La metafora della “Mano invisibile” nel pensiero di Adam Smith

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVA FACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA TESI DI LAUREA IN FILOSOFIA LA METAFORA DELLA “MANO INVISIBILE” NEL PENSIERO DI ADAM SMITH RELATORE: CH.MO PROF. VINCENZO MILANESI Rossi Alessandro matr. 350065/F

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La “mano invisibile” è la rappresentazione simbolica del principio dell’eterogenesi dei fini e Smith ne ravvisò l’importanza fondamentale per la comprensione dell’agire umano e delle istituzioni sociali.

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UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI PADOVAFACOLTA' DI LETTERE E FILOSOFIA

TESI DI LAUREA IN FILOSOFIA

LA METAFORA DELLA “MANO INVISIBILE”NEL PENSIERO DI ADAM SMITH

RELATORE: CH.MO PROF. VINCENZO MILANESI

Rossi Alessandro

matr. 350065/F

ANNO ACCADEMICO 1996 - 1997

Page 2: La metafora della “Mano invisibile” nel pensiero di Adam Smith

INTRODUZIONE...............................................................................................

CAPITOLO PRIMO: LA “MANO INVISIBILE”.................................................

1.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI.........................................................7

1.2 L’ILLUMINISMO SCOZZESE E IL PARADIGMA EPISTEMOLOGICO

NEWTONIANO...........................................................................................11

1.3 ........INTENZIONALITA’ ED AUTOINGANNO. UN CONFRONTO CON

MANDEVILLE........................................................................................23

CAPITOLO SECONDO: LA “MANO INVISIBILE” E IL PROGRESSO

DELLA SCIENZA, DELLA FILOSOFIA E DELLE LINGUE.............................

2.1 I “SAGGI FILOSOFICI”: LA STORIA DELL’ASTRONOMIA.................33

2.2 .....LA FORMAZIONE ORIGINARIA DELLE LINGUE E LE “LEZIONI DI

RETORICA E BELLE LETTERE”...........................................................40

CAPITOLO TERZO: SVOLGIMENTO. LA “MANO INVISIBILE” E IL

PROGRESSO MORALE, GIURIDICO ED ECONOMICO................................

3.1 LA MORALE: GENESI SOCIALE DELLA MORALITA’ ED ECONOMIA

DELLA NATURA........................................................................................51

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3.2 IL DIRITTO: LA TEORIA DEI “QUATTRO STADI” DI SVILUPPO

DELLA SOCIETA’ E IL RAPPORTO TRA MODI DI SUSSISTENZA E

LEGISLAZIONE.........................................................................................76

3.3 .............L’ECONOMIA: IL “SISTEMA DELLA LIBERTA’ NATURALE” E

L’ALLOCAZIONE OTTIMALE DELLE RISORSE.......................................

CONCLUSIONE..........................................................................................109

BIBLIOGRAFIA..........................................................................................117

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INTRODUZIONE

L’interpretazione del pensiero smithiano pressoché dominante nel

secolo scorso caratterizzò l’opera di Adam Smith in senso fortemente

dualistico. Alcuni pensatori tedeschi1, infatti, riuscirono ad imporre l’idea che

la Ricchezza delle nazioni rappresentasse un capovolgimento delle tesi

sostenute nella Teoria dei sentimenti morali. Da tale interpretazione derivò la

convinzione errata che Smith, a seguito del suo viaggio in Francia come

precettore del Duca di Buccleuch, e in virtù dell’incontro con Quesnay e con

l’ambiente fisiocratico, avesse abbandonato l’idea che la simpatia fosse il

motivo determinante dell’azione umana per abbracciare con decisione una

teoria egoistica dell’agire individuale. La scoperta e la successiva

pubblicazione nel 1937 dell’Abbozzo della Ricchezza delle nazioni, da parte

di W. R. Scott2, costrinse gli interpreti di Smith ad una radicale revisione di

tale idea.

Sembra certo, infatti, che la composizione dell’Abbozzo avvenne nel

1763, cioè prima della partenza di Smith per la Francia, e dunque, poiché

esso contiene in forma sintetica molti temi sviluppati in seguito nella

Ricchezza delle nazioni, divenne molto più difficile sostenere che l’incontro

con i fisiocratici avrebbe causato un autentico capovolgimento nel pensiero

1 Fra essi soprattutto: B. HILDEBRAND, Die Nationaloekönomie der Gegenwart und Zukunft, Literarische Anstalt, Frankfurt, 1848; K. G. A. KNIES, Die Politische Oekönomie von Standpunkte der geschichtlichen Methode, Schwetschke, Braunschweig 1853; W. VON SKARZYNSKI, Adam Smith als Moralphilosoph und Schöepfer der Nationaloekönomie, Grïeben, Berlin 1878. Tali autori sono citati da L. BAGOLINI in La simpatia nella morale e nel diritto. Aspetti del pensiero di Adam Smith e orientamenti attuali, Giappichelli, Torino 1966, dove è presente anche un approccio critico completo riguardo al cosiddetto “Adam Smith problem”, pp. 131 ss.2 W. R. SCOTT, Adam Smith as student and professor, JACKSON, Glasgow 1937.

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smithiano. Gli studi dei maggiori interpreti smithiani di questo secolo hanno

chiarito i presupposti sui quali si fondò l’equivoco di un Adam Smith problem.

La presunta opposizione fra la simpatia della Teoria dei sentimenti

morali e l’egoismo della Ricchezza delle nazioni nacque per un grave errore

interpretativo nella considerazione della simpatia stessa3. Essa, infatti, non

deve essere intesa come il motivo dell’azione, ma come condizione di

possibilità del giudizio morale, in altre parole, essa non è un valore o un

principio morale, ma la condizione del giudizio morale in quanto giudizio

valutativo4.

Se si eccettuano i casi di Viner e Colletti che, per motivi diversi, hanno

continuato a sostenere il contrasto fra le due maggiori opere smithiane5, è

possibile affermare che, ormai, intorno al carattere unitario dell’opera

smithiana nessuno fra i suoi principali interpreti nutre più dubbi.

La questione che rimane ancora aperta riguarda, invece, quale possa

essere una chiave interpretativa che sia capace di rendere conto di tale unità

senza pregiudicare la comprensione della ricchezza e della varietà di temi

del pensiero smithiano.

3 E’ L. BAGOLINI a sostenere una posizione così decisa nell’opera La simpatia nella morale e nel diritto. Aspetti del pensiero di Adam Smith e orientamenti attuali, Giappichelli, Torino 1966.

4 Su quest’idea c’è un sostanziale accordo fra i maggiori interpreti del pensiero smithiano: oltre a BAGOLINI, op. cit.; RAPHAEL e MACFIE, Introduction, in The Theory of moral sentiments, Oxford 1976, p. XIII; T. D. CAMPBELL, Adam Smith’s science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 98 ss; J. R. LINDGREN, The social philosophy of Adam Smith, Nijhoff, The Hague 1973, p. 25; P. BERLANDA in La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 37 (1982), pp. 39-64. Per un approfondimento cfr. pp. 52 ss.5 Se, infatti, J. Viner (Adam Smith and laissez faire, “Jl. Pol. Econ.”, 1927, p. 216) sostiene che ci sono contrasti inconciliabili fra i due libri, L. Colletti (Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 291) ritiene, invece, che la divergenza fra le due opere smithiane sia dovuta all’incompatibilità fra economia ed etica in questa società.

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La proposta di questa tesi è quella di mostrare come il tema della

“mano invisibile” raccolga e riunisca in un unico filo conduttore l’intero

svolgimento dell’opera smithiana, tanto da rappresentarne la cifra simbolica.

Nonostante la diversità degli argomenti trattati e la sorprendente ampiezza di

interessi dimostrata da Smith nell’arco della sua attività intellettuale, infatti,

sembra possibile rilevare il suo costante ricorso alla concezione secondo cui

il bene pubblico, nelle sue molteplici forme, emerge, in molti casi, come

conseguenza non intenzionale del perseguimento di interessi privati: le

azioni umane, cioè, conseguono fini più ampi di quelli effettivamente

perseguiti.

L’impressione generale, ricavabile dalla lettura delle opere di Smith, è

inequivocabile: le istituzioni sociali non sono il portato della volontà di

qualcuno, ma il risultato spontaneo e non consapevole della cooperazione

degli individui.

Se si pone nella giusta considerazione il fatto che per istituzione

sociale Smith non intende soltanto il mercato, ma anche il patrimonio

scientifico e filosofico di un popolo o di una civiltà, il linguaggio, l’insieme

delle norme morali e giuridiche che regolano la convivenza civile e, dunque,

tutti quei fenomeni che, pur non essendo l’effetto della saggezza umana ad

essi orientata, sono conseguenza delle azioni umane, allora, credo sia

indispensabile stabilire come si eserciti l’azione della “mano invisibile”, non

solo riguardo ai processi economici, ma anche rispetto ai processi scientifici,

filosofici, giuridici e morali.

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Le pagine che seguono intendono affrontare il pensiero smithiano

cercando di dimostrare che non solo non è possibile considerare la metafora

della “mano invisibile” come un aspetto marginale o addirittura secondario di

esso6, ma anche che tale immagine è il collante dell’intero sistema

smithiano. Benché tale figura compaia solo due volte lungo tutto l’arco

dell’opera smithiana, non per questo è meno evidente l’interesse continuo di

Smith per tutti i fenomeni che non possono essere spiegati come il risultato

di azioni intenzionali dei singoli individui.

La “mano invisibile” è la rappresentazione simbolica del principio

dell’eterogenesi dei fini e Smith ne ravvisò l’importanza fondamentale per la

comprensione dell’agire umano e delle istituzioni sociali.

6 Macfie ritiene che il contributo più rilevante e originale di Smith risieda nella dottrina dello “spettatore imparziale” e non nella dottrina della “mano invisibile” (The individual in society. Papers on Adam Smith, George Allen & Unwin, London 1967, p. 125). A mio avviso, invece, non è possibile scindere l’una dall’altra.

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1.1 CONSIDERAZIONI PRELIMINARI

L’esplicito ricorso alla figura della “mano invisibile” viene fatto da

Smith in due passi contenuti, l’uno nella IV parte della Teoria dei sentimenti

morali dove l’oggetto della trattazione è l’effetto dell’utilità sul sentimento di

approvazione, l’altro, nel IV libro della Ricchezza delle nazioni nel corso della

trattazione dedicata alle limitazioni dell’importazione di merci dall’estero.

Vale la pena di citarli:

“I ricchi non fanno altro che scegliere nella grande quantità quel che è più prezioso e gradevole. Consumano poco più dei poveri, e, a dispetto del loro naturale egoismo e della loro naturale rapacità, nonostante non pensino ad altro che alla propria convenienza, nonostante l’unico fine che si propongono dando lavoro a migliaia di persone sia la soddisfazione dei loro vani ed insaziabili desideri, essi condividono con i poveri il prodotto di tutte le loro migliorie. Sono condotti da una “mano invisibile” a fare quasi la stessa distribuzione delle cose necessarie alla vita che sarebbe stata fatta se la terra fosse stata divisa in parti uguali tra tutti i suoi abitanti, e così, senza volerlo, senza saperlo, fanno progredire l’interesse della società, e offrono mezzi alla moltiplicazione della specie”7.

Ogni individuo che impiega capitale “preferendo sostenere l’industria interna anziché quella straniera, mira soltanto alla sua sicurezza; e dirigendo quell’industria in modo tale che il suo prodotto possa avere il massimo valore egli mira soltanto al proprio guadagno e in questo, come in molti altri casi, egli è condotto da una “mano invisibile” a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. Né per la società è sempre un male che questo fine non entrasse nelle sue intenzioni. Perseguendo il proprio interesse, egli spesso promuove quello della società in modo più efficace di quando intenda realmente promuoverlo”8.

E’ necessario partire dall’osservazione preliminare della metafora

smithiana prima di seguirne il percorso e lo svolgimento concettuale.

Innanzitutto, l’associazione dei due termini è abbastanza curiosa, dal

momento che parlare di “mano” è suggerire più che una presenza, un

intervento; e che qualificare questa mano come “invisibile” è designare

l’intervento che essa suggerisce come occulto. Si pone, quindi, un problema

7 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 375-76.8 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 584.

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circa le modalità di un tale intervento. Precisato che, di tale mano, in Smith,

non c’è che il concetto, le caratteristiche che la “mano invisibile” presenta,

nei passi citati, sono fondamentalmente due.

La prima è che essa non esercita la sua azione su tutti gli individui,

ma soltanto su alcune categorie di essi: i “ricchi” proprietari fondiari nella

Teoria dei sentimenti morali; gli “individui che impiegano il loro capitale” nella

Ricchezza delle nazioni.

La seconda caratteristica riguarda la sua azione vera e propria. La

mano è invisibile non perché non appare materialmente o perché operi

senza lasciare tracce, ma semplicemente perché essa non fa niente. I

“ricchi”, sotto la sua guida, non smettono di assecondare la loro rapacità e di

seguire i loro vani ed insaziabili desideri, così come “gli individui che

impiegano il loro capitale” non smettono di agire seguendo il proprio

guadagno. L’inazione che contraddistingue la “mano invisibile” non è però

senza spiegazioni: essa, infatti, conosce qualcosa che non sanno coloro che

ne veicolano l’intervento e cioè il servizio pubblico promosso dalla loro

ostinazione a perseguire il proprio interesse nonché il beneficio derivante a

tutti dalla loro ignoranza.

Così la sua inazione è giustificata da ciò che sa, e ciò che sa non

deve essere saputo poiché è proprio la cecità dei “ricchi” e dei “possessori di

capitale” che determina i benefici che la società ottiene dalla loro condotta

privata. A questo punto, poiché l’inazione si rivela per ciò che è, una forma di

azione, e poiché l’invisibilità corrisponde ad una cecità (deception), la mano

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da esteriore si fa interiore, e parallelamente da particolare diviene generale9.

Infatti la cecità di cui si tratta, benché faccia riferimento principalmente

ai ricchi, è sì, quella che risulta dalle loro passioni o dalla logica dei loro

possessi, ma è, soprattutto, quella derivante da una percezione limitata della

loro condotta, in base alla quale le azioni si risolverebbero nel loro oggetto

apparente e cosciente. Secondo tale percezione, la condotta dei “ricchi” e

degli “individui che impiegano capitale” non può avere per termine esclusivo

che quello che li guida: il loro proprio interesse. Ma, per quanto privata sia, la

loro condotta non può evitare che essi, come tutti gli altri uomini, non siano

più sottomessi alla natura.

L’avidità che dilata l’orizzonte visivo del ricco, come di qualunque altro

uomo, non può far aumentare allo stesso modo le dimensioni del suo

stomaco10. Inoltre le azioni che l’ambizione suscita per il suo

soddisfacimento, non compromettono affatto la duplice determinazione che

è all’origine delle società umane: da un lato l’incapacità nativa, da cui gli

uomini sono afflitti, di soddisfare autonomamente l’insieme dei loro bisogni

che li fa dipendere gli uni dagli altri; dall’altro, e in conseguenza di ciò, la

capacità di dare una forma giuridica ai rapporti di dipendenza che li legano,

e di sottomettersi a delle regole che consentono loro, a differenza delle altre

specie animali, di raggrupparsi in società.

Solo gli uomini sono in grado di cooperare attraverso la divisione del

lavoro:

9 Cfr. P. TAIEB, Tours de mains (Adam Smith), “Rev. Synth.”, 1989 (110), pp. 189-203.10 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 273. Ibid., p. 92. Tale argomento risale all’Epistola a Lucilio di Seneca, cfr. A. ZANINI, Adam Smith. Economia, morale, diritto, Bruno Mondadori, Milano 1997, p. 129.

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“Nessuno ha mai visto un cane fare con un altro cane uno scambio leale e deliberato di un osso contro un altro. Nessuno ha mai visto un animale esprimere con gesti e grida naturali: questo è mio, quello è tuo; sono disposto a dare questo per quello”11.

Esseri non auto-sufficienti se paragonati agli altri esseri animali, gli

uomini sono felicemente esseri di ragione, di linguaggio, di diritto e, come

tali, degli esseri sociali. Così, le società umane, conformemente alla mutua

dipendenza nella quale, per natura, gli uomini sono legati tra loro e che fa sì

che esse esistano, sono costruite sul principio che ogni uomo non può

realizzare i propri scopi che attraverso la mediazione degli altri.

Così, se voglio ricevere, devo essere disposto a donare qualcosa:

l’evidente significato di ogni offerta è che tu mi dia quella cosa di cui ho

bisogno così avrai in cambio questa di cui hai bisogno.

Riassumendo, dunque, i “ricchi” non possono soddisfare i loro vani ed

insaziabili bisogni, e gli “individui che impiegano il capitale” non possono

rinnovarne il valore, senza far ricorso all’industria degli altri e senza

contribuire all’industria generale. Sotto questo aspetto il suggerimento

smithiano circa la presenza di una “mano invisibile” non fa che sottolineare

la dipendenza naturale degli uomini tra loro che si trasmette sulle società

che essi costituiscono. La “mano invisibile” è la rappresentazione metaforica

del principio dell’eterogenesi dei fini che spiega il prevalere dell’ordine della

natura e della società sul disordine e sul caos.

Chiarito il senso della metafora come rappresentazione dell’invisibile

vincolo sociale che lega tra loro gli uomini, anche i più potenti ed egoisti,

11 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 92.

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resta ancora da chiarire il motivo di un’immagine che Smith stesso ci dice

essere segno di una difficoltà della ragione, della sua sorpresa.

1.2 L’ILLUMINISMO SCOZZESE E IL PARADIGMA EPISTEMOLOGICO

NEWTONIANO

Nella “Storia dell’astronomia”12 Smith caratterizza il “pensiero

filosofico” in opposizione al “pensiero primitivo”; il primo ha la caratteristica di

integrare le irregolarità che si producono negli orizzonti del mondo

ricostituendo razionalmente il sistema d’insieme, mentre il secondo è spinto

a rigettare nell’irrazionale tutto ciò che lo confonde e ad attribuire al disegno

di agenti soprannaturali tali irregolarità. Questo sarebbe, per Smith, il senso

dell’attribuzione degli avvenimenti cosmici capaci di suscitare terrore o

venerazione alla “mano invisibile di Giove” secondo i “primitivi”:

“Si può infatti osservare che in tutte le religioni politeistiche, sia presso i selvaggi che nei primi tempi dell’antichità pagana, i fenomeni irregolari della natura sono ascritti al potere dei loro dei. Il fuoco brucia, i corpi pesanti cadono e le sostanze più leggere volano verso l’alto a causa della necessità della loro natura, e non si ritenne mai di utilizzare la “mano invisibile” di Giove per queste faccende. Ma i tuoni e i fulmini, le tempeste e la luce del Sole, fenomeni più irregolari, furono ascritti al suo favore o alla sua ira”13.

Credo sia importante sottolineare che, nonostante la “mano invisibile”

nei contesti precedentemente osservati della “Teoria” e della “Ricchezza”

possa avere la stessa funzione della “mano invisibile di Giove”, rispetto

12 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 51-117.13 Ibid., p. 67.

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all’esigenza di spiegare fenomeni inaspettati, essa non la compie nello

stesso modo.

I suoi interventi non sono più associati, infatti, come facevano gli

antichi, agli eventi che turbano l’ordine, ma, piuttosto, all’ordine nascosto

sempre presente anche là dove sembra esserci disordine. Fra le due

immagini si pone, dunque, un cambiamento fondamentale nel modo di porsi

dell’uomo di fronte alla Natura: l’uomo “primitivo” attribuisce la causa dei

fenomeni che ritiene irregolari ad un’intelligenza che opererebbe contro la

legge e la regola, l’uomo “moderno”, invece, forte della lezione della scienza

galileiano-newtoniana, sa che non esistono fenomeni che si possano dire

irregolari poiché la natura tiene tutto insieme in una medesima catena

invisibile.

Ciò che meraviglia l’uomo “moderno”, dunque, non è più il disordine,

ma lo spettacolo che la natura offre nel suo insieme, il suo ordine.

Così, il soprannaturale non è più pensato ad immagine e somiglianza

degli uomini che agiscono per arrestare, contrastare e cambiare il corso

delle cose, ma viene riferito ad un ente che agisce in un modo diverso dal

loro14.

Macfie fa notare come non sia fortuito che Smith in quest’occasione parli

della mano di Giove e non della mano del dio cristiano cui allude quando usa

la metafora negli altri due casi15. Il passo sopra citato può essere inteso,

quindi, solo in connessione con la considerazione che quando la legge,

finalmente, istituisce l’ordine della società “la curiosità degli uomini si

14 Cfr. A. L. MACFIE, The invisible hand of Jupiter, “J. Hist. Ideas”, 1971 (32), 595-9.15 Ibidem.

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accresce e le loro paure diminuiscono”, essi sono più attenti ai fenomeni

della natura e alla catena che li tiene uniti e sono meno propensi ad

ipotizzare l’intervento di quegli esseri invisibili creati dall’ignoranza dei loro

rozzi antenati16. E’ allora la mentalità primitiva che, di fronte a fenomeni

irregolari quali comete, eclissi, tuoni, fulmini e altri ancora, per coprire

l’incapacità di offrire risposte adeguate crea il mito del dio capriccioso che li

causerebbe. L’ingenuità di questa spiegazione non consiste, però, nel fare

ricorso a un’intenzionalità più grande dei singoli uomini, poiché è lo stesso

Smith ad ammetterne l’esistenza e l’operatività, ma nel pensare che tale

intenzionalità agisca, dall’esterno, creando disordine e irregolarità piuttosto

che armonia.

Il dato emergente da tale confronto è che la spiegazione dei

fenomeni, anche di quelli a prima vista irregolari, va cercata dentro la loro

connessione causale, ed è confermato dall’atteggiamento critico assunto da

Smith nei confronti delle spiegazioni ad hoc. L’approccio empiristico

smithiano enfatizza sempre i fatti e l’esperienza, e tende a un’indagine della

“natura interna” dei fenomeni17.

Egli rifiuta il ruolo dell’ingegnere che disegna ciò che ha in mente, e accetta

piuttosto quello di “meccanico illuminato” che dedica la sua attenzione alla

comprensione di come le parti della natura si combinano insieme18.

16 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 68.17 Smith stesso dice della sua filosofia morale: “ Si consideri inoltre che la presente ricerca non riguarda una questione di diritto, se così posso esprimermi, ma una questione di fatto”. Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 196.18 Cfr. M. L. MYERS, Adam Smith as critic of ideas, “ Jl. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 281-96.

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E’ molto importante, a questo punto, sottolineare l’influenza del

pensiero di Newton su quello del Nostro autore, e non solo per il tema della

“mano invisibile”, appena visto.

Diversi studi hanno sottolineato il grande fermento, oltre che

economico, anche religioso e culturale della Scozia dei primi del

Settecento19. Le università, in particolare, e i vivaci Clubs che esse

alimentarono, si aprirono alle novità provenienti dalla filosofia sperimentale e

ciò consentì che al loro interno le idee di Newton si diffondessero prima che

nelle stesse università inglesi. Smith fu borsista al Balliol College di Oxford

dal 1740 al 1746, dopo gli studi a Glasgow, e poté constatare personalmente

come a causa del sistema amministrativo dell’università inglese la maggior

parte dei professori avesse, da molti anni, completamente abbandonato

anche l’apparenza di insegnare20.

Innanzitutto, il tentativo smithiano di scoprire i meccanismi sottostanti

allo sviluppo ed al progresso della conoscenza, della morale, della ricchezza

nonché del diritto e della società nel suo insieme, deve moltissimo

all’esempio trionfale di Newton nella scoperta delle leggi del moto. John

Millar, che seguì le lezioni di filosofia morale di Smith nel 1751-52 a

Edinburgo e che fu suo collega in seguito a Glasgow, scrisse in “Historical

View of the English Government” che la vita intellettuale universitaria

scozzese era alimentata in grande misura dagli scritti di Bacone e Newton e

che se Montesquieu poteva essere considerato una sorta di “Lord Bacon”

19 Si vedano in particolare: F. RESTAINO, Scetticismo e senso comune. La filosofia scozzese da Hume a Reid, LATERZA, Roma-Bari 1974, e R. H. CAMPBELL-A. S. SKINNER, Adam Smith, Croom Helm, London 1982.20 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 931.

