LA NASCITA DELL’INQUISIZIONE E IL DIRITTO...

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LA NASCITA DELL’INQUISIZIONE E IL DIRITTO INQUISITORIALE Alle origini delle codificazioni in materia di procedura criminale del XVI secolo Lezione tenuta il 17/04/2013 per il corso di “Storia delle codificazioni moderne” del prof. P. Alvazzi del Frate di Giuliano Serges PARTE I – La nascita dell’inquisizione 1. L’avvento del diritto comune come premessa necessaria La Storia è composta di storie. La storia della quale vorrei parlare oggi è quella della nascita dell’inquisizione e del diritto inquisitoriale. Si tratta di una storia, invero, che è molto importante nel quadro della Storia delle codificazioni moderne, poiché è da questa storia che scaturirà, poi, il fenomeno che io chiamo delle codificazioni in materia di procedura criminale, cioè delle legislazioni statali che, a partire grossomodo dal XVI secolo, hanno ricondotto la procedura penale alla competenza esclusiva dello Stato: un’altra storia alla quale, però, oggi farò solo un accenno. La storia della nascita dell’inquisizione e del diritto inquisitoriale è una storia che, normalmente, viene raccontata solo in parte nei manuali di storia del diritto italiano. Io, nel mio piccolo, cercherò di evidenziare gli elementi che normalmente non vengono messi in luce nelle trattazioni manualistiche, pur senza omettere, naturalmente, le nozioni di base della materia. La storia di cui vi parlo comincia nel XII sec., alla fine del c.d. alto medio-evo ed all’inizio di un’epoca conosciuta sotto il nome di età del diritto comune. Come noto, nell’alto medio-evo il diritto romano aveva conosciuto un periodo di crisi, venendo relegato nell’oblio, mentre si erano invece affermati dei sistemi basati sulla consuetudine. Parlo di “sistemi”, al plurale, e non di “sistema”, poiché si tratta di un complesso di ordinamenti molto diversi tra loro, ciascuno con una propria origine: gli ordinamenti locali, quelli signorili, quelli feudali, quelli cittadini e quelli corporativi. Antonio Padoa Schioppa, uno dei più importanti storici del diritto italiano, non a caso parla dell’alto medioevo come della “età delle consuetudini(Storia del diritto in Europa, p. 61). Ogni individuo era, così, assoggettato a più ordinamenti e, di conseguenza, a più giurisdizioni. Uno stesso individuo, per esempio, poteva essere giudicato sia in base alle consuetudini locali del luogo in cui viveva, sia in base alle consuetudini feudali del feudo al quale apparteneva, sia in base alle regole della sua corporazione, etc. Ciò comportò una situazione di incertezza del diritto sempre più insostenibile, non solo perché ogni individuo non sapeva a quale diritto obbedire, ed a quale giurisdizione rivolgersi; ma anche, e soprattutto, perché alcuni fenomeni, quali l’infittirsi di rapporti giuridici tra individui di origine o stirpe diversa, lo sviluppo demografico e la rinascita delle Città «esigeva contenuti e metodi diversi per la gestione dei rapporti pubblici e privati» (Padoa Schioppa, cit. p. 77). Vero è che anche oggi, a ben vedere, ogni individuo è sottoposto a più ordinamenti. Un cittadino italiano, ad esempio, deve sottostare all’ordinamento regionale, a quello statuale, a quello della Unione Europea e a quello internazionale. Ma questa situazione non ingenera incertezza, in quanto sappiamo che, tra i varî ordinamenti, ve n’è uno che è più, per così dire, centrale degli altri: quello statuale. Così una norma del diritto internazionale, o del diritto dell’Unione Europa, sarà vigente, per il cittadino italiano, solo in quanto, e nella misura in cui, l’ordinamento italiano la riconoscerà come tale. Ogni ordinamento, poi, ha una sua competenza: quello internazionale regola i rapporti tra Stati, o tra cittadini di Stati diversi; quello regionale è applicabile solamente nell’ambito territoriale della Regione che l’ha prodotto, e solo nelle materie che la Costituzione ha riconosciuto come di sua competenza, etc. Infine, il cittadino che voglia ottenere giustizia, saprà bene (almeno in teoria) a quale tribunale rivolgersi.

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LA NASCITA DELL’INQUISIZIONE E IL DIRITTO INQUISITORIALE Alle origini delle codificazioni in materia di procedura criminale del XVI secolo

Lezione tenuta il 17/04/2013 per il corso di “Storia delle codificazioni moderne” del prof. P.

Alvazzi del Frate

di Giuliano Serges

PARTE I – La nascita dell’inquisizione

1. L’avvento del diritto comune come premessa necessaria La Storia è composta di storie. La storia della quale vorrei parlare oggi è quella della nascita

dell’inquisizione e del diritto inquisitoriale. Si tratta di una storia, invero, che è molto importante nel quadro della Storia delle codificazioni moderne, poiché è da questa storia che scaturirà, poi, il fenomeno che io chiamo delle codificazioni in materia di procedura criminale, cioè delle legislazioni statali che, a partire grossomodo dal XVI secolo, hanno ricondotto la procedura penale alla competenza esclusiva dello Stato: un’altra storia alla quale, però, oggi farò solo un accenno.

La storia della nascita dell’inquisizione e del diritto inquisitoriale è una storia che, normalmente, viene raccontata solo in parte nei manuali di storia del diritto italiano. Io, nel mio piccolo, cercherò di evidenziare gli elementi che normalmente non vengono messi in luce nelle trattazioni manualistiche, pur senza omettere, naturalmente, le nozioni di base della materia.

La storia di cui vi parlo comincia nel XII sec., alla fine del c.d. alto medio-evo ed all’inizio di un’epoca conosciuta sotto il nome di età del diritto comune.

Come noto, nell’alto medio-evo il diritto romano aveva conosciuto un periodo di crisi, venendo relegato nell’oblio, mentre si erano invece affermati dei sistemi basati sulla consuetudine. Parlo di “sistemi”, al plurale, e non di “sistema”, poiché si tratta di un complesso di ordinamenti molto diversi tra loro, ciascuno con una propria origine: gli ordinamenti locali, quelli signorili, quelli feudali, quelli cittadini e quelli corporativi. Antonio Padoa Schioppa, uno dei più importanti storici del diritto italiano, non a caso parla dell’alto medioevo come della “età delle consuetudini” (Storia del diritto in Europa, p. 61).

Ogni individuo era, così, assoggettato a più ordinamenti e, di conseguenza, a più giurisdizioni. Uno stesso individuo, per esempio, poteva essere giudicato sia in base alle consuetudini locali del luogo in cui viveva, sia in base alle consuetudini feudali del feudo al quale apparteneva, sia in base alle regole della sua corporazione, etc. Ciò comportò una situazione di incertezza del diritto sempre più insostenibile, non solo perché ogni individuo non sapeva a quale diritto obbedire, ed a quale giurisdizione rivolgersi; ma anche, e soprattutto, perché alcuni fenomeni, quali l’infittirsi di rapporti giuridici tra individui di origine o stirpe diversa, lo sviluppo demografico e la rinascita delle Città «esigeva contenuti e metodi diversi per la gestione dei rapporti pubblici e privati» (Padoa Schioppa, cit. p. 77).

Vero è che anche oggi, a ben vedere, ogni individuo è sottoposto a più ordinamenti. Un cittadino italiano, ad esempio, deve sottostare all’ordinamento regionale, a quello statuale, a quello della Unione Europea e a quello internazionale. Ma questa situazione non ingenera incertezza, in quanto sappiamo che, tra i varî ordinamenti, ve n’è uno che è più, per così dire, centrale degli altri: quello statuale. Così una norma del diritto internazionale, o del diritto dell’Unione Europa, sarà vigente, per il cittadino italiano, solo in quanto, e nella misura in cui, l’ordinamento italiano la riconoscerà come tale. Ogni ordinamento, poi, ha una sua competenza: quello internazionale regola i rapporti tra Stati, o tra cittadini di Stati diversi; quello regionale è applicabile solamente nell’ambito territoriale della Regione che l’ha prodotto, e solo nelle materie che la Costituzione ha riconosciuto come di sua competenza, etc. Infine, il cittadino che voglia ottenere giustizia, saprà bene (almeno in teoria) a quale tribunale rivolgersi.

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Nel XII secolo non era così. L’incertezza era totale, e sempre più insostenibile. Neppure il vecchio criterio della “personalità della legge” (per il quale ognuno viene valutato in base alla legge propria della sua etnia), già caduto in disuso nel XI secolo, poteva servire allo scopo: già inadatto nella complessità degli ordinamenti dell’inizio dell’alto medio-evo, era ancora più inadatto alla accresciuta complessità degli ordinamenti che caratterizzava la fine dell’alto medio-evo. Idem per quanto riguarda la pratica della “professione di legge” (per la quale ognuno dichiarava, nei negozî, la propria legge di appartenenza), che pure era nata per ovviare alla crisi della personalità della legge. Serviva, insomma, uno scatto evolutivo in campo giuridico.

E cosa fa l’essere umano, quando vuole risolvere un problema? Si mette a studiare, cercando una soluzione. Fu così che nacque, prima a Bologna e poi in altri luoghi, l’Università, allo scopo di studiare il fenomeno giuridico e ricercare un modello che potesse garantire la certezza del diritto. In particolare, quello che si cercò fu un diritto “universale”, un diritto, insomma, nel quale tutti potessero riconoscersi e che a tutti potesse essere applicato. E, nella ricerca di un diritto universale, fu naturale rivolgere l’attenzione ai soli, due, grandi diritti universali che la Storia aveva conosciuto fino a quel momento: il diritto romano ed il diritto canonico. Il primo universale perché espressione dell’Impero, quindi dei rapporti temporali, il secondo perché espressione della Chiesa, quindi dei rapporti spirituali. Questi due diritti furono, dunque, riscoperti, ristudiati e rielaborati, al fine di ottenere un diritto universale e superiore a quello dei tanti diritti particolari e speciali. Si parla, così, di “sistema di diritto comune”, secondo il quale, come spiega bene il prof. Caravale, un altro dei più importanti storici del diritto italiano:

«all’unità dell’Impero corrisponderebbe un ordinamento che si articolerebbe nel diritto civile e in

quello canonico, il primo competente per gli aspetti temporali della vita, il secondo per gli spirituali, tra loro inscindibilemente legati dato che strettamente intrecciati sono i due aspetti della vita umana. Il diritto civile sarebbe costituito dall’opera giustinianea interpretata dalla dottrina giuridica inaugurata da Irnerio e proseguita fino al secolo XIX, quello canonico dalle compilazioni iniziate con la raccolta di Graziano e dall’esegesi delle stesse elaborata dai giuristi sin dal secolo XII. Diritti tra loro chiaramente distinti, ma al contempo intimamente legati, tanto da essere designati con l’espressione utrumque ius — l’uno e l’altro diritto — che ne esprime l’unità nella differenza. [. . . ] La scienza giuridica presentava il diritto giustinianeo come diritto vigente, e quindi immediatamente cogente per tutti i soggetti liberi; tale diritto si affiancava alla consuetudini delle singole regioni, ai numerosi ordinamenti che guidavano le comunità» (M. CARAVALE, Ordinamenti giuridici, pp. 304 ss.). In realtà questa impostazione, invero tradizionale, è stata criticata proprio del prof. Caravale, che

nega si possa parlare di un vero e proprio “sistema”. Ma questa è un’altra storia, della quale oggi non parleremo.

2. L’esigenza di rendere cogente il diritto comune e la nascita del processo

romano-canonico Quello che a noi interessa, invece, è vedere in che modo si cercò, all’epoca, di rendere vigente

per tutti, cioè concretamente universale e comune, un diritto nato principalmente in ambito accademico.

Non bastava certo riaffermare, a parole, la superiorità del diritto comune in quanto diritto scritto e raffinato: ottima argomentazione per un giurista, ma di poca utilità nei confronti del quisque de populo. Se si vuole che delle regole vengano osservate da una comunità, è necessario che le Autorità pubbliche le facciano rispettare, e che vengano represse le violazioni di quelle regole. E perché vengano represse le violazioni, è necessario un tribunale che le reprima in modo efficace. Fu così che molti degli sforzi dei civilisti e dei canonisti intenti a studiare il diritto romano e quello canonico furono dedicati alla elaborazione di una procedura criminale (o, come diremmo oggi, “penale”).

