La Questione Del Soggetto Tra Kant e Ricoeur
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Università degli studi di Torino – Facoltà di lettere e filosofia
Luca Zanon
Tesi di laurea triennale
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO TRA KANT E
RICOEUR
Relatore: prof. Marco Ravera
1
Indice generale
Introduzione............................................................................................................3
§ 1 - I paralogismi di “ogni psicologia razionale”..................................................5
§ 2 - Il soggetto kantiano.........................................................................................6
§ 3 - I limiti della ragione......................................................................................10
§ 4 - Necessità di un recupero ermeneutico del sé................................................13
§ 5 - Ricoeur e la psicanalisi quale “archeologia del soggetto”............................17
§ 6 - Ricoeur e il polo fenomenologico.................................................................20
§ 7 - Il problema del male.....................................................................................22
§ 8 - L'approdo alla fenomenologia della religione..............................................27
§ 9 - Ermeneutica della domanda: è possibile un'ontologia del soggetto?............30
§ 10 - “L'avventura del Cogito”............................................................................32
§ 11 - Il sé nel conflitto delle interpretazioni........................................................37
§ 12 - Conclusioni.................................................................................................40
Bibliografia...........................................................................................................42
2
Introduzione
Questo lavoro vuole essere un approfondimento della relazione intercorrente tra il
soggetto problematico presentato da Ricoeur ne Il conflitto delle interpretazioni e
la filosofia kantiana. Frequenti sono infatti in questa raccolta organica di saggi i
rimandi più o meno espliciti all'opera di Kant, per il quale il filosofo francese non
ha mai nascosto la sua ammirazione nel suo definirsi “un kantiano post-
hegeliano”.
Verranno qui analizzati dunque i principali aspetti del kantismo che, molto più
delle filosofie idealistiche post-kantiane, possono essere avvicinati ad una
filosofia ermeneutica contemporanea.
In particolare si procederà, a partire dalla celebre critica kantiana della psicologia
razionale e della sua pretesa di conoscenza del soggetto, ad un approfondimento
del soggetto-funzione kantiano come appare nella Critica della ragione pura a
partire dalla Deduzione trascendentale, passando quindi al fondamentale tema dei
limiti della conoscenza, che costituisce certamente uno dei principali perni del
confronto messo in atto. Il tema stesso dei limiti verrà dunque ripreso ed indicato
come fondamento necessario alla costruzione di una ermeneutica che funga come
mediazione tra alterità, riflettendo su come il compito ermeneutico divenga
necessariamente ontologico ed esistenziale, e, nel caso particolare di Ricoeur,
volto al recupero di un sé disperso e smarrito.
Si approfondirà dunque il recupero ermeneutico del sé nel suo passaggio
attraverso lo sguardo psicanalitico, archeologico e demitologizzante, e nel suo
approdo necessario all'opposto polo fenomenologico, quello della teleologia
hegeliana.
Anche l'hegelismo non costituirà però un punto d'arrivo, nella sua incapacità di
dar conto della tragicità effettiva dell'esperienza del male, altro punto di vicinanza
tra gli autori in questione (tanto che, con riferimento al Saggio sul male radicale,
3
Kant viene additato come compimento di Agostino). Il problema del male in
Ricoeur sarà qui solo sommariamente trattato, quanto necessario ad introdurre il
nuovo polo attraverso cui la riflessione sul soggetto dovrà passare: quello della
fenomenologia della religione, momento di espropriazione massima del soggetto
da sé, volta verso il totalmente altro.
L'impossibilità di trovare un timone filosofico in grado di dipanare il conflitto tra
le differenti interpretazioni sopra riportate porterà la riflessione sul soggetto e
sull'indagine ermeneutica stessa alla necessaria accettazione del conflitto ed al
tema dell'ermeneutica della domanda, in merito alla quale il rapporto con l'altro
sarà considerato così come Kant ha definito la relazione con il noumeno: nulla
resta della verità della cosa in sé, se non la verità della relazione stessa con la cosa
in sé come focus imaginarius della conoscenza. Allo stesso modo l'indagine sul
soggetto, ermeneuticamente condotta in Ricoeur, perviene così alla necessità
dell'indagine mossa dalla domanda stessa che è posta dalla relazione con l'altro (e,
per l'autore, lo stesso sé è venuto ad essere "come un altro"), alla necessità di
prendere parte al conflitto delle interpretazioni.
Verranno quindi riportate alcune considerazioni in merito alla storia del concetto
del soggetto da Cartesio all'ermeneutica contemporanea, sottolineando in
particolare alcuni importanti temi heideggeriani per giungere alla differente
prospettiva ricoeuriana nella sua attenzione al problema del sé, che si mostrerà
non più come polo interpretativo, ma semplice fulcro teso tra poli interpretativi
opposti.
4
LA QUESTIONE DEL SOGGETTO TRA KANT A RICOEUR
§ 1 - I paralogismi di “ogni psicologia razionale”
“Riflessione è separata da ogni conoscenza di Sé dalla critica che Kant rivolge ad
ogni 'psicologia razionale'” e mostrandoci egli in questo modo “che la riflessione
non è intuizione, ci permette di intravvedere nella conoscenza di sé il luogo della
interpretazione”1.
Quale è il bersaglio polemico della critica kantiana ad ogni psicologia razionale?
Un chiaro esempio della stessa può ad esempio essere rinvenuto nell'opera di
Christian Wolff, che definiva la scienza dell'anima quale “razionale” proprio in
quanto, essendo uno studio fondato sull'anima come sostanza semplice, essa
risulterebbe scevra di elementi empirici.
Da questo punto di vista il criticismo viene a costituire la chiave di volta che porta
la filosofia fuori dal pensiero moderno e dal Cartesianesimo: la rivoluzione
operata da Kant riguarda in primis il fatto che del sé non sia possibile avere una
intuizione, e pertanto, coerentemente con la matrice empirica-fenomenica
dell'edificio della conoscenza intera, nessuna conoscenza in senso proprio.
Riassume bene Ricoeur la concezione del sé dominante la storia della filosofia
moderna, da Cartesio all'idealismo: “esistere per me è pensare […] e poiché
questa verità non può essere verificata come un fatto né dedotta come una
conclusione, deve porsi nella riflessione e la sua autoposizione è riflessione”2.
Kant, all'interno di questa parabola che conduce fino alla frammentazione dell'ego
Freudiano, costituirebbe il vertice ed il punto di svolta.
1 Paul Ricoeur, Le Conflit des interpretations, 1969, Editions du Seuil, Paris; tr. Italiana: Il conflitto delle interpretazioni, a cura di R. Balzanotti, F. Botturi, G. Colombo, 1972, editoriale Jaca Book, Milano - pagg. 342-343
2 Ibid. pag. 341
5
All'interno della Dialettica Trascendentale vengono ben definiti i concetti puri
della ragione, o idee trascendentali (“concetto necessario della ragione, cui non
può esser dato, nei sensi, alcun oggetto corrispondente”3). Tali concetti sono
necessari in quanto originati dalla ragione stessa nel suo inevitabile e naturale
procedere in direzione di una unità dell'esperienza. Le idee trascendentali
vengono originate dalla ragione astraendo dall'estensione delle condizioni di un
predicato (come sono poste, ad esempio, all'interno di un sillogismo), e
costruendo, con un processo di sintesi, la totalità delle condizioni, ovvero
l'incondizionato.
Tale processo non costituisce un “errore” della ragione, in quanto le idee
trascendentali hanno un uso oggettivo trascendentale (solo le categorie hanno un
uso immanente) “per prescrivere […] una direzione verso una certa unità, di cui
l'intelletto non possiede alcun concetto”4.
L'importanza che tali concetti-limite della ragione possiedono in ambito pratico è
quindi evidente, in quanto esse vengono a costituire fecondi modelli e “mediante
esse la ragione pura raccoglie tutte le sue conoscenze in un sistema” 5. La ragione
stessa, però, per sua stessa natura tende a produrre una serie di inferenze volte a
raziocinare, ovvero oggettivare tali concetti attraverso sillogismi errati.
§ 2 - Il soggetto kantiano
I Paralogismi della Ragione Pura costituiscono il processo di oggettivazione
dell'Io Penso, pretendendo di poterlo conoscere attraverso il senso interno (quindi
indipendentemente da ogni conoscenza empirica), mentre l'Io penso kantiano altro
non è che la stessa possibilità a priori di unificazione del dato fenomenico, quale
3 Immanuel Kant, Kritik der reinen Vernunft, 1781, Riga; tr. Italiana: Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 1976 – pag. 385
4 Ibid. pag. 384
5 Ibid. pag. 392
6
unità originaria che “deve poter accompagnare tutte mie rappresentazioni”6 ma
che dal mio punto di vista “non si può neppure dire che sia un concetto, ma si
deve dire che è una semplice coscienza”7.
Ridotto l'Io penso a semplice unità trascendentale garante dell'unitarietà delle
rappresentazioni del soggetto, Kant si mette all'opera nel dimostrare come sia
impossibile conoscere me stesso come oggetto, come coscienza determinabile.
Nonostante l'unità temporale dell'Io-soggetto, distinta dal mondo fenomenico
esterno, sia una verità immediata ed assolutamente analitica, non è possibile
dedurre da questa alcuna conoscenza positiva della mia coscienza come oggetto.
In generale, inoltre, non è possibile che l'unità di pensiero, che è un concetto
trascendentale, possa essere oggetto delle categorie per la loro stessa natura: la
loro applicazione legittima è limitata al mondo fenomenico.
Lo psicologo razionale, il quale dà per scontata la conoscibilità dell'anima quale
sostanza semplice, quindi unitaria nel tempo e studiabile separatamente rispetto
alle cose fuori di essa, ignora come tali concetti richiederebbero giudizi sintetici a
loro fondamento, e quindi una intuizione che non può che essere riferita al
sensibile. Allo stesso modo, è indebito estendere la nozione non empirica dell'Io
penso agli altri enti pensanti.
“Nell'intuizione interna, noi non abbiamo nulla di permanente […] ci manca la
condizione per applicare il concetto di sostanza”8: forse sono anche frasi come
questa, in cui anche il Kant nel suo aspetto filosofico più speculativo appare
incredibilmente moderno, a renderlo tanto gradito a Ricoeur, che sovente lo cita e
lo reinterpreta.