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riguardo alla scienza della legislazione, di questo ramo della filosofia Adam

Smith meritava l’appellativo di “Newton”21.

D’altra parte, non si può sottovalutare l’interesse giovanile di Smith

proprio per lo studio dell’astronomia e per la sua storia.

“La storia dell’astronomia” che fa parte di una raccolta di saggi

pubblicati postumi nel 1795, è inserita all’interno del saggio dal titolo “I

principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”22, e diventa, nelle mani

di Smith, l’occasione per illustrare sistematicamente i fondamenti stessi del

progresso scientifico. I “Saggi filosofici” nel loro insieme, poi, benché nei

contenuti siano eccentrici rispetto al complesso dell’opera smitiana,

anticipano e chiariscono il metodo che sarà alla base delle analisi

successive, e sono una sorta di definizione degli strumenti metodologici che

Smith applicherà al mondo morale. Un preciso riferimento di Smith al proprio

“newtonianesimo”23 lo si può riscontrare nella sezione delle “Lezioni di

retorica e belle lettere” dedicata al discorso scientifico-didattico dove Smith

afferma che:

”Nella filosofia naturale o in qualsiasi altra scienza di questo tipo, noi possiamo o esaminare attentamente, come Aristotele, i vari rami della Scienza nell’ordine in cui accade che ci si presentino, attribuendo un principio, di solito un nuovo principio, ad ogni fenomeno; oppure, secondo il metodo di Isacco Newton, possiamo anticipare determinati principi, originari o già dimostrati, e a partire da essi descrivere i vari fenomeni, collegandoli tutti con la medesima catena. Quest’ultimo, che possiamo chiamare il metodo newtoniano, è senza dubbio il più filosofico e, in ogni scienza, sia nella morale sia nella filosofia naturale ecc., è di gran lunga il più ingegnoso e per tale ragione più seducente dell’altro. Esso ci offre il piacere di vedere quei fenomeni che consideriamo i più inspiegabili, tutti dedotti da alcuni princìpi (di

21Cfr. R. H. CAMPBELL-A. S. SKINNER, Adam Smith, Croom Helm, London 1982.22 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 51-139.23 Si vedano a proposito del “newtonianesimo” di Smith: E. LECALDANO, in Paradigmi di analisi della filosofia morale nell’illuminismo scozzese, pp. 13-35 e S. CREMASCHI, in L’illuminismo scozzese e il newtonianesimo morale, pp. 41-76, in Passioni, interessi, convenzioni, Franco Angeli, Milano 1992; inoltre, cfr. S. MOSCOVICI, in A propos de quelques travaux d’Adam Smith sur l’histoire et la philosophie des sciences, “Rev. Hist. Sc.”, 1956 (9), pp. 1-20.

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solito da un principio ben conosciuto) e tutti uniti in una catena; piacere che è di gran lunga superiore a quello che proviamo dal metodo sconnesso dove ogni cosa viene spiegata separatamente senza alcun riferimento alle altre” 24.

Qui è assai significativo l’intento programmatico di fare uso ed

applicare il metodo scientifico anche alla sfera delle scienze umane. Non

stupisce, dunque, che Smith abbia preso a modello la concezione della

natura di Newton quando rappresentò la società come un insieme di

individui spinti dal proprio interesse personale all’interno di un ordine

economico governato dalle leggi della domanda e dell’offerta25.

L’influenza determinante che Newton ebbe su Smith, del resto, va

estesa a tutto il pensiero dell’illuminismo scozzese, che non sarebbe

pensabile senza un riferimento preciso al grande scienziato. E’ possibile,

infatti, osservare una sorta di progressione graduale, lo sviluppo di un

“paradigma epistemologico” newtoniano che a partire da Francis Hutcheson

attraverso l’opera di David Hume si compie proprio con Adam Smith26.

Quest’ultimo considera teorie e sistemi, sia scientifici che morali o più in

genere sociali, come delle “macchine immaginarie” tra cui si istituisce un

confronto nel tentativo di migliorarle, cioè di renderle adatte a descrivere un

sempre più ampio spettro di fenomeni.

Attraverso l’osservazione di un grande numero di “casi” egli ritiene si possa

giungere, induttivamente, alla formulazione di princìpi di carattere universale,

di cui verificare la tenuta attraverso il continuo confronto con i fenomeni

24 A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi, Urbino 1985, p. 423.25 Cfr. J. C. GREENE, Darwin and the modern world view, Baton Rouge, 1961, p. 88, citato da N. S. HETHERINGTON, Isaac Newton’s influence on Adam Smith’s natural law in economics, “J. Hist. Ideas”, 1983 (44), p. 499.26 Tale proposta è avanzata da E. LECALDANO, in Paradigmi di analisi della filosofia morale nell’illuminismo scozzese, in Passioni, interessi, convenzioni, Milano, Franco Angeli, pp. 13-35.

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dell’esperienza. Si può osservare, qui di seguito, come sulla scorta del

metodo di Newton, Smith scarti posizioni tipiche rispettivamente di Hume e

Hutcheson.

Smith supera il concetto humiano di giustizia “artificiale” poiché

concepisce la teoria del “processo valutativo simpatetico” come condizione

della stessa costituzione dell’obbligo; in altre parole, definendo la giustizia in

funzione dell’ingiustizia e questa in relazione col risentimento che essa

suscita e che giustifica la pena, non c’è bisogno di fare ricorso all’artificio del

Governo civile27. Far dipendere la giustizia dal governo civile, come fa Hume,

comporta, infatti, l’introduzione di un principio nuovo per spiegare un

fenomeno nuovo e quindi una deroga rispetto al metodo corretto, quello

newtoniano.

In tal senso Smith opera un ribaltamento della posizione di Hume poiché il

governo civile diviene l’effetto, l’espressione istituzionale, per così dire, di

una giustizia comunque emergente dalla dinamica del processo di

valutazione simpatetica. In base al principio esposto da Smith nel passo

sopra citato, Hume, in questo caso, sarebbe più aristotelico che newtoniano.

L’altro esempio ci fa risalire direttamente alla Teoria dei sentimenti

morali e precisamente alla parte dedicata alla trattazione dei sistemi di

filosofia morale. Mentre secondo Hutcheson il principio di approvazione è

fondato su un sentimento di natura peculiare che prende il nome di “senso

morale”, Smith afferma che per dare conto del principio di approvazione non

c’è motivo di supporre un nuovo potere di percezione di cui non si è mai

27 Si veda per questa interpretazione L. BAGOLINI, in David Hume e Adam Smith. Elementi per una ricerca di filosofia giuridica e politica, Pàtron 1976.

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sentito parlare prima. La Natura qui, come in tutti gli altri casi, agisce

secondo la più rigorosa economia, e produce una moltitudine di effetti da

una e unica causa, e la simpatia, un potere che è stato messo in rilievo da

sempre, e di cui la mente è evidentemente dotata, è sufficiente a dar conto

di tutti gli effetti attribuiti a questa facoltà peculiare28. Anche qui, come nel

caso precedente, si vede bene come Smith ritenga corretto il metodo che, a

partire da determinati principi, cerchi di comprendere tutti i fenomeni in una

medesima “catena” di connessioni causali, evitando il ricorso, artificioso, a

principi nuovi: la simpatia spiega l’intero universo morale.

L’accenno all’economia della natura, d’altra parte, è particolarmente

illuminante poiché ci riporta immediatamente al terzo libro dei “Principia” di

Newton, vale a dire al luogo dove l’astronomo inglese enunciando le regole

del ragionamento filosofico ci lascia intravedere quelli che sono i presupposti

ontologici della sua concezione dell’universo: semplicità e uniformità della

natura. Così, le “macchine immaginarie” (in questo modo Smith chiama le

teorie scientifiche) per essere specchio della Natura debbono essere quanto

più è possibile semplici, uniformi e coerenti al loro interno, poiché descrivere

tutti i fenomeni a partire da determinati principi è il sistema, come abbiamo

visto, più filosofico.

Va precisato, comunque, che la tradizione di newtonianesimo

rilevabile nei filosofi dell’illuminismo scozzese presenta elementi di

discontinuità nei confronti dello stesso Newton. Ciò si deve, da un lato, alle

licenze che i singoli autori stessi si presero rispetto al modello di riferimento:

28 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 605.

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Hume, per esempio, non accolse la validità dello argument from design

come fondamento di una teologia razionale. Dall’altro lato, le difficoltà di

applicazione del metodo della filosofia naturale all’ambito delle scienze

umane, e soprattutto l’impossibilità dell’esperimento scientifico, giocarono un

ruolo importante nell’allontanamento degli “allievi moralisti” dal “maestro

scienziato”.

In particolare, riguardo al problema dell’esperimento, Smith trovò una via

d’uscita attraverso il “metodo storico” e attraverso ciò che Dugald Stewart

definì “storia congetturale”29, che gli rese possibile l’estensione del principio

dell’analogia della natura al mondo storico30.

Gli insegnamenti e le indicazioni fondamentali che Smith, insieme a

Hume, trasse dalla lezione metodologica di Newton, vanno comunque estesi

al concetto di “principio”.

Le particolarità di “principi” di comportamento come la propensione

allo scambio o il desiderio di migliorare la propria condizione31 (ma anche del

meccanismo impersonale di gravitazione dei prezzi di mercato intorno al

prezzo naturale) sono secondo Smith principalmente due: il loro carattere

non ultimo e il loro rapporto di causa-effetto con i fenomeni32. Riguardo al

primo punto, Smith sottolinea che anche se tali “principi” sono osservabili

come costanti del comportamento umano o del meccanismo sociale, essi

29 D. STEWART, Account of the life and writings of Adam Smith, in Essays on philosophical subjects, Oxford 1981.30 Sul concetto di storia teoretica o congetturale, cfr. A. M. IACONO, L’idea di “storia teoretica o congetturale” negli scritti filosofici e sul linguaggio di Adam Smith, “Teoria”, 1989 (9), pp. 113-33.31A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 91 e p. 463.32 Si veda: N. S. HETHERINGTON, Isaac Newton’s influence on Adam Smith’s natural law in economics, “Jl. Hist. Ideas”, 1983 (44), pp. 497-505.

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vanno tenuti rigorosamente distinti dalle “qualità originali” della natura, sulle

quali non ritiene di poter dare indicazioni ultime. Circa il secondo punto egli

sottolinea che il “fenomeno“ della divisione del lavoro, da un lato, è un effetto

della propensione umana allo scambio, dall’altro, è causa della differenza di

ingegno fra gli uomini33.

Non si possono concludere queste brevi pagine dedicate

specificamente al debito teoretico di Smith nei confronti di Newton, senza

aver ricordato che nella “Storia dell’astronomia” l’impianto empiristico e

sperimentale della sua filosofia è confermato dall’osservazione che mentre

stava “tentando di rappresentare tutti i sistemi filosofici come semplici

invenzioni dell’immaginazione”, egli era stato trascinato insensibilmente a

parlarne “come se essi fossero le catene reali che la natura utilizza per

collegare le sue molteplici operazioni” 34. I limiti della conoscenza, e delle sue

costruzioni teoriche impongono di considerare le “macchine immaginarie”

come descrizioni della realtà e, quanto alle cause ultime, dovrebbe valere il

proposito galileiano di “non tentar l’essenza”.

Jacob Viner, comunque, enfatizzando il rilievo fatto da Smith sulla

distinzione fra “macchine immaginarie” e “catene reali”, ha rilevato che la

filosofia non potrebbe essere scienza dei principi connettivi della natura se

tali principi fossero semplicemente contenuti mentali. Egli ritiene che tale

ambiguità sia superata nella Teoria dei sentimenti morali e nella Ricchezza

33 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 647-48.34 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p.117.

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delle nazioni attraverso il ricorso alla fede deistica e alla credenza che

l’universo di Dio debba essere necessariamente ordinato e sistematico35.

Si deve ammettere, tuttavia, che tale ambiguità può essere dovuta al

tentativo smithiano di rompere con i parametri cartesiani di chiarezza e

distinzione delle idee attraverso l’accettazione del ruolo attivo

dell’immaginazione nella costituzione dell’esperienza.

E’ possibile, comunque, dare risposta al rilievo del Viner, e di tutti gli

interpreti che considerano il pensiero smithiano fortemente scettico circa le

possibilità della conoscenza umana, osservando da vicino la distinzione

operata dallo stesso Smith fra i sistemi di filosofia naturale e quelli di filosofia

morale36. Mentre, infatti, i primi possono più facilmente trovare generale

accoglienza nel mondo, come avvenne per la teoria dei vortici di Descartes,

anche se non hanno alcun fondamento nella natura, né alcuna somiglianza

con la verità, per i secondi le cose stanno diversamente, poiché è molto più

difficile che ci inganniamo sui nostri sentimenti morali. Così, se è possibile

che sistemi di filosofia naturale non veri siano accettati, ciò accade solo

perché, da un lato essi non ci toccano da vicino e, dunque, più difficilmente

possiamo avvertirne la falsità, dall’altro perché richiede più tempo la loro

verifica empirica37.

35Cfr. J. VINER, The intellectual history of laissez faire, “Jl. of Law and Economics”, 1960, pp. 45-69. Cfr., inoltre, A. D. MEGILL, Theory and experience in Adam Smith, “Jl. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 281-96.36 Per tale questione si consultino S. CREMASCHI, Il sistema della ricchezza. Economia politica e problema del metodo in Adam Smith, Angeli, Milano 1984 e F. BRUNI, La nozione di lavoro in Adam Smith, “Riv. Fil. Neoscol.”, 1987 (79), pp. 67-95.37 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 591.

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1.3 INTENZIONALITA’ ED AUTOINGANNO. UN CONFRONTO CON

MANDEVILLE

Dopo aver cercato di descrivere e definire il significato della metafora

adottata da Smith, credo convenga chiarirne alcuni aspetti evidenziando i

limiti entro i quali essa deve essere intesa.

Il fraintendimento più frequente della “mano invisibile” si deve in gran

parte all’identificazione dei due diversi significati di essa che abbiamo

incontrato. La sottovalutazione della distanza che li separa, dovuta, come si

è visto, al radicale cambiamento del costume scientifico umano che

intercorre fra “antichi” e “moderni”, porta ad uno schiacciamento della “mano

invisibile” sulla “mano invisibile di Giove”. Si finisce, in tal modo, con

l’attribuire a Smith lo stesso atteggiamento nei confronti delle irregolarità che

egli vide essere proprio degli “antichi” e che descrisse in contrapposizione al

metodo di spiegazione da lui adottato. Due aspetti possono, dunque,

emergere in seguito a questa confusione: da un lato la convinzione che

Smith, per così dire, ammetta l’esistenza di una discontinuità tra l’agire

individuale e i risultati collettivi, la quale richiederebbe l’intervento regolatore

della “mano invisibile”; dall’altro che sia proprio la necessità di una

sovraintenzionalità regolatrice a denunciare implicitamente l’irregolarità dei

fenomeni su cui è costretta ad intervenire38. Giova ripetere che le

argomentazioni sopra esposte circa la funzione e le modalità di azione della

38 Si veda per queste tesi: A. M. IACONO, Adam Smith e la metafora della “mano invisibile”, “Teoria”, 5 (1985), pp. 77-94.

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“mano invisibile”, sottolineano che dove un “antico” vedrebbe discontinuità e

irregolarità Smith vede il dispiegarsi di legge e regolarità.

Sembra evidente, ad ogni modo, in questa visione, l’esplicito

riferimento alla filosofia stoica che, però, Smith accoglie con forti riserve

assai significative per la comprensione dell’effettivo ruolo della “mano

invisibile” nel suo pensiero39. Gli antichi stoici, infatti, ritenevano che, poiché

il mondo è governato dalla provvidenza onnipotente di un dio saggio e

buono, ogni singolo evento dovesse essere considerato come parte

necessaria dell’universo che tende a promuovere l’ordine e la felicità

generale del tutto, e che, quindi, tanto i vizi e le follie quanto la saggezza e la

virtù dell’uomo giocassero un ruolo necessario nell’economia di un tale

disegno e conducessero alla perfezione del sistema della natura. Ebbene,

Smith, benché affascinato, dice inequivocabilmente che “nessuna

speculazione di questo tipo, per quanto profondamente radicata nella mente,

potrebbe indebolire la nostra naturale ripugnanza per il vizio”40. Smith,

dunque, riconosce come un bene il fatto che la natura si imponga su di noi

facendoci vedere i piaceri della ricchezza e del lusso come qualcosa per cui

valga la pena impegnarsi e che attraverso tale inganno ci guidi al

raggiungimento di scopi più ampi di quelli che consapevolmente cerchiamo

di perseguire, (anche se il vagabondo che si crogiola al sole gode della pace

e della tranquillità per cui i principi della terra combattono e si dannano), ma

rifiuta l’idea degli Stoici secondo cui vizi e virtù, allo stesso modo,

contribuirebbero alla perfezione della natura. Quanto detto, però, non basta,

39 Cfr. G. VIVENZA, Adam Smith e la cultura classica, IPEM Edizioni, Pisa 1984, pp. 75 ss.40 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995; p.127.

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poiché non è soltanto una ripugnanza di carattere morale a spingere Smith

al rifiuto della posizione stoica, ma anche un convincimento attinente proprio

alla considerazione della perfezione della natura: egli non ritiene affatto che

anche i vizi contribuiscano alla sua realizzazione.

La radicalità del rifiuto di quest’idea è ravvisabile nell’opposizione al

sistema mandevilliano che sembra cancellare la distinzione tra virtù e vizio

appoggiando l’idea che il pubblico bene sia fondato sul vizio privato. Ebbene,

Smith confuta l’impostazione dell’olandese dimostrando come essa conduca

a conseguenze economiche sbagliate.

Trattando della dottrina mercantilista, cioè della dottrina che individua

la prosperità di una nazione nella disponibilità di moneta e di denaro, Smith,

nelle Lezioni di Glasgow, dice che uno dei suoi effetti negativi è la

convinzione relativa alla spesa estera e a quella interna41. Il necessario

corollario di questa premessa era, infatti, che nessuna spesa all’interno

potesse diminuire la ricchezza pubblica o nazionale. Da ciò Mandeville

concluse che i vizi privati rappresentano pubbliche virtù poiché pensava che

nessun lusso, né lo sperpero maggiore immaginabile, se rivolti a merci di

produzione nazionale, potessero essere minimamente dannosi. Egli

pensava che se si fossero tenute lontane tutte le merci straniere, ciascuno

avrebbe potuto spendere quanto gli pareva e la nazione sarebbe rimasta

ricca come prima, in quanto la moneta non veniva mandata all’estero ma

restava in patria.

41 Cfr. A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 504-505.

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La replica di Smith si rivolge prevalentemente, almeno in questa sede,

contro le considerazioni economiche mandevilliane notando come chiunque

sperperi il suo capitale diminuisca necessariamente, in proporzione, la

prosperità del proprio Paese. Infatti, sebbene la quantità di moneta resti

invariata, non altrettanto si può dire del capitale. “Se possiedo mille sterline e

le spendo tutte in sperperi, vi sono ancora mille sterline nel regno, ma vi

sono mille sterline in meno di capitale”42.

Come si vede, qui entrano in gioco le nozioni contrapposte di spesa,

cioè, quella orientata ai beni durevoli e quella orientata ai beni deperibili.

Orbene, più la spesa si rivolge ai primi e più la magnificenza di un individuo

come di una nazione aumentano, dal momento che la spesa di ogni giorno

contribuisce a sostenere e ad accrescere l’effetto di quella del giorno dopo43,

ma ciò che più conta è che “la spesa erogata in beni durevoli mantiene

normalmente un maggior numero di persone di quella erogata nella più

profusa ospitalità”44. E’ alla luce di queste riflessioni che mi sembra prendere

corpo la corretta interpretazione della “mano invisibile”: chi impiega un

capitale in una qualsiasi attività, secondo Smith, pur essendo mosso da un

desiderio tutto particolare e personale, estende i benefici del proprio

investimento a persone produttive, aumentando così il valore di scambio del

prodotto annuale del suo paese. L’aumento della prosperità, la distribuzione

equa delle risorse, lo sviluppo e il beneficio pubblico sono promossi dalla

oculatezza degli investimenti, dalla parsimonia e dal lavoro produttivo

42 Ibid., p. 505.43 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 470.44 Ibid., p. 471.

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motivato dalla volontà di migliorare la propria condizione personale, non da

qualsiasi forma di egoismo vizioso che, misteriosamente, grazie

all’intervento, in tal caso, sì, magico, di una “mano invisibile” porterebbe alla

promozione del bene comune. L’azione della “mano invisibile“ è pensabile in

un sistema non soltanto economico, ma soprattutto in un sistema morale,

senza il quale essa non potrebbe svolgersi. Tale sistema, descritto da Smith,

è un ordine di mercato libero, regolato da norme astratte, all’interno del

quale ognuno può muoversi perseguendo vantaggiosamente i propri fini ed è

il risultato di un lungo processo storico.

Si è detto del rifiuto da parte di Smith delle conseguenze economiche

della identificazione operata da Mandeville fra vizi privati e pubbliche virtù; a

ciò va aggiunto il rifiuto dei presupposti morali di tale identificazione.

Smith attribuisce alla malignità l’atteggiamento mandevilliano, che riconduce

all’amore per la lode o per la vanità tutte le azioni che invece dovrebbero

essere fatte risalire all’amore per l’essere degni di lode45.

Infatti, il desiderio di compiere nobili azioni o di essere oggetti appropriati di

stima non può essere considerato vanità, come, del resto, il desiderio di

acquistare fama e onori per qualcosa che ne sia davvero degno. Né l’amore

per la virtù, né l’amore per la gloria, benché quest’ultimo sia di grado

inferiore al primo, possono, dunque, essere confusi con il vizio46. Comunque,

dal momento che non è possibile che un sistema di filosofia morale possa

venire in qualche modo accettato senza che, al suo interno, ci sia un

45 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 279-280.46 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 584.

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qualche fondamento di verità, Smith riconosce che almeno alcune parti del

sistema di Mandeville devono essere esatte.

Macfie ha sottolineato come la fonte del concetto smithiano dello

sviluppo economico, basato sulla concorrenza degli interessi individuali e

sulla divisione del lavoro, non può non aver tratto ispirazione dalla Favola

delle api47; Viner ha osservato che la formula “vizi privati, pubbliche virtù” è

deliberatamente provocatoria e offensiva nei confronti del comune senso

morale, ma, se sotto questo riguardo è stata rifiutata da Smith, nel concetto

essa fu pienamente accolta48. Proprio la metafora della “mano invisibile”

dovrebbe esprimerne il senso: ”La formula di Mandeville appare

un’anticipazione della teoria della ‘mano invisibile’ di Smith: un richiamo a

quell’opera della Provvidenza (evocata più volte nella Teoria dei sentimenti

morali e nella Ricchezza delle nazioni), che, dal caos degli interessi privati in

lotta tra loro, fa scaturire, come per miracolo, l’armonia generale”49. La

stessa opinione, senza allusioni a miracoli e armonie, è espressa da

Heilbroner secondo cui il paradosso mandevilliano rimarrebbe irrisolto nel

pensiero di Smith50. Già Marx, del resto, rilevò ne “Il capitale” che il celebre

passo della Ricchezza delle nazioni, in cui Smith descrive quanti lavori

collaborino alla soddisfazione dei bisogni di un operaio in un paese civile,

era tratto quasi letteralmente dalla difesa di Mandeville dagli attacchi alla sua

Favola delle api. Prima di lui Kant scrisse: “C’è da sperare che, via via che

47 Cfr. A. L. MACFIE, The individual in society. Papers on Adam Smith, George Allen & Unwin, London 1967, p.116.48 J. VINER, Adam Smith and laissez faire, “Jl. Pol. Econ.”, 1927, pp. 198-232.49 L. COLLETTI, Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 281.50 R. L. HEILBRONER, The socialization of the individual in Adam Smith, “Hist. Pol. Econ.”, 1982 (14), pp. 427-39.

