La metafora della “Mano invisibile” nel pensiero di Adam Smith
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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVAFACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA
TESI DI LAUREA IN FILOSOFIA
LA METAFORA DELLA “MANO INVISIBILE”NEL PENSIERO DI ADAM SMITH
RELATORE: CH.MO PROF. VINCENZO MILANESI
Rossi Alessandro
matr. 350065/F
ANNO ACCADEMICO 1996 - 1997
INTRODUZIONE...............................................................................................
CAPITOLO PRIMO: LA “MANO INVISIBILE”.................................................
1.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI.........................................................7
1.2 L’ILLUMINISMO SCOZZESE E IL PARADIGMA EPISTEMOLOGICO
NEWTONIANO...........................................................................................11
1.3 ........INTENZIONALITA’ ED AUTOINGANNO. UN CONFRONTO CON
MANDEVILLE........................................................................................23
CAPITOLO SECONDO: LA “MANO INVISIBILE” E IL PROGRESSO
DELLA SCIENZA, DELLA FILOSOFIA E DELLE LINGUE.............................
2.1 I “SAGGI FILOSOFICI”: LA STORIA DELL’ASTRONOMIA.................33
2.2 .....LA FORMAZIONE ORIGINARIA DELLE LINGUE E LE “LEZIONI DI
RETORICA E BELLE LETTERE”...........................................................40
CAPITOLO TERZO: SVOLGIMENTO. LA “MANO INVISIBILE” E IL
PROGRESSO MORALE, GIURIDICO ED ECONOMICO................................
3.1 LA MORALE: GENESI SOCIALE DELLA MORALITA’ ED ECONOMIA
DELLA NATURA........................................................................................51
3.2 IL DIRITTO: LA TEORIA DEI “QUATTRO STADI” DI SVILUPPO
DELLA SOCIETA’ E IL RAPPORTO TRA MODI DI SUSSISTENZA E
LEGISLAZIONE.........................................................................................76
3.3 .............L’ECONOMIA: IL “SISTEMA DELLA LIBERTA’ NATURALE” E
L’ALLOCAZIONE OTTIMALE DELLE RISORSE.......................................
CONCLUSIONE..........................................................................................109
BIBLIOGRAFIA..........................................................................................117
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INTRODUZIONE
L’interpretazione del pensiero smithiano pressoché dominante nel
secolo scorso caratterizzò l’opera di Adam Smith in senso fortemente
dualistico. Alcuni pensatori tedeschi1, infatti, riuscirono ad imporre l’idea che
la Ricchezza delle nazioni rappresentasse un capovolgimento delle tesi
sostenute nella Teoria dei sentimenti morali. Da tale interpretazione derivò la
convinzione errata che Smith, a seguito del suo viaggio in Francia come
precettore del Duca di Buccleuch, e in virtù dell’incontro con Quesnay e con
l’ambiente fisiocratico, avesse abbandonato l’idea che la simpatia fosse il
motivo determinante dell’azione umana per abbracciare con decisione una
teoria egoistica dell’agire individuale. La scoperta e la successiva
pubblicazione nel 1937 dell’Abbozzo della Ricchezza delle nazioni, da parte
di W. R. Scott2, costrinse gli interpreti di Smith ad una radicale revisione di
tale idea.
Sembra certo, infatti, che la composizione dell’Abbozzo avvenne nel
1763, cioè prima della partenza di Smith per la Francia, e dunque, poiché
esso contiene in forma sintetica molti temi sviluppati in seguito nella
Ricchezza delle nazioni, divenne molto più difficile sostenere che l’incontro
con i fisiocratici avrebbe causato un autentico capovolgimento nel pensiero
1 Fra essi soprattutto: B. HILDEBRAND, Die Nationaloekönomie der Gegenwart und Zukunft, Literarische Anstalt, Frankfurt, 1848; K. G. A. KNIES, Die Politische Oekönomie von Standpunkte der geschichtlichen Methode, Schwetschke, Braunschweig 1853; W. VON SKARZYNSKI, Adam Smith als Moralphilosoph und Schöepfer der Nationaloekönomie, Grïeben, Berlin 1878. Tali autori sono citati da L. BAGOLINI in La simpatia nella morale e nel diritto. Aspetti del pensiero di Adam Smith e orientamenti attuali, Giappichelli, Torino 1966, dove è presente anche un approccio critico completo riguardo al cosiddetto “Adam Smith problem”, pp. 131 ss.2 W. R. SCOTT, Adam Smith as student and professor, JACKSON, Glasgow 1937.
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smithiano. Gli studi dei maggiori interpreti smithiani di questo secolo hanno
chiarito i presupposti sui quali si fondò l’equivoco di un Adam Smith problem.
La presunta opposizione fra la simpatia della Teoria dei sentimenti
morali e l’egoismo della Ricchezza delle nazioni nacque per un grave errore
interpretativo nella considerazione della simpatia stessa3. Essa, infatti, non
deve essere intesa come il motivo dell’azione, ma come condizione di
possibilità del giudizio morale, in altre parole, essa non è un valore o un
principio morale, ma la condizione del giudizio morale in quanto giudizio
valutativo4.
Se si eccettuano i casi di Viner e Colletti che, per motivi diversi, hanno
continuato a sostenere il contrasto fra le due maggiori opere smithiane5, è
possibile affermare che, ormai, intorno al carattere unitario dell’opera
smithiana nessuno fra i suoi principali interpreti nutre più dubbi.
La questione che rimane ancora aperta riguarda, invece, quale possa
essere una chiave interpretativa che sia capace di rendere conto di tale unità
senza pregiudicare la comprensione della ricchezza e della varietà di temi
del pensiero smithiano.
3 E’ L. BAGOLINI a sostenere una posizione così decisa nell’opera La simpatia nella morale e nel diritto. Aspetti del pensiero di Adam Smith e orientamenti attuali, Giappichelli, Torino 1966.
4 Su quest’idea c’è un sostanziale accordo fra i maggiori interpreti del pensiero smithiano: oltre a BAGOLINI, op. cit.; RAPHAEL e MACFIE, Introduction, in The Theory of moral sentiments, Oxford 1976, p. XIII; T. D. CAMPBELL, Adam Smith’s science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 98 ss; J. R. LINDGREN, The social philosophy of Adam Smith, Nijhoff, The Hague 1973, p. 25; P. BERLANDA in La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 37 (1982), pp. 39-64. Per un approfondimento cfr. pp. 52 ss.5 Se, infatti, J. Viner (Adam Smith and laissez faire, “Jl. Pol. Econ.”, 1927, p. 216) sostiene che ci sono contrasti inconciliabili fra i due libri, L. Colletti (Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 291) ritiene, invece, che la divergenza fra le due opere smithiane sia dovuta all’incompatibilità fra economia ed etica in questa società.
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La proposta di questa tesi è quella di mostrare come il tema della
“mano invisibile” raccolga e riunisca in un unico filo conduttore l’intero
svolgimento dell’opera smithiana, tanto da rappresentarne la cifra simbolica.
Nonostante la diversità degli argomenti trattati e la sorprendente ampiezza di
interessi dimostrata da Smith nell’arco della sua attività intellettuale, infatti,
sembra possibile rilevare il suo costante ricorso alla concezione secondo cui
il bene pubblico, nelle sue molteplici forme, emerge, in molti casi, come
conseguenza non intenzionale del perseguimento di interessi privati: le
azioni umane, cioè, conseguono fini più ampi di quelli effettivamente
perseguiti.
L’impressione generale, ricavabile dalla lettura delle opere di Smith, è
inequivocabile: le istituzioni sociali non sono il portato della volontà di
qualcuno, ma il risultato spontaneo e non consapevole della cooperazione
degli individui.
Se si pone nella giusta considerazione il fatto che per istituzione
sociale Smith non intende soltanto il mercato, ma anche il patrimonio
scientifico e filosofico di un popolo o di una civiltà, il linguaggio, l’insieme
delle norme morali e giuridiche che regolano la convivenza civile e, dunque,
tutti quei fenomeni che, pur non essendo l’effetto della saggezza umana ad
essi orientata, sono conseguenza delle azioni umane, allora, credo sia
indispensabile stabilire come si eserciti l’azione della “mano invisibile”, non
solo riguardo ai processi economici, ma anche rispetto ai processi scientifici,
filosofici, giuridici e morali.
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Le pagine che seguono intendono affrontare il pensiero smithiano
cercando di dimostrare che non solo non è possibile considerare la metafora
della “mano invisibile” come un aspetto marginale o addirittura secondario di
esso6, ma anche che tale immagine è il collante dell’intero sistema
smithiano. Benché tale figura compaia solo due volte lungo tutto l’arco
dell’opera smithiana, non per questo è meno evidente l’interesse continuo di
Smith per tutti i fenomeni che non possono essere spiegati come il risultato
di azioni intenzionali dei singoli individui.
La “mano invisibile” è la rappresentazione simbolica del principio
dell’eterogenesi dei fini e Smith ne ravvisò l’importanza fondamentale per la
comprensione dell’agire umano e delle istituzioni sociali.
6 Macfie ritiene che il contributo più rilevante e originale di Smith risieda nella dottrina dello “spettatore imparziale” e non nella dottrina della “mano invisibile” (The individual in society. Papers on Adam Smith, George Allen & Unwin, London 1967, p. 125). A mio avviso, invece, non è possibile scindere l’una dall’altra.
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1.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI
L’esplicito ricorso alla figura della “mano invisibile” viene fatto da
Smith in due passi contenuti, l’uno nella IV parte della Teoria dei sentimenti
morali dove l’oggetto della trattazione è l’effetto dell’utilità sul sentimento di
approvazione, l’altro, nel IV libro della Ricchezza delle nazioni nel corso della
trattazione dedicata alle limitazioni dell’importazione di merci dall’estero.
Vale la pena di citarli:
“I ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più dei poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani ed insaziabili desideri, essi condividono con i poveri il prodotto di tutte le loro migliorie. Sono condotti da una “mano invisibile” a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie”7.
Ogni individuo che impiega capitale “preferendo sostenere l’industria interna anziché quella straniera, mira soltanto alla sua sicurezza; e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una “mano invisibile” a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Né per la società è sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda realmente promuoverlo”8.
E’ necessario partire dall’osservazione preliminare della metafora
smithiana prima di seguirne il percorso e lo svolgimento concettuale.
Innanzitutto, l’associazione dei due termini è abbastanza curiosa, dal
momento che parlare di “mano” è suggerire più che una presenza, un
intervento; e che qualificare questa mano come “invisibile” è designare
l’intervento che essa suggerisce come occulto. Si pone, quindi, un problema
7 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 375-76.8 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 584.
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circa le modalità di un tale intervento. Precisato che, di tale mano, in Smith,
non c’è che il concetto, le caratteristiche che la “mano invisibile” presenta,
nei passi citati, sono fondamentalmente due.
La prima è che essa non esercita la sua azione su tutti gli individui,
ma soltanto su alcune categorie di essi: i “ricchi” proprietari fondiari nella
Teoria dei sentimenti morali; gli “individui che impiegano il loro capitale” nella
Ricchezza delle nazioni.
La seconda caratteristica riguarda la sua azione vera e propria. La
mano è invisibile non perché non appare materialmente o perché operi
senza lasciare tracce, ma semplicemente perché essa non fa niente. I
“ricchi”, sotto la sua guida, non smettono di assecondare la loro rapacità e di
seguire i loro vani ed insaziabili desideri, così come “gli individui che
impiegano il loro capitale” non smettono di agire seguendo il proprio
guadagno. L’inazione che contraddistingue la “mano invisibile” non è però
senza spiegazioni: essa, infatti, conosce qualcosa che non sanno coloro che
ne veicolano l’intervento e cioè il servizio pubblico promosso dalla loro
ostinazione a perseguire il proprio interesse nonché il beneficio derivante a
tutti dalla loro ignoranza.
Così la sua inazione è giustificata da ciò che sa, e ciò che sa non
deve essere saputo poiché è proprio la cecità dei “ricchi” e dei “possessori di
capitale” che determina i benefici che la società ottiene dalla loro condotta
privata. A questo punto, poiché l’inazione si rivela per ciò che è, una forma di
azione, e poiché l’invisibilità corrisponde ad una cecità (deception), la mano
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da esteriore si fa interiore, e parallelamente da particolare diviene generale9.
Infatti la cecità di cui si tratta, benché faccia riferimento principalmente
ai ricchi, è sì, quella che risulta dalle loro passioni o dalla logica dei loro
possessi, ma è, soprattutto, quella derivante da una percezione limitata della
loro condotta, in base alla quale le azioni si risolverebbero nel loro oggetto
apparente e cosciente. Secondo tale percezione, la condotta dei “ricchi” e
degli “individui che impiegano capitale” non può avere per termine esclusivo
che quello che li guida: il loro proprio interesse. Ma, per quanto privata sia, la
loro condotta non può evitare che essi, come tutti gli altri uomini, non siano
più sottomessi alla natura.
L’avidità che dilata l’orizzonte visivo del ricco, come di qualunque altro
uomo, non può far aumentare allo stesso modo le dimensioni del suo
stomaco10. Inoltre le azioni che l’ambizione suscita per il suo
soddisfacimento, non compromettono affatto la duplice determinazione che
è all’origine delle società umane: da un lato l’incapacità nativa, da cui gli
uomini sono afflitti, di soddisfare autonomamente l’insieme dei loro bisogni
che li fa dipendere gli uni dagli altri; dall’altro, e in conseguenza di ciò, la
capacità di dare una forma giuridica ai rapporti di dipendenza che li legano,
e di sottomettersi a delle regole che consentono loro, a differenza delle altre
specie animali, di raggrupparsi in società.
Solo gli uomini sono in grado di cooperare attraverso la divisione del
lavoro:
9 Cfr. P. TAIEB, Tours de mains (Adam Smith), “Rev. Synth.”, 1989 (110), pp. 189-203.10 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 273. Ibid., p. 92. Tale argomento risale all’Epistola a Lucilio di Seneca, cfr. A. ZANINI, Adam Smith. Economia, morale, diritto, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 129.
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“Nessuno ha mai visto un cane fare con un altro cane uno scambio leale e deliberato di un osso contro un altro. Nessuno ha mai visto un animale esprimere con gesti e grida naturali: questo è mio, quello è tuo; sono disposto a dare questo per quello”11.
Esseri non auto-sufficienti se paragonati agli altri esseri animali, gli
uomini sono felicemente esseri di ragione, di linguaggio, di diritto e, come
tali, degli esseri sociali. Così, le società umane, conformemente alla mutua
dipendenza nella quale, per natura, gli uomini sono legati tra loro e che fa sì
che esse esistano, sono costruite sul principio che ogni uomo non può
realizzare i propri scopi che attraverso la mediazione degli altri.
Così, se voglio ricevere, devo essere disposto a donare qualcosa:
l’evidente significato di ogni offerta è che tu mi dia quella cosa di cui ho
bisogno così avrai in cambio questa di cui hai bisogno.
Riassumendo, dunque, i “ricchi” non possono soddisfare i loro vani ed
insaziabili bisogni, e gli “individui che impiegano il capitale” non possono
rinnovarne il valore, senza far ricorso all’industria degli altri e senza
contribuire all’industria generale. Sotto questo aspetto il suggerimento
smithiano circa la presenza di una “mano invisibile” non fa che sottolineare
la dipendenza naturale degli uomini tra loro che si trasmette sulle società
che essi costituiscono. La “mano invisibile” è la rappresentazione metaforica
del principio dell’eterogenesi dei fini che spiega il prevalere dell’ordine della
natura e della società sul disordine e sul caos.
Chiarito il senso della metafora come rappresentazione dell’invisibile
vincolo sociale che lega tra loro gli uomini, anche i più potenti ed egoisti,
11 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 92.
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resta ancora da chiarire il motivo di un’immagine che Smith stesso ci dice
essere segno di una difficoltà della ragione, della sua sorpresa.
1.2 L’ILLUMINISMO SCOZZESE E IL PARADIGMA EPISTEMOLOGICO
NEWTONIANO
Nella “Storia dell’astronomia”12 Smith caratterizza il “pensiero
filosofico” in opposizione al “pensiero primitivo”; il primo ha la caratteristica di
integrare le irregolarità che si producono negli orizzonti del mondo
ricostituendo razionalmente il sistema d’insieme, mentre il secondo è spinto
a rigettare nell’irrazionale tutto ciò che lo confonde e ad attribuire al disegno
di agenti soprannaturali tali irregolarità. Questo sarebbe, per Smith, il senso
dell’attribuzione degli avvenimenti cosmici capaci di suscitare terrore o
venerazione alla “mano invisibile di Giove” secondo i “primitivi”:
“Si può infatti osservare che in tutte le religioni politeistiche, sia presso i selvaggi che nei primi tempi dell’antichità pagana, i fenomeni irregolari della natura sono ascritti al potere dei loro dei. Il fuoco brucia, i corpi pesanti cadono e le sostanze più leggere volano verso l’alto a causa della necessità della loro natura, e non si ritenne mai di utilizzare la “mano invisibile” di Giove per queste faccende. Ma i tuoni e i fulmini, le tempeste e la luce del Sole, fenomeni più irregolari, furono ascritti al suo favore o alla sua ira”13.
Credo sia importante sottolineare che, nonostante la “mano invisibile”
nei contesti precedentemente osservati della “Teoria” e della “Ricchezza”
possa avere la stessa funzione della “mano invisibile di Giove”, rispetto
12 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 51-117.13 Ibid., p. 67.
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all’esigenza di spiegare fenomeni inaspettati, essa non la compie nello
stesso modo.
I suoi interventi non sono più associati, infatti, come facevano gli
antichi, agli eventi che turbano l’ordine, ma, piuttosto, all’ordine nascosto
sempre presente anche là dove sembra esserci disordine. Fra le due
immagini si pone, dunque, un cambiamento fondamentale nel modo di porsi
dell’uomo di fronte alla Natura: l’uomo “primitivo” attribuisce la causa dei
fenomeni che ritiene irregolari ad un’intelligenza che opererebbe contro la
legge e la regola, l’uomo “moderno”, invece, forte della lezione della scienza
galileiano-newtoniana, sa che non esistono fenomeni che si possano dire
irregolari poiché la natura tiene tutto insieme in una medesima catena
invisibile.
Ciò che meraviglia l’uomo “moderno”, dunque, non è più il disordine,
ma lo spettacolo che la natura offre nel suo insieme, il suo ordine.
Così, il soprannaturale non è più pensato ad immagine e somiglianza
degli uomini che agiscono per arrestare, contrastare e cambiare il corso
delle cose, ma viene riferito ad un ente che agisce in un modo diverso dal
loro14.
Macfie fa notare come non sia fortuito che Smith in quest’occasione parli
della mano di Giove e non della mano del dio cristiano cui allude quando usa
la metafora negli altri due casi15. Il passo sopra citato può essere inteso,
quindi, solo in connessione con la considerazione che quando la legge,
finalmente, istituisce l’ordine della società “la curiosità degli uomini si
14 Cfr. A. L. MACFIE, The invisible hand of Jupiter, “J. Hist. Ideas”, 1971 (32), 595-9.15 Ibidem.
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accresce e le loro paure diminuiscono”, essi sono più attenti ai fenomeni
della natura e alla catena che li tiene uniti e sono meno propensi ad
ipotizzare l’intervento di quegli esseri invisibili creati dall’ignoranza dei loro
rozzi antenati16. E’ allora la mentalità primitiva che, di fronte a fenomeni
irregolari quali comete, eclissi, tuoni, fulmini e altri ancora, per coprire
l’incapacità di offrire risposte adeguate crea il mito del dio capriccioso che li
causerebbe. L’ingenuità di questa spiegazione non consiste, però, nel fare
ricorso a un’intenzionalità più grande dei singoli uomini, poiché è lo stesso
Smith ad ammetterne l’esistenza e l’operatività, ma nel pensare che tale
intenzionalità agisca, dall’esterno, creando disordine e irregolarità piuttosto
che armonia.
Il dato emergente da tale confronto è che la spiegazione dei
fenomeni, anche di quelli a prima vista irregolari, va cercata dentro la loro
connessione causale, ed è confermato dall’atteggiamento critico assunto da
Smith nei confronti delle spiegazioni ad hoc. L’approccio empiristico
smithiano enfatizza sempre i fatti e l’esperienza, e tende a un’indagine della
“natura interna” dei fenomeni17.
Egli rifiuta il ruolo dell’ingegnere che disegna ciò che ha in mente, e accetta
piuttosto quello di “meccanico illuminato” che dedica la sua attenzione alla
comprensione di come le parti della natura si combinano insieme18.
16 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 68.17 Smith stesso dice della sua filosofia morale: “ Si consideri inoltre che la presente ricerca non riguarda una questione di diritto, se così posso esprimermi, ma una questione di fatto”. Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 196.18 Cfr. M. L. MYERS, Adam Smith as critic of ideas, “ Jl. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 281-96.
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E’ molto importante, a questo punto, sottolineare l’influenza del
pensiero di Newton su quello del Nostro autore, e non solo per il tema della
“mano invisibile”, appena visto.
Diversi studi hanno sottolineato il grande fermento, oltre che
economico, anche religioso e culturale della Scozia dei primi del
Settecento19. Le università, in particolare, e i vivaci Clubs che esse
alimentarono, si aprirono alle novità provenienti dalla filosofia sperimentale e
ciò consentì che al loro interno le idee di Newton si diffondessero prima che
nelle stesse università inglesi. Smith fu borsista al Balliol College di Oxford
dal 1740 al 1746, dopo gli studi a Glasgow, e poté constatare personalmente
come a causa del sistema amministrativo dell’università inglese la maggior
parte dei professori avesse, da molti anni, completamente abbandonato
anche l’apparenza di insegnare20.
Innanzitutto, il tentativo smithiano di scoprire i meccanismi sottostanti
allo sviluppo ed al progresso della conoscenza, della morale, della ricchezza
nonché del diritto e della società nel suo insieme, deve moltissimo
all’esempio trionfale di Newton nella scoperta delle leggi del moto. John
Millar, che seguì le lezioni di filosofia morale di Smith nel 1751-52 a
Edinburgo e che fu suo collega in seguito a Glasgow, scrisse in “Historical
View of the English Government” che la vita intellettuale universitaria
scozzese era alimentata in grande misura dagli scritti di Bacone e Newton e
che se Montesquieu poteva essere considerato una sorta di “Lord Bacon”
19 Si vedano in particolare: F. RESTAINO, Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid, LATERZA, Roma-Bari 1974, e R. H. CAMPBELL-A. S. SKINNER, Adam Smith, Croom Helm, London 1982.20 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 931.
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riguardo alla scienza della legislazione, di questo ramo della filosofia Adam
Smith meritava l’appellativo di “Newton”21.
D’altra parte, non si può sottovalutare l’interesse giovanile di Smith
proprio per lo studio dell’astronomia e per la sua storia.
