesso.»

«Ma lei ha già testimoniato davanti aicarabinieri… Ha detto che non sapevanulla, e dunque…»

«Invece io sapevo tutto. Io so tutto.Mi ascolti, avvocato: io mi sono trovatapresente quando Bube picchiò il preteCiolfi… Voglio dire, non propriopresente alla picchiatura, ma quando incorriera lo misero su perché picchiasseil prete…»

«Sì, ma questo cosa c'entra col fattodi San Donato?»

«Mi stia a sentire, la prego. Bube, non

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aveva nessuna intenzione di picchiare ilprete: quando lo incontrammo a Colle,lui mi disse che voleva evitare anche diparlarci… Eravamo nel caffè e avevapaura che il prete si voltasse e loriconoscesse. Fu quando arrivò lacorriera che una donna si sporse e simise a gridare: Meno male che ci sei tu,Bube! E una volta saliti, non faceva chedire: Ora ci pensa Bube a conciare perle feste il prete. Perché Bube avevaquesta fama… Ma lui ancora non nevoleva sapere; lui voleva anzi evitarglile busse, al prete… E quando si scese,lo prese a braccetto insieme con un altroper portarlo in prigione. E certamenteavevano quest'intenzione, che non glicapitasse nulla di male, lo portavano in

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prigione perché fosse al sicuro; ma poile donne gli sbarrarono il passo, e unacominciò a picchiarlo, e allora Bube, avedere che lo picchiavano le donne, sisentì umiliato… e si credette in doveredi intervenire e di picchiarlo lui…Capisce? Tutto quello che Bube ha fatto,anche l'uccisione del figliolo delmaresciallo, è stato perché credeva chefosse suo dovere…»

«Ma in sostanza cosa vorrebbetestimoniare lei?»

«Vorrei dire ai giudici… la verità.»«Sulla picchiatura del prete? Ma

quella è una storia che è meglio nonrivangarla. Oh, ma si sta facendo tardi:Lidori, bisogna andare. Io almenobisogna che vada». E si affrettò ad

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alzarsi e andarsene.Loro invece ci misero un pezzo a

muoversi, Lidori doveva avere il resto,poi si aspettò alcuni che erano andatialla toeletta, così quando arrivarononell'aula Bube era già seduto davanti albanco dei giudici e stava facendo ilracconto.

Bube finalmente venne rimandatonella gabbia, e fu la volta di Ballerini. Ilpadre la toccò sulla spalla:

«Andiamo, Mara: sennò si fa troppotardi.»

Pioveva; e si bagnarono non poco perarrivare alla macchina, che era statalasciata in una stradetta laterale. Ilsegretario salì accanto all'autista, lei e ilpadre si misero dietro. «Tempo matto»

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disse il padre «si vede proprio chesiamo in marzo.»

«Ci basta che faccia bello in aprile»rispose il segretario, alludendo alleelezioni imminenti. Dopodiché, nonscambiarono più una parola. La vistadelle vie deserte, poi del fiume scurosotto la pioggia, e delle misere stradettedei quartieri popolari, stringeva il cuorea Mara. Finalmente furono fuori dellacittà; ma anche la campagna aveva unaspetto imbronciato: la pioggia erainfittita ancora e restringeva la visuale.A fatica si distingueva la villa in cimaall'oliveto; mentre la collina boscosa dilà dal torrente era come un'ombrachiara.

A una curva la macchina sbandò; il

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padre si raccomandò all'autista diandare adagio. Poi cominciò la lungasalita di San Casciano: Mara guardavaostinatamente fuori, le immagini sisuccedevano una dopo l'altra: una forradi rovi, un muro a secco che sostenevaun campo, un olivo sbilenco piantatoproprio sul margine, un gelso coi ramicontorti potati, un pesco coi fiorigualciti. Quelle povere cose nonavevano difesa contro la pioggia che leflagellava; e così era lei, non avevadifesa contro gli uomini che le avevanochiuso in prigione Bube e ora siapprestavano a condannarlo. Non ci sipoteva far niente… bisognava subire icolpi.

Mentre lo interrogavano, Bube

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appariva rassegnato al suo destino. Leinon poteva vedere che faccia avesse,perché voltava le spalle al pubblico; enemmeno udiva le parole, perchéparlava piano, tanto che gli avvocati e igiornalisti si erano dovuti alzare daitavoli per sentirlo. Di tanto in tanto ilpresidente lo interrompeva e dettava alcancelliere quello che doveva mettere averbale. Povero Bube. Non aveva più labaldanza di un tempo. Era un poverettorassegnato alla sua sorte. E Mara,fissando la sua schiena curva, si sentivavenire le lacrime agli occhi.

Poi guardava le facce dei giudici, unadopo l'altra: avrebbero avuto un po' dipietà?

Non si trattava che di questo: di un

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po' di pietà."Signori giudici, non vi chiediamo

altro che un po' di pietà per questogiovane sfortunato". Ecco: era così cheavrebbero dovuto parlare gli avvocati.Ma Paternò, anche quel giorno a tavola,discorrendo con Lidori parlava digiustizia. Era giusto, secondo lui, che igiudici accordassero il beneficio dellaprovocazione grave… che tenesseroconto del fatto che un compagno degliimputati era stato ucciso sotto i loroocchi… e che quindi essi avevano agitoper motivi di particolare valoremorale… E Raffaelli, che era venuto aparlare con loro quando la Corte si eraritirata per deliberare sull'eccezionesollevata dalla difesa, faceva discorsi

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anche più difficili, citava numeri,pronunciava parole incomprensibili…

In passato, parlando con gli avvocati,con Lidori, col segretario della sezione,Mara si era impadronita della causa, gliavvocati avevano perfino sfogliato ilcodice e le avevano mostrato gliarticoli. Si era quasi familiarizzata coiconcetti giuridici, sapeva in quali casi efino a che punto avrebbe potutoapplicarsi l'amnistia del '46… Ma oracapiva che la sola cosa da sapere era sei giudici avrebbero avuto o no un po' dipietà. Soltanto questo.