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gli uomini progrediranno nelle arti e nelle scienze che tendono a soddisfare i

loro bisogni pubblici e privati, troveranno che, quanto più efficaci sono i

mezzi per procurarsi l’utile proprio, tanto più essi concordano con la morale,

con i doveri reciproci e con la finalità generale della provvidenza di rendere

felici tutte le creature: già oggi la filosofia ha purgato la scienza

dell’economia e delle finanze da alcuni pregiudizi dannosi all’umanità,

dimostrando essere inutile e dannoso per lo Stato ciò che un tempo si

considerava e si raccomandava come un guadagno da perseguire a spese

degli stranieri”51. Se la prima parte del passo si riferisce esplicitamente alla

morale dell’Apologo delle api, la seconda fa riferimento alle critiche rivolte da

Smith al sistema mercantilistico nel IV libro della Ricchezza delle nazioni,

che Kant aveva letto, ed è quindi significativo che egli unisca in una sola

considerazione i due autori52. Schumpeter, infine, sostiene che se Mandeville

rappresentò nel migliore dei modi la funzione sociale assolta dall’interesse

individuale nel campo economico, egli non fu il solo a formulare un tale

concetto e più di un argomento dimostra l’influsso che egli ebbe su Smith53.

In conclusione, quindi, sembra che la differenza tra Smith e

Mandeville si possa definire in questo modo: mentre Mandeville

provocatoriamente, contro l’ipocrisia e la bigotteria puritane, considera

viziosa ogni azione rivolta all’interesse personale, Smith considera tale

attività virtuosa se contenuta nei limiti di justice e propriety.

51 I. KANT, Sul rapporto della morale con la politica, in Scritti politici a cura di a cura di N. BOBBIO, L. FIRPO, V. MATHIEU, UTET, Torino 1965, p. 658.52 Trattando del denaro ne La dottrina generale del diritto, Kant illustra la concezione smithiana della moneta. In Scritti politici a cura di a cura di N. BOBBIO, L. FIRPO, V. MATHIEU, UTET, Torino 1965, p. 473.53 J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972.

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Una tale impostazione, del resto, è confermata dalla presenza, nel

pensiero smithiano, di due concetti di moralità, che fanno riferimento, l’uno,

alla virtù nel senso proprio, l’altro alla semplice convenienza e

appropriatezza54.

C’è grande differenza tra virtù e semplice appropriatezza, tra ciò che

merita di essere ammirato e ciò che più semplicemente è oggetto di

approvazione.

Infatti, “non c’è abilità nel grado comune delle qualità intellettuali, e allo stesso modo non c’è virtù nel grado comune di quelle morali. La virtù consiste nell’eccellenza, in qualcosa di grande e bello in modo fuori dal comune, e che si pone ben al di là del volgare e dell’ordinario”55.

La virtù, dunque, in quanto eccellenza non è da tutti, non è disponibile alla

gente “rozza e volgare”, ma solo ai pochi uomini saggi56. E’ per questo che

abitualmente, nel giudicare se certe azioni, in situazioni particolarmente

impegnative, siano degne di lode o di biasimo, facciamo uso di diversi criteri

di riferimento. Da un lato, cioè, poniamo l’idea della virtù che nessun uomo

ha mai raggiunto o potrà mai raggiungere, dall’altro lato, consideriamo il

grado di vicinanza a quella perfezione cui giungono normalmente le azioni

della maggior parte degli uomini. Chiunque superi quel livello normale e

ordinario, anche se non raggiunge la perfezione, può essere considerato

virtuoso57.

54 Si veda per questo: N. WASZEK, Two concepts of morality. A distinction of Adam Smith’s ethics and its Stoic origin, “J. Hist. of Ideas”, 1984 (45), pp. 591-606.55 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.108.56 La distinzione fra l’elite dei virtuosi e la gente rozza e volgare, con riferimento ai diversi livelli possibili di vita morale, è sottolineata da H. MIZUTA, in Moral philosophy and civil society, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press, 1975, pp. 114-31.57 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.110.

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Il perseguimento dell’interesse personale rispondendo soltanto al

requisito dell’appropriatezza, non può, dunque, essere considerato

moralmente virtuoso, ma non deve nemmeno essere posto fuori dall’attività

morale. In questo senso è ravvisabile una certa affinità tra Smith e

Mandeville.

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2.1 I “SAGGI FILOSOFICI”: LA STORIA DELL’ASTRONOMIA

I “Saggi filosofici”, pubblicati postumi nel 1795, contengono scritti

composti da Smith in periodi diversi della sua vita. Fra essi, quelli più

significativi per la considerazione del tema della “mano invisibile” sono il già

citato saggio sui “Principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”,

redatto fra il 1749 e il 1758, e quello dal titolo “Considerazioni sulla

formazione originaria delle lingue e sul diverso genio delle lingue semplici e

composte” del 1761.

I “Principi” sono articolati in tre parti che, a un diverso livello di

elaborazione, raccontano, rispettivamente, la storia dell’astronomia, la storia

della fisica, e la storia della metafisica antiche. Muovendo dalla convinzione

che la filosofia sia la scienza dei principi connettivi della natura58, Smith si

propone di esaminare i diversi sistemi della natura che, nel mondo

occidentale, sono stati successivamente adottati dai sapienti per descriverla

e, senza considerare la loro assurdità o la loro probabilità, la loro

concordanza con la verità e la realtà, intende accontentarsi di indagare in

che misura ognuno di essi sia idoneo a placare l’immaginazione ed a

rendere il teatro della natura uno spettacolo più coerente e, perciò, più bello

di quanto altrimenti sembri. La parte più significativa dell’intero saggio è

assolta dalla “Storia dell’astronomia” il cui obbiettivo non è tanto quello di

fare un resoconto storiografico, quanto piuttosto di far emergere, attraverso

esso, la natura e i meccanismi del procedere scientifico. Essa è, però,

58 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 63.

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preceduta da due sezioni dedicate all’analisi degli effetti che l’imprevisto, la

sorpresa e la meraviglia per la novità hanno sulla nostra conoscenza.

La filosofia, dunque, costruisce teorie e sistemi della natura, le

“macchine immaginarie” di cui si è detto più sopra, servendosi di principi che

siano in grado di operare connessioni tra i fenomeni, con l’unico obbiettivo di

ristabilire la tranquillità dell’immaginazione turbata dalla meraviglia. La

dinamica psicologica descritta da Smith mostra come, alla sorpresa causata

da un fatto imprevisto, segua la meraviglia, cioè quell’atteggiamento

emozionale dovuto all’impossibilità di ricorrere all’abituale spiegazione dei

fenomeni. A questo punto, l’immaginazione, per superare la situazione di

disagio venuta a crearsi, innesca il meccanismo di costruzione delle teorie il

cui fine è la creazione di un nuovo costume, o sistema associativo, nel quale

essa possa acquietarsi. L’ammirazione, il sentimento che sorge di fronte a

tutto ciò che manifesta i caratteri della grandezza e della bellezza, sancisce

l’accettazione del nuovo sistema e determina l’acquisizione di un rinnovato

equilibrio.

L’esempio portato per descrivere tale processo è quello di un

naturalista che si trovi alle prese con una pianta e un fossile insoliti. Egli non

è sufficientemente soddisfatto dall’averli riconosciuti come appartenenti al

genere delle piante o dei fossili e cerca di farli rientrare in classi nelle quali

possano essere affiancati ad altri oggetti simili in tutto. Se non riesce a

trovare alcuna classe di riferimento, o allarga i confini di qualcuna di esse, o

ne crea una nuova alla quale potersi riferire successivamente. La pianta e il

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fossile insoliti, insomma, se non possono essere classificati secondo schemi

stabiliti, costringono il naturalista a modificarli o a cambiarli.

La stessa cosa avviene:

“Quando un oggetto abituale compare dopo un altro oggetto a cui solitamente non segue, esso dapprima fa nascere, per la sua imprevedibilità, il sentimento della sorpresa, e successivamente, data la stranezza della successione o ordine di comparsa, il sentimento della meraviglia. (....) Quando due oggetti, per quanto dissimili, sono stati spesso osservati succedersi l’uno all’altro, e si sono costantemente presentati ai sensi in quell’ordine, essi vengono collegati cosi strettamente nell’immaginazione che l’idea dell’uno sembra richiamare e presentare spontaneamente quella dell’altro. (....) Ma se questa abituale connessione si interrompe, (....) allora accade il contrario di tutto ciò. L’immaginazione sente di non passare più con la consueta facilità dall’evento precedente a quello susseguente” 59.

In tal modo il ruolo svolto dall’immaginazione è quello di scoprire le

connessioni all’interno delle quali i fatti insoliti possono venire ricondotti,

poiché, se un fenomeno si presenta isolato, Smith sulla scia di Newton

ritiene che ciò sia dovuto solo all’incapacità umana di osservarne il

collegamento con le catene reali delle cose.

Ciò che interessa alla nostra considerazione, comunque, è che il

movente che spinge l’immaginazione a ricercare nuove connessioni, là dove

quelle vecchie non sono più sufficienti a spiegare i fenomeni, è di natura

psicologica. La ragion d’essere della ricerca scientifica, cioè, risiede nella

volontà “pratica” di placare l’immaginazione. Così i filosofi, mentre cercano di

placare la propria immaginazione, sono condotti a promuovere un fine che

non entrava nelle loro intenzioni: il progresso della conoscenza. Ecco

manifestarsi, anche in ambito epistemologico, il concetto della “mano

invisibile”. Come tutti i fenomeni complessi, derivanti dall’attività degli uomini,

anche il discorso scientifico è l’effetto non intenzionale della propensione

umana a migliorare la propria condizione e a rendere più comprensibile e

59 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 58.

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facile la vita. Che il movente della scienza e della filosofia sia di carattere

psicologico, però, non implica che esse non dispongano di strumenti propri e

razionali quali l’esperimento, le ipotesi o le osservazioni controllate, ma anzi

è una conferma del meccanismo degli unintended results. La scienza

procede attraverso la comprensione progressiva dell’ignoto mediante il già

noto, del non abituale mediante ciò che, essendo di quotidiana esperienza,

non desta più sorpresa, ed è possibile perché vi sono “quelle catene

nascoste di eventi che legano tra loro le manifestazioni apparentemente

incoerenti della natura”60.

Tale concezione si spiega meglio ponendo mente al fatto che Smith,

fedele al principio humiano secondo cui “tutte le nostre idee sono copie di

impressioni”61, è convinto che fra conoscenza razionale e conoscenza

sensoriale vi sia soltanto una differenza di grado, non di valore, ed è

consapevole del ruolo giocato dalle abitudini nel meccanismo di costituzione

della credenza. A differenza di Hume, però, egli, come si è visto, sposta la

spiegazione del funzionamento dell’immaginazione agli ambiti in cui essa

deve comprendere fenomeni nuovi che rompono l’equilibrio dell’abituale

“catena connettiva” e che si accompagnano sul piano psicologico a

“sorpresa” e meraviglia”. Tali emozioni rappresentano un momento di crisi e

difficoltà che l’immaginazione cerca di superare, o attraverso l’introduzione

di nuove teorie, o attraverso successive modifiche delle vecchie.

La descrizione del sistema delle sfere concentriche apre la storia

dell’astronomia. Esso fu il primo autentico sistema astronomico che il mondo

60 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 65-6.61 D. HUME, Trattato sulla natura umana, Laterza, Roma-Bari 1993.

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Page 37: La metafora della “Mano invisibile” nel pensiero di Adam Smith

conobbe e che, insegnato inizialmente dai pitagorici, fu adottato con qualche

modifica da Aristotele. L’idea era che il moto delle stelle intorno alla terra

potesse essere spiegato dal movimento di una sfera solida in cui le stelle

fisse fossero incastonate come gemme. Per spiegare il cambiamento di

posizione della Luna e del Sole, rispetto alla sfera delle stelle fisse, si rese

necessaria l’introduzione di altre due sfere concentriche. Ciò che spinse

Aristotele ad aumentare il numero delle sfere concentriche fu l’osservazione

delle piccole irregolarità nei movimenti planetari. Questa teoria resse, cioè

riuscì a suscitare ammirazione e a placare l’immaginazione, fino a quando

essa, complicatasi troppo, fu sostituita dal sistema delle sfere eccentriche e

degli epicicli di Tolomeo. Tale sistema consentì di distinguere tra movimenti

reali e apparenti dei corpi celesti e salvò l’apparenza (a causa della grande

lontananza dei pianeti doveva sembrare che il centro delle loro orbite

coincidesse con quello della Terra) permettendo di giustificare la diversa

velocità dei pianeti stessi. Inoltre il sistema delle piccole sfere o epicicli,

ruotanti lungo la circonferenza delle sfere eccentriche, consentiva di rendere

conto del diverso moto dei pianeti.

Dai sistemi antichi, dopo un breve accenno agli Stoici, Smith giunge

direttamente a descrivere il sistema di Copernico che, oltre a spiegare più di

quanto riuscisse a fare quello tolemaico, aveva il vantaggio di essere anche

più semplice, coerente ed elegante. Esso offriva spiegazioni senza difficoltà

e “come una macchina più semplice, collegava, senza ricorrere agli epicicli e

per mezzo di un minor numero di movimenti, i complessi fenomeni dei

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Page 38: La metafora della “Mano invisibile” nel pensiero di Adam Smith

cieli”62. Comunque, nonostante la sua coerenza e semplicità, esso

inizialmente fu accettato solo da astronomi, e anche fra essi non incontrò

molto favore:

“Infatti anche se lo scopo ordinario della filosofia è quello di dissipare la meraviglia, tuttavia essa non trionfa mai tanto come quando, per collegare pochi oggetti forse in sé insignificanti, essa ha creato, se posso dir così, una nuova costituzione di cose, più naturale in verità, e tale che l’immaginazione possa seguirla più facilmente, ma più nuova, più contraria all’opinione e all’aspettativa comune che non tutti quegli stessi fenomeni”63.

Ciò, del resto, è abbastanza comprensibile perché in un solo colpo la

filosofia di Copernico aveva spostato la Terra dalle sue fondamenta, aveva

fermato la rivoluzione del firmamento e quella del Sole capovolgendo l’intero

ordinamento dell’universo; così essa destava più stupore dei fenomeni stessi

che intendeva spiegare. L’immaginazione, in particolar modo, incontrava

difficoltà soprattutto nel conciliare il movimento dei pianeti con la loro inerzia.

Riferisce Smith che più degli stessi calcoli di Keplero e della scoperta delle

orbite ellittiche dei pianeti intorno al Sole, a favorire l’accoglimento del

sistema copernicano, e ad aprire la strada a quello newtoniano, fu la teoria

dei vortici di Cartesio che, nonostante la sua falsità, fece passare l’idea che

corpi tanto grandi e pesanti come i pianeti potessero muoversi

autonomamente. Il sistema di Newton, con cui Smith chiude il resoconto

sulla storia dell’astronomia, confermò le idee di Copernico e, introducendo

l’idea che la gravità potesse essere il principio connettivo che unisce insieme

i movimenti dei pianeti, diede sistemazione ad un’immagine dell’universo

capace di suscitare ammirazione e di soddisfare il desiderio umano di

calma64.

62 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 88.63 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 90.64 A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli , Milano 1984, pp. 90-117.

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Sembra utile sottolineare, a questo punto, il carattere “critico” della

scienza, emergente dalla descrizione e la conseguente provvisorietà della

conoscenza65. La scienza, infatti, procede rimuovendo gli ostacoli e le

difficoltà che incontra per la sua strada e che si presentano tutte le volte in

cui essa si imbatte in qualche fenomeno nuovo e inaspettato. A mettere in

moto la ricerca è, come si è visto, la meraviglia, vale a dire, la reazione

psicologica che segue alla rottura di un’abitudine consolidata. Ciò comporta

che l’intenzione immediata dello scienziato e il movente della ricerca sono

psicologici e, dunque, l’incremento del sapere è una sorta di risultato non

intenzionale del meccanismo psicologico stesso. Questa, come ho detto più

sopra, sembra chiaramente la concettualizzazione della metafora della

“mano invisibile”. Ravvisarne la presenza proprio all’interno della teoria della

conoscenza, cioè nella discussione sul metodo, non è cosa di poco conto,

poiché può confermarne la centralità all’interno del pensiero smithiano.

Il saggio sui “Principi che guidano e dirigono le ricerche filosofiche”, di

cui la storia dell’astronomia occupa la parte preponderante, si chiude con la

trattazione della storia della fisica e della metafisica antiche. Queste due

ultime storie non sono molto più che frammenti e solo in parte rispettano il

programma preventivato di illustrare i principi dell’immaginazione. A mano a

mano che la narrazione procede, le considerazioni sul ruolo da essa svolto

nella fisica e nella metafisica si fanno più rare e gli spunti interessanti

65 A sottolineare il “criticismo” di Smith sono soprattutto: M. L. MYERS in Adam Smith as critic of ideas, “J. Hist. ideas”, 1975 (36), pp. 281-96 e A. D. MEGILL, in Theory and experience in Adam Smith, “J. Hist. Ideas”, 1975 (36), pp. 79-94. Esplicito riferimento al “criticismo” di K. POPPER viene fatto da A. S. SKINNER, in A system of social philosophy, Clarendon, Oxford 1979, pp. 14 ss. e da T. D. CAMPBELL, in Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 25 ss.

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ricalcano semplicemente quelli della storia dell’astronomia. La ricostruzione

del pensiero filosofico dei presocratici e il confronto fra le dottrine

metafisiche di Platone e Aristotele sono riprese dal I libro della Metafisica di

Aristotele.

2.2 LA FORMAZIONE ORIGINARIA DELLE LINGUE E LE “LEZIONI DI

RETORICA E BELLE LETTERE”

La terza delle “Lezioni di retorica e belle lettere”, ritrovate nel 1961 dal

professor J. M. Lothian dell’università di Aberdeen, si intitola “Sull’origine e

sul progresso della lingua” ed è la stessa che, pubblicata da Smith, prima in

un saggio dal titolo “The philological miscellaney” nel 1761 e,

successivamente, in appendice alla terza edizione della Teoria dei

sentimenti morali del 1767, venne inserita, cinque anni dopo la sua morte, a

conclusione della raccolta dei “Saggi filosofici”, dai suoi curatori testamentari

Black e Hutton.

La presenza di tale trattazione nel corso di retorica evidenzia la stretta

dipendenza, avvertita dall’autore, fra il problema della formazione delle

lingue e i temi più specificamente stilistici e di belle lettere. Lo scopo di fondo

della retorica sta nella comunicazione chiara e distinta tra i parlanti che

coinvolge tutte le forme che essa può assumere, dal discorso didattico-

scientifico che punta alla convinzione, al discorso retorico mirante ad una

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persuasione che non deve mai essere asservita all’inganno, dal discorso

storico mirante all’istruzione a quello poetico che ha per obbiettivo il

divertimento. La volontà di persuadere i propri simili è proprio della natura

umana, non lo è in nessun modo tendere alla frode. L’importanza della

retorica, come tecnica della corretta persuasione, assume grande rilievo nel

contesto di una morale della “simpatia” come quella smithiana, poiché è la

“simpatia “ stessa a rendere evidente la presenza dell’elemento retorico

nell’etica. L’importanza dell’abilità, e della padronanza degli strumenti adatti

all’ottenimento del consenso si palesa poi, evidentemente, nel contesto della

società commerciale dove conflittualità e controversie sempre insorgenti ne

richiedono i servigi.

Il linguaggio è considerato da Smith una creazione sociale, come tutte

le altre istituzioni umane, quali la moralità e le sue leggi, il diritto e le norme

organizzative della giustizia, il mercato e le relazioni economiche. La società

è un complesso di istituzioni, comprendente anche quelle di tipo linguistico,

che nascono dagli istinti e non dalle intenzioni degli individui; essa è, in altre

parole, in gran parte il risultato inconsapevole delle azioni di un numero

incalcolabile di essi. Non c’è alcun disegno prestabilito, alcun contratto,

alcuna decisione singola e autoritaria che possa spiegare la genesi di tali

fenomeni, la cui unica ragione può essere fatta risalire all’infinità di

interazioni fra singoli che, presi individualmente, non possono esserne

ritenuti responsabili. Di responsabilità, infatti, si può parlare solo nel caso in

cui vi sia una intenzione diretta della volontà rispetto a determinati obbiettivi,

ma, come si è visto a proposito della dinamica della conoscenza, Smith

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ritiene che gli scopi effettivi dell’azione umana siano molto ristretti rispetto

all’ampiezza dei risultati che essa riesce a raggiungere. Ciò è dovuto al fatto

che l’intenzione delle nostre azioni non è sempre direttamente rivolta agli

obbiettivi che raggiunge, poiché essi vengono conseguiti per via “indiretta”,

vale a dire attraverso la rimozione degli ostacoli, la semplificazione delle

procedure, l’ottimizzazione degli sforzi.

L’argomento, che Smith affronta, riguarda la formazione originaria

delle lingue, che cominciarono a costituirsi, a partire da elementi semplici,

fino a sviluppare livelli di astrazione e complessità sempre maggiori

configurandosi nei modi che conosciamo66. Il movimento che Smith vede

svilupparsi, nell’organizzazione linguistica, procede dal concreto dei nomi

indicanti cose e oggetti singoli, all’astratto dei nomi indicanti classi di oggetti

aventi caratteristiche simili e si sviluppa per gradi sempre maggiori di

astrazione che originano, via via, gli aggettivi, le preposizioni, i generi67.

Grande importanza viene attribuita anche ai verbi impersonali, che con molta

probabilità dovettero precedere la stessa denotazione degli oggetti. Verbi

come “piove” o “nevica” esprimono, infatti, un evento completo ed insieme ai

nomi sostantivi dovettero essere le “prime parole”. Al di là dei limiti di una

tale ricostruzione, è importante sottolinearne il carattere genetico-evolutivo

poiché definisce gli avanzamenti del linguaggio come risultati non

intenzionali, derivanti dall’attività dei singoli volta a rimuovere gli ostacoli e le

difficoltà della comunicazione.

66 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 221 ss.67 Si confrontino le analisi di S. K. LAND in Adam Smith’s “Considerations concerning the first formation of languages”, “Jl. Hist. Ideas”, 1977 (38), pp. 677-90 e di C. J. BERRY in Adam Smith’s consideration on language, “Jl. Hist. Ideas”, 1974 (35), pp. 134 ss.

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E allora, così come la tranquillità e la calma sono il fine ultimo della

filosofia, la persuasione che segue la chiarezza è il fine ultimo del linguaggio.

E’ attraverso il continuo impegno in favore della chiarezza che il linguaggio e

le sue regole si sono sviluppati:

“Penso che probabilmente, o quasi sicuramente, accadde così; ma accadde senza nessuna intenzione o preveggenza in quelli che per primi proposero l’esempio, e che mai vollero stabilire una regola generale. La regola generale si dovette stabilire insensibilmente da sola, e con lenta gradualità, a causa di quell’amore per l’analogia e la similarità di suono che è il fondamento della maggior parte delle regole grammaticali”68.

Anche nella formazione del linguaggio una mano invisibile ha guidato

l’uomo.

Tra i due selvaggi, protagonisti dell’inizio del saggio sulla formazione

delle lingue, alle prese con le difficoltà elementari di comunicazione dei

propri bisogni, e i più illustri letterati e scrittori impegnati nelle più sofisticate

descrizioni da proporre ai propri lettori, non c’è secondo Smith alcuna

differenza nel modo di procedere, benché vi sia un abisso nel livello della

comunicazione. Ciò che accomuna le diverse situazioni in cui si trovano, il

selvaggio isolato, che non dispone delle conoscenze sufficienti per

esprimersi quando incontra un suo simile, e lo Swift, per citare uno fra gli

autori studiati nelle “Lezioni di retorica e belle lettere”, è, da un lato, il

problema della chiarezza, e dall’altro il metodo per attingere questa

chiarezza, che consiste nell’eliminazione progressiva dalla comunicazione

delle ambiguità che rendono difficile l’incontro tra chi parla e chi ascolta. La

parola nasce per operare un incontro fra due, è uno strumento espressivo il

cui uso si articola secondo la dialettica fra attore e spettatore che ruota

68 A. SMITH, Saggi Filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 229.

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attorno al procedimento simpatetico69. L’aspetto, potremmo dire “tecnico”,

dell’origine della lingua si fonde, dunque, fino a diventare tutt’uno con la

retorica in quanto scienza della comunicazione che studia i mezzi più adatti

a rendere agevole per lo scrittore o l’oratore il duplice compito di esprimere il

proprio carattere e il proprio pensiero.

La lingua di un popolo, in modo simile a qualsiasi altra “macchina”, si

semplifica attraverso complicazioni successive. Questo discorso, solo in

apparenza paradossale, viene spiegato in termini ben precisi da Smith. Il

movimento dal concreto all’astratto, proprio di ogni lingua, avanza per

successive complicazioni-diversificazioni atte a rendere più efficaci gli

strumenti comunicativi, ottenendo che la complessità della composizione si

traduca nella semplificazione dell’uso, ad esempio, delle coniugazioni dei

verbi o delle declinazioni di sostantivi ed aggettivi.

Così, ciò che accade alle macchine “meccaniche” accade anche alle

lingue70. All’inizio le macchine sono estremamente difficili nei loro princìpi

poiché svolgono ogni movimento particolare attraverso un particolare

principio meccanico o ingranaggio. In seguito, successivi “perfezionatori”

(succeding improvers) trovano il modo di utilizzare un solo ingranaggio per

svolgere più funzioni di movimento, e così si semplificano e allo stesso

tempo divengono più efficienti71. E’ facile notare la vicinanza di tali

considerazioni con quelle inerenti al discorso sulla conoscenza fatto a

69 A questo proposito, A. GIULIANI dice in Le “Lectures on rethoric” di Adamo Smith, “Riv. Crit. St. Filos.”, 1962, p. 334: “In una speculazione retoricamente orientata è già implicita una morale della simpatia”.70 Cfr. R. SALVUCCI, Adam Smith: formazione originaria e sviluppo delle lingue, “Studi Urb./B”, 1990 (63), pp. 363-67.71 Si veda A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, pp. 238 ss.

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proposito del confronto fra il metodo di Aristotele e quello newtoniano.

L’affinità degli argomenti si deve alla convinzione che la conoscenza stessa

sia una sorta di macchina, fornita di strumenti, ingranaggi e principi di

movimento propri. Ciò che mette in moto l’attività dei “perfezionatori” è la

necessità di adeguare gli strumenti alle nuove sfide che si presentano e che

nel campo linguistico sono o le ambiguità sempre insorgenti nell’attività

comunicativa, oppure le difficoltà dovute all’incontro fra popoli che non

parlano la stessa lingua e che innescano un processo di rimescolamento

delle diverse grammatiche.

“Un longobardo che cercava di parlare latino e voleva esprimere che uno era cittadino di Roma o benefattore a Roma, e che non conosceva il genitivo e il dativo della parola Roma (il longobardo non era lingua flessiva), doveva esprimersi naturalmente anteponendo le preposizioni ad e de al nominativo, e invece di Romae, avrebbe detto ad Roma e de Roma. A Roma e di Roma, conseguentemente è il modo di dire con cui gli italiani di oggi, discendenti dei Romani e dei Longobardi, esprimono queste e tutte le altre relazioni simili”72.

Lo sviluppo progressivo delle lingue avviene dunque su basi meccaniche e,

come la crescita della conoscenza, è dovuto al principio del coordinamento

spontaneo dell’attività di singoli individui interagenti fra loro.

Nella Ricchezza delle nazioni Smith esplicitamente chiarisce quali

sono, secondo lui, le ragioni del progresso tecnologico e dei miglioramenti

continui nell’efficienza e funzionalità delle macchine; benché il contesto del

discorso sia diverso rispetto a quello fin qui considerato, è possibile fare un

collegamento con le tematiche linguistiche per il legame evidenziato dallo

stesso autore fra macchine e lingua. L’invenzione di tutte le macchine che

facilitano il lavoro degli operai viene fatta risalire alla divisione del lavoro, la

quale consente che tutta l’attenzione venga rivolta a operazioni semplici e

72 In A. SMITH, Saggi filosofici, a cura di P. BERLANDA, Franco Angeli, Milano 1984, p. 238.

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ripetitive: “E’ allora naturale attendersi che l’uno o l’altro di coloro che sono

impiegati in ogni particolare ramo del lavoro debba presto trovare metodi più

facili e spediti di eseguirlo, ovunque la natura di esso consenta

miglioramenti”. L’individuo in ogni contesto d’azione, sia esso linguistico,

morale o economico, è il miglior giudice del proprio particolare e questo non

tanto per la cura che ha del proprio interesse personale, quanto piuttosto per

la conoscenza che ha di esso, nonostante non sia interamente consapevole

dei fini ultimi cui le sue azioni tendono73. La lingua si definisce, quindi, non in

rapporto a una razionalità sistematica, ma in relazione alla capacità dei

singoli di eliminare gli intralci alla reciproca comprensione, cioè come

unintended result.

“In alcune delle precedenti lezioni - dice Smith all’inizio dell’undicesima - abbiamo analizzato le caratteristiche dei migliori prosatori inglesi e istituito paragoni fra i loro differenti stili. Il risultato di tutto ciò, come pure delle regole che abbiamo elencate, è che la perfezione dello stile consiste nell’esprimere nel modo più conciso, appropriato e preciso il pensiero dell’autore e ciò nel modo che meglio renda noti il sentimento, la passione o l’emozione dai quali quel pensiero è mosso - o dai quali pretende che sia mosso - e che intende comunicare al suo lettore. Questo, voi direte, non è altro che il senso comune; e di certo non è niente di più. Ma se voi fate attenzione, tutte le regole della critica e della morale, se analizzate sino ai loro fondamenti, finiscono con l’essere alcuni principi del senso comune ai quali tutti acconsentono. Tutto il lavoro che queste arti debbono compiere è di applicare queste regole ai differenti argomenti e di mostrare il risultato della loro applicazione”74.

Su un piano diverso rispetto a quello del selvaggio, il compito

dell’artista resta quello della semplicità e della chiarezza che rendono

possibile il raggiungimento del bello. La bellezza è il valore emergente

dall’impegno alla chiarezza che muove l’artista a superare e colmare la

distanza tra sé e lo spettatore della sua opera, così come abbiamo visto la

73 Su questo argomento cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 182 ss.74 In A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi Editore, Urbino 1985, p. 161.

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scienza essere il risultato “indiretto” dell’impegno in favore della propria

“tranquillità” da parte del ricercatore.

E così, parafrasando il passo del birraio della Ricchezza delle nazioni,

si potrebbe dire che non è dalla benevolenza dell’artista e dello scienziato,

cioè dalle loro intenzioni consapevoli e dirette, che ci aspettiamo la bellezza

delle produzioni artistiche o la verità delle teorie scientifiche, ma dalla cura

che essi hanno del proprio personale interesse: l’interesse alla chiarezza il

primo e alla tranquillità il secondo75.

La prudenza, riconducibile alla cura per il nostro bene, sembra essere

la virtù cardine dell’universo morale smithiano, poiché si ritrova alla base

dell’agire economico ma anche come movente della ricerca scientifica e

come motivo determinante dell’arte. Grazie ad essa e con il concorso delle

regole della moralità e della giustizia si sviluppa l’intera società umana e non

è affatto casuale, dunque, che il ritratto del prudent man presente nella

Teoria dei sentimenti morali76 si ritrovi all’interno delle “Lezioni di retorica e

belle lettere”77 nell’esposizione dei caratteri stilistici e personali dei due autori

che Smith prende come modelli del bello scrivere. L’uomo schietto, the plain

man, è Swift che riesce bene a manifestare nella scrittura il proprio carattere

senza farsi riguardo per le comuni forme di cortesia ed esprime le proprie

opinioni senza giri di parole o particolari riguardi nel giustificarne le ragioni.

Viceversa l’uomo semplice, the simple man, è Temple che, pur non 75 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 92: “Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo, e parliamo dei loro vantaggi e mai delle nostre necessità”.76 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, pp. 425 ss.77 A. SMITH, Lezioni di retorica e belle lettere, a cura di R. SALVUCCI, Quattroventi Editore, Urbino 1985, pp. 123 ss.

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premurandosi di comparire con tutti i segni della cortesia e della buona

educazione, a differenza dell’uomo schietto, assume volentieri quelle forme

quando esprimono i suoi reali sentimenti. Questi due differenti stili letterari,

che rappresentano caratteri umani diversi ma ugualmente apprezzati da

Smith, si avvicinano al tipo del prudent man che è un uomo sempre sincero,

le cui caratteristiche più interessanti per il nostro discorso sono riassumibili

nella disponibilità a manifestarsi apertamente senza sottrarsi al giudizio

altrui. L’impianto retorico-giuridico della filosofia smithiana porta alla

definizione di un uomo capace di riflettere su sé stesso, in grado di

sdoppiarsi in un io-attore e in un io-spettatore, e di diventare lo spettatore

imparziale delle proprie azioni. Ciò che accomuna i tre tipi descritti da Smith,

al di là delle lievi differenze che li dividono, è l’insofferenza nei confronti di

falsità ed ipocrisia. Senza dubbio l’uomo schietto è quello che, per il coraggio

di cui dà prova, merita più rispetto e ammirazione; ma c’è posto anche per

l’uomo semplice che, nonostante una maggiore cautela nel modo di

presentarsi, non si nasconde mai e non indietreggia incontrando

l’apprezzamento di chi l’osserva. L’uomo prudente, infine, cauto e riservato,

è sempre sostenuto e ricompensato dalla piena approvazione dello

spettatore imparziale o dell’uomo interiore che ne è il rappresentante.

La comunicazione senza ornamenti, fiori o espressioni metaforiche

mira all’ideale della semplicità, il quale è sia letterario che morale e pone il

prudent man, nel senso precisato, al centro della speculazione smithiana.

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3.1 LA MORALE: GENESI SOCIALE DELLA MORALITA’ ED ECONOMIA

DELLA NATURA

L’atteggiamento che contraddistingue la ricerca svolta da Smith nella

Teoria dei sentimenti morali è tipicamente empiristico e si realizza attraverso

l’osservazione e l’interpretazione dei fatti dell’esperienza. Come i suoi

immediati predecessori, egli è particolarmente sensibile alla dimensione

“sentimentale” e affettiva della natura umana e rifugge da ogni

considerazione “razionalistica” della morale: “Sebbene la ragione sia senza

dubbio la fonte delle regole generali della morale, e di tutti i giudizi morali

che formiamo per mezzo di quelle regole, è del tutto assurdo e

incomprensibile supporre che le prime percezioni di giusto e ingiusto

possano essere derivate dalla ragione”78. La ragione non è nemmeno

sufficiente a sostenere la condotta poiché l’impegno morale si esprime nel

costante desiderio pratico di approvazione e stima. Inoltre, Smith sembra

considerare come una conseguenza inevitabile del razionalismo morale la

casistica, ovvero il tentativo di catalogare tutte le azioni umane secondo

regole predefinite rispetto al loro presentarsi. Infine, l’intento proprio di

quest’opera non è quello di proporre una precettistica o un insieme di norme

valide per l’agire e atte a fornire un orientamento per la prassi.

La Teoria dei sentimenti morali è una sorta di descrizione della realtà

etica, allo stesso modo che una teoria astronomica è un tentativo di

78 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 602.

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descrizione dell’universo. Il compito specifico del pensiero filosofico applicato

ai problemi morali è quello di fondare la morale sull’effettività dell’agire

umano. In altre parole, l’obbiettivo dell’analisi non è la ricerca dei principi su

cui dovrebbero basarsi l’approvazione o la disapprovazione di un essere

perfetto, ma la determinazione dei principi su cui effettivamente si fondano i

giudizi morali di un essere imperfetto come l’uomo79. La prospettiva

smithiana, nell’impostazione generale, si rivolge, dunque, alla ricerca dei

meccanismi di approvazione effettivamente operanti, vale a dire alle strutture

psicologiche e ai moventi che danno origine alla valutazione morale80.

Tale metodo porta Smith a ricercare, nella natura umana

empiricamente data, i fondamenti dei giudizi di valore e delle regole pratiche,

nell’intento sempre scientifico e mai precettistico, di comprendere i

meccanismi psicologici e sociali cui si devono le nozioni di “buono” e

“cattivo” o “giusto” ed ingiusto”. Sulla scia di Hume, l’autore intende

costruire, con metodo newtoniano, una dinamica delle passioni capace di

fondare i giudizi morali. Ebbene, la realtà etica descritta da Smith è realtà

sociale. Che sia così risulta chiaro non appena si ponga mente al suo

concetto centrale, la simpatia.

E’ importante sottolineare ancora, per evitare equivoci sul pensiero

dello scozzese, che la simpatia è solo il principio attraverso cui gli individui

79 Confronta per questa analisi: P. BERLANDA, La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 1982 (37), pp. 41-42.80 Si veda per questo: T. D. CAMPBELL, Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 21-45.

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giungono a formulare i giudizi sulle azioni proprie e altrui, non la guida della

condotta. In altre parole la simpatia è “soltanto” il principio dell’approvazione

morale.

I diversi sistemi di filosofia morale vengono suddivisi, nell’ultima parte

della Teoria dei sentimenti morali, in tre diverse categorie: nella prima

rientrano i sistemi che fanno coincidere la virtù con l’appropriatezza

dell’azione, nella seconda i sistemi che fanno consistere la virtù nella

prudenza e, infine, nella terza, i sistemi che fanno coincidere la virtù con la

benevolenza disinteressata. Se negli ultimi due rientrano le dottrine,

rispettivamente, di Epicuro e di Hutcheson, Smith inserisce il proprio sistema

morale nel primo gruppo, insieme a quelli di Platone, di Aristotele e degli

stoici. In Platone l’appropriatezza si configura nel giusto rapporto tra

l’affezione che muove l’azione e l’oggetto che la suscita ed è riconducibile

alla giustizia, che si realizza quando ogni passione compie il proprio dovere

e si dirige verso il suo oggetto appropriato e quando le tre facoltà dell’anima

svolgono il ruolo ad esse spettante. La virtù aristotelica consiste

nell’abitudine al giusto mezzo indicato dalla retta ragione, mentre, per gli

stoici, la virtù consiste nella capacità di dare a ciascun oggetto il giusto peso

secondo il posto che occupa nell’ordine naturale.

La simpatia smithiana, come criterio di appropriatezza della condotta,

è il risultato di un lungo percorso concettuale che muovendo dalla reazione

al sistema hobbesiano iniziata dai pensatori neoplatonici della scuola di

Cambridge, attraverso il “sense of fellowship” di Shaftesbury giunge ad una

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prima sistemazione in Hutcheson81. La simpatia hutchesoniana è, però,

ancora legata al concetto della “benevolenza” ed è solo in Smith che essa si

spoglia di ogni sfumatura che le attribuisca il ruolo di movente dell’azione per

diventare mero e semplice criterio di approvazione.

La natura sociale della morale smithiana non dipende affatto dalla

“bontà” della natura umana. Smith non illustra in nessun luogo della “Teoria”

le basi sulle quali si può giustificare una concezione simpatetica dei giudizi

morali, poiché, nella sua visione, la simpatia è un principio universale

ricavabile dall’esperienza comune, che non può essere ridotto ad altri

principi più semplici, e così l’incipit inevitabile della sua riflessione è che:

“Nemmeno il più gran furfante, il più incallito trasgressore delle leggi della

società ne è del tutto privo”82. Le modalità generali di esplicazione del

principio della simpatia possono essere ricondotte al piacere che essa

promuove e che trae origine dalla constatazione della corrispondenza di

sentimenti fra sé e gli altri.

La simpatia è la facoltà attraverso cui è possibile giudicare la condotta

umana, ed è un sentimento di partecipazione che nasce come compassione,

cioè come condivisione della sofferenza altrui, per definirsi poi, più

ampiamente, come un generale sentimento di partecipazione. Mentre, però,

Hume non riconosce al soggetto simpatizzante la possibilità di convertirsi e

di diventare l’altra persona, nell’analisi smithiana il procedimento simpatetico

si fonda proprio sul cambiamento originario di situazione83.

81 Cfr. le pagine dedicate all’illuminismo scozzese in: E. GARIN, L’illuminismo inglese. I moralisti, Milano 1941. Si veda anche la proposta interpretativa di E. CASSIRER in La rinascenza platonica in Inghilterra e la scuola di Cambridge, La Nuova Italia, Firenze 1947.82In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 81.83 Cfr. M. DAL PRA, Hume e la scienza della natura umana, Laterza, Bari 1973, pp. 256 ss.

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Smith indica il soggetto della simpatia nello “spettatore”, cioè in colui che,

altro rispetto a chi agisce, giudica la condotta di chi osserva misurandone la

convenienza riguardo ai motivi che l’hanno determinata o, anche rispetto alle

conseguenze ad essa dovute84. La simpatia in tal caso è “diretta”; vi è anche,

però, una simpatia “indiretta” dello spettatore con la gratitudine o il

risentimento di chi subisce l’azione.

Il meccanismo di valutazione simpatetica si rivolge all’intero spettro

delle passioni umane che sono “sociali”, “asociali” ed “egoistiche”,

costituendosi, dapprima come dottrina della eterovalutazione e, solo

successivamente, come autovalutazione. Tutte le passioni, non solo quelle

“sociali” come la generosità, l’umanità e la benevolenza, che spingono gli

individui gli uni incontro agli altri, hanno un grado appropriato che viene

stabilito dallo “spettatore”. La simpatia opera, dunque, nei confronti di ogni

passione, ma non ogni passione può raggiungere lo stesso grado di

partecipazione simpatetica. Il soggetto simpatizzante, infatti, incontra molte

meno difficoltà nell’approvazione dei sentimenti sociali piuttosto che nel

condividere passioni come l’invidia o il risentimento che sono “asociali” e, a

differenza dei primi, debbono sempre essere giustificate. Se, infatti, una

buona azione nei confronti del nostro vicino viene sempre approvata dallo

“spettatore”, sia perché egli giudica positivamente i motivi dell’agente, sia

perché concorda con il sentimento di gratitudine provato da chi ne ha

beneficiato, un’azione violenta, invece, ha bisogno di essere, sempre,

84 T. D. CAMPBELL ha proposto di chiamare ordinary spectators gli spettatori effettivi per distinguerli dallo ideal spectator che è lo spettatore imparziale, la coscienza. Cfr. Scientific Explanations and ethical justfication, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press, 1975, p. 71.

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supportata da valide ragioni. Può essere che i motivi prodotti per giustificarla

incontrino l’approvazione dell’osservatore, ma la necessità di dimostrarne la

validità manifesta il carattere sociale della natura umana. Le passioni

“egoistiche”, riconducibili “alla gioia e alla pena che noi traiamo dalla nostra

buona o cattiva fortuna private”, sono poste, nella gerarchia smithiana, a un

livello intermedio fra quelle asociali e quelle benevole85.

E’ utile osservare l’ordinamento e la gerarchia delle passioni facendo

attenzione alla logica simpatetica sottesa alla loro costituzione. Nel gradino

più basso si trovano le passioni asociali perché, come abbiamo visto, a fatica

incontrano la simpatia dello spettatore; le passioni egoistiche sono poste un

gradino più in alto perché “anche quando eccessive, non sono mai così

spiacevoli come l’eccessivo risentimento, perché nessuna simpatia opposta

può mai farci volgere contro di esse” ma in cambio “anche quando sono del

tutto adatte ai loro oggetti, non sono mai così piacevoli quanto l’imparziale

sentimento di umanità e la corretta benevolenza perché nessuna doppia

simpatia ci può spingere verso di esse”86. Le passioni sociali, infine, sono le

più elevate perché ottengono, appunto, questa doppia simpatia: sono

approvate sia per la simpatia verso i motivi che le suscitano o gli effetti che

producono, sia per la simpatia verso la gratitudine dei beneficiari.

Esistono, comunque, dei criteri generali o leggi della simpatia87 in

base ai quali, per esempio, e più agevole simpatizzare con le passioni che

85 In A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p.134.86 Ibidem.87 Tale espressione è proposta da T. D. CAMPBELL in Adam Smith science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, p. 98.

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derivano dall’immaginazione piuttosto che da quelle causate dal corpo,

oppure, che si simpatizza più facilmente con la gioia che non con il dolore.

Il procedimento simpatetico si articola nella rappresentazione mentale

della situazione altrui cui segue un atteggiamento emozionale e

immaginativo che consiste nel porsi nella situazione altrui. Mentre, però, la

rappresentazione mentale della situazione altrui è opera della ragione

induttiva, l’immedesimazione nella situazione altrui è un processo

immaginativo che non si può ridurre in termini meramente razionali. La

valutazione simpatetica richiede, dunque, da un lato, l’approvazione emotiva

e, cioè, un momento affettivo, dall’altro necessita, per essere completa, della

tensione dello spettatore alla conoscenza. Le situazioni, infatti, sono sempre

diverse poiché diversi sono gli individui che agiscono e i contesti all’interno

dei quali essi si muovono; è per questo che il giudizio richiede la fatica del

comprendere, del valutare, del soppesare, i quali si esercitano nella

disciplina della ragione. Lo sforzo che lo “spettatore” compie è quello di

vestirsi della situazione del proprio simile cercando di coglierne gli affetti. E’

chiaro, però, che per riferire a sé stesso la situazione di un altro egli si

applica in un paziente lavoro di analisi e confronto che è tutto e

principalmente razionale.

Il criterio dell’appropriatezza risiede, dunque, nell’accordo tra le

passioni dell’agente e quelle dello spettatore giudicante, viceversa, nel caso

della inappropriatezza si ha che lo spettatore non partecipa completamente

alle passioni dell’agente.

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Per evitare di attribuire alla dottrina smithiana un soggettivismo

morale che assolutamente non le appartiene, bisogna, comunque,

considerare che fin qui si è detto solo della simpatia estetica e non ancora

della simpatia morale vera e propria88. Smith, infatti, sviluppa la simpatia

anche in una dimensione più complessa di quella osservata, che a partire

dal processo di autovalutazione giunge alla rappresentazione della figura

dello “spettatore imparziale”. La valutazione di sé stessi e delle proprie

azioni, secondo Smith, emerge come risultato ultimo della eterovalutazione.

Ciò che avviene naturalmente è che prima la nostra attenzione è rivolta

verso l’esterno ed è diretta agli altri ed in seguito, soltanto di riflesso, si

concentra su noi stessi. Prima, cioè, acquisiamo un costume critico

nell’osservazione del comportamento altrui e solo successivamente ce ne

serviamo per il giudizio sul nostro comportamento. La coscienza morale

nasce proprio in questo modo, come sguardo di noi su noi stessi che ha

origine dal tentativo di immedesimarci nel giudizio che gli altri possono farsi

sulla nostra condotta. Così facendo, prima e dopo l’azione, diventiamo gli

osservatori della nostra condotta e ci rappresentiamo quale effetto essa

farebbe agli altri considerando l’effetto che fa a noi. Smith chiama questo

particolare spettatore della nostra condotta, che ognuno sembra portarsi

dentro il petto e che realizza lo sdoppiamento del nostro io, “spettatore

imparziale”.

Tale spettatore è “imparziale” perché deriva dallo sdoppiamento

dell’agente che, come spettatore, abbandona la particolarità del suo punto di

88 Tale distinzione è stata proposta da J. R. LINDGREN, in The social philosophy of Adam Smith, Nijhoff, The Hague, 1973, p. 25.

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vista; ma bisogna sottolinearne anche il carattere “ideale” poiché non può

essere identificato con alcuno spettatore ordinario. Smith lo definisce anche

come “bene informato” perché conosce meglio di qualsiasi spettatore

esterno l’oggetto del giudizio89. La coscienza morale, che così si delinea

nella riflessione della Teoria dei sentimenti morali, è un prodotto sociale, uno

specchio della società90 che emerge, come risultato non intenzionale, alla

fine del processo simpatetico. Anche la coscienza, così come i giudizi morali,

dimostra la sua natura sociale, si dimostra un prodotto della socialità

dell’uomo.

La tensione morale che muove le coscienze si comprende, poi, come

una conseguenza ulteriore del piacere per la reciproca simpatia: poiché la

simpatia è piacevole e l’obbiettivo ideale dell’azione è sempre quello di

incontrare approvazione, ognuno di noi desidera incontrare il consenso dello

spettatore imparziale, non solo per ciò che riguarda il giudizio su ciò che si è

fatto, ma anche per la traduzione effettiva, nella pratica, delle sue

indicazioni.

“La Natura, nel fare l’uomo per la società, lo fornì di un originario desiderio di piacere e di un’originaria avversione per l’offesa verso i suoi fratelli. Gli insegnò a provare piacere nell’esser considerato favorevolmente, e ad addolorarsi nell’essere considerato sfavorevolmente da loro. Fece sì che la loro approvazione fosse per loro molto lusinghiera e molto gradevole in sé stessa, e la loro disapprovazione molto mortificante e offensiva. Ma questo desiderio dell’approvazione e l’avversione per la disapprovazione dei suoi fratelli non l’avrebbero, da soli, reso adatto alla società per cui era fatto. La Natura, perciò, non lo ha fornito solo del desiderio di essere approvato, ma del desiderio di essere ciò che dovrebbe essere approvato, e ciò che lui stesso approva in altri uomini. Il primo desiderio avrebbe potuto soltanto portarlo a desiderare di sembrare fatto per la società; il secondo era necessario per renderlo ansioso di esserlo davvero. Il primo avrebbe potuto solo spingerlo a fingere la virtù, e a dissimulare il vizio; il secondo era necessario per ispirargli il vero amore

89 Cfr. P. BERLANDA, La simpatia e lo spettatore imparziale in Adam Smith: dalla filosofia morale alla filosofia della società civile, “Riv. Crit. Stor. Filos.”, 1982 (37), p.52.90 Su tale espressione smithiana ha particolarmente insistito D. D. RAPHAEL, The impartial spectator, in Essays on Adam Smith, a cura di A. S. SKINNER e T. WILSON, Oxford Univ. Press., 1975, p. 89.

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della virtù, e la vera esecrazione del vizio. In ogni animo ben formato questo secondo desiderio sembra il più forte dei due”91.

Questo passo, oltre a sottolineare il carattere sociale della moralità umana,

capace negli individui più virtuosi di rendersi indipendente rispetto al

contesto sociale stesso, tanto da indurli a ricercare approvazione anche là

dove non vi siano altri testimoni che la propria coscienza, mostra come sulla

simpatia si costruisca l’intero edificio dei sentimenti morali e come ogni

aspetto di questi possa essere ricondotto a quella.

Smith, però, non si nasconde dietro un dito e affronta anche i

problemi inerenti alle forti inclinazioni egoistiche proprie del nostro modo di

essere. Egli non ritiene l’uomo capace, effettivamente, di grandi mali nei

confronti dei propri simili, poiché, se è vero che il pensiero di una piccola

sofferenza o di un dolore del nostro corpo hanno il potere di toglierci il sonno

più che il pensiero di una grave sciagura in un paese lontano, resta fermo il

fatto che un conto sono i “sentimenti passivi”, generalmente spinti dall’amore

di sé e un altro conto sono i “principi attivi” che spengono il sordido egoismo

e accendono in noi un senso di convenienza e di proporzione.

Contro la possibilità, del resto inevitabile, che ognuno di noi menta a

sé stesso e giudichi in modo parziale e interessato la propria condotta, il

rimedio, introdotto dalla natura stessa, consiste nella formazione di regole

generali. Alla base della loro formazione è rilevabile il medesimo processo

che porta alla costituzione della figura dello “spettatore imparziale”. Le

regole generali della morale, nella concezione smithiana, si formano per via

empirica, insensibilmente, attraverso l’osservazione e il giudizio continuo che

91 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 264.

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ogni individuo si forma sulle azioni proprie ed altrui. Poiché infatti, tutte le

azioni suscitano negli spettatori sentimenti di approvazione o

disapprovazione, costanti nel tempo, le regole si costituiscono sulla base di

tale uniformità e ne sono una concreta realizzazione. Una volta che si siano

consolidate, esse esercitano la propria influenza sugli agenti che si sentono

chiamati a rispettarle e onorarle. Le regole generali, in questo modo, fanno

nascere nell’individuo quel “senso del dovere” cui si deve la capacità

dell’uomo di dirigere le proprie azioni. Va sottolineato, però, che non può

darsi “senso del dovere” prima della costituzione delle regole, così come non

si dà coscienza, intesa come capacità critica nei confronti di sé stessi, senza

che prima essa si sia sviluppata verso gli altri. La mancata comprensione di

questo aspetto comporta l’equivoco razionalista di tutti coloro che ritengono

che il principio di approvazione sia la ragione. Nella visione smithiana è

l’accordo dei sentimenti umani a fondare la validità universale delle regole e

delle leggi morali e, dunque, le distinzioni morali seguono l’esperienza.

L’errore razionalistico consiste, quindi, nel ritenere che le nozioni morali

precedano l’esperienza e siano il fondamento delle norme.

Resta da dire ancora qualcosa a proposito delle passioni asociali quali

invidia e risentimento cui il nostro autore affida un compito specifico. Si è

detto che quella smithiana è un’etica sociale, e che la moralità umana non

sarebbe pensabile se l’uomo vivesse isolato e lontano dallo sguardo dei suoi

simili. Può sembrare strano, allora, che tale sistema assegni alle passioni

antisociali un ruolo specifico per la vita morale.

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Esse sono accettabili solo fino al punto in cui lo “spettatore imparziale”

possa approvarle e sono le uniche passioni verso cui nutriamo sempre una

qualche diffidenza. L’invidia è, nel grado appropriato, ammessa poiché può

favorire lo spirito di emulazione fra gli uomini e contribuire a vincerne l’apatia

e l’indifferenza. Essa, inoltre, può sostenere l’industriosità umana. Da questi

rilievi risulta che le virtù stoiche dell’autocontrollo, del dominio di sé e

dell’indifferenza nei confronti dei beni esteriori, sono accolte da Smith solo

entro precisi limiti di appropriatezza92. Il risentimento ha, invece, una

funzione specifica nella costituzione della giustizia.

Se infatti, come si è visto, osserviamo qualcuno compiere una buona

azione verso il proprio prossimo, non solo simpatizziamo con lui per i motivi

che lo hanno spinto a compierla, ma simpatizziamo anche con il sentimento

di gratitudine di chi ha beneficiato di essa. Da qui nasce il nostro senso del

merito e il desiderio di ricompensare i protagonisti di azioni meritorie. Se, al

contrario, osserviamo qualcuno compiere una cattiva azione verso il proprio

vicino, non solo ne disapproviamo i motivi, ma concordiamo anche con il

giusto risentimento da parte di chi l’ha subita. Così, il risentimento si pone

come un freno rispetto alle offese e funge da garanzia alla giustizia e alla

sicurezza dell’innocenza. Se all’origine della giustizia Smith pone il

risentimento per le ingiustizie subite, ciò significa che nella sua visione la

giustizia nasce dal superamento della sua negazione: l’ingiustizia.

A ciò va aggiunto che le regole della giustizia stabiliscono con la più

grande esattezza ogni azione esterna da esse richiesta, mentre le regole

92 Per una sintesi, cfr. G. VIVENZA, Adam Smith e la cultura classica, IPEM Edizioni, Pisa 1984, pp. 81 ss.

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richieste dall’amicizia, dall’umanità, dall’ospitalità e dalla generosità sono

vaghe e indeterminate93. Le prime possono essere paragonate alle regole

grammaticali, mentre le altre alle regole che i critici letterari indicano per la

bellezza e l’eleganza delle composizioni. Questa similitudine evidenzia

l’indispensabilità delle regole della giustizia per il buon ordine sociale così

come le regole della grammatica sono imprescindibili per la comunicazione.

Tutte le altre regole contribuiscono all’abbellimento, ma non sarebbero

sufficienti, da sole, a sostenere l’edificio della società.

Non si può chiudere con la virtù della giustizia senza avere

apprezzato che “le azioni richieste dalla giustizia non sono mai compiute

così appropriatamente come quando il motivo principale per compierle è un

riguardo reverenziale e religioso per quelle regole generali che le

richiedono”94. Il rispetto per le leggi, infatti, dipende dal “senso del dovere”

verso esse, in misura proporzionale alla loro certezza e precisione e in

relazione alla bellezza delle affezioni. Ripugnerebbe chiunque che un padre

fosse tenero con il proprio bambino per dovere, poiché, appunto, l’amore per

i figli è un grande sentimento e non esiste la misura appropriata del trasporto

verso di essi. Invocare giustizia per vendicare un’offesa, invece, è

ripugnante, sia perché è malvagia l’affezione da cui il sentimento di giustizia

deriva, sia perché le regole della giustizia sono esatte e non c’è bisogno di

chiedere più di quanto esse già prescrivono.

Il sistema morale smithiano risulta così centrato su tre ordini di virtù

che configurano i diversi livelli rispetto ai quali si esplica l’agire umano e che

93 Cfr. A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 357.94 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 358.

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prevedono un proprio grado di appropriatezza che è compito dello

“spettatore imparziale” stabilire. La giustizia, che risulta dalle passioni

asociali, è la virtù fondamentale poiché svolge una funzione preventiva e

repressiva dei crimini e dei disordini che seguirebbero dall’egoismo smodato

dei singoli. Ad essa seguono, per importanza, le inclinazioni egoistiche,

contenute entro i limiti della giustizia stessa, che sono riconducibili alle virtù

dell’amore di sé e della prudenza e che rendono chi le possieda oggetto di

approvazione soprattutto se esercitate nell’attività economica.

Infine, benevolenza e umanità, le virtù per eccellenza perché non hanno mai

bisogno di giustificazioni e perché non hanno pari nella simpatia che

incontrano, sono le meno importanti dal momento che ad esse è affidato un

ruolo soltanto ornamentale nelle società umane.

La virtù più elevata del sistema smithiano, dunque, è la benevolenza.

Smith, però, come abbiamo detto, non è Hutcheson. Mentre, infatti, il suo

maestro aveva fatto di essa, e solo di essa, la misura della moralità, la fonte

di ogni valore, egli si appropriò anche della lezione di Shaftesbury che

riconobbe come il suo esercizio si esplicasse entro cerchie limitate di

persone, e perciò sostenne che la felicità del genere umano non potesse

essere sufficientemente tutelata dalla cura, ad essa diretta, dei singoli

individui95. Il mantenimento dell’ordine del grande sistema dell’universo è,

così, compito dell’Autore della Natura, non dell’uomo, che per la debolezza

delle sue capacità e la limitatezza delle sue conoscenze ne ha già

abbastanza ad occuparsi della propria felicità e di quella dei suoi congiunti.

95 Per tale argomento, cfr. L. LIMENTANI, La morale della simpatia, Formiggini, Genova 1914, p.181.

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L’Autore della Natura sembra aver stabilito che il bene della “Grande

Società” sarebbe stato meglio promosso orientando l’attenzione di ogni

individuo a quella parte di essa che era soprattutto compresa nell’ambito

delle sue capacità e della sua intelligenza.

In ogni aspetto dell’attività umana sembra che Smith individui un limite

ben preciso che, se rispettato dai singoli attori, fa sì che si creino un ordine e

un’armonia maggiori di quanto non avverrebbe se tutti agissero cercando di

perseguire direttamente gli obbiettivi della società o della natura.

Smith è molto scettico circa la possibilità che il bene comune possa

essere desiderato direttamente e per sé stesso: esso emerge invece più

facilmente dalla esplicazione delle attività dei singoli entro i limiti stabiliti dalla

simpatia dello spettatore imparziale e dalle leggi della giustizia.

Questo discorso è particolarmente evidente per ciò che riguarda la giustizia

dal momento che l’ordine della società è garantito, non ove esso venga

posto come obbiettivo da raggiungere, direttamente, attraverso un disegno

razionale, ma dal risentimento che ciascuno di noi prova verso l’ingiustizia e

dal senso del demerito cui consegue la punizione96.

L’esistenza stessa della società esige che la malvagità venga punita in modo

appropriato e che infliggere condanne e punizioni sia considerato

conveniente. L’Autore della Natura non ha affidato alla ragione umana il

compito di scoprire che il mezzo adeguato per la realizzazione del bene

96 In particolar modo hanno sottolineato il carattere della giustizia e del diritto dal punto di vista dell’ingiustizia, soprattutto L. BAGOLINI, in The topicality of Adam Smith’s notion of sympathy and judicial evaluation, Essays on Adam Smith, Ed. by A.S. SKINNER and T. WILSON, Oxford Univ. Press., 1975, e F. A. VON HAYEK, in Ordinamento giuridico e ordine sociale, “Il Politico”, 1968 e, con riguardo anche alla politics smithiana, K. HAAKONSSEN, The science of a legislator, Cambridge Univ. Press., 1981, pp. 93-99.

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collettivo della società consiste in una certa applicazione delle pene, ma ha

dotato l’uomo dell’immediata e istintiva dote di approvare proprio

quell’applicazione che è la più adatta per ottenerlo.

“Questo caso, come altri, è del tutto coerente con il principio dell’economia della natura. Riguardo a tutti quei fini che per la loro particolare importanza possono essere considerati, se mi è concessa l’espressione, come i fini che la natura privilegia, essa non solo ha dotato il genere umano di un desiderio di realizzare il fine che lei propone, ma lo ha dotato anche di un desiderio di servirsi proprio degli unici mezzi utili a realizzarlo, che vengono desiderati per loro stessi, indipendentemente dalla tendenza a realizzare il fine.(...). Ma, nonostante siamo così dotati di un fortissimo desiderio di quei fini, la scoperta dei mezzi per ottenerli non è stata affidata alle lente e incerte determinazioni della ragione. La Natura ci ha indirizzati verso di essi attraverso istinti originari e immediati. La fame, la sete, la passione che unisce i due sessi, l’amore per il piacere e la paura del dolore ci spingono a usare quei mezzi per loro stessi e senza alcuna considerazione per la loro tendenza verso quei benefici fini che il gran Direttore della natura intendeva produrre attraverso di essi”97.

Quest’ultimo passo ci riavvicina al tema della “mano invisibile” e alla

comprensione di come esso non sia altro che la traduzione simbolica di un

principio dominante l’intero studio smithiano: il principio dell’esogeneità o

eterogenesi dei fini.

Che le azioni umane possano conseguire risultati diversi e più grandi

di quelli effettivamente perseguiti è una convinzione che deriva a Smith

dall’atteggiamento nei confronti della Natura e dal rispetto deistico nei

confronti di colui che di volta in volta viene chiamato “Artefice”, “Autore”,

“Direttore”98. La Natura e la sua saggezza sono criterio di giudizio, cioè

misura del giusto, non solo per l’universo fisico, ma anche e soprattutto, per

ciò che riguarda il mondo umano che è venuto costituendosi nel corso di

infinite generazioni. Che l’autore della Teoria dei sentimenti morali parli tanto

insistentemente di natura, benché si riferisca alla sfera umana e, per ciò

stesso, storica della moralità e delle sue istituzioni, si deve al

97 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, RIZZOLI, 1995, p. 196.98 Secondo J. Viner non è possibile comprendere il sistema filosofico smithiano, concezioni economiche incluse, se non si considerano adeguatamente le sue convinzioni teologiche (Adam Smith and laissez faire, “Jl. of Pol. Econ.”, 1927, pp. 198-232).

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riconoscimento, da parte sua, dell’esistenza di un ordine di fenomeni

intermedio fra quelli propriamente “naturali” e quelli “artificiali” risultanti dalle

convenzioni o delle deliberate decisioni degli uomini99. Tale classe di

fenomeni fu descritta da Adam Ferguson come quella comprendente i

fenomeni risultanti dall’azione ma non dalla progettazione umana. Nel

Saggio sulla storia della società civile pubblicato a Londra nel 1767, egli

scrisse “Le nazioni sorgono su istituzioni che sono certamente il risultato

delle azioni degli uomini, ma non sono la realizzazione di alcun progetto

umano”100. Nell’introduzione all’edizione edinburghese del 1966 di

quest’opera, Duncan Forbes fa notare che Ferguson, come Smith, ha fatto a

meno dei “legislatori e fondatori di stati” e che la distruzione del mito del

“Legislatore” fu la più originale conquista della scienza sociale

dell’illuminismo scozzese.

Queste considerazioni fanno capire perché Smith si ponga nei

confronti delle istituzioni umane quali la moralità, la giustizia e il mercato

come se si trovasse di fronte a fenomeni naturali. Così, la naturale socialità

degli uomini ha promosso, nel tempo, i comportamenti, le norme e le

istituzioni più adatte alla prosperità umana. La maggiore felicità del maggior

numero si realizza, dunque, grazie al disegno provvidenziale della natura

che nella sua economia non solo ha privilegiato i fini che potessero

realizzarla, ma ha anche instillato negli uomini gli istinti originari che ad essa

99 Per la questione, cfr. F. A. VON HAYEK, Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, pp. 29 ss. e Dr. Bernard Mandeville, in “Proceedings of the British Academy”, 1966 (52), pp. 125-41.100 A. FERGUSON, Saggio sulla storia della società civile, a cura di P. SALVUCCI, Vallecchi, Firenze 1973, p. 141.

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più facilmente conducessero. Poiché le istituzioni umane derivano da tali

istinti, esse rientrano perfettamente nel disegno provvidenziale della natura.

C. S. Peirce nell’opera “Evolutionary love” scrisse che “The origin of the

Species” di Darwin estende semplicemente delle concezioni politico

economiche sul progresso all’intero regno della vita animale e vegetale101.

Tale giudizio si ritrova anche nello storico Simon N. Patten autore dell’opera

dal titolo “The development of the english thought” che scrisse: “Così come

Adam Smith fu l’ultimo moralista ed il primo economista Darwin fu l’ultimo

economista ed il primo biologo” 102. Del resto, secondo la testimonianza dello

stesso Darwin, fu la lettura del “Saggio sul principio della popolazione” di T.

R. Malthus, che gli suggerì alcuni aspetti della teoria, da lui poi resa famosa,

della “selezione naturale” attraverso la lotta per la sopravvivenza, e non è

trascurabile il fatto che Malthus si fosse formato su Hume e Smith103. Non

sembra, dunque, improprio attribuire a Smith una teoria “evolutiva” delle

istituzioni.

Rivedendo, alla luce di queste considerazioni, il percorso del sistema

smithiano si potrebbe affermare che egli nei “Saggi filosofici” pensa il

progresso della conoscenza come una evoluzione selettiva delle teorie

101 C. S. PEIRCE, Evolutionary love, in Collected papers, a cura di HARTSHORN e WEISS, Cambridge, Mass. 1935, vol. VI, p. 293 (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34).102 S. N. PATTEN, The development of the english thought, N. Y., 1900, p. 23 (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34). Un giudizio analogo è espresso anche da F. POLLOCK in Oxford lectures and other discourses (Londra 1890): “La dottrina dell’evoluzione altro non è che il metodo storico applicato ai fatti della natura; il metodo storico altro non è che la dottrina dell’evoluzione applicata alle società e alle istituzioni degli uomini” (citato da F. A. VON HAYEK, in Legge, legislazione e libertà, Il Saggiatore, Milano 1994, p. 34).103 Per l’analisi di L. Mises sui rapporti fra la teoria della popolazione di Malthus e la teoria darwiniana della lotta per la sopravvivenza, cfr. Socialismo, Rusconi, Milano 1990, pp. 352-57.

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scientifiche, che si attua attraverso la volontà dei ricercatori di superare la

sorpresa e la meraviglia prodotte dalle novità riscontrate nell’osservazione

dei fenomeni. La Natura ha, in altre parole, promosso il comportamento più

adatto al miglioramento della conoscenza, dotando l’uomo del desiderio di

un tal fine e non ha affidato alla sua ragione la scoperta dei mezzi più adatti

per quel fine. Ad essi è stato indirizzato, più prudentemente, attraverso istinti

originari e immediati104. Una “mano invisibile” fa sì che il desiderio umano di

certezza, che trova soddisfazione indirettamente, attraverso la rimozione dei

problemi delle teorie scientifiche, si traduca nell’impegno alla ricerca di

spiegazioni della realtà sempre più aderenti ai fenomeni osservati. La

scienza e il metodo scientifico nascono, dunque, come risultato non

intenzionale del bisogno umano di certezza.

Sul piano morale il paradosso che il concetto di giustizia presenta è

particolarmente illuminante per comprendere quanto sin qui affermato. Smith

nella seconda parte della Teoria dei sentimenti morali si occupa

dell’influenza della fortuna sul senso del merito e del demerito. L’analisi

smithiana scompone le azioni moralmente significanti in tre momenti,

distinguendo rispettivamente le intenzioni che le determinano, gli atti esterni

che da tali intenzioni derivano ed infine le conseguenze felici o funeste che

esse provocano. Ebbene, poiché gli atti esterni non sono eticamente rilevanti

e le conseguenze dipendono in gran parte dalla sorte, allora oggetto di

valutazione morale dovrebbero essere le sole intenzioni. In realtà, solo

raramente giudichiamo in tal modo le azioni, dal momento che la prassi

104 Per un’analisi, cfr. K. HAAKONSSEN, The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press., London 1981, pp. 77-79.

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effettiva è proprio quella opposta ed i nostri giudizi sono pesantemente

influenzati dalle conseguenze delle azioni. Addirittura nel campo giuridico ciò

è codificato da norme ben precise, che intendono limitare l’accertamento

della verità ai soli fatti, prescindendo completamente dalle intenzioni degli

agenti. Comunque, per questa incoerenza della regola della giustizia, che

dovrebbe valutare l’intenzione ma finisce per giudicare solo l’azione, Smith

prevede due giustificazioni105. La prima, di carattere psicologico, è che

gratitudine e risentimento, dai quali deriva il sentimento della giustizia, sono

causati dal piacere e dal dolore (Smith giustifica i giudizi etici in termini non

etici) tant’è che è possibile, per quanto assurdo, arrabbiarsi con la pietra

sulla quale inciampiamo. La seconda, di tipo teleologico, è che se gli uomini

dovessero giudicare solo le intenzioni, non sarebbe possibile alcun giudizio e

verrebbe meno la certezza del diritto. Una tale incoerenza perciò è

provvidenziale e prova la saggezza di Dio che porta a buon fine anche le

debolezze umane.

Si manifesta nella visione smithiana una forte caratterizzazione

teleologica nella quale gli uomini interpretano il duplice ruolo di fini e di

mezzi. L’uomo è il fine di una natura organizzata per il raggiungimento della

sua felicità, ed è lo strumento di tale realizzazione, a patto che non ceda al

cosiddetto “spirito di sistema”. Con quest’espressione Smith intende un

particolare atteggiamento presuntuoso, autoreferenziale e lontano

dall’esperienza, tipico degli uomini incauti, che sono a tal punto innamorati

dei propri progetti teorici o pratici, da diventare insofferenti della realtà.

105Un’analisi efficace in G. PRETI, Alle origini dell’etica contemporanea. Adamo Smith, La Nuova Italia, Firenze 1957, pp. 157 ss.

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Lo “spirito di sistema” è il peccato originale dei governanti che pensano di

poter controllare ogni cosa dall’alto e che, incuranti della saggezza che

regola il sistema degli affetti, pretendono di “sistemare i membri di una

grande società con la stessa facilità con cui sistemano i pezzi su una

scacchiera”106. Mentre, infatti, i pezzi sulla scacchiera non sono autonomi e

dotati di un principio di movimento proprio, gli individui di una grande società

sono liberi rispetto a ciò che un legislatore esterno può imporre ad essi.

Compito del legislatore è allora quello di prendere decisioni in armonia con il

libero gioco della società, decisioni, cioè, che siano compatibili con i diversi

scopi che i suoi membri si propongono di raggiungere al suo interno.

L’interesse della “Grande società” è ben tutelato quando l’attenzione

principale di ogni singolo individuo sia indirizzata verso quella particolare

porzione di essa che rientra nella sfera delle sue abilità e del suo intelletto107

e quando gli statisti non pretendano che i propri concittadini si conformino o

pieghino alla loro volontà. La stessa legittimità dei provvedimenti governativi

non risiede, dunque, nella sovranità del comando. Hobbes supponeva che

non esistesse una distinzione naturale tra giusto e ingiusto, che così

venivano a dipendere dal semplice arbitrio del magistrato civile108. Ogni

istituzione o legge positiva si fonda, invece, secondo Smith su

determinazioni morali precedenti, perciò la volontà del legislatore risulta

“buona” o “cattiva” a seconda della sua maggiore o minore fedeltà ad esse. 106 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 460. Particolarmente significativo, a tal proposito, è il rilievo dato da K. HAAKONSSEN alla diffidenza di Smith nei confronti della system knowledge rispetto alla contextual knowledge, che è la conoscenza del comportamento umano derivante dal meccanismo della simpatia: The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press, London 1981, pp. 79-82.107 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 453.108 Ibid., p. 599.

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La diffidenza nei confronti degli interventi diretti a modificare lo sviluppo

“naturale” della società è sostenuta, in Smith, dalla “fede” nei principi e nelle

leggi della natura.

Si è visto come l’intera vita morale prenda il via a partire da passioni e

sentimenti da cui derivano i giudizi e le leggi morali, che si costituiscono

grazie al contributo di innumerevoli individui e che si evolvono in forme atte a

migliorare progressivamente la convivenza civile. La stessa coscienza

umana, lo spettatore che ognuno di noi si porta dentro, è il risultato non

intenzionale dell’interazione sociale. Un uomo che fosse vissuto isolato fino

all’età adulta sarebbe attento solo agli stimoli provenienti dall’esterno,

perché privo dello “specchio sociale”109. Smith risolve l’intero complesso del

mondo umano in termini storico-sociali, secondo il consueto impianto

meccanicistico, di derivazione newtoniana. Come gli ingranaggi di un

orologio sono tutti ammirevolmente regolati per il fine per cui esso è stato

costruito, segnare l’ora, così gli individui sono dotati di tutte le capacità

necessarie alla prosperità sociale. Se gli ingranaggi dell’orologio fossero stati

forniti del desiderio di segnare l’ora non sarebbero, per questo, riusciti

meglio nel loro intento, così come gli individui non contribuirebbero

maggiormente alla prosperità sociale se mirassero ad essa direttamente110.

Le regole della moralità sono generalizzazioni di osservazioni sulla

condotta altrui, che si sono formate impercettibilmente, in moltissimo tempo,

attraverso la selezione dei comportamenti, resa possibile dagli unanimi

“sentimenti dell’umanità”, e senza che vi fosse alcun disegno umano. Inoltre,

109 Ibid., p. 253.110 Ibid., p. 212.

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le regole morali, in un certo senso, perfezionano quelle naturali poiché

correggono quella distribuzione di cose che la Natura aveva disposto. Infatti

tra un disonesto operoso che coltiva la terra, dice Smith, e un buon uomo

pigro che la lascia incolta, il corso naturale delle cose decide in favore del

disonesto, ma gli uomini in favore dell’uomo virtuoso111. “Le regole che la

natura segue sono adatte ad essa, quelle che segue l’uomo sono adatte a

lui, ma entrambe sono calcolate per promuovere lo stesso grande fine:

l’ordine del mondo, la perfezione e la felicità della natura umana”112.

L’osservazione secondo cui la natura sceglie sempre l’operosità, si

fonda sulla considerazione del ruolo fondamentale che l’effetto dell’utilità

svolge sul sentimento di approvazione. A tale argomento è dedicata tutta la

quarta parte della Teoria dei sentimenti morali, dove Smith sostiene che

l’ammirazione umana per la condizione dei ricchi non risiede tanto

nell’osservazione del maggior agio o piacere di cui godono, quanto

nell’osservazione della disponibilità di mezzi per il proprio agio che

possiedono. “Lo spettatore nemmeno immagina che i ricchi e i potenti siano

realmente più felici degli altri, ma immagina che essi possiedano più mezzi

per la felicità”113. Se, però, consideriamo la reale soddisfazione che la

ricchezza può promuovere indipendentemente dalle considerazioni circa

l’ordine, l’armonia, la bellezza e la potenza, a cui nell’immaginazione sempre

si accompagna, essa risulta sempre insignificante e disprezzabile. Per ciò

che riguarda il benessere e la tranquillità, i diversi ranghi della vita sono

pressappoco sullo stesso piano, e il mendicante che si crogiola al sole

111 Ibid., p. 346.112 Ibid., p. 346.113 Ibid., p. 372.

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possiede quella sicurezza per la quale i re combattono. Ma raramente

vediamo le cose in questa luce astratta e filosofica. “Ed è un bene che la

natura si imponga in questo modo. E’ questo inganno che risveglia e tiene

continuamente in movimento l’industriosità dell’uomo”114. Ecco, dunque, il

paradosso per cui l’operosità da cui dipendono tutte le attività umane, dalla

coltivazione della terra alla costruzione delle case, dalla fondazione di città al

progresso delle scienze e delle arti, si fonda su un provvidenziale inganno.

E’ ad esso, infatti, che si deve il salto esistente tra gli obbiettivi perseguiti

dalle azioni umane e quelli da esse effettivamente conseguiti. E’ alla cecità

dei ricchi e alla loro rapacità che si deve una distribuzione dei beni, pari a

quella che sarebbe possibile se la terra fosse stata divisa in parti eguali fra

tutti i suoi abitanti. Tale concezione non rappresenta, però, un tentativo

ideologico di giustificazione dell’ineguaglianza, quanto piuttosto la difesa

della spontaneità dell’ordine sociale che emerge naturalmente, nel senso

precisato più sopra, senza l’elaborazione di un progetto e senza ipotizzare la

necessità del passaggio da un astratto stato di natura ad uno stato civile

fondato su un contratto. Smith come Mandeville e Hume, dimostra la propria

predilezione per la legge delle conseguenze involontarie, riconoscendo il

carattere storico ed evolutivo delle istituzioni umane e ampliando le basi

emotive ed extrarazionali del progresso umano. Ciò è particolarmente

evidente in relazione alla dottrina smithiana dello sviluppo della civiltà.

114 Ibid., p. 374.

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3.2 IL DIRITTO: LA TEORIA DEI “QUATTRO STADI” DI SVILUPPO

DELLA SOCIETA’ E IL RAPPORTO TRA MODI DI SUSSISTENZA E

LEGISLAZIONE

Le lezioni sulla “jurisprudence” raccolgono trascrizioni e appunti dei

corsi tenuti da Smith a Glasgow negli anni accademici 1762-63, 1763-64 e

descrivono la teoria delle norme in base alle quali dovrebbero essere retti i

governi115. Sono divise in quattro parti: la prima si occupa della giustizia e

descrive i caratteri e lo sviluppo degli ordinamenti giuridici, con riferimento

alla teoria generale del governo, al diritto di famiglia, al diritto privato e alle

norme che disciplinano i contratti; la seconda parte tratta, invece, argomenti

giuridici più vicini al diritto amministrativo occupandosi dei regolamenti

riguardanti la “police”, nei quali Smith fa confluire la discussione sugli

approvvigionamenti a buon prezzo e sull’abbondanza nell’offerta delle merci,

ma anche le trattazioni su ordine e sicurezza pubblica. La terza e la quarta

parte, di minor peso, concernono la riscossione dei tributi e la difesa.

Ai fini dell’indagine sul concetto della “mano invisibile” anche nel contesto

giuridico dell’opera smithiana, l’analisi deve concentrarsi su due fatti

strettamente connessi tra loro: rispettivamente l’origine del governo e

dell’autorità in genere, e la questione relativa alla proprietà privata.

La genesi della società è presentata, in opposizione rispetto alla teoria del

contratto, facendo ricorso ai principi psicologici già delineati nello

115 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré’, Milano 1989, pp. 3 ss.

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svolgimento della Teoria dei sentimenti morali. Il primo principio su cui ogni

società è fondata risiede nell’autorità dalla quale dipendono le differenze di

grado e le distinzioni di rango. L’autorità non dipende da alcuna volontà

intenzionale né singola né collettiva, poiché essa deriva semplicemente

“dalla disposizione dell’umanità a condividere tutte le passioni del ricco e del

potente” e “dall’ammirazione per i vantaggi della loro situazione”116.

“La Natura ha voluto insegnarci a sottometterci ad essi per semplice riguardo nei loro confronti, a tremare, a chinarci di fronte al loro alto stato, a considerare il loro sorriso come una ricompensa sufficiente a ripagare ogni servigio e a temere il loro dispiacere come la più severa di tutte le mortificazioni, anche se non ne dovesse derivare altro male”117.

Come si vede, anche l’autorità e la gerarchia sociale, che su di essa si

fonda, non sono il frutto di alcun progetto consapevole, poiché una “mano

invisibile” fa sì che istinti ed abitudini emotive realizzino, attraverso una loro

complessa stratificazione ed evoluzione, ciò che sul piano giuridico

divengono autorità e comando.

Non c’è, però, solo la ricchezza tra i fattori che attribuiscono ad un individuo

autorità sugli altri, dal momento che anche l’antichità della famiglia, l’età

avanzata e le superiori capacità fisiche e intellettuali la possono favorire.

Dopo l’autorità, l’altro principio che induce gli uomini all’obbedienza di un

capo consiste nell’utilità che essi avvertono in essa per la conservazione

della giustizia e della pace. Resta, comunque, ben fermo che non è una

considerazione razionale a spingere gli uomini ad organizzarsi in società, e

che l’utilità di cui Smith parla si riferisce all’accettazione dell’autorità, una

volta che si sia costituita, e non al fondamento della sua costituzione118.

116 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 153.117 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 154.118 Anche T. D. Campbell, che interpreta il pensiero di A. Smith come una forma di “utilitarismo della norma” o “utilitarismo di sistema”, riconosce l’ostilità smithiana nei confronti del ricorso al criterio di utilità per la spiegazione dell’origine delle norme morali o come guida

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L’utilitarismo simpatetico119 di Smith enfatizza il lato contemplativo120 della

valutazione sull’utilità, sottolineando il piacere che ci procurano per esempio,

la perfezione dell’amministrazione o l’estensione dei commerci e delle

manifatture. Tutto questo è confermato dal rifiuto categorico della dottrina

del contratto come giustificazione della lealtà al governo. Dice Smith:

“Chiedete ad un povero facchino o ad un lavorante a giornata per quale motivo obbedisca all’autorità civile, egli vi dirà che è giusto fare così, che vede farlo agli altri, che sarebbe punito se rifiutasse di farlo, o forse che non farlo è un peccato contro Dio. Ma non lo sentirete mai citare un contratto come motivo della sua obbedienza”121.

Le aporie cui va incontro il razionalismo contrattualista sono sottolineate da

diverse considerazioni, come il fatto che i governi sono accettati anche in

Paesi in cui nessuno è a conoscenza di una tale dottrina, o il fatto che,

ammesso e non concesso che all’origine della società vi sia un conferimento

condizionato di poteri ad alcuni individui, la stipulazione non avrebbe valore

per tutti coloro che non avessero potuto partecipare ad essa.

“Il fondamento di un dovere non può essere un principio completamente sconosciuto all’umanità. Gli uomini devono avere una qualche idea, per quanto confusa, del principio in base al quale agiscono”122.

La genesi del governo e le sue varie forme non dipendono, dunque,

da un artificio politico, ma debbono venire ricondotte nell’ambito della

concezione evolutiva delle istituzioni sociali umane. L’analisi dell’origine del

governo e delle istituzioni giuridiche si inserisce nel contesto della teoria

smithiana dei “quattro stadi” di sviluppo della società. Il programma della

pratica dell’agire: per questo, cfr. The utilitarianism of Adam Smith’s policy advice, “J. Hist. Ideas”, 1981 (42), p. 73.119 Tale espressione viene usata e giustificata da G. MARCHELLO in L’utilitarismo simpatetico di Adamo Smith e il fondamento della valutazione pratica, Ed. di Filosofia, Torino.120 T. D. Campbell discute l’utilitarismo “contemplativo” di Smith in: Adam Smith’s science of morals, George Allen & Unwin, London 1971, pp. 217-220.121 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 519.122 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 520.

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teoria stadiale consiste nel definire i diversi modi attraverso i quali le società

umane rispondono alla sfida della “scarsità”. I diversi modi di sussistenza

descritti da Smith come tentativi di soluzione di tale problema (caccia,

pastorizia, agricoltura e commercio) determinano differenti assetti

istituzionali. Va rilevata, a questo punto, una differenza fondamentale tra la

definizione delle istituzioni sociali in termini di storia naturale rispetto alla

definizione delle stesse in termini di artificialità, che considera la società

come un prodotto consapevole delle scelte degli individui. E’ diversa nei due

modelli l’interpretazione del nodo scarsità-politica. Nel modello di storia

naturale della società, di cui la teoria stadiale costituisce il nucleo centrale, la

soluzione al problema della “scarsità” dà luogo a un certo assetto delle

istituzioni politiche, coerente con la soluzione trovata dal modo di

sussistenza. Nel secondo, al contrario, è la soluzione della politica, cioè delle

scelte consapevoli degli individui, a consentire quella del problema della

scarsità. Nel primo caso c’è scarsità e la soluzione particolare del problema

determina un certo assetto politico. Nel secondo c’è scarsità perché e finché

non c’è politica123.

Il fondamento del governo risiede, dunque, esclusivamente nel binomio

autorità-utilità, che prende il posto riservato ai diritti nella dottrina del

contratto124.

“Fra i cacciatori non esiste un governo vero e proprio: essi vivono secondo le leggi di natura. L’appropriazione delle mandrie e delle greggi, introducendo una disparità nelle fortune, dette origine ad una forma di governo regolare. Finché non esiste la proprietà non può esistere il governo, il cui scopo specifico è appunto quello di rendere sicura la ricchezza e di proteggere i ricchi dai poveri. Nell’età dei pastori se uno aveva cinquecento buoi ed un

123 Tale analisi è svolta da S. VECA nella prefazione a Il cattivo selvaggio di R. L. MEEK, Il Saggiatore, Milano 1981, p. XII.124 Cfr. M. E. SCRIBANO, Natura umana e società competitiva. Saggio su Mandeville, Feltrinelli, Milano 1980, p. 134.

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altro nessuno, il primo non avrebbe potuto possederli se non fosse esistita una qualche forma di governo che gli avesse garantito la sicurezza del possesso”125.

Da queste brevi indicazioni emerge con chiarezza che il governo,

inteso nel senso di autorità sopra le parti, nasce non appena sorgano

occasioni di conflitto e controversie fra interessi contrastanti, nelle quali ci sia

bisogno di un giudice imparziale. La proprietà ed il governo civile, quindi,

sono in stretta dipendenza reciproca. La conservazione della proprietà e la

disuguaglianza delle fortune costituiscono la causa originaria del governo

civile e i caratteri della proprietà variano sempre necessariamente con la

forma del governo126.

Ogni sistema di produzione influenza direttamente la forma del

governo cosicché, quando l’attività prevalente di un popolo è la caccia, la

struttura sociale è costituita da famiglie indipendenti, legate fra loro soltanto

dalla medesima residenza e dalla lingua, mentre il tipo di governo, molto

limitato, non può che essere democratico127. Al modo di sussistenza dei

pastori è legata l’origine di un governo effettivo, che si rende necessario in

seguito all’instaurarsi di rapporti di dipendenza di una certa rilevanza,

conseguenti alla distinzione fra ricchi e poveri, e alle esigenze

dell’amministrazione della giustizia. I successivi progressi nell’agricoltura e lo

sviluppo del commercio portano le forme del governo ad una maggiore

complessità ed articolazione, ma resta sempre fermo il principio che il

progresso nell’attività del governo non è dovuto al consenso o all’accordo di

125 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 521-22.126 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 516.127 Per descrivere l’età della caccia, Smith si ispirò ai resoconti sulla vita degli indiani d’America: per la questione, cfr. A. M. IACONO, Il borghese e il selvaggio, in Passioni, interessi, convenzioni, Franco Angeli, Milano 1992.

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un certo numero di persone a sottomettersi a certe norme, bensì al

progresso naturale compiuto dagli uomini nella società128.

La teoria dei quattro stadi, come si è detto, si sviluppa mettendo al

centro il problema dell’origine del diritto di proprietà, che Smith fa risalire a

cinque cause: l’occupazione, che è l’appropriazione di ciò che non

apparteneva a nessuno; la trasmissione, che è il passaggio volontario da

una persona ad un’altra; l’accessione, che è l’attribuzione al proprietario di

un oggetto di tutto ciò che è legato con esso; l’usucapione, che è un

trasferimento di proprietà dal legittimo proprietario al possessore effettivo e

infine la successione, che è il passaggio di proprietà dal testatore all’erede

testamentario. La trattazione segue il percorso del cambiamento di tali

cause, attraverso il loro passaggio nelle età dei cacciatori, dei pastori,

dell’agricoltura e del commercio.

Ciò che merita attenzione, in primo luogo, sono le differenze fra un

modo di sussistenza e l’altro e i motivi che le producono. L’analisi procede

basandosi sul metodo della “storia congetturale”, che Smith mutuò

probabilmente dalla Storia naturale della religione di Hume, utilizzato anche

per lo studio sull’origine delle lingue, che adotta criteri di “analogia” e

“verosimiglianza” per la ricostruzione dei fatti storici129.

Il discorso si svolge, dunque, sotto forma di narrazione congetturale.

Smith ci chiede di immaginare dieci o dodici persone dei due sessi che

vivono su un’isola deserta: il loro primo mezzo di sostentamento

consisterebbe, senza dubbio, nella frutta e negli animali selvatici offerti dal

128 A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 255.129 Per una sintesi, cfr. A. M. IACONO, L’idea di “storia teoretica o congetturale negli scritti filosofici e sul linguaggio di Adam Smith, “Teoria”, 1989 (9), pp. 113-33.

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luogo. Le uniche occupazioni sarebbero la caccia e la pesca: questa è l’età

dei cacciatori. In seguito, a poco a poco, con l’aumentare del loro numero, la

caccia risulterà troppo precaria per il loro sostentamento e saranno costretti

ad escogitare qualche altro mezzo di sopravvivenza. In un primo tempo,

probabilmente, dopo una caccia particolarmente abbondante, cercheranno

di conservare provviste sufficienti a nutrirli per un lungo periodo di tempo.

Ma questo non può durare a lungo. Il sistema più naturale sarà quello di

addomesticare alcuni degli animali selvatici catturati e, provvedendo loro

cibo migliore di quello che potrebbero procacciarsi altrove, indurli a restare

sul loro territorio ed a moltiplicarsi. Inizierà così l’età dei pastori130.

Ecco, allora, il punto: l’evoluzione del modo di sussistenza avviene in

seguito al tentativo di superare le difficoltà legate all’incremento demografico

e alla conseguente scarsità dei beni. Il miglioramento prodotto dal passaggio

dalla caccia alla pastorizia è l’effetto non programmato dell’attività dei singoli

diretta alla rimozione del problema della scarsità, non la soluzione,

concertata e progettata, a quel problema. L’analogia riscontrabile con le

osservazioni sullo sviluppo della conoscenza, sul progresso delle lingue e

sul costituirsi della moralità sembra chiara, come è chiaro che esse sono

manifestazioni diverse della legge delle conseguenze involontarie da Smith

simboleggiata attraverso la metafora della “mano invisibile”.

L’analisi prosegue seguendo gli ulteriori sviluppi della società

occasionati dall’incremento demografico, che rende difficile anche vivere di

mandrie e di greggi. La soluzione naturale, allora, è quella che gli uomini si

130 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 14-15.

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dedichino alla coltivazione della terra e alla coltura degli alberi da frutto e dei

vegetali commestibili. Così la società avanza gradualmente verso l’età

dell’agricoltura e le varie attività, che inizialmente venivano esercitate dal

singolo per il suo benessere personale, si separano e si differenziano: alcuni

si dedicano ad una attività, altri ad altre, secondo le loro tendenze e

inclinazioni. Scambiandosi, in seguito, la produzione eccedente le loro

esigenze individuali ed ottenendo in cambio i beni di cui hanno bisogno e

che non producono da soli, gli uomini giungono così all’età del commercio131.

La società commerciale è quella in cui i prodotti, naturali o artigianali,

eccedenti i bisogni, vengono esportati e quelli necessari vengono importati

con beneficio di tutti. Non ci sono livelli di complessità sociale superiori a

quest’ultimo tipo di organizzazione della produzione, e le distinzioni possibili

fra diverse società commerciali vengono ricondotte, da Smith, all’ampiezza

del mercato da cui dipende il grado della divisione del lavoro.

Illustrata la teoria dei quattro stadi, le Lezioni di Glasgow proseguono

con la spiegazione delle trasformazioni subite da leggi e norme che regolano

la proprietà in ognuno di essi. I popoli come i Tartari, le cui genti vivono di

allevamento di mandrie e greggi, infatti, puniscono il furto con la morte,

mentre gli indiani d’America, fra i quali la proprietà privata non è molto

diffusa, poiché si mantengono soprattutto con la caccia, lo considerano un

reato minore. Ciò significa che quando la proprietà assume proporzioni

consistenti all’interno di una determinata organizzazione sociale, le leggi in

sua difesa si moltiplicano in proporzione alle sempre più frequenti occasioni

131 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, pp. 15-16.

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di conflitto. Nell’età dell’agricoltura si è meno esposti alla rapina e al furto,

ma siccome nascono molti altri modi di ledere la proprietà, in proporzione

all’aumento della proprietà stessa, le leggi anche se meno rigorose, sono

assai più numerose che in una società di pastori. Lo stesso discorso vale per

l’età commerciale, dal momento che quanto più avanzati sono la società e i

sistemi di produzione, tanto più grandi sono la necessità e il numero di leggi

necessarie alla disciplina della giustizia e al mantenimento del diritto di

proprietà132. La sua durata nell’età della caccia è limitata alla presa di

possesso e aumenta considerevolmente in proporzione alla sua estensione

nell’età dei pastori e dell’agricoltura. Così l’incremento patrimoniale, la

trasmissione, l’usucapione e la successione nascono e si sviluppano come

fattori determinanti la proprietà in relazione al suo estendersi e diversificarsi.

Esiste, però, anche una storia stadiale dello sviluppo dei contratti che

Smith cerca di descrivere mostrando come gli impegni presi nelle società

primitive non fossero considerati affatto vincolanti, mentre essi lo divennero

sempre più in relazione all’aumento del valore di ciò che era oggetto di

contrattazione, fino all’avvento della società commerciale. In essa è della

massima importanza la fedeltà ai patti poiché da essi dipende la possibilità

stessa degli scambi. Per ciò che riguarda i diritti derivanti dalle offese, il

discorso è analogo, poiché essi dipendono in gran parte dalla forza dei

governi, generalmente molto deboli negli stadi primitivi di sviluppo della

civiltà umana.

132 In A. SMITH, Lezioni di Glasgow, a cura di E. PESCIARELLI, Giuffré, Milano 1989, p. 17.

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L’uso che Smith fa della teoria stadiale dello sviluppo si estende,

dunque, a tutte le istituzioni giuridiche, alla proprietà, al governo civile, ai

modi di sussistenza e alle attività che gli uomini intraprendono per il proprio

mantenimento. Emerge, così, un’impostazione di fondo di stampo

“storicistico” che non considera mai il modo di essere degli uomini da un

punto di vista astratto e razionalistico, ma sempre nella concretezza storica

delle determinazioni dell’ambiente e della struttura economica133. Il fatto che i

rapporti socio-economici siano posti in primo piano, rispetto a tutti quelli

possibili per spiegare l’evoluzione sociale, probabilmente è dovuto

all’osservazione del rapido sviluppo economico in Inghilterra di cui Smith fu

testimone e al conseguente divario fra aree economicamente avanzate ed

aree più arretrate. Se i cambiamenti nel modo di sussistenza erano in grado

di mutare radicalmente la società contemporanea, Smith doveva supporre

che essi avessero influenzato l’intero sviluppo della civiltà umana134.

E’ così che Smith giunge a concepire una società autonoma rispetto a

qualsiasi progettazione politica, fondata sul principio della cooperazione

attraverso la divisione del lavoro, il cui obbiettivo è la soluzione del problema

della scarsità. Inoltre se una certa nozione di progresso è ravvisabile

nell’evoluzione degli stadi, essa va intesa solo nel senso del progressivo

superamento dei bisogni e delle necessità.

133 Una sintesi in A. GIULIANI, I due storicismi, “Il Politico”, 1953 (3), pp. 329-53, e in F. A. VON HAYEK, Ordinamento giuridico e ordine sociale, “Il Politico”, 1968 (17), pp. 693-723.134 Cfr. R. L. MEEK, Il cattivo selvaggio, prefazione di S. VECA, Il Saggiatore, Milano 1981, p. 91.

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3.3 L’ECONOMIA: IL “SISTEMA DELLA LIBERTA’ NATURALE” E

L’ALLOCAZIONE OTTIMALE DELLE RISORSE

La teoria stadiale dello sviluppo socioeconomico comporta

l’applicazione del principio di causalità anche nel campo della ricerca storica,

ed infatti, secondo Smith, ogni fenomeno sociale e storico è concatenato a

una serie di cause e lo sviluppo, pur non essendo teleologicamente

orientato, è sottoposto a principi ben precisi. Abbiamo visto come il momento

chiave di tale sviluppo sia costituito dal modo di sussistenza, da cui

dipendono la forma della proprietà e del governo.

Ebbene, l’elaborazione di questi temi presente nelle Lezioni di Glasgow trova

applicazione anche nella Ricchezza delle nazioni, soprattutto nei libri III e V,

dove l’analisi smithiana rileva che i mutamenti sociali dipendono dallo

sviluppo economico, che l’uomo è mosso dall’amor proprio in ogni attività ma

in particolar modo in campo economico, e che i normali processi di sviluppo

generano quattro stadi economici, ognuno dei quali è contraddistinto da

particolari strutture socio-politiche che riflettono il modo di sussistenza

prevalente135.

I fattori propulsivi dell’intero processo di sviluppo della società sono

fondamentalmente due: l’interesse egoistico degli uomini, la propensione a

migliorare la propria condizione, che è la molla inconscia e spontanea della

natura umana, e l’aumento della popolazione che influisce su ed è

135 La teoria stadiale della Ricchezza delle nazioni è analizzata da A. S. SKINNER, “Adam Smith: an economic interpretation of history”, in Essays on Adam Smith, a cura di SKINNER e WILSON, Oxford 1976, pp. 154-78.

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influenzata dal succedersi degli stadi. Tutto ciò è inserito nel contesto della

teoria degli esiti sociali non intenzionali, di cui la metafora della “mano

invisibile” è espressione, in base alla quale i mutamenti materiali, cui è

sottoposta la società civile nel corso del suo sviluppo, coinvolgono individui

che non sono consapevoli delle conseguenze ultime a cui conducono le loro

azioni. La trattazione della teoria dei “quattro stadi” contenuta all’interno

della Ricchezza delle nazioni presenta, tuttavia, rispetto alle Lezioni di

Glasgow, alcune discontinuità che meritano alcune considerazioni.

Innanzitutto, va rilevato che essa nella Ricchezza delle nazioni è

diretta principalmente a spiegare i meccanismi economici operanti in una

società “commerciale”, mentre nelle Lezioni di Glasgow essa trova

applicazione, sul piano giuridico, nella spiegazione dello sviluppo della

proprietà e delle forme di governo136. In secondo luogo, nella Ricchezza delle

nazioni, soprattutto nel libro I, Smith introduce una nuova teoria stadiale di

sviluppo che, però, non ha l’intento storiografico di descrivere le fasi

dell’evoluzione dell’umanità, ma quello di fornire un modello esplicativo del

meccanismo di formazione dei prezzi in un sistema economico

“commerciale”, rispetto alle dinamiche di una ipotetica economia “primitiva”.

Così una “situazione originaria” caratterizzata dalla proprietà indivisa è

contrapposta a quella “progredita” che si distingue per l’appropriazione della

terra e l’accumulazione dei fondi e dei capitali.

La novità più rilevante di questa impostazione consiste nel fatto che lo

“stadio commerciale” delle Lezioni di Glasgow viene qui descritto più

136 Cfr. E. PESCIARELLI, “Adam Smith. Dal modo di sussistenza al modo di produzione”, in “Quaderni di Sociologia”, 1977 (26), nn. 3-4, p. 224.

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esaurientemente come lo stadio dell’accumulazione capitalistica. In altre

parole, se in un’economia primitiva non esiste né proprietà privata della terra

né accumulazione del capitale non esistono nemmeno rapporti di

subordinazione nel lavoro e il suo intero prodotto appartiene al lavoratore. La

ricostruzione storica smithiana descrive uno stato primitivo e non-civile della

società, precedente l’accumulazione del capitale e l’appropriazione della

terra, in cui la proporzione tra le quantità di lavoro necessario per ottenere

diversi oggetti sembra sia la sola circostanza capace di offrire qualche

regola per scambiarli l’uno con l’altro.

“Se ad esempio tra un popolo di cacciatori per uccidere un castoro occorre doppio lavoro che per uccidere un cervo, un castoro dovrebbe naturalmente scambiarsi contro due cervi. E’ naturale che ciò che è normalmente il prodotto di due giorni o di due ore di lavoro debba valere il doppio di ciò che è normalmente il prodotto del lavoro di un giorno o di un ora”137.

Ciò avviene perché, in questo caso, l’intero prodotto del lavoro appartiene al

lavoratore e la quantità di lavoro impiegata nell’acquistare o produrre una

merce è la sola circostanza che regola la quantità di lavoro che essa

comunemente acquista e ottiene in cambio. Nello stadio civile della società,

invece, poiché il capitale si è accumulato nelle mani di determinate persone

e la terra è diventata tutta di proprietà privata, il prodotto del lavoro non

appartiene più, interamente, al lavoratore. Egli deve in molti casi dividerlo col

proprietario del capitale che gli dà impiego.

Né la quantità di lavoro impiegata nell’acquistare o produrre una merce è la

sola circostanza che regola la quantità di beni che esso può acquistare o

ottenere in cambio. Se, dunque, in una società primitiva il lavoro contenuto

in una merce coincide con il lavoro che essa comanda, nella società 137 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 132.

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capitalistica non è possibile che il lavoro comandato da una merce sia

determinato dal lavoro in essa contenuto138. “E’ evidente che una quantità

addizionale deve essere attribuita ai profitti del capitale che ha anticipato i

salari e fornito i materiali per quel lavoro”139.

Lo scopo del confronto fra “economia primitiva” ed “economia

avanzata” è quello di spiegare la differenza esistente fra il meccanismo di

costituzione dei prezzi nei due differenti contesti. Se, infatti, la teoria

smithiana del valore-lavoro140 può spiegare la costituzione dei prezzi delle

merci nel primo tipo di economia, essa non è sufficiente nel caso

dell’”economia di mercato” per la quale Smith provvede all’introduzione della

differenza fra prezzo naturale e prezzo di mercato141.

“Quando il prezzo di una merce non è né più né meno di quanto è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti del capitale impiegato nel coltivarla, lavorarla, e portarla al mercato secondo il loro saggio naturale, la merce è allora venduta per quel che può chiamarsi il suo prezzo naturale”, mentre “il prezzo effettivo al quale comunemente si vende una merce è detto prezzo di mercato. Esso può essere al di sopra o al di sotto o esattamente uguale al suo prezzo naturale”142.

E’ molto importante quest’ultima considerazione poiché con essa Smith

vuole affermare che il profitto e la rendita hanno due cause, l’una dovuta al

138 Cfr. le analisi di G. PIETRANERA, La teoria del valore e dello sviluppo capitalistico in Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1963, pp. 251ss, e di C. NAPOLEONI, Smith, Ricardo, Marx. Considerazioni sulla storia del pensiero economico, Boringhieri, Torino 1970, pp. 60 ss.139 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 135.140 A proposito della teoria smithiana del valore SCHUMPETER sostiene che, a causa di una certa confusione nell’esposizione del concetto di lavoro come numerario dei prezzi delle merci, venne attribuita a Smith una teoria del valore basata sul lavoro “mentre risulta assolutamente chiaro dal capitolo 6 (del libro I) che egli intendeva spiegare i prezzi delle merci per mezzo del costo di produzione”, in Storia dell’analisi economica a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 111.141 Sulla teoria smithiana del valore, le due interpretazioni più in voga sono quella di S. HOLLANDER, La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976, che considera Smith un precursore della teoria marginalistica e ritiene che il “prezzo naturale” smithiano sia un’anticipazione del “prezzo di equlibrio” di Marshall, e quella di M. DOBB, Storia del pensiero economico, Editori Riuniti, Roma 1974, che sostiene che Smith ha contribuito allo sviluppo sia della teoria del sovrappiù di Ricardo e Marx, sia della teoria marginalistica.142 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 141-142.

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fatto che i proprietari di capitali e di fondi agricoli possono pretendere un

dividendo dei prodotti del lavoro come remunerazione di quanto anticipato,

l’altra dovuta al fatto che essi possono influenzare il mercato. Ciò significa

che il profitto e la rendita sono una funzione sia dei salari che dei prezzi di

mercato regolati dalle leggi della domanda e dell’offerta143. Infatti il prezzo di

mercato di una data merce è regolato dalla proporzione tra la quantità che è

effettivamente portata sul mercato e la domanda di coloro che sono disposti

a pagarne il prezzo naturale, cioè l’intero valore della rendita, del lavoro e

del profitto, che si deve pagare per portarvela144. Inoltre, i proprietari di fondi

e di capitali investono nella produzione soltanto se possono aspettarsi un

dividendo dal prodotto, ma la parte del totale che essi possono pretendere

non dipende dal fatto che essi abbiano contribuito o no con un qualche

lavoro economicamente rilevante e meno ancora dipende dalla quantità di

questo lavoro145.

Infatti, nonostante si possa forse ritenere che i profitti del capitale siano

soltanto una diversa denominazione del compenso per una particolare

specie del lavoro, il lavoro di ispezione e di direzione, essi sono regolati da

principi del tutto diversi e non stanno in nessuna proporzione con la quantità,

la fatica o la genialità di questo supposto lavoro di ispezione e di direzione146.

Il percorso seguito fin qui nell’osservazione del confronto fra la

“situazione originaria” e quella “progredita” dello sviluppo della società, 143 Cfr. l’analisi di K. G. BALLESTREM, Karl Marx e Adam Smith: osservazioni critiche sulla critica dell’economia politica, “Verifiche”, 1984 (13), p. 159.144 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 142.145 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 133.146 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 133.

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conduce, dunque, direttamente in braccio alla concezione smithiana del

conflitto fra capitale e lavoro, fra profitto e salario. L’aumento e la

diminuzione dei profitti del capitale dipendono dalle stesse cause (domanda

e offerta) che determinano l’aumento e la diminuzione dei salari o

l’incremento e il declino della ricchezza della società; queste cause, tuttavia,

influiscono in modo radicalmente diverso sugli uni e sugli altri. In parole

semplici alti salari e alti profitti non si accompagnano quasi mai visto che,

anzi, i profitti del capitale sono più alti nei paesi poveri piuttosto che nei paesi

ricchi dove il saggio di interesse del denaro è inferiore. Ecco, allora, che lo

scontro tra salario e profitto, nella visione smithiana, può portare alla vittoria

del primo e alla conseguente affermazione dell’utilità generale, solo in

un’economia ricca e in espansione dove, cioè, i possessori di capitale sono

costretti ad investire, in concorrenza gli uni con gli altri, negli stessi commerci

e, dunque, sono meno liberi di imporre prezzi sopra il livello naturale. La

concorrenza riduce i prezzi delle merci e diminuisce il profitto a tutto

vantaggio dei salari. Questa è la ragione della diffidenza che Smith nutre nei

confronti di coloro i quali vivono di profitto poiché, sebbene sia il capitale

impiegato a scopo di profitto a mettere in moto la maggior parte del lavoro

utile di ogni società e a dirigere tutte le più importanti operazioni del lavoro, il

saggio di profitto non aumenta, come la rendita e i salari, con la prosperità

né si riduce con il declino della società. Al contrario esso è naturalmente

basso nei Paesi ricchi ed elevato nei Paesi poveri, ed è sempre più elevato

nei Paesi che stanno andando più rapidamente in rovina. L’interesse dei

possessori di capitale non ha quindi la stessa relazione con l’interesse

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generale della società che ha invece l’interesse dei lavoratori salariati e dei

proprietari fondiari.

L’interesse dei possessori di capitale in qualsiasi ramo del commercio

o dell’industria è sempre differente, se non opposto, rispetto all’interesse

pubblico. Essi, infatti, mirano ad ampliare il mercato, e ciò può essere

vantaggioso per tutti, ma vogliono anche limitare, quando non eliminare

completamente, la concorrenza che impedisce loro di imporre a proprio

arbitrio i prezzi delle merci e di ottenere profitti al di sopra della loro misura

naturale147. Così, anche se raramente si riuniscono per accordarsi come

fanno i lavoratori, i datori di lavoro sono nella tacita ma costante intesa di

non aumentare i salari del lavoro al di sopra del loro saggio corrente. Ciò

comporta la tendenza, da parte loro, ad esercitare pressioni sul potere

politico, che dovrebbe resistere ed essere imparziale, affinché i loro interessi

particolari vengano garantiti da leggi sull’apprendistato, o sulla residenza,

piuttosto che da misure, come premi e dazi, volte a manipolare il libero

svolgersi del commercio, e che hanno il solo scopo di alzare i prezzi e i

profitti sopra il loro livello “naturale”.

Nella società civile e progredita caratterizzata dalla appropriazione

della terra e dalla accumulazione dei capitali, dunque, il sistema smithiano di

“libertà naturale” si giustifica in termini utilitaristici: esso garantisce il maggior

interesse per il maggior numero148. Per “principio di libertà naturale” Smith

intendeva sia un canone politico, cioè la rimozione di tutti i vincoli eccetto

147 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 374-375.148 Cfr. K. G. BALLESTREM, Karl Marx e Adam Smith: osservazioni critiche sulla critica dell’economia politica, “Verifiche”, 1984 (13), p. 161 e T. D. CAMPBELL-I. ROSS, The utilitarianism of Adam Smith policy advice, “Jl. Hist. Ideas”, 1981(42), p. 82.

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quelli di giustizia, sia la convinzione che il libero gioco delle azioni individuali

non produce caos ma ordine149. Il sistema di “libertà naturale” prevede che

ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia150, venga lasciato

perfettamente libero di perseguire il proprio interesse a suo modo e di

mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli di ogni altro

uomo o categoria di uomini151.

In tal modo, infatti, gli interessi privati dispongono naturalmente gli individui a

destinare il loro capitale a impieghi che normalmente sono i più vantaggiosi

per la società: quelli da cui è possibile aspettarsi margini di profitto superiori.

Se a causa di ciò essi destinano troppo capitale a certi impieghi, la

diminuzione del profitto li indurrà immediatamente a rivedere questa

distribuzione. Perciò, senza l’intervento della legge, gli interessi privati

inducono naturalmente gli uomini a dividere e distribuire il capitale di ogni

società tra tutte le diverse attività che vi si svolgono, il più possibile secondo

la proporzione più conforme all’interesse di tutta la società152. Per converso,

il meccanismo che assicura che i profitti non siano, di fatto, interamente

inghiottiti dai salari, è costituito dalla pressione che ”l’acquisizione di nuovi

territori o di nuovi rami di attività economica” esercitano nei confronti del

149 Cfr. J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 106.150 Nel perseguire l’arricchimento personale “ognuno può correre con tutte le proprie forze, sfruttando al massimo ogni nervo e ogni muscolo per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l’indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. E’ una violazione del fair play che non si può ammettere”, A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, I. E. I., 1991, p. 111.151 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 851-852.152 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 785.

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capitale153. Le nuove opportunità di impiego154 non solo consentono di usare

con profitto i capitali fino a quel momento inoperosi ma, soprattutto,

consigliano di stornare i capitali, già pienamente utilizzati, dai rami di attività

meno redditizi verso quelli più redditizi155. In questo contesto si inserisce la

polemica smithiana contro le distorsioni artificiali alla gerarchia degli

investimenti, le quali hanno come unica conseguenza quella di favorire

monopoli e privilegi economici.

Alla novità della Ricchezza delle nazioni rispetto alle Lezioni di

Glasgow, rappresentata dall’introduzione della contrapposizione tra

“situazione originaria” e “condizione civile” dello sviluppo socioeconomico, si

aggiunge una diversa considerazione dello sviluppo dello stadio agricolo.

Quest’ultimo, infatti, nel terzo libro della “Ricchezza” viene descritto nel

passaggio attraverso tre fondamentali modi di produzione. Il primo fra questi

è quello basato sulla servitù della gleba presente nei vecchi stati dell’Europa

dove gli occupanti della terra erano tutti affittuari a discrezione del

proprietario. Tale forma di schiavitù, secondo Smith, fu comunque più mite di

quella conosciuta fra gli antichi Greci e Romani o di quella nordamericana.

153 “L’acquisizione di nuovi territori o di nuovi rami di attività può talvolta aumentare i profitti del capitale, e con essi l’interesse del denaro, anche in un paese la cui ricchezza progredisce rapidamente. Non essendo il capitale del paese sufficiente al pieno sviluppo delle attività che queste acquisizioni offrono alle differenti persone che se le dividono, esso viene destinato solo a quei rami che possono consentire il massimo profitto. Parte di ciò che prima era stato impiegato in altre attività viene necessariamente sottratto ad esse e rivolto a qualche attività nuova e più profittevole. In tutte le vecchie attività la concorrenza diventa quindi minore di prima. Il mercato diventa rifornito meno adeguatamente di molte diverse specie di merci. Il loro prezzo necessariamente aumenta e frutta un profitto maggiore a coloro che trafficano in esse”, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 188.154 Secondo HOLLANDER Smith riconobbe, anche, l’importanza che lo sviluppo tecnologico ebbe per le nuove opportunità di impiego dei capitali: cfr. Cambiamento delle tecniche in La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976.155 Per questa analisi, cfr. S. HOLLANDER, La teoria economica di Adam Smith, Feltrinelli, Milano 1976, p. 202.

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Successivamente si impose il modo di produzione proprio dell’età feudale,

dove agli schiavi si sostituirono gradualmente i mezzadri, ed infine, sebbene

per gradi molto lenti, ad essi seguirono gli affittuari propriamente detti, che

lavoravano la terra disponendo di un capitale proprio e corrispondevano una

rendita fissa al proprietario. Quest’ultimo stadio rappresenta la prima forma

di conduzione capitalistica che, storicamente, si sviluppò per prima verso

l’agricoltura.

La teoria stadiale della Ricchezza delle nazioni si svolge, dunque,

all’interno dell’opposizione fra “situazione originaria” di comunismo primitivo

e “condizione civile” di capitalismo, entro cui scorrono l’antichità classica e il

feudalesimo, e, rispetto ai quattro stadi delle Lezioni di Glasgow,

rappresenta il passaggio dalla considerazione dei modi di sussistenza a

quella dei modi di produzione veri e propri156. L’analisi del passaggio dall’età

feudale a quella capitalista, o precapitalista che dir si voglia, rappresenta,

forse, tutto il senso della maggiore opera smithiana, poiché consente

all’autore di presentare il confronto fra i due “tipi” simbolo dei due periodi

storici: da un lato il signore feudale, dall’altro i commercianti e gli artigiani

della “Grande società”.

Nel capitolo del libro III dal titolo “Come il commercio delle città ha

contribuito al progresso della campagna” Smith dice che si deve al

commercio e alle manifatture l’introduzione graduale dell’ordine e del buon

governo e con essi della libertà e della sicurezza individuale tra gli abitanti

della campagna, che prima erano vissuti quasi in continuo stato di guerra coi

156 Cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 159-60.

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vicini e di dipendenza servile verso i superiori. “Questo, sebbene sia stato il

meno notato, è certamente di gran lunga il più importante di tutti i loro effetti.

Per quanto sappia, Hume è il solo autore che l’abbia sinora rilevato”157. (In

nota lo stesso Smith cita le opere dove Hume fa tale discorso e cioè: “Of

commerce” e “Of luxury”, in Political discourses, del 1752 e History,

nell’edizione del 1773, vol. III, p. 400). La descrizione dell’età feudale

prosegue attraverso l’indicazione dei rapporti di dipendenza che si

intrecciano al suo interno. Così in una nazione che non ha né commercio

estero né alcuna manifattura raffinata, un grande proprietario consuma tutto

il prodotto delle sue terre, eccedente il mantenimento dei contadini,

nell’ospitalità della sua casa. Egli è sempre circondato da un numeroso

seguito che, non avendo nulla da dare in cambio del proprio mantenimento,

deve ubbidirgli “come i soldati ubbidiscono al sovrano che li paga”. Inoltre i

contadini, all’interno di un tale sistema, dipendono, sotto ogni riguardo, dal

grande proprietario, come il suo seguito e anche coloro che non sono in

condizioni di servitù gli sono totalmente soggetti. Tutto questo per l’obbligo di

consumare i prodotti eccedenti di una vasta proprietà all’interno della

proprietà stessa.

Il potere degli antichi signori si basava proprio sull’autorità che i grandi

proprietari fondiari esercitavano, in questo stato di cose, sui propri affittuari e

sul proprio seguito. Ebbene, se l’introduzione del diritto feudale fu un

tentativo di moderare l’autorità dei signori allodiali, è certo, secondo Smith,

che:

157 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 537.

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“Ciò che tutta la violenza delle istituzioni feudali non poteva mai compiere fu realizzato gradualmente dalla silenziosa e impercettibile azione del commercio estero e delle manifatture. Gradualmente questi fornirono ai grandi proprietari qualcosa contro cui scambiare tutto il prodotto eccedente delle loro terre, che essi potevano consumare da soli senza dividerlo con gli affittuari o coi membri del loro seguito. Tutto per noi e niente per gli altri, sembra sia stata in ogni epoca del mondo la vile massima dei padroni dell’umanità”.

Come se questo non bastasse, il passaggio successivo del testo smithiano è

ancora più severo nel giudicare i landlords:

“Forse per un paio di fibbie di brillanti, o per qualcosa altrettanto frivolo e inutile, essi scambiavano il mantenimento o, ciò che è lo stesso, il prezzo del mantenimento di mille uomini per un anno, e con esso tutto il peso e l’autorità ch’esso poteva conferire loro. .... e così, per la soddisfazione della più infantile, più meschina e più sordida delle vanità, essi gradualmente barattarono tutto il loro potere e la loro autorità158.

E’ giusto notare, ancora una volta, che Smith per tali considerazioni storiche

ricorre alla History di Hume, citata più volte. Poco più oltre Smith trae le

conclusioni di quanto descritto osservando che:

“In questo modo è stata realizzata una rivoluzione della massima importanza per la felicità pubblica, ad opera di due diverse classi di persone che non avevano affatto l’intenzione di servire la cosa pubblica. L’unico movente dei grandi proprietari terrieri era quello di soddisfare la vanità più infantile. Commercianti e artigiani, molto meno ridicoli, agirono puramente con la mira del proprio interesse perseguendo il loro principio venale di far soldi ovunque si potessero fare. Né gli uni né gli altri compresero né previdero la grande rivoluzione che la stoltezza degli uni e l’industria degli altri stavano gradualmente realizzando159.

Il cambiamento nella fisionomia del potere politico, che si ha nel passaggio

del potere dai proprietari fondiari ai borghesi pressoché in tutta Europa, fu

propiziato dalla naturale alleanza delle città con i sovrani, che fecero

concessioni importanti agli abitanti delle città per indebolire i loro concorrenti

più diretti: i signori feudali. Ad una classe scialacquatrice e dissipatrice di

ricchezza si sostituì, dunque, una categoria di uomini che facevano della

parsimonia e della prudenza le loro virtù cardinali.

158 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 541-42.159 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 545.

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Dovrebbe essere chiaro che tutto lo sviluppo osservato non deriva

dalle intenzioni consapevoli degli individui, ma dal processo degli esiti sociali

non intenzionali. A tale processo che la metafora della “mano invisibile”

esprime, si deve dunque, non solo, il passaggio dall’età feudale a quella

capitalistica e la conseguente affermazione del prudent man sul landlord

come tipo sociale caratteristico, ma anche un maggiore bene pubblico, a

cominciare dal bene economico. La ricchezza pubblica, che per Smith

consiste nel “prodotto annuale della terra e del lavoro della società”, infatti,

dipende esclusivamente dalla prudente attività dei singoli volta al

perseguimento dell’obbiettivo privato di migliorare la propria condizione

attraverso il profitto. Il bene pubblico, in altre parole, non deriva

dall’orientamento dell’agire individuale ad un obbiettivo comune, ma è la

conseguenza non intenzionale dell’agire che gli individui dirigono al proprio

interesse all’interno di un contesto regolato da norme generali di giustizia.

La conseguenza di tale impostazione è che ogni sistema di economia

politica che cerchi o con incentivi straordinari di attrarre verso un particolare

tipo di attività una parte del capitale della società maggiore di quella che

naturalmente vi andrebbe, o con restrizioni straordinarie di deviare

coercitivamente da un particolare tipo di attività una parte del capitale che

diversamente vi sarebbe impiegata (fisiocrazia e mercantilismo), è in realtà

controproducente rispetto al grande scopo che intende promuovere. Esso

ritarda, invece di accelerare, il progresso della società verso la ricchezza

reale e la grandezza e diminuisce, anziché aumentare, il valore reale del

prodotto annuale della terra e del lavoro. Scartati così completamente tutti i

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sistemi preferenziali o limitativi, si stabilisce spontaneamente l’ovvio e

semplice sistema della libertà naturale160.

Sembra necessario, prima di procedere, soffermarsi sulla scelta

smithiana di un sistema cosiddetto di “perfetta libertà naturale”. La morale

smithiana si sviluppa in seno alla tensione dialettica fra attore e spettatore

ed in essa la virtù non esiste per sé stessa, come un qualche determinato

valore, ma come desiderio di meritare ed essere degni di approvazione. Il

bene si realizza, dunque, nel superamento mai compiutamente realizzato

della distanza che separa chi agisce dall’approvazione dello “spettatore

imparziale”, rappresentante ideale della medietà sociale161: la moralità si

attua, dunque, come socialità. Ben si comprende, allora, come la libertà

diventi condizione imprescindibile per la realizzazione piena di tale socialità.

Se sul piano morale, infatti, ogni individuo deve poter essere in grado di

impegnarsi nella ricerca della virtù, sul piano dell’agire economico ogni

individuo deve poter essere libero di impiegare ciò di cui dispone nel modo

che più ritiene opportuno162. Il “sistema di libertà naturale” si connette,

dunque, all’idea di un “corso naturale delle cose” che si identifica con il

concetto di libera concorrenza delle forze di mercato che, se non ostacolate,

tendono a far coincidere i prezzi con i valori naturali163.

160 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, pp. 851-52.161 Cfr. per questo, A. ZANINI, Genesi imperfetta. Il governo delle passioni in Adam Smith, Giappichelli, Torino 1995, pp. 123 ss.162 Secondo J. Cropsey Smith, sostituendo il desiderio di migliorare la propria condizione alla paura di una morte violenta, trasformò in senso liberale e commerciale il sistema hobbesiano, in Polity and economy. An interpretation of the principles of Adam Smith, Nijhoff, The Hague 1957, p. 72.163 Cfr. E. PESCIARELLI, La jurisprudence economica di Adam Smith, Giappichelli, Torino 1988, pp. 167-68.

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Tale concezione è una diretta conseguenza dell’anti-razionalismo

smithiano che ritiene evidente come “ognuno, nella sua condizione locale,

può giudicare molto meglio di qualsiasi uomo di stato o legislatore quale sia

la specie di industria interna che il suo capitale può impiegare e il cui

prodotto avrà probabilmente il massimo valore”164.

Tali considerazioni sulla “libertà naturale”, però, non possono far dimenticare

quanto precedentemente affermato e, cioè, che gli interessi “delle due

categorie di persone che comunemente impiegano i maggiori capitali e che

per la loro ricchezza attraggono la maggior considerazione pubblica”165, i

mercanti e i possessori di capitali, non hanno la stessa relazione con

l’interesse generale della società, di quelli delle classi dei proprietari fondiari

e dei lavoratori. Obbiettivo del mercante è sempre quello di ampliare il

mercato e ridurre la concorrenza, così da mantenere il saggio di profitto, che

risulterebbe dalla libera competizione commerciale, al di sopra del livello

“naturale”. Inoltre, mercanti e possessori di capitali hanno una conoscenza

del proprio interesse superiore a quella delle altre due categorie ed è grazie

a questo che “essi frequentemente hanno approfittato della generosità del

proprietario terriero persuadendolo a rinunciare sia al proprio interesse che a

quello del pubblico, coincidenti nel suo caso, in base alla semplicissima ma

onesta convinzione che il loro interesse e non il suo fosse l’interesse

pubblico”166.

164 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 584.165 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 375.166 In A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 375.

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Ciò dovrebbe bastare a scoraggiare tutti quegli interpreti che hanno

considerato la concezione circa l’agire della “mano invisibile” in un “sistema

di libertà naturale” come propedeutica ad una visione idilliaca ed ottimistica

del progresso. Il nodo centrale per comprendere i limiti alle possibilità della

“mano invisibile” risiede nella comprensione degli ostacoli oggettivi che

impediscono la realizzazione di un “sistema di perfetta libertà naturale”, cioè

proprio di quel sistema all’interno del quale essa dovrebbe produrre i suoi

più benefici effetti. Esistono, infatti, interessi strutturalmente contrari alla

libertà naturale, promossi da gruppi di pressione, fazioni, pregiudizi del

pubblico, che pongono in primo piano la necessità del ruolo del

“legislatore”167. La figura del “legislatore” si delinea nel contrasto con quella

del politico ordinario: mentre il primo delibera e governa secondo principi

generali che sono sempre gli stessi, l’altro, astuto e calcolatore, decide

secondo le convenienze del momento. La consapevolezza dei principi

generali delle leggi e del governo orienta, dunque, il legislatore all’attuazione

del più generale tra essi, il principio che ha il primato della “negatività”:

quello di giustizia168. Il carattere “negativo” degli interventi del sovrano si

chiarisce in relazione ai suoi compiti istituzionali che sono: la difesa dai

nemici esterni della nazione, l’esatta amministrazione della giustizia e il

dovere di creare e mantenere certe opere pubbliche che non possono

essere sostenute dall’interesse di un individuo o di un piccolo numero di

167 Per una sintesi sul “whiggerismo scettico” o “scientifico” di Smith, cfr. D. FORBES, Sceptical whiggism, commerce and liberty, in Essays on Adam Smith, Oxford Univ. Press, 1975, pp. 179-201.168 Cfr. K. HAAKONSSEN, The science of a legislator. The natural jurisprudence of David Hume and Adam Smith, Cambridge Univ. Press, 1981, p.97.

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individui. “Negative”, dunque, sono le norme generali di giustizia come

“negativi” sono i principi generali del governo, infatti:

“Il sovrano è completamente dispensato da un dovere nell’adempimento del quale è sempre esposto a innumerevoli delusioni e per il giusto adempimento del quale nessuna saggezza o conoscenza umana può mai essere sufficiente: il dovere di sovrintendere all’attività dei privati, e di dirigerla verso le occupazioni più idonee all’interesse della società”169.

Il sistema “semplice e ovvio” di libertà naturale, individuato da Smith

quale causa della ricchezza delle nazioni, esige, dunque, una politica forte e

indipendente dagli interessi mercantili dominanti, animati da “spirito di

monopolio”. Soprattutto questo sembra essere l’obbiettivo polemico della

riflessione smithiana, lo spirito di monopolio proprio dei “padroni dell’umanità

che amano raccogliere là dove non hanno seminato” ed impediscono,

complottando con quell’”insidioso e astuto animale volgarmente chiamato

uomo di stato o politico”, che la diffusione della libertà riduca i loro profitti e

accresca il benessere generale degli uomini.

E’ necessario considerare, prima di concludere, alcune implicazioni di

carattere morale che si delineano soprattutto in relazione alla questione della

divisione del lavoro. A tale argomento sono dedicati i primi tre capitoli del

libro primo della Ricchezza delle nazioni, che sono determinanti per la

comprensione dell’opera intera, se è vero che nessuno, né prima né dopo

Smith, ha mai pensato di attribuirle tanta importanza170. La divisione del

lavoro, infatti, sembra essere la sola causa del progresso economico. Essa

spiega la maggiore ricchezza di cui dispone anche il membro più umile della

società civile nei confronti di un principe selvaggio, spiega il progresso

169 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni, a cura di A. e T. BAGIOTTI, UTET, Torino 1975, p. 852.170 Cfr. J. A. SCHUMPETER, Storia dell’analisi economica, edizione ridotta a cura di C. NAPOLEONI, Boringhieri, Torino 1972, p. 109.

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tecnologico e l’invenzione di tutte le macchine. Inoltre, poiché essa dipende

dall’estensione dei mercati e si sviluppa come una forza completamente

impersonale, rende impersonale il progresso stesso:

“Questa divisione del lavoro, dalla quale derivano tanti vantaggi, non è all’origine, un effetto della saggezza umana che prevede e mira a quel generale benessere cui pi dà luogo. E’ la necessaria, per quanto lenta e graduale, conseguenza di un certo principio o inclinazione della natura umana, che non si propone un così grande risultato. E’ questa inclinazione, comune a tutti gli uomini, e non so trova invece in nessun’altra specie di animali: la tendenza a trafficare, a barattare, a cambiare una cosa con l’altra171.

Ciò che descrive Smith nelle sue opere, non solo nella Ricchezza delle

nazioni, è, dunque, il passaggio dal villaggio chiuso della piccola comunità a

ciò che più volte nella Teoria dei sentimenti morali egli definisce la “Grande

società”. Nel villaggio chiuso, dove la divisione del lavoro non è molto spinta,

tutti si conoscono e, ciò che più conta, ognuno conosce i bisogni dell’altro, il

contadino lavora per il fabbro e il fabbro per il contadino. La rottura di un

mondo cosiffatto imposta dal mercato, una rottura senza responsabili, oltre

ad avviare dibattiti sul “giusto prezzo” o sul “prezzo di libera concorrenza”,

costrinse Smith, ma anche moralisti a lui precedenti come Mandeville e

Hume, a rivedere convinzioni etiche dominanti e a dissipare radicati

convincimenti. A Smith dobbiamo l’idea che lo scambio commerciale non è

un gioco a somma zero, in cui il guadagno di uno comporta la perdita di un

altro, ma è un’occasione di guadagno per l’uno e per l’altro, e l’idea che in

una società ricca e commerciale il lavoro diventa caro e allo stesso tempo le

merci si vendono a buon mercato, e anche che non abbiamo nulla da

guadagnare dalla povertà dei nostri vicini, perché la loro ricchezza è anche

la nostra. Ma Smith si rese anche conto che se nelle società chiuse gli

171 A. SMITH, La ricchezza delle nazioni. Abbozzo, a cura di V. PARLATO, SE, Milano 1990, pp. 30-31.

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uomini sono affidati gli uni alla benevolenza degli altri, nella “Grande

società”, quando si dedicano al commercio, gli uomini si rivolgono piuttosto

al naturale egoismo di ognuno e non parlano mai delle proprie necessità ma

dei vantaggi altrui. Il paradosso che egli rileva è che anche chi, come il

mendicante, si affida alla benevolenza degli altri, in realtà non dipende

interamente da essa per la propria sopravvivenza. L’altruismo è efficace solo

in un piccolo ambito, secondo una gerarchia di affetti che la natura ha

provveduto ad organizzare, mentre nella società della proprietà privata,

dell’accumulazione dei capitali, di una estesissima e complicata divisione del

lavoro, gli obblighi di solidarietà tra persone legate fra loro solo

indirettamente e, nella maggior parte dei casi, senza che esse stesse lo

sappiano, non possono essere interamente assolti dalla benevolenza172. La

convinzione smithiana è, allora, che il bene pubblico può essere promosso,

con maggior profitto, attraverso le direttive della prudenza. Qui si giustifica

l’esaltazione smithiana del prudent man, l’uomo che cerca sempre di capire

seriamente e onestamente ciò che dice di capire, che è sempre sincero, che,

sebbene non sempre si distingua per spiccata sensibilità, è sempre capace

di vera amicizia, insomma, l’uomo che:

“Nell’assiduità della sua laboriosità e della sua frugalità, nel suo sacrificare assiduamente la comodità e il piacere del momento presente per aspettare un piacere e una comodità ancor più grandi e più durevoli in futuro, è sempre sostenuto e ricompensato dalla piena approvazione dello spettatore imparziale e dall’uomo interiore, che dello spettatore imparziale è il rappresentante”173.

L’uomo idealizzato da Smith, l’uomo della “Grande società”, alla gloria delle

nobili azioni e dei grandi slanci romantici preferisce la prudenza che

172 Il punto, quindi, non è che “ Economia ed etica, in questa società, non si combinano” (cfr. L. COLLETTI, Ideologia e società, Laterza, Bari 1969, p. 291), ma che il mercato ha imposto all’etica la propria disciplina razionale.173 A. SMITH, Teoria dei sentimenti morali, a cura di E. LECALDANO, Rizzoli, 1995, p. 429.

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consiglia di non caricarsi di responsabilità non rientranti nei propri doveri e

non sostenibili.

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In queste pagine si è cercato di proporre una lettura unitaria del

pensiero smithiano, troppo spesso preclusa ai suoi interpreti per la parzialità

del punto di vista che essi hanno adottato, o per il limitato interesse,

economico o morale, che ne ha animato la considerazione.

Si è visto che, nonostante si sia occupato nel corso della sua vita di

argomenti e temi di indagine tanto diversi, Smith non ha mai abbandonato la

concezione secondo cui le istituzioni sociali non sono il portato di singole

volontà, ma il risultato spontaneo e non consapevole della cooperazione fra

innumerevoli individui. Infatti, per quanto privata sia la condotta degli uomini,

essa non può sottrarsi al vincolo sociale che li unisce: la loro impossibilità di

far fronte, in modo autonomo, ai propri bisogni e la loro capacità di dare

forma giuridica ai rapporti di dipendenza che li legano, si traducono nella

realizzazione effettiva di un contesto sociale. La mutua dipendenza, che lega

naturalmente gli uomini fra loro, fa sì che nessuno possa raggiungere i propri

obbiettivi e realizzare i propri progetti senza la mediazione degli altri. In tal

modo non è possibile perseguire fini individuali senza che

contemporaneamente si perseguano fini pubblici e sociali: le azioni umane

raggiungono, infatti, risultati più ampi di quelli che effettivamente desiderano

raggiungere.

Se questo è l’ordine che governa l’agire umano, se questa è la legge

che tiene uniti in società gli uomini, e fa sì che la ricerca degli interessi

personali produca il bene pubblico, allora la meraviglia che un tale effetto

suscita non può essere superata facendo ricorso ad un’immagine che

rappresenti tale ordine come provocato artificialmente e dall’esterno, come

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un intervento risolutore provocato dalla “mano invisibile” di un dio pagano

(Giove) che interviene per modificare il corso naturale delle cose. La

meraviglia può essere vinta, e divenire così ammirazione, solo ricorrendo ad

un’immagine che sia simbolo di quello stesso ordine e di quello stesso corso

naturale: la “mano invisibile” che è la Provvidenza del “Grande artefice della

natura”, ordine impresso in ogni cosa.

La distanza che separa le due immagini è abissale: mentre, infatti, la

prima è un prodotto della mentalità primitiva e deriva da un atteggiamento

animistico nei confronti della natura, la seconda è un prodotto della mentalità

scientifica che cerca le catene nascoste dei fenomeni e sa che, dove si

manifesta irregolarità, si è solo in presenza del limite della capacità umana di

comprensione. Così, la “scienza sociale” smithiana vede che, anche se

sembra un fenomeno irregolare che i possessori di capitali contribuiscano ad

incrementare il benessere collettivo impiegando i capitali di cui dispongono

per il proprio profitto privato, l’apparente irregolarità può essere spiegata dal

principio dell’eterogenesi dei fini, che la metafora della “mano invisibile”

rappresenta. L’agire umano, infatti, può conseguire fini più ampi di quelli che

intenzionalmente persegue, grazie anche alla naturale cecità (deception)

degli uomini rispetto ai reali obbiettivi del loro agire.

Il meccanismo dei risultati non intenzionali, come è stato osservato,

viene esteso da Smith, anche senza esplicito riferimento alla “mano

invisibile”, a tutti i fenomeni complessi derivanti dall’attività ma non dalla

progettualità umana. In tal modo il discorso scientifico, espressione con cui è

da intendersi tanto la scienza quanto la filosofia, è l’effetto non intenzionale

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della propensione umana a risolvere i problemi e le difficoltà della vita: la

volontà di filosofi e scienziati è solo quella di placare la propria

immaginazione e superare lo stato di incertezza che deriva dall’incontro con

fenomeni inaspettati e non abituali. Così facendo, però, essi promuovono un

fine non direttamente perseguito, cioè l’incremento del sapere.

Analogamente avviene per ciò che riguarda il linguaggio. Anch’esso, infatti, è

una creazione sociale, e la sua origine, come per tutte le istituzioni umane,

non può essere fatta risalire ad alcun disegno prestabilito, né ad alcuna

singola decisione, ma ad un’infinità di relazioni fra singoli. La ricostruzione,

proposta da Smith, dell’origine del linguaggio e delle sue regole è

manifestamente evolutiva: il linguaggio evolve da forme semplici a forme

complesse ed elaborate che migliorano le possibilità della comunicazione,

attraverso la stratificazione degli sforzi dei singoli parlanti che cooperano alla

comprensione reciproca. Anche le lingue, dunque, non si definiscono in

rapporto ad una razionalità sistematica, ma in relazione alle capacità di ogni

singolo parlante di ovviare alle loro ambiguità.

Sul piano della riflessione morale si è seguito l’emergere di tali

concezioni a proposito dell’analisi riguardante la valutazione di sé stessi e

delle proprie azioni come risultato ultimo e non voluto della eterovalutazione;

la coscienza nella Teoria dei sentimenti morali si configura come un prodotto

sociale non intenzionale del processo simpatetico. Del resto le stesse regole

della moralità si formano insensibilmente tramite il giudizio e l’osservazione

del comportamento altrui. E’ a tali regole che si deve la nascita di quel

“senso del dovere” che dirige la maggior parte degli uomini nelle loro azioni;

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in altre parole il “senso del dovere” è un effetto non intenzionale della

costituzione delle norme morali e di diritto e, dunque, nelle visione smithiana,

le nozioni morali seguono, non precedono, l’esperienza morale. L’errore del

razionalismo, più volte sottolineato da parte di Smith, è proprio quello di

pensare che le determinazioni morali precedano l’esperienza e stiano a

fondamento delle norme.

E’ stato possibile seguire questo discorso soprattutto a proposito della

concezione smithiana della giustizia. La capacità di determinare e

distinguere “giusto” e “ingiusto”, infatti, non è di pertinenza della ragione,

bensì della passione asociale del risentimento. Il risentimento garantisce il

rispetto della giustizia ponendosi come un freno nei confronti delle offese; la

giustizia è, dunque, una virtù “negativa” la cui realizzazione è possibile solo

come superamento dell’ingiustizia. Le istituzioni morali e sociali, che

presiedono al mantenimento della giustizia, sono la realizzazione

inconsapevole della cooperazione di innumerevoli individui che definiscono

“giusto” e “ingiusto” attraverso il processo di valutazione simpatetica animato

dal risentimento. A ciò segue che l’ordine della società è garantito non dove

esso è posto come obbiettivo diretto da conseguire attraverso un piano

razionale, ma dal risentimento di ogni uomo nei confronti dell’ingiustizia e dal

senso del demerito che richiama la necessità della punizione.

L’antirazionalismo smithiano, di cui l’eterogenesi dei fini e la “mano

invisibile” sono espressione, si manifesta prepotentemente nel principio

dell’economia della natura: l’”Autore della natura” non ha affidato alle limitate

capacità razionali umane il compito di scoprire che il mezzo più adatto, per

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realizzare una società giusta, consiste in una certa applicazione delle pene,

ma ha dotato gli uomini dell’istinto di approvare l’applicazione più adatta a

promuoverla. Riguardo ai fini che la natura privilegia, essa non solo ha

dotato il genere umano del desiderio di realizzarli, ma lo ha dotato anche del

desiderio di servirsi dei mezzi utili a realizzarlo: è la fame che ci spinge a

nutrirci, non la considerazione razionale della necessità di mangiare per

sopravvivere.

Sono gli istinti, le passioni e i sentimenti umani, mediati dalla simpatia,

a dar vita inconsapevolmente, cioè in virtù del principio delle conseguenze

non intenzionali, alle istituzioni morali giuridiche ed economiche: è per tale

motivo che esse, nonostante siano espressione del mondo umano e,

dunque, storico, sono definite come “naturali”.

Si è sottolineato, nelle pagine precedenti, che una tale “naturalità”

delle istituzioni umane porta Smith a considerare la società come un

meccanismo ben congegnato: come gli ingranaggi di un orologio sono tutti

regolati per il fine per cui è stato costruito, cioè segnare le ore, così gli

uomini sono naturalmente dotati dei mezzi necessari alla prosperità sociale.

Anzi, se gli ingranaggi dell’orologio fossero stati forniti del desiderio di

segnare l’ora, non sarebbero per questo riusciti meglio nel loro intento, così

come gli individui non contribuirebbero maggiormente alla prosperità sociale

se mirassero ad essa direttamente. Ed è un bene che gli uomini conoscano

solo una piccola parte dei fini che le loro azioni contribuiscono a

promuovere: in tal modo, infatti, la natura, illudendoli sulla felicità derivante

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dalle ricchezze e dagli onori, nonché dalla conoscenza, favorisce

l’industriosità umana e la prosperità che ne deriva per l’umanità intera.

Si è analizzato, poi, il fondamento dell’autorità che, in linea con

l’impostazione generale seguita, Smith non individua in alcuna volontà

intenzionale né singola né collettiva, bensì nella disposizione degli uomini a

condividere tutte le passioni dei ricchi e dei potenti e altresì di coloro che

appartengono a famiglie di lunga tradizione o di coloro che semplicemente si

distinguono per superiori capacità fisiche o intellettuali. Allo stesso modo,

l’origine del governo viene ricondotta nell’ambito della concezione evolutiva

delle istituzioni sociali: l’assetto delle istituzioni civili rappresenta

l’espressione politica della soluzione, che la società ha elaborato, al

problema della scarsità. Così, differenti modi di sussistenza esprimono

diversi assetti politico-istituzionali.

La teoria dei quattro stadi di sviluppo della società rende conto dei

meccanismi involontari operanti anche sul piano delle strutture giuridiche; il

passaggio da modi di sussistenza più o meno semplici, come quelli basati

sulla caccia, ad altri più articolati e complessi, come quelli fondati sulla

pastorizia, avviene grazie alla cooperazione degli uomini, attraverso la

divisione del lavoro, che risolve i problemi generati dall’incremento

demografico e dalla conseguente scarsità dei beni di consumo.

La teoria economica di Smith emerge, infine, come si è rilevato, dagli

stessi presupposti: l’introduzione graduale dell’ordine e del buon governo

nelle campagne, che si instaurò sulle ceneri del regime feudale, fu dovuta

principalmente al commercio e alle manifatture; il cambiamento nella

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fisionomia del potere politico che ne seguì, segnò l’affermazione del prudent

man sul landlord. Poche concessioni e franchigie da parte dei sovrani

d’Europa nei confronti delle città, loro naturali alleate contro i signori feudali,

furono sufficienti a produrre un tale cambiamento.

Il libero gioco degli interessi individuali, in un contesto sociale regolato da

norme generali di giustizia, si impone, dunque, senza intenzione, come il

vero promotore del benessere pubblico. Il “sistema di libertà naturale”,

sostenuto e garantito dal “legislatore”, non da uno stato “guardiano

notturno”, fa sì che la concorrenza fra i possessori di capitale riduca i profitti

a tutto vantaggio dei lavoratori salariati, che sono la maggioranza e, dunque,

favorisce la maggiore utilità del maggior numero.

E’ lecito pensare che il successo della dottrina della “mano invisibile”

sia dovuto ai bisogni psicologici di una certa generazione di inglesi che visse

in contrasto con i precetti morali su cui era stata educata. Si può anche

considerare l’idea, secondo cui la felicità pubblica viene servita al meglio se

ognuno persegue i propri vantaggi privati, come una risposta al bisogno di

attenuare il senso di colpa sperimentato da “borghesi vittoriosi”, per troppo

tempo esposti ad un codice morale non borghese174. In tal modo, però, ci si

preclude l’opportunità di comprendere appieno il contributo di Adam Smith

alle “scienze sociali”.

174 Cfr. A. O. HIRSCHMANN, Felicità privata e felicità pubblica, Il Mulino, Bologna 1983, p. 139.

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