La memoria nascosta

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Marcello Di Fazio, fanta-noir. Luca è un pittore e Marco uno scultore e intagliatore che realizza soprattutto orologi a cucù. Sono molto amici e lavorano insieme da qualche anno nella loro piccola bottega, ma la crisi non risparmia nemmeno loro. In difficoltà economiche, con il padrone dei locali della bottega che reclama l’affitto arretrato, accettano una singolare proposta di affari arrivata dalla Repubblica Ceca a firma di tale Albert Novak, che dice di essere interessato ai due orologi a cucù che ha visto sul sito dei due ragazzi. Non potendosi spostare per ragioni di salute, Novak propone loro di assumersi tutte le spese necessarie al viaggio di Luca e Marco, in modo che siano loro a raggiungerlo a Praga con la merce a cui è interessato. Luca e Marco accettano. Da quel momento, sullo sfondo della meravigliosa villa di Novak e del cimitero situato nel ghetto ebraico di Praga, per i due ragazzi avrà inizio un’avventura densa di mistero, che cambierà per sempre le loro vite.

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In uscita il 29/7/2014 (14,00 euro)

Versione ebook in uscita tra fine agosto e inizio settembre 2014 (3,99 euro)

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MARCELLO DI FAZIO

LA MEMORIA NASCOSTA  

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LA MEMORIA NASCOSTA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-754-4 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Luglio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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L’ESTRANEO

Correndo, passai spensierato per la valle giovane, tra le sorgenti chiare, che ingrassano i fiumi. Il vigneto colse i morsi ghiotti, le risate innocenti e i silenzi liberi da parole. Correndo, oltre gl’eremi varcai leggero, i cieli della solitudine. Nelle nebbie dell’ideale, mi cibai del dovere e rimesso nel freddo, fu ramingo il pensiero. Ora, invece, mi rincorro in una città pazza dove, sbalzato di viale in viale tra speranze perdute, neppure il vecchio lampione ultimo dei saggi, basta più a farmi luce.

Questi sono versi del mio caro amico poeta Andrea Esposito. Lui sì, lampione saggio, di luce ne ha fatta sulle pagine opache del mio libro. Grazie per tutto.

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A mia moglie, memoria mia passata,

presente e futura…

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PREFAZIONE “Mi piace addormentarmi e svegliarmi con il rumore del mare. Possono essere schiaffi o carezze, ma l’acqua che s’infrange sul-la spiaggia è un suono che ormai è parte di me.” In questo inizio c’è tutto lo stile e la sensibilità di Marcello Di Fazio. Una frase così semplice e diretta da catapultarti, in un attimo, dritto al noc-ciolo della questione: Che rapporto abbiamo con la nostra esi-stenza? Non parlo di “vita” ma di quella estensione del concetto di vivere, che viene definito come “esistere”. Non solo un arco biologico di tempo, in cui occupiamo uno spazio, bensì, l’entità di questo spazio e la qualità di tale tempo. Questo è il fulcro at-torno a cui ruotano i diversi intrecci che compongono la trama de La memoria nascosta. Questo, il coraggioso slancio di un scrittore che vuole essere tutto tranne che un artista, artigiano semmai, della letteratura. Inutile dire, che si tratta di un’opera autobiografica. Sono chiari in tutto il romanzo, i riferimenti a e-sperienze dirette dell‘autore. Ma chi non mette qualcosa di suo quando racconta una storia? La domanda infatti è un’altra: quanti metterebbero se stessi su carta stampata? Quando, poco più di un anno fa, ho ricevuto la telefonata di Di Fazio, stentavo a crederci; non tanto perché l’argomento era la letteratura, ha divorato romanzi, poesie e racconti fin da ragazzo con fare can-nibalistico. La sorpresa riguardava la sua proposta: “Ho una storia da cui vorrei tirar fuori un romanzo... ci stai?”. Semplice e diretto, proprio nel suo stile. Così come inizia La memoria nasco-sta è iniziata la sua stesura. Capirete bene la mia sorpresa! Già è difficile pensare che qualcuno dedichi ancora del tempo alla let-teratura, la crisi dell’editoria ne è una prova, è però oltremodo più difficile credere, che questo qualcuno lo faccia con serietà e