"Un po' di pietà, signori giudici. Noinon chiediamo altro che un po' di pietà".

Arrivarono a Poggibonsi a notte. Leluci, le sagome delle case, le vie scorte

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per un attimo d'infilata, riscossero Maradalla sua triste meditazione. E per unmomento il rimpianto di ciò che avevaperduto le si insinuò nell'anima.

Il padre e il segretario avevanoricominciato a parlare. Delle elezioni.Speravano in una clamorosa vittoria; inogni caso, il governo avrebbe concessoun'amnistia.

«Se non beneficia di quell'altra,beneficerà di questa» diceva il padre; «ein un caso o nell'altro, dovrà venirfuori.»

Il segretario era anche più ottimista:era sicuro della maggioranza assoluta.«Prenderemo il 53-54 per cento. Midiceva il federale, che è stato di recentea Roma, e ha parlato anche con

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Togliatti…»Mara si riattaccò a questa speranza:

le elezioni, la vittoria del comunismo,l'amnistia. Il buio, che aveva cancellatole squallide immagini del giorno, lefaceva tornare la fiducia.

Arrivarono a Colle in tempo per lacorriera; ma il segretario, scendendo,disse all'autista che li accompagnasse aMonteguidi.

«Quando ci saranno le elezioni,babbo?» chiese dopo un po' Mara.

«Il 18 aprile.»«Tu ci speri che vinceremo?»«Mah» fece il padre. «Io, che si possa

vincere con la scheda, ci ho semprecreduto poco… Ma speriamo almenonell’amnistia.»

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«E il processo, come ti pare che simetta?»

«Per ora non si può prevedere. Lacorte ha respinto l'eccezione delladifesa, ma gli avvocati l'avevano fattatanto per fare… Mara,» aggiunse dopoun momento, «c'è una cosa che bisognache ti dica. Io quando mamma s'èscagliata contro Bube l'ho sempredifeso… però bisogna capire anche ilsuo punto di vista. A un genitore, quelloche gli sta a cuore è il bene di unafigliola. Ora aspettiamo a vedere comeva a finire il processo; e poi, magari, seci sarà quest'amnistia… Ma se dovesseandare a finir male…»

«Se dovesse andare a finir male.?»«Tu ti sei già sacrificata abbastanza

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per lui, figliola» disse il padre in fretta.Mara tornò col padre a Firenze il

terzo giorno del processo, mentre era incorso l'interrogatorio dei testimoni. Sitrattava di persone di San Donato: fra glialtri, deposero il prete e la fidanzata diUmberto Biagioni. E più volte accaddeche il Procuratore Generale e gliavvocati si accapigliarono, e ilPresidente li richiamò energicamenteall'ordine. Ma le ragioni per cui siaccapigliavano, Mara non riusciva acapirle bene.

E poi ci tornò l'ultimo giorno. Perquattro ore rimase aggrappata allatransenna a sentir parlare gli avvocati.Prima parlò Paternò, poi l'avvocatoTesta, il difensore del Ballerini. E dopo

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andarono a mangiare, e il padre, Lidorie altri di Volterra dicevano che gliavvocati avevano parlato molto bene:soprattutto l'eloquenza appassionata diPaternò aveva fatto grande impressione.«Il Partito un oratore così lo dovevapresentare candidato alle elezioni»diceva Lidori.

Più che altro Paternò aveva parlato dipolitica. Aveva rievocato il periododella lotta partigiana, gli eccidi compiutidai nazifascisti, l'eroismo di Bube, ilfatto che gli erano state imprigionate lamadre e la sorella. Quello che eraaccaduto a San Donato era doloroso edeprecabile, ma andava inquadrato in unmomento storico. «Se fosse avvenuto nelNord, nessuno sarebbe chiamato a

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risponderne. Ma forse che qui da noil'atmosfera era molto diversa? Forse cheanche qui non erano sempre fresche lefosse dei partigiani trucidati?» Era lafrase che aveva entusiasmato Lidori. Èvero che a questo punto il ProcuratoreGenerale e la Parte Civile avevanointerrotto Paternò ricordandogli cheanche i due assassinati erano partigiani,ma lui, che evidentemente si aspettavaquesta interruzione, aveva replicatoprontamente: «È vero, ma è anche veroche era un partigiano Biagioni Umberto,il compagno di Ballerini e del miodifeso. Gli assassinati furono tre quelgiorno, e il primo a cadere fu proprio ilcompagno del mio difeso. È questo ilpunto chiave del processo: e la Corte, ne

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siamo certi, lo terrà nel debito conto».Quindi era passato a parlare del fatto, eaveva sostenuto prima la legittimadifesa, poi l'eccesso di difesa, poi laprovocazione grave… E avevaterminato ricordando un processo controun gruppo di rastrellatori repubblichini,che era stato celebrato poche settimaneprima in quella stessa aula e si eraconcluso con un verdetto di clemenza.«A maggior ragione noi invochiamoclemenza per un giovane che hacombattuto dalla parte giusta dellabarricata.»

Anche Mara si era lasciata prenderedalla foga oratoria dell'avvocato; mapoi, ripensandoci a mente fredda, si erachiesta perché Paternò non aveva messo

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in luce tante altre cose, per esempio, ilfatto che Bube fosse orfano, che nonavesse mai avuto nessuno che gli facesseda guida, che gli desse dei buoniconsigli… come anzi tutti avessero fattoa gara nello spingerlo sulla via dellaviolenza… Da quanto le era stato detto,il Procuratore Generale nella suarequisitoria lo aveva appunto dipintocosì, come un violento: alludendo allepicchiature dei fascisti in cui Bube siera specializzato dopo il suo ritornodalla macchia. Ma gli avvocati loavevano interrotto dicendo che tuttoquesto non risultava dagli atti delprocesso. «Voi però sapete che è vero»aveva ribattuto il Procuratore Generale;ma il Presidente gli aveva ingiunto di

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attenersi alle risultanze processuali.Anche il Procuratore Generale aveva

parlato di politica: facendo l'apologiadei carabinieri, di questi benemeritimiliti del dovere, che non appartengonoa nessuna fazione ma sono gli imparzialitutori dell'ordine. E aveva rivangato laquestione del sequestro del camion, aproposito del quale c'erano state delletestimonianze precise: sequestroperfettamente legale, ma che pure avevaavuto l'effetto di mandare in bestia gliattuali imputati, «abituati com'erano anon rispettare nessuna legge»: e che gliimputati avessero minacciato ilmaresciallo Cècora di fargli la festa allaprima occasione, anche questo eralargamente documentato dalle

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testimonianze: sì che l'assassinio eraavvenuto in modo molto meno casuale dicome voleva far apparire la difesa. Nonera vero che il maresciallo fosse stato ilprimo a cominciare; anche su questopunto la testimonianza del prete e dialtre persone presenti al fatto eranoschiaccianti: il maresciallo aveva agitoin stato di necessità, dopo che ilCappellini, il Ballerini e il Biagioniavevano tentato di disarmarlo.

Queste e molte altre cose ancoraaveva detto il Procuratore Generalenella sua requisitoria durata più di treore: concludendo con la richiesta diventidue anni per il Ballerini e diventiquattro per il Cappellini.

L'avvocato Raffaelli pronunciò la sua

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arringa nel pomeriggio. Diversamentedal suo collega, non parlò di politica,restringendo il suo esame al fatto cosìcome si era svolto e alla interpretazionegiuridica che se ne doveva dare. Eglicercò di invalidare alcunetestimonianze, lamentò che non fossestato fatto un sopraluogo come la difesaaveva pur chiesto, escluse che il suodifeso avesse qualche responsabilitànell'omicidio del maresciallo. Erano lesei quando con la schiuma alla boccasmise finalmente di parlare.

La Corte si ritirò. Dapprima ilpubblico era stato trattenuto al di làdella transenna, ma poi Elvira, Mara,Lidori e alcuni altri riuscirono a entrarenel recinto e ad avvicinarsi alla gabbia.

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Mara e Bube si stringevano le maniattraverso le sbarre e si guardavano. Eogni tanto parlavano.

«Lidori mi ha detto che è buon segnose stanno tanto in camera di consiglio.»

«Potrebbe essere anche cattivosegno» rispose Bube.

«Tu non spaventarti anche se lacondanna è grave; perché l'importante èche sia applicata l'amnistia.»

«Io… ormai sono preparato a tutto.»Dopo un po' Mara gli disse:«Il mese prossimo ci saranno le

elezioni. Questa volta vinceremo: lodicono tutti.»

«Io non ci spero più in queste cose.»«In ogni modo il governo dovrà

concedere un'altra amnistia.»

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«Se mi fossi costituito allora, le cosesarebbero andate diversamente; ma cosìcome sono adesso, è inutile farsiillusioni.»

Mara gli disse ancora:«Io non ti abbandonerò mai, Bube,

qualunque cosa succeda… a qualunquepena ti condannino.»

E lui rispose:«È in te che ho fede, Mara; soltanto in

te.»«Anche Lidori è stato bravo: soltanto

quanto si è dato da fare per raccogliereil denaro…»

«Sì, anche Lidori è stato bravo. Manessuno mi ha aiutato quanto te. È soloperché ci sei tu che ho voglia dicontinuare a vivere. Altrimenti… mi

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sarei impiccato all'inferriata.»«Non dire queste cose, ti prego.»«Voglio solo che tu sappia che ti devo

tutto… perché non sarei nemmeno piùvivo se non ci fossi stata tu. Ho avutodisgrazia nella vita, ma ho avuto ancheuna grande fortuna: quella diincontrarti… Per te, invece, è stata unagran disgrazia.»

«Zitto; come puoi dirlo?»«Non credere che sia egoista al punto

di non capire che ho fatto la tuadisgrazia. Dio mio! se ti avessiconosciuta prima!»

«Tu non hai colpa di niente… sono glialtri semmai che ci hanno colpa.»

«E invece io ho colpa di tutto.»«Eri così giovane… non potevi

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capire.»«Non vuol dire esser giovane. Tanti

altri erano giovani come me, eppure nonhanno mica fatto quello che ho fatto io.»

«Ma tu eri anche orfano. Non avevinessuno che ti guidasse, che ti stessevicino.»

«Questo è anche vero. Ma la miacolpa rimane lo stesso…»

"I giudici lo capiranno che si è pentitodi quello che ha fatto. E quando uno èpentito, non c'è più bisogno dicondannarlo… Perché lui per primo si ècondannato. I giudici lo capiranno…capiranno che non c'è ragione di tenerloin carcere, Bube non è più quello diprima, è diventato un altro… Locapiranno che non commetterà altre

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violenze… che il Procuratore Generaleha mentito quando ha detto che Bubecostituisce un pericolo per la società…Oh, ma dovrebbero essere propriociechi per non capire queste cose!"

La sua mente lavorava febbrilmente…e in quegli ultimi minuti che passòaccanto a Bube, prima che i carabinierile ordinassero di tornare dietro latransenna, ella acquistò la certezza, sì, lacertezza, che Bube sarebbe statoassolto… Stordita, raggiunse il recintoriservato al pubblico, qualcuno le feceposto, un altro le strinse il braccio…

«La Corte» annunciò l'usciere.

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Capitolo 2

Il treno era affollato anche più diquello della mattina; tuttavia Mara, nonappena si fu trovato un posticino nelcorridoio tra una donna e un uomoanziano, respirò di sollievo. E quando iltreno si mosse, e sparì la vista dellatettoia di cemento, e dei fasci di binari,e dei vagoni merci, e poi dopo chefurono passate le case, e il treno entrò inaperta campagna, si sentì anche meglio.Finalmente era cominciato il viaggio chel'avrebbe ricondotta a casa. Quando, nonlo sapeva: sapeva solo che fino aFirenze non aveva da cambiar treno.

Questo, glielo aveva detto il

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guardasala forandole il biglietto, e poiglielo aveva ripetuto uno della poliziaferroviaria, che vedendola sola in piedisulla banchina deserta, le avevadomandato che treno aspettava. «Quelloper Colle Valdelsa. Per Firenze.»

«Oh, ma passa tra due ore. Perché nonva in sala d'aspetto? Ci sta piùcomoda.» Lei s'era stretta nelle spalle.Ed era rimasta ad aspettare in piedisulla banchina. Non aveva mangiato:difatti dal carcere era venutadirettamente in stazione. Dopo un po'che era lì, tirò fuori dalla borsa la mezzapagnotta avanzata, ne staccò un pezzo ecominciò a mangiare. Quando ebbefinito, andò alla fontanella in fondo allabanchina; ma non capiva come doveva

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fare perché zampillasse l'acqua. Unferroviere le venne in aiuto; le tenneanche compressa la pompa mentrebeveva. Poi le domandò anche lui doveandava. «A Firenze» rispose Mara.«Non sa mica quando ci arriverò?» Ilferroviere non lo sapeva: si andò ainformare apposta. «Alle diciannove eventi. Sette e venti.»

Erano tutti gentili in quella città, lamattina le avevano indicato il tram chedoveva prendere, in tram l'avevanoavvertita quando doveva scendere, e unadonna, che era scesa con lei, l'aveva poimessa sulla strada del carcere. Eranotutti gentili, ma soltanto la parlataforestiera angosciava Mara.

Meno male che al carcere aveva

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avuto la fortuna di incontrare un agentedi custodia che era compaesano di Bube.Era stato lui stesso a dirglielo, mentre lefaceva compagnia in attesa che lachiamassero per il colloquio. E Mara siera sentita rinfrancata, sapendo di avereuna persona amica tra quelle mura. Mapoi c'era stato il colloquio con Bube…

Emise un gemito, tanto che la donnaaccanto la guardò. Allora, perché ladisperazione non la sopraffacesse, cercòdi concentrarsi nella vista dellacampagna. Ma anche la campagna le eraestranea, ostile: campi spartiti dai filarisi succedevano senza interruzione; avariare il paesaggio, compariva appenauna strada bianca e diritta, o un argine sucui pedalava una donna; oppure, al di là

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del folto d'alberi e di filari che chiudevarapidamente la vista, spuntava il tetto diuna casa o il campanile di una chiesa. Ecosì, niente veniva a distrarre Mara daisuoi pensieri.

Il colloquio era appena cominciato, elei s'era messa a dirgli quello che gliaveva portato, quando Bube l'avevainterrotta: «La roba tua la prendovolentieri, ma quella di Lidori riportalaindietro». Lei l'aveva guardatomeravigliata; e Bube: «Perché Lidorimica l'ha comprata coi soldi suoi».«Avrà fatto una colletta fra gli amici.»

«E appunto perciò non la voglio.Begli amici. Avesse voluto la sorte chenon fossero stati mai amici miei.»

«Non ti capisco: perché dici così?»

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«Dico così perché sono stati loro arovinarmi. Sì, loro; tutti quanti sono. Incarcere si ha tempo di pensare; e io nonho fatto altro che pensare, in tutto questotempo. E ho capito che la mia colpa nonera niente in confronto a quella deglialtri. Ma dimmi un po', Mara: non èforse vero che mi hanno spinto a farequello che ho fatto? C'è stato forsequalcuno che mi ha fermato la mano?No: me l'hanno armata la mano. Io eroun ragazzo, non sapevo quello chefacevo… e quando sono tornato dallamacchia, a vedere come tutti mirispettavano, anzi, mi lodavano e miportavano a esempio… e m'incitavano acontinuare, mi dicevano di picchiarequesto e quest'altro… E ora dovrei

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accettare i pacchi di quella gente?Quando sono stati loro la causa dellamia sciagura… Oh, ma perché non hotrovato uno, uno solo che mi abbiaaperto gli occhi finché ero in tempo… Eanche dopo: perché se mi fossi costituitoprima dell'amnistia, a quest'ora sareifuori. E invece tutti a dirmi che non midovevo costituire…»

«Ti ricordi di Memmo, quando glifeci il racconto? Lui era una personaistruita e queste cose le capiva; perchénon mi spiegò che avevo fatto male auccidere il figliolo del maresciallo? Seme lo avesse spiegato, io sarei andato acostituirmi…»

«Ti ricordi anche quando venneLidori a svegliarmi durante la notte e a

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dirmi che dovevo fuggire, io nonvolevo? Perché lo capivo anche da meche a nascondermi era come ammetterela mia colpa…»

«Ma Lidori, almeno lui, ti èsinceramente amico. Solo quanto si èprodigato durante il processo…»

«E invece io lo considero peggiodegli altri. Guarda, diglielo: che non siazzardi a venirmi a trovare: perché mirifiuterei di vederlo.»

«Verrà il momento che te la rifaraianche con me» aveva detto Maratristemente.

Allora il suo sguardo s'era raddolcito:«No, tu sei la sola persona che sono

contento di vedere. Tu no, Mara… Glialtri li odio, non voglio più saperne.

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Perché sono più colpevoli di me, e se nestanno liberi, a godersi la vita. Solo difronte a te mi sento colpevole… la solacosa che mi affligge è il dolore che hodato a te.»

«Non dire così, Bube, caro» lo avevainterrotto lei, cominciando a piangere.

«È vero, Mara, è vero» avevainsistito lui, furente. «Con tutti gli altrisono in credito; soltanto con te sono indebito… Perché quel poco di felicitàche ho avuto nella vita, sei stata tu adarmela; e io, come t'ho ripagato?» Leivoleva rispondere, voleva dirgli cheanche lui l'aveva ripagata, che anche luil'aveva resa felice; ma le lacrime leimpedirono di parlare.

«Mara, mi perdoni? Mi perdoni del

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male che ti ho fatto?»La vista della campagna s'era

appannata, e da questo Mara capì chestava piangendo di nuovo. Cercò dinascondere le lacrime, asciugandosifurtivamente le guance e soffiandosi ilnaso; ma la donna accanto se n'era giàaccorta. Le posò una mano sulla spalla:«Che hai, figliola?»

«Niente, niente» rispose leisforzandosi di sorridere. E tornò aguardare davanti a sé, ma non vedevanulla. La donna continuava a stringerlela spalla:

«Come mai viaggi sola? Da dovevieni?»

«Da Piacenza» rispose Mara.«Ma tu non sei di queste parti.»

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«No. Sono… di Colle Valdelsa.Vicino a Siena.»

«Ah, sei toscana: mi parevaall'accento. E… perché sei andata aPiacenza?»

«Perché c'è il mio fidanzato.» Ladonna la scrutò con attenzione: «Piangiperché ti ha lasciato?»

«No no» si affrettò a rispondereMara.

«E allora perché?» Ma vedendo cheMara non voleva rispondere, noninsistette: solo accentuò la pressionesulla spalla.

Ora nel finestrino passavano case,strade, fabbriche; sempre più fitte,sempre meno svelte; la pressione sullaspalla si attenuò: «Be', io sono arrivata.

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Buon proseguimento, figliola.»Mara la scorse poi sulla banchina;

anche la donna la ricercò con gli occhi,e le fece un cenno di saluto. Al suoposto, s'era messa una ragazzavistosamente dipinta e con le ciglia fatte,che fumava. Mara ebbe un moto dicuriosità femminile, la osservò, notò cheil vestito era di poco prezzo; poi ripresea guardare fuori.

Il treno era ripartito, ricominciò lasfilata monotona dei campi rettangolari,delle strade bianche, degli argini erbosisu cui correva un viottolo. E ricominciòil flusso uguale dei suoi pensieri…

Dopo il colloquio, aveva rivistol'agente Pistolesi. «Come l'ha trovato,Bube?» E, senza aspettare la risposta:

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«Sa, anche quelli che si fanno più forza,inevitabilmente hanno i periodi dicattivo umore. E se per l'appunto unperiodo così capita proprio quandohanno il colloquio…».

Mara allora gli aveva riferito cheBube non voleva accettare il pacco diLidori. «Ci penserò io a persuaderlo.»Poi, in fretta, le aveva dato un foglietto:«Questo è il mio indirizzo. Di qualunquecosa abbia bisogno, scriva a me. E laprossima volta che viene, passi da casamia: mia moglie avrà piacere diconoscerla… E anche a lei, le farà bene,di trovarsi fra persone di Volterra…Perché qui noi toscani ci si sentespaesati…» Mara lo aveva ringraziato, elui:

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«Ma le pare? Lo faccio volentieri, perla fidanzata di un compaesano… Magaripotessi fare di più…»

Il treno s'era messo ad andare a passod'uomo, perché lavoravano lungo lalinea. Mara era colpita dallo stacconetto fra il verde dei prati e il biancodelle strade. E dalle donne in bicicletta,che pedalavano sgraziatamente, con lepezzuole nere calate sugli occhi. Sivoltò verso la ragazza che le stava afianco, come se sperasse di vedere unafaccia amica. Quella la guardò ancheessa, poi le chiese:

«C'è tanto per arrivare a Bologna?»«Non lo so… non sono pratica»

rispose Mara.«Chissà se a Bologna devo cambiare»

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disse ancora la ragazza, come parlandotra sé.

«No, si continua con questo treno.» Sispiegò meglio: «Questo treno qui, arrivafino a Firenze… Me lo hanno detto allastazione dove sono montata».

«Ma io mica devo andare a Firenze.Devo andare a Forlì.» Poi si lamentòche le facevano male i piedi. In ultimotirò fuori un giornale illustrato e si misea leggere.

Anche Mara cominciava a sentirsistanca. Ma alla prima stazione, uscì unapersona dallo scompartimento accanto, elei, se si fosse sbrigata, avrebbe potutomettersi a sedere: invece lasciò che ciandasse la ragazza, vinta daun'improvvisa ripugnanza all'idea di

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sedere in mezzo a gente estranea.La campagna continuava a fuggire

restando però sempre la stessa. Leombre si erano allungate, la luce si erafatta più limpida, era questa la soladifferenza, perché, per il resto, avrebbepotuto credere di essere partita appenaallora.

Quando finalmente il treno arrivò aBologna, scese molta gente; e Mara sidecise a prender posto in unoscompartimento dove c'erano tremonache. Poi vennero altre persone, unadonna con un bambino in braccio, dueuomini, un giovanotto.

Mara era seduta accanto al finestrino.Guardava l'affaccendarsi dei ferrovieri,dei venditori di panini e di giornali, dei

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viaggiatori: tutta quest'attività che aisuoi occhi non aveva scopo le davaanche più angoscia della vista di quellacampagna ostile che avevanoattraversato durante il pomeriggio.

Finalmente il treno ripartì; e quandocominciarono ad apparire le colline, eragià vicina la fine del giorno. Ogni tantos'infilavano in una galleria, e uscendonetrovavano un paesaggio ancora più nudoe squallido. Un'alta montagna, scabra edesolata, si levava ora di fronte a lei:Mara la guardava atterrita. Poi entraronoin una gola: la parete di roccia trasudavaumidità. Alla parete di roccia successeun muraglione, e di nuovo il trenos'imbucò in una galleria. Stavolta non neuscivano più… e alla fioca luce della

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lampadina azzurrata i volti dei suoicompagni di viaggio erano lividi,disumani… "Nessuno, nessuno ha pietà"pensava Mara. "Nessuno ha avutocompassione di noi, Bube è in carcere, eio…" E lei era una povera creaturaabbandonata, un povero essere senzadifesa. E pensare che aveva chiesto cosìpoco alla vita… Passò il controllore.Restituendole il biglietto, le disse: «Leisignorina deve cambiare a Firenze».

La sua premura, e più ancora il fattoche parlasse toscano, la incoraggiaronoa chiedergli quando ci sarebbe stato iltreno per Colle.

«Non per Colle, per Empoli»corresse il controllore «a Empoli poitroverà la coincidenza per Colle.

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Vediamo» e tirato fuori l'orario losfogliò: «Per Empoli ce l'ha alle nove eun quarto… vediamo Siena… eh,purtroppo fino a domattina alle sette nonce l'ha la coincidenza per Colle».

«Fino a domattina alle sette?» feceMara sgomenta.

«Eh, sì. Allora guardi: le convienepernottare a Firenze: almeno lì la salad'aspetto è grande, comoda… il caffè staaperto tutta la notte…» Consultò dinuovo l'orario e le disse: «Lei domattinaalle sei precise prende il treno perEmpoli. Arriva a Empoli alle sei etrentuno… e alle sette e due ci ha iltreno per Colle».

Sopraffatta dalla stanchezza, si eraaddormentata una altra volta. Si svegliò

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di soprassalto; e subito il suo sguardocorse all'orologio: segnava le quattro.C'erano sempre due ore alla partenza deltreno.

Ma non voleva correre il rischio diaddormentarsi ancora; così, primamangiò il pane che le era avanzato, poisi mise a pensare. La testa le doleva, gliocchi le bruciavano… e tuttavia lamente era lucida, mentre riandava aisoliti pensieri. "Ha detto: «Solo difronte a te mi sento colpevole. Gli altrisono tutti più colpevoli di me… Tu solanon hai colpa». Invece anche io hocolpa! È anche mia la colpa! Quello chegli era sempre mancato, era una ragazzache gli volesse bene… Se l'avesse avutaprima, non avrebbe fatto quello che ha

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fatto. Ma io ero una stupida ragazzetta:non capivo, non capivo! L'ho amatotroppo tardi… quando ormail'irreparabile era accaduto. Sì, la colpaè anche mia: è soprattutto mia…"

Vicino a lei, un uomo cominciò atossire; si svegliò, borbottò qualcosa;poco dopo russava di nuovo.

Le faceva sempre male la testa mentreil treno viaggiava veloce verso Empoli,nella prima luce della mattina. Ma per lomeno il paesaggio si era fatto familiare,con le sue dolci ondulazioni, gli oliveti,un bosco di pini e cipressi che costeggiòa lungo la ferrovia.

A Empoli c'era già il sole; le fu dettoche il treno di Colle stava per arrivare;attraversò i binari sul tavolato e si fermò

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sulla banchina.Arrivò il treno; lei si precipitò per

salire, ma un ferroviere, scendendo,disse: «Fate scendere, prima; tanto, nonc'è fretta; si riparte fra mezz'ora» edietro di lui smontarono i viaggiatori,quasi tutti operai con la valigetta inmano… L'ultimo era Stefano.

Rimasero fermi l'uno davanti all'altra,mentre la gente che voleva salire liurtava. Si tirarono da parte.

Alla fine lui le chiese:«Come mai sei qui?»«Torno a casa. Sono stata a trovare

Bube.»Stefano abbassò il viso: «Sì, l'ho letto

sul giornale…»«E tu? Cosa fai qui?»

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«Adesso lavoro a Empoli. Vengo tuttele mattine col treno.»

Si portò la sigaretta alla bocca: fu inquel momento che Mara si accorsedell'anello.

«Ah: vedo che ti sei sposato.» Stefanoarrossì. «Con quella… con cui erifidanzato?»

«No… con un'altra.»«Addio» fece improvvisamente Mara,

e salì sul treno. C'era unoscompartimento vuoto, ci si cacciòdentro. Allora non era vero che Stefanol'avesse amata: se si era consolato cosìpresto. Non c'era stato mai nulla di veronella sua vita: solo la sciagura, laterribile sciagura che l'aveva colpita.Solo Bube che doveva fare quattordici

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anni di carcere: solo quello era vero.Tutto il resto, la gioventù, la bellezza,l'amore, non era stato niente, era statouna beffa e niente altro, una beffa eniente altro…

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Capitolo 3

Tonino abitava nella seconda viuzzadopo il penitenziario; ma quel brevetratto di strada fu sufficiente perchéMara si bagnasse da capo a piedi. Losdrucciolo si era addirittura mutato in untorrente.

Salì di corsa gli scalini e arrivata alsecondo pianerottolo spinse la porta edentrò. Dalla cucina le venne subitoincontro la moglie di Tonino:

«Misericordia Mara in che stato sei!Non potevi aspettare che spiovesse?»

«Sì, stai fresca prima che spiova. Epoi è tardi, sennò non faccio in tempoalla corriera.»

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«Non vorrai mica andartene conquesto tempo. E bagnata fradicia.»

«Per forza Vilma bisogna che vada:domattina devo essere al lavoro.»

«Ma appunto: che torni a fare a casa,se domattina devi essere di nuovo aColle… È meglio che ci vaidirettamente di qui.»

«Ma mamma, se non mi vede, sta inpena.»

«Se non ti vede, capirà che ti seifermata a dormire da noi. Con questastagione, ad andare in giro, c'è daprendersi un malanno. E poi è tanto chece lo prometti, che una volta ti fermi…»

Mara finì con l'acconsentire: Vilma lediede la sua vestaglia e un paio diciabatte, e le mise il vestito e le calze ad

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asciugare sopra la cucina a legna.«Ora preparo il tè; così ti riscaldi lo

stomaco.»«E Danilo?» domandò Mara.«È da questa famiglia di sopra.»«Da quei siciliani?»«Sì, da loro. Buona gente, non dico

mica: ma cosa vuoi, noi toscani non cela diciamo troppo con quelli dellaBassa. Però, meglio loro di quegli altrilassù.» "Lassù", per Vilma, voleva direPiacenza, dove s'era sempre trovataspaesata. «Credi, Mara, che anche iocontavo i giorni quando sapevo chedovevi venire. Almeno per un'ora avevola compagnia di una delle mie parti…»

«È stata una fortuna per me che cifoste voi a Piacenza» disse Mara.

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«Mamma mia! Se ripenso a queiviaggi… Ora almeno sono vicina.»

Vilma apparecchiò con una tovagliadi nylon e mise in tavola le tazze, lozucchero e un piattino su cui erano giàstate disposte le fette di limone. Benchéanche lei come Tonino, fosse di umilefamiglia, pure ci guardava a queste cose;e teneva la casa sempre in ordine, cheera un piacere vederla.

«Tu Vilma la tua casina la tieniproprio come uno specchio.»

«Ma che dici!» Però si vedeva cheera contenta. «Certo anche qui siamo unpo' sacrificati. in camera a fatica ci sirigira… Ma cosa vuoi, con quello cheprende Tonino non possiamo micapermetterci il lusso di pagare un affitto

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più alto.»Dopo aver bevuto il tè, Mara accese

una sigaretta, e Vilma si affrettò ametterle davanti un portacenere.

«Te però non è mica tanto che fumi.»«No» rispose Mara sorridendo. «È un

vizio che ho preso in fabbrica.» E lespiegò che alla mensa c'erano parecchieche dopo mangiato accendevano lasigaretta, e così, aveva finito conl'abituarcisi anche lei. «Ma ne fumopoche: una dopo la mensa, una dopocena… A volte, la sera, anche due o tre:quando si va a vedere la televisione,fumo per tenermi sveglia.»

«Perché? Ti ci annoi?»«Non è che mi ci annoi; ma la sera

sono stanca e mi fa fatica uscire.

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Preferirei andare a letto a leggere unlibro. Ci vado tanto per far svagare unpo' mamma… Lì nella bottega, si dàconvegno tutto il paese… Perché anchea mamma, mica le faceva bene staresempre sola.»

«Tu sei proprio un angelo, Mara»disse Vilma con tono di profondaconvinzione.

Mara rise, imbarazzata:«Ma che cosa dici? È che, povera

mamma, lo so soltanto io quello che hasofferto. Anche per me, cosa credi?magari ne parla di rado, ma ci pensasempre. Meno male che c'è Vinicio»aggiunse dopo un momento: «lui per lomeno le ha dato solo soddisfazioni» e simise a ridere. Quando le veniva fatto di

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ridere così all'improvviso, sembravasempre la Mara di un tempo.

«Tua mamma non ha più avuto queidisturbi?» domandò di lì a poco Vilma.

«Per fortuna no. Perché mi erospaventata proprio. Quella volta che latrovai svenuta… Ma ora s'è capito dache dipendeva: dal carbone. È bastatoche mettessimo anche noi la cucina alegna perché non avesse più capogiri.Ma certo, povera mammina, comincia adavere i suoi anni.»

«E tuo padre come sta?»«Oh, lui sta bene. Sembra sempre un

giovanotto, se lo vedessi! Di spirito,però, non è più lo stesso.»

«Cosa intendi dire?»«Da che non lavora più al Partito.

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Non credeva proprio che gli avrebberofatto una parte simile. E cosa vuoi, dirimettersi a fare il boscaiolo o ilmanovale non se la sente mica più… aparte che lavorare di braccia non è maistato il suo forte» e di nuovo scoppiò inuna delle sue risate da monella. «Poverobabbo» aggiunse tornando seria «anchelui l'ha avuta la sua parte di delusioninella vita…»

Non ci si vedeva più nella stanza;accesero la luce. Vilma andò a chiamareil bambino, che aveva ancora da fare lelezioni; e, mentre Vilma lavorava, «ziaMara» aiutò Danilo a fare le somme e aimparare a memoria una poesia.

Tonino tornò dopo le sette, anche luibagnato. «Brava, hai fatto bene a

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fermarti» le disse. «Bube, come lo haitrovato?»

«Bene» rispose Mara. «Non c'èconfronto com'è sollevato di spirito daquando era lassù.»

«Eh, che vuoi, qui a San Gimignano,soltanto le visite che riceve… Te l'hadetto che l'altra domenica è venutoLidori?»

«Sì, me l'ha detto.» E dopo unmomento aggiunse: «Sono contenta chegli sia passato il risentimento che avevacontro di lui. Perché Lidori, per Bube, èstato più che un amico: è stato come unfratello. Per questo mi dispiacevaquando Bube faceva quei discorsi…».

«Tutti i detenuti si fissano in qualcheidea» disse Tonino. «E così Bube si era

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fissato nell'idea che erano stati gli altri arovinarlo… Ma poi gli è passata. Hacapito che non era giusto incolpare glialtri.»

«La colpa, se lo vuoi sapere, non è dinessuno» disse Mara recisa. «Io figuratiquante volte ho ripensato a quel giornomaledetto. Non ho fatto altro cheripensarci, in tutti questi anni. E mi sonoconvinta che la colpa non è stata dinessuno…»

«Certo, se il maresciallo non avessesparato…» cominciò Tonino; ma lei lointerruppe:

«Io invece non accuso nemmeno ilmaresciallo. Nessuno ebbe colpa… fusolo un male. Ma cosa credono di averfatto mettendo in galera Bube e Ivan?

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Giustizia, forse? No, hanno fattodell'altro male: a Bube, a Ivan, alle lorofamiglie; e a me… Tutto quello che cihanno fatto soffrire, che ci farannosoffrire ancora, è servito forse arimediare qualcosa? Io glielo vorreiproprio domandare, ai giudici: facendosoffrire noi, avete forse alleviato ildolore di qualche altro? Quel poveroIvan» aggiunse dopo un momento: «iome lo ricordo al processo, era un pezzodi giovanotto, con due spalle così: e oraè tisico, e pare che stia per morire.»

«Bube per fortuna di salute sta bene.»«Sì» disse Mara, rasserenata. «Di

salute sta bene e anche come morale, èmolto più sollevato. Oggi s'è parlato delnostro avvenire. Abbiamo deciso che

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avremo due figli, un maschio e unafemmina…» Si rivolse a Vilma cheaveva smesso di lavorare e la guardava:«Non saremo mica così vecchi da nonpoter avere due figlioli. Io avròtrentadue anni e Bube trentasei… tantagente si sposa anche più anziana». Vilmavolle dir qualcosa, ma si trattenne o nonne fu capace. Mara se ne accorse: «Tisembra stupido che si faccia dei progettiquando quel tempo è ancora tantolontano?»

Vilma scosse energicamente il capo:«No, ti capisco Mara… solo non so

come fai ad avere tanto coraggio.»«E allora Bube, che è chiuso là

dentro? Eppure anche lui si fa forza esopporta con rassegnazione… Vero?»

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aggiunse rivolta a Tonino. «I primi tempisono i più terribili» disse poi. «Ma, inseguito, ci si fa quasi l'abitudine… Sonopassati questi sette anni, passerannoanche questi altri sette. E poi, io cercodi non pensarci. Conto solo i giorni chemi separano dal colloquio. Perché è taleuna gioia quando lo rivedo…»

«E anche lui fa così» disse Tonino.«Non pensa che al momento in cui tipotrà rivedere. La mattina del colloquioè agitato, non riesce a stare un momentofermo… Perché bisogna capirli comeson fatti. Una piccola cosa che per noinon sarebbe nulla, per loro diventa unavvenimento. Il colloquio, la lettera, ilpacco… non c'è mica altro nella lorovita.»

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Per alcuni minuti rimasero in silenzio.Poi Vilma si alzò e disse:

«Su, prepariamo cena. DomattinaMara si deve alzare presto.»

«Oh, ci sono abituata» fece Mara. «Lamattina l'autobus mi parte alle settemeno dieci, sicché vedi bene che ladifferenza è poca.»

Insieme prepararono cena eapparecchiarono. Dopo che ebberomangiato, Vilma rigovernò e Mara laaiutò ad asciugare. Tonino mise il bimboa letto, poi tornò in cucina.

Stettero un altro po' alzati. Il discorsoa un certo punto cadde sul prete Ciolfi,che era morto poco dopo il processo; e ifascisti dicevano che era stato inconseguenza delle botte che gli aveva

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dato Bube, ma era una calunnia: perchéera morto di cancro, invece.

«E ti dico di più» fece Tonino «perBube fu un dispiacere quando seppedella morte del Ciolfi. Vedi un po' com'ècattiva la gente a dire certe cose.»

«È cattiva la gente che non ha provatoil dolore» disse Mara. «Perché quandosi prova il dolore, non si può più volermale a nessuno.»

«È proprio così» fece Tonino. «E noiche ci si vive accanto alla gente chesoffre, lo sappiamo meglio di chiunquealtro.»

E venne l'ora di andare a dormire.Mara li salutò; e li ringraziò, anche.

«Ma non dirlo nemmeno perscherzo!» esclamò Vilma di rimando.

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«Tu dovresti fermarti tutte le volteperché per noi è un piacere…»

Mara era stata messa a dormire suldivano del salottino: ci stava comoda,ma non le riusciva prender sonno. Ilfatto di essere in un letto nuovo, e il tictac della sveglia, e il rumore dellapioggia, e il vento che s'ingolfava nelvicolo e scuoteva l'intelaiatura dellafinestra, tutto contribuiva a tenerla desta,Udì dieci rintocchi: venivano dalpenitenziario. E l'angoscia la prese, alpensare che Bube era là tra quelle mura,e ci sarebbe rimasto altri sette anni.

Ma non fu che un momento: perchéancora una volta quella forza che l'avevaassistita in tutte le circostanze dolorosedella vita, la sorresse e le ridiede

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animo. Mara rimase a lungo sveglia, congli occhi aperti, e pensava che avevafatto la metà del cammino, e che allafine della lunga strada la luce.

L'autorimessa era aperta, ma nonavevano ancora tirato fuori la corriera.Anche il caffeuccio di fronte era aperto;ma la macchina era sotto pressione: eMara dovette aspettare una diecina diminuti per avere il suo caffè.

Poiché il locale era vuoto, neapprofittò per fumare. Ma si affrettò aspegnere la sigaretta quando entrarono iprimi avventori.

Erano operai, diretti come lei a Colle.Mentre aspettavano di essere serviti,parlavano e ridevano, e ogni tanto lelanciavano un'occhiata. Ognuno che

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sopravveniva, era salutato daun'esclamazione e da qualche bottaamichevole sulla schiena. Poiarrivarono anche il fattorino, colberretto di traverso, e l'autista, con lagiubba sulle spalle. Dopo aver preso ilcaffè. Rimasero appoggiati al banco adiscutere con gli operai; finché uno diquesti disse all'autista:

«Muoviti, vai a tirar fuori ilmacinino.»

L'autista fece l'atto di tirargli unpugno, e quello, a sua volta, abbozzò laparata. Due minuti dopo la corrierausciva lentamente dall'autorimessa e sidisponeva di traverso. I viaggiatorimontarono senza fretta; Mara andò amettersi nel primo sedile.

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Finalmente montò anche il fattorino,sbatté lo sportello e disse all'autista:«Andiamo». La corriera si mosse, passòsotto la porta, percorse un tratto delviale alberato lungo le mura; poiaffrontò la discesa.

Alla prima curva, si scoprì laValdelsa C'era un mare di nebbia,laggiù: da cui emergevano come isole lesommità delle collinette. Ma il sole,attraversando coi suoi raggi obliqui lanebbia, accendeva di luccichii ilfondovalle. Mara non distoglieva unmomento gli occhi dallo spettacolo dellavallata che si andava svegliando nelfulgore nebbioso della mattina.

(1958-59)

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FINE.