“La storia dell’astronomia” che fa parte di una raccolta di saggi
pubblicati postumi nel 1795, è inserita all’interno del saggio dal titolo “I
principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”22, e diventa, nelle mani
di Smith, l’occasione per illustrare sistematicamente i fondamenti stessi del
progresso scientifico. I “Saggi filosofici” nel loro insieme, poi, benché nei
contenuti siano eccentrici rispetto al complesso dell’opera smitiana,
anticipano e chiariscono il metodo che sarà alla base delle analisi
successive, e sono una sorta di definizione degli strumenti metodologici che
Smith applicherà al mondo morale. Un preciso riferimento di Smith al proprio
“newtonianesimo”23 lo si può riscontrare nella sezione delle “Lezioni di
retorica e belle lettere” dedicata al discorso scientifico-didattico dove Smith
afferma che:
”Nella filosofia naturale o in qualsiasi altra scienza di questo tipo, noi possiamo o esaminare attentamente, come Aristotele, i vari rami della Scienza nell’ordine in cui accade che ci si presentino, attribuendo un principio, di solito un nuovo principio, ad ogni fenomeno; oppure, secondo il metodo di Isacco Newton, possiamo anticipare determinati principi, originari o già dimostrati, e a partire da essi descrivere i vari fenomeni, collegandoli tutti con la medesima catena. Quest’ultimo, che possiamo chiamare il metodo newtoniano, è senza dubbio il più filosofico e, in ogni scienza, sia nella morale sia nella filosofia naturale ecc., è di gran lunga il più ingegnoso e per tale ragione più seducente dell’altro. Esso ci offre il piacere di vedere quei fenomeni che consideriamo i più inspiegabili, tutti dedotti da alcuni princìpi (di
21Cfr. R. H. CAMPBELL-A. S. SKINNER, Adam Smith, Croom Helm, London 1982.22 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 51-139.23 Si vedano a proposito del “newtonianesimo” di Smith: E. LECALDANO, in Paradigmi di analisi della filosofia morale nell’illuminismo scozzese, pp. 13-35 e S. CREMASCHI, in L’illuminismo scozzese e il newtonianesimo morale, pp. 41-76, in Passioni, interessi, convenzioni, Franco Angeli, Milano 1992; inoltre, cfr. S. MOSCOVICI, in A propos de quelques travaux d’Adam Smith sur l’histoire et la philosophie des sciences, “Rev. Hist. Sc.”, 1956 (9), pp. 1-20.
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solito da un principio ben conosciuto) e tutti uniti in una catena; piacere che è di gran lunga superiore a quello che proviamo dal metodo sconnesso dove ogni cosa viene spiegata separatamente senza alcun riferimento alle altre” 24.
Qui è assai significativo l’intento programmatico di fare uso ed
applicare il metodo scientifico anche alla sfera delle scienze umane. Non
stupisce, dunque, che Smith abbia preso a modello la concezione della
natura di Newton quando rappresentò la società come un insieme di
individui spinti dal proprio interesse personale all’interno di un ordine
economico governato dalle leggi della domanda e dell’offerta25.
L’influenza determinante che Newton ebbe su Smith, del resto, va
estesa a tutto il pensiero dell’illuminismo scozzese, che non sarebbe
pensabile senza un riferimento preciso al grande scienziato. E’ possibile,
infatti, osservare una sorta di progressione graduale, lo sviluppo di un
“paradigma epistemologico” newtoniano che a partire da Francis Hutcheson
attraverso l’opera di David Hume si compie proprio con Adam Smith26.
Quest’ultimo considera teorie e sistemi, sia scientifici che morali o più in
genere sociali, come delle “macchine immaginarie” tra cui si istituisce un
confronto nel tentativo di migliorarle, cioè di renderle adatte a descrivere un
sempre più ampio spettro di fenomeni.
Attraverso l’osservazione di un grande numero di “casi” egli ritiene si possa
giungere, induttivamente, alla formulazione di princìpi di carattere universale,
di cui verificare la tenuta attraverso il continuo confronto con i fenomeni
24 A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi, Urbino 1985, p. 423.25 Cfr. J. C. GREENE, Darwin and the modern world view, Baton Rouge, 1961, p. 88, citato da N. S. HETHERINGTON, Isaac Newton’s influence on Adam Smith’s natural law in economics, “J. Hist. Ideas”, 1983 (44), p. 499.26 Tale proposta è avanzata da E. LECALDANO, in Paradigmi di analisi della filosofia morale nell’illuminismo scozzese, in Passioni, interessi, convenzioni, Milano, Franco Angeli, pp. 13-35.
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dell’esperienza. Si può osservare, qui di seguito, come sulla scorta del
metodo di Newton, Smith scarti posizioni tipiche rispettivamente di Hume e
Hutcheson.
Smith supera il concetto humiano di giustizia “artificiale” poiché
concepisce la teoria del “processo valutativo simpatetico” come condizione
della stessa costituzione dell’obbligo; in altre parole, definendo la giustizia in
funzione dell’ingiustizia e questa in relazione col risentimento che essa
suscita e che giustifica la pena, non c’è bisogno di fare ricorso all’artificio del
Governo civile27. Far dipendere la giustizia dal governo civile, come fa Hume,
comporta, infatti, l’introduzione di un principio nuovo per spiegare un
fenomeno nuovo e quindi una deroga rispetto al metodo corretto, quello
newtoniano.
In tal senso Smith opera un ribaltamento della posizione di Hume poiché il
governo civile diviene l’effetto, l’espressione istituzionale, per così dire, di
una giustizia comunque emergente dalla dinamica del processo di
valutazione simpatetica. In base al principio esposto da Smith nel passo
sopra citato, Hume, in questo caso, sarebbe più aristotelico che newtoniano.
L’altro esempio ci fa risalire direttamente alla Teoria dei sentimenti
morali e precisamente alla parte dedicata alla trattazione dei sistemi di
filosofia morale. Mentre secondo Hutcheson il principio di approvazione è
fondato su un sentimento di natura peculiare che prende il nome di “senso
morale”, Smith afferma che per dare conto del principio di approvazione non
c’è motivo di supporre un nuovo potere di percezione di cui non si è mai
27 Si veda per questa interpretazione L. BAGOLINI, in David Hume e Adam Smith. Elementi per una ricerca di filosofia giuridica e politica, Pàtron 1976.
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sentito parlare prima. La Natura qui, come in tutti gli altri casi, agisce
secondo la più rigorosa economia, e produce una moltitudine di effetti da
una e unica causa, e la simpatia, un potere che è stato messo in rilievo da
sempre, e di cui la mente è evidentemente dotata, è sufficiente a dar conto
di tutti gli effetti attribuiti a questa facoltà peculiare28. Anche qui, come nel
caso precedente, si vede bene come Smith ritenga corretto il metodo che, a
partire da determinati principi, cerchi di comprendere tutti i fenomeni in una
medesima “catena” di connessioni causali, evitando il ricorso, artificioso, a
principi nuovi: la simpatia spiega l’intero universo morale.
L’accenno all’economia della natura, d’altra parte, è particolarmente
illuminante poiché ci riporta immediatamente al terzo libro dei “Principia” di
Newton, vale a dire al luogo dove l’astronomo inglese enunciando le regole
del ragionamento filosofico ci lascia intravedere quelli che sono i presupposti
ontologici della sua concezione dell’universo: semplicità e uniformità della
natura. Così, le “macchine immaginarie” (in questo modo Smith chiama le
teorie scientifiche) per essere specchio della Natura debbono essere quanto
più è possibile semplici, uniformi e coerenti al loro interno, poiché descrivere
tutti i fenomeni a partire da determinati principi è il sistema, come abbiamo
visto, più filosofico.
Va precisato, comunque, che la tradizione di newtonianesimo
rilevabile nei filosofi dell’illuminismo scozzese presenta elementi di
discontinuità nei confronti dello stesso Newton. Ciò si deve, da un lato, alle
licenze che i singoli autori stessi si presero rispetto al modello di riferimento:
28 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 605.
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Hume, per esempio, non accolse la validità dello argument from design
come fondamento di una teologia razionale. Dall’altro lato, le difficoltà di
applicazione del metodo della filosofia naturale all’ambito delle scienze
umane, e soprattutto l’impossibilità dell’esperimento scientifico, giocarono un
ruolo importante nell’allontanamento degli “allievi moralisti” dal “maestro
scienziato”.
In particolare, riguardo al problema dell’esperimento, Smith trovò una via
d’uscita attraverso il “metodo storico” e attraverso ciò che Dugald Stewart
definì “storia congetturale”29, che gli rese possibile l’estensione del principio
dell’analogia della natura al mondo storico30.
Gli insegnamenti e le indicazioni fondamentali che Smith, insieme a
Hume, trasse dalla lezione metodologica di Newton, vanno comunque estesi
al concetto di “principio”.
Le particolarità di “principi” di comportamento come la propensione
allo scambio o il desiderio di migliorare la propria condizione31 (ma anche del
meccanismo impersonale di gravitazione dei prezzi di mercato intorno al
prezzo naturale) sono secondo Smith principalmente due: il loro carattere
non ultimo e il loro rapporto di causa-effetto con i fenomeni32. Riguardo al
primo punto, Smith sottolinea che anche se tali “principi” sono osservabili
come costanti del comportamento umano o del meccanismo sociale, essi
29 D. STEWART, Account of the life and writings of Adam Smith, in Essays on philosophical subjects, Oxford 1981.30 Sul concetto di storia teoretica o congetturale, cfr. A. M. IACONO, L’idea di “storia teoretica o congetturale” negli scritti filosofici e sul linguaggio di Adam Smith, “Teoria”, 1989 (9), pp. 113-33.31A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 91 e p. 463.32 Si veda: N. S. HETHERINGTON, Isaac Newton’s influence on Adam Smith’s natural law in economics, “Jl. Hist. Ideas”, 1983 (44), pp. 497-505.
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vanno tenuti rigorosamente distinti dalle “qualità originali” della natura, sulle
quali non ritiene di poter dare indicazioni ultime. Circa il secondo punto egli
sottolinea che il “fenomeno“ della divisione del lavoro, da un lato, è un effetto
della propensione umana allo scambio, dall’altro, è causa della differenza di
ingegno fra gli uomini33.
Non si possono concludere queste brevi pagine dedicate
specificamente al debito teoretico di Smith nei confronti di Newton, senza
aver ricordato che nella “Storia dell’astronomia” l’impianto empiristico e
sperimentale della sua filosofia è confermato dall’osservazione che mentre
stava “tentando di rappresentare tutti i sistemi filosofici come semplici
invenzioni dell’immaginazione”, egli era stato trascinato insensibilmente a
parlarne “come se essi fossero le catene reali che la natura utilizza per
collegare le sue molteplici operazioni” 34. I limiti della conoscenza, e delle sue
costruzioni teoriche impongono di considerare le “macchine immaginarie”
come descrizioni della realtà e, quanto alle cause ultime, dovrebbe valere il
proposito galileiano di “non tentar l’essenza”.
Jacob Viner, comunque, enfatizzando il rilievo fatto da Smith sulla
distinzione fra “macchine immaginarie” e “catene reali”, ha rilevato che la
filosofia non potrebbe essere scienza dei principi connettivi della natura se
tali principi fossero semplicemente contenuti mentali. Egli ritiene che tale
ambiguità sia superata nella Teoria dei sentimenti morali e nella Ricchezza
33 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 647-48.34 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p.117.
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delle nazioni attraverso il ricorso alla fede deistica e alla credenza che
l’universo di Dio debba essere necessariamente ordinato e sistematico35.
Si deve ammettere, tuttavia, che tale ambiguità può essere dovuta al
tentativo smithiano di rompere con i parametri cartesiani di chiarezza e
distinzione delle idee attraverso l’accettazione del ruolo attivo
dell’immaginazione nella costituzione dell’esperienza.
E’ possibile, comunque, dare risposta al rilievo del Viner, e di tutti gli
interpreti che considerano il pensiero smithiano fortemente scettico circa le
possibilità della conoscenza umana, osservando da vicino la distinzione
operata dallo stesso Smith fra i sistemi di filosofia naturale e quelli di filosofia
morale36. Mentre, infatti, i primi possono più facilmente trovare generale
accoglienza nel mondo, come avvenne per la teoria dei vortici di Descartes,
anche se non hanno alcun fondamento nella natura, né alcuna somiglianza
con la verità, per i secondi le cose stanno diversamente, poiché è molto più
difficile che ci inganniamo sui nostri sentimenti morali. Così, se è possibile
che sistemi di filosofia naturale non veri siano accettati, ciò accade solo
perché, da un lato essi non ci toccano da vicino e, dunque, più difficilmente
possiamo avvertirne la falsità, dall’altro perché richiede più tempo la loro
verifica empirica37.
35Cfr. J. VINER, The intellectual history of laissez faire, “Jl. of Law and Economics”, 1960, pp. 45-69. Cfr., inoltre, A. D. MEGILL, Theory and experience in Adam Smith, “Jl. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 281-96.36 Per tale questione si consultino S. CREMASCHI, Il sistema della ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith, Angeli, Milano 1984 e F. BRUNI, La nozione di lavoro in Adam Smith, “Riv. Fil. Neoscol.”, 1987 (79), pp. 67-95.37 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 591.
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1.3 INTENZIONALITA’ ED AUTOINGANNO. UN CONFRONTO CON
MANDEVILLE
Dopo aver cercato di descrivere e definire il significato della metafora
adottata da Smith, credo convenga chiarirne alcuni aspetti evidenziando i
limiti entro i quali essa deve essere intesa.
Il fraintendimento più frequente della “mano invisibile” si deve in gran
parte all’identificazione dei due diversi significati di essa che abbiamo
incontrato. La sottovalutazione della distanza che li separa, dovuta, come si
è visto, al radicale cambiamento del costume scientifico umano che
intercorre fra “antichi” e “moderni”, porta ad uno schiacciamento della “mano
invisibile” sulla “mano invisibile di Giove”. Si finisce, in tal modo, con
l’attribuire a Smith lo stesso atteggiamento nei confronti delle irregolarità che
egli vide essere proprio degli “antichi” e che descrisse in contrapposizione al
metodo di spiegazione da lui adottato. Due aspetti possono, dunque,
emergere in seguito a questa confusione: da un lato la convinzione che
Smith, per così dire, ammetta l’esistenza di una discontinuità tra l’agire
individuale e i risultati collettivi, la quale richiederebbe l’intervento regolatore
della “mano invisibile”; dall’altro che sia proprio la necessità di una
sovraintenzionalità regolatrice a denunciare implicitamente l’irregolarità dei
fenomeni su cui è costretta ad intervenire38. Giova ripetere che le
argomentazioni sopra esposte circa la funzione e le modalità di azione della
38 Si veda per queste tesi: A. M. IACONO, Adam Smith e la metafora della “mano invisibile”, “Teoria”, 5 (1985), pp. 77-94.
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“mano invisibile”, sottolineano che dove un “antico” vedrebbe discontinuità e
irregolarità Smith vede il dispiegarsi di legge e regolarità.
Sembra evidente, ad ogni modo, in questa visione, l’esplicito
riferimento alla filosofia stoica che, però, Smith accoglie con forti riserve
assai significative per la comprensione dell’effettivo ruolo della “mano
invisibile” nel suo pensiero39. Gli antichi stoici, infatti, ritenevano che, poiché
il mondo è governato dalla provvidenza onnipotente di un dio saggio e
buono, ogni singolo evento dovesse essere considerato come parte
necessaria dell’universo che tende a promuovere l’ordine e la felicità
generale del tutto, e che, quindi, tanto i vizi e le follie quanto la saggezza e la
virtù dell’uomo giocassero un ruolo necessario nell’economia di un tale
disegno e conducessero alla perfezione del sistema della natura. Ebbene,
Smith, benché affascinato, dice inequivocabilmente che “nessuna
speculazione di questo tipo, per quanto profondamente radicata nella mente,
potrebbe indebolire la nostra naturale ripugnanza per il vizio”40. Smith,
dunque, riconosce come un bene il fatto che la natura si imponga su di noi
facendoci vedere i piaceri della ricchezza e del lusso come qualcosa per cui
valga la pena impegnarsi e che attraverso tale inganno ci guidi al
raggiungimento di scopi più ampi di quelli che consapevolmente cerchiamo
di perseguire, (anche se il vagabondo che si crogiola al sole gode della pace
e della tranquillità per cui i principi della terra combattono e si dannano), ma
rifiuta l’idea degli Stoici secondo cui vizi e virtù, allo stesso modo,
contribuirebbero alla perfezione della natura. Quanto detto, però, non basta,
39 Cfr. G. VIVENZA, Adam Smith e la cultura classica, IPEM Edizioni, Pisa 1984, pp. 75 ss.40 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995; p.127.
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poiché non è soltanto una ripugnanza di carattere morale a spingere Smith
al rifiuto della posizione stoica, ma anche un convincimento attinente proprio
alla considerazione della perfezione della natura: egli non ritiene affatto che
anche i vizi contribuiscano alla sua realizzazione.
La radicalità del rifiuto di quest’idea è ravvisabile nell’opposizione al
sistema mandevilliano che sembra cancellare la distinzione tra virtù e vizio
appoggiando l’idea che il pubblico bene sia fondato sul vizio privato. Ebbene,
Smith confuta l’impostazione dell’olandese dimostrando come essa conduca
a conseguenze economiche sbagliate.
Trattando della dottrina mercantilista, cioè della dottrina che individua
la prosperità di una nazione nella disponibilità di moneta e di denaro, Smith,
nelle Lezioni di Glasgow, dice che uno dei suoi effetti negativi è la
convinzione relativa alla spesa estera e a quella interna41. Il necessario
corollario di questa premessa era, infatti, che nessuna spesa all’interno
potesse diminuire la ricchezza pubblica o nazionale. Da ciò Mandeville
concluse che i vizi privati rappresentano pubbliche virtù poiché pensava che
nessun lusso, né lo sperpero maggiore immaginabile, se rivolti a merci di
produzione nazionale, potessero essere minimamente dannosi. Egli
pensava che se si fossero tenute lontane tutte le merci straniere, ciascuno
avrebbe potuto spendere quanto gli pareva e la nazione sarebbe rimasta
ricca come prima, in quanto la moneta non veniva mandata all’estero ma
restava in patria.
41 Cfr. A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 504-505.
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La replica di Smith si rivolge prevalentemente, almeno in questa sede,
contro le considerazioni economiche mandevilliane notando come chiunque
sperperi il suo capitale diminuisca necessariamente, in proporzione, la
prosperità del proprio Paese. Infatti, sebbene la quantità di moneta resti
invariata, non altrettanto si può dire del capitale. “Se possiedo mille sterline e
le spendo tutte in sperperi, vi sono ancora mille sterline nel regno, ma vi
sono mille sterline in meno di capitale”42.
Come si vede, qui entrano in gioco le nozioni contrapposte di spesa,
cioè, quella orientata ai beni durevoli e quella orientata ai beni deperibili.
Orbene, più la spesa si rivolge ai primi e più la magnificenza di un individuo
come di una nazione aumentano, dal momento che la spesa di ogni giorno
contribuisce a sostenere e ad accrescere l’effetto di quella del giorno dopo43,
ma ciò che più conta è che “la spesa erogata in beni durevoli mantiene
normalmente un maggior numero di persone di quella erogata nella più
profusa ospitalità”44. E’ alla luce di queste riflessioni che mi sembra prendere
corpo la corretta interpretazione della “mano invisibile”: chi impiega un
capitale in una qualsiasi attività, secondo Smith, pur essendo mosso da un
desiderio tutto particolare e personale, estende i benefici del proprio
investimento a persone produttive, aumentando così il valore di scambio del
prodotto annuale del suo paese. L’aumento della prosperità, la distribuzione
equa delle risorse, lo sviluppo e il beneficio pubblico sono promossi dalla
oculatezza degli investimenti, dalla parsimonia e dal lavoro produttivo
42 Ibid., p. 505.43 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 470.44 Ibid., p. 471.
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motivato dalla volontà di migliorare la propria condizione personale, non da
qualsiasi forma di egoismo vizioso che, misteriosamente, grazie
all’intervento, in tal caso, sì, magico, di una “mano invisibile” porterebbe alla
promozione del bene comune. L’azione della “mano invisibile“ è pensabile in
un sistema non soltanto economico, ma soprattutto in un sistema morale,
senza il quale essa non potrebbe svolgersi. Tale sistema, descritto da Smith,
è un ordine di mercato libero, regolato da norme astratte, all’interno del
quale ognuno può muoversi perseguendo vantaggiosamente i propri fini ed è
il risultato di un lungo processo storico.
Si è detto del rifiuto da parte di Smith delle conseguenze economiche
della identificazione operata da Mandeville fra vizi privati e pubbliche virtù; a
ciò va aggiunto il rifiuto dei presupposti morali di tale identificazione.
Smith attribuisce alla malignità l’atteggiamento mandevilliano, che riconduce
all’amore per la lode o per la vanità tutte le azioni che invece dovrebbero
essere fatte risalire all’amore per l’essere degni di lode45.
Infatti, il desiderio di compiere nobili azioni o di essere oggetti appropriati di
stima non può essere considerato vanità, come, del resto, il desiderio di
acquistare fama e onori per qualcosa che ne sia davvero degno. Né l’amore
per la virtù, né l’amore per la gloria, benché quest’ultimo sia di grado
inferiore al primo, possono, dunque, essere confusi con il vizio46. Comunque,
dal momento che non è possibile che un sistema di filosofia morale possa
venire in qualche modo accettato senza che, al suo interno, ci sia un
45 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 279-280.46 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 584.
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qualche fondamento di verità, Smith riconosce che almeno alcune parti del
sistema di Mandeville devono essere esatte.
Macfie ha sottolineato come la fonte del concetto smithiano dello
sviluppo economico, basato sulla concorrenza degli interessi individuali e
sulla divisione del lavoro, non può non aver tratto ispirazione dalla Favola
delle api47; Viner ha osservato che la formula “vizi privati, pubbliche virtù” è
deliberatamente provocatoria e offensiva nei confronti del comune senso
morale, ma, se sotto questo riguardo è stata rifiutata da Smith, nel concetto
essa fu pienamente accolta48. Proprio la metafora della “mano invisibile”
dovrebbe esprimerne il senso: ”La formula di Mandeville appare
un’anticipazione della teoria della ‘mano invisibile’ di Smith: un richiamo a
quell’opera della Provvidenza (evocata più volte nella Teoria dei sentimenti
morali e nella Ricchezza delle nazioni), che, dal caos degli interessi privati in
lotta tra loro, fa scaturire, come per miracolo, l’armonia generale”49. La
stessa opinione, senza allusioni a miracoli e armonie, è espressa da
Heilbroner secondo cui il paradosso mandevilliano rimarrebbe irrisolto nel
pensiero di Smith50. Già Marx, del resto, rilevò ne “Il capitale” che il celebre
passo della Ricchezza delle nazioni, in cui Smith descrive quanti lavori
collaborino alla soddisfazione dei bisogni di un operaio in un paese civile,
era tratto quasi letteralmente dalla difesa di Mandeville dagli attacchi alla sua
Favola delle api. Prima di lui Kant scrisse: “C’è da sperare che, via via che
47 Cfr. A. L. MACFIE, The individual in society. Papers on Adam Smith, George Allen & Unwin, London 1967, p.116.48 J. VINER, Adam Smith and laissez faire, “Jl. Pol. Econ.”, 1927, pp. 198-232.49 L. COLLETTI, Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 281.50 R. L. HEILBRONER, The socialization of the individual in Adam Smith, “Hist. Pol. Econ.”, 1982 (14), pp. 427-39.
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gli uomini progrediranno nelle arti e nelle scienze che tendono a soddisfare i
loro bisogni pubblici e privati, troveranno che, quanto più efficaci sono i
mezzi per procurarsi l’utile proprio, tanto più essi concordano con la morale,
con i doveri reciproci e con la finalità generale della provvidenza di rendere
felici tutte le creature: già oggi la filosofia ha purgato la scienza
dell’economia e delle finanze da alcuni pregiudizi dannosi all’umanità,
dimostrando essere inutile e dannoso per lo Stato ciò che un tempo si
considerava e si raccomandava come un guadagno da perseguire a spese
degli stranieri”51. Se la prima parte del passo si riferisce esplicitamente alla
morale dell’Apologo delle api, la seconda fa riferimento alle critiche rivolte da
Smith al sistema mercantilistico nel IV libro della Ricchezza delle nazioni,
che Kant aveva letto, ed è quindi significativo che egli unisca in una sola
considerazione i due autori52. Schumpeter, infine, sostiene che se Mandeville
rappresentò nel migliore dei modi la funzione sociale assolta dall’interesse
individuale nel campo economico, egli non fu il solo a formulare un tale
concetto e più di un argomento dimostra l’influsso che egli ebbe su Smith53.
In conclusione, quindi, sembra che la differenza tra Smith e
Mandeville si possa definire in questo modo: mentre Mandeville
provocatoriamente, contro l’ipocrisia e la bigotteria puritane, considera
viziosa ogni azione rivolta all’interesse personale, Smith considera tale
attività virtuosa se contenuta nei limiti di justice e propriety.
51 I. KANT, Sul rapporto della morale con la politica, in Scritti politici a cura di a cura di N. BOBBIO, L. FIRPO, V. MATHIEU, UTET, Torino 1965, p. 658.52 Trattando del denaro ne La dottrina generale del diritto, Kant illustra la concezione smithiana della moneta. In Scritti politici a cura di a cura di N. BOBBIO, L. FIRPO, V. MATHIEU, UTET, Torino 1965, p. 473.53 J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972.
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Una tale impostazione, del resto, è confermata dalla presenza, nel
pensiero smithiano, di due concetti di moralità, che fanno riferimento, l’uno,
alla virtù nel senso proprio, l’altro alla semplice convenienza e
appropriatezza54.
C’è grande differenza tra virtù e semplice appropriatezza, tra ciò che
merita di essere ammirato e ciò che più semplicemente è oggetto di
approvazione.
Infatti, “non c’è abilità nel grado comune delle qualità intellettuali, e allo stesso modo non c’è virtù nel grado comune di quelle morali. La virtù consiste nell’eccellenza, in qualcosa di grande e bello in modo fuori dal comune, e che si pone ben al di là del volgare e dell’ordinario”55.
La virtù, dunque, in quanto eccellenza non è da tutti, non è disponibile alla
gente “rozza e volgare”, ma solo ai pochi uomini saggi56. E’ per questo che
abitualmente, nel giudicare se certe azioni, in situazioni particolarmente
impegnative, siano degne di lode o di biasimo, facciamo uso di diversi criteri
di riferimento. Da un lato, cioè, poniamo l’idea della virtù che nessun uomo
ha mai raggiunto o potrà mai raggiungere, dall’altro lato, consideriamo il
grado di vicinanza a quella perfezione cui giungono normalmente le azioni
della maggior parte degli uomini. Chiunque superi quel livello normale e
ordinario, anche se non raggiunge la perfezione, può essere considerato
virtuoso57.
54 Si veda per questo: N. WASZEK, Two concepts of morality. A distinction of Adam Smith’s ethics and its Stoic origin, “J. Hist. of Ideas”, 1984 (45), pp. 591-606.55 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.108.56 La distinzione fra l’elite dei virtuosi e la gente rozza e volgare, con riferimento ai diversi livelli possibili di vita morale, è sottolineata da H. MIZUTA, in Moral philosophy and civil society, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press, 1975, pp. 114-31.57 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.110.
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Il perseguimento dell’interesse personale rispondendo soltanto al
requisito dell’appropriatezza, non può, dunque, essere considerato
moralmente virtuoso, ma non deve nemmeno essere posto fuori dall’attività
morale. In questo senso è ravvisabile una certa affinità tra Smith e
Mandeville.
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2.1 I “SAGGI FILOSOFICI”: LA STORIA DELL’ASTRONOMIA
I “Saggi filosofici”, pubblicati postumi nel 1795, contengono scritti
composti da Smith in periodi diversi della sua vita. Fra essi, quelli più
significativi per la considerazione del tema della “mano invisibile” sono il già
citato saggio sui “Principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”,
redatto fra il 1749 e il 1758, e quello dal titolo “Considerazioni sulla
formazione originaria delle lingue e sul diverso genio delle lingue semplici e
composte” del 1761.
I “Principi” sono articolati in tre parti che, a un diverso livello di
elaborazione, raccontano, rispettivamente, la storia dell’astronomia, la storia
della fisica, e la storia della metafisica antiche. Muovendo dalla convinzione
che la filosofia sia la scienza dei principi connettivi della natura58, Smith si
propone di esaminare i diversi sistemi della natura che, nel mondo
occidentale, sono stati successivamente adottati dai sapienti per descriverla
e, senza considerare la loro assurdità o la loro probabilità, la loro
concordanza con la verità e la realtà, intende accontentarsi di indagare in
che misura ognuno di essi sia idoneo a placare l’immaginazione ed a
rendere il teatro della natura uno spettacolo più coerente e, perciò, più bello
di quanto altrimenti sembri. La parte più significativa dell’intero saggio è
assolta dalla “Storia dell’astronomia” il cui obbiettivo non è tanto quello di
fare un resoconto storiografico, quanto piuttosto di far emergere, attraverso
esso, la natura e i meccanismi del procedere scientifico. Essa è, però,
58 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 63.
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preceduta da due sezioni dedicate all’analisi degli effetti che l’imprevisto, la
sorpresa e la meraviglia per la novità hanno sulla nostra conoscenza.
La filosofia, dunque, costruisce teorie e sistemi della natura, le
“macchine immaginarie” di cui si è detto più sopra, servendosi di principi che
siano in grado di operare connessioni tra i fenomeni, con l’unico obbiettivo di
ristabilire la tranquillità dell’immaginazione turbata dalla meraviglia. La
dinamica psicologica descritta da Smith mostra come, alla sorpresa causata
da un fatto imprevisto, segua la meraviglia, cioè quell’atteggiamento
emozionale dovuto all’impossibilità di ricorrere all’abituale spiegazione dei
fenomeni. A questo punto, l’immaginazione, per superare la situazione di
disagio venuta a crearsi, innesca il meccanismo di costruzione delle teorie il
cui fine è la creazione di un nuovo costume, o sistema associativo, nel quale
essa possa acquietarsi. L’ammirazione, il sentimento che sorge di fronte a
tutto ciò che manifesta i caratteri della grandezza e della bellezza, sancisce
l’accettazione del nuovo sistema e determina l’acquisizione di un rinnovato
equilibrio.
L’esempio portato per descrivere tale processo è quello di un
naturalista che si trovi alle prese con una pianta e un fossile insoliti. Egli non
è sufficientemente soddisfatto dall’averli riconosciuti come appartenenti al
genere delle piante o dei fossili e cerca di farli rientrare in classi nelle quali
possano essere affiancati ad altri oggetti simili in tutto. Se non riesce a
trovare alcuna classe di riferimento, o allarga i confini di qualcuna di esse, o
ne crea una nuova alla quale potersi riferire successivamente. La pianta e il
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fossile insoliti, insomma, se non possono essere classificati secondo schemi
stabiliti, costringono il naturalista a modificarli o a cambiarli.
La stessa cosa avviene:
“Quando un oggetto abituale compare dopo un altro oggetto a cui solitamente non segue, esso dapprima fa nascere, per la sua imprevedibilità, il sentimento della sorpresa, e successivamente, data la stranezza della successione o ordine di comparsa, il sentimento della meraviglia. (....) Quando due oggetti, per quanto dissimili, sono stati spesso osservati succedersi l’uno all’altro, e si sono costantemente presentati ai sensi in quell’ordine, essi vengono collegati cosi strettamente nell’immaginazione che l’idea dell’uno sembra richiamare e presentare spontaneamente quella dell’altro. (....) Ma se questa abituale connessione si interrompe, (....) allora accade il contrario di tutto ciò. L’immaginazione sente di non passare più con la consueta facilità dall’evento precedente a quello susseguente” 59.
In tal modo il ruolo svolto dall’immaginazione è quello di scoprire le
connessioni all’interno delle quali i fatti insoliti possono venire ricondotti,
poiché, se un fenomeno si presenta isolato, Smith sulla scia di Newton
ritiene che ciò sia dovuto solo all’incapacità umana di osservarne il
collegamento con le catene reali delle cose.
Ciò che interessa alla nostra considerazione, comunque, è che il
movente che spinge l’immaginazione a ricercare nuove connessioni, là dove
quelle vecchie non sono più sufficienti a spiegare i fenomeni, è di natura
psicologica. La ragion d’essere della ricerca scientifica, cioè, risiede nella
volontà “pratica” di placare l’immaginazione. Così i filosofi, mentre cercano di
placare la propria immaginazione, sono condotti a promuovere un fine che
non entrava nelle loro intenzioni: il progresso della conoscenza. Ecco
manifestarsi, anche in ambito epistemologico, il concetto della “mano
invisibile”. Come tutti i fenomeni complessi, derivanti dall’attività degli uomini,
anche il discorso scientifico è l’effetto non intenzionale della propensione
umana a migliorare la propria condizione e a rendere più comprensibile e
59 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 58.
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facile la vita. Che il movente della scienza e della filosofia sia di carattere
psicologico, però, non implica che esse non dispongano di strumenti propri e
razionali quali l’esperimento, le ipotesi o le osservazioni controllate, ma anzi
è una conferma del meccanismo degli unintended results. La scienza
procede attraverso la comprensione progressiva dell’ignoto mediante il già
noto, del non abituale mediante ciò che, essendo di quotidiana esperienza,
non desta più sorpresa, ed è possibile perché vi sono “quelle catene
nascoste di eventi che legano tra loro le manifestazioni apparentemente
incoerenti della natura”60.
Tale concezione si spiega meglio ponendo mente al fatto che Smith,
fedele al principio humiano secondo cui “tutte le nostre idee sono copie di
impressioni”61, è convinto che fra conoscenza razionale e conoscenza
sensoriale vi sia soltanto una differenza di grado, non di valore, ed è
consapevole del ruolo giocato dalle abitudini nel meccanismo di costituzione
della credenza. A differenza di Hume, però, egli, come si è visto, sposta la
spiegazione del funzionamento dell’immaginazione agli ambiti in cui essa
deve comprendere fenomeni nuovi che rompono l’equilibrio dell’abituale
“catena connettiva” e che si accompagnano sul piano psicologico a
“sorpresa” e meraviglia”. Tali emozioni rappresentano un momento di crisi e
difficoltà che l’immaginazione cerca di superare, o attraverso l’introduzione
di nuove teorie, o attraverso successive modifiche delle vecchie.
La descrizione del sistema delle sfere concentriche apre la storia
dell’astronomia. Esso fu il primo autentico sistema astronomico che il mondo
60 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 65-6.61 D. HUME, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1993.
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conobbe e che, insegnato inizialmente dai pitagorici, fu adottato con qualche
modifica da Aristotele. L’idea era che il moto delle stelle intorno alla terra
potesse essere spiegato dal movimento di una sfera solida in cui le stelle
fisse fossero incastonate come gemme. Per spiegare il cambiamento di
posizione della Luna e del Sole, rispetto alla sfera delle stelle fisse, si rese
necessaria l’introduzione di altre due sfere concentriche. Ciò che spinse
Aristotele ad aumentare il numero delle sfere concentriche fu l’osservazione
delle piccole irregolarità nei movimenti planetari. Questa teoria resse, cioè
riuscì a suscitare ammirazione e a placare l’immaginazione, fino a quando
essa, complicatasi troppo, fu sostituita dal sistema delle sfere eccentriche e
degli epicicli di Tolomeo. Tale sistema consentì di distinguere tra movimenti
reali e apparenti dei corpi celesti e salvò l’apparenza (a causa della grande
lontananza dei pianeti doveva sembrare che il centro delle loro orbite
coincidesse con quello della Terra) permettendo di giustificare la diversa
velocità dei pianeti stessi. Inoltre il sistema delle piccole sfere o epicicli,
ruotanti lungo la circonferenza delle sfere eccentriche, consentiva di rendere
conto del diverso moto dei pianeti.
Dai sistemi antichi, dopo un breve accenno agli Stoici, Smith giunge
direttamente a descrivere il sistema di Copernico che, oltre a spiegare più di
quanto riuscisse a fare quello tolemaico, aveva il vantaggio di essere anche
più semplice, coerente ed elegante. Esso offriva spiegazioni senza difficoltà
e “come una macchina più semplice, collegava, senza ricorrere agli epicicli e
per mezzo di un minor numero di movimenti, i complessi fenomeni dei
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cieli”62. Comunque, nonostante la sua coerenza e semplicità, esso
inizialmente fu accettato solo da astronomi, e anche fra essi non incontrò
molto favore:
“Infatti anche se lo scopo ordinario della filosofia è quello di dissipare la meraviglia, tuttavia essa non trionfa mai tanto come quando, per collegare pochi oggetti forse in sé insignificanti, essa ha creato, se posso dir così, una nuova costituzione di cose, più naturale in verità, e tale che l’immaginazione possa seguirla più facilmente, ma più nuova, più contraria all’opinione e all’aspettativa comune che non tutti quegli stessi fenomeni”63.
Ciò, del resto, è abbastanza comprensibile perché in un solo colpo la
filosofia di Copernico aveva spostato la Terra dalle sue fondamenta, aveva
fermato la rivoluzione del firmamento e quella del Sole capovolgendo l’intero
ordinamento dell’universo; così essa destava più stupore dei fenomeni stessi
che intendeva spiegare. L’immaginazione, in particolar modo, incontrava
difficoltà soprattutto nel conciliare il movimento dei pianeti con la loro inerzia.
Riferisce Smith che più degli stessi calcoli di Keplero e della scoperta delle
orbite ellittiche dei pianeti intorno al Sole, a favorire l’accoglimento del
sistema copernicano, e ad aprire la strada a quello newtoniano, fu la teoria
dei vortici di Cartesio che, nonostante la sua falsità, fece passare l’idea che
corpi tanto grandi e pesanti come i pianeti potessero muoversi
autonomamente. Il sistema di Newton, con cui Smith chiude il resoconto
sulla storia dell’astronomia, confermò le idee di Copernico e, introducendo
l’idea che la gravità potesse essere il principio connettivo che unisce insieme
i movimenti dei pianeti, diede sistemazione ad un’immagine dell’universo
capace di suscitare ammirazione e di soddisfare il desiderio umano di
calma64.
62 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 88.63 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 90.64 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli , Milano 1984, pp. 90-117.
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Sembra utile sottolineare, a questo punto, il carattere “critico” della
scienza, emergente dalla descrizione e la conseguente provvisorietà della
conoscenza65. La scienza, infatti, procede rimuovendo gli ostacoli e le
difficoltà che incontra per la sua strada e che si presentano tutte le volte in
cui essa si imbatte in qualche fenomeno nuovo e inaspettato. A mettere in
moto la ricerca è, come si è visto, la meraviglia, vale a dire, la reazione
psicologica che segue alla rottura di un’abitudine consolidata. Ciò comporta
che l’intenzione immediata dello scienziato e il movente della ricerca sono
psicologici e, dunque, l’incremento del sapere è una sorta di risultato non
intenzionale del meccanismo psicologico stesso. Questa, come ho detto più
sopra, sembra chiaramente la concettualizzazione della metafora della
“mano invisibile”. Ravvisarne la presenza proprio all’interno della teoria della
conoscenza, cioè nella discussione sul metodo, non è cosa di poco conto,
poiché può confermarne la centralità all’interno del pensiero smithiano.
Il saggio sui “Principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”, di
cui la storia dell’astronomia occupa la parte preponderante, si chiude con la
trattazione della storia della fisica e della metafisica antiche. Queste due
ultime storie non sono molto più che frammenti e solo in parte rispettano il
programma preventivato di illustrare i principi dell’immaginazione. A mano a
mano che la narrazione procede, le considerazioni sul ruolo da essa svolto
nella fisica e nella metafisica si fanno più rare e gli spunti interessanti
65 A sottolineare il “criticismo” di Smith sono soprattutto: M. L. MYERS in Adam Smith as critic of ideas, “J. Hist. ideas”, 1975 (36), pp. 281-96 e A. D. MEGILL, in Theory and experience in Adam Smith, “J. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 79-94. Esplicito riferimento al “criticismo” di K. POPPER viene fatto da A. S. SKINNER, in A system of social philosophy, Clarendon, Oxford 1979, pp. 14 ss. e da T. D. CAMPBELL, in Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 25 ss.
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ricalcano semplicemente quelli della storia dell’astronomia. La ricostruzione
del pensiero filosofico dei presocratici e il confronto fra le dottrine
metafisiche di Platone e Aristotele sono riprese dal I libro della Metafisica di
Aristotele.
2.2 LA FORMAZIONE ORIGINARIA DELLE LINGUE E LE “LEZIONI DI
RETORICA E BELLE LETTERE”
La terza delle “Lezioni di retorica e belle lettere”, ritrovate nel 1961 dal
professor J. M. Lothian dell’università di Aberdeen, si intitola “Sull’origine e
sul progresso della lingua” ed è la stessa che, pubblicata da Smith, prima in
un saggio dal titolo “The philological miscellaney” nel 1761 e,
successivamente, in appendice alla terza edizione della Teoria dei
sentimenti morali del 1767, venne inserita, cinque anni dopo la sua morte, a
conclusione della raccolta dei “Saggi filosofici”, dai suoi curatori testamentari
Black e Hutton.
La presenza di tale trattazione nel corso di retorica evidenzia la stretta
dipendenza, avvertita dall’autore, fra il problema della formazione delle
lingue e i temi più specificamente stilistici e di belle lettere. Lo scopo di fondo
della retorica sta nella comunicazione chiara e distinta tra i parlanti che
coinvolge tutte le forme che essa può assumere, dal discorso didattico-
scientifico che punta alla convinzione, al discorso retorico mirante ad una
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persuasione che non deve mai essere asservita all’inganno, dal discorso
storico mirante all’istruzione a quello poetico che ha per obbiettivo il
divertimento. La volontà di persuadere i propri simili è proprio della natura
umana, non lo è in nessun modo tendere alla frode. L’importanza della
retorica, come tecnica della corretta persuasione, assume grande rilievo nel
contesto di una morale della “simpatia” come quella smithiana, poiché è la
“simpatia “ stessa a rendere evidente la presenza dell’elemento retorico
nell’etica. L’importanza dell’abilità, e della padronanza degli strumenti adatti
all’ottenimento del consenso si palesa poi, evidentemente, nel contesto della
società commerciale dove conflittualità e controversie sempre insorgenti ne
richiedono i servigi.
Il linguaggio è considerato da Smith una creazione sociale, come tutte
le altre istituzioni umane, quali la moralità e le sue leggi, il diritto e le norme
organizzative della giustizia, il mercato e le relazioni economiche. La società
è un complesso di istituzioni, comprendente anche quelle di tipo linguistico,
che nascono dagli istinti e non dalle intenzioni degli individui; essa è, in altre
parole, in gran parte il risultato inconsapevole delle azioni di un numero
incalcolabile di essi. Non c’è alcun disegno prestabilito, alcun contratto,
alcuna decisione singola e autoritaria che possa spiegare la genesi di tali
fenomeni, la cui unica ragione può essere fatta risalire all’infinità di
interazioni fra singoli che, presi individualmente, non possono esserne
ritenuti responsabili. Di responsabilità, infatti, si può parlare solo nel caso in
cui vi sia una intenzione diretta della volontà rispetto a determinati obbiettivi,
ma, come si è visto a proposito della dinamica della conoscenza, Smith
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ritiene che gli scopi effettivi dell’azione umana siano molto ristretti rispetto
all’ampiezza dei risultati che essa riesce a raggiungere. Ciò è dovuto al fatto
che l’intenzione delle nostre azioni non è sempre direttamente rivolta agli
obbiettivi che raggiunge, poiché essi vengono conseguiti per via “indiretta”,
vale a dire attraverso la rimozione degli ostacoli, la semplificazione delle
procedure, l’ottimizzazione degli sforzi.
L’argomento, che Smith affronta, riguarda la formazione originaria
delle lingue, che cominciarono a costituirsi, a partire da elementi semplici,
fino a sviluppare livelli di astrazione e complessità sempre maggiori
configurandosi nei modi che conosciamo66. Il movimento che Smith vede
svilupparsi, nell’organizzazione linguistica, procede dal concreto dei nomi
indicanti cose e oggetti singoli, all’astratto dei nomi indicanti classi di oggetti
aventi caratteristiche simili e si sviluppa per gradi sempre maggiori di
astrazione che originano, via via, gli aggettivi, le preposizioni, i generi67.
Grande importanza viene attribuita anche ai verbi impersonali, che con molta
probabilità dovettero precedere la stessa denotazione degli oggetti. Verbi
come “piove” o “nevica” esprimono, infatti, un evento completo ed insieme ai
nomi sostantivi dovettero essere le “prime parole”. Al di là dei limiti di una
tale ricostruzione, è importante sottolinearne il carattere genetico-evolutivo
poiché definisce gli avanzamenti del linguaggio come risultati non
intenzionali, derivanti dall’attività dei singoli volta a rimuovere gli ostacoli e le
difficoltà della comunicazione.
66 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 221 ss.67 Si confrontino le analisi di S. K. LAND in Adam Smith’s “Considerations concerning the first formation of languages”, “Jl. Hist. Ideas”, 1977 (38), pp. 677-90 e di C. J. BERRY in Adam Smith’s consideration on language, “Jl. Hist. Ideas”, 1974 (35), pp. 134 ss.
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E allora, così come la tranquillità e la calma sono il fine ultimo della
filosofia, la persuasione che segue la chiarezza è il fine ultimo del linguaggio.
E’ attraverso il continuo impegno in favore della chiarezza che il linguaggio e
le sue regole si sono sviluppati:
“Penso che probabilmente, o quasi sicuramente, accadde così; ma accadde senza nessuna intenzione o preveggenza in quelli che per primi proposero l’esempio, e che mai vollero stabilire una regola generale. La regola generale si dovette stabilire insensibilmente da sola, e con lenta gradualità, a causa di quell’amore per l’analogia e la similarità di suono che è il fondamento della maggior parte delle regole grammaticali”68.
Anche nella formazione del linguaggio una mano invisibile ha guidato
l’uomo.
Tra i due selvaggi, protagonisti dell’inizio del saggio sulla formazione
delle lingue, alle prese con le difficoltà elementari di comunicazione dei
propri bisogni, e i più illustri letterati e scrittori impegnati nelle più sofisticate
descrizioni da proporre ai propri lettori, non c’è secondo Smith alcuna
differenza nel modo di procedere, benché vi sia un abisso nel livello della
comunicazione. Ciò che accomuna le diverse situazioni in cui si trovano, il
selvaggio isolato, che non dispone delle conoscenze sufficienti per
esprimersi quando incontra un suo simile, e lo Swift, per citare uno fra gli
autori studiati nelle “Lezioni di retorica e belle lettere”, è, da un lato, il
problema della chiarezza, e dall’altro il metodo per attingere questa
chiarezza, che consiste nell’eliminazione progressiva dalla comunicazione
delle ambiguità che rendono difficile l’incontro tra chi parla e chi ascolta. La
parola nasce per operare un incontro fra due, è uno strumento espressivo il
cui uso si articola secondo la dialettica fra attore e spettatore che ruota
68 A. SMITH, Saggi Filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 229.
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attorno al procedimento simpatetico69. L’aspetto, potremmo dire “tecnico”,
dell’origine della lingua si fonde, dunque, fino a diventare tutt’uno con la
retorica in quanto scienza della comunicazione che studia i mezzi più adatti
a rendere agevole per lo scrittore o l’oratore il duplice compito di esprimere il
proprio carattere e il proprio pensiero.
La lingua di un popolo, in modo simile a qualsiasi altra “macchina”, si
semplifica attraverso complicazioni successive. Questo discorso, solo in
apparenza paradossale, viene spiegato in termini ben precisi da Smith. Il
movimento dal concreto all’astratto, proprio di ogni lingua, avanza per
successive complicazioni-diversificazioni atte a rendere più efficaci gli
strumenti comunicativi, ottenendo che la complessità della composizione si
traduca nella semplificazione dell’uso, ad esempio, delle coniugazioni dei
verbi o delle declinazioni di sostantivi ed aggettivi.
Così, ciò che accade alle macchine “meccaniche” accade anche alle
lingue70. All’inizio le macchine sono estremamente difficili nei loro princìpi
poiché svolgono ogni movimento particolare attraverso un particolare
principio meccanico o ingranaggio. In seguito, successivi “perfezionatori”
(succeding improvers) trovano il modo di utilizzare un solo ingranaggio per
svolgere più funzioni di movimento, e così si semplificano e allo stesso
tempo divengono più efficienti71. E’ facile notare la vicinanza di tali
considerazioni con quelle inerenti al discorso sulla conoscenza fatto a
69 A questo proposito, A. GIULIANI dice in Le “Lectures on rethoric” di Adamo Smith, “Riv. Crit. St. Filos.”, 1962, p. 334: “In una speculazione retoricamente orientata è già implicita una morale della simpatia”.70 Cfr. R. SALVUCCI, Adam Smith: formazione originaria e sviluppo delle lingue, “Studi Urb./B”, 1990 (63), pp. 363-67.71 Si veda A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 238 ss.
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proposito del confronto fra il metodo di Aristotele e quello newtoniano.
L’affinità degli argomenti si deve alla convinzione che la conoscenza stessa
sia una sorta di macchina, fornita di strumenti, ingranaggi e principi di
movimento propri. Ciò che mette in moto l’attività dei “perfezionatori” è la
necessità di adeguare gli strumenti alle nuove sfide che si presentano e che
nel campo linguistico sono o le ambiguità sempre insorgenti nell’attività
comunicativa, oppure le difficoltà dovute all’incontro fra popoli che non
parlano la stessa lingua e che innescano un processo di rimescolamento
delle diverse grammatiche.
“Un longobardo che cercava di parlare latino e voleva esprimere che uno era cittadino di Roma o benefattore a Roma, e che non conosceva il genitivo e il dativo della parola Roma (il longobardo non era lingua flessiva), doveva esprimersi naturalmente anteponendo le preposizioni ad e de al nominativo, e invece di Romae, avrebbe detto ad Roma e de Roma. A Roma e di Roma, conseguentemente è il modo di dire con cui gli italiani di oggi, discendenti dei Romani e dei Longobardi, esprimono queste e tutte le altre relazioni simili”72.
Lo sviluppo progressivo delle lingue avviene dunque su basi meccaniche e,
come la crescita della conoscenza, è dovuto al principio del coordinamento
spontaneo dell’attività di singoli individui interagenti fra loro.
Nella Ricchezza delle nazioni Smith esplicitamente chiarisce quali
sono, secondo lui, le ragioni del progresso tecnologico e dei miglioramenti
continui nell’efficienza e funzionalità delle macchine; benché il contesto del
discorso sia diverso rispetto a quello fin qui considerato, è possibile fare un
collegamento con le tematiche linguistiche per il legame evidenziato dallo
stesso autore fra macchine e lingua. L’invenzione di tutte le macchine che
facilitano il lavoro degli operai viene fatta risalire alla divisione del lavoro, la
quale consente che tutta l’attenzione venga rivolta a operazioni semplici e
72 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 238.
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ripetitive: “E’ allora naturale attendersi che l’uno o l’altro di coloro che sono
impiegati in ogni particolare ramo del lavoro debba presto trovare metodi più
facili e spediti di eseguirlo, ovunque la natura di esso consenta
miglioramenti”. L’individuo in ogni contesto d’azione, sia esso linguistico,
morale o economico, è il miglior giudice del proprio particolare e questo non
tanto per la cura che ha del proprio interesse personale, quanto piuttosto per
la conoscenza che ha di esso, nonostante non sia interamente consapevole
dei fini ultimi cui le sue azioni tendono73. La lingua si definisce, quindi, non in
rapporto a una razionalità sistematica, ma in relazione alla capacità dei
singoli di eliminare gli intralci alla reciproca comprensione, cioè come
unintended result.
“In alcune delle precedenti lezioni - dice Smith all’inizio dell’undicesima - abbiamo analizzato le caratteristiche dei migliori prosatori inglesi e istituito paragoni fra i loro differenti stili. Il risultato di tutto ciò, come pure delle regole che abbiamo elencate, è che la perfezione dello stile consiste nell’esprimere nel modo più conciso, appropriato e preciso il pensiero dell’autore e ciò nel modo che meglio renda noti il sentimento, la passione o l’emozione dai quali quel pensiero è mosso - o dai quali pretende che sia mosso - e che intende comunicare al suo lettore. Questo, voi direte, non è altro che il senso comune; e di certo non è niente di più. Ma se voi fate attenzione, tutte le regole della critica e della morale, se analizzate sino ai loro fondamenti, finiscono con l’essere alcuni principi del senso comune ai quali tutti acconsentono. Tutto il lavoro che queste arti debbono compiere è di applicare queste regole ai differenti argomenti e di mostrare il risultato della loro applicazione”74.
Su un piano diverso rispetto a quello del selvaggio, il compito
dell’artista resta quello della semplicità e della chiarezza che rendono
possibile il raggiungimento del bello. La bellezza è il valore emergente
dall’impegno alla chiarezza che muove l’artista a superare e colmare la
distanza tra sé e lo spettatore della sua opera, così come abbiamo visto la
73 Su questo argomento cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 182 ss.74 In A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi Editore, Urbino 1985, p. 161.
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scienza essere il risultato “indiretto” dell’impegno in favore della propria
“tranquillità” da parte del ricercatore.
E così, parafrasando il passo del birraio della Ricchezza delle nazioni,
si potrebbe dire che non è dalla benevolenza dell’artista e dello scienziato,
cioè dalle loro intenzioni consapevoli e dirette, che ci aspettiamo la bellezza
delle produzioni artistiche o la verità delle teorie scientifiche, ma dalla cura
che essi hanno del proprio personale interesse: l’interesse alla chiarezza il
primo e alla tranquillità il secondo75.
La prudenza, riconducibile alla cura per il nostro bene, sembra essere
la virtù cardine dell’universo morale smithiano, poiché si ritrova alla base
dell’agire economico ma anche come movente della ricerca scientifica e
come motivo determinante dell’arte. Grazie ad essa e con il concorso delle
regole della moralità e della giustizia si sviluppa l’intera società umana e non
è affatto casuale, dunque, che il ritratto del prudent man presente nella
Teoria dei sentimenti morali76 si ritrovi all’interno delle “Lezioni di retorica e
belle lettere”77 nell’esposizione dei caratteri stilistici e personali dei due autori
che Smith prende come modelli del bello scrivere. L’uomo schietto, the plain
man, è Swift che riesce bene a manifestare nella scrittura il proprio carattere
senza farsi riguardo per le comuni forme di cortesia ed esprime le proprie
opinioni senza giri di parole o particolari riguardi nel giustificarne le ragioni.
Viceversa l’uomo semplice, the simple man, è Temple che, pur non 75 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 92: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità”.76 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 425 ss.77 A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi Editore, Urbino 1985, pp. 123 ss.
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premurandosi di comparire con tutti i segni della cortesia e della buona
educazione, a differenza dell’uomo schietto, assume volentieri quelle forme
quando esprimono i suoi reali sentimenti. Questi due differenti stili letterari,
che rappresentano caratteri umani diversi ma ugualmente apprezzati da
Smith, si avvicinano al tipo del prudent man che è un uomo sempre sincero,
le cui caratteristiche più interessanti per il nostro discorso sono riassumibili
nella disponibilità a manifestarsi apertamente senza sottrarsi al giudizio
altrui. L’impianto retorico-giuridico della filosofia smithiana porta alla
definizione di un uomo capace di riflettere su sé stesso, in grado di
sdoppiarsi in un io-attore e in un io-spettatore, e di diventare lo spettatore
imparziale delle proprie azioni. Ciò che accomuna i tre tipi descritti da Smith,
al di là delle lievi differenze che li dividono, è l’insofferenza nei confronti di
falsità ed ipocrisia. Senza dubbio l’uomo schietto è quello che, per il coraggio
di cui dà prova, merita più rispetto e ammirazione; ma c’è posto anche per
l’uomo semplice che, nonostante una maggiore cautela nel modo di
presentarsi, non si nasconde mai e non indietreggia incontrando
l’apprezzamento di chi l’osserva. L’uomo prudente, infine, cauto e riservato,
è sempre sostenuto e ricompensato dalla piena approvazione dello
spettatore imparziale o dell’uomo interiore che ne è il rappresentante.
La comunicazione senza ornamenti, fiori o espressioni metaforiche
mira all’ideale della semplicità, il quale è sia letterario che morale e pone il
prudent man, nel senso precisato, al centro della speculazione smithiana.
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3.1 LA MORALE: GENESI SOCIALE DELLA MORALITA’ ED ECONOMIA
DELLA NATURA
L’atteggiamento che contraddistingue la ricerca svolta da Smith nella
Teoria dei sentimenti morali è tipicamente empiristico e si realizza attraverso
l’osservazione e l’interpretazione dei fatti dell’esperienza. Come i suoi
immediati predecessori, egli è particolarmente sensibile alla dimensione
“sentimentale” e affettiva della natura umana e rifugge da ogni
considerazione “razionalistica” della morale: “Sebbene la ragione sia senza
dubbio la fonte delle regole generali della morale, e di tutti i giudizi morali
che formiamo per mezzo di quelle regole, è del tutto assurdo e
incomprensibile supporre che le prime percezioni di giusto e ingiusto
possano essere derivate dalla ragione”78. La ragione non è nemmeno
sufficiente a sostenere la condotta poiché l’impegno morale si esprime nel
costante desiderio pratico di approvazione e stima. Inoltre, Smith sembra
considerare come una conseguenza inevitabile del razionalismo morale la
casistica, ovvero il tentativo di catalogare tutte le azioni umane secondo
regole predefinite rispetto al loro presentarsi. Infine, l’intento proprio di
quest’opera non è quello di proporre una precettistica o un insieme di norme
valide per l’agire e atte a fornire un orientamento per la prassi.
La Teoria dei sentimenti morali è una sorta di descrizione della realtà
etica, allo stesso modo che una teoria astronomica è un tentativo di
78 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 602.
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descrizione dell’universo. Il compito specifico del pensiero filosofico applicato
ai problemi morali è quello di fondare la morale sull’effettività dell’agire
umano. In altre parole, l’obbiettivo dell’analisi non è la ricerca dei principi su
cui dovrebbero basarsi l’approvazione o la disapprovazione di un essere
perfetto, ma la determinazione dei principi su cui effettivamente si fondano i
giudizi morali di un essere imperfetto come l’uomo79. La prospettiva
smithiana, nell’impostazione generale, si rivolge, dunque, alla ricerca dei
meccanismi di approvazione effettivamente operanti, vale a dire alle strutture
psicologiche e ai moventi che danno origine alla valutazione morale80.
Tale metodo porta Smith a ricercare, nella natura umana
empiricamente data, i fondamenti dei giudizi di valore e delle regole pratiche,
nell’intento sempre scientifico e mai precettistico, di comprendere i
meccanismi psicologici e sociali cui si devono le nozioni di “buono” e
“cattivo” o “giusto” ed ingiusto”. Sulla scia di Hume, l’autore intende
costruire, con metodo newtoniano, una dinamica delle passioni capace di
fondare i giudizi morali. Ebbene, la realtà etica descritta da Smith è realtà
sociale. Che sia così risulta chiaro non appena si ponga mente al suo
concetto centrale, la simpatia.
E’ importante sottolineare ancora, per evitare equivoci sul pensiero
dello scozzese, che la simpatia è solo il principio attraverso cui gli individui
79 Confronta per questa analisi: P. BERLANDA, La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 1982 (37), pp. 41-42.80 Si veda per questo: T. D. CAMPBELL, Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 21-45.
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giungono a formulare i giudizi sulle azioni proprie e altrui, non la guida della
condotta. In altre parole la simpatia è “soltanto” il principio dell’approvazione
morale.
I diversi sistemi di filosofia morale vengono suddivisi, nell’ultima parte
della Teoria dei sentimenti morali, in tre diverse categorie: nella prima
rientrano i sistemi che fanno coincidere la virtù con l’appropriatezza
dell’azione, nella seconda i sistemi che fanno consistere la virtù nella
prudenza e, infine, nella terza, i sistemi che fanno coincidere la virtù con la
benevolenza disinteressata. Se negli ultimi due rientrano le dottrine,
rispettivamente, di Epicuro e di Hutcheson, Smith inserisce il proprio sistema
morale nel primo gruppo, insieme a quelli di Platone, di Aristotele e degli
stoici. In Platone l’appropriatezza si configura nel giusto rapporto tra
l’affezione che muove l’azione e l’oggetto che la suscita ed è riconducibile
alla giustizia, che si realizza quando ogni passione compie il proprio dovere
e si dirige verso il suo oggetto appropriato e quando le tre facoltà dell’anima
svolgono il ruolo ad esse spettante. La virtù aristotelica consiste
nell’abitudine al giusto mezzo indicato dalla retta ragione, mentre, per gli
stoici, la virtù consiste nella capacità di dare a ciascun oggetto il giusto peso
secondo il posto che occupa nell’ordine naturale.
La simpatia smithiana, come criterio di appropriatezza della condotta,
è il risultato di un lungo percorso concettuale che muovendo dalla reazione
al sistema hobbesiano iniziata dai pensatori neoplatonici della scuola di
Cambridge, attraverso il “sense of fellowship” di Shaftesbury giunge ad una
52
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prima sistemazione in Hutcheson81. La simpatia hutchesoniana è, però,
ancora legata al concetto della “benevolenza” ed è solo in Smith che essa si
spoglia di ogni sfumatura che le attribuisca il ruolo di movente dell’azione per
diventare mero e semplice criterio di approvazione.
La natura sociale della morale smithiana non dipende affatto dalla
“bontà” della natura umana. Smith non illustra in nessun luogo della “Teoria”
le basi sulle quali si può giustificare una concezione simpatetica dei giudizi
morali, poiché, nella sua visione, la simpatia è un principio universale
ricavabile dall’esperienza comune, che non può essere ridotto ad altri
principi più semplici, e così l’incipit inevitabile della sua riflessione è che:
“Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della
società ne è del tutto privo”82. Le modalità generali di esplicazione del
principio della simpatia possono essere ricondotte al piacere che essa
promuove e che trae origine dalla constatazione della corrispondenza di
sentimenti fra sé e gli altri.
La simpatia è la facoltà attraverso cui è possibile giudicare la condotta
umana, ed è un sentimento di partecipazione che nasce come compassione,
cioè come condivisione della sofferenza altrui, per definirsi poi, più
ampiamente, come un generale sentimento di partecipazione. Mentre, però,
Hume non riconosce al soggetto simpatizzante la possibilità di convertirsi e
di diventare l’altra persona, nell’analisi smithiana il procedimento simpatetico
si fonda proprio sul cambiamento originario di situazione83.
81 Cfr. le pagine dedicate all’illuminismo scozzese in: E. GARIN, L’illuminismo inglese. I moralisti, Milano 1941. Si veda anche la proposta interpretativa di E. CASSIRER in La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, La Nuova Italia, Firenze 1947.82In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 81.83 Cfr. M. DAL PRA, Hume e la scienza della natura umana, Laterza, Bari 1973, pp. 256 ss.
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Smith indica il soggetto della simpatia nello “spettatore”, cioè in colui che,
altro rispetto a chi agisce, giudica la condotta di chi osserva misurandone la
convenienza riguardo ai motivi che l’hanno determinata o, anche rispetto alle
conseguenze ad essa dovute84. La simpatia in tal caso è “diretta”; vi è anche,
però, una simpatia “indiretta” dello spettatore con la gratitudine o il
risentimento di chi subisce l’azione.
Il meccanismo di valutazione simpatetica si rivolge all’intero spettro
delle passioni umane che sono “sociali”, “asociali” ed “egoistiche”,
costituendosi, dapprima come dottrina della eterovalutazione e, solo
successivamente, come autovalutazione. Tutte le passioni, non solo quelle
“sociali” come la generosità, l’umanità e la benevolenza, che spingono gli
individui gli uni incontro agli altri, hanno un grado appropriato che viene
stabilito dallo “spettatore”. La simpatia opera, dunque, nei confronti di ogni
passione, ma non ogni passione può raggiungere lo stesso grado di
partecipazione simpatetica. Il soggetto simpatizzante, infatti, incontra molte
meno difficoltà nell’approvazione dei sentimenti sociali piuttosto che nel
condividere passioni come l’invidia o il risentimento che sono “asociali” e, a
differenza dei primi, debbono sempre essere giustificate. Se, infatti, una
buona azione nei confronti del nostro vicino viene sempre approvata dallo
“spettatore”, sia perché egli giudica positivamente i motivi dell’agente, sia
perché concorda con il sentimento di gratitudine provato da chi ne ha
beneficiato, un’azione violenta, invece, ha bisogno di essere, sempre,
84 T. D. CAMPBELL ha proposto di chiamare ordinary spectators gli spettatori effettivi per distinguerli dallo ideal spectator che è lo spettatore imparziale, la coscienza. Cfr. Scientific Explanations and ethical justfication, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press, 1975, p. 71.
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supportata da valide ragioni. Può essere che i motivi prodotti per giustificarla
incontrino l’approvazione dell’osservatore, ma la necessità di dimostrarne la
validità manifesta il carattere sociale della natura umana. Le passioni
“egoistiche”, riconducibili “alla gioia e alla pena che noi traiamo dalla nostra
buona o cattiva fortuna private”, sono poste, nella gerarchia smithiana, a un
livello intermedio fra quelle asociali e quelle benevole85.
E’ utile osservare l’ordinamento e la gerarchia delle passioni facendo
attenzione alla logica simpatetica sottesa alla loro costituzione. Nel gradino
più basso si trovano le passioni asociali perché, come abbiamo visto, a fatica
incontrano la simpatia dello spettatore; le passioni egoistiche sono poste un
gradino più in alto perché “anche quando eccessive, non sono mai così
spiacevoli come l’eccessivo risentimento, perché nessuna simpatia opposta
può mai farci volgere contro di esse” ma in cambio “anche quando sono del
tutto adatte ai loro oggetti, non sono mai così piacevoli quanto l’imparziale
sentimento di umanità e la corretta benevolenza perché nessuna doppia
simpatia ci può spingere verso di esse”86. Le passioni sociali, infine, sono le
più elevate perché ottengono, appunto, questa doppia simpatia: sono
approvate sia per la simpatia verso i motivi che le suscitano o gli effetti che
producono, sia per la simpatia verso la gratitudine dei beneficiari.
Esistono, comunque, dei criteri generali o leggi della simpatia87 in
base ai quali, per esempio, e più agevole simpatizzare con le passioni che
85 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.134.86 Ibidem.87 Tale espressione è proposta da T. D. CAMPBELL in Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, p. 98.
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derivano dall’immaginazione piuttosto che da quelle causate dal corpo,
oppure, che si simpatizza più facilmente con la gioia che non con il dolore.
Il procedimento simpatetico si articola nella rappresentazione mentale
della situazione altrui cui segue un atteggiamento emozionale e
immaginativo che consiste nel porsi nella situazione altrui. Mentre, però, la
rappresentazione mentale della situazione altrui è opera della ragione
induttiva, l’immedesimazione nella situazione altrui è un processo
immaginativo che non si può ridurre in termini meramente razionali. La
valutazione simpatetica richiede, dunque, da un lato, l’approvazione emotiva
e, cioè, un momento affettivo, dall’altro necessita, per essere completa, della
tensione dello spettatore alla conoscenza. Le situazioni, infatti, sono sempre
diverse poiché diversi sono gli individui che agiscono e i contesti all’interno
dei quali essi si muovono; è per questo che il giudizio richiede la fatica del
comprendere, del valutare, del soppesare, i quali si esercitano nella
disciplina della ragione. Lo sforzo che lo “spettatore” compie è quello di
vestirsi della situazione del proprio simile cercando di coglierne gli affetti. E’
chiaro, però, che per riferire a sé stesso la situazione di un altro egli si
applica in un paziente lavoro di analisi e confronto che è tutto e
principalmente razionale.
Il criterio dell’appropriatezza risiede, dunque, nell’accordo tra le
passioni dell’agente e quelle dello spettatore giudicante, viceversa, nel caso
della inappropriatezza si ha che lo spettatore non partecipa completamente
alle passioni dell’agente.
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Per evitare di attribuire alla dottrina smithiana un soggettivismo
morale che assolutamente non le appartiene, bisogna, comunque,
considerare che fin qui si è detto solo della simpatia estetica e non ancora
della simpatia morale vera e propria88. Smith, infatti, sviluppa la simpatia
anche in una dimensione più complessa di quella osservata, che a partire
dal processo di autovalutazione giunge alla rappresentazione della figura
dello “spettatore imparziale”. La valutazione di sé stessi e delle proprie
azioni, secondo Smith, emerge come risultato ultimo della eterovalutazione.
Ciò che avviene naturalmente è che prima la nostra attenzione è rivolta
verso l’esterno ed è diretta agli altri ed in seguito, soltanto di riflesso, si
concentra su noi stessi. Prima, cioè, acquisiamo un costume critico
nell’osservazione del comportamento altrui e solo successivamente ce ne
serviamo per il giudizio sul nostro comportamento. La coscienza morale
nasce proprio in questo modo, come sguardo di noi su noi stessi che ha
origine dal tentativo di immedesimarci nel giudizio che gli altri possono farsi
sulla nostra condotta. Così facendo, prima e dopo l’azione, diventiamo gli
osservatori della nostra condotta e ci rappresentiamo quale effetto essa
farebbe agli altri considerando l’effetto che fa a noi. Smith chiama questo
particolare spettatore della nostra condotta, che ognuno sembra portarsi
dentro il petto e che realizza lo sdoppiamento del nostro io, “spettatore
imparziale”.
Tale spettatore è “imparziale” perché deriva dallo sdoppiamento
dell’agente che, come spettatore, abbandona la particolarità del suo punto di
88 Tale distinzione è stata proposta da J. R. LINDGREN, in The social philosophy of Adam Smith, Nijhoff, The Hague, 1973, p. 25.
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vista; ma bisogna sottolinearne anche il carattere “ideale” poiché non può
essere identificato con alcuno spettatore ordinario. Smith lo definisce anche
come “bene informato” perché conosce meglio di qualsiasi spettatore
esterno l’oggetto del giudizio89. La coscienza morale, che così si delinea
nella riflessione della Teoria dei sentimenti morali, è un prodotto sociale, uno
specchio della società90 che emerge, come risultato non intenzionale, alla
fine del processo simpatetico. Anche la coscienza, così come i giudizi morali,
dimostra la sua natura sociale, si dimostra un prodotto della socialità
dell’uomo.
La tensione morale che muove le coscienze si comprende, poi, come
una conseguenza ulteriore del piacere per la reciproca simpatia: poiché la
simpatia è piacevole e l’obbiettivo ideale dell’azione è sempre quello di
incontrare approvazione, ognuno di noi desidera incontrare il consenso dello
spettatore imparziale, non solo per ciò che riguarda il giudizio su ciò che si è
fatto, ma anche per la traduzione effettiva, nella pratica, delle sue
indicazioni.
“La Natura, nel fare l’uomo per la società, lo fornì di un originario desiderio di piacere e di un’originaria avversione per l’offesa verso i suoi fratelli. Gli insegnò a provare piacere nell’esser considerato favorevolmente, e ad addolorarsi nell’essere considerato sfavorevolmente da loro. Fece sì che la loro approvazione fosse per loro molto lusinghiera e molto gradevole in sé stessa, e la loro disapprovazione molto mortificante e offensiva. Ma questo desiderio dell’approvazione e l’avversione per la disapprovazione dei suoi fratelli non l’avrebbero, da soli, reso adatto alla società per cui era fatto. La Natura, perciò, non lo ha fornito solo del desiderio di essere approvato, ma del desiderio di essere ciò che dovrebbe essere approvato, e ciò che lui stesso approva in altri uomini. Il primo desiderio avrebbe potuto soltanto portarlo a desiderare di sembrare fatto per la società; il secondo era necessario per renderlo ansioso di esserlo davvero. Il primo avrebbe potuto solo spingerlo a fingere la virtù, e a dissimulare il vizio; il secondo era necessario per ispirargli il vero amore
89 Cfr. P. BERLANDA, La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 1982 (37), p.52.90 Su tale espressione smithiana ha particolarmente insistito D. D. RAPHAEL, The impartial spectator, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press., 1975, p. 89.
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della virtù, e la vera esecrazione del vizio. In ogni animo ben formato questo secondo desiderio sembra il più forte dei due”91.
Questo passo, oltre a sottolineare il carattere sociale della moralità umana,
capace negli individui più virtuosi di rendersi indipendente rispetto al
contesto sociale stesso, tanto da indurli a ricercare approvazione anche là
dove non vi siano altri testimoni che la propria coscienza, mostra come sulla
simpatia si costruisca l’intero edificio dei sentimenti morali e come ogni
aspetto di questi possa essere ricondotto a quella.
Smith, però, non si nasconde dietro un dito e affronta anche i
problemi inerenti alle forti inclinazioni egoistiche proprie del nostro modo di
essere. Egli non ritiene l’uomo capace, effettivamente, di grandi mali nei
confronti dei propri simili, poiché, se è vero che il pensiero di una piccola
sofferenza o di un dolore del nostro corpo hanno il potere di toglierci il sonno
più che il pensiero di una grave sciagura in un paese lontano, resta fermo il
fatto che un conto sono i “sentimenti passivi”, generalmente spinti dall’amore
di sé e un altro conto sono i “principi attivi” che spengono il sordido egoismo
e accendono in noi un senso di convenienza e di proporzione.
Contro la possibilità, del resto inevitabile, che ognuno di noi menta a
sé stesso e giudichi in modo parziale e interessato la propria condotta, il
rimedio, introdotto dalla natura stessa, consiste nella formazione di regole
generali. Alla base della loro formazione è rilevabile il medesimo processo
che porta alla costituzione della figura dello “spettatore imparziale”. Le
regole generali della morale, nella concezione smithiana, si formano per via
empirica, insensibilmente, attraverso l’osservazione e il giudizio continuo che
91 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 264.
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ogni individuo si forma sulle azioni proprie ed altrui. Poiché infatti, tutte le
azioni suscitano negli spettatori sentimenti di approvazione o
disapprovazione, costanti nel tempo, le regole si costituiscono sulla base di
tale uniformità e ne sono una concreta realizzazione. Una volta che si siano
consolidate, esse esercitano la propria influenza sugli agenti che si sentono
chiamati a rispettarle e onorarle. Le regole generali, in questo modo, fanno
nascere nell’individuo quel “senso del dovere” cui si deve la capacità
dell’uomo di dirigere le proprie azioni. Va sottolineato, però, che non può
darsi “senso del dovere” prima della costituzione delle regole, così come non
si dà coscienza, intesa come capacità critica nei confronti di sé stessi, senza
che prima essa si sia sviluppata verso gli altri. La mancata comprensione di
questo aspetto comporta l’equivoco razionalista di tutti coloro che ritengono
che il principio di approvazione sia la ragione. Nella visione smithiana è
l’accordo dei sentimenti umani a fondare la validità universale delle regole e
delle leggi morali e, dunque, le distinzioni morali seguono l’esperienza.
L’errore razionalistico consiste, quindi, nel ritenere che le nozioni morali
precedano l’esperienza e siano il fondamento delle norme.
Resta da dire ancora qualcosa a proposito delle passioni asociali quali
invidia e risentimento cui il nostro autore affida un compito specifico. Si è
detto che quella smithiana è un’etica sociale, e che la moralità umana non
sarebbe pensabile se l’uomo vivesse isolato e lontano dallo sguardo dei suoi
simili. Può sembrare strano, allora, che tale sistema assegni alle passioni
antisociali un ruolo specifico per la vita morale.
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Esse sono accettabili solo fino al punto in cui lo “spettatore imparziale”
possa approvarle e sono le uniche passioni verso cui nutriamo sempre una
qualche diffidenza. L’invidia è, nel grado appropriato, ammessa poiché può
favorire lo spirito di emulazione fra gli uomini e contribuire a vincerne l’apatia
e l’indifferenza. Essa, inoltre, può sostenere l’industriosità umana. Da questi
rilievi risulta che le virtù stoiche dell’autocontrollo, del dominio di sé e
dell’indifferenza nei confronti dei beni esteriori, sono accolte da Smith solo
entro precisi limiti di appropriatezza92. Il risentimento ha, invece, una
funzione specifica nella costituzione della giustizia.
Se infatti, come si è visto, osserviamo qualcuno compiere una buona
azione verso il proprio prossimo, non solo simpatizziamo con lui per i motivi
che lo hanno spinto a compierla, ma simpatizziamo anche con il sentimento
di gratitudine di chi ha beneficiato di essa. Da qui nasce il nostro senso del
merito e il desiderio di ricompensare i protagonisti di azioni meritorie. Se, al
contrario, osserviamo qualcuno compiere una cattiva azione verso il proprio
vicino, non solo ne disapproviamo i motivi, ma concordiamo anche con il
giusto risentimento da parte di chi l’ha subita. Così, il risentimento si pone
come un freno rispetto alle offese e funge da garanzia alla giustizia e alla
sicurezza dell’innocenza. Se all’origine della giustizia Smith pone il
risentimento per le ingiustizie subite, ciò significa che nella sua visione la
giustizia nasce dal superamento della sua negazione: l’ingiustizia.
A ciò va aggiunto che le regole della giustizia stabiliscono con la più
grande esattezza ogni azione esterna da esse richiesta, mentre le regole
92 Per una sintesi, cfr. G. VIVENZA, Adam Smith e la cultura classica, IPEM Edizioni, Pisa 1984, pp. 81 ss.
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richieste dall’amicizia, dall’umanità, dall’ospitalità e dalla generosità sono
vaghe e indeterminate93. Le prime possono essere paragonate alle regole
grammaticali, mentre le altre alle regole che i critici letterari indicano per la
bellezza e l’eleganza delle composizioni. Questa similitudine evidenzia
l’indispensabilità delle regole della giustizia per il buon ordine sociale così
come le regole della grammatica sono imprescindibili per la comunicazione.
Tutte le altre regole contribuiscono all’abbellimento, ma non sarebbero
sufficienti, da sole, a sostenere l’edificio della società.
Non si può chiudere con la virtù della giustizia senza avere
apprezzato che “le azioni richieste dalla giustizia non sono mai compiute
così appropriatamente come quando il motivo principale per compierle è un
riguardo reverenziale e religioso per quelle regole generali che le
richiedono”94. Il rispetto per le leggi, infatti, dipende dal “senso del dovere”
verso esse, in misura proporzionale alla loro certezza e precisione e in
relazione alla bellezza delle affezioni. Ripugnerebbe chiunque che un padre
fosse tenero con il proprio bambino per dovere, poiché, appunto, l’amore per
i figli è un grande sentimento e non esiste la misura appropriata del trasporto
verso di essi. Invocare giustizia per vendicare un’offesa, invece, è
ripugnante, sia perché è malvagia l’affezione da cui il sentimento di giustizia
deriva, sia perché le regole della giustizia sono esatte e non c’è bisogno di
chiedere più di quanto esse già prescrivono.
Il sistema morale smithiano risulta così centrato su tre ordini di virtù
che configurano i diversi livelli rispetto ai quali si esplica l’agire umano e che
93 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 357.94 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 358.
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prevedono un proprio grado di appropriatezza che è compito dello
“spettatore imparziale” stabilire. La giustizia, che risulta dalle passioni
asociali, è la virtù fondamentale poiché svolge una funzione preventiva e
repressiva dei crimini e dei disordini che seguirebbero dall’egoismo smodato
dei singoli. Ad essa seguono, per importanza, le inclinazioni egoistiche,
contenute entro i limiti della giustizia stessa, che sono riconducibili alle virtù
dell’amore di sé e della prudenza e che rendono chi le possieda oggetto di
approvazione soprattutto se esercitate nell’attività economica.
Infine, benevolenza e umanità, le virtù per eccellenza perché non hanno mai
bisogno di giustificazioni e perché non hanno pari nella simpatia che
incontrano, sono le meno importanti dal momento che ad esse è affidato un
ruolo soltanto ornamentale nelle società umane.
La virtù più elevata del sistema smithiano, dunque, è la benevolenza.
Smith, però, come abbiamo detto, non è Hutcheson. Mentre, infatti, il suo
maestro aveva fatto di essa, e solo di essa, la misura della moralità, la fonte
di ogni valore, egli si appropriò anche della lezione di Shaftesbury che
riconobbe come il suo esercizio si esplicasse entro cerchie limitate di
persone, e perciò sostenne che la felicità del genere umano non potesse
essere sufficientemente tutelata dalla cura, ad essa diretta, dei singoli
individui95. Il mantenimento dell’ordine del grande sistema dell’universo è,
così, compito dell’Autore della Natura, non dell’uomo, che per la debolezza
delle sue capacità e la limitatezza delle sue conoscenze ne ha già
abbastanza ad occuparsi della propria felicità e di quella dei suoi congiunti.
95 Per tale argomento, cfr. L. LIMENTANI, La morale della simpatia, Formiggini, Genova 1914, p.181.
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L’Autore della Natura sembra aver stabilito che il bene della “Grande
Società” sarebbe stato meglio promosso orientando l’attenzione di ogni
individuo a quella parte di essa che era soprattutto compresa nell’ambito
delle sue capacità e della sua intelligenza.
In ogni aspetto dell’attività umana sembra che Smith individui un limite
ben preciso che, se rispettato dai singoli attori, fa sì che si creino un ordine e
un’armonia maggiori di quanto non avverrebbe se tutti agissero cercando di
perseguire direttamente gli obbiettivi della società o della natura.
Smith è molto scettico circa la possibilità che il bene comune possa
essere desiderato direttamente e per sé stesso: esso emerge invece più
facilmente dalla esplicazione delle attività dei singoli entro i limiti stabiliti dalla
simpatia dello spettatore imparziale e dalle leggi della giustizia.
Questo discorso è particolarmente evidente per ciò che riguarda la giustizia
dal momento che l’ordine della società è garantito, non ove esso venga
posto come obbiettivo da raggiungere, direttamente, attraverso un disegno
razionale, ma dal risentimento che ciascuno di noi prova verso l’ingiustizia e
dal senso del demerito cui consegue la punizione96.
L’esistenza stessa della società esige che la malvagità venga punita in modo
appropriato e che infliggere condanne e punizioni sia considerato
conveniente. L’Autore della Natura non ha affidato alla ragione umana il
compito di scoprire che il mezzo adeguato per la realizzazione del bene
96 In particolar modo hanno sottolineato il carattere della giustizia e del diritto dal punto di vista dell’ingiustizia, soprattutto L. BAGOLINI, in The topicality of Adam Smith’s notion of sympathy and judicial evaluation, Essays on Adam Smith, Ed. by A.S. SKINNER and T. WILSON, Oxford Univ. Press., 1975, e F. A. VON HAYEK, in Ordinamento giuridico e ordine sociale, “Il Politico”, 1968 e, con riguardo anche alla politics smithiana, K. HAAKONSSEN, The science of a legislator, Cambridge Univ. Press., 1981, pp. 93-99.
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collettivo della società consiste in una certa applicazione delle pene, ma ha
dotato l’uomo dell’immediata e istintiva dote di approvare proprio
quell’applicazione che è la più adatta per ottenerlo.
“Questo caso, come altri, è del tutto coerente con il principio dell’economia della natura. Riguardo a tutti quei fini che per la loro particolare importanza possono essere considerati, se mi è concessa l’espressione, come i fini che la natura privilegia, essa non solo ha dotato il genere umano di un desiderio di realizzare il fine che lei propone, ma lo ha dotato anche di un desiderio di servirsi proprio degli unici mezzi utili a realizzarlo, che vengono desiderati per loro stessi, indipendentemente dalla tendenza a realizzare il fine.(...). Ma, nonostante siamo così dotati di un fortissimo desiderio di quei fini, la scoperta dei mezzi per ottenerli non è stata affidata alle lente e incerte determinazioni della ragione. La Natura ci ha indirizzati verso di essi attraverso istinti originari e immediati. La fame, la sete, la passione che unisce i due sessi, l’amore per il piacere e la paura del dolore ci spingono a usare quei mezzi per loro stessi e senza alcuna considerazione per la loro tendenza verso quei benefici fini che il gran Direttore della natura intendeva produrre attraverso di essi”97.
Quest’ultimo passo ci riavvicina al tema della “mano invisibile” e alla
comprensione di come esso non sia altro che la traduzione simbolica di un
principio dominante l’intero studio smithiano: il principio dell’esogeneità o
eterogenesi dei fini.
Che le azioni umane possano conseguire risultati diversi e più grandi
di quelli effettivamente perseguiti è una convinzione che deriva a Smith
dall’atteggiamento nei confronti della Natura e dal rispetto deistico nei
confronti di colui che di volta in volta viene chiamato “Artefice”, “Autore”,
“Direttore”98. La Natura e la sua saggezza sono criterio di giudizio, cioè
misura del giusto, non solo per l’universo fisico, ma anche e soprattutto, per
ciò che riguarda il mondo umano che è venuto costituendosi nel corso di
infinite generazioni. Che l’autore della Teoria dei sentimenti morali parli tanto
insistentemente di natura, benché si riferisca alla sfera umana e, per ciò
stesso, storica della moralità e delle sue istituzioni, si deve al
97 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, RIZZOLI, 1995, p. 196.98 Secondo J. Viner non è possibile comprendere il sistema filosofico smithiano, concezioni economiche incluse, se non si considerano adeguatamente le sue convinzioni teologiche (Adam Smith and laissez faire, “Jl. of Pol. Econ.”, 1927, pp. 198-232).
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riconoscimento, da parte sua, dell’esistenza di un ordine di fenomeni
intermedio fra quelli propriamente “naturali” e quelli “artificiali” risultanti dalle
convenzioni o delle deliberate decisioni degli uomini99. Tale classe di
fenomeni fu descritta da Adam Ferguson come quella comprendente i
fenomeni risultanti dall’azione ma non dalla progettazione umana. Nel
Saggio sulla storia della società civile pubblicato a Londra nel 1767, egli
scrisse “Le nazioni sorgono su istituzioni che sono certamente il risultato
delle azioni degli uomini, ma non sono la realizzazione di alcun progetto
umano”100. Nell’introduzione all’edizione edinburghese del 1966 di
quest’opera, Duncan Forbes fa notare che Ferguson, come Smith, ha fatto a
meno dei “legislatori e fondatori di stati” e che la distruzione del mito del
“Legislatore” fu la più originale conquista della scienza sociale
dell’illuminismo scozzese.
Queste considerazioni fanno capire perché Smith si ponga nei
confronti delle istituzioni umane quali la moralità, la giustizia e il mercato
come se si trovasse di fronte a fenomeni naturali. Così, la naturale socialità
degli uomini ha promosso, nel tempo, i comportamenti, le norme e le
istituzioni più adatte alla prosperità umana. La maggiore felicità del maggior
numero si realizza, dunque, grazie al disegno provvidenziale della natura
che nella sua economia non solo ha privilegiato i fini che potessero
realizzarla, ma ha anche instillato negli uomini gli istinti originari che ad essa
99 Per la questione, cfr. F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 29 ss. e Dr. Bernard Mandeville, in “Proceedings of the British Academy”, 1966 (52), pp. 125-41.100 A. FERGUSON, Saggio sulla storia della società civile, a cura di P. SALVUCCI, Vallecchi, Firenze 1973, p. 141.
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più facilmente conducessero. Poiché le istituzioni umane derivano da tali
istinti, esse rientrano perfettamente nel disegno provvidenziale della natura.
C. S. Peirce nell’opera “Evolutionary love” scrisse che “The origin of the
Species” di Darwin estende semplicemente delle concezioni politico
economiche sul progresso all’intero regno della vita animale e vegetale101.
Tale giudizio si ritrova anche nello storico Simon N. Patten autore dell’opera
dal titolo “The development of the english thought” che scrisse: “Così come
Adam Smith fu l’ultimo moralista ed il primo economista Darwin fu l’ultimo
economista ed il primo biologo” 102. Del resto, secondo la testimonianza dello
stesso Darwin, fu la lettura del “Saggio sul principio della popolazione” di T.
R. Malthus, che gli suggerì alcuni aspetti della teoria, da lui poi resa famosa,
della “selezione naturale” attraverso la lotta per la sopravvivenza, e non è
trascurabile il fatto che Malthus si fosse formato su Hume e Smith103. Non
sembra, dunque, improprio attribuire a Smith una teoria “evolutiva” delle
istituzioni.
Rivedendo, alla luce di queste considerazioni, il percorso del sistema
smithiano si potrebbe affermare che egli nei “Saggi filosofici” pensa il
progresso della conoscenza come una evoluzione selettiva delle teorie
101 C. S. PEIRCE, Evolutionary love, in Collected papers, a cura di HARTSHORN e WEISS, Cambridge, Mass. 1935, vol. VI, p. 293 (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34).102 S. N. PATTEN, The development of the english thought, N. Y., 1900, p. 23 (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34). Un giudizio analogo è espresso anche da F. POLLOCK in Oxford lectures and other discourses (Londra 1890): “La dottrina dell’evoluzione altro non è che il metodo storico applicato ai fatti della natura; il metodo storico altro non è che la dottrina dell’evoluzione applicata alle società e alle istituzioni degli uomini” (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34).103 Per l’analisi di L. Mises sui rapporti fra la teoria della popolazione di Malthus e la teoria darwiniana della lotta per la sopravvivenza, cfr. Socialismo, Rusconi, Milano 1990, pp. 352-57.
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scientifiche, che si attua attraverso la volontà dei ricercatori di superare la
sorpresa e la meraviglia prodotte dalle novità riscontrate nell’osservazione
dei fenomeni. La Natura ha, in altre parole, promosso il comportamento più
adatto al miglioramento della conoscenza, dotando l’uomo del desiderio di
un tal fine e non ha affidato alla sua ragione la scoperta dei mezzi più adatti
per quel fine. Ad essi è stato indirizzato, più prudentemente, attraverso istinti
originari e immediati104. Una “mano invisibile” fa sì che il desiderio umano di
certezza, che trova soddisfazione indirettamente, attraverso la rimozione dei
problemi delle teorie scientifiche, si traduca nell’impegno alla ricerca di
spiegazioni della realtà sempre più aderenti ai fenomeni osservati. La
scienza e il metodo scientifico nascono, dunque, come risultato non
intenzionale del bisogno umano di certezza.
Sul piano morale il paradosso che il concetto di giustizia presenta è
particolarmente illuminante per comprendere quanto sin qui affermato. Smith
nella seconda parte della Teoria dei sentimenti morali si occupa
dell’influenza della fortuna sul senso del merito e del demerito. L’analisi
smithiana scompone le azioni moralmente significanti in tre momenti,
distinguendo rispettivamente le intenzioni che le determinano, gli atti esterni
che da tali intenzioni derivano ed infine le conseguenze felici o funeste che
esse provocano. Ebbene, poiché gli atti esterni non sono eticamente rilevanti
e le conseguenze dipendono in gran parte dalla sorte, allora oggetto di
valutazione morale dovrebbero essere le sole intenzioni. In realtà, solo
raramente giudichiamo in tal modo le azioni, dal momento che la prassi
104 Per un’analisi, cfr. K. HAAKONSSEN, The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press., London 1981, pp. 77-79.
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effettiva è proprio quella opposta ed i nostri giudizi sono pesantemente
influenzati dalle conseguenze delle azioni. Addirittura nel campo giuridico ciò
è codificato da norme ben precise, che intendono limitare l’accertamento
della verità ai soli fatti, prescindendo completamente dalle intenzioni degli
agenti. Comunque, per questa incoerenza della regola della giustizia, che
dovrebbe valutare l’intenzione ma finisce per giudicare solo l’azione, Smith
prevede due giustificazioni105. La prima, di carattere psicologico, è che
gratitudine e risentimento, dai quali deriva il sentimento della giustizia, sono
causati dal piacere e dal dolore (Smith giustifica i giudizi etici in termini non
etici) tant’è che è possibile, per quanto assurdo, arrabbiarsi con la pietra
sulla quale inciampiamo. La seconda, di tipo teleologico, è che se gli uomini
dovessero giudicare solo le intenzioni, non sarebbe possibile alcun giudizio e
verrebbe meno la certezza del diritto. Una tale incoerenza perciò è
provvidenziale e prova la saggezza di Dio che porta a buon fine anche le
debolezze umane.
Si manifesta nella visione smithiana una forte caratterizzazione
teleologica nella quale gli uomini interpretano il duplice ruolo di fini e di
mezzi. L’uomo è il fine di una natura organizzata per il raggiungimento della
sua felicità, ed è lo strumento di tale realizzazione, a patto che non ceda al
cosiddetto “spirito di sistema”. Con quest’espressione Smith intende un
particolare atteggiamento presuntuoso, autoreferenziale e lontano
dall’esperienza, tipico degli uomini incauti, che sono a tal punto innamorati
dei propri progetti teorici o pratici, da diventare insofferenti della realtà.
105Un’analisi efficace in G. PRETI, Alle origini dell’etica contemporanea. Adamo Smith, La Nuova Italia, Firenze 1957, pp. 157 ss.
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Lo “spirito di sistema” è il peccato originale dei governanti che pensano di
poter controllare ogni cosa dall’alto e che, incuranti della saggezza che
regola il sistema degli affetti, pretendono di “sistemare i membri di una
grande società con la stessa facilità con cui sistemano i pezzi su una
scacchiera”106. Mentre, infatti, i pezzi sulla scacchiera non sono autonomi e
dotati di un principio di movimento proprio, gli individui di una grande società
sono liberi rispetto a ciò che un legislatore esterno può imporre ad essi.
Compito del legislatore è allora quello di prendere decisioni in armonia con il
libero gioco della società, decisioni, cioè, che siano compatibili con i diversi
scopi che i suoi membri si propongono di raggiungere al suo interno.
L’interesse della “Grande società” è ben tutelato quando l’attenzione
principale di ogni singolo individuo sia indirizzata verso quella particolare
porzione di essa che rientra nella sfera delle sue abilità e del suo intelletto107
e quando gli statisti non pretendano che i propri concittadini si conformino o
pieghino alla loro volontà. La stessa legittimità dei provvedimenti governativi
non risiede, dunque, nella sovranità del comando. Hobbes supponeva che
non esistesse una distinzione naturale tra giusto e ingiusto, che così
venivano a dipendere dal semplice arbitrio del magistrato civile108. Ogni
istituzione o legge positiva si fonda, invece, secondo Smith su
determinazioni morali precedenti, perciò la volontà del legislatore risulta
“buona” o “cattiva” a seconda della sua maggiore o minore fedeltà ad esse. 106 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 460. Particolarmente significativo, a tal proposito, è il rilievo dato da K. HAAKONSSEN alla diffidenza di Smith nei confronti della system knowledge rispetto alla contextual knowledge, che è la conoscenza del comportamento umano derivante dal meccanismo della simpatia: The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press, London 1981, pp. 79-82.107 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 453.108 Ibid., p. 599.
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La diffidenza nei confronti degli interventi diretti a modificare lo sviluppo
“naturale” della società è sostenuta, in Smith, dalla “fede” nei principi e nelle
leggi della natura.
Si è visto come l’intera vita morale prenda il via a partire da passioni e
sentimenti da cui derivano i giudizi e le leggi morali, che si costituiscono
grazie al contributo di innumerevoli individui e che si evolvono in forme atte a
migliorare progressivamente la convivenza civile. La stessa coscienza
umana, lo spettatore che ognuno di noi si porta dentro, è il risultato non
intenzionale dell’interazione sociale. Un uomo che fosse vissuto isolato fino
all’età adulta sarebbe attento solo agli stimoli provenienti dall’esterno,
perché privo dello “specchio sociale”109. Smith risolve l’intero complesso del
mondo umano in termini storico-sociali, secondo il consueto impianto
meccanicistico, di derivazione newtoniana. Come gli ingranaggi di un
orologio sono tutti ammirevolmente regolati per il fine per cui esso è stato
costruito, segnare l’ora, così gli individui sono dotati di tutte le capacità
necessarie alla prosperità sociale. Se gli ingranaggi dell’orologio fossero stati
forniti del desiderio di segnare l’ora non sarebbero, per questo, riusciti
meglio nel loro intento, così come gli individui non contribuirebbero
maggiormente alla prosperità sociale se mirassero ad essa direttamente110.
Le regole della moralità sono generalizzazioni di osservazioni sulla
condotta altrui, che si sono formate impercettibilmente, in moltissimo tempo,
attraverso la selezione dei comportamenti, resa possibile dagli unanimi
“sentimenti dell’umanità”, e senza che vi fosse alcun disegno umano. Inoltre,
109 Ibid., p. 253.110 Ibid., p. 212.
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le regole morali, in un certo senso, perfezionano quelle naturali poiché
correggono quella distribuzione di cose che la Natura aveva disposto. Infatti
tra un disonesto operoso che coltiva la terra, dice Smith, e un buon uomo
pigro che la lascia incolta, il corso naturale delle cose decide in favore del
disonesto, ma gli uomini in favore dell’uomo virtuoso111. “Le regole che la
natura segue sono adatte ad essa, quelle che segue l’uomo sono adatte a
lui, ma entrambe sono calcolate per promuovere lo stesso grande fine:
l’ordine del mondo, la perfezione e la felicità della natura umana”112.
L’osservazione secondo cui la natura sceglie sempre l’operosità, si
fonda sulla considerazione del ruolo fondamentale che l’effetto dell’utilità
svolge sul sentimento di approvazione. A tale argomento è dedicata tutta la
quarta parte della Teoria dei sentimenti morali, dove Smith sostiene che
l’ammirazione umana per la condizione dei ricchi non risiede tanto
nell’osservazione del maggior agio o piacere di cui godono, quanto
nell’osservazione della disponibilità di mezzi per il proprio agio che
possiedono. “Lo spettatore nemmeno immagina che i ricchi e i potenti siano
realmente più felici degli altri, ma immagina che essi possiedano più mezzi
per la felicità”113. Se, però, consideriamo la reale soddisfazione che la
ricchezza può promuovere indipendentemente dalle considerazioni circa
l’ordine, l’armonia, la bellezza e la potenza, a cui nell’immaginazione sempre
si accompagna, essa risulta sempre insignificante e disprezzabile. Per ciò
che riguarda il benessere e la tranquillità, i diversi ranghi della vita sono
pressappoco sullo stesso piano, e il mendicante che si crogiola al sole
111 Ibid., p. 346.112 Ibid., p. 346.113 Ibid., p. 372.
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possiede quella sicurezza per la quale i re combattono. Ma raramente
vediamo le cose in questa luce astratta e filosofica. “Ed è un bene che la
natura si imponga in questo modo. E’ questo inganno che risveglia e tiene
continuamente in movimento l’industriosità dell’uomo”114. Ecco, dunque, il
paradosso per cui l’operosità da cui dipendono tutte le attività umane, dalla
coltivazione della terra alla costruzione delle case, dalla fondazione di città al
progresso delle scienze e delle arti, si fonda su un provvidenziale inganno.
E’ ad esso, infatti, che si deve il salto esistente tra gli obbiettivi perseguiti
dalle azioni umane e quelli da esse effettivamente conseguiti. E’ alla cecità
dei ricchi e alla loro rapacità che si deve una distribuzione dei beni, pari a
quella che sarebbe possibile se la terra fosse stata divisa in parti eguali fra
tutti i suoi abitanti. Tale concezione non rappresenta, però, un tentativo
ideologico di giustificazione dell’ineguaglianza, quanto piuttosto la difesa
della spontaneità dell’ordine sociale che emerge naturalmente, nel senso
precisato più sopra, senza l’elaborazione di un progetto e senza ipotizzare la
necessità del passaggio da un astratto stato di natura ad uno stato civile
fondato su un contratto. Smith come Mandeville e Hume, dimostra la propria
predilezione per la legge delle conseguenze involontarie, riconoscendo il
carattere storico ed evolutivo delle istituzioni umane e ampliando le basi
emotive ed extrarazionali del progresso umano. Ciò è particolarmente
evidente in relazione alla dottrina smithiana dello sviluppo della civiltà.
114 Ibid., p. 374.
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3.2 IL DIRITTO: LA TEORIA DEI “QUATTRO STADI” DI SVILUPPO
DELLA SOCIETA’ E IL RAPPORTO TRA MODI DI SUSSISTENZA E
LEGISLAZIONE
Le lezioni sulla “jurisprudence” raccolgono trascrizioni e appunti dei
corsi tenuti da Smith a Glasgow negli anni accademici 1762-63, 1763-64 e
descrivono la teoria delle norme in base alle quali dovrebbero essere retti i
governi115. Sono divise in quattro parti: la prima si occupa della giustizia e
descrive i caratteri e lo sviluppo degli ordinamenti giuridici, con riferimento
alla teoria generale del governo, al diritto di famiglia, al diritto privato e alle
norme che disciplinano i contratti; la seconda parte tratta, invece, argomenti
giuridici più vicini al diritto amministrativo occupandosi dei regolamenti
riguardanti la “police”, nei quali Smith fa confluire la discussione sugli
approvvigionamenti a buon prezzo e sull’abbondanza nell’offerta delle merci,
ma anche le trattazioni su ordine e sicurezza pubblica. La terza e la quarta
parte, di minor peso, concernono la riscossione dei tributi e la difesa.
Ai fini dell’indagine sul concetto della “mano invisibile” anche nel contesto
giuridico dell’opera smithiana, l’analisi deve concentrarsi su due fatti
strettamente connessi tra loro: rispettivamente l’origine del governo e
dell’autorità in genere, e la questione relativa alla proprietà privata.
La genesi della società è presentata, in opposizione rispetto alla teoria del
contratto, facendo ricorso ai principi psicologici già delineati nello
115 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré’, Milano 1989, pp. 3 ss.
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svolgimento della Teoria dei sentimenti morali. Il primo principio su cui ogni
società è fondata risiede nell’autorità dalla quale dipendono le differenze di
grado e le distinzioni di rango. L’autorità non dipende da alcuna volontà
intenzionale né singola né collettiva, poiché essa deriva semplicemente
“dalla disposizione dell’umanità a condividere tutte le passioni del ricco e del
potente” e “dall’ammirazione per i vantaggi della loro situazione”116.
“La Natura ha voluto insegnarci a sottometterci ad essi per semplice riguardo nei loro confronti, a tremare, a chinarci di fronte al loro alto stato, a considerare il loro sorriso come una ricompensa sufficiente a ripagare ogni servigio e a temere il loro dispiacere come la più severa di tutte le mortificazioni, anche se non ne dovesse derivare altro male”117.
Come si vede, anche l’autorità e la gerarchia sociale, che su di essa si
fonda, non sono il frutto di alcun progetto consapevole, poiché una “mano
invisibile” fa sì che istinti ed abitudini emotive realizzino, attraverso una loro
complessa stratificazione ed evoluzione, ciò che sul piano giuridico
divengono autorità e comando.
Non c’è, però, solo la ricchezza tra i fattori che attribuiscono ad un individuo
autorità sugli altri, dal momento che anche l’antichità della famiglia, l’età
avanzata e le superiori capacità fisiche e intellettuali la possono favorire.
Dopo l’autorità, l’altro principio che induce gli uomini all’obbedienza di un
capo consiste nell’utilità che essi avvertono in essa per la conservazione
della giustizia e della pace. Resta, comunque, ben fermo che non è una
considerazione razionale a spingere gli uomini ad organizzarsi in società, e
che l’utilità di cui Smith parla si riferisce all’accettazione dell’autorità, una
volta che si sia costituita, e non al fondamento della sua costituzione118.
116 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 153.117 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 154.118 Anche T. D. Campbell, che interpreta il pensiero di A. Smith come una forma di “utilitarismo della norma” o “utilitarismo di sistema”, riconosce l’ostilità smithiana nei confronti del ricorso al criterio di utilità per la spiegazione dell’origine delle norme morali o come guida
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L’utilitarismo simpatetico119 di Smith enfatizza il lato contemplativo120 della
valutazione sull’utilità, sottolineando il piacere che ci procurano per esempio,
la perfezione dell’amministrazione o l’estensione dei commerci e delle
manifatture. Tutto questo è confermato dal rifiuto categorico della dottrina
del contratto come giustificazione della lealtà al governo. Dice Smith:
“Chiedete ad un povero facchino o ad un lavorante a giornata per quale motivo obbedisca all’autorità civile, egli vi dirà che è giusto fare così, che vede farlo agli altri, che sarebbe punito se rifiutasse di farlo, o forse che non farlo è un peccato contro Dio. Ma non lo sentirete mai citare un contratto come motivo della sua obbedienza”121.
Le aporie cui va incontro il razionalismo contrattualista sono sottolineate da
diverse considerazioni, come il fatto che i governi sono accettati anche in
Paesi in cui nessuno è a conoscenza di una tale dottrina, o il fatto che,
ammesso e non concesso che all’origine della società vi sia un conferimento
condizionato di poteri ad alcuni individui, la stipulazione non avrebbe valore
per tutti coloro che non avessero potuto partecipare ad essa.
“Il fondamento di un dovere non può essere un principio completamente sconosciuto all’umanità. Gli uomini devono avere una qualche idea, per quanto confusa, del principio in base al quale agiscono”122.
La genesi del governo e le sue varie forme non dipendono, dunque,
da un artificio politico, ma debbono venire ricondotte nell’ambito della
concezione evolutiva delle istituzioni sociali umane. L’analisi dell’origine del
governo e delle istituzioni giuridiche si inserisce nel contesto della teoria
smithiana dei “quattro stadi” di sviluppo della società. Il programma della
pratica dell’agire: per questo, cfr. The utilitarianism of Adam Smith’s policy advice, “J. Hist. Ideas”, 1981 (42), p. 73.119 Tale espressione viene usata e giustificata da G. MARCHELLO in L’utilitarismo simpatetico di Adamo Smith e il fondamento della valutazione pratica, Ed. di Filosofia, Torino.120 T. D. Campbell discute l’utilitarismo “contemplativo” di Smith in: Adam Smith’s science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 217-220.121 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 519.122 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 520.
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teoria stadiale consiste nel definire i diversi modi attraverso i quali le società
umane rispondono alla sfida della “scarsità”. I diversi modi di sussistenza
descritti da Smith come tentativi di soluzione di tale problema (caccia,
pastorizia, agricoltura e commercio) determinano differenti assetti
istituzionali. Va rilevata, a questo punto, una differenza fondamentale tra la
definizione delle istituzioni sociali in termini di storia naturale rispetto alla
definizione delle stesse in termini di artificialità, che considera la società
come un prodotto consapevole delle scelte degli individui. E’ diversa nei due
modelli l’interpretazione del nodo scarsità-politica. Nel modello di storia
naturale della società, di cui la teoria stadiale costituisce il nucleo centrale, la
soluzione al problema della “scarsità” dà luogo a un certo assetto delle
istituzioni politiche, coerente con la soluzione trovata dal modo di
sussistenza. Nel secondo, al contrario, è la soluzione della politica, cioè delle
scelte consapevoli degli individui, a consentire quella del problema della
scarsità. Nel primo caso c’è scarsità e la soluzione particolare del problema
determina un certo assetto politico. Nel secondo c’è scarsità perché e finché
non c’è politica123.
Il fondamento del governo risiede, dunque, esclusivamente nel binomio
autorità-utilità, che prende il posto riservato ai diritti nella dottrina del
contratto124.
“Fra i cacciatori non esiste un governo vero e proprio: essi vivono secondo le leggi di natura. L’appropriazione delle mandrie e delle greggi, introducendo una disparità nelle fortune, dette origine ad una forma di governo regolare. Finché non esiste la proprietà non può esistere il governo, il cui scopo specifico è appunto quello di rendere sicura la ricchezza e di proteggere i ricchi dai poveri. Nell’età dei pastori se uno aveva cinquecento buoi ed un
123 Tale analisi è svolta da S. VECA nella prefazione a Il cattivo selvaggio di R. L. MEEK, Il Saggiatore, Milano 1981, p. XII.124 Cfr. M. E. SCRIBANO, Natura umana e società competitiva. Saggio su Mandeville, Feltrinelli, Milano 1980, p. 134.
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altro nessuno, il primo non avrebbe potuto possederli se non fosse esistita una qualche forma di governo che gli avesse garantito la sicurezza del possesso”125.
Da queste brevi indicazioni emerge con chiarezza che il governo,
inteso nel senso di autorità sopra le parti, nasce non appena sorgano
occasioni di conflitto e controversie fra interessi contrastanti, nelle quali ci sia
bisogno di un giudice imparziale. La proprietà ed il governo civile, quindi,
sono in stretta dipendenza reciproca. La conservazione della proprietà e la
disuguaglianza delle fortune costituiscono la causa originaria del governo
civile e i caratteri della proprietà variano sempre necessariamente con la
forma del governo126.
Ogni sistema di produzione influenza direttamente la forma del
governo cosicché, quando l’attività prevalente di un popolo è la caccia, la
struttura sociale è costituita da famiglie indipendenti, legate fra loro soltanto
dalla medesima residenza e dalla lingua, mentre il tipo di governo, molto
limitato, non può che essere democratico127. Al modo di sussistenza dei
pastori è legata l’origine di un governo effettivo, che si rende necessario in
seguito all’instaurarsi di rapporti di dipendenza di una certa rilevanza,
conseguenti alla distinzione fra ricchi e poveri, e alle esigenze
dell’amministrazione della giustizia. I successivi progressi nell’agricoltura e lo
sviluppo del commercio portano le forme del governo ad una maggiore
complessità ed articolazione, ma resta sempre fermo il principio che il
progresso nell’attività del governo non è dovuto al consenso o all’accordo di
125 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 521-22.126 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 516.127 Per descrivere l’età della caccia, Smith si ispirò ai resoconti sulla vita degli indiani d’America: per la questione, cfr. A. M. IACONO, Il borghese e il selvaggio, in Passioni, interessi, convenzioni, Franco Angeli, Milano 1992.
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un certo numero di persone a sottomettersi a certe norme, bensì al
progresso naturale compiuto dagli uomini nella società128.
La teoria dei quattro stadi, come si è detto, si sviluppa mettendo al
centro il problema dell’origine del diritto di proprietà, che Smith fa risalire a
cinque cause: l’occupazione, che è l’appropriazione di ciò che non
apparteneva a nessuno; la trasmissione, che è il passaggio volontario da
una persona ad un’altra; l’accessione, che è l’attribuzione al proprietario di
un oggetto di tutto ciò che è legato con esso; l’usucapione, che è un
trasferimento di proprietà dal legittimo proprietario al possessore effettivo e
infine la successione, che è il passaggio di proprietà dal testatore all’erede
testamentario. La trattazione segue il percorso del cambiamento di tali
cause, attraverso il loro passaggio nelle età dei cacciatori, dei pastori,
dell’agricoltura e del commercio.
Ciò che merita attenzione, in primo luogo, sono le differenze fra un
modo di sussistenza e l’altro e i motivi che le producono. L’analisi procede
basandosi sul metodo della “storia congetturale”, che Smith mutuò
probabilmente dalla Storia naturale della religione di Hume, utilizzato anche
per lo studio sull’origine delle lingue, che adotta criteri di “analogia” e
“verosimiglianza” per la ricostruzione dei fatti storici129.
Il discorso si svolge, dunque, sotto forma di narrazione congetturale.
Smith ci chiede di immaginare dieci o dodici persone dei due sessi che
vivono su un’isola deserta: il loro primo mezzo di sostentamento
consisterebbe, senza dubbio, nella frutta e negli animali selvatici offerti dal
128 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 255.129 Per una sintesi, cfr. A. M. IACONO, L’idea di “storia teoretica o congetturale negli scritti filosofici e sul linguaggio di Adam Smith, “Teoria”, 1989 (9), pp. 113-33.
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luogo. Le uniche occupazioni sarebbero la caccia e la pesca: questa è l’età
dei cacciatori. In seguito, a poco a poco, con l’aumentare del loro numero, la
caccia risulterà troppo precaria per il loro sostentamento e saranno costretti
ad escogitare qualche altro mezzo di sopravvivenza. In un primo tempo,
probabilmente, dopo una caccia particolarmente abbondante, cercheranno
di conservare provviste sufficienti a nutrirli per un lungo periodo di tempo.
Ma questo non può durare a lungo. Il sistema più naturale sarà quello di
addomesticare alcuni degli animali selvatici catturati e, provvedendo loro
cibo migliore di quello che potrebbero procacciarsi altrove, indurli a restare
sul loro territorio ed a moltiplicarsi. Inizierà così l’età dei pastori130.
Ecco, allora, il punto: l’evoluzione del modo di sussistenza avviene in
seguito al tentativo di superare le difficoltà legate all’incremento demografico
e alla conseguente scarsità dei beni. Il miglioramento prodotto dal passaggio
dalla caccia alla pastorizia è l’effetto non programmato dell’attività dei singoli
diretta alla rimozione del problema della scarsità, non la soluzione,
concertata e progettata, a quel problema. L’analogia riscontrabile con le
osservazioni sullo sviluppo della conoscenza, sul progresso delle lingue e
sul costituirsi della moralità sembra chiara, come è chiaro che esse sono
manifestazioni diverse della legge delle conseguenze involontarie da Smith
simboleggiata attraverso la metafora della “mano invisibile”.
L’analisi prosegue seguendo gli ulteriori sviluppi della società
occasionati dall’incremento demografico, che rende difficile anche vivere di
mandrie e di greggi. La soluzione naturale, allora, è quella che gli uomini si
130 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 14-15.
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dedichino alla coltivazione della terra e alla coltura degli alberi da frutto e dei
vegetali commestibili. Così la società avanza gradualmente verso l’età
dell’agricoltura e le varie attività, che inizialmente venivano esercitate dal
singolo per il suo benessere personale, si separano e si differenziano: alcuni
si dedicano ad una attività, altri ad altre, secondo le loro tendenze e
inclinazioni. Scambiandosi, in seguito, la produzione eccedente le loro
esigenze individuali ed ottenendo in cambio i beni di cui hanno bisogno e
che non producono da soli, gli uomini giungono così all’età del commercio131.
La società commerciale è quella in cui i prodotti, naturali o artigianali,
eccedenti i bisogni, vengono esportati e quelli necessari vengono importati
con beneficio di tutti. Non ci sono livelli di complessità sociale superiori a
quest’ultimo tipo di organizzazione della produzione, e le distinzioni possibili
fra diverse società commerciali vengono ricondotte, da Smith, all’ampiezza
del mercato da cui dipende il grado della divisione del lavoro.
Illustrata la teoria dei quattro stadi, le Lezioni di Glasgow proseguono
con la spiegazione delle trasformazioni subite da leggi e norme che regolano
la proprietà in ognuno di essi. I popoli come i Tartari, le cui genti vivono di
allevamento di mandrie e greggi, infatti, puniscono il furto con la morte,
mentre gli indiani d’America, fra i quali la proprietà privata non è molto
diffusa, poiché si mantengono soprattutto con la caccia, lo considerano un
reato minore. Ciò significa che quando la proprietà assume proporzioni
consistenti all’interno di una determinata organizzazione sociale, le leggi in
sua difesa si moltiplicano in proporzione alle sempre più frequenti occasioni
131 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 15-16.
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di conflitto. Nell’età dell’agricoltura si è meno esposti alla rapina e al furto,
ma siccome nascono molti altri modi di ledere la proprietà, in proporzione
all’aumento della proprietà stessa, le leggi anche se meno rigorose, sono
assai più numerose che in una società di pastori. Lo stesso discorso vale per
l’età commerciale, dal momento che quanto più avanzati sono la società e i
sistemi di produzione, tanto più grandi sono la necessità e il numero di leggi
necessarie alla disciplina della giustizia e al mantenimento del diritto di
proprietà132. La sua durata nell’età della caccia è limitata alla presa di
possesso e aumenta considerevolmente in proporzione alla sua estensione
nell’età dei pastori e dell’agricoltura. Così l’incremento patrimoniale, la
trasmissione, l’usucapione e la successione nascono e si sviluppano come
fattori determinanti la proprietà in relazione al suo estendersi e diversificarsi.
Esiste, però, anche una storia stadiale dello sviluppo dei contratti che
Smith cerca di descrivere mostrando come gli impegni presi nelle società
primitive non fossero considerati affatto vincolanti, mentre essi lo divennero
sempre più in relazione all’aumento del valore di ciò che era oggetto di
contrattazione, fino all’avvento della società commerciale. In essa è della
massima importanza la fedeltà ai patti poiché da essi dipende la possibilità
stessa degli scambi. Per ciò che riguarda i diritti derivanti dalle offese, il
discorso è analogo, poiché essi dipendono in gran parte dalla forza dei
governi, generalmente molto deboli negli stadi primitivi di sviluppo della
civiltà umana.
132 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 17.
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L’uso che Smith fa della teoria stadiale dello sviluppo si estende,
dunque, a tutte le istituzioni giuridiche, alla proprietà, al governo civile, ai
modi di sussistenza e alle attività che gli uomini intraprendono per il proprio
mantenimento. Emerge, così, un’impostazione di fondo di stampo
“storicistico” che non considera mai il modo di essere degli uomini da un
punto di vista astratto e razionalistico, ma sempre nella concretezza storica
delle determinazioni dell’ambiente e della struttura economica133. Il fatto che i
rapporti socio-economici siano posti in primo piano, rispetto a tutti quelli
possibili per spiegare l’evoluzione sociale, probabilmente è dovuto
all’osservazione del rapido sviluppo economico in Inghilterra di cui Smith fu
testimone e al conseguente divario fra aree economicamente avanzate ed
aree più arretrate. Se i cambiamenti nel modo di sussistenza erano in grado
di mutare radicalmente la società contemporanea, Smith doveva supporre
che essi avessero influenzato l’intero sviluppo della civiltà umana134.
E’ così che Smith giunge a concepire una società autonoma rispetto a
qualsiasi progettazione politica, fondata sul principio della cooperazione
attraverso la divisione del lavoro, il cui obbiettivo è la soluzione del problema
della scarsità. Inoltre se una certa nozione di progresso è ravvisabile
nell’evoluzione degli stadi, essa va intesa solo nel senso del progressivo
superamento dei bisogni e delle necessità.
133 Una sintesi in A. GIULIANI, I due storicismi, “Il Politico”, 1953 (3), pp. 329-53, e in F. A. VON HAYEK, Ordinamento giuridico e ordine sociale, “Il Politico”, 1968 (17), pp. 693-723.134 Cfr. R. L. MEEK, Il cattivo selvaggio, prefazione di S. VECA, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 91.
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3.3 L’ECONOMIA: IL “SISTEMA DELLA LIBERTA’ NATURALE” E
L’ALLOCAZIONE OTTIMALE DELLE RISORSE
La teoria stadiale dello sviluppo socioeconomico comporta
l’applicazione del principio di causalità anche nel campo della ricerca storica,
ed infatti, secondo Smith, ogni fenomeno sociale e storico è concatenato a
una serie di cause e lo sviluppo, pur non essendo teleologicamente
orientato, è sottoposto a principi ben precisi. Abbiamo visto come il momento
chiave di tale sviluppo sia costituito dal modo di sussistenza, da cui
dipendono la forma della proprietà e del governo.
Ebbene, l’elaborazione di questi temi presente nelle Lezioni di Glasgow trova
applicazione anche nella Ricchezza delle nazioni, soprattutto nei libri III e V,
dove l’analisi smithiana rileva che i mutamenti sociali dipendono dallo
sviluppo economico, che l’uomo è mosso dall’amor proprio in ogni attività ma
in particolar modo in campo economico, e che i normali processi di sviluppo
generano quattro stadi economici, ognuno dei quali è contraddistinto da
particolari strutture socio-politiche che riflettono il modo di sussistenza
prevalente135.
I fattori propulsivi dell’intero processo di sviluppo della società sono
fondamentalmente due: l’interesse egoistico degli uomini, la propensione a
migliorare la propria condizione, che è la molla inconscia e spontanea della
natura umana, e l’aumento della popolazione che influisce su ed è
135 La teoria stadiale della Ricchezza delle nazioni è analizzata da A. S. SKINNER, “Adam Smith: an economic interpretation of history”, in Essays on Adam Smith, a cura di SKINNER e WILSON, Oxford 1976, pp. 154-78.
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influenzata dal succedersi degli stadi. Tutto ciò è inserito nel contesto della
teoria degli esiti sociali non intenzionali, di cui la metafora della “mano
invisibile” è espressione, in base alla quale i mutamenti materiali, cui è
sottoposta la società civile nel corso del suo sviluppo, coinvolgono individui
che non sono consapevoli delle conseguenze ultime a cui conducono le loro
azioni. La trattazione della teoria dei “quattro stadi” contenuta all’interno
della Ricchezza delle nazioni presenta, tuttavia, rispetto alle Lezioni di
Glasgow, alcune discontinuità che meritano alcune considerazioni.
Innanzitutto, va rilevato che essa nella Ricchezza delle nazioni è
diretta principalmente a spiegare i meccanismi economici operanti in una
società “commerciale”, mentre nelle Lezioni di Glasgow essa trova
applicazione, sul piano giuridico, nella spiegazione dello sviluppo della
proprietà e delle forme di governo136. In secondo luogo, nella Ricchezza delle
nazioni, soprattutto nel libro I, Smith introduce una nuova teoria stadiale di
sviluppo che, però, non ha l’intento storiografico di descrivere le fasi
dell’evoluzione dell’umanità, ma quello di fornire un modello esplicativo del
meccanismo di formazione dei prezzi in un sistema economico
“commerciale”, rispetto alle dinamiche di una ipotetica economia “primitiva”.
Così una “situazione originaria” caratterizzata dalla proprietà indivisa è
contrapposta a quella “progredita” che si distingue per l’appropriazione della
terra e l’accumulazione dei fondi e dei capitali.
La novità più rilevante di questa impostazione consiste nel fatto che lo
“stadio commerciale” delle Lezioni di Glasgow viene qui descritto più
136 Cfr. E. PESCIARELLI, “Adam Smith. Dal modo di sussistenza al modo di produzione”, in “Quaderni di Sociologia”, 1977 (26), nn. 3-4, p. 224.
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esaurientemente come lo stadio dell’accumulazione capitalistica. In altre
parole, se in un’economia primitiva non esiste né proprietà privata della terra
né accumulazione del capitale non esistono nemmeno rapporti di
subordinazione nel lavoro e il suo intero prodotto appartiene al lavoratore. La
ricostruzione storica smithiana descrive uno stato primitivo e non-civile della
società, precedente l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della
terra, in cui la proporzione tra le quantità di lavoro necessario per ottenere
diversi oggetti sembra sia la sola circostanza capace di offrire qualche
regola per scambiarli l’uno con l’altro.
“Se ad esempio tra un popolo di cacciatori per uccidere un castoro occorre doppio lavoro che per uccidere un cervo, un castoro dovrebbe naturalmente scambiarsi contro due cervi. E’ naturale che ciò che è normalmente il prodotto di due giorni o di due ore di lavoro debba valere il doppio di ciò che è normalmente il prodotto del lavoro di un giorno o di un ora”137.
Ciò avviene perché, in questo caso, l’intero prodotto del lavoro appartiene al
lavoratore e la quantità di lavoro impiegata nell’acquistare o produrre una
merce è la sola circostanza che regola la quantità di lavoro che essa
comunemente acquista e ottiene in cambio. Nello stadio civile della società,
invece, poiché il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone
e la terra è diventata tutta di proprietà privata, il prodotto del lavoro non
appartiene più, interamente, al lavoratore. Egli deve in molti casi dividerlo col
proprietario del capitale che gli dà impiego.
Né la quantità di lavoro impiegata nell’acquistare o produrre una merce è la
sola circostanza che regola la quantità di beni che esso può acquistare o
ottenere in cambio. Se, dunque, in una società primitiva il lavoro contenuto
in una merce coincide con il lavoro che essa comanda, nella società 137 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 132.
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capitalistica non è possibile che il lavoro comandato da una merce sia
determinato dal lavoro in essa contenuto138. “E’ evidente che una quantità
addizionale deve essere attribuita ai profitti del capitale che ha anticipato i
salari e fornito i materiali per quel lavoro”139.
Lo scopo del confronto fra “economia primitiva” ed “economia
avanzata” è quello di spiegare la differenza esistente fra il meccanismo di
costituzione dei prezzi nei due differenti contesti. Se, infatti, la teoria
smithiana del valore-lavoro140 può spiegare la costituzione dei prezzi delle
merci nel primo tipo di economia, essa non è sufficiente nel caso
dell’”economia di mercato” per la quale Smith provvede all’introduzione della
differenza fra prezzo naturale e prezzo di mercato141.
“Quando il prezzo di una merce non è né più né meno di quanto è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale impiegato nel coltivarla, lavorarla, e portarla al mercato secondo il loro saggio naturale, la merce è allora venduta per quel che può chiamarsi il suo prezzo naturale”, mentre “il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato. Esso può essere al di sopra o al di sotto o esattamente uguale al suo prezzo naturale”142.
E’ molto importante quest’ultima considerazione poiché con essa Smith
vuole affermare che il profitto e la rendita hanno due cause, l’una dovuta al
138 Cfr. le analisi di G. PIETRANERA, La teoria del valore e dello sviluppo capitalistico in Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 251ss, e di C. NAPOLEONI, Smith, Ricardo, Marx. Considerazioni sulla storia del pensiero economico, Boringhieri, Torino 1970, pp. 60 ss.139 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 135.140 A proposito della teoria smithiana del valore SCHUMPETER sostiene che, a causa di una certa confusione nell’esposizione del concetto di lavoro come numerario dei prezzi delle merci, venne attribuita a Smith una teoria del valore basata sul lavoro “mentre risulta assolutamente chiaro dal capitolo 6 (del libro I) che egli intendeva spiegare i prezzi delle merci per mezzo del costo di produzione”, in Storia dell’analisi economica a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 111.141 Sulla teoria smithiana del valore, le due interpretazioni più in voga sono quella di S. HOLLANDER, La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976, che considera Smith un precursore della teoria marginalistica e ritiene che il “prezzo naturale” smithiano sia un’anticipazione del “prezzo di equlibrio” di Marshall, e quella di M. DOBB, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma 1974, che sostiene che Smith ha contribuito allo sviluppo sia della teoria del sovrappiù di Ricardo e Marx, sia della teoria marginalistica.142 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 141-142.
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fatto che i proprietari di capitali e di fondi agricoli possono pretendere un
dividendo dei prodotti del lavoro come remunerazione di quanto anticipato,
l’altra dovuta al fatto che essi possono influenzare il mercato. Ciò significa
che il profitto e la rendita sono una funzione sia dei salari che dei prezzi di
mercato regolati dalle leggi della domanda e dell’offerta143. Infatti il prezzo di
mercato di una data merce è regolato dalla proporzione tra la quantità che è
effettivamente portata sul mercato e la domanda di coloro che sono disposti
a pagarne il prezzo naturale, cioè l’intero valore della rendita, del lavoro e
del profitto, che si deve pagare per portarvela144. Inoltre, i proprietari di fondi
e di capitali investono nella produzione soltanto se possono aspettarsi un
dividendo dal prodotto, ma la parte del totale che essi possono pretendere
non dipende dal fatto che essi abbiano contribuito o no con un qualche
lavoro economicamente rilevante e meno ancora dipende dalla quantità di
questo lavoro145.
Infatti, nonostante si possa forse ritenere che i profitti del capitale siano
soltanto una diversa denominazione del compenso per una particolare
specie del lavoro, il lavoro di ispezione e di direzione, essi sono regolati da
principi del tutto diversi e non stanno in nessuna proporzione con la quantità,
la fatica o la genialità di questo supposto lavoro di ispezione e di direzione146.
Il percorso seguito fin qui nell’osservazione del confronto fra la
“situazione originaria” e quella “progredita” dello sviluppo della società, 143 Cfr. l’analisi di K. G. BALLESTREM, Karl Marx e Adam Smith: osservazioni critiche sulla critica dell’economia politica, “Verifiche”, 1984 (13), p. 159.144 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 142.145 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 133.146 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 133.
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conduce, dunque, direttamente in braccio alla concezione smithiana del
conflitto fra capitale e lavoro, fra profitto e salario. L’aumento e la
diminuzione dei profitti del capitale dipendono dalle stesse cause (domanda
e offerta) che determinano l’aumento e la diminuzione dei salari o
l’incremento e il declino della ricchezza della società; queste cause, tuttavia,
influiscono in modo radicalmente diverso sugli uni e sugli altri. In parole
semplici alti salari e alti profitti non si accompagnano quasi mai visto che,
anzi, i profitti del capitale sono più alti nei paesi poveri piuttosto che nei paesi
ricchi dove il saggio di interesse del denaro è inferiore. Ecco, allora, che lo
scontro tra salario e profitto, nella visione smithiana, può portare alla vittoria
del primo e alla conseguente affermazione dell’utilità generale, solo in
un’economia ricca e in espansione dove, cioè, i possessori di capitale sono
costretti ad investire, in concorrenza gli uni con gli altri, negli stessi commerci
e, dunque, sono meno liberi di imporre prezzi sopra il livello naturale. La
concorrenza riduce i prezzi delle merci e diminuisce il profitto a tutto
vantaggio dei salari. Questa è la ragione della diffidenza che Smith nutre nei
confronti di coloro i quali vivono di profitto poiché, sebbene sia il capitale
impiegato a scopo di profitto a mettere in moto la maggior parte del lavoro
utile di ogni società e a dirigere tutte le più importanti operazioni del lavoro, il
saggio di profitto non aumenta, come la rendita e i salari, con la prosperità
né si riduce con il declino della società. Al contrario esso è naturalmente
basso nei Paesi ricchi ed elevato nei Paesi poveri, ed è sempre più elevato
nei Paesi che stanno andando più rapidamente in rovina. L’interesse dei
possessori di capitale non ha quindi la stessa relazione con l’interesse
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generale della società che ha invece l’interesse dei lavoratori salariati e dei
proprietari fondiari.
L’interesse dei possessori di capitale in qualsiasi ramo del commercio
o dell’industria è sempre differente, se non opposto, rispetto all’interesse
pubblico. Essi, infatti, mirano ad ampliare il mercato, e ciò può essere
vantaggioso per tutti, ma vogliono anche limitare, quando non eliminare
completamente, la concorrenza che impedisce loro di imporre a proprio
arbitrio i prezzi delle merci e di ottenere profitti al di sopra della loro misura
naturale147. Così, anche se raramente si riuniscono per accordarsi come
fanno i lavoratori, i datori di lavoro sono nella tacita ma costante intesa di
non aumentare i salari del lavoro al di sopra del loro saggio corrente. Ciò
comporta la tendenza, da parte loro, ad esercitare pressioni sul potere
politico, che dovrebbe resistere ed essere imparziale, affinché i loro interessi
particolari vengano garantiti da leggi sull’apprendistato, o sulla residenza,
piuttosto che da misure, come premi e dazi, volte a manipolare il libero
svolgersi del commercio, e che hanno il solo scopo di alzare i prezzi e i
profitti sopra il loro livello “naturale”.
Nella società civile e progredita caratterizzata dalla appropriazione
della terra e dalla accumulazione dei capitali, dunque, il sistema smithiano di
“libertà naturale” si giustifica in termini utilitaristici: esso garantisce il maggior
interesse per il maggior numero148. Per “principio di libertà naturale” Smith
intendeva sia un canone politico, cioè la rimozione di tutti i vincoli eccetto
147 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 374-375.148 Cfr. K. G. BALLESTREM, Karl Marx e Adam Smith: osservazioni critiche sulla critica dell’economia politica, “Verifiche”, 1984 (13), p. 161 e T. D. CAMPBELL-I. ROSS, The utilitarianism of Adam Smith policy advice, “Jl. Hist. Ideas”, 1981(42), p. 82.
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quelli di giustizia, sia la convinzione che il libero gioco delle azioni individuali
non produce caos ma ordine149. Il sistema di “libertà naturale” prevede che
ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia150, venga lasciato
perfettamente libero di perseguire il proprio interesse a suo modo e di
mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli di ogni altro
uomo o categoria di uomini151.
In tal modo, infatti, gli interessi privati dispongono naturalmente gli individui a
destinare il loro capitale a impieghi che normalmente sono i più vantaggiosi
per la società: quelli da cui è possibile aspettarsi margini di profitto superiori.
Se a causa di ciò essi destinano troppo capitale a certi impieghi, la
diminuzione del profitto li indurrà immediatamente a rivedere questa
distribuzione. Perciò, senza l’intervento della legge, gli interessi privati
inducono naturalmente gli uomini a dividere e distribuire il capitale di ogni
società tra tutte le diverse attività che vi si svolgono, il più possibile secondo
la proporzione più conforme all’interesse di tutta la società152. Per converso,
il meccanismo che assicura che i profitti non siano, di fatto, interamente
inghiottiti dai salari, è costituito dalla pressione che ”l’acquisizione di nuovi
territori o di nuovi rami di attività economica” esercitano nei confronti del
149 Cfr. J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 106.150 Nel perseguire l’arricchimento personale “ognuno può correre con tutte le proprie forze, sfruttando al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. E’ una violazione del fair play che non si può ammettere”, A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, I. E. I., 1991, p. 111.151 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 851-852.152 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 785.
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capitale153. Le nuove opportunità di impiego154 non solo consentono di usare
con profitto i capitali fino a quel momento inoperosi ma, soprattutto,
consigliano di stornare i capitali, già pienamente utilizzati, dai rami di attività
meno redditizi verso quelli più redditizi155. In questo contesto si inserisce la
polemica smithiana contro le distorsioni artificiali alla gerarchia degli
investimenti, le quali hanno come unica conseguenza quella di favorire
monopoli e privilegi economici.
Alla novità della Ricchezza delle nazioni rispetto alle Lezioni di
Glasgow, rappresentata dall’introduzione della contrapposizione tra
“situazione originaria” e “condizione civile” dello sviluppo socioeconomico, si
aggiunge una diversa considerazione dello sviluppo dello stadio agricolo.
Quest’ultimo, infatti, nel terzo libro della “Ricchezza” viene descritto nel
passaggio attraverso tre fondamentali modi di produzione. Il primo fra questi
è quello basato sulla servitù della gleba presente nei vecchi stati dell’Europa
dove gli occupanti della terra erano tutti affittuari a discrezione del
proprietario. Tale forma di schiavitù, secondo Smith, fu comunque più mite di
quella conosciuta fra gli antichi Greci e Romani o di quella nordamericana.
153 “L’acquisizione di nuovi territori o di nuovi rami di attività può talvolta aumentare i profitti del capitale, e con essi l’interesse del denaro, anche in un paese la cui ricchezza progredisce rapidamente. Non essendo il capitale del paese sufficiente al pieno sviluppo delle attività che queste acquisizioni offrono alle differenti persone che se le dividono, esso viene destinato solo a quei rami che possono consentire il massimo profitto. Parte di ciò che prima era stato impiegato in altre attività viene necessariamente sottratto ad esse e rivolto a qualche attività nuova e più profittevole. In tutte le vecchie attività la concorrenza diventa quindi minore di prima. Il mercato diventa rifornito meno adeguatamente di molte diverse specie di merci. Il loro prezzo necessariamente aumenta e frutta un profitto maggiore a coloro che trafficano in esse”, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 188.154 Secondo HOLLANDER Smith riconobbe, anche, l’importanza che lo sviluppo tecnologico ebbe per le nuove opportunità di impiego dei capitali: cfr. Cambiamento delle tecniche in La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976.155 Per questa analisi, cfr. S. HOLLANDER, La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976, p. 202.
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Successivamente si impose il modo di produzione proprio dell’età feudale,
dove agli schiavi si sostituirono gradualmente i mezzadri, ed infine, sebbene
per gradi molto lenti, ad essi seguirono gli affittuari propriamente detti, che
lavoravano la terra disponendo di un capitale proprio e corrispondevano una
rendita fissa al proprietario. Quest’ultimo stadio rappresenta la prima forma
di conduzione capitalistica che, storicamente, si sviluppò per prima verso
l’agricoltura.
La teoria stadiale della Ricchezza delle nazioni si svolge, dunque,
all’interno dell’opposizione fra “situazione originaria” di comunismo primitivo
e “condizione civile” di capitalismo, entro cui scorrono l’antichità classica e il
feudalesimo, e, rispetto ai quattro stadi delle Lezioni di Glasgow,
rappresenta il passaggio dalla considerazione dei modi di sussistenza a
quella dei modi di produzione veri e propri156. L’analisi del passaggio dall’età
feudale a quella capitalista, o precapitalista che dir si voglia, rappresenta,
forse, tutto il senso della maggiore opera smithiana, poiché consente
all’autore di presentare il confronto fra i due “tipi” simbolo dei due periodi
storici: da un lato il signore feudale, dall’altro i commercianti e gli artigiani
della “Grande società”.
Nel capitolo del libro III dal titolo “Come il commercio delle città ha
contribuito al progresso della campagna” Smith dice che si deve al
commercio e alle manifatture l’introduzione graduale dell’ordine e del buon
governo e con essi della libertà e della sicurezza individuale tra gli abitanti
della campagna, che prima erano vissuti quasi in continuo stato di guerra coi
156 Cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 159-60.
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vicini e di dipendenza servile verso i superiori. “Questo, sebbene sia stato il
meno notato, è certamente di gran lunga il più importante di tutti i loro effetti.
Per quanto sappia, Hume è il solo autore che l’abbia sinora rilevato”157. (In
nota lo stesso Smith cita le opere dove Hume fa tale discorso e cioè: “Of
commerce” e “Of luxury”, in Political discourses, del 1752 e History,
nell’edizione del 1773, vol. III, p. 400). La descrizione dell’età feudale
prosegue attraverso l’indicazione dei rapporti di dipendenza che si
intrecciano al suo interno. Così in una nazione che non ha né commercio
estero né alcuna manifattura raffinata, un grande proprietario consuma tutto
il prodotto delle sue terre, eccedente il mantenimento dei contadini,
nell’ospitalità della sua casa. Egli è sempre circondato da un numeroso
seguito che, non avendo nulla da dare in cambio del proprio mantenimento,
deve ubbidirgli “come i soldati ubbidiscono al sovrano che li paga”. Inoltre i
contadini, all’interno di un tale sistema, dipendono, sotto ogni riguardo, dal
grande proprietario, come il suo seguito e anche coloro che non sono in
condizioni di servitù gli sono totalmente soggetti. Tutto questo per l’obbligo di
consumare i prodotti eccedenti di una vasta proprietà all’interno della
proprietà stessa.
Il potere degli antichi signori si basava proprio sull’autorità che i grandi
proprietari fondiari esercitavano, in questo stato di cose, sui propri affittuari e
sul proprio seguito. Ebbene, se l’introduzione del diritto feudale fu un
tentativo di moderare l’autorità dei signori allodiali, è certo, secondo Smith,
che:
157 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 537.
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“Ciò che tutta la violenza delle istituzioni feudali non poteva mai compiere fu realizzato gradualmente dalla silenziosa e impercettibile azione del commercio estero e delle manifatture. Gradualmente questi fornirono ai grandi proprietari qualcosa contro cui scambiare tutto il prodotto eccedente delle loro terre, che essi potevano consumare da soli senza dividerlo con gli affittuari o coi membri del loro seguito. Tutto per noi e niente per gli altri, sembra sia stata in ogni epoca del mondo la vile massima dei padroni dell’umanità”.
Come se questo non bastasse, il passaggio successivo del testo smithiano è
ancora più severo nel giudicare i landlords:
“Forse per un paio di fibbie di brillanti, o per qualcosa altrettanto frivolo e inutile, essi scambiavano il mantenimento o, ciò che è lo stesso, il prezzo del mantenimento di mille uomini per un anno, e con esso tutto il peso e l’autorità ch’esso poteva conferire loro. .... e così, per la soddisfazione della più infantile, più meschina e più sordida delle vanità, essi gradualmente barattarono tutto il loro potere e la loro autorità158.
E’ giusto notare, ancora una volta, che Smith per tali considerazioni storiche
ricorre alla History di Hume, citata più volte. Poco più oltre Smith trae le
conclusioni di quanto descritto osservando che:
“In questo modo è stata realizzata una rivoluzione della massima importanza per la felicità pubblica, ad opera di due diverse classi di persone che non avevano affatto l’intenzione di servire la cosa pubblica. L’unico movente dei grandi proprietari terrieri era quello di soddisfare la vanità più infantile. Commercianti e artigiani, molto meno ridicoli, agirono puramente con la mira del proprio interesse perseguendo il loro principio venale di far soldi ovunque si potessero fare. Né gli uni né gli altri compresero né previdero la grande rivoluzione che la stoltezza degli uni e l’industria degli altri stavano gradualmente realizzando159.
Il cambiamento nella fisionomia del potere politico, che si ha nel passaggio
del potere dai proprietari fondiari ai borghesi pressoché in tutta Europa, fu
propiziato dalla naturale alleanza delle città con i sovrani, che fecero
concessioni importanti agli abitanti delle città per indebolire i loro concorrenti
più diretti: i signori feudali. Ad una classe scialacquatrice e dissipatrice di
ricchezza si sostituì, dunque, una categoria di uomini che facevano della
parsimonia e della prudenza le loro virtù cardinali.
158 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 541-42.159 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 545.
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Dovrebbe essere chiaro che tutto lo sviluppo osservato non deriva
dalle intenzioni consapevoli degli individui, ma dal processo degli esiti sociali
non intenzionali. A tale processo che la metafora della “mano invisibile”
esprime, si deve dunque, non solo, il passaggio dall’età feudale a quella
capitalistica e la conseguente affermazione del prudent man sul landlord
come tipo sociale caratteristico, ma anche un maggiore bene pubblico, a
cominciare dal bene economico. La ricchezza pubblica, che per Smith
consiste nel “prodotto annuale della terra e del lavoro della società”, infatti,
dipende esclusivamente dalla prudente attività dei singoli volta al
perseguimento dell’obbiettivo privato di migliorare la propria condizione
attraverso il profitto. Il bene pubblico, in altre parole, non deriva
dall’orientamento dell’agire individuale ad un obbiettivo comune, ma è la
conseguenza non intenzionale dell’agire che gli individui dirigono al proprio
interesse all’interno di un contesto regolato da norme generali di giustizia.
La conseguenza di tale impostazione è che ogni sistema di economia
politica che cerchi o con incentivi straordinari di attrarre verso un particolare
tipo di attività una parte del capitale della società maggiore di quella che
naturalmente vi andrebbe, o con restrizioni straordinarie di deviare
coercitivamente da un particolare tipo di attività una parte del capitale che
diversamente vi sarebbe impiegata (fisiocrazia e mercantilismo), è in realtà
controproducente rispetto al grande scopo che intende promuovere. Esso
ritarda, invece di accelerare, il progresso della società verso la ricchezza
reale e la grandezza e diminuisce, anziché aumentare, il valore reale del
prodotto annuale della terra e del lavoro. Scartati così completamente tutti i
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sistemi preferenziali o limitativi, si stabilisce spontaneamente l’ovvio e
semplice sistema della libertà naturale160.
Sembra necessario, prima di procedere, soffermarsi sulla scelta
smithiana di un sistema cosiddetto di “perfetta libertà naturale”. La morale
smithiana si sviluppa in seno alla tensione dialettica fra attore e spettatore
ed in essa la virtù non esiste per sé stessa, come un qualche determinato
valore, ma come desiderio di meritare ed essere degni di approvazione. Il
bene si realizza, dunque, nel superamento mai compiutamente realizzato
della distanza che separa chi agisce dall’approvazione dello “spettatore
imparziale”, rappresentante ideale della medietà sociale161: la moralità si
attua, dunque, come socialità. Ben si comprende, allora, come la libertà
diventi condizione imprescindibile per la realizzazione piena di tale socialità.
Se sul piano morale, infatti, ogni individuo deve poter essere in grado di
impegnarsi nella ricerca della virtù, sul piano dell’agire economico ogni
individuo deve poter essere libero di impiegare ciò di cui dispone nel modo
che più ritiene opportuno162. Il “sistema di libertà naturale” si connette,
dunque, all’idea di un “corso naturale delle cose” che si identifica con il
concetto di libera concorrenza delle forze di mercato che, se non ostacolate,
tendono a far coincidere i prezzi con i valori naturali163.
160 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 851-52.161 Cfr. per questo, A. ZANINI, Genesi imperfetta. Il governo delle passioni in Adam Smith, Giappichelli, Torino 1995, pp. 123 ss.162 Secondo J. Cropsey Smith, sostituendo il desiderio di migliorare la propria condizione alla paura di una morte violenta, trasformò in senso liberale e commerciale il sistema hobbesiano, in Polity and economy. An interpretation of the principles of Adam Smith, Nijhoff, The Hague 1957, p. 72.163 Cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 167-68.
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Tale concezione è una diretta conseguenza dell’anti-razionalismo
smithiano che ritiene evidente come “ognuno, nella sua condizione locale,
può giudicare molto meglio di qualsiasi uomo di stato o legislatore quale sia
la specie di industria interna che il suo capitale può impiegare e il cui
prodotto avrà probabilmente il massimo valore”164.
Tali considerazioni sulla “libertà naturale”, però, non possono far dimenticare
quanto precedentemente affermato e, cioè, che gli interessi “delle due
categorie di persone che comunemente impiegano i maggiori capitali e che
per la loro ricchezza attraggono la maggior considerazione pubblica”165, i
mercanti e i possessori di capitali, non hanno la stessa relazione con
l’interesse generale della società, di quelli delle classi dei proprietari fondiari
e dei lavoratori. Obbiettivo del mercante è sempre quello di ampliare il
mercato e ridurre la concorrenza, così da mantenere il saggio di profitto, che
risulterebbe dalla libera competizione commerciale, al di sopra del livello
“naturale”. Inoltre, mercanti e possessori di capitali hanno una conoscenza
del proprio interesse superiore a quella delle altre due categorie ed è grazie
a questo che “essi frequentemente hanno approfittato della generosità del
proprietario terriero persuadendolo a rinunciare sia al proprio interesse che a
quello del pubblico, coincidenti nel suo caso, in base alla semplicissima ma
onesta convinzione che il loro interesse e non il suo fosse l’interesse
pubblico”166.
164 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 584.165 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 375.166 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 375.
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Ciò dovrebbe bastare a scoraggiare tutti quegli interpreti che hanno
considerato la concezione circa l’agire della “mano invisibile” in un “sistema
di libertà naturale” come propedeutica ad una visione idilliaca ed ottimistica
del progresso. Il nodo centrale per comprendere i limiti alle possibilità della
“mano invisibile” risiede nella comprensione degli ostacoli oggettivi che
impediscono la realizzazione di un “sistema di perfetta libertà naturale”, cioè
proprio di quel sistema all’interno del quale essa dovrebbe produrre i suoi
più benefici effetti. Esistono, infatti, interessi strutturalmente contrari alla
libertà naturale, promossi da gruppi di pressione, fazioni, pregiudizi del
pubblico, che pongono in primo piano la necessità del ruolo del
“legislatore”167. La figura del “legislatore” si delinea nel contrasto con quella
del politico ordinario: mentre il primo delibera e governa secondo principi
generali che sono sempre gli stessi, l’altro, astuto e calcolatore, decide
secondo le convenienze del momento. La consapevolezza dei principi
generali delle leggi e del governo orienta, dunque, il legislatore all’attuazione
del più generale tra essi, il principio che ha il primato della “negatività”:
quello di giustizia168. Il carattere “negativo” degli interventi del sovrano si
chiarisce in relazione ai suoi compiti istituzionali che sono: la difesa dai
nemici esterni della nazione, l’esatta amministrazione della giustizia e il
dovere di creare e mantenere certe opere pubbliche che non possono
essere sostenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di
167 Per una sintesi sul “whiggerismo scettico” o “scientifico” di Smith, cfr. D. FORBES, Sceptical whiggism, commerce and liberty, in Essays on Adam Smith, Oxford Univ. Press, 1975, pp. 179-201.168 Cfr. K. HAAKONSSEN, The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press, 1981, p.97.
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individui. “Negative”, dunque, sono le norme generali di giustizia come
“negativi” sono i principi generali del governo, infatti:
“Il sovrano è completamente dispensato da un dovere nell’adempimento del quale è sempre esposto a innumerevoli delusioni e per il giusto adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere all’attività dei privati, e di dirigerla verso le occupazioni più idonee all’interesse della società”169.
Il sistema “semplice e ovvio” di libertà naturale, individuato da Smith
quale causa della ricchezza delle nazioni, esige, dunque, una politica forte e
indipendente dagli interessi mercantili dominanti, animati da “spirito di
monopolio”. Soprattutto questo sembra essere l’obbiettivo polemico della
riflessione smithiana, lo spirito di monopolio proprio dei “padroni dell’umanità
che amano raccogliere là dove non hanno seminato” ed impediscono,
complottando con quell’”insidioso e astuto animale volgarmente chiamato
uomo di stato o politico”, che la diffusione della libertà riduca i loro profitti e
accresca il benessere generale degli uomini.
E’ necessario considerare, prima di concludere, alcune implicazioni di
carattere morale che si delineano soprattutto in relazione alla questione della
divisione del lavoro. A tale argomento sono dedicati i primi tre capitoli del
libro primo della Ricchezza delle nazioni, che sono determinanti per la
comprensione dell’opera intera, se è vero che nessuno, né prima né dopo
Smith, ha mai pensato di attribuirle tanta importanza170. La divisione del
lavoro, infatti, sembra essere la sola causa del progresso economico. Essa
spiega la maggiore ricchezza di cui dispone anche il membro più umile della
società civile nei confronti di un principe selvaggio, spiega il progresso
169 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 852.170 Cfr. J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 109.
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tecnologico e l’invenzione di tutte le macchine. Inoltre, poiché essa dipende
dall’estensione dei mercati e si sviluppa come una forza completamente
impersonale, rende impersonale il progresso stesso:
“Questa divisione del lavoro, dalla quale derivano tanti vantaggi, non è all’origine, un effetto della saggezza umana che prevede e mira a quel generale benessere cui pi dà luogo. E’ la necessaria, per quanto lenta e graduale, conseguenza di un certo principio o inclinazione della natura umana, che non si propone un così grande risultato. E’ questa inclinazione, comune a tutti gli uomini, e non so trova invece in nessun’altra specie di animali: la tendenza a trafficare, a barattare, a cambiare una cosa con l’altra171.
Ciò che descrive Smith nelle sue opere, non solo nella Ricchezza delle
nazioni, è, dunque, il passaggio dal villaggio chiuso della piccola comunità a
ciò che più volte nella Teoria dei sentimenti morali egli definisce la “Grande
società”. Nel villaggio chiuso, dove la divisione del lavoro non è molto spinta,
tutti si conoscono e, ciò che più conta, ognuno conosce i bisogni dell’altro, il
contadino lavora per il fabbro e il fabbro per il contadino. La rottura di un
mondo cosiffatto imposta dal mercato, una rottura senza responsabili, oltre
ad avviare dibattiti sul “giusto prezzo” o sul “prezzo di libera concorrenza”,
costrinse Smith, ma anche moralisti a lui precedenti come Mandeville e
Hume, a rivedere convinzioni etiche dominanti e a dissipare radicati
convincimenti. A Smith dobbiamo l’idea che lo scambio commerciale non è
un gioco a somma zero, in cui il guadagno di uno comporta la perdita di un
altro, ma è un’occasione di guadagno per l’uno e per l’altro, e l’idea che in
una società ricca e commerciale il lavoro diventa caro e allo stesso tempo le
merci si vendono a buon mercato, e anche che non abbiamo nulla da
guadagnare dalla povertà dei nostri vicini, perché la loro ricchezza è anche
la nostra. Ma Smith si rese anche conto che se nelle società chiuse gli
171 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, a cura di V. PARLATO, SE, Milano 1990, pp. 30-31.
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uomini sono affidati gli uni alla benevolenza degli altri, nella “Grande
società”, quando si dedicano al commercio, gli uomini si rivolgono piuttosto
al naturale egoismo di ognuno e non parlano mai delle proprie necessità ma
dei vantaggi altrui. Il paradosso che egli rileva è che anche chi, come il
mendicante, si affida alla benevolenza degli altri, in realtà non dipende
interamente da essa per la propria sopravvivenza. L’altruismo è efficace solo
in un piccolo ambito, secondo una gerarchia di affetti che la natura ha
provveduto ad organizzare, mentre nella società della proprietà privata,
dell’accumulazione dei capitali, di una estesissima e complicata divisione del
lavoro, gli obblighi di solidarietà tra persone legate fra loro solo
indirettamente e, nella maggior parte dei casi, senza che esse stesse lo
sappiano, non possono essere interamente assolti dalla benevolenza172. La
convinzione smithiana è, allora, che il bene pubblico può essere promosso,
con maggior profitto, attraverso le direttive della prudenza. Qui si giustifica
l’esaltazione smithiana del prudent man, l’uomo che cerca sempre di capire
seriamente e onestamente ciò che dice di capire, che è sempre sincero, che,
sebbene non sempre si distingua per spiccata sensibilità, è sempre capace
di vera amicizia, insomma, l’uomo che:
“Nell’assiduità della sua laboriosità e della sua frugalità, nel suo sacrificare assiduamente la comodità e il piacere del momento presente per aspettare un piacere e una comodità ancor più grandi e più durevoli in futuro, è sempre sostenuto e ricompensato dalla piena approvazione dello spettatore imparziale e dall’uomo interiore, che dello spettatore imparziale è il rappresentante”173.
L’uomo idealizzato da Smith, l’uomo della “Grande società”, alla gloria delle
nobili azioni e dei grandi slanci romantici preferisce la prudenza che
172 Il punto, quindi, non è che “ Economia ed etica, in questa società, non si combinano” (cfr. L. COLLETTI, Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 291), ma che il mercato ha imposto all’etica la propria disciplina razionale.173 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 429.
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consiglia di non caricarsi di responsabilità non rientranti nei propri doveri e
non sostenibili.
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In queste pagine si è cercato di proporre una lettura unitaria del
pensiero smithiano, troppo spesso preclusa ai suoi interpreti per la parzialità
del punto di vista che essi hanno adottato, o per il limitato interesse,
economico o morale, che ne ha animato la considerazione.
Si è visto che, nonostante si sia occupato nel corso della sua vita di
argomenti e temi di indagine tanto diversi, Smith non ha mai abbandonato la
concezione secondo cui le istituzioni sociali non sono il portato di singole
volontà, ma il risultato spontaneo e non consapevole della cooperazione fra
innumerevoli individui. Infatti, per quanto privata sia la condotta degli uomini,
essa non può sottrarsi al vincolo sociale che li unisce: la loro impossibilità di
far fronte, in modo autonomo, ai propri bisogni e la loro capacità di dare
forma giuridica ai rapporti di dipendenza che li legano, si traducono nella
realizzazione effettiva di un contesto sociale. La mutua dipendenza, che lega
naturalmente gli uomini fra loro, fa sì che nessuno possa raggiungere i propri
obbiettivi e realizzare i propri progetti senza la mediazione degli altri. In tal
modo non è possibile perseguire fini individuali senza che
contemporaneamente si perseguano fini pubblici e sociali: le azioni umane
raggiungono, infatti, risultati più ampi di quelli che effettivamente desiderano
raggiungere.
Se questo è l’ordine che governa l’agire umano, se questa è la legge
che tiene uniti in società gli uomini, e fa sì che la ricerca degli interessi
personali produca il bene pubblico, allora la meraviglia che un tale effetto
suscita non può essere superata facendo ricorso ad un’immagine che
rappresenti tale ordine come provocato artificialmente e dall’esterno, come
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un intervento risolutore provocato dalla “mano invisibile” di un dio pagano
(Giove) che interviene per modificare il corso naturale delle cose. La
meraviglia può essere vinta, e divenire così ammirazione, solo ricorrendo ad
un’immagine che sia simbolo di quello stesso ordine e di quello stesso corso
naturale: la “mano invisibile” che è la Provvidenza del “Grande artefice della
natura”, ordine impresso in ogni cosa.
La distanza che separa le due immagini è abissale: mentre, infatti, la
prima è un prodotto della mentalità primitiva e deriva da un atteggiamento
animistico nei confronti della natura, la seconda è un prodotto della mentalità
scientifica che cerca le catene nascoste dei fenomeni e sa che, dove si
manifesta irregolarità, si è solo in presenza del limite della capacità umana di
comprensione. Così, la “scienza sociale” smithiana vede che, anche se
sembra un fenomeno irregolare che i possessori di capitali contribuiscano ad
incrementare il benessere collettivo impiegando i capitali di cui dispongono
per il proprio profitto privato, l’apparente irregolarità può essere spiegata dal
principio dell’eterogenesi dei fini, che la metafora della “mano invisibile”
rappresenta. L’agire umano, infatti, può conseguire fini più ampi di quelli che
intenzionalmente persegue, grazie anche alla naturale cecità (deception)
degli uomini rispetto ai reali obbiettivi del loro agire.
Il meccanismo dei risultati non intenzionali, come è stato osservato,
viene esteso da Smith, anche senza esplicito riferimento alla “mano
invisibile”, a tutti i fenomeni complessi derivanti dall’attività ma non dalla
progettualità umana. In tal modo il discorso scientifico, espressione con cui è
da intendersi tanto la scienza quanto la filosofia, è l’effetto non intenzionale
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della propensione umana a risolvere i problemi e le difficoltà della vita: la
volontà di filosofi e scienziati è solo quella di placare la propria
immaginazione e superare lo stato di incertezza che deriva dall’incontro con
fenomeni inaspettati e non abituali. Così facendo, però, essi promuovono un
fine non direttamente perseguito, cioè l’incremento del sapere.
Analogamente avviene per ciò che riguarda il linguaggio. Anch’esso, infatti, è
una creazione sociale, e la sua origine, come per tutte le istituzioni umane,
non può essere fatta risalire ad alcun disegno prestabilito, né ad alcuna
singola decisione, ma ad un’infinità di relazioni fra singoli. La ricostruzione,
proposta da Smith, dell’origine del linguaggio e delle sue regole è
manifestamente evolutiva: il linguaggio evolve da forme semplici a forme
complesse ed elaborate che migliorano le possibilità della comunicazione,
attraverso la stratificazione degli sforzi dei singoli parlanti che cooperano alla
comprensione reciproca. Anche le lingue, dunque, non si definiscono in
rapporto ad una razionalità sistematica, ma in relazione alle capacità di ogni
singolo parlante di ovviare alle loro ambiguità.
Sul piano della riflessione morale si è seguito l’emergere di tali
concezioni a proposito dell’analisi riguardante la valutazione di sé stessi e
delle proprie azioni come risultato ultimo e non voluto della eterovalutazione;
la coscienza nella Teoria dei sentimenti morali si configura come un prodotto
sociale non intenzionale del processo simpatetico. Del resto le stesse regole
della moralità si formano insensibilmente tramite il giudizio e l’osservazione
del comportamento altrui. E’ a tali regole che si deve la nascita di quel
“senso del dovere” che dirige la maggior parte degli uomini nelle loro azioni;
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in altre parole il “senso del dovere” è un effetto non intenzionale della
costituzione delle norme morali e di diritto e, dunque, nelle visione smithiana,
le nozioni morali seguono, non precedono, l’esperienza morale. L’errore del
razionalismo, più volte sottolineato da parte di Smith, è proprio quello di
pensare che le determinazioni morali precedano l’esperienza e stiano a
fondamento delle norme.
E’ stato possibile seguire questo discorso soprattutto a proposito della
concezione smithiana della giustizia. La capacità di determinare e
distinguere “giusto” e “ingiusto”, infatti, non è di pertinenza della ragione,
bensì della passione asociale del risentimento. Il risentimento garantisce il
rispetto della giustizia ponendosi come un freno nei confronti delle offese; la
giustizia è, dunque, una virtù “negativa” la cui realizzazione è possibile solo
come superamento dell’ingiustizia. Le istituzioni morali e sociali, che
presiedono al mantenimento della giustizia, sono la realizzazione
inconsapevole della cooperazione di innumerevoli individui che definiscono
“giusto” e “ingiusto” attraverso il processo di valutazione simpatetica animato
dal risentimento. A ciò segue che l’ordine della società è garantito non dove
esso è posto come obbiettivo diretto da conseguire attraverso un piano
razionale, ma dal risentimento di ogni uomo nei confronti dell’ingiustizia e dal
senso del demerito che richiama la necessità della punizione.
L’antirazionalismo smithiano, di cui l’eterogenesi dei fini e la “mano
invisibile” sono espressione, si manifesta prepotentemente nel principio
dell’economia della natura: l’”Autore della natura” non ha affidato alle limitate
capacità razionali umane il compito di scoprire che il mezzo più adatto, per
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realizzare una società giusta, consiste in una certa applicazione delle pene,
ma ha dotato gli uomini dell’istinto di approvare l’applicazione più adatta a
promuoverla. Riguardo ai fini che la natura privilegia, essa non solo ha
dotato il genere umano del desiderio di realizzarli, ma lo ha dotato anche del
desiderio di servirsi dei mezzi utili a realizzarlo: è la fame che ci spinge a
nutrirci, non la considerazione razionale della necessità di mangiare per
sopravvivere.
Sono gli istinti, le passioni e i sentimenti umani, mediati dalla simpatia,
a dar vita inconsapevolmente, cioè in virtù del principio delle conseguenze
non intenzionali, alle istituzioni morali giuridiche ed economiche: è per tale
motivo che esse, nonostante siano espressione del mondo umano e,
dunque, storico, sono definite come “naturali”.
Si è sottolineato, nelle pagine precedenti, che una tale “naturalità”
delle istituzioni umane porta Smith a considerare la società come un
meccanismo ben congegnato: come gli ingranaggi di un orologio sono tutti
regolati per il fine per cui è stato costruito, cioè segnare le ore, così gli
uomini sono naturalmente dotati dei mezzi necessari alla prosperità sociale.
Anzi, se gli ingranaggi dell’orologio fossero stati forniti del desiderio di
segnare l’ora, non sarebbero per questo riusciti meglio nel loro intento, così
come gli individui non contribuirebbero maggiormente alla prosperità sociale
se mirassero ad essa direttamente. Ed è un bene che gli uomini conoscano
solo una piccola parte dei fini che le loro azioni contribuiscono a
promuovere: in tal modo, infatti, la natura, illudendoli sulla felicità derivante
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dalle ricchezze e dagli onori, nonché dalla conoscenza, favorisce
l’industriosità umana e la prosperità che ne deriva per l’umanità intera.
Si è analizzato, poi, il fondamento dell’autorità che, in linea con
l’impostazione generale seguita, Smith non individua in alcuna volontà
intenzionale né singola né collettiva, bensì nella disposizione degli uomini a
condividere tutte le passioni dei ricchi e dei potenti e altresì di coloro che
appartengono a famiglie di lunga tradizione o di coloro che semplicemente si
distinguono per superiori capacità fisiche o intellettuali. Allo stesso modo,
l’origine del governo viene ricondotta nell’ambito della concezione evolutiva
delle istituzioni sociali: l’assetto delle istituzioni civili rappresenta
l’espressione politica della soluzione, che la società ha elaborato, al
problema della scarsità. Così, differenti modi di sussistenza esprimono
diversi assetti politico-istituzionali.
La teoria dei quattro stadi di sviluppo della società rende conto dei
meccanismi involontari operanti anche sul piano delle strutture giuridiche; il
passaggio da modi di sussistenza più o meno semplici, come quelli basati
sulla caccia, ad altri più articolati e complessi, come quelli fondati sulla
pastorizia, avviene grazie alla cooperazione degli uomini, attraverso la
divisione del lavoro, che risolve i problemi generati dall’incremento
demografico e dalla conseguente scarsità dei beni di consumo.
La teoria economica di Smith emerge, infine, come si è rilevato, dagli
stessi presupposti: l’introduzione graduale dell’ordine e del buon governo
nelle campagne, che si instaurò sulle ceneri del regime feudale, fu dovuta
principalmente al commercio e alle manifatture; il cambiamento nella
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fisionomia del potere politico che ne seguì, segnò l’affermazione del prudent
man sul landlord. Poche concessioni e franchigie da parte dei sovrani
d’Europa nei confronti delle città, loro naturali alleate contro i signori feudali,
furono sufficienti a produrre un tale cambiamento.
Il libero gioco degli interessi individuali, in un contesto sociale regolato da
norme generali di giustizia, si impone, dunque, senza intenzione, come il
vero promotore del benessere pubblico. Il “sistema di libertà naturale”,
sostenuto e garantito dal “legislatore”, non da uno stato “guardiano
notturno”, fa sì che la concorrenza fra i possessori di capitale riduca i profitti
a tutto vantaggio dei lavoratori salariati, che sono la maggioranza e, dunque,
favorisce la maggiore utilità del maggior numero.
E’ lecito pensare che il successo della dottrina della “mano invisibile”
sia dovuto ai bisogni psicologici di una certa generazione di inglesi che visse
in contrasto con i precetti morali su cui era stata educata. Si può anche
considerare l’idea, secondo cui la felicità pubblica viene servita al meglio se
ognuno persegue i propri vantaggi privati, come una risposta al bisogno di
attenuare il senso di colpa sperimentato da “borghesi vittoriosi”, per troppo
tempo esposti ad un codice morale non borghese174. In tal modo, però, ci si
preclude l’opportunità di comprendere appieno il contributo di Adam Smith
alle “scienze sociali”.
174 Cfr. A. O. HIRSCHMANN, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1983, p. 139.
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