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Dalla commistione tra i due diritti “universali”, quello romano e quello canonico — per come elaborati dai glossatori e dai canonisti medioevali — si generò un nuovo tipo di processo; un processo modellato a partire da quello giustinianeo tramandato dalle fonti, con l’ambizione di proporre uno schema generale valido, in via principale, come processo dell’Impero e della Chiesa e, in via sussidiaria, per tutte le corti di giustizia esistenti all’epoca, fossero esse popolari, signorili, cittadine o territoriali. Tale processo, conosciuto con il nome di “processo romano–canonico”, si trasformò, progressivamente ma in maniera incisiva, nel “modello” di giustizia preponderante in tutti i territorî dove si era “insinuato”, anche solo come ratio scripta (è il caso della Francia), il sistema di diritto comune.

Il processo romano-canonico era dotato di tre tipi di procedure:

1) quella per accusa (o accusatoria”); 2) quella per denuncia; 3) quella per inquisizione (o “inquisitoriale”).

La prima, che sorse come procedura “ordinaria”, prevedeva la presenza di due controparti, l’una

la quale accusava l’altra di averle leso un diritto: il giudice terzo avrebbe deciso sulla controversia. La procedura per denuncia, che nello svolgimento era del tutto assimilabile a quella inquisitoria, prevedeva che un individuo disinteressato denunciasse alle autorità il comportamento illegale di un terzo: le autorità avrebbero provveduto ad indagare sul denunciato e, eventualmente, a processarlo ed a condannarlo. Quanto alla procedura inquisitoriale, questa nacque come procedura straordinaria ma, ben presto, a traverso una graduale evoluzione iniziata nel XIII secolo e conclusasi solo nel XVI, si affermò come procedura ordinaria.

3. La procedura inquisitoriale

Per comprendere in cosa consistesse la procedura inquisitoriale, dobbiamo prima cercare di

comprendere le ragioni del suo successo. Abbiamo detto poco fa che se si vuole che delle regole vengano osservate da una comunità, è necessario che vengano represse le violazioni di quelle regole, e che vengano represse in modo efficace. E quale modo è più efficace, se non quello di “andarsi a cercare” i criminali? In altri termini: se una Autorità pubblica vuole che il diritto da lei imposto venga rispettato da tutti, non si limiterà solo a raccogliere la denuncia di terzi, ma si organizzerà al fine di cercare e scovare direttamente i criminali. “Inquisire” viene proprio da “inquīro” (composto da “in + quaero”), che significa, in senso atecnico, “cercare, cercare di scoprire” (tramutatosi nella parola italiana, oggi assai desueta, “inquerire”) e, in senso più stretto, “fare una inchiesta, fare indagini” su qualcuno (inquirere in aliquem) o su qualcosa (inquirere de aliqua re), ovverosia, per l’appunto, “inquisire”. La caratteristica precipua, caratterizzante tutti i modelli di tipo inquisitoriale storicamente verificatisi od astrattamente pensati, consiste dunque nella “promozione ex officio di una inchiesta”, alla ricerca del crimine o dell’eresia da sradicare, da parte di pubblici funzionari che, genericamente, possono chiamarsi “inquisitori”.

Questo sistema era tanto più utile, se si pensa che uno dei due diritti universali, quello canonico, pretendeva di regolare la vita spirituale degli individui. Poniamo il caso che il diritto canonico vieti agli individui di compiere atti sessuali prima del matrimonio. Ebbene, se due soggetti trasgrediscono questa regola, sarà praticamente impossibile sanzionarne la violazione, se si aspetta la denuncia di qualcuno: a meno che i due non compiano i loro atti in luogo pubblico, gli unici a poter denunciare la cosa saranno gli stessi che sarebbero oggetto della denuncia. Se invece un inquisitore comincia a fare pedinamenti ed incursioni a sorpresa nelle abitazioni dei due improvvidi, prima o poi finirà per coglierli sul fatto. E veniamo così alla seconda delle caratteristiche dell’inquisizione: la segretezza delle indagini e delle procedure.

Perché questo sistema funzioni, poi, è necessario che nessun elemento venga trascurato, alcun sospetto tralasciato. Si dovranno perseguire omnes quomodolibet suspectos, cioè tutti quelli che

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sono “in qualche modo sospetti”. In altri termini, è necessario che venga considerato come indizio idoneo ad imputare un individuo un qualunque sospetto, per quanto lieve, che gravi sull’individuo. Così, tornando all’esempio di prima, per inquisire qualcuno per fornicazione non si dovrà aspettare una dichiarazione ufficiale dei due peccatori che dichiarino di avere una relazione, ma neppure che si “sparga la voce” che i due si frequentino. Basterà un’occhiatina fugace di lui a lei, intercettata dall’inquisitore, per mettere in moto la macchina della giustizia.

Una volta colti i due malcapitati, poi, essi verranno tradotti in un processo. E qui emerge chiaramente la terza caratteristica distintiva del processo inquisitorio: la presenza di un iudex atque accusator, cioè di un giudice che sia contemporaneamente giudice e accusatore. Si vede qui la differenza più evidente con il processo accusatorio, dove si ha una parte che accusa un’altra e un giudice terzo che decide sulla questione sulla base del proprio libero convincimento. Qui, invece, è lo stesso giudice che fa indagini, sospetta, indaga, incolpa, e poi alla fine giudica. Ed è verosimile che se accusatore e giudice coincidono, l’inquisito non abbia molte chances di uscire assolto dal processo. Italo Mereu, altro grande storico, parla, in tal senso, di “libero convincimentoo dell’inquisitore”, come contrapposto al “libero convincimento del giudice” (Storia dell’Intolleranza in Europa, p. 134). Si tratta, detto in altri termini, dell’arbitrium che, come spiega bene Massimo Meccarelli, (Arbitrium. Un aspetto sistematico negli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998), è un’altra caratteristica tipica del processo inquisitorio. L’arbitrium non è, malgrado l’assonanza, sinomimo di potere arbitrario (benché, nei fatti, rischi di diventarlo), bensì identifica il potere discrezionale del giudice-inquisitore, che lo stesso sistema inquisitoriale esige abbia le “mani libere” di inquisire, imputare, condannare, etc.

Non si tratta, invece, come abbiamo detto, di potere arbitrario. Non dobbiamo dimenticare che il processo romano-canonico viene modellato sulla base delle fonti romane e canoniche, cioè sulla base di due diritti scritti, evoluti e raffinatissimi, che certo non si limitavano a lasciare una “delega in bianco” all’inquisitore, né avrebbero tollerato che tutto venisse lasciato al caso o agli umori degli inquisitori. In realtà il processo romano-canonico era connotato da una procedura rigorosa, al quale l’inquisitore doveva attenersi. Si parla, giustamente, di un rigido formalismo come caratteristica tipica del modello inquisitoriale. Così, ad esempio, se è vero che, come abbiamo detto, un sospetto bastava a costituire l’indizio per inquisire qualcuno, è pur vero che questo sospetto doveva esserci, e un inquisitore non poteva perseguire un soggetto solo perché gli stava antipatico. Tutto il processo, poi, doveva essere messo per iscritto, ciò che costituiva, di primo acchito, una forma di stretto controllo dell’operato dell’inquisitore. Non si poteva, infine, giungere a condanna se non in base a una serie di prove che fossero legalmente riconosciute come tali.

Si parlava, a tal riguardo, di “sistema delle prove legali”. Secondo tale sistema, esistevano due tipi di prove: le prove plenae e le prove semi-plenae. Solo le prime consentivano, da sole, di giungere a condanna, mentre le seconde non erano sufficienti. Solo in presenza di più prove semi-plenae si poteva giungere a condanna. La prova plena per eccellenza era la confessione (chiamata anche, perciò, “regina probationum”).

Ora, a guardarlo così, il processo inquisitoriale, sembrava quasi essere garantista. In realtà dietro al rigido formalismo, si nascondevano numerose insidie (tanto che Franco Cordero parla di “finto garantismo”). Vero è, ad esempio che, come abbiamo detto, era necessario un “sospetto” per mettere sotto inchiesta una persona. Ma a decidere quando un fatto poteva essere ritenuto come sospetto, e quindi come indizio, era pur sempre lo stesso inquisitore. E, come nota franco Cordero (a proposito della tortura, ma il discorso vale comunque), «essendo smisurata la gamma degli indizi, impossibile che non ne esista almeno uno; [. . . ] l’inquisitore ne scopre quanti vuole» (La fabbrica della peste, p. 24, n. 15). E ancora, abbiamo detto che serviva una prova plena o più prove semi-plenae per giungere a condanna, e che la regina delle prove era la confessione. Ma notiamo, per altro verso, che se l’inquisitore era davvero convinto della colpevolezza di un imputato, ovvero del fatto che un individuo, benché non colpevole, sapesse delle informazioni utili al processo, non si sarebbe certo arreso al primo tentativo. Ed essendo egli anche il giudice del processo, non si sarebbe fatto tanti scrupoli ad autorizzare ed utilizzare mezzi di convincimento più, per così dire, persuasivi,

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pur di spingere il sospettato a confessare, o il testimone a confessare. Assieme al resto, dunque, viene riscoperta dal diritto romano anche la tortura giudiziaria. Ma, come nota ancora Cordero, anche se la tortura non fosse stata prevista dalle fonti romane e canoniche, essa sarebbe risorta comunque, poiché appartiene alla “fisiologia” della inquisizione:

«la tortura, nella metamorfosi inquisitoria, ricrescerebbe comunque […]. Lo spirito scientifico

duecentesco, coniugato a teologie pessimistiche (il male pullula, l’inferno incombe), suggerisce l’equazione: c’è una persona i cui interni mentali contengono la chiave del caso; colpevole o innocente, l’inquisito sa cose utili al processo; bisogna captargli le memorie» (F. CORDERO, Quando viene profanato il corpo, p. 11). La tortura giudiziaria, dunque, deve essere considerata a tutti gli effetti come una caratteristica

tipica del processo inquisitorio. E dalla tortura arriviamo, infine, alle ultime due caratteristiche fondamentali del modello per inquisizione: la ricerca della veritas e la presunzione di colpevolezza. Oggi noi sappiamo molto bene che, in un processo, non si può ambire a ricostruire la “verità storica”, cioè la “verità dei fatti”, le cose per come veramente sono andate. Il pubblico ministero propone la sua versione dei fatti, la parte civile anche, il giudice terzo e imparziale, sulla base degli elementi che ha, valuterà quale delle due versioni è più attendibile o, nel caso nessuna delle sue lo sia “al di là di ogni ragionevole dubbio”, deciderà in favore del reo, in virtù del principio della “presunzione di innocenza” e dello ”in dubbio pro reo”. Quella che si forma nel processo, dunque, è una “verità processuale”, che non necessariamente coincide con quella storica. Solo il criminale e il soggetto passivo conoscono la verità, e non è neanche detto che ciascuno di questi la conosca per intero. Nel procedimento inquisitorio, invece, non è così. Il giudice e l’accusatore, come abbiamo detto, coincidono. Il che significa, in primo luogo, che, sull’imputato, pende una presunzione di colpevolezza, rispetto alla quale egli dovrà fornire prova contraria (impresa molto difficile se si utilizza la tortura). Ma significa anche che se l’inquisitore-accusatore sarà convinto della propria versione dei fatti, considerandola, da parte sua, come “verità storica”, anche l’inquisitore-giudice, che è esattamente la stessa persona, sarà convinto della stessa cosa. L’inquisizione si trasforma, così, in una meccanismo della veritas, intesa come ricerca della verità storica, della quale il giudice e l’accusatore sono egualmente convinti, e che bisogna solo trovare il modo di far “sgorgare” dall’imputato. Da qui, l’uso necessario della tortura. Citiamo ancora Cordero:

«Ci vuol poco a immaginare cosa avverrebbe se quale premessa della decisione pretendessimo

niente di meno che la verità: un’ossessione del genere conduce alla tortura» (Procedura Penale, VII edizione, cit., pp. 18 e 19)

Non è un caso che Azzone definisse l’inquisizione come «inquisitio veritatis per tormenta», cioè

«la ricerca della verità per mezzo della tortura» (Cfr. P. FIORELLI, La tortura giudiziaria, cit., vol I, pp. 187 e 188).

In conclusione, possiamo così riassumere i caratteri principali del procedimento inquisitorio del processo romano-canonico:

- Promozione ex officio di una inchiesta - Segretezza delle indagini e delle procedure - Inquisitore iudex atque accusator - Libero convincimento dell’inquisitore (arbitrium) - Rigido formalismo - Scrittura del processo - Sistema delle prove legali - Tortura giudiziaria - Presunzione di colpevolezza - Ricerca della veritas

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Potete trovare il sistema inquisitorio e quello accusatorio messi a confronto nel bel libro del Prof.

Alvazzi del Frate (Giustizia e garanzie giurisdizionali, p. 141).