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responsabilità. Proprio così, perché questo non è mica un gioco! E’ una cosa estremamente seria, la letteratura, anche quando viene fatta solo per passione. Perché con le parole è sempre me-glio scherzare poco. Così, pochi giorni dopo, quello che mi pre-sentò Di Fazio non era solo una bellissima storia, che raccontava i sogni, gli amori e le speranze dei due giovani protagonisti, ma una vera e propria “perla” di piccola letteratura. Un racconto che narrava soprattutto di vita e lo faceva in maniera tanto pene-trante che, come sempre accade in tali situazioni, non si limitava alla sola narrazione di eventi. Bensì, si spostava oltre, guardando alle inquietudini del vivere, sondando le debolezze e le paure di ognuno per ritrovare poi, nelle “memoria nascosta”, la certezza di poter far parte di questo scorcio di esistenza. In ciò sta la vera essenza di questo piccolo capolavoro della passione. E’ questa la sottile umanità di cui è pervaso tutto il romanzo. Perché Di Fa-zio, oltre a essere uno scrittore con una tecnica e una poetica in-credibilmente efficaci, è anche un uomo di grande spessore mo-rale e, soprattutto, è un bravissimo “racconta storie” degno della migliore tradizione orale, caratteristica questa che arricchisce la narrazione pagina dopo pagina, con la schiettezza della verità celata tra le righe: non siamo solo spettatori del passato, attori del presente o registi del futuro, bensì, siamo chiamati a ricoprire tutti e tre questi ruoli contemporaneamente. Ed è solo attraverso la “memoria nascosta” e cioè, il retaggio genetico, storico e cul-turale, che riusciamo a proiettare la nostra vita, la realtà che ci circonda, verso fantomatici “viaggi nel tempo” di cui tutta l’arte è pervasa e che la scienza tenta da secoli di rendere possibili. Del resto, come diceva lo stesso Di Fazio nell’introduzione al racconto: “Viviamo il presente e giustamente siamo proiettati nel futuro, ma tutto diventerà memoria... Questa è una storia incre-dibile, Un piccolo viaggio del tempo, ambientata nell’unico posto che al momento conosco e dove immagino di poter riabbracciare qualcuno... la Terra.”

Andrea Esposito

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PROLOGO Mi piace addormentarmi e svegliarmi con il rumore del mare. Possono essere schiaffi o carezze ma l’acqua che s’infrange sulla spiaggia è un suono che ormai è parte di me. Sono andato via di casa abbastanza presto. Non è che stessi male, ma ho sempre avuto bisogno dei miei spazi e della mia autonomi-a. Così un giorno mi sono detto: “Preferisco andare a trovarli i miei genitori”. Mi vedevo troppo cresciuto per occupare lo stesso nido. La storia che voglio raccontare parla del mio migliore amico: Marco. Io sono Luca e porto il cognome della mia terra, Gargano: la sorte infatti ci ha lanciato come due dadi in un piccolo paese della Puglia settentrionale, per di più nello stesso anno. Così, tra i vicoli di questo piccolo paese, rumoroso d’estate e silenzioso d’inverno, si è consolidata la nostra amicizia. Marco è un tipo fuori dal comune, lo è sempre stato fin da ragaz-zo. Non è che lo fa di proposito, è originale per natura e non per scelta. In genere uno tende ad appiattirsi o meglio a seguire la massa, è più sicuro. Lui proprio non ci riesce. Dà la sensazione di essere sempre fuori moda e fuori tempo. Per fare un esempio, se a scuola tutti avevano un “Sietto” della Piaggio, lui aveva un vec-chio Benelli, trovato chissà come e chissà dove. Il nostro rapporto è iniziato alla scuola d’arte. Me lo ricordo come fosse ieri, seduto all’ultimo banco, da solo, sempre indaffarato a fare disegni. Se ne stava lì, taciturno e timido, con la sua folta ca-pigliatura e quello sguardo fisso fuori dalla finestra. I professori ogni tanto gli urlavano addosso la loro frustrazione: «Scansato! Il signor Marco Scasato è tra noi?» Lui riprendeva possesso del suo