La sua rottura con il soggetto cartesiano si evidenzia poco più avanti nella stessa
sezione, quando viene esplicitata la non validità del celebre argomento – penso,
6 Ibid. pag. 155
7 Ibid. pag. 399
8 Ibid. pag. 415
7
dunque esisto – il quale celerebbe la sottintesa premessa maggiore “tutto ciò che
pensa esiste”, la quale non ha riscontro nell'esperienza.
Quello cartesiano sarebbe così, secondo Kant, un sillogismo in cui è celata una
consequenzialità logica che renderebbe l' Io penso altro da quella autoevidenza
intuitiva che si sarebbe dovuta garantire quale fondamento della verità. Cartesio
avrebbe sicuramente obiettato di essere da sempre stato male interpretato su
questo punto, per cui cogito e sum sarebbero semplicemente due aspetti di
un'unica verità immediatamente evidente (per cui per il solo atto del pensare non è
possibile, da parte del soggetto pensante, dubitare della propria esistenza), ma qui
il bersaglio polemico di Kant non sembra riguardare tanto la bontà
dell'argomentazione a livello logico, quanto piuttosto la possibilità di dedurre
l'esistenza del soggetto quale sostanza (almeno) pensante dall'autoevidenza del
cogito stesso. Per Cartesio l'argomento porta infatti ad una certezza ontologica,
necessaria a garantire nel soggetto la presenza di quelle idee che, non potendo
provenirgli da se stesso, proveranno Dio quale desiderato garante della
conoscenza intera: tale è il procedere della filosofia cartesiana, il cui pur
rivoluzionario dubbio non ha mai scalfito l'integrità del soggetto, perno cui ruota
intorno l'intero edificio del conoscere (e del dubitare stesso).
In Kant, al contrario, del soggetto non resta altro che la funzione. Nelle celebri
pagine dedicate alla Deduzione trascendentale, egli giunge all'Io penso quale sede
dell'attività unificatrice del molteplice, funzionalmente necessario proprio in
quanto “la rappresentazione di questa unità non può quindi sorgere dalla
congiunzione” ma al contrario “precede a priori tutti i concetti di congiunzione”9.
Questo perché l'unificazione sensata del molteplice fenomenico non ci è certo data
attraverso i sensi, e, non potendo pervenire in noi attraverso altri canali, non potrà
che essere una operazione a posteriori, un atto spontaneo del soggetto, il quale non
può che essere reso possibile da una unità interna del soggetto stesso dalla quale –
e solo da essa – il concetto di unità possa scaturire per essere poi aggiungersi al
dato fenomenico. L'unitarietà del soggetto costituisce così il dato a priori che
9 Ibid. pag. 154
8
rende possibile ogni giudizio, e quindi la categoria stessa
Allo stesso modo, il concetto dell'Io penso riguarda il darsi di una intuizione
empirica (interna), la quale risulta però indeterminata e, come già si è detto,
precedente l'esperienza, la quale sola determina l'oggetto rispetto al tempo. Se
dell'Io penso non ho dunque esperienza in senso proprio, è indebito applicarvi la
categoria dell'esistenza.
Risulta così chiarificato il ruolo che il criticismo assume nella progressiva
decostruzione del soggetto nel lungo percorso che porta dall'antichità alla filosofia
moderna: è a questo punto scomparsa la possibilità di intuire un soggetto
ontologicamente inteso (secondo la concezione scolastica di anima come sostanza
semplice e separata) da un lato, e si mostra come fallimentare ogni tentativo di
dedurne razionalmente gli attributi tradizionalmente assegnatigli attraverso lo
smascheramento della dialettica dei paralogismi dall'altro. Come è noto
l'attenzione di Kant nello smascherare falsi sillogismi all'interno della Dialettica
non è certo dettata da spirito sofistico, quanto al contrario dal bisogno di mostrare
con energia come l'avventurarsi della ragione speculativa in concetti che non
appartengano al campo dell'esperienza possibile non possa produrre altro che, nel
migliore dei casi, incertezze e contraddizioni.
La cesura kantiana porta dunque ciò che sopravanza l'esperienza possibile al di là
del limite della conoscenza possibile, lasciando un grosso vuoto di certezza
laddove prima si trovava il soggetto.
Ricoeur vuole quindi evidenziare come con Kant pur restando in una pensiero per
cui la “posizione del sé è la prima verità per il filosofo”10, avviene per la prima
volta una riflessione -intesa come riflessione della filosofia su se stessa- che
mostra i limiti della filosofia del sé come semplice intuizione, e, seppur solo
negativamente, apre alla possibilità della riflessione e alla coscienza intesa come
compito, così come compiutamente sarà il non-unitario sé freudiano, che
10 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 341
9
circoscriverà definitivamente il problema della coscienza, rendendola non più un
dato quanto piuttosto il primo dei problemi.
§ 3 - I limiti della ragione
Queste argomentazioni, è chiaro, sono figlie di un certo spirito aristotelico
kantiano, lo stesso per cui la prova a priori dell'esistenza di Dio risulterebbe
invalida: l'esistenza non è mai inferibile da un concetto, essa è posizione assoluta
che deve precedere qualsiasi eventuale applicazione di predicati all'oggetto
dell'esperienza in questione. Anche in questo caso, l'esperienza detta il limite della
conoscenza e la logica non può farsi ontologia (ideale ben chiarito con il celebre
quanto volutamente esacerbato esempio dei “cento talleri”).
Da questo punto di vista, ancora una volta possiamo notare la presa di distanza da
Wolff, sicuramente il pensatore tedesco più influente nel periodo immediatamente
precedente quello in cui lavorò Kant: quest'ultimo notò che il modo in cui le
singole conoscenze erano organizzate nel grande edificio ideato da Wolff, sulla
base della semplice non contraddittorietà logica, non poteva garantire la
sensatezza della conoscenza di nulla che non fosse matematica pura.
All'illuminismo - che potremmo definire idealistico-platonico - wolffiano ne viene
così opposto uno più pragmatico, per cui nessuna scienza può fare a meno dei dati
d'esperienza, che ne costituiscono anzi la condizione necessaria, il dato.
A tale proposito nella sezione conclusiva dei Prolegomeni Kant cerca di
approfondire e spiegare meglio, alla luce degli argomenti riportati, il concetto
stesso di limite della conoscenza. Va infatti tracciata una distinzione fondamentale
tra il concetto di limite in senso proprio, che presuppone “uno spazio che si trova
fuori da un determinato luogo e lo racchiude”11, mentre i semplici confini “non
11 Immanel Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können,1783,traduzione italiana: Prolegomeni ad ogni futura metafisica che potrà
10
han bisogno di ciò, ma son semplici negazioni che affettano una grandezza, in
quanto non ha completezza assoluta”. In questo senso ogni ente, così come ogni
conoscenza empirica del mondo, presenta ovviamente dei confini per la sua
costitutiva parzialità, i quali però non pongono limiti teorici al loro stesso
superamento. Esemplifica Kant: “Nella matematica e nella scienza naturale la
ragione umana conosce certo dei confini ma non dei limiti […] la possibilità di
nuove scoperte va all'infinito”12: questo perché tali scienze si occupano di oggetti
fenomenici, che in quanto tali vengono pienamente letteralmente compresi dalla
stessa ragione conoscente, fintanto che essa li vuole conoscere semplicemente in
quanto fenomeni.
Quando la ragione tenta di estendersi all'extra-sensoriale, come nel caso dei
principi morali o fisici, li trova “del tutto fuori dalla sua sfera, ed essa non può
mai portarveli”13. Essa si scontra pertanto con un limite che non può essere
valicato, e qualora la scienza volesse trovare la spiegazione ultima per ciò che è
fenomeno oltre il mondo fenomenico stesso (caso che ci è ben noto dal mondo di
cui abbiamo esperienza) essa non potrà che arrendersi all'inconoscibile, per
evitare di diventare una metafisica vaneggiante. Non si tratta dunque di un limite
di capienza della ragione umana, quanto piuttosto di una sua non permeabilità
costitutiva a tali concetti.
Un'ultima cosa importante da specificare ulteriormente su questo argomento è il
fatto che ai fini della scienza della natura, illuministicamente, nulla importa della
natura o persino della effettiva conoscibilità di un eventuale fondamento
sovrannaturale – tutti questi problemi aperti dalla ragione non ne inficiano la
capacità di fornire descrizioni delle modalità di manifestazione interconnessa dei
fenomeni, che non abbisognano di alcun discorso sui principi, e sono il suo vero
ed unico scopo.
Ovviamente, la ragione non si dirà mai appagata e mai si accontenterà delle
presentarsi come scienza, a cura di Pantaleo Carabellese, ed. 1996, Laterza, Bari – pag. 22712 Ibid., pagg. 227 e seg.13 Ibid.
11
semplici descrizioni riguardanti ciò che avviene, le quali sono però le sole
conoscenze che essa può trovare per certe. Come già sottolineato, la ragione è
mossa dal desiderio di pienezza, di quella totalità cui ci spinge la stessa unità
trascendentale del soggetto ma che nel mondo non può essere rinvenuta.
Ed in effetti si nota che “il mondo sensibile non è che una catena di fenomeni
connessi secondo leggi universali: esso non ha dunque esistenza per se stesso,
esso non è propriamente la cosa in sé e si riferisce perciò necessariamente a ciò
che contiene il principio di questi fenomeni, […] a cose in sé. […] Vi è quindi un
nesso reale [corsivo mio] del conosciuto con un quid completamente
sconosciuto”14. Ancora una volta, e con espressioni differenti, il filosofo ribadisce
la necessità di un collegamento tra il mondo fenomenico di cui facciamo
esperienza ed un regno noumenico di cui sembriamo non poter fare a meno e
verso il quale siamo in qualche modo gettati come frecce. Pertanto, se non si può
certamente parlare, riferendosi a Kant, di un realismo ontologico della cosa in sé,
si può a buon titolo affermare la sua necessità trascendentale, che stabilisce quello
che potremmo descrivere come un realismo “relazionale”.
La posizione delle cose in sé è resa efficacemente da un paragone “topografico”:
trovandosi interamente oltre il limite della nostra stessa ragione, essa in nessun
modo potrà “portar dentro”di sé - che è anche in italiano il letterale significato
della parola “comprendere” - tali concetti. Al più essa potrà “condurci fino al
limite oggettivo della esperienza, cioè fino alla relazione con qualcosa che non è
per sé oggetto dell'esperienza”15 - eppure è essa stessa di fronte ad un paradosso:
costretta a muoversi al di qua dei limiti che le sono naturali, trova la ragione stessa
del suo moto nel bisogno di poter gettare il suo sguardo al di là degli stessi, nella
sua oggettiva relazione con essi quali oggetti, appunto, non ontologicamente reali,
ma quantomeno possibili.
14 Ibid, pagg. 231 e seg.15 Ibid. pag 247
12
§ 4 - Necessità di un recupero ermeneutico del sé
Con Kant la ragione teoretica trova limiti definitivi: mentre il dubbio metodico
cartesiano si risolveva nella certezza garantita da Dio, i concetti speculativi di idee
trascendentali e di noumeno sono ormai posizionati irrimediabilmente al di là
dell'esplicabile.
Come affermerà un secolo dopo Dilthey, dove termina la conoscenza (delle
Naturwissenschaften, scienze della natura) può avere inizio la comprensione, che
andrà realizzata in modo ermeneutico.
Ed è proprio laddove in Kant l'intelletto fallisce, la categoria è inapplicabile, che
un filosofo noto per il tanto rigoroso stile dimostrativo lascia quegli “spazi vuoti”
che pensatori ermeneutici some Ricoeur riterranno colmabili solo con la
mediazione di un circolo di comprensione – il quale però non è mai esauribile.
“La prima verità – io sono, io penso – resta tanto astratta e vuota quanto è
invincibile. Per questo deve essere mediata dalle rappresentazioni, […] dai
monumenti che l'oggettivano”16. Da qui l'importanza del simbolo come prodotto
dell'attività culturale umana, fonte di conoscenza mai esauribile.
Il criticismo ci ha mostrato la non oggettivabilità dell'Io penso, l'idealismo ha
tentato di colmarne i vuoti eliminandoli come inutili e riempiendo il tutto di un
Assoluto soggetto-oggetto, fino a quando i “maestri del sospetto” (la celebre
espressione è dovuta proprio a Ricoeur) hanno compreso come tali vuoti di
conoscenza fossero reali. Il passo successivo, la mediazione dell'ermeneutica che
si innesta sul conflitto delle interpretazioni, ha saputo vedere quel vuoto di
conoscenza come molto più che reale: esso è necessario.
Ricoeur in particolare è conscio del suo ruolo di pensatore postmoderno: sa che
dopo Freud non è più possibile parlare dell’Io come prima di lui. L'incertezza con
Freud si sposta all'interno del soggetto stesso, per cui non solo la sua conoscibilità
ma la sua stessa unitarietà e coerenza sono per sempre messe in discussione. Da
16 Il conflitto delle interpretazioni - pag 342
13
Freud in avanti, osserva Ricoeur, il soggetto non è più il primo dato bensì l'ultimo
dei fini: mentre il padre della psicologia contemporanea aveva indicato come
costitutiva la perdita di identità del soggetto stesso (entro limiti non patologici,
perlomeno), già il suo discepolo Jung si era prodigato nella ricerca di strade che
indicassero un percorso di recupero del sé.
Ricoeur assume quindi come dato un soggetto frammentato, tale da costituire
dunque un compito per lo studioso.
Il progetto del filosofo, finalizzato ad un recupero - almeno parziale - del sé, sarà
dunque un processo interpretativo, articolato per livelli che seguiranno la stessa
struttura dello sviluppo storico della disciplina ermeneutica, il cui problema - e
metodo - nacque nel campo dell'esegesi biblica, per poi articolarsi filosoficamente
(da Schleiermacher in avanti) fino a costituire una vera e propria strada diretta
verso una ontologia (a partire da Heidegger). Quella che viene indicata è una
possibile via percorribile per una riflessione che miri al riconnettere parti del
soggetto postmoderno, che si trova in una situazione di frammentazione e
dispersione: il rapporto con il sé è venuto ad essere come quello con qualcosa di
“altro”.
Già a livello puramente semantico, l'ermeneutica è quella disciplina volta al far
emergere dal testo un significato disperso, non immediatamente disponibile a
causa della distanza culturale che irrimediabilmente separa l'autore dall'interprete.
Il luogo specifico in cui l'indagine ermeneutica primariamente viene condotta è il
simbolo, la cui stessa radice etimologica (syn-ballo: metto insieme) indica una
collezione di significati racchiuse all'interno di un potente significante.
Dall'affermazione: “Chiamo simbolo ogni struttura di significazione in cui un
senso diretto, primario, letterale, designa per sovrappiù un altro senso indiretto,
secondario, figurato, che può essere compreso soltanto attraverso il primo”17,
segue che il compito dell'ermeneuta è “dispiegare i livelli di significazione
impliciti nella significazione letterale”18, compito evidentemente inesauribile in 17 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 2618 Ibid.
14
quanto la ricchezza del simbolo trascende completamente la capacità del soggetto
interpretante.
Si evidenziano dunque due aspetti problematici: in primis, ogni lettura
ermeneutica è insieme esplicitazione ed impoverimento (in quanto la polivocità
del senso si ritrova ad essere inesorabilmente limitata nell'orizzonte
dell'interprete) del significato del testo, e ad ogni punto di vista interpretativo va
dunque accompagnata la consapevolezza della sua parzialità.
In secondo luogo, ci si rende conto di come l'operazione di comprensione avvenga
come una appropriazione, come già è esplicitato a partire dal significato letterale
della parola stessa, e come questa operazione comporti necessariamente il
superamento di una distanza, secondo quella che Gadamer definiva “polarità di
familiarità ed estraneità”19 data non tanto dalle individualità psicologiche, quanto
dalla natura stessa del linguaggio come significazione, che costituire il vero
oggetto dell'ermeneutica. Questo presupposto fondamentale portò l'autore di
Verità e metodo ad affermare che la “comprensione [...] è sempre il processo di
fusione di questi orizzonti”20, di interprete ed interpretato, in cui gli orizzonti sono
“termine per indicare il fatto che il pensiero è legato alla sua determinatezza finita
e per sottolineare la gradualità di ogni allargamento della prospettiva”21.
In Ricoeur, la possibilità di vincere la distanza che ci separa dal testo – o dal
simbolo in senso lato – viene a costituire una apertura alla possibilità di vincere la
dispersione stessa del sé, almeno in una misura tanto parziale quanto parziale non
può che rimanere il punto di vista dell'interprete sul testo. Se la comprensione del
senso è possibile solo tramite il superamento almeno parziale di una distanza, in
un moto di avvicinamento tra interprete e testo, allora quel lavoro dell'interprete
che permette la comprensione del testo avrà come effetto riflesso un ampliamento
della comprensione di sé. “Ogni ermeneutica viene così ad essere […]
19 Hans-Georg Gadamer, Wahrheit und Methode, 1960, Tübingen; tr. it. Verità e metodo, a cura di Gianni Vattimo, 1983, Bompiani, Milano - pag. 345
20 Ibid. pag. 35621 Ibid. pag. 353
15
comprensione di sé per la via mediata della comprensione dell'altro”22: in questo
modo il pensiero ermeneutico, dapprima inteso come mera esegesi fondata sulla
semantica, diviene quella che Ricoeur definisce “riflessione, cioè il legame tra la
comprensione dei segni e la comprensione di sé”23.
Viene così ad essere indicata una nuova via verso l'ego: dopo Nietzsche e Freud,
esso è conscio della propria situazione di non auto-trasparenza e di effettiva
dispersione, ma attraverso i suoi stessi prodotti culturali, per loro natura simbolici,
esso potrà volgersi al recupero del sé, inteso come compiutezza - compito
inesauribile come non esauribile è il compito dell'interprete - attraverso un'analisi
dei simboli e delle interpretazioni che la cultura ne ha fornito.
In Kant l'unica relazione rimanente con ciò che si trova “oltre il limite” della
conoscibilità era la natura stessa di questa relazione. Partendo dallo stesso
assunto, l'ermeneutica si trova però a voler gettare un ponte almeno possibile oltre
i limiti della conoscenza soggettiva, che finirebbe per far cadere il soggetto in un
solipsismo trascendentale. La via possibile è insita nella natura stessa di relazione
sopra citata, che nello specifico viene ad essere la natura semantica, e quindi
relazionale, del linguaggio. L'analisi di Ricoeur si concentrerà in particolare sui
simboli del sacro, cui è propria una natura semantica che è volta verso ciò che per
sua stessa definizione si trova interamente al di fuori dei limiti del conoscibile.
Proprio per questo motivo l'ermeneutica del sacro, del simbolo del sacro come
significante dell'inconoscibile, valorizza maggiormente quel sopra citato,
fondamentale effetto della conoscenza ermeneutica che viene indirettamente ad
essere conoscenza di sé.
Il compito ermeneutico diviene quindi esistenziale ed ontologico in senso proprio,
tenendo presente che “un'ontologia unificata è tanto inaccessibile per il nostro
metodo quanto una ontologia separata”24 rispetto al piano ermeneutico. Le strade
22 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 3023 Ibid.24 Ibid. pag 33
16
che il pensiero dovrà seguire saranno dunque quelle che traggono il senso fuori
dalla posizione (coincidente con la coscienza) in cui la metafisica classica lo ha in
qualche modo relegato: psicanalisi, fenomenologia hegeliana e fenomenologia
della religione stessa trovano il senso dell'ego in qualcosa che gli è
rispettivamente anteriore, posteriore o totalmente altro.
Per giungere a questo abbozzo di ontologia esistenziale la riflessione dovrà
intraprendere un'indagine rivolta all'interpretazione psicanalitica dell'ego, la sola
che possa solidamente smontare la pretesa del sé di porsi come coscienza,
presupposto fondamentale alla rimozione del falso cogito per la possibilità di una
sua ricostruzione.
§ 5 - Ricoeur e la psicanalisi quale “archeologia del soggetto”
Ricoeur prende dunque le mosse proprio da Kant, che aveva mostrato
l'impossibilità dell’ intuizione di sé nell'ambito dell'esperienza interna,
evidenziando come da quel momento inizi per la psicologia la necessità di una
riflessione, conoscenza che non può essere immediata, così come mediate sono,
tra l'altro, le manifestazioni della coscienza e dell'inconscio. Jung stesso, in
particolare, aveva insistito come è noto sulla nozione di simbolo come
condensatore di energia psicologica, marcando la differenza con il maestro Freud
che utilizzava indistintamente i termini “simbolo” o “segno” per indicare, ad
esempio, il rimando di alcuni elementi all'interno dei sogni. Mentre il segno è
significante arbitrario o convenzionale, il syn-ballo presuppone già
etimologicamente il riferimento ad una completezza da compiersi. Esso è prodotto
psicologico ed ha allo stesso tempo potere sulla psiche, essendo tratto da archetipi
che sono comuni all'inconscio di ciascun individuo.
17
L'analisi condotta sulla nevrosi come sui simboli del sogno mostra una storia degli
effetti in cui le psicosi dell'uomo sono direttamente causate da eventi atavici,
infantili, i cui legami con il presente sono tanto forti quanto occultati dalla stessa
coscienza che rimuove e mistifica. L'azione dello psicanalista è quindi
propriamente quella dell'archeologo del soggetto, opera che per Ricoeur viene ad
essere una vera “anti-fenomenologia”25, in quanto deve potersi del tutto affrancare
dall'ambito della coscienza stessa per poter condurre il proprio discorso con
efficacia: “L'intelligibilità degli effetti di senso [...] è inaccessibile alla coscienza
perché quest'ultima è essa stessa separata dal livello in cui si costituisce il senso,
dalla barra della rimozione”26. La filosofia ermeneutica ha infatti sempre un
occhio rivolto al passato, in quanto deve esser conscia di quella storia che
determina anteriormente il soggetto e le sue credenze (celebre l'espressione di
Gadamer Wirkungsgeschichte, “determinazione storica”).
Francesca Brezzi, nel suo saggio su Ricoeur, evidenzia inoltre come “il simbolo in
psicanalisi è sempre considerato come un'illusione o l'occultamento di un
desiderio, di fronte al quale l'interpretazione assume un ruolo smascherante e
dissacrante”27.
In Ricoeur la nozione di simbolo è ormai stata filtrata attraverso l'ermeneutica, ed
esso ha abbandonato quella sorta di “iperuranio degli archetipi”, che in Jung
facevano forse percepire l'eco di una concezione influenzata dalle forme a priori
del kantismo: il simbolo è ora invece prodotto culturale, vivo, sempre mutevole e
suscettibile di nuove interpretazioni, e la stessa verità ermeneutica che si svela
attraverso il simbolo e la riflessione non può mai trovare compimento.
L'interpretazione, in quest'ottica, non può ambire ad essere semplicemente
funzionale ad una sorta di sollevamento del velo di Maya, alla semplice
eliminazione del simbolo culturale mistificazione della verità, in quanto il simbolo
è l'unico veicolo possibile per la verità stessa. E' per questo motivo che Ricoeur
25 Cfr. Il conflitto delle interpretazioni -pag. 25326 Ibid.27 Francesca Brezzi, Introduzione a Ricoeur, Laterza, Roma-Bari, 2006
18
deve poter sorpassare la scuola dei maestri del sospetto, che pur costituiscono un
momento fondamentale dello svelarsi del simbolo come strumento di conoscenza:
il loro pensiero va assunto né può essere ormai contestato, quale pars destruens di
un cammino che però potrà e dovrà essere molto più ampio. Il simbolo è infatti
per sua natura opaco, difficilmente permeabile alla comprensione.
In questo senso è effettivamente necessaria quella che Ricoeur definisce una
interpretazione demitologizzante, la stessa che applicarono Freud e Nietzsche nei
loro studi, che vede nei simboli una illusione funzionale da smascherare
percorrendone la genealogia, attraverso la reminiscenza del passato in grado di
raggiungerne il punto d'origine.
Tale demitologizzazione è lo scheletro concettuale del procedere della psicanalisi,
che indaga l'origine degli squilibri del paziente al fine di smascherare il reale
significato di ciò che nei suoi sogni o nelle sue abitudini è travestito in veste
simbolica (dunque liberarlo da essi, attraverso un supposto processo auto-
catartico), così come del metodo genealogico nietzschiano, che svela l'origine
della morale occidentale nella sovversione dell'ordine morale dionisiaco,
rimpiazzato dalla morale degli schiavi e giustificato da un apparato dogmatico e
religioso manifestamente insensato.
In un caso come nell'altro, è importante sottolineare come l'illusione sia sorretta
da un ordine funzionale: il mascheramento delle pulsioni in nevrosi, incubi, ecc.
protegge il conscio da ciò che esso rifiuta, così come l'illusione della religione
giustifica un certo tipo di ordine morale-sociale (leggasi: in Marx) e ha un un
innegabile ruolo consolatorio (quest'ultimo analizzato specificamente da Freud).
Giunti a questo punto, però, è lecito domandarsi: “che tipo di credito possiede la
parola che proclama la morte del dio morale”28? La risposta è: molto, ma
esclusivamente dal punto di vista demitologizzante.
E' sotto gli occhi di tutti il fatto che i maestri del sospetto volessero ricostruire
sulle macerie dei concetti che avevano provveduto a demolire; ma, osserva
28 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 461
19
acutamente Ricoeur, “questa filosofia positiva […] che sola potrebbe dare
un'autorità alla sua ermeneutica negativa, resta sotterrata sotto le macerie che
Nietzsche ha accumulato intorno a sé. Nessuno forse è in grado di vivere come
Zarathustra e Nietzsche stesso, l'uomo del martello, non è il superuomo da lui
annunciato”29.
Un discorso simile, estendibile ben oltre i limite del superominismo nietzschiano,
rimette in dubbio non solo la pars construens proposta dai maestri del sospetto,
ma ne frena conseguentemente anche l'aspetto negativo: è davvero tutto da buttare
via?
La demitologizzazione del simbolo è infatti solo uno dei due poli ermeneutici
necessari per recuperare il senso nella sua completezza, quello che analiticamente
disfa il tessuto d'illusione che lo protegge. Come Kant fa notare nella Appendice
alla Dialettica trascendentale, l'illusione trascendentale sorge a causa di un uso
improprio delle idee trascendentali, che sono però concetti necessari della ragione
non solo in quanto necessariamente prodotti da essa , ma in quanto
funzionalmente orientati.
La filosofia divenuta riflessione dovrà però articolarsi su due punti, o meglio,
attraverso due poli opposti: accanto a quello appena illustrato, che potremmo
chiamare psicanalitico-regressivo, prende posto quello fenomenologico-
progressivo.
§ 6 - Ricoeur e il polo fenomenologico
La necessità di un recupero del senso del soggetto rimane, non essendo state le
parole dei maestri del sospetto adeguate al fine “rivoluzionario” che si
prefiggevano. Tale recupero, come si è detto, continua dunque a costituire un
compito per l'uomo postmoderno, e laddove l'approccio psicanalitico, per sua 29 Ibid.
20
stessa natura archeologico nei confronti del Sé, non si rivela sufficiente a cogliere
il senso nella sua pienezza, si dischiude una nuova via, opposta alla prima, quella
di una possibile teleologia del soggetto. L'idea teleologica è indicata dalla natura
stessa del Sé come compito (propria anche del senso comune), e porta
necessariamente ad un Fenomenologia dello Spirito, intesa proprio nel senso in
cui la costruì Hegel. Nella prospettiva hegeliana infatti la coscienza si realizza
proprio nel suo compito di superamento di ciò che è altro da sé, e trova la sua
completezza solo al suo termine, nell'interiorizzazione della successione delle
figure che sopravanzano e la portano sempre più oltre sé stessa.
Ricoeur è comunque attento nel prendere le distanze anche dalla filosofia
hegeliana. Quest'ultima finisce per risolversi semplicemente nel sapere assoluto,
idea inaccettabile per un pensiero ermeneutico, e su questo aspetto egli è infatti
molto più vicino a Kant che non a Hegel, il quale, come ha altresì affermato H. G.
Gadamer, è terribilmente pericoloso per una filosofia ermeneutica, nonostante
evitare un confronto sia praticamente impossibile, “perché la filosofia dello spirito
hegeliana propone una mediazione totale tra storia e presente”. Gadamer ha ben
evidenziato la natura “onnivora” della dialettica hegeliana proprio nei confronti di
ogni tipo di limite, così come il criticismo li aveva posti: la “nota polemica di
Hegel contro la kantiana 'cosa in sé'”30 è perfettamente riuscita a vanificarne, sul
piano logico, riflessivo, la portata, obiettando “che la ragione, in quanto traccia
questi limiti e distingue il fenomeno dalla cosa in sé, mostra che questa differenza
è in realtà qualcosa di suo proprio”31. Questo modo di argomentare, mette in
guardia Gadamer, è tutt'altro che sofistico, tanto che “il punto archimedico che
permetta di scardinare la filosofia hegeliana non può essere trovato nella
riflessione”32 (intesa qui come logica filosofica e non nei termini della riflessione
ricoeuriana): una volta assunta, la dialettica hegeliana comprende nel ritorno alla
coscienza ogni altro da essa.
30 Verità e metodo – pag. 39731 Ibid.32 Ibid. pag. 398
21
Il cardine dell'argomentazione ricoeuriana, volta ad evitare una ricaduta del
pensiero nella aporia del sistema idealistico hegeliano, è una presa di distanza per
cui la fenomenologia dello spirito, esaminata a fianco della genealogia della
morale nietzschiana, risulta appunto un polo, uno dei molteplici sostegni cui è
appeso il filo della riflessione che pure non appartiene a nessuno di essi, i quali
non costituiscono altro che punti di vista tanto legittimi quanto parziali, il che
risulta particolarmente evidente nella sua concezione del male.
Il problema fondamentale del male, che attraversa l'intero pensiero di Ricoeur,
quello che “resiste ad ogni riduzione” e che è quindi da considerarsi il problema
ermeneutico par excellence, mostra chiaramente i limiti del pensiero razionale,
così come nel Saggio sul male radicale l'origine della tendenza al male resta
definita come “insondabile”33. I simboli del male che, come quelli del sacro, si
trovano in ogni mito sono infatti resistenti ad ogni tentativo di razionalizzazione, e
proprio da essi può esser condotta una critica forte all'hegelismo.
§ 7 - Il problema del male
Hegel, con la sua visione di un male funzionale al completamento dello spirito,
propone un'idea incredibilmente minimizzante nei confronti di un problema che
costituisce forse il problema per l'essere umano: è la sofferenza stessa di fronte
all'oscuro mistero del male a far mantenere la distanza dall'hegelismo e dal suo
sapere assoluto. In particolare, Ricoeur osserva che “nessuna grande filosofia
della totalità è in grado di rendere conto […] della contingenza del male in un
disegno significante”34: Plotino e Spinoza hanno visto il male rispettivamente
come ostacolo nell'ordine della Provvidenza e come illusione frutto dell'ignoranza.
Quello di Hegel è il sistema più elaborato, in quanto dialettico, razionale, a suo
modo impeccabile: tanto che già Kierkegaard aveva sottolineato come esso
33 Cfr. Infra pag. 1534 Il conflitto delle interpretazioni - pag. 327
22
trasformasse il male in negatività, funzione universale al posto di atto colpevole
singolare. Così “l'accento tragico si sposta dal male morale sul movimento di
esteriorizzazione, di estraneazione dello Spirito”35, ed inoltre viene completamente
perso l'aspetto tragico del problema del male, così come il concetto di
colpevolezza, in quanto “la remissione infatti è già la riconciliazione nel sapere
assoluto […] ma nello stesso tempo il simbolo della remissione dei peccati è
perduto poiché il male è più 'sorpassato' che 'perdonato', e sparisce in questa
riconciliazione”36.
La fenomenologia dello spirito rivela così il suo aspetto problematico di pensiero
razionalizzante (che intende indebitamente razionalizzare la tragicità del male) di
tipo speculativo, che si fonda su un realismo ontologico del male per
comprenderlo in una filosofia sistematica e compiuta, così come operò il pensiero
gnostico con la sua esteriorizzazione del male come principio della realtà, e come
ogni sistema di teodicea in generale.
L'altro volto che un pensiero razionalizzante può assumere è quello
allegorizzante, che tende a vedere una verità precedente il simbolo di cui il mito
non è altro che volgarizzazione o mistificazione, come secondo il pensiero stoico
o quello di innumerevoli positivismi.
Il compito del filosofo, deve come tale potersi mantenere un compito razionale,
senza però cadere nel rischio di un pensiero che finisca per essere razionalizzante
nei confronti del simbolo, nell'uno o nell'altro senso sopra mostrati.
Kant stesso aveva dedicato al tema un'opera minore volta proprio ad evidenziare
la “vanità di ogni tentativo di teodicea”, e aveva ben compreso il problema del
male come radicale e al di là delle nostre capacità di comprensione.
L'espressione “radicale” riferita al problema del male indica la convinzione,
maturata da Kant, secondo cui questo “fondo oscuro” sarebbe dotato di una sua
realtà effettiva – sebbene non metafisica – e non piuttosto generato nell'uomo 35 Ibid. pag. 32936 Ibid. pag. 328
23
dall'ignoranza della virtù e dalle inclinazioni naturali (come secondo un Leitmotiv
assai antico). “Considerate in sé stesse, le inclinazioni naturali sono buone”37, a
differenza di quanto avevano erroneamente ritenuto gli Stoici, i quali, da veri
filosofi classici, non potevano accettare un principio oscuro in grado di
subordinare la volontà.
Essi, tuttavia, non considerarono le conseguenze di una affermazione come
questa: accettando come principio morale l'inclinazione naturale, “l'uso della
libertà dovrebbe essere ricondotto totalmente alla determinazione per opera di
cause naturali”38, posizione deterministica che risulterebbe – ad avviso stesso di
uno stoico - inaccettabile. In Kant, ad accompagnarsi alla concezione di un male
radicale, vi è quella di una libertà radicale.
L'uomo diviene cattivo quando piuttosto rende preminente il pur naturale
principio dell'amore di sé al di sopra della legge morale: il male non è ignoranza o
corruzione della legge ma dipende dalla “subordinazione dei moventi […] quale
dei due moventi è condizione dell'altro”39.
Nonostante il male sappia ben travestirsi sotto la sovversione strisciante della
massima, e la lunga attitudine al male in un uomo lo separi sempre maggiormente
dalla possibilità di redimersi (il male stesso finisce per fingersi bene, e non si
sanno più discernere le massime buone da quelle cattive) - l'uomo conserva
sempre la libertà della volontà, la sua originaria disposizione al bene.
Proprio in seno alla libertà radicale dell'uomo nasce il male come radicale: male
come possibilità di scegliere di fare il male, e “l'origine razionale di questa
discordanza del nostro arbitrio […] resta per noi impenetrabile”40. Questo in
quanto un fondamento primo malvagio richiederebbe a sua volta la definizione di
una massima malvagia, la quale richiederebbe un nuovo fondamento, e così via:
anche in questo caso i mezzi propri della ragione falliscono.
37 Immanuel Kant, Die Religion innerhalb der Grenzen der bloßen Vernunft, 1794, Königsberg , tr. it. La religione entro i limiti della semplice ragione a cura di Vincenzo Cicero, 2001, Bompiani, Milano – pag. 153
38 Ibid. pag 7539 Ibid. pag. 10940 Ibid. pag. 125
24
Essa ha soltanto un semplice indizio della presenza dell'altro da sé, del fuori di sé,
che le si rivela come limite oggettivo.
Va inoltre sottolineata, a questo punto, la concezione kantiana del mito dell'origine
del male così come narrato dalla Scrittura: la presunzione di uno stato d'innocenza
precedente il male soltanto nel primissimo uomo non è che un espediente il quale
non fa altro che mostrare che “andando indietro fino al tempo in cui l'uso della
ragione non si era ancora sviluppato in noi [...] risaliamo ad una tendenza al male”
che si può definire come “innata”41. Questo proprio in virtù della – più che
compresenza – codefinizione della libertà di arbitrio umano e male radicale,
concetto che vuole rappresentare la soluzione al dibattito tra i sostenitori di una
naturale tendenza al male dell'uomo contro coloro che affermano la sua naturale
tendenza al bene.
In Kant, come nel mito di Adamo, viene sottolineata la preminenza del principio
buono: questo perché la ragione umana nasce già fornita della sua legge morale, la
quale per la sua stessa natura di determinare la volontà secondo la libertà, include
però anche la possibilità di sottrarsi liberamente al suo stesso comando.
Ricoeur ha dedicato una parte considerevole della propria opera al tema del male e
del peccato, ma ai fini di questo discorso sarà sufficiente sottolineare come la sua
posizione prenda le mosse proprio dalla concezione agostiniana e kantiana. Egli
ricorda che “è Agostino il responsabile dell'elaborazione classica del concetto di
peccato originale”, colui che alla cristianità patristica ha fornito chiavi di
interpretazione del problema valide ancora oggi. L'aspetto più interessante delle
posizioni agostiniane in merito al tema del peccato, efficacemente riassunte nel
saggio “il peccato originale: studio di significato” è proprio il loro carattere di
mediazione.
Agostino si è trovato, infatti, nella complessa condizione di dover combattere due
forme di eresia le quali, riguardo il problema del male, avevano posizioni
41 Ibid. pagg. 125 e seg.
25
diametralmente opposte. I primi suoi avversari furono gnostici e manichei, i quali
professavano una natura ontologica, reale di un principio del male esterno che
imprigiona l'uomo; successivamente egli dovette combattere il volontarismo
razionale di Pelagio, il quale, addossando integralmente al singolo uomo la colpa
del suo peccare in virtù della sua libertà, coerentemente affermava la semplice
esemplarità del mito adamitico, per cui Dio mai potrebbe accusare un uomo di un
peccato che egli non ha commesso in prima persona.
Il peccato originale viene così a dover assumere, in Agostino, un duplice aspetto
che si snoda attraverso gli estremi di ragioni del tutto opposte.
Contro Mani, “Agostino elabora una visione puramente etica del male, nella quale
l'uomo è integralmente responsabile; egli la libera da una visione tragica dove
l'uomo non è più autore, ma vittima”42. Definendo il male secondo i concetti di
libertà e di colpa, egli può così parlarne come di un “nulla”, perlomeno in termini
ontologici.
La visione tragica del male, sorprendentemente, in Agostino non scompare affatto:
il peccato di Adamo costituisce sotto un altro aspetto, negli scritti successivi, una
vera e propria tara dell'umanità intera che potendo scegliere – come il mito di
Adamo esemplifica - ha già da sempre scelto il male, anticipando la visione
luterana secondo la quale “l'elezione è per grazia, la perdizione è per diritto”43.
La duplice posizione agostiniana in materia potrebbe essere vista come un
maldestro artificio retorico volto a “correggere il tiro” nei confronti dei suoi nuovi
avversari pelagiani, ma si tratta al contrario di un'interpretazione coerente con lo
stesso carattere del male quale inconcepibile ed irrazionale nella sua più profonda
natura, la quale si sposa con quella che Ricoeur definisce “economia della
sovrabbondanza” riferita alla grazia. Essa ricalca la celebre sentenza paolina
secondo cui “dove ha abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia”44, è
espressione di economia antieconomica, di massima irrazionalità dell'operato
divino, di quel che del simbolo del sacro resta come fondo di significato resistente
42 Il conflitto delle interpretazioni - pag. 29043 Ibid. pag. 29744 S. Paolo - Rm 5.20
26
alla razionalità stessa, e che, in quanto tale, è la sola “soluzione” possibile al
problema del male.
Nell'attenzione di Ricoeur resta dunque preminente l'avvertimento di evitare una
indebita razionalizzazione dei simboli del sacro (che in quanto tali costituiscono
ciò che R. Otto definiva Ganz Anderes – il “totalmente altro” da noi). Risuona qui
un'eco del monito antiparalogistico kantiano, che nella Dialettica trascendentale,
come abbiamo visto, definiva raziocinante l'inferenza volta alla speculazione sulle
idee, concetti limite della ragione.
Interpretazioni a senso unico, che cerchino di razionalizzare il male, sono in ogni
caso destinate a fallire: “ciò che non si deve fare è passare dal mito alla
mitologia”45, avverte Ricoeur, come l'illuminista Immanuel Kant: il quale si era
reso conto che sulla natura più profonda della tendenza al male la ragione non
potesse sindacare.
§ 8 - L'approdo alla fenomenologia della religione
Se il pensiero speculativo porta dunque necessariamente ad uno scacco della
ragione, risulta necessaria l'assunzione (almeno temporanea) di una posizione
fenomenologica, che in quanto tale rispetti la necessaria distanza incolmabile che
separa il soggetto dal suo oggetto e che sappia guardare al contenuto della
rappresentazione dell'oggetto stesso come ad una verità in grado di “riempire”
(termine husserliano) l'intenzionalità del soggetto osservante. Nello specifico, il
simbolo del Sacro ne rivela la verità come entità essenziale, altra ed autonoma
rispetto alle sue manifestazioni storiche, così come sostenuto nell'opera di storici
della religione appartenenti alla prospettiva fenomenologica (da Rudolf Otto a
Mircea Eliade, che non a caso fu corrispondente ed ammiratore del filosofo 45 Ibid. pag. 300
27
francese). La fenomenologia, in quanto attenzione per l'oggetto intenzionale,
vuole così ricondurre il problema del fenomeno religioso al suo oggetto
essenziale, quel Sacro che è conoscibile solo attraverso il simboli che lo
manifestano, e che “ha per caratteristica di non essere mai completamente
arbitrario, di non essere vuoto, poiché vi è sempre un minimo di relazione naturale
tra il significante ed il significato”46. L'attenzione per il sacro attraverso il
simbolo è pertanto ciò che il filosofo può attingere da una prospettiva
fenomenologica, in cui l'attenzione per l'oggetto fa sì che si eviti ogni
razionalizzazione del suo contenuto: il motto è concentrarsi sul fenomeno, ed il
fenomeno precede ogni concettualizzazione: essa “non vuole spiegare, ma
descrivere”47.
Il problema che però necessariamente si pone al fenomenologo è, testualmente,
“ma io ci credo”?
Questa domanda è ben distante da implicazioni fideistiche. Il progetto di Ricoeur
si attiene infatti al rigoroso criterio di seguire l'impianto generale della concezione
kantiana della conoscenza, nella quale, come si è visto, l'attenzione per il
fenomeno non implica, come erroneamente interpretarono gli idealisti, mancanza
di importanza del noumeno in quanto non appartenente al soggetto, cosa in sé del
tutto staccata dalle sue forme a priori e pertanto non conoscibile.
Potremmo affermare che tra i due filosofi presi in considerazione, il punto in
comune più profondo sia proprio la natura teleologica della conoscenza umana, la
quale deve sempre trovarsi rivolta ad un fine che le è del tutto esterno.
Se il noumeno, il Sacro, risulta in qualche misura almeno concepibile, questo
implica una sua funzione che non è esplicabile in un'ottica puramente descrittiva
in quanto è la forma stessa della cosa in sé a sfuggirci. Nella sua posizione di
totale alterità rispetto al soggetto, essa costituisce quel focus imaginarius48 avente
funzione fondamentale, nel kantismo come nell'ermeneutica ricoeuriana. Per
46 Il conflitto delle interpretazioni - pag. 33447 Ibid.48 Cfr. Critica della Ragione Pura, pagg. 659 segg.
28
questo esso costituì per Kant il movente della razionalità stessa,
illuministicamente intesa come necessità di comprensione e chiarificazione
(Aufklärung, appunto), ed in maniera non dissimile Ricoeur vi scorge una sorta di
motore immobile - aristotelicamente inteso - in grado di portare il soggetto fuori
di sé attraverso il semplice invito (si veda a tale proposito la sezione successiva
riguardante il tema della domanda), indicando alla sua ragione una via che essa
non può vedere.
La sua effettiva natura ci resta ignota: d'altra parte, la difficoltà oggettiva che si
incontra nel mantenimento di una prospettiva esclusivamente fenomenologica in
studi religiosi mostra ancora una volta come ogni punto di vista non sia che una
legittima, ma non autosussistente, riduzione della verità.
In questo modo Ricoeur riprende ed oltrepassa Kant, a partire dalla formula
secondo la quale il limite e la cosa in sé conducono la ragione ad un “ampliamento
che non le è possibile di per sé nell'uso speculativo” - come recita il titolo del
celebre paragrafo della Critica della ragione pratica: nell'indagine pratica (che
inevitabilmente finisce per riguardare, almeno come postulati, concetti puri extra-
esperienziali) la ragione incontra il concetto di una “causalità incondizionata”
come effetto di una possibile volontà pura, nonché la sua realtà obiettiva, dalla sua
“applicazione reale (in atto) [...] sotto forma di principi (soggettivi) o massime”49,
con l'effetto di una apertura al campo degli “oggetti sovrasensibili”, ampliamento
però limitato all'ambito epistemologico (per affermare la possibilità ed addirittura
il diritto di postulare enti sovrasensibili e le loro proprietà).
Parallelamente, in Ricoeur il simbolo porta il soggetto oltre se stesso e rappresenta
in qualche modo una sorta, se non di garante, di promessa di riappropriazione del
sé perduto, e lo scopo dell'indagine portata ai limiti della ragione va ben oltre la
questione conoscitiva. D'altronde Ricoeur stesso indica il limite di ogni filosofia
49 Immanuel Kant, Kritik der praktischen Vernunft, 1788, Riga; tr. it. Critica della ragione pratica, a cura di Anna Maria Marietti, BUR, Milano, 1992 - pag. 231
29
critica nella sua “preoccupazione esclusiva per l'epistemologia”50.
§ 9 - Ermeneutica della domanda: è possibile un'ontologia del soggetto?
Una filosofia ermeneutica in grado di pensare a partire dal simbolo, capisce che
“alla parola appartiene il potere di cambiare la comprensione che abbiamo di noi
stessi”51, e qui si può a buon diritto leggere questo “parola” non nel semplice
significato di Parola del kerygma, di cui l'autore sta trattando in quelle pagine, ma
della stessa voce di ogni simbolo, che “si rivolge a ciò che chiamavo la nostra
esistenza, in quanto sforzo e desiderio”52. Il simbolo dà da pensare perché è in
grado di rivolgersi alle nostre strutture più intime: così la voce del simbolo è la
parola della domanda e non quella del comando, perché solo la domanda è in
grado di cambiarci. Nell'ascolto della domanda qualcosa ci si aggiunge, perché
l'ascolto non è semplice obbedienza all'imperativo (nella stessa misura in cui il
kerygma è domanda e non ordine).
Attraverso l'ascolto della voce del simbolo il soggetto è così in grado di
ricostituirsi, di rinvenire il sé: il simbolo parla la nostra stessa lingua ed è
costituito dei nostri stessi archetipi, avrebbe azzardato Jung nel suo ritenere che
nel mondo culturale si manifestino direttamente le cifre dell'inconscio collettivo.
Ricoeur si limita in questo senso a sottolineare - come si è già visto – la non
arbitrarietà effettiva del simbolo, legato ad una grande quantità di livelli di senso
che si dischiudono immediatamente a partire dalla sua significazione primaria (lo
stacco rispetto ai segni convenzionati è evidente provando a paragonare una
simbologia tradizionale come quella della lordura con segni particolari quali il
verde del semaforo o una qualsiasi parola in una lingua definita).
50 Il conflitto delle interpretazioni - pag. 34351 Ibid. pag. 46852 Ibid.
30
La natura di domanda che viene ad assumere la parola stessa in Ricoeur pare
necessaria in quanto, assunto il principio ermeneutico secondo il quale ogni
interpretazione non è che espressione di un particolare punto di vista (e in quanto
tale mai definitiva nel rivelare una verità opaca), il processo interpretativo andrà
condotto a partire dalle diverse scuole di pensiero, anche contrapposte, che si sono
affermate nella storia. In Ricoeur il soggetto viene così a tenere i fili, a fungere da
mediatore e mai da giudice, alla ricerca del significato dei simboli attraverso voci
che non possono mai esprimersi come imperativi, in primo luogo perché non ne
hanno il diritto, ed in secondo luogo in quanto solo la parola che pone la domanda
è in grado di far intraprendere quella ricerca che, volta verso l'altro da sé, sia in
grado di far rinvenire parti del sé perduto.
Se un ascolto della parola è possibile, osserva Ricoeur, sussiste ancora anche in
una filosofia ermeneutica almeno qualcosa del sub-jectus, che precede ogni
interpretazione: “qualcosa che precede la volontà ed il principio di obbligazione,
che, secondo Kant, è la struttura a priori di questa volontà. Questo qualche cosa è
la nostra esistenza stessa, in quanto capace di essere modificata dalla parola”53.
La nostra costituzione essenziale come 'capaci di porci all'ascolto' è un tema
centrale nell'ermeneutica del XX secolo (soprattutto in Gadamer), ma in Ricoeur
in particolare questa scoperta non viene tanto assunta quale costitutiva del nostro
stesso essere, come Heidegger sottolineava: essa è piuttosto una conquista cui si
giunge con grande difficoltà, ed ottenibile solo tramite il passaggio attraverso il
conflitto delle interpretazioni. Solo avendo messo in dubbio la verità stessa dei
simboli, dopo la tensione tra l'accettazione del Sacro come imperativo ed i testi
dei maestri del nichilismo è possibile una via di mediazione, quella del simbolo
come domanda. Questo in quanto il vortice delle più contrastanti interpretazioni,
dopo averne travolto il senso superficiale, avrà infine il positivo effetto di
depurare la cifra simbolica della domanda da ogni preconcettualizzazione che le
risulterebbe posteriore: così che il soggetto si trovi egli stesso nudo di fronte alla
53 Ibid. pag. 468
31
domanda.
Il simbolo appare essere pertanto primo persino rispetto al soggetto, il quale per
ritrovare se stesso non può che fare a meno di tentare di uscire dal conflitto delle
interpretazioni, in cui la ragione entra priva di certezze che possano essere
rinvenute dentro di sé, ma si trova semplicemente come trascinata fuori, dall'una o
dall'altra parte, in cerca di un incerto equilibrio attraverso il pensiero riflessivo.
Allo stesso modo in Kant, per il quale la preoccupazione epistemologica rendeva
necessario un processo della ragione nei confronti della ragione stessa, la
legittimazione dell'uso della ragione entro certi limiti avviene in virtù della sua
stessa struttura a priori - e solo al termine del processo stesso – dopo aver vagliato
e faticosamente (potremmo dire: innaturalmente) messo da parte ogni suo abuso
speculativo. Solo attraverso tale processo di depurazione, infatti, una metafisica
potrà porsi effettivamente come scienza: mettendo alla sbarra la ragione stessa, e
chiedendole di render conto delle sue conclusioni come in un'aula di tribunale.
§ 10 - “L'avventura del Cogito”
Non è un caso che l'analisi epistemologica kantiana prenda le mosse dalla
necessità di assumere le argomentazioni humiane, volendo però preservare la
possibilità di una conoscenza (in campo speculativo, ma anche e soprattutto
morale) valida a priori. E' parte di quella che Ricoeur chiama quasi
affettuosamente “l'avventura del cogito”, la storia delle interpretazioni filosofiche
del sé in cui si ha l'impressione che Kant venga a costituire un po' il punto di
svolta della storia della filosofia intera, filosofia intesa come “giustificazione di
qualcosa”.
32
L'altra via che la filosofia avrebbe potuto intraprendere è stata sommariamente
definita da Hume, ed è in generale la strada di un empirismo radicale e scettico,
ripresa e perseguita oggi dai filosofi analitici: seguendo radicalmente una via che
si apre proprio a partire dalle critiche dei concetti di sostanza e causalità, essi
producono una filosofia che si trova realmente del tutto slegata dal piano
ontologico e metafisico, e che si riduce quindi all'indagine puramente logica di
concetti (che sono dati: non vi è necessità di giustificarne le modalità metafisiche
di datità o di datità coerente).
Con Kant ritorna l'esigenza di giustificazione che prosegue nella filosofia
continentale, passando attraverso l'idealismo, la fenomenologia ed infine
l'ermeneutica, tanto che l'intero suo programma filosofico speculativo appare
come una risposta, attraverso la garanzia della conoscenza ottenuta tramite
l'impianto trascendentale delle forme a priori, all'empirismo humiano. Il filosofo
si riconosce infatti come debitore dell'epistemologia empirica, che tiene in
considerazione tentando al contempo di superarne le conclusioni, che in Hume
portavano all'estremo di una conoscenza solo probabilistica che egli riteneva
inaccettabile.
Kant è stato il primo a separare, come si ricordava, riflessione e conoscenza di sé:
il senso della parola “riflessione” non ha ovviamente nulla a che vedere, in tale
affermazione, con la filosofia riflessiva così come intesa da Ricoeur. Quello che
qui Ricoeur stesso vuole evidenziare è la cesura kantiana rispetto alla possibilità
di autotrasparenza della coscienza per il soggetto (realizzabile, ad esempio,
attraverso l'introspezione). Kant è infatti colui che per primo porta la ragione di
fronte ad un tribunale, come spiegato dalle sue stesse parole, dal giudizio del
quale emergerà chiaramente come la coscienza non possa più essere trattata come
un oggetto di conoscenza.
In Kant, in particolare, non esiste coscienza astratta dall'essere, ma solo un io
penso-funzione in atto posto come esistente.
Tale impianto stabilisce effettivamente una relazione di preminenza dell'essere sul
33
pensiero, in cui il primo sopravanza di gran lunga il secondo, non solo
confinandolo ma limitandolo inevitabilmente. Da Fichte in avanti il criticismo è
stato interpretato in chiave soggettivistica, subordinando (in diverse misure e
modalità) l'intero concetto dell'essere alle categorie del pensiero, ed è stato proprio
il pensiero ermeneutico a riprendere, là dove era stato lasciato, il discorso
kantiano.
Per quanto riguarda la filosofia ermeneutica, anche partendo dall'indagine
interpretativa del linguaggio, si scopre come il “linguaggio stesso chiede di essere
riferito all'esistenza [...] è il desiderio di una ontologia”54 in cui è il livello
semantico stesso a chiedere di essere superato.
Anche dal punto di vista dell'ermeneuta, vi è quindi effettivamente un essere
precedente il linguaggio, e per meglio comprendere il significato della frase citata,
si potrebbe aggiungervi un “ma non può”.
L'essere infatti, trascendendo completamente il linguaggio, non può esservi
limitato: non si deve cadere nell'errore della pura esegesi che “trattando i
significati come un insieme chiuso in sé stesso innalzerebbe il linguaggio ad
assoluto”55 finendo per considerarlo qualcosa di autosussistente, allo stesso modo
in cui per Kant il raziocinare delle idee trascendentali non può che condurre ad
una loro falsificazione. Rendere concepibile il trascendente non può che
deformarlo, perché è un volerlo comprendere entro limiti che non gli sono propri:
allo stesso modo per cui un cubo rappresentato su un foglio bidimensionale non
potrà conservare ortogonalità ed isometria dei suoi spigoli, pena la visibilità di
una sola delle sue facce, la razionalizzazione dei simboli sarà sempre una indebita
semplificazione.
La tensione ontologica insita nel linguaggio è però ineliminabile tanto quanto la
tendenza a raziocinare; e, come sopra affermato, essa costituisce il motore stesso
della conoscenza e della razionalità: “chi si accontenterebbe – domandava
54 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 2955 Ibid.
34
retoricamente Kant nei Prolegomeni - di ciò che si può conoscere con
certezza?”56.
Giunti a questo punto, non possiamo fare a meno di accennare un confronto tra
l'ermeneutica ricoeuriana e quella heideggeriana.
Heidegger nasce dalla fenomenologia (husserliana) nella sua necessità di voler
fornire una teoria fenomenologica non kantiana, priva di quelle forme a priori che
sanno tanto di stantia metafisica. Eliminando le forme a priori, però, o si mantiene
il sistema della conoscenza nell'ambito dell'evidenza (Husserl) o lo si sorpassa in
un sistema ermeneutico. In ogni caso, con Heidegger, e già in qualche modo in
Husserl prima di lui, il sub-jectus non è più il soggetto dell'atto del pensare. La
coscienza fenomenologica viene ad essere il sub-jectus su cui si fonda la
conoscenza, ma essa non è che l'insieme delle stesse rappresentazioni
fenomeniche, e non ha realtà ontologica all'infuori del rapporto tra noesi e noema.
Il soggetto “Io penso” in qualche modo scompare, e questo è evidente proprio
nell'intento stesso di Essere e tempo: il focus dell'indagine deve essere l'Essere
stesso. Tale indagine però non può essere condotta che a partire dall'Esserci
comprendente l'Essere. L'Esserci è ancora in qualche modo il soggetto, come
soggetto interrogantesi, eppure qui non solo non stiamo più parlando di un
soggetto metafisico-cartesiano, ma nemmeno di un soggetto funzionale-kantiano:
esso non è più il sub-jectus, perché tale concetto implica certezza, fondamento,
una base su cui porre i successivi mattoni della conoscenza.
In Heidegger l'Esserci viene dopo l'Essere; il soggetto arretra ulteriormente, non
solo in ordine di importanza ai fini della ricerca filosofica, ma nel senso che
l'Esserci è storicamente determinato, essendo egli stesso parte dell'Essere. E
l'Essere stesso non è qualcosa di autosussistente, bensì è Essere in quanto
compreso ed oggetto di comprensione, in una bipolarità noesi-noema. Il sub-jectus
può essere, a questo punto, al più il rapporto stesso tra questi due poli, che in
56 Cfr. Prolegomeni ad ogni futura metafisica... - pag 231
35
Heidegger assume carattere ermeneutico (mediato), a differenza del rapporto
intenzionale e diretto che manteneva in Husserl.
L'ermeneutica dopo Heidegger diventa così scuola filosofica dell'interpretazione,
intesa come fondamento unico e possibile di una filosofia come giustificazione
(epistemologica ma anche ontologica).
Per sua stessa natura l'Esserci diventa così, oltre che “pastore dell'Essere”, anche
parte attiva e colpevole nel processo del suo progressivo oblio in quanto il
soggetto, nel suo naturale porsi di fronte ad un oggetto, si fa soggetto reificatore
dell'Essere. In questo senso l'intera storia della metafisica risulta, come è noto, una
storia dell'oblio dell'Essere nell'ente che ha cancellato il rapporto originario,
presocratico, tra Essere e pensiero, e con esso l’immediatezza dell'Esserci nel suo
rapportarsi con l'Essere, che ha il suo esito ultimo nella incapacità dell'Esserci di
condurre una esistenza autentica.
A tale proposito, la critica fondamentale condotta da Heidegger negli Holzwege al
soggetto cartesiano è proprio, come sottolinea Ricoeur, “non tanto una critica del
cogito quanto piuttosto […] della metafisica ad esso soggiacente”57.
E' infatti lo stesso impianto cartesiano ad instaurare l'inautentica metafisica del
cogito come soggetto, in virtù della quale “l'uomo diviene il primo reale
subjectum”58, inteso come fondamento. Quello di Cartesio può a buon diritto
definirsi un umanesimo, intendendo con questa parola “quella dottrina che valuta
l'ente nel suo insieme in vista dell'uomo”59, in cui “abbiamo a un tempo la
posizione del soggetto e la posizione della rappresentazione del mondo come
quadro, immagine [Bild, nella terminologia heideggeriana]”60.
La condizione dell'uomo che si pone come osservatore distaccato degli enti nella
loro semplice presenza, del mondo come Vorstellung (rappresentazione), è la
57 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 24058 Ibid. - pag. 24459 Ibid.60 Ibid.
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possibilità stessa dell'esserci di smarrire il suo autentico esistere come in-
situazione61 che si attua nella storia della metafisica. Metafisica che non solo ha
prodotto l'oblio dell'Essere autentico, ma addirittura l'oblio della stessa domanda
che è il motore – tanto in Heidegger quanto in Ricoeur – della ricerca di senso.
§ 11 - Il sé nel conflitto delle interpretazioni
A questo punto si torna a Ricoeur: riprendendo il discorso kantiano del limite e
della coscienza che non può conoscere se stessa se non come funzione
trascendentale, egli lo ha dapprima cristallizzato attraverso l'occhio psicanalitico
(per il quale il soggetto è la fonte prima dell'autoinganno), quindi ha tentato di
indicare la via per una possibile riappropriazione del sé.
Tale percorso che non potrà che addentrasi per direzioni molteplici, tendenti tutte
alla stessa espropriazione del sé verso l'altro fino al culmine costituito dalla
fenomenologia della religione: quasi che solo nello sforzo di comprensione
dell'essere che lo precede il soggetto possa sperare di riconciliarsi con se stesso.
In che modo l'ermeneutica di Ricoeur si distingue da quella di Heidegger? Non è
differenza assai rilevante, per quanto riguarda la questione del soggetto che viene
qui esaminata, il fatto che la ricerca condotta sul piano ontologico sia per lui un
punto d'arrivo e non di partenza. Sembra piuttosto di cogliere in Ricoeur una
notevole attenzione a spostarsi ancor più fuori dal soggetto cartesianamente
inteso. In Ricoeur pare sussistere solamente la bipolarità e il rapporto, non più tra
Esserci ed Essere, ma tra interpretazioni o metodi di interpretazione del rapporto
tra l'uomo ed il mondo.
L'analisi heideggeriana, così come ogni scuola interpretativa, è in questo modo
considerata da Ricoeur assolutamente legittima, ma dal proprio punto di vista, che
61 Cfr. Martin Heidegger, Sein und zeit, 1927, Tübingen; tr. it. Essere e tempo a cura di Pietro Chiodi – Franco Volpi, 2005, Longanesi, Milano - pag 61
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è sempre parziale. Di qui la necessità di sforzarsi di abbracciare una mediazione
tra i differenti punti di vista, una “fusione di orizzonti” che si sposta però al livello
di una meta-interpretazione, laddove quella di Heidegger e di Gadamer era
piuttosto analisi delle modalità di interpretazione.
In Essere e tempo l'Esserci occupa dunque un posto di assoluta preminenza
nell'ordine del senso (in quanto “per questo ente, nel suo essere, ne va di questo
Essere stesso”62) sotto un duplice aspetto: in primis, è sorgente ultima del
significato che si esprime nel tempo attraverso il linguaggio; d'altra parte esso è
colui che, ponendosi come soggetto, oblia l'essere nell'ente ed il suo esserci
autentico (come essere-in-situazione ed essere-per-la-morte) nell'anonimo mondo
del “si”.
Così, in Heidegger, sebbene “la domanda del chi” dell'esserci “resti e debba
restare domanda”63 una risposta poteva almeno esser trovata per quanto concerne
la sua possibilità di esistenza autentica. La libertà dell'essere per la morte è reale e
possibile modo di esistenza dell'esserci il quale ha per sua stessa essenza la
possibilità di esistere autenticamente o meno64; nella stessa misura in cui dopo la
Kehre la cifra dell'esistenza autentica è l'abbandono alla verità dell'Essere
secondo il verso di Hölderlin: “Poeticamente l'uomo abita questo mondo”.
Primario è invece, per Ricoeur, il problema del recupero del sé, del quale può
essere messa in dubbio la stessa identità: assumendo che dopo Kant e soprattutto
dopo Freud non è più possibile rifondare il soggetto, si può comunque ancora,
attraverso una ontologia “militante e spezzata”, recuperare parzialmente il senso
del sé non tanto come polo interpretativo, ma come centro, fulcro degli assi che si
possono idealmente tracciare tra ermeneutiche di simboli che si trovano ai poli
opposti delle possibilità dell'interpretazione.
62 Essere e tempo - pag. 2463 Il conflitto delle interpretazioni – pag. 24764 Cfr. Essere e tempo – pag. 61
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Per questo motivo in Ricoeur non è posto il problema dell'autenticità: dal conflitto
non può emergere una interpretazione la cui autorità sia in grado di affermarsi in
modo che un'altra non ne metta in discussione i risultati.
La sola “modalità di esistenza autentica”, volendo impropriamente adattare le due
differenti terminologie, è lo stesso prender parte al conflitto, percorrendo linee
interpretative che seguono direzioni spesso discordanti65: il conflitto stesso non
può che avere come centro gravitazionale il sé, nonostante ciò, la sua posizione è
ulteriormente arretrata rispetto a quella che occupava in Heidegger.
In Ricoeur lo stesso soggetto razionale, che pensa ed indaga, indaga innanzitutto
su se stesso quale primo dei problemi, e per farlo deve uscire dalla sua situazione
di falsa coscienza autoponentesi. Per ritrovare il sé autentico – è questo il fulcro,
l'aspetto più importante del pensiero ricoeuriano, come più volte sottolineato – la
via è l'indagine metainterpretativa, rivolta in particolare ai simboli del sacro. Essi
costituiscono proprio, come si è visto, l'apice della espropriazione del senso del sé
nell'altro, fondamentale in quanto il concetto stesso del sé va sottoposto ad una
sua demitologizzazione che permetta di svelarne il senso più autentico.
Il sacro che si manifesta dietro i simboli del mito, del rito, del bene e del male è
quello in ultima analisi più importante per lo stesso recupero del sé, proprio in
quanto costituisce l'essenza più profonda del simbolo. Secondo Ricoeur, che in
questa posizione concorda integralmente con i fenomenologi della religione del
suo tempo (van der Leeuw, Mircea Eliade), il simbolo è reale manifestazione
dell'assolutamente altro, chiave per comprendere il sé, che viene a trovarsi così
nella posizione di soggetto comprendente ma soprattutto di soggetto compreso; è
piuttosto esso stesso, infatti, a trovarsi nella situazione di esser parte di diverse
modalità di interpretazione, le quali costitutivamente includono il sé ricercato è
l'Altro – con cui quindi occorre confrontarsi.
65 Interessante è il richiamo stesso agli Holzwege che aveva idealmente percorso Heidegger. Il titolo dell'opera significa esattamente “sentieri erranti nella selva” ed è il nome di quei sentieri tracciati dai cammini dei boscaioli che raccolgono legname nella foresta nera. Quindi, per la loro stessa funzione, tali sentieri non conducono da nessuna parte: essi si limitano a percorrere itinerari spesso circolari, perdendosi tra gli alberi.
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Bisogna tenere a mente la natura fondamentale del simbolo come domanda, e
come domanda fondamentale, come già la si è sottolineata. In Heidegger stesso “il
problema dell'essere sopraggiunge come domanda e […] quanto è stato
dimenticato non è soltanto l'essere, ma la domanda stessa sull'essere”66: allo
stesso modo, sebbene con differente intento, è necessario riscoprire la nostra
natura fondamentale di essere in grado di porci all'ascolto della domanda che
viene dall'altro da noi.
All'altro ci si apre attraverso l'ascolto della domanda e l'altro è, appunto, conflitto:
conflitto degli stessi miti tra loro e conflitto delle interpretazioni, ciascuna delle
quali non ne coglie che un ridotto frammento di verità – “ogni mito è iconoclasta
in rapporto ad un altro, […] bisogna quindi partecipare a questa lotta”67.
§ 12 - Conclusioni
Abbiamo dunque constatato, sotto molti aspetti, notevole vicinanza
nell'impostazione di due autori tanto distanti temporalmente e culturalmente come
Kant e Ricoeur. Nessuno dei due è stato un “rivoluzionario” della filosofia,
piuttosto hanno entrambi saputo tenere conto delle aporie delle scuole di pensiero
di orientamento scettico che li hanno preceduti, accettandole e tentando una nuova
possibile fondazione per la ricerca del senso.
In entrambi il sub-jectus si trova in una situazione epistemologicamente limitata,
in Ricoeur addirittura parcellizzata, ed in entrambi questo soggetto è mosso alla
conoscenza proprio da ciò che non appartiene alle possibilità della conoscenza
stessa, ciò che sta oltre il limite. In entrambi, insomma, la conoscenza ha natura
66 Il conflitto delle interpretazioni- pag. 24167 Ibid., pag. 309
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teleologica e il sé è costitutivamente da sempre intento a tentare di gettare uno
sguardo verso l'assolutamente altro.
La domanda è ermeneuticamente ciò che è in grado di aprire il sé verso l'altro,
domanda rivolta da ciò che, come il problema dell'origine del male, non è
razionalmente concepibile.
Il criticismo ha messo alla porta ogni ragionamento categoriale basato su dati
extrasensibili, lasciandosi alle spalle quelli che sopra definivamo “vuoti” di
conoscenza, che positivismi, neokantismi ed idealismi hanno inutilmente tentato
di sorpassare. La diffusa concezione della cosa in sé come semplice concetto-
limite è stata dettata dalla incapacità di comprenderne la portata, tendendo ad una
soggettivizzazione indebita del kantismo laddove esso costruisce piuttosto una
teoria trascendentale del sé entro i suoi limiti.
L'attenzione per ciò che si trova fuori da siffatti limiti è stata quindi ripresa
dall'ermeneutica nella stessa misura in cui, per il kantismo, non ha tanta
importanza la possibilità (non data) di conoscenza della cosa in sé, quanto
piuttosto la necessità della relazione stessa. Il sé è sempre un essere in relazione,
un sé messo in questione dalla domanda, il cui potere di espropriazione viene ad
imporsi come fondamentale nella filosofia di Ricoeur per il recupero della
dimensione autentica del soggetto come sede stessa del conflitto delle
interpretazioni, fondato ontologicamente sull'incertezza di una ragione al limite.
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