4. Le due “vite” dell’Inquisizione Certo è molto facile per noi, oggi, dire, con gli occhi del giurista contemporaneo, che il processo

inquisitorio è un processo garantista, o che la tortura è una forma di ordalia. Possiamo anche notare, come pure è stato fatto (GIU. SERGES, Garantismo e inquisizione, p .34), che il processo inquisitorio, benché efficace non fosse efficiente. Mettiamo caso che io, inquisitore, voglia porre fine alla brutta abitudine delle scritte sui muri. Metterò sotto inchiesta tutti i ragazzi compresi tra i 6 e i 30 anni, tutti quelli che vengono trovati in possesso di una bomboletta spray, tutti quelli che vanno in giro con pantaloni strappati o abiti non conformisti, poi tutti quelli menzionati nella rubrica del cellulare o tra i contatti dell’email di almeno 10 degli altri inquisiti. Mi faccio persuaso che siano tutti dei writers, li costringo a confessare mares atque montes con la tortura, poi li metto in prigione. È tutto molto efficace. È fuor di dubbio, infatti, che, cogliendo nel mucchio, io sia riuscito a prendere moltissimi “graffitari”, probabilmente persino, all’incirca, il 90% dei writers italiani ed a frenare fortemente il fenomeno delle scritte sui muri. Ma, per altro verso, è innegabile, da un lato, che vi siano ancora molti writers a piede libero, altri che non lo sono ancora ma potrebbero diventarlo, altri che verranno dall’estero etc.; e, dall’altro, che mi ritrovo le carceri piene, di gente peraltro che, nella maggior parte dei casi, è completamente innocente.

L’inquisizione, dunque, è efficace, ma non efficiente. Il garantismo – malgrado oggi qualcuno sembra volerci spingere a pensare il contrario … ma questa è un’altra storia – è efficiente, poiché, come dice bene il Ferrajoli, consente di condannare il maggior numero di certamente o quasi certamente colpevoli, e di assolvere il maggior numero di certamente o quasi certamente innocenti; l’inquisizione, non a caso sovente indicata come modello contrapposto a quello garantista, no.

È facile oggi, insomma, criticare il sistema della giustizia di diritto comune. Ma, come nota opportunamente il prof. Ascheri discorrendo sulla tortura (M. ASCHERI, I diritti del medioevo, p. 241), ai tempi quel sistema, almeno in un primo momento, non fu affatto vissuto come un sistema oppressivo o inefficiente, in raffronto a quello precedente. Anzi, per molti versi l’avvento del diritto comune e del processo romano–canonico fu vissuto dai contemporanei come un “salto di qualità” verso un diritto più autorevole e raffinato, quale era considerato il diritto romano. Un esempio di ciò è costituito proprio dalla maniera nella quale venne inteso l’uso della tortura giudiziaria che, ritrovata dalle fonti romane, fu vista come un istituto più affidabile e “garantista” delle ordalie del processo barbarico, nonché dei duelli della giustizia feudale e del giuramento. Vero è che, come abbiamo detto, alla fine era l’inquisitore che decideva tutto, anche “forzando il gioco”; ma è pur sempre meglio essere condannati sulla base di un sospetto, di una prova e di una pretesa verità, che non perché non si è stati in grado di camminare sui carboni ardenti. Non dobbiamo poi dimenticare che il concetto di garantismo non esisteva all’epoca e, anzi, fu elaborato, progressivamente, proprio come reazione al modello inquisitorio tipico della giustizia dell’età di diritto comune.

Il processo romano-canonico, dunque, fu all’inizio salutato come un processo più “giusto” da parte dei consociati, più “efficace” da parte della Autorità pubblica, più evoluto da parte dei giuristi. Per questo ebbe così tanto successo. Esso fu non solo il processo dell’Impero e della Chiesa, ma anche di tutte le altre Corti di giustizia esistenti all’epoca. E quando cominciarono a circolare le tesi sull’assolutismo dello Stato, le monarchie fecero proprie le procedure dell’inquisizione, servendosene per affermare la propria sovranità e superiorità e reprimere il dissenso nei confronti del Sovrano.

Assistiamo così a due vite dell’inquisizione: una prima in epoca medioevale, una seconda in età moderna.

4.1 L’inquisizione medioevale

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Come abbiamo già detto, nel Medioevo si diffuse in tutta Europa il processo romano–canonico e,

con esso, il processo inquisitorio. Con il tempo, di pari passo al progressivo affermarsi del processo inquisitorio come procedura criminale ordinaria, gli ordinamenti dotarono i proprî tribunali di appositi apparati istituzionali dedicati precipuamente alla attività inquisitoriale. Lo Stato Pontificio, come noto, non fece eccezione e, anzi, fu, sotto il pontificato di Innocenzo III, tra i primi a dotarsi di una Inquisizione organicamente strutturata (la Santa Inquisizione “medioevale”), allo scopo di reprimere l’eresia. Le Inquisizioni secolari (ma non ancora “secolarizzate”, dunque formalmente assoggettate ai poteri universali della Chiesa e dell’Impero) delle monarchie medioevali rappresentavano il “braccio secolare” della Santa Inquisizione, ovverosia, in altri termini, ricevevano i Rei condannati dal Tribunale pontificio per erogare loro la pena di morte, che si riteneva (simulatamente) incompatibile con l’uffizio ecclesiastico. Negli ultimi anni del Medio evo l’Inquisizione cattolica, però, attraversò una fase di forte attenuazione della sua attività.

4.2 L’inquisizione moderna

Con l’avvento del luteranesimo, però, vi fu una proliferazione di nuove Chiese protestanti, le

quali determinarono, una sorta di “rinascita” dell’eresia. È facile comprendere come la “rinascita” dell’eresia comportò — tra le molte conseguenze

introdotte dalla Riforma — il contestuale sorgere dell’esigenza di un rinvigorimento delle attività inquisitorie. Rinvigorimento che fu, peraltro, incentivato dal fatto che già nel 1478 — dunque qualche anno prima della pubblicazione delle tesi luterane — il Re Ferdinando di Aragona, su consiglio del tristemente famoso domenicano Tomas Torquemada, chiese al papa Sisto IV la creazione di una autonoma Inquisizione spagnola allo scopo dichiarato di «eliminare sistematicamente gli “eretici”» (A. PADOA SCHIOPPA, op. cit., p. 231).

Ebbene, non ostante Sisto IV avesse avanzato delle obiezioni sui metodi usati dall’Uffizio spagnolo, furono proprio le procedure inquisitorie spagnole, «dotate di indubbia efficacia antiereticale» (A. PADOA SCHIOPPA, op. cit., p. 232), assieme all’avvento delle grandi eresie cristiane d’età moderna, ad indurre il suo ottavo successore, papa Paolo III, nel 1542, con la celebre bolla Licet ab initio, a ristrutturare il vecchio impianto inquisitorio medioevale, ormai esaurito, dando vita ad un «organismo nuovo» (A. PROSPERI, Inquisitori e inquisizioni, p. 189), l’Inquisizione romana del Santo Uffizio: congregazione che, da allora, «divenne lo strumento principale per la tutela dell’ortodossia cattolica» (A. PADOA SCHIOPPA, op. cit., p. 232).

Per altro verso le teorie sulla Stato assoluto, quelle sulla Ragion di Stato, l’idea di Martin Lutero del cuius regio, eius religio, la Pace di Westfalia con la quale gli Stati europei si riconobbero, ciascuno di essi, sovrani, di tal guisa che l’unità del diritto si spezzò nei vari diritti statali espressione della sovranità e il tendenziale fenomeno dell’assolutismo monarchico provocarono una spinta verso l’accentramento a livello statale della giurisdizione, determinando un successivo svincolamento dai poteri universali dell’Impero e della Chiesa (si parla, a tal riguardo, di secolarizzazione o laicizzazione — che, giova ricordarlo, è cosa ben diversa da ateizzazione — del diritto), ed una positivizzazione a livello legislativo del diritto, in particolar modo di quello criminale processuale, che porterà alle “codificazioni in materia di procedura criminale”, alla quale abbiamo già fatto un accenno prima.

Ma soprattutto, ogni Stato assoluto volle dotarsi di una propria inquisizione. Inoltre, ogni Stato assoluto fece propria la dottrina religiosa – fosse essa cattolica o protestante – di modo che la religione diventasse “religione di Stato” e non più dell’Impero o della Chiesa, alla quale il Sovrano non riconosceva più una autorità superiore. Ciò comportò, da un verso, che anche le inquisizioni statali si trasformarono in strumenti di ricerca dell’eresia; dall’altro, però, che gli Stati moderni di religione cattolica continuarono, in qualche misura, ad essere, non ostante le proprie (tacite) pretese di secolarizzazione, il “braccio secolare” della Inquisizione ecclesiastica. Essendosi gli Stati dotati di una propria ortodossia anche in materia religiosa, infatti, i Sovrani ritennero che il lavorìo degli

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inquisitori cattolici potesse essere sfruttato in funzione ausiliaria a quella dei Tribunali statuali; d’altra parte, lo Stato pontificio non interruppe mai quel rapporto di reciproca collaborazione tra giurisdizione secolare e giurisdizione spirituale (cattolica), non ostante la tendenziale emancipazione degli Stati dal potere universale della Chiesa, sia perché ciò gli consentiva di ostentare, formalmente, l’estraneità della giustizia ecclesiastica alla pena di morte.

PARTE II – IL DIRITTO INQUISITORIALE

1. Le fonti ufficiali della procedura inquisitoriale del processo romano-canonico:

diritto comune, decreti e bolle papali, legislazioni locali e codificazioni in materia di procedura criminale

Abbiamo fin qui, sia pur molto brevemente, rievocato la storia della nascita della inquisizione.

Cercheremo, ora, di entrare nel vivo della questione da un punto di vista giuridico, analizzando le fonti in cui erano contenute le disposizioni relative al procedimento inquisitorio.

Abbiamo detto che il processo romano-canonico viene elaborato a partire dalle fonti romane e canoniche. E sicuramente in queste fonti, cioè nel diritto comune, troviamo il primo “appiglio” a cui rifarci. Ma, con il tempo, sono comparse altre fonti volte a disciplinare il processo e, in particolare, l’inquisizione.

È proprio questa successiva produzione normativa che ha trasformato il procedimento inquisitorio nel procedimento ordinario.

Numerosi decreti e bolle papali, ad esempio, sono intervenute in materia. Tra tutte, possiamo ricordare la notissima bolla licet ab initio, emanata da Paolo III nel 1542 allo scopo di creare la nuova Inquisizione romana del santo Uffizio sulle ceneri di quella medievale.

Leggiamo un pezzo della bolla, quello contenuto nel terzo paragrafo:

«§3. Ac eis contra omnes et singulos a via Domini et fide Catholica aberrantes, seu de eadem fide male sentientes, aut alias quomodolibet de haeresi suspectos illorumque sequaces fautores et defensores, ac eis auxilium consilium vel favorem publice vel occulte, directe vel indirecte, praestantes, cuiuscumque status gradus ordinis conditionis praeeminentiae fuerint, etiam absque ordinariis locorum, etiam in causis in quibus ipsi de iure intervenire habent, inquirendi et per viam inquisitionis vel investigationis seu alias ex officio procedendi ac culpabiles quoscumque seu suspectos praccedentibus indidis, carceribus mancipandi ac contra eos usque ad finalem sententiam inclusive procedendi, et culpabiles repertos poenis iuxta canonicas sanctiones debitis puniendi, ac ultimo supplicio damnatorum bona, prout iuris fuerit, publicandi».

Notiamo, in primo luogo, come non vi sia alcun cenno al procedimento accusatorio: la bolla dice

che i processi devono essere istituiti «et per viam inquisitionis vel investigationis seu alias ex officio procedendi» («per mezzo di investigazioni o anche procedendo ex officio»). Invero, il processo accusatorio continuava ad esserci ed a essere usato, come procedimento straordinario, ma non meritava alcuna menzione nella bolla in esame. Ciò perché esso era considerato obsoleto ed inefficace rispetto alla esigenza di una repressione organica e massiccia. Eliminandolo dalla bolla, il Papa dava così un’indicazione chiara in merito al fatto che il modo di procedere ordinario doveva essere considerato unicamente quello inquisitorio.

Ancora, ritroviamo la “presunzione di colpevolezza” e l’arbitrium in un altro passaggio del testo citato: «Ac eis contra omnes et singulos […] quomodolibet de haeresi suspectos» (bisogna inquisire «contro tutti e i singoli in qualunque modo sospetti di eresia»).

Ma, a ben vedere, la bolla Licet ab initio non dice molto più di quanto non fosse già evincibile da una analisi del procedimento inquisitorio, come quella che abbiamo fatto sopra. Essa rappresenta,

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semmai, il “trionfo” del sistema inquisitorio su quello accusatorio, e “cristallizza” l’inevitabile evoluzione del procedimento inquisitoriale negli anni, senza aggiungere grandi novità.