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corpo sobbalzando. Una mattina, entro in classe e provo a dirgli qualcosa, allora lui inizia ad arrotolarsi i ricci, io rimango a guar-darlo per un po’ senza avere risposta, poi, non riesco più a tratte-nermi e scoppio a ridere. Da subito, mi ha dato la sensazione di un tipo inquieto per chissà che cosa. Si percepiva la sua agitazio-ne anche se si parlava dei risultati calcistici della domenica. Mi incuriosiva, volevo conoscerlo meglio. Dopo qualche mese, non ricordo come, me lo sono ritrovato compagno di banco. Così, giorno dopo giorno, siamo diventati grandi amici e da allora i no-stri dadi hanno preso a rotolare insieme praticamente sempre. Oggi Marco è un formidabile artigiano del legno. Non lo dico perché è mio amico, ma perché è la verità. La sua arte nella scul-tura è ampia, anche se ha una passione particolare per gli orologi a cucù. Sono eccezionali. Tutte realizzazioni originali e diverse tra loro. Si diverte a sperimentare orologi sempre nuovi. Alcuni raffigurano splendidi animali intagliati nel legno, altri ricostrui-scono delle scene di vita, altri ancora riportano le sagome di per-sonaggi della storia. Io invece dipingo, da sempre. Si potrebbe dire che sono nato con la matita in mano. Mia madre conserva ancora con cura i miei primi scarabocchi dell’asilo. La pittura è il mio modo di espri-mermi. Spesso quello che ho dentro difficilmente riesco a tirarlo fuori con le parole, mi rimane molto più facile metterlo su una te-la. Gli episodi che sto per raccontare ci hanno cambiato la vita. Certo è, che non potevamo saperlo in quella calda estate di due anni fa.

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CAPITOLO 1 Era qualche mese che non riuscivo a finire un quadro. Mi sentivo come il vecchio di Hemingway, ogni giorno pensavo fosse quello buono, ma il pesce non abboccava mai. Per me dipingere è come respirare. E da un po’ di tempo mi mancava il respiro. Finite le scuole superiori, io e Marco decidemmo di aprire un la-boratorio–bottega. Un po’ perché volevamo trasformare la pas-sione in un lavoro, un po’ perché non volevamo lasciare la nostra terra. Ci capitò una buona occasione, un'ex cantina, di quelle do-ve in passato veniva lavorato il vino. Poteva essere presa pagando un affitto non troppo elevato. Il locale, di proprietà di un certo si-gnor Tranquilli, era facilmente adattabile per quello che avevamo in testa: creare un’area dedicata all’esposizione delle opere e un retrobottega da utilizzare come laboratorio. All’inizio le cose andarono discretamente bene, non facevamo grandi affari, ma riuscivamo comunque a coprire bene i debiti e a tirarci fuori qualcosa per noi. Lentamente, iniziavano a conoscer-ci nei paesi limitrofi e l’idea di aprire un sito internet si rivelò ot-tima. Facemmo anche alcune mostre, superando a volte la diffi-denza di qualche temibile esperto d’arte. Poi iniziò il periodo dif-ficile. La crisi era come un macabro sipario che lentamente stava calando sul nostro spettacolo. Questa era la situazione e io non ero sereno. Ma tentavo comun-que di vedere il bicchiere mezzo pieno. Una sera di giugno di due anni fa, avevo appuntamento con Marco in uno dei nostri locali preferiti, il bar di Celestino. Durante l’estate sistemava dei tavoli-ni in un piccolo giardino situato nella parte posteriore del locale. Celestino: un patito di moto e un cultore dell’olio da tavola. La

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sua magrezza testimoniava bene il suo stile di vita, sempre a mil-le. Era un nostro carissimo amico. Possedeva diversi ulivi nella zona e compatibilmente con gli orari del suo locale si rintanava nel suo pezzo di terreno lontano dai rumori del paese. A fatica la-sciava la sua giacca di pelle nera, mi faceva strano vederlo senza, ma come la temperatura scendeva sotto i diciotto gradi eccola lì che spuntava come per magia. Mi ci voleva una bella birra fresca e un piatto di patatine fritte. Con Marco avevamo appuntamento dopo cena in una piazzetta poco lontana dal bar. In genere arrivava prima di me. Lo vedevo da lontano, con la sua inconfondibile testa riccioluta, mentre si guardava intorno con l’aria spaesata. Quando mi vide un ghigno gli spuntò sul viso. «Riuscirai un giorno a essere puntuale?» «Sei tu che sei in anticipo! Poi lo sappiamo che ti piace arrivare prima, almeno puoi sfottermi no?» «Sempre una scusa pronta, forza che ho la gola secca.» Aveva l’aria più triste del solito. Era seriamente preoccupato. Il signor Tranquilli con la sua bella aria panciuta attendeva l’affitto e per la prima volta eravamo in ritardo. Il buon proprietario, sem-pre con molta affabilità, aveva già iniziato a lamentarsi dicendo che era in difficoltà e non avrebbe potuto concederci molto tem-po. «Sapete ragazzi, non è un buon momento» diceva. «Ho anch’io i miei problemi e purtroppo non posso concedervi che qualche giorno. Proprio perché siete voi e proprio perché siete stati sem-pre precisi» continuava con questa sua falsa gentilezza. «Facciamo così, iniziamo a scalare l’importo del deposito, finito quello dovrete lasciare la cantina a meno che nel frattempo non regolarizziate la vostra posizione.» Queste le sue parole, pronun-ciate con estrema chiarezza e che non lasciavano scorgere alcun margine per una trattativa. Mentre raggiungevamo il bar, tra i colori e il caos che portano i turisti, Marco se la prendeva con la vita.

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«Ti sembra giusto? Non abbiamo possibilità, tra qualche mese ci ritroveremo a fare qualcosa che non ci piace, magari anche lonta-no da qui. Ci siamo avventurati in qualcosa di troppo grande, se non hai le spalle coperte sei destinato a fallire.» «Non essere così pessimista. Vedrai che troveremo il modo per risollevarci. Non dobbiamo scoraggiarci.» Me lo guardavo con tenerezza. Nel frattempo eravamo arrivati da Celestino. Il bar era quasi pie-no. Un’occhiata di saluto e un sorriso al titolare super impegnato e poi dritti verso uno dei tavolinetti ancora liberi. Appena seduti, Marco riprese la conversazione interrotta. «La verità, Luca, è che i nostri blocchi di partenza non sono col-locati tutti allo stesso modo. Qualcuno è molto più avanti rispetto agli altri e questo non va bene.» «Secondo me tu sbagli in un punto fondamentale. La pista non è la stessa. Ognuno di noi ha un suo percorso, quindi un proprio blocco di partenza e un proprio arrivo. I percorsi non possono es-sere sovrapposti.» Mi slacciai il primo bottone della camicia. «Se fosse così allora che senso avrebbe parlare di società? Le pi-ste devono essere sovrapposte per forza, non siamo eremiti, du-rante la corsa entriamo sempre in competizione con qualcuno e se quel qualcuno è stato favorito fin dall’inizio, la gara per me non è regolare» riprese mentre sorseggiava la sua chiara doppio malto. «Vedi amico mio, tu parli di competizione, ma la vita per me non è una gara. Se nella nostra società è fondamentale arrivare prima, non è detto che questa sia la visione giusta. Il percorso è la cosa importante e sono convinto che ogni percorso sia unico.» Nel frattempo il giardino si era riempito. Lui mi osservava senza dire nulla, così continuai. «Ti racconto una storia. Siamo in Europa occidentale e Laura è una bambina innamorata di suo padre. Ha tre anni. Il papà lavora in una pizzeria. Tutte le sere, quando torna dal lavoro sistema sul comodino della figlia un pezzo di pizza. Ogni sera il pezzo di pizza è di una forma diversa. L’ultima sera è a forma di cuore. La