Oltre alle bolle papali, vi era le legislazione locale. Si trattava di una legislazione piuttosto rada, dal momento che si riteneva comunque sottinteso il ricorso al diritto comune per tutti i casi non regolati. La legislazione locale interveniva, insomma, raramente, laddove riteneva necessario eccepire al diritto comune, ovvero laddove riteneva necessario dare maggior vigore ad una norma del diritto comune “consolidandola” all’interno dell’ordinamento locale.

A partire dal XVI secolo, poi, apparvero quelle che chiamiamo “codificazioni in materia di procedura criminale”, e che interessano particolarmente il nostro corso di Storia delle codificazioni moderne. Non mi dilungherò affatto sul contenuto di queste codificazioni, che potete trovare sufficientemente (e molto pregevolmente) “sviscerate” in un bellissimo articolo di ETTORE DEZZA, («Pour pourvoir au bien de notre justice». Legislazioni statali, processo penale e modulo inquisitorio nell'Europa del XVI secolo, in www.dirittoestoria.it, N. 3 – Maggio 2004 – Memorie). Quello che noto, e che nota pure Dezza, è che quando arrivano queste codificazioni in materia di procedura criminale, «le procedure inquisitorie appaiono già largamente diffuse e sufficientemente collaudate nella pratica dei tribunali europei, ed hanno altresì conseguito – o sono avviate a conseguire in tempi assai brevi – un più che soddisfacente grado di elaborazione tecnica». Le codificazioni in materia di procedura criminale, dunque, intervengono allo scopo di «consolidare» e non già, salvo eccezioni, di «innovare», un diritto ed una pratica che sono già determinate e diffuse. Non aggiungono nulla di nuovo, insomma, ma rispondono soprattutto alla logica assolutistica per la quale l’unica legge riconosciuta era quella dello Stato e, dunque, rappresentano «tra le più significative manifestazioni del nascente Stato assoluto, volto con sempre maggiore energia alla centralizzazione degli apparati e all'affermazione della propria autorità». In altri termini, gli stati “ratificano” il processo criminale per come già era, facendo rientrare la sua disciplina all’interno della legge Statale ed escludendo, così, la sottoposizione dello Stato in materia criminale a diritti diversi, quali erano quelli dell’Impero e della Chiesa.

Eppure, leggendo i testi delle legislazioni statali con le quali è stata operata quella che ho chiamato “codificazione in materia di procedura criminale”, ci accorgiamo che esse descrivono un processo che non coincide del tutto con quello descritto dalle fonti di diritto comune, né da tutte le altre che abbiamo sopra menzionato. Questa diversità non consiste, invero, in una generale deroga alle strutture del processo romano-canonico descritto dalle fonti del diritto comune, quanto piuttosto in un ampliamento di quelle strutture a regole procedurali che originariamente non erano previsto. E, a ben vedere, se ne capisce il motivo: il processo inquisitorio, che nell’originario processo romano-canonico era previsto come ipotesi eccezionale, era invece, come già detto, divenuto il meteodo ordinario di procedere. Ed è ovvio che questa evoluzione richiedesse nuove e più dettagliate regole procedurali, tali da consentire al modulo inquisitorio di reggere il peso del suo nuovo ruolo di procedimento ordinario. Ma se questa evoluzione del procedimento penale non è contenuta nelle fonti ufficiali, dove, come e quando è avvenuta?

2. Il diritto inquisitoriale come diritto “nascosto”

Il fatto è quindi, come poc’anzi detto, che la legislazione ufficiale, la quale, come abbiamo visto

sopra, era molto rada, non arrivava a (e, come vedremo, neppure voleva) coprire tutte le esigenze sorte a seguito della evoluzione del processo romano-canonico. Le fonti di diritto comune, è bene ribadirlo, prevedevano il procedimento accusatorio come principale, e quello inquisitorio come eccezionale. Con il tempo, lo abbiamo detto, i ruoli tra i due modelli si rovesciano. È evidente che questa novità richiederebbe un intervento serio in materia, soprattutto per adattare la procedura inquisitoriale al suo nuovo ruolo di procedura principale. Invece ciò non avviene. Le bolle papali si limitano a favorire questo passaggio, ma non intervengono drasticamente sulla procedura, né dettano una disciplina che abbia ambizioni di completezza. Vengono richiesti il rigore formale, la

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presunzione di colpevolezza, “indizî bastevoli e sufficienti” per erogare la tortura, etc. Ma nessuno si preoccupa di dettare la procedura nel dettaglio.

Ed è allora che assunse enorme rilievo il ruolo della dottrina, che arrivò ad elaborare dei veri e proprî “manuali” per inquisitori.

Per questo il genere manualistico inquisitoriale, a lungo trascurato dalla dottrina (tranne che dagli storici della tortura o dagli studiosi dei fenomeni dell’eresia e della stregoneria) per i motivi che diremo a breve, sta conoscendo oggi una nuova fortuna: sia perché offre la possibilità di ricostruire con soddisfacente chiarezza la procedura inquisitoriale di diritto comune, la quale, è stato notato, costituiva un vero e proprio «diritto inquisitoriale» — apparentato ma distinto ed autonomo rispetto al diritto canonico, che pure aveva fornito il maggior contributo nella elaborazione delle procedure inquisitoriali del processo romano–canonico — dotato di «una propria “tecnica”, una tradizione autonoma, che si tramanda sempre nella prassi dei tribunali dell’Inquisizione ed è l’unico diritto che effettivamente sia applicato» (I. MEREU, op. cit., p. 25); sia perché, come è stato osservato, contribuisce in misura notevole alla ricostruzione della «silhouette» dell’inquisitore, che vediamo (ossimoricamente) stretto, da un lato, in un «apparato di attrezzi di tortura» e, dall’altro, tra «libri di teologia, di diritto, di devozione» (A. PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, edito dapprima come saggio introduttivo al catalogodella Mostra della Biblioteca Casanatense, Inquisizione e Indice nei secoli XVI–XVIII, Controversie teologiche dalle raccolte casanatensi, Vigevano, 1998).

In altri termini, i manuali inquisitoriali, nel tentativo di «individuare e descrivere le specifiche regole di funzionamento della giurisizione inquisitoriale», davano vita ad una autonoma «regolamentazione» che «non era contenuta [...] in una raccolta ufficiale e completa di disposizioni normative, sicché la trattazione ragionata e organica della procedura antiereticale (peraltro assai estesa e articolata), poteva essere desunta solo dai testi che la dottrina avesse specificamente concepito per la formazione degli inquisitori». (A. ERRERA, p. IX, Premessa).

Così, paradossalmente, se vogliamo conoscere la procedura criminale descritta dalle codificazioni in materia di procedura criminale, è in primo luogo al “diritto inquisitoriale” che dobbiamo volgere lo sguardo, mentre le codificazioni assumeranno peculiare rilievo non tanto per il contenuto, quanto per l’intento assolutistico che ha portato alla loro creazione.

Eppure il diritto inquisitoriale è stato per molto tempo “nascosto”, trascurato dalla dottrina di ieri, ignorato dalla legislazione ufficiale dell’epoca. Molti, addirittura, negavano la sua esistenza. Perché ciò avveniva? Ce lo spiega molto bene Mereu:

«non si comprende perché tale individuazione (o specializzazione) [cioè l’esistenza del diritto

inquisitoriale] non è stata accettata dai “canonisti” ufficiali del nostro secolo. A Léon Garzend, che aveva proposto una distinzione netta fra eresia inquisitoriale ed eresia canonica (nella sua opera L. GARZEND, L’inquisition et l’hérésie: distinction de l’hérésie théologique et de l’hérésie inquisitorial, à propos de l’affaire Galilée, Paris, 1912) è stato risposto molto sbrigativamente (E. VANCARD, voce Galilèe, in A. VACANT, E. MANGENOT e È. AMANN [a cura di], Dictionnaire de théologie catholique, contenant l’exposé des doctrines de la théologie catholique, leurs preuves et leur histoire, Paris,1928–1930, vol. V, col. 1094) che la teoria non si giustifica storicamente. Forse è vero proprio il contrario. Solo che ammettere ciò vuol dire riconoscere l’esistenza di una pratica poliziesca molto “dura” che è meglio mascherare sotto l’orpello di finti istituti canonistici» (I. MEREU, op. cit., p. 41, n. 6).

In realtà, dunque, la negazione dell’esistenza di un diritto inquisitoriale sembra collocarsi

nell’ambito di una polemica ben più ampia, vale a dire quella sulla “crudeltà” della Inquisizione ecclesiastica negli anni della Inquisizione, alla quale vi era — e vi è — chi rispondeva con atti d’accusa rivolti ai metodi ecclesiastici nel diritto comune, chi invece s’impegnava a difendere l’operato della Chiesa riconducendo l’uso di alcune violenze — come quelle che avvenivano in sede di tortura giudiziaria — ad abusi della pratica (i quali, secondo altro pensiero, costituirebbero invece l’uso, e non l’abuso, di quello che noi chiamiamo diritto inquisitoriale) o ad un tratto quasi (ci si consenta l’espressione) “folkloristico” della giustizia del tempo in cui esse vennero praticate,

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sottolineando come, anzi, i Papi cercarono di mitigare gli abusi di tali atti rivelandosi più misericordiosi degli altri Sovrani dell’epoca (si veda, ad esempio, C. C. FORNILI, Delinquenti e carcerati a Roma alla metà del ‘600. Opera dei Papi nella riforma carceraria, Roma, 1991, che intitola il § 3 del Capitolo V — pp. 170 ss. — “i Papi moderarono la tortura”; più celebre è l’opera di L. VON PASTOR, Storia dei Papi. Dalla fine del Medioevo, Roma, 1942, vol. 6, ove l’Autore celebra in più occasioni la mitezza del pontefice Pio IV; andando ancora indietro nel tempo può ricordarsi G. MORONI, Dizionario di erudizione storico–ecclesiastica. Da San Pietro sino ai giorni nostri, Venezia, 1840–1879, vol. 35, p. 46, che commentava così l’operato della Inquisizione: «dolcissima e paterna fu sempre la condotta tenuta dai tribunali di Roma»).

Si tratta di una polemica antichissima, e sorse già nell’illuminismo a proposito della tortura giudiziaria. Con Verri e Beccaria che scrivevano come l’uso violento della tortura e l’eccesso di arbitrium dei magistrati fosse del tutto connaturata alla fisiologia dell’inquisizione. E Manzoni che invece, da cattolico, criticava i due, sostenendo che la legislazione ufficiale non era così crudele, e che gli abusi c’erano ma erano, per l’appunto, abusi.

Ma noi sappiamo bene che un abuso, quando diviene la regola, non è più un abuso, ma è, per l’appunto, la regola.

3. Le fonti del diritto inquisitoriale

Nell’epoca della riforma cattolica, nota il Mereu, il diritto inquisitoriale «ha ormai una sua

tradizione, e numerose si stampano le opere dei “maestri” (antichi o contemporanei). Si pubblicano così: trattati, prassi, opere o spiegazioni, questioni, istruzioni, repertori, direttorii, modi, come vengono titolati parte dei lavori con linguaggio burocratico e curiale; oppure: lucerne, martelli, arsenali, flagelli, come vengono denominati altri rifacendosi a un’analogia illuminante; oppure, ricorrendo a un linguaggio icastico o perentorio, aforismi, o prescrizioni. Come non mancano—già da allora— i dogmatici che fingono di fare gli storici [qui il riferimento è al De origine Sanctae Inquisitionis di Ludovicus a Paramo], e quanti si occupano del demoniaco [ad esempio il Malleus maleficarum di Jacob Sprenger]./ Dare un giudizio su ognuna di queste opere è qui impossibile e non servirebbe. A leggerli si resta impressionati per la concordanza di opinioni (la communis opinio) che esiste fra gli antichi e i nuovi. Sembrano tutti contemporanei e tutti “commentatori” della Licet ab initio» (I. MEREU, op. cit., p. 25).

In questa letteratura manualistica i “maestri” più quotati e citati sono per la maggior parte spagnoli — le procedure dell’Inquisizione spagnola e quelle della inquisizione romana, nelle loro strutture fondamentali, sono infatti, come già accennato, le medesime, ed entrambe sono da modello per tutte le varie giurisdizioni secolari — in quanto «la nazione che culturalmente “guida” l’Europa (cattolica)» in quel tempo è proprio la Spagna (I. MEREU, op. cit., pp. 29–30). Tra i manualisti spagnoli vanno menzionati, più di tutti, Alfonso De Castro e Diego de Simancas. Vanno poi ricordati due Maestri inquisitori appartenenti al periodo medievale i cui Manuali godettero di buona fortuna anche nell’epoca moderna: si tratta del francese Bernardo Gui e dello spagnolo Nicolas Eymerich, la cui opera poté giovarsi, in epoca moderna, degli aggiornamenti del giudice rotale romano Francisco Peña.

Quanto ai “maestri” italiani, due ne vanno ricordati in modo particolare. Prospero Farinacci, per cominciare, che fu il primo laico a scrivere un lavoro sull’eresia — il Tractatus De Haeresi (1616) — «fatto molto strano per questo tipo di letteratura», segno che «ormai Roma preferisc[e] che la materia sia trattata anche dai laici, come un argomento d’interesse generale» (I. MEREU, op. cit., p. 31.

Il Tractatus De Haeresi, però, fu solo l’ultimo di una lunga serie di titoli dedicati dal Farinacci all’argomento della procedura criminale, a cominciare dall’originale Variae quaestiones et communes opiniones criminales del 1588 e per finire con il notissimo Praxis et theorica criminalis che del primo rappresenta una riedizione piuttosto appesantita. Si tratta di un Autore tra i più citati, il quale tuttavia «non ha niente di originale, né di nuovo dal punto di vista intellettuale,

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ma ha il pregio di riassumere tutte le opinioni espresse su un certo problema da tutti i “maestri” precedenti» (I. MEREU, op. cit., p. 31). Dopo il Farinacci, è stato osservato, «in Italia è un monotono susseguirsi di trattati e di pratiche criminali, che soffocano ogni sforzo di originalità in un pesante apparato di rigiri dialettici e di citazioni» (P. FIORELLI, La tortura giudiziaria, cit., p. 164).

Tra i numerosissimi “manuali” che circolarono in quegli anni, tanti da costituire una «vasta e fitta selva [. . . ] oscura dove è facile smarrirsi» (A. PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, cit., p. 317), poi, uno si distinse particolarmente per linguaggio e per ampiezza di diffusione: il Sacro Arsenale, Pratica dell’Uffizio della Santa Inquisizione redatta dall’inquisitore Eliseo Masini da Bologna, la cui prima edizione è del 1621.

4. Il Sacro Arsenale di fra’ Eliseo Masini da Bologna

4.1 L’importanza del Sacro Arsenale

È a questo manuale che vorrei dedicare una particolare attenzione. Non solo perché fu un

manuale diffusissimo, anzi, secondo Adriano Prosperi, «fu, senza dubbio, il più diffuso e conosciuto manuale degli inquisitori» (L’arsenale degli inquisitori, p. 316). Basti pensare, a tal riguardo, che «ebbe non meno di tredici edizioni, fino almeno al 1730, le ultime due delle quali, dal 1693, con aggiunte dell’inquisitore Tommaso Menghini e con annotazioni dell’altro inquisitore Giovanni Pasqualone; sotto il nome dei quali l’opera si trova talvolta citata» (P.FIORELLI, La tortura giudiziaria, cit., vol. I, p. 158, n. 135). Anzi, secondo Mereu, (op. cit., p. 31) le edizioni del Sacro Arsenale furono «ben 15 [. . . ] e si continuò a stamparlo fino ai primi del ‘700». Ma, oltre alla diffusione, il Sacro Arsenale è un testo fondamentale anche per almeno altre tre ragioni.

La prima è che, contrariamente ad altri, che avevano anche ambizioni dottrinali, l’Arsenale di Masini non entra, né fa cenno (salvo rarissimi casi) in dispute dogmatiche, ma anzi si caratterizza per un linguaggio asciutto e perentorio. In altri termini, il manuale di Masini ha il «pregio di indicare con una chiarezza che è inconsueta nei precedenti trattati di diritto inquisitoriale […] gli istituti caratteristici del processo antiereticale», escludendo «qualsiasi citazione dottrinale» e così «ipostatizza[ndo] ormai definitivamente lo schema di un manuale di procedura» (A. ERRERA, op. cit., p. 52).

La seconda è che è scritto in italiano volgare, ciò che, tra l’altro, lo rende particolarmente adatto a scopi didattici.

La terza, infine, è che, accanto alla “procedura”, il Masini presenta un modello di tutti i formularî che gli Inquisitori dovevano inserire nel verbale.

Il Sacro Arsenale, insomma, «intende offrire un prontuario per il disbrigo delle materie d’ufficio a una burocrazia inquisitoriale sempre più numerosa (tanto da coincidere quasi col clero delle parrocchie e dei conventi) e che non sempre si trovava a suo agio con i testi latini» (A. PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, p. 316). L’opera del Masini, dunque, «ci dà il modello di tutte le “pratiche” che bisognava compilare quando l’Inquisizione procedeva a un qualunque atto giudiziario. Tutto il procedimento è così di fronte a noi: da quando l’inquisitore chiama un imputato o cita un testimone, a quando inizia l’interrogatorio, alla tortura; oppure quando redige le diverse sentenze di rito; con tutte le varianti, le eccezioni e le dovute cautele che sempre bisogna inserire» (I. MEREU, op. cit., p. 31).

4.2 L’Autore

Il Masini, o Masina, fu domenicano, professore di teologia nelle scuole del suo ordine, e

inquisitore a Mantova, Ancona e Genova; morì nel 1627» (P.FIORELLI, La tortura giudiziaria, cit., vol. I, p. 158, n. 135).

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Non riteniamo di dover dire altro, in questa sede, sulla vita dell’Autore. Chi fosse interessato, comunque, può trovare tutte le informazioni relative nella voce Eliseo Masini, di V. LAVENIA, contenuta nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, Roma, 2008, pp. 616–619.

4.3 Il titolo

Il titolo dell’opera, che non fu spiegato ai lettori in quanto «dovette apparire del tutto trasparente,

nel dominante gusto barocco delle metafore», è particolarmente significativo: «il nome “arsenale” evocava l’immagine dantesca di un luogo di intenso e continuo lavoro, un deposito di strumenti di importanza strategica; e il manuale del Masini si apriva proprio con la chiara enunciazione di quali fossero le categorie di nemici contro i quali operava il tribunale. Ma questa funzione offensiva e aggressiva era qui trasformata dall’attributo “sacro”. Col gusto degli ossimori che distingue la cultura letteraria dell’epoca, si voleva non già spaventare i lettori con la minaccia delle armi (“arsenale”) ma incuriosirli e attirarli con la promessa della dolcezza ecclesiastica. Le armi appena brandite rivelavano subito la loro natura metaforica: nimbi dorati e trionfi d’altare ne sfumavano la minaccia. Del resto, il linguaggio corrente nella letteratura religiosa aveva da tempo inalberato forme bellicose ma tutte riferite a una battaglia interiore, quella del “combattimento spirituale”, secondo la definizione di Lorenzo Scupoli che ebbe tanto successo» (A. PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, cit., pp. 316–317).

D’altronde questo modo di intendere la giustizia come un “combattimento” trova ancora oggi un riscontro. Basti pensare, ad esempio, a quei costituzionalisti che chiamano gli strumenti processuali della Corte Costituzionale come l’«armamentario» della Consulta.

4.4 La dedica

Il manuale era genericamente dedicato a san Pietro Martire. La dedica era, testualmente,

«all’invittissimo campione, e fermissima pietra di S. Fede Pietro il Gran Martire, Onore, e gloria della Domenicana Religione, e degl’Inquisitori Apostolici Capitano egregio».

Il Masini, poi, continuava:

«Quanto di buono, e di ragguardevole ho potuto coll’alta, e felice scorta del vostro Divin Lume, o Glorioso mio Sovrano Duce, dall’incolto suolo del mio debole sapere, e de’ fecondi Campi delle altrui gran Dottrine entro queste poche carte in molto tempo, e con mezzana fatica raccorre a pro dell’Uffizio, che Voi già col proprio Sangue rendeste così illustre, e celebrato col Mondo, ecco tutto a Voi dono, dedico, e consacro; desideroso anch’io tuttavia colla vita istessa palesare a tutti, che non d’altra marca porte fregiato il Cuore, e l’Anima, che di quella, onde Voi con tanto splendor del Nome vostro portate fregiato il Capo, e ‘l Petto» etc. etc. Ho riportato questo breve brano tratto della dedica (invero non molto più lunga), poiché in esso

vi è la spiegazione della dedica stessa. Essa viene rivolta ad un martire, San Pietro, e l’Autore scrive «tutto a Voi dono, dedico, e consacro; desideroso anch’io tuttavia colla vita istessa palesare a tutti» etc.

La dedica, insomma, si iscriveva nel solco della tradizione dell’epoca «di quel modo di vedersi degli inquisitori come candidati al martirio» (A. PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, cit., pp. 311 ss).

4.5 La struttura dell’opera

♦ Prima parte. Dell’Autorità, dignità, ed Uffizio dell’Inquisitore; e delle

Persone, contro alle quali procede il Santo Uffizio.

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In questa prima parte si descrive la figura dell’Inquisitore. Egli è, scrive il Masini, colui il quale è stato «delegato dalla Santa Sede a conoscere, e terminare le Cause, che riguardano la fede», allo scopo di «combattere l’Eresia, o correggere chi contamina la Religione Cattolica», riprendendo, quasi testualmente, il secondo paragrafo della bolla Licet ab initio.

Il Masini passa poi ad elencare i crimini per i quali il Santo Uffizio può procedere, e le conseguenti tipologie di criminali che ne derivano. Abbiamo, così, cinque esempi di criminali:

1. Gli Eretici, o sospetti di Eresia; 2. I Fautori loro; 3. I Maghi, Malefici, ed Incantatori; 4. I Bestemmiatori; 5. Quelli che si oppongono al Santo Uffizio, e suoi Uffiziali.

Salta subito all’occhio come il Masini non faccia alcuna distinzione tra gli “Eretici” ed i

“sospetti di Eresia”. Essere sospetto equivale ad essere eretico. È la proiezione di quella formula, “quomodolibet suspectos”, che abbiamo già incontrato nella Licet ad initio.

La seconda cosa che colpisce è l’indeterminatezza delle tipologie di reato. Oggi riteniamo, per il principio della tassatività, che nessuno possa essere punito se non in forza di una legge che descriva minuziosamente tanto la fattispecie di reato quanto il tipo di pena. Masini, invece, si limitava a dire che «Eretici sono quelli che dicono, insegnano, predicano, o scrivono cose contro la Sacra Scrittura, gli articoli della Santa Fede, i Santissimi Sagramenti, Cerimonie, e Riti, i Decreti dei Santi Concilj, le Determinazioni fatte dai Sommi Pontefici, la Suprema Autorità del Sommo Pontefice, le Tradizioni Apostoliche, il Purgatorio, le Indulgenze; quelli che rinnegano la Santa Fede […]; quelli che dicono che ognuno si salva nella sua Fede». Si tratta di una serie di ipotesi del tutto generiche. A ben vedere, la sussistenza della maggior parte di queste violazioni è sottoposta ad un vaglio interpretativo (si pensi a quante siano, ancora oggi, le questioni lasciate aperte dalla dottrina canonica e teologica). Sarà dunque, in ultima analisi, sempre l’Inquisitore a stabilire quando un individuo si comporta da Eretico, e quando no.

Ciò è ancora più evidente nella descrizione dei “sospetti di Eresia”: «sospetti di Eresia sono quelli, i quali dicono alle volte in materia di Fede certe proposizioni, le quali offendono l’orecchio degli uditori, e non le dichiarano; quelli che, sebbene non dicono parole fanno però fatti» etc. etc.

Certo, non mancano, in alcuni casi delle indicazioni più precise. Saranno sospetti di Eresia, ad esempio, anche «quelli che non essendo Sacerdoti ardiscono di celebrare la Messa», o «quelli che avendo Moglie ricevono gli Ordini Sacri». Ma è indubbio che nella maggior parte dei casi, si tratti di disposizioni molto generiche, che lasciano aperte un varco d’arbitrio definitorio (e non solo) molto ampio agli Inquisitori.

Ad un occhio attento, non sfuggirebbero certe, inquietanti, somiglianze tra l’antica categoria degli Eretici, descritta così genericamente ed indeterminatamente da Masini, e la “nuova” categoria dei terroristi, contenuta nelle varie legislazioni anti-terrorismo fiorite dopo gli attentati dell’11 settembre. Ma anche questa è un’altra storia (alla quale, se qualcuno fosse interessato, si trovano dei riferimenti nel mio lavoro La tortura giudiziaria)…

♦ Seconda Parte. Del modo di formare i processi, ed esaminare i Testimonj,

ed i Rei. In questa seconda parte, il Masini descrive la struttura della procedura da seguire nel processo.

Abbiamo già esaminato le caratteristiche del modello inquisitorio, e non ci soffermeremo oltre. Faccio solo una notazione, che ritengo interessante, sul modo con cui viene trattata la procedura

accusatoria. Esistono, scrive il Masini, «due modi di formare i Processi». Il primo modo è quello «per via di

denunzia»; il secondo è quello «per via di inquisizione». Questi due modi, come abbiamo poco fa

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visto, appartengono entrambi al modello inquisitorio, e si differenziano solo per il modo di attivazione: il primo sulla base della denuncia di un terzo, il secondo sulla base di un’iniziativa ex officio dell’Inquisitore. E il processo accusatorio?

A prima vista non sembra essercene traccia. Ad un secondo e più attento esame, invece, la troviamo. Tra parentesi. Subito dopo che il Masini scrive che «il primo modo nel quale si forma il Processo […] si chiama per via di denunzia», l’Autore aggiunge «(tralasciando quel modo, ch’è per via di accusa, sì perché rare volte occorre, sì anco perché è quasi il medesimo, che quello per via di denunzia)».

Si nota, da questa frase, come il processo accusatorio fosse ormai considerato una ipotesi del tutto residuale. Ma la cosa che più colpisce, è quella definizione del processo accusatorio come «quasi il medesimo» di quello per via di denunzia. È vero esattamente il contrario! Il processo accusatorio riposa sul modello accusatorio, quello per denunzia su quello inquisitorio. Qui è chiaro l’intento dissimulatore di fra’ Masini, volto a spingere tutti i suoi lettori Inquisitori ad applicare unicamente il modello inquisitorio. Tanto, scrive lui, è «quasi il medesimo», cioè quasi uguale. In realtà l’unica cosa che vi è di uguale è il fatto che entrambi scaturiscono dall’iniziativa di un terzo (il terzo leso nel processo accusatorio, un terzo, per così dire, disinteressato in quello per denunzia). A parte ciò, non vi è assolutamente nulla di uguale o quasi uguale tra i due tipi di processo. Si tratta di una forma di dissimulazione onesta, della quale parleremo in chiusura.

♦ Terza parte. Come si debbono esaminare gli Eretici formali. ♦ Settima parte. Del modo di procedere contro i Poligami, e le streghe nel

Santo Tribunale. La terza e la settimana parte descrivevano procedure particolari da seguire nel caso in cui i Rei

fossero stati Eretici dichiarati, Poligami o Streghe. La materia delle Streghe era, ai tempi, molto in voga, ed alcuni dei manuali per inquisitori erano dedicati quasi esclusivamente ad essa. A parte ciò non vi è molto altro da dire, in questa sede, sull’argomento.

♦ Quarta parte. Del modo di formare il Processo ripetitivo e difensivo. ♦ Quinta parte. Modo di formare la Citazioni, Precetti, Decreti, Sicurtà, ed

altre cose simili. ♦ Ottava parte. Del modo di terminare i Processi nel Santo Uffizio ♦ Nona parte. Modo di formar le Patenti per gli Uffiziali, dar loro il

giuramento di fedeltà, proporre le Cause nella Congregazione, ed aßolvere i Rei dalla Scomunica nel Santo Uffizio.

Le parti quarta, quinta, ottava e nona erano soprattutto raccolte di formulari, pratiche e

modelli di atti processuali, da ricopiare nei verbali e compilare all’uopo. Nella ottava parte, ad esempio, erano elencati i tipi di sentenza e le relative formule di rito.

♦ Decima parte. Avvertimenti utili e neceßarj a’ Giudici della Santa

Inquisizione Quanto alla decima parte, essa conteneva una serie di “Avvertimenti”, cioè regole o precauzioni

particolari che fra’ Masini aveva ritenuto di elencare separatamente dal resto della trattazione. Gli Avvertimenti erano su qualunque materia: dalla responsabilità penale degli Inquisitori alla Tortura giudiziaria.

♦ Sesta parte. Del modo d’interrogar i Rei nella Tortura

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E proprio alla tortura era dedicata la sesta parte sulla quale, invece, desideriamo fermarci un momento. La tortura, infatti, è forse, e malgrado le apparenze, l’elemento più caratteristico di tutti del processo inquisitorio. Il perché lo vedremo a breve.

L’incipit della sesta parte del Sacro Arsenale è uno dei testi più noti, studiati e commentati di tutta la storia del processo criminale. Vediamolo:

«Avendo il Reo negato i delitti oppostigli e non essendo essi pienamente provati; s’egli, nel termine

assegnatoli a far le sue difese, non avrà dedotto a sua discolpa cosa alcuna; ovvero, fatte le difese, ad ogni modo non avrà purgato gl’indizj, che contro di lui risultano dal Processo: è necessario, per averne la verità, venir contro di lui al rigoroso esame, essendo stata appunto ritrovata la tortura per supplire al difetto de’ Testimonj, quando non possono intera pruova apportare contro del Reo. [E l’uso della tortura, non] punto sconviene all’Ecclesiastica mansuetudine e benignità; anzi quando gl’indizj sono legittimi, bastevoli, chiari e (come dicono) concludenti in suo genere, può e deve l’Inquisitore in ogni modo senza alcun biasimo farlo, acciocché i Rei, confessando i loro delitti, si convertano a Dio, e per mezzo del castigo salvino l’anime loro» (grassetti miei). Si tratta di un brano di importanza cruciale, poiché mette in luce alcuni aspetti fondamentali

circa il sistema giudiziario dell’epoca. Ritroviamo, qui, praticamente tutto quanto abbiamo detto fin ora:

1) In primo luogo, traspare chiaramente l’origine romanistica dell’istituto della Tortura, il quale viene presentato, per l’appunto, come un «ritrovato»; dalle successive parole dell’Autore, inoltre, si capisce come ormai fosse del tutto pacifico ritenere (salvo poche, isolate, voci dissenzienti) che questo “ritrovato”, occorso in luogo della rozza ordalia di barbarica memoria e delle altre purgationes vulgares, (nonché di quella canonica), non ponesse problemi di compatibilità con la dottrina cattolica: il rigoroso esame, come abbiamo infatti appena letto, non sconverrebbe alla «Ecclesiastica mansuetudine e benignità» e, anzi, rientrebbe tra i doveri dell’Inquisitore poiché serve a purgare l’infamia dalle anime dei Rei che solo «confessando i loro delitti» e «per mezzo del castigo» si sarebbero salvate;

2) Ritroviamo, in secondo luogo, l’elemento della presunzione di colpevolezza,

chiaramente espresso nella frase «s’egli […] non avrà dedotto a sua discolpa cosa alcuna»; 3) Troviamo, poi, un riferimento chiaro al sistema delle prove legali. Così, gli

Inquisitori dovranno torturare «quando non possono intera pruova apportare contro del Reo», cioè quando non dispongono di una prova plena;

4) Un altro elemento che, in qualche maniera, ritroviamo in questo testo, è quello della

indeterminatezza della categoria degli Eretici (o degli “Scellerati”, se ci riferiamo ad un contesto più laico). Lo troviamo, guardandolo attraverso il filtro di un concetto, di fondamentale importanza, al quale ancora non avevamo accennato: quello di ordine sociale e pubblica sicurezza. Masini, infatti, dice che il fine ultimo dell’operare della inquisizione è «  acciocché i Rei, confessando i loro delitti, si convertano a Dio, e per mezzo del castigo salvino l’anime loro». Altrove, anche nello stessi manuale, si usavano, in maniera più esplicita, espressioni equivalenti a quella di «sradicare l’eresia». Insomma, la giustificazione “pubblica” e, in un certo senso, “laica” per la pratica della tortura, oggi come ieri, sia per quanto riguarda i tribunali ecclesiastici che per quanto riguarda quelli secolari, si rinveniva sempre in motivi di ordine sociale e di interesse pubblico alla sicurezza. Così, mentre per la Chiesa l’obiettivo era quello di reprimere l’eresia che avrebbe altrimenti devastato la società, consegnandola nelle mani del Demonio, in un noto trattato del veneziano Bartolommeo Melchiori (conosciuto con il nome di Miscellanea di materie criminali, volgari e latine), si giustificava la tortura giudiziaria in quanto «in tali casi trattasi di purgare la provincia dagli scellerati, e convinti, o confessi»; così il giudice potrà

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camminare a passo sicuro poiché «internamente contento d’avere soddisfatto alla volontà pubblica delle leggi». In nome di ciò, tutto era consentito – torture, arresti arbitrarî, pena di morte – in linea con l’emergente teoria della Ragion di Stato per la quale, come a volte si banalizza, “il fine giustifica i mezzi”. Sennonché, come abbiamo visto, la categoria degli “eretici” (ma, leggendo un manuale laico, potremmo dire la stessa cosa riguardo alla categoria degli “scellerati”) era molto vaga e indeterminata. E a me torna in mente, ancora una volta, la legislazione antiterrorismo…;

5) Il quarto elemento che emerge dalle citate parole del Masini, è quello della la

tendenza generale ed irrefrenabile dell’ordinamento a scoprire la verità (veritas), la quale rende necessario e doveroso l’approccio “rigoroso” della tortura: l’Inquisitore, scriveva ancora padre Eliseo, «può e deve» usare la tortura, poiché ciò «è necessario per averne la verità»;

6) E, infine, troviamo un quinto elemento: quello della centralità della tortura nel

sistema inquisitoriale. Ricerca della veritas, sistema delle prove legali, esigenze superiodi di ordine sociale e pubblica sicurezza, origine romanistica del processo…tutto sembra portare ad essa, la quale, abbiamo visto, ci viene presentata come un istituto doveroso e necessario. E non è un caso che, per giustificare il ricorso alla tortura, il Masini reputi necessario richiamare praticamente tutti gli elementi caratteristici del procedimento inquisitorio, in quanto dati quelli, la tortura ne è la ovvia e ineluttabile conseguenza. Gli stessi concetti, vale a dire quelli della necessarietà e della doverosità della tortura nel sistema inquisitoriale, vengono ribaditi dallo stesso Masini poco più avanti nel testo, quando, nell’illustrare la procedura con la quale ottenere l’autorizzazione (tramite apposito Decreto) a torturare, inizia a spiegare i modi ne’ quali «secondo le Leggi debba il Reo a rigoroso esame sottoporsi» (corsivo nostro), presentando, per l’appunto, la Qaestio come un dovere dell’inquisitore.

Tutti gli elementi fin qui analizzati, ci portano a due concetti, ai quali fin qui abbiamo solo

accennato, entrambi caratteristici della legislazione inquisitoria e, praecipiter, della disciplina circa l’uso giudiziario dei tormenti: il finto garantismo ed il dissimulare onesto.

5. Il finto garantismo e il dissimulare onesto

Si tratta degli ultimi due argomenti dei quali tratteremo in questa sede, ma che sono di

importanza cruciale, in quanto contengono la chiave per comprendere tutta la produzione normativa e dottrinale dell’epoca in materia di processo criminale, ivi compresi i codici in materia penale d’età moderna.

5.1 Il finto garantismo

Al finto garantismo abbiamo già fatto un accenno all’inizio della lezione. Si tratta di una

espressione coniata da Franco Cordero per identificare il modo con cui nella legislazione criminale di diritto comune venivano previste, a livello formale, delle “garanzie” a tutela degli interrogati, fossero essi Rei sospetti o semplici testimonî, le quali, tuttavia, non producevano alcun effetto sul piano sostanziale, traducendosi, dunque, in “finte garanzie” o, come pure le chiama l’Autore, paper rules.

Alla base di tutto la considerazione, che abbiamo già fatto prima, circa l’inarrestabile tendenza del sistema giudiziario del’epoca al raggiungimento della verità. Se dunque il sistema inquisitorio ha come scopo primario ed inderogabile quello di raggiungere la verità, e tale scopo rende necessario, ad esempio, l’uso della tortura ad eruendam veritatem, è chiaro che qualunque

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garanzia la quale avrebbe come conseguenza quella di limitare l’uso della tortura non possa produrre effetti in quel sistema, né possa esser verosimilmente stata prevista perché realmente ne produca.

Il finto garantismo — così come il dissimulare onesto, di cui diremo a breve — è componente fisiologica ed essenziale del metodo inquisitorio praticato negli anni dello ius commune, che Cordero ci descrive così:

«Fonti fluide, confuse casistiche sugli indizi, finto garantismo tramandato quale paper rule,

tartufesche invettive contro l’abuso nella “pratica”, nominata a bocca storta come fenomeno remoto, cloacale, intellettualmente irrilevante; così i sapienti tengono in vita un istituto guasto fin dalla cellula germinale [cioè la tortura giudiziaria], lasciando allo iudex–carnifex quanto spazio vuole; i meno insensibili chiudono gli occhi sull’inferno pratico o, dove esistano meccanismi evoluti (ad esempio, l’Aktenversendung obbligatoria a uno Schöppenstuhl), impongono qualche limite alla prassi (così, Benedikt Carpzov), ma tortura e legalità sono incompatibili; i cosiddetti abusi appartengono alla fisiologia dello strumento. Siccome rende lo adoperano senza tanti scrupoli.

Altrettanto visibile l’effetto morale inquinante: avendo in mano arnesi simili, i malriusciti infieriscono; sarebbe un miracolo se questa crudeltà professionale su degli inermi non innescasse pulsioni aggressive» (F. CORDERO, La fabbrica della peste, Roma–Bari, 1984, pp. 140–144.).

D’altronde, osserva lo Sbriccoli, non ostante in molte delle opere dei giuristi di allora che

trattavano la tortura risultasse ben manifesta la preoccupazione che la tortura venisse inflitta con la minima dose di dolore e comunque mai oltre certe soglie, «nessun giurista comunale criticherebbe una tortura perfettamente rituale solo per la sua crudeltà» (M. SBRICCOLI, «Tormentum idest torquere mentem», p. 27).

La garanzia «come avviene nella logica inquisitoria, vale poco o niente [. . . ]. Fraintende l’istituto chi vi postuli, quale autentico dato normativo, le pseudo garanzie declamate dai dottori (così Manzoni [. . . ]): sono paper rules, intese a una pantomima piuttosto sporca; i cosiddetti abusi appartengono alla fisiologia dello strumento; che l’operante abbia le mani libere è una condizione dell’alto rendimento offerto dalle macchine inquisitorie» (F. CORDERO, La fabbrica della peste, cit., p. 24, n. 15).

Insomma, il lucido ragionamento di Cordero è il seguente: vero è che gli ordinamenti e le giurisdizioni dell’epoca si preoccupavano di fissare delle “garanzie” a tutela dell’imputato, specie (ma non solo) in materia di tortura. Ad esempio, nella Constitutio Carolina, della quale parleremo meglio dopo, era presente, come ben dice Ettore Dezza (Pour pourvoir au bien de notre justice, in diritto@storia), un «brillante catalogo di garanzie» in materia di tortura giudiziaria (artt. 47 – 51). Il problema, però, è quale fosse la reale operatività di tali garanzie. L’inquisizione si adopera perché efficace. Perché possa essere realmente efficace, è necessario che l’Inquisitore abbia le «mani libere» e strumenti adeguati. Più è alta la posta in gioco, più «strumenti» si daranno all’Inquisitore. Se la posta in gioco, poi, è rappresentata dallo sradicamento dell’eresia e dalla ricerca della veritas, è inevitabile che tra gli strumenti figuri, ad esempio, la tortura. Ed una volta che si legittima la tortura, a poco serve prevedere limiti, più o meno stringenti, al suo utilizzo: se bisogna usarla quando serve – e sarà necessariamente l’Inquisitore a decidere quando serva – bisogna che essa si possa usare in maniera efficace ed adatta all’occorrenza. Se ciò si vuole evitare, bisogna vietare, ab origine, la possibilità di avvalersi di tortura. Se invece si legittima quest’ultima, si legittimano anche i «cosiddetti abusi», e a nulla valgono le “pseudo” o “finte” garanzie con cui la si legittimi, poiché «l’abuso appartiene alla fisiologia dello strumento».

È un po’ come quando, in guerra, si da la licenza di uccidere, accompagnandola a precauzioni del tipo “solo quando necessario”, “evitando, se non impossibile, l’uccisione di civili” etc. È il guerriero l’ultimo arbitro di ciò che accade in guerra, e se al guerriero gli si la licenza di uccidere è normale che egli la userà come voglia, senza prendere seriamente in considerazione quelle “pseudo-garanzie” che gli sono state poste. Esse avranno semmai, come unica conseguenza, che il guerriero, nel redigere il verbale della battaglia, debba scrivere che “è stato necessario” o “è stato inevitabile”

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uccidere questo o quell’individuo. E non è un caso che, come abbiamo visto, l’opera dell’Inquisizione venisse paragonata a quella di un «combattimento», e gli strumenti con cui operava ad un «arsenale».

Vediamo, ora, qualche esempio di finto garantismo:

• Abbiamo già visto come fosse finto garantismo dire che un individuo non poteva essere inquisito senza che vi fossero sospetti su di lui;

• Un altro esempio di finto garantismo è quello fornito dalla regola, che abbiamo

poc’anzi visto descritta nel brano del Masini e che era diffusamente accettata dalla communis opinio, per la quale non si poteva procedere a tortura in mancanza di indizî o, comunque, di indizî “idonei” (indicia legitima), non ostante talvolta si ammettessero «indefinite deroghe» quando si fosse trattato di “delitti occulti”, «quali complotti et similia», di cause per lesa maestà («de maiestatis») o altre cause di analoga gravità ed importanza: il riferimento qui è a Baldo, il quale nei delitti occulti ammette la tortura anche quando manchino indizî. Masini parlava di indizj legittimi, bastevoli, chiari e (come dicono) concludenti in suo genere. La regola in esame ci viene così raccontata da Claro, il quale riporta che «confessio facta […] in tormentis, tunc si legitima indicia non praecesserint,& servata non fuerint servanda, talis confessio est ipso iure nulla, nec potest confessus ex ea condemnari, etiam quod in illa perseveret», neppure quando sopravvengano i «legitima indicia» (G. CLARO, Sententiarum receptarum liber quintus, in quo diversorum criminum materia XX. Diligenter explicatur. Item Practica criminalis, totius criminalis iudicij ordinem&delictorum poenas complectens, ab eodem authore postremo supradicti libri. Addita. Una cum singularum quaestionum Summariis, & Indice rerum memorabilium locupletissimo, Venetiis, 1568, q. 55, vers. Si vero). Il punto sta qui: «essendo smisurata la gamma degli indizi, impossibile che non ne esista almeno uno; [. . . ] l’inquisitore ne scopre quanti vuole» (F. CORDERO, La fabbrica della peste, cit., p. 24, n. 15). In altri termini, «ogni pretesto era buono, ogni situazione ne giustificava il ricorso [alla tortura], perché quella verità, a volte vagheggiata a sproposito, fosse sempre e comunque fatta valere» (L. G. GIUGNI, Inseguendo la verità, p. 151);

• L’inefficacia sostanziale della garanzia circa gli indicia legitima, poi, non risiede

solo nella mancanza di criteri minimi per la definizione di un fatto come indizio, bensì anche nell’arbitrarietà con la quale un indizio viene definito “idoneo”. Abbiamo così un terzo esempio di “finto garantismo”. Insomma, lo stabiliscono gli inquirenti se esistano prove idonee, e tale discrezione immette nel gioco variabili tanto fluide: che poi “hac in re” non sia consentito allo “iudex pro libitu ac propria sponte arbitrari, sed iudicium disposizioni iuris, rectaeque rationi conformare debe[a]t”, ([così Benedikt Carpzov], col solito schieramento dottorale, da Ippolito Marsili a Mascardi), è un apoftegma enfaticamente vuoto (applaudito da Manzoni [. . . ]); immersi fino al collo in un lavoro sporco e lucroso, salvano l’anima esclamando sdegno a buon mercato sui cosiddetti abusi» (F. CORDERO, La fabbrica della peste, p. 141–142, n. 17).

Ritroviamo, così, nel concetto di “finto garantismo”, una delle caratteristiche fondamentali del

processo inquisitorio del diritto comune, vale a dire l’arbitrarietà del giudice; come ha apprezzato Meccarelli, autore noto per i suoi studi circa il potere arbitrario e discrezionale del giudice di ius commune, «la dottrina si sforza di proporre una casistica. Tuttavia si usa chiudere la questione con un rinvio all’apprezzamento del giudice: suo è il compito di stabilire se sono sopraggiunti nova urgenti ora indicia che autorizzano a sottoporre l’imputato alla tortura; suo è il compito di valutare se gli indizi sono stati interamente purgati dalla prima tortura o se in questa il reo non sia stato

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sufficienter tortus o leviter rispetto alle prove a suo carico» (M. MECCARELLI, Tortura e processo, p. 688).

Ritroviamo anche, sempre nel “finto garantismo”, il rigido formalismo caratteristico del procedimento inquisitorio. L’unico abuso che con quelle “finte garanzie” si voleva veramente evitare era quello relativo alla forma (il cui rispetto ossessivo, come abbiamo accennato poc’anzi, era animato da intenti che avevano ben poco di garantista). Se l’Inquisitore, ad esempio, non avesse giustificato la tortura sulla base di un indizio, o se di tale indizio non fosse stata esplicata, nel verbale, l’idoneità ad torturam, egli avrebbe commesso un abuso soggetto peraltro a pesanti sanzioni. Prevedeva, ad esempio, il Masini, nell’Avvertimento CLXI contenuto nella Decima Parte del Sacro Arsenale, che «essendo vietato al Giudice di dar la corda al Reo per mancamento d’indizj; s’egli tuttavia mosso da vano stimolo di onore per aver la verità, ad ogni modo comandasse, che il detto Reo fosse posto in un fondo oscuro di Torre, o che stesse di mezzo inverno ignudo, o si morisse (per così dire) di fame, e di sete, malamente oprarebbe, e meritarebbe quel medesimo castigo, che gliè si dovrebbe, se avesse al Reo data propriamente la corda».

5.2 La dissimulazione onesta

Quanto alla dissimulazione onesta, l’espressione “dissimulare onesto” si deve a Torquato

Accetto, moralista napoletano in attività circa quattro secoli or sono, ed è stata riportata alla luce da Italo Mereu per definire una assai peculiare manifestazione di quel concetto che, nel linguaggio odierno, è noto con il sintagma “tartufismo giuridico” (dal francese tartufe, “ipocrita”, lo stesso termine che da’ il nome — non a caso — ad una nota commedia di Molière) o, semplicemente, con il termine ipocrisia (giuridica). Spiega l’Accetto che:

«la dissimulazione non è altro [. . . ] che un velo composto di tenebre oneste e di rispetti violenti da

che non si forma il falso ma si dà qualche riposo al vero, per dimostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nell’ordine dell’universo sia il giorno e la notte, così conviene che nel giro dell’opere umane sia la luce e le tenebre, dico il procedere manifesto o nascosto, ch’è regola della vita e degli accidenti che in quella occorrono» (T. ACCETTO, Della dissimulazione onesta, 1641). Dunque, in ambito giuridico, potremmo riassumere dicendo che con dissimulare onesto

s’intende il nascondere, dietro parole fuorvianti, concetti diversi da quelli che, date le circostanze, si sarebbero dovuti esprimere, considerati sconvenienti o impresentabili, in vista di un evento futuro che determinerà l’avverarsi della situazione dissimulante (per ciò da considerarsi onesta) in luogo di quella dissimulata.

Ci spiegheremo meglio con alcuni esempi:

• Un primo caso di dissimulazione onesta lo abbiamo già veduto, quando fra’ Eliseo Masini dice che il modo di formare i processi per via di accusa è «quasi il medesimo» che quello per via di denunzia. In questo caso l’evento dissimulante è il descrivere il processo accusatorio come “quasi uguale” a quello inquisitorio attivato per via di denunzia; il concetto sconveniente è l’esistenza di una procedura, quella per via di accusa, della quale gli inquisitori vogliono “sbarazzarsi”; la situazione dissimulata è data dal fatto che la procedura per via di accusa non garantisce la stessa efficacia di quella inquisitoriale ed è basata su di un modello diverso, vale a dire quello accusatorio; e, infine, l’onestà della dissimulazione sta nel fatto che, omettendo di descrivere la procedura per via di accusa, con la giustificazione che, tanto, è «quasi la medesima» che quella per via di denuncia, di fatto si sancisce la scomparsa della prima, e la sua “immedesimazione” di fatto di questa con la seconda;

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• Un secondo esempio lo troviamo, invece, nell’incipit della Sesta parte del Sacro Arsenale. Il Masini preludia scrivendo: «avendo il Reo», laddove con la parola “reo” s’intendono (anche) quegli individui sui quali pende un semplice sospetto (rei sospetti) ovvero gli imputati che non hanno voluto confessare un delitto di cui non si ha piena prova che sia stato commesso da loro (rei accusati). «Perché designare con un appellativo così squalificante» come “Reo”—si chiede il Mereu — «chi ancora non è altro che un imputato, e solo dopo la condanna potrà essere chiamato con l’appellativo di reo? Il presupposto (taciuto) è quello che qualunque persona sia sottoposta a tortura, per l’Inquisitore è già un reo che bisogna solo far confessare» (I. MEREU, Storia dell’Intolleranza in Europa, cit., p. 212). Anche BECCARIA, (Dei delitti e delle pene, 1764) notava come «un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice»;

• Un ultimo esempio fornito di “dissimulare onesto”, anche questo contenuto nel già

più volte menzionato incipit, è dato dalla «equivalenza rigorosa esamina = tortura». Il Masini, infatti, come abbiamo visto, scrive che, quando ne ricorrano i presupposti, è necessario, per avere la verità, venir contro del Reo al «rigoroso esame», espressione con la quale si intende, per l’appunto, la tortura. Il «linguaggio sfumato e alternativo e immaginifico» (espressione di Mereu) con il quale la tortura viene nominata e resa presentabile come rigoroso esame (o rigorosa esamina, come altrove viene chiamata) viene dunque fissato nel Sacro Arsenale; e, come nota il Mereu:

«spesso, quando dovrà accennare all’istituto, il Masini preferirà ricorrere a questa

espressione, che è un neologismo, ed è ben trovato. / Rigorosa esamina è un sintagma dove il rapporto fra tortura e torturato, fra chi può chiedere e chi deve solo soffrire e rispondere, è sfumato in un’immagine scolastica che richiama alla memoria da un lato maestri severi, ma (è sottinteso) giusti; e dall’altro allievi impauriti, trepidanti ed ansiosi, che sperano solo di finire, e si augurano che le risposte date siano quelle soddisfacenti e placanti che il maestro attende e desidera. Ma c’è anche una sapienza psicologica non comune nell’uso di questa espressione che identifica la tortura con un esame e questo con la tortura. Alla base di entrambe c’è la violenza, che tutto altera e distorce; quella fisica e quella psicologica, la territio e il dolore sofferto, che vengono unite in una immagine in cui il rapporto non è più tra uomo e uomo, ma tra uno che può tutto e un altro che deve solo subire. Rigoroso esame, detto di questi stati di sopraffazione esistenziale, è la “dissimulazione” più “onesta” e, in fondo, più vera. […] Qui la tortura è trasformata in un solvente miracoloso e salvifico che, aiutandoci a guardare in noi stessi, ci libera dal peccato. In questo caso l’opera della Chiesa diventa “benigna”; la sua crudeltà si trasforma in “mansuetudine”, e l’opera dell’Inquisitore è meritoria e benevola. La tortura è tramutata così in uno strumento pio, e da mezzo primitivo ed infantile d’indagine diventa un tabù miracoloso che basta provare per essere salvi» (I. MEREU, op. cit., pp. 211–213).

6. Le codificazioni in materia di procedura criminale: “in luogo di una conchiusione” Arriviamo così al termine della nostra disamina, che sarà servita, spero, a meglio chiarire i

presupposti sulle quali nascono le legislazioni statali nel XVI secolo in materia criminale e, specialmente, di procedura criminale. Io le chiamo “codificazioni”, poiché l’intento che le muoveva era, per l’appunto, quello di una codificazione – o, per meglio dire, di una “ricompilazione” – di tutte le norme che regolavano il processo. Si tratta, in realtà, di un accadimento che rientra a pieno titolo tanto nel fenomeno cosiddetto della “recezione del diritto comune”, quanto nel solco del processo di “assolutizzazione” degli Stati. Ed è importante precisare che, malgrado una certa somiglianza terminologica, le “codificazioni in materia di procedura criminale” non vanno confuse con la “codificazione penale” vera e proprie cioè con l’avvento dei codici penali e, successivamente, dei codici di procedura penale.

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Il fenomeno delle codificazioni in materia di procedura criminale ha interessato, grossomodo, tutta l’Europa continentale.

La Spagna, rispetto agli altri Stati, fu piuttosto precoce: già nel 1265, con la Ley de las Siete Partidas, aveva posto in essere un intervento organico nella materia. Ciò non ostante, fece comunque la sua parte nel movimento di ricompilazione del XVI secolo, con la ponderosa Nueva Recompilación de las Leyes del 1567. In Francia possiamo ricordare l’Ordonnance sur la réformation de la justice et l’utilité générale du Royaume del 1498 (o Ordonnance di Blois), l’Ordonnance sur le fait de la justice (detta anche Ordonnance pour la réformation et abréviation des procès o Ordonnance di Villers-Cotterets) del 1539; l’Ordonnance Criminelle del 1670. Quanto ai Paesi Bassi, possiamo ricordare due Ordonnances del 1570 : la Ordonnance sur le fait de la justice criminelle/Ordonnantie op het stuk der criminele justitie, che è però incentrata sul diritto criminale sostanziale, e la Ordonnanc sur le fait du stile général aux procédures des causes criminnelles/Ordonnantie op den stijl van procedeeren in crumineele zaken (o Style Criminele), che invece regola il diritto processuale. In Germania un cenno merita, soprattutto, la Constitutio Criminalis Carolina (o Carolina) del1532.

Quanto all’Italia, la situazione politica della penisola, come sappiamo, era molto frammentaria ed instabile. Lo Stato Pontificio non aveva certo bisogno di “ricompilare” ed appropriarsi di un diritto che era già contenuto, ab origine, nelle fonti canoniche, e sul quale, tra l’altro, non erano mancagli gli interventi papali, come abbiamo visto prima. Quanto agli altri soggetti politici della penisola, essi pure hanno, in qualche maniera, partecipato al movimento normativo del quale si tratta, seppur, nota Dezza (Pour pourvoir au bien de notre justice), «in misura inferiore e con esiti meno rilevanti». Possiamo ricordare, ad esempio, le Nuove Costituzioni dello Stato di Milano del 1541, o il Libro quarto dei Novi Ordini, delle cause criminali, et il modo di proceder in esse dei dominî della Casa di Savoia del 1565.

In tutti questi testi, ritroviamo, con qualche differenza, il modulo inquisitorio del processo romano-canonico che abbiamo fin qui tratteggiato.

Ne sia un esempio la Constitutio Criminalis Carolina (1532), nella quale era previsto all’art. 20, analogamente alle altre legislazioni europee, che la tortura dovesse essere attivata solo in presenza di “prove idonee” allo scopo (regola che abbiamo già esaminato a proposito del “finto garantismo”). E troviamo norme sulla tortura, con altrettanti esempî di “finto garantismo”, in qualunque altro dei citati testi (ad es. artt. 113 e 114, Ordonnance di Blois; artt. 163 e 164, Ordonnance di Villers-Cotterets; artt. 16 – 61 Carolina).

E, ancora, possiamo trovare norma sulla segretezza (ad es. artt. 96, 98, 106, 110 e 111, Ordonnance di Blois; artt. 18 – 77 Carolina), sulla scrittura (ad es. art. 113, Ordonnance di Blois; artt. 181 – 203 Carolina), sulla trasformazione della inquisizione in procedimento ordinario, seppur talvolta essa fosse ancora chiamata, formalmente, “straordinaria” (ad es. art. 118, Ordonnance di Blois), sull’iniziativa ex officio (ad es. art. 145, Ordonnance di Villers-Cotterets; artt. 6- 17 Carolina), sulle prove legali (ad es. art. 164, Ordonnance di Villers Cotterets; artt. 22, 65 e 67 Carolina), etc.

Nessuna di queste “codificazioni” descriverà mai la procedura inquisitoriale come uno dei manuali per inquisitori dei quali abbiamo parlato prima, i quali continuarono ad essere usati e ad evolversi, parallelamente alla legislazioni, anche in età moderna. Ma esse sono il segno in primo luogo della “evoluzione sotterranea” della disciplina del processo romano-canonico avvenuta, a traverso il diritto inquisitoriale, nel corso dei secoli dell’età medioevale di diritto comune. E, in secondo luogo, della volontà degli Stati di “appropriarsi” della legislazione in materia di procedura criminale, rendendosi progressivamente autonomi e indipendenti dai poteri “universali” – o, in altri termini, di trasformarsi in Stati assoluti – pur senza rinunciare all’efficacia della procedura inquisitoriale, che quei poteri avevano creato e che era l’unica a poter promettere un reale controllo del dissenso e dell’ordine pubblico.

Ma questa, come sapete, sarebbe un’altra storia…

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Giuliano Serges

OPERE CITATE

TORQUATO ACCETTO, Della dissimulazione onesta, 1641;

PAOLO ALVAZZI DEL FRATE, Giustizia e garanzie giurisdizionali. Appunti di storia degli ordinamenti giudiziari, Torino, 2011;

PAOLO ALVAZZI DEL FRATE e GIULIANO SERGES, Garantismo e inquisizione. Considerazioni sulla giustizia criminale in età moderna, in M. CAVINA (a cura di), La giustizia criminale nell’Italia moderna (XVI – XVIII sec.), Bologna, 2012, pp. 9 – 34;

MARIO ASCHERI, I diritti del medioevo italiano. Secoli XI–XV, Roma, 2003;

CESARE BECCARIA, Dei delitti e delle pene, 1764;

MARIO CARAVALE, Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Milano, 1994;

GIULIO CLARO, Sententiarum receptarum liber quintus, in quo diversorum criminum materia XX. Diligenter explicatur. Item Practica criminalis, totius criminalis iudicij ordinem&delictorum poenas complectens, ab eodem authore postremo supradicti libri. Addita. Una cum singularum quaestionum Summariis, & Indice rerum memorabilium locupletissimo, Venetiis, 1568;

FRANCO CORDERO, La fabbrica della peste, Roma–Bari, 1984;

FRANCO CORDERO, Procedura Penale, VII edizione, Milano, 1983;

FRANCO CORDERO, Quando viene profanato il corpo, in la Repubblica, 19 maggio 2004, p. 35, ora ad introduzione di A. GIANNELLI e M.P. PATERNÒ (a cura di), Tortura di Stato: le ferite della democrazia, Roma, 2004, p. 17;

ETTORE DEZZA, («Pour pourvoir au bien de notre justice». Legislazioni statali, processo penale e modulo inquisitorio nell'Europa del XVI secolo, in www.dirittoestoria.it, N. 3 – Maggio 2004 – Memorie;

ANDREA ERRERA, Processus in causa fidei. L’evoluzione dei manuali inquisitoriali nei secoli XVI – XVIII e il manuale inedito di un inquisitore perugino, Bologna, 2000;

PIERO FIORELLI, La tortura giudiziaria nel diritto comune, 2 voll., Varese, 1953;

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CARLO C. FORNILI, Delinquenti e carcerati a Roma alla metà del ‘600. Opera dei Papi nella riforma carceraria, Roma, 1991;

LÉON GARZEND, L’inquisition et l’hérésie: distinction de l’hérésie théologique et de l’hérésie inquisitorial, à propos de l’affaire Galilée, Paris, 1912 ;

LOREDANA G. GIUGNI, Inseguendo la verità. Processo penale e giustizia nel ristretto della prattica criminale per lo Stato di Milano, Milano, 1999;

VINCENZO LAVENIA, voce Eliseo Masini contenuta nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 71, Roma, 2008;

ELISEO MASINI, Sacro Arsenale, ovvero Pratica dell’Uffizio della Santa Inquisizione; coll’inserzione di alcune Regole fatte dal P. Inquisitore TOMMASO MENGHINI Domenicano, e di diverse Annotazioni del dottore GIO. PASQUALONE Fiscale della Suprema Generale Inquisizione di Roma. In questa quarta Impressione aggiuntavi la Settima Denunzia fatta dal suddetto Padre per li sponte Comparenti, impressa in Ferrara 1687, e corretta in alcune cose la Parte Decima degli Avvertimenti, che sono posti in ordine di Alfabeto con un Indice a parte. Dedicato al Glorioso Inquisitore S. Pietro Martire, Roma, MDCCXXX;

MASSIMO MECCARELLI, Arbitrium. Un aspetto sistematico negli ordinamenti giuridici in età di diritto comune, Milano, 1998;

MASSIMO MECCARELLI, Tortura e processo nei sistemi giuridici dei territori della Chiesa: il punto di vista dottrinale (secolo XVI), in BERNARD DURAND (sous la direction de), avec la collaboration de L. OTIS–COUR LILLE, La torture judiciaire: approches historiques et juridiques, 2 vv., ed. Centre d’Histoire Judiciaire, 2002, pp. 690 ss;

ITALO MEREU, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire: l’Inquisizione come modello di violenza legale, seconda edizione, Milano, 1988;

GAETANO MORONI, Dizionario di erudizione storico–ecclesiastica. Da San Pietro sino ai giorni nostri, Venezia, 1840–1879, vol. 35;

ANTONIO PADOA SCHIOPPA, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età contemporanea, Bologna, 2007;

ADRIANO PROSPERI, Inquisitori e inquisizioni, in ID. (a cura di), L’Inquisizione romana. Letture e ricerche, Roma, 2003;

ADRIANO PROSPERI, L’arsenale degli inquisitori, edito dapprima come saggio introduttivo al catalogodella Mostra della Biblioteca Casanatense, Inquisizione e Indice nei secoli XVI–XVIII, Controversie teologiche dalle raccolte casanatensi, Vigevano, 1998;

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L. VON PASTOR, Storia dei Papi. Dalla fine del Medioevo, Roma, 1942, vol. 6.