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famiglia di Laura è molto unita, c’è armonia in tutte le cose che fanno e sono molto felici.» Marco mangiava freneticamente il suo piatto di patatine fritte guardandomi perplesso. «Samuel invece è un bimbo di tre anni, vive con la sua famiglia in un paese del centro Africa. Il papà, prima di ogni cosa la mat-tina deve andare a prendere l’acqua. Il pozzo più vicino è a quat-tro chilometri. E’ una bella famiglia, sono uniti anche se la vita è molto dura.» «Ne hai ancora per molto?» mi disse spazientito. «Lasciami finire. Una sera come tante il papà di Laura esce per andare a lavoro, è una bella serata e decide di andare in motorino. La mattina seguente Laura non troverà nessun pezzo di pizza. Quella stessa sera, Samuel esprime un desiderio mentre abbraccia il suo papà sotto un cielo particolarmente stellato. Come possono essere messi a confronto i due blocchi di partenza?» Rifletteva sulle mie parole mentre svuotava il suo bicchiere. «Con questo che vuoi dire, la durezza della vita non impatta sulla felicità? Il tuo è un esempio estremo, dico soltanto che qua non siamo in Africa e per molti la vita è difficile comunque.» La ca-meriera ci stava servendo un altro giro di birra. Tagliai corto. «Oggi sei più nero del solito, lasciamo perdere. Hai visto la e-mail di quel tizio di Praga? Ci vuole contattare la settimana pros-sima, magari è una buona occasione. Addirittura da Praga!» «Staremo a vedere di cosa si tratta. Dai, finiamo queste birre e andiamo, domani dobbiamo lavorare.» Mentre ci alzavamo, ecco spuntare tra i tavoli del giardino Cate-rina con una sua amica. Marco non riusciva a nascondere l’agitazione. Il suo sentimento per quella ragazza era forte e ogni volta che la vedeva sembrava come se stesse subendo un’anestesia dal dentista. Non riusciva proprio ad aprir bocca. Conoscevamo Caterina già da molti anni, è di un paio d’anni più piccola di noi. La prima volta che Marco rimase fulminato era-vamo a una festa. Non so chi, ma quando ce la presentarono era

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talmente agitato che con una mano avrebbe potuto fare un frulla-to. «Piacere, Caterina Meriamo, tu come hai detto che ti chiami?» «M… Marco Scansato, sì… piacere mio.» Una scena indimenticabile. Avanzava verso di noi, poi con il suo solito sorriso ci disse: «Ciao, state andando via? Possiamo prendere il vostro tavolo?» Se aspettavamo la risposta di Marco rischiavamo la chiusura del locale. Dopo averlo guardato per qualche istante risposi: «Prego, potete accomodarvi.» Scivolammo in obliquo fuori dal bar schivando le persone che si ammassavano tra il bancone e il corridoio. Una volta fuori, Marco mi guardò di traverso. «Per favore non dirmi nulla. Non capisco, quando me la trovo davanti non riesco a mettere due parole in fila.» Eccolo qua, curvo con le mani in tasca e la sua testa riccia che dondolava. Era una bella serata di fine giugno. Stavo bene con la mia camicia di lino bianca. Mi rinfrescava la pelle. Gli misi una mano sulla spalla, in quel momento forse era la cosa migliore da fare.

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CAPITOLO 2 Non avevo una ragazza. In passato solo storie brevi, ma non per scelta, era andata così. All’inizio pensavo di avere qualche pro-blema. Vedevo le mie relazioni che si chiudevano come fallimen-ti. Con il passare del tempo trovai un mio equilibrio. Ero molto meno critico, pensavo semplicemente che non avevo ancora tro-vato la persona giusta. La mattina successiva alla serata da Celestino, decidemmo con Marco di correre lungo la spiaggia. Capitava di andare prima di aprire bottega, a volte dopo. Non c’era una regola fissa, dipende-va dal nostro stato d’animo. La spiaggia era ancora deserta. Come al solito Marco mi aspettava all’ingresso di una passerella in le-gno che portava al mare. Mentre mi avvicinavo vedevo la sua fi-gura indaffarata a fare esercizi di riscaldamento. Mi fa ancora ri-dere. Quella testona riccia impegnata a rimanere in equilibrio mentre il corpo si adoperava in movimenti inusuali. La sua tuta rossa era inconfondibile, la mia era grigia. «Sei pronto? Oggi almeno quaranta minuti di fila!» mi sorrise. «Guarda che sei tu quello che muore d’affanno dopo un quarto d’ora!» «Tu non ti preoccupare, oggi mi sento in forma, vedrai.» Raggiungemmo il bagnasciuga e via di corsa. Il sole dalle nostre parti si sveglia sempre prima di noi. Nonostante fosse presto, già aveva scaldato l’aria. Avevamo appena iniziato a correre quando d’un tratto, mentre procedevamo con il nostro passo ancora regolare, vedemmo da-vanti a noi due figure femminili. Guardai Marco di traverso. «Adesso non mi collassare! Hai visto chi c’è?» Il mio amico riu-sciva a nascondere l’agitazione grazie allo sforzo, poi, tra un re-spiro e un altro mi disse:

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«Beh? Ogni tanto capita d’incontrarla no? Non è mica nostra e-sclusiva correre lungo la spiaggia.» «Per carità, e chi dice il contrario. Forza seguimi.» Non gli diedi il tempo di rispondere che accelerai un po’ il passo. Dopo pochi secondi raggiungemmo le ragazze. Mi misi sulla loro sinistra, Marco sulla destra vicino a Caterina. «Buongiorno! Non male la vostra andatura. Quasi non riuscivamo a raggiungervi.» Non eravamo proprio amici, ma avevamo quel grado di confiden-za che ci permetteva di rivolgere loro la parola. L’amica di Cate-rina, Carla, rispose: «Ormai siamo allenate, quest’anno ci siamo messe d’impegno!» Prese fiato. «Ci aiuta anche con lo studio, è un bel modo di iniziare la giorna-ta.» Carla e Caterina studiavano Medicina e con gli esami erano a buon punto. Il loro percorso universitario andava a gonfie vele. «Sono d’accordo. Per molti aspetti è positivo fare dello sport prima di iniziare la giornata. Vi dispiace se per un po’ corriamo insieme?» chiesi loro senza tanti giri di parole. Marco guardava fisso davanti a sé, non credo si fosse accorto che si era spinto troppo verso il mare e qualche onda gli stava ormai bagnando le scarpe. «Nessun problema, ma il fiato non è molto, quindi non sappiamo quanto possiamo essere di compagnia!» Caterina prese un bel re-spiro portando le braccia in fuori all’altezza del petto. Per fortuna la tuta di Marco era rossa così riusciva a confondere un po’ il colore del viso. Chissà cosa provava in quel momento. Era proprio una bella giornata. Non scambiammo molte parole, ma avevamo la scusa del fiatone. Dopo qualche minuto Carla e Caterina si fermarono. Ci venne naturale farlo con loro. Iniziam-mo a fare degli esercizi. Marco aprì un po’ la lampo della tuta, poi si tolse del tutto il sopra e se lo avvitò ai fianchi. Caterina lo riprese.

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«Così rischi di ammalarti! Sei tutto sudato, non dovresti toglierti la giacca, aspetta un po’.» Guardai il mio amico che nel frattempo si stava rivestendo. «Hai ragione, faccio sempre lo stesso errore. Procede bene lo stu-dio?» Dovevo aver avuto la faccia stupita, perché non mi aspettavo una domanda. Caterina rispose che le cose andavano bene anche se era tempo di esami. «Un po’ vi invidio. A volte ci penso che avrei potuto continuare gli studi, ma finite le superiori è stata più forte la voglia di misu-rarmi in quello che penso mi riesca meglio» aggiunse Marco con una punta di malinconia. «Dicono che sei bravo, cosa fai in particolare?» «Mi considero un artigiano del legno. Mi piace scolpirlo, creare qualcosa che sembra viva da un pezzo inanimato. In realtà ho una passione particolare per gli orologi a cucù.» Carla e io scambiavamo qualche chiacchiera sul tempo e sui turi-sti selvaggi, ma il mio orecchio era ben orientato verso la conver-sazione del resto della compagnia. Ero contento per come stavano andando le cose. Il sole intanto continuava a salire. «Come mai gli orologi a cucù?» chiese con interesse Caterina. «Sono sempre stato fissato con il tempo. Non so come spiegarte-lo, ma fin da bambino quando vivo un momento felice o un peri-odo bello, ho sempre un velo di malinconia pensando che in real-tà presto sarà passato.» Caterina intanto si era fermata e ascoltava con attenzione le parole di Marco. «Vedo come una miccia che lentamente brucia. Creare un orologio mi dà la sensazione di cat-turarlo, di farlo mio, il tempo intendo. In genere a ogni orologio associo una fase della mia vita, una persona conosciuta, un paese visitato, un’esperienza vissuta, cose così insomma.» Nel frattempo la spiaggia iniziava a popolarsi. «Ehi, che bel modo di pensare al proprio lavoro, mi hai incuriosi-to! Un giorno di questi voglio venire a vedere qualcosa.»

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«Beh sì certo, mi farebbe molto piacere. Ma adesso parliamo un po’ di te. So che studi Medicina, a che punto sei?» «Sono al quarto anno, la strada è ancora lunga!» Marco ascoltava rapito e come gli capitava spesso in queste situazioni, aveva leg-germente inclinato la testa riccioluta verso sinistra. «Comunque sono in regola con gli esami e questo già è importan-te. Voglio specializzarmi in Chirurgia e dopo partire per fare un’esperienza in posti dove c’è molto bisogno di medici, vedremo come andranno le cose.» Carla interruppe la conversazione con me e si rivolse a Caterina. «Dobbiamo andare adesso, ci aspetta un bel mattone ricco di pa-gine!» Dovevo fare qualcosa, Marco stava già salutando. «Se per domani non avete impegni che ne dite di andare a fare qualche tuffo alle Conche?» Le Conche sono un luogo scoglioso che offre molte possibilità a chi ama tuffarsi. Le due ragazze si guardarono per qualche istan-te. «Stiamo preparando un esame, ma credo che un paio d’ore pos-siamo concedercele.» «Perfetto! Allora ci vediamo al ponte di legno domani mattina verso le nove.» Ci salutammo mentre le ragazze si allontanavano. Non appena furono fuori dal raggio visivo guardai Marco. «Mi devi come minimo una birra!» «Se è per questo anche due! Hai visto com’è bella?» «Amico mio vedo che sei proprio cotto!» Non mi stava più ascol-tando, guardava verso il mare, poi all’improvviso accelerò il pas-so. «Andiamo in laboratorio. Ho in mente una cosa, devo iniziarla il prima possibile.»

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Giugno stava per finire, un bambino era stregato dall’acqua che versava e spariva velocemente sulla spiaggia. Un tizio lottava per piantare il suo ombrellone come fosse una spada nella roccia. Marco camminava velocemente, tanto aveva paura di perdere le sue idee.

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CAPITOLO 3 Il nostro laboratorio-bottega era diventato un vero gioiellino. Pensare che fino a poco tempo prima era una cantina, di quelle dove veniva lavorato il vino. Noi la trasformammo. Divenne La bottega del tempo e del colore. L’insegna riportava un orologio con due pennelli a mo’ di lancette. All’ingresso mantenemmo parte delle pareti originali, di roccia viva e irregolare. La parte grezza era intervallata da pannelli. Su alcuni di questi pannelli posizionammo gli orologi a cucù di Mar-co che avevo decorato personalmente. Sotto ai pannelli dispo-nemmo dei mobiletti in arte povera. Sopra vi collocammo le ope-re di Marco più piccole, sculture in legno raffiguranti animali, pa-esaggi o semplicemente cose. Nella parete di fronte agli orologi affiggemmo i miei quadri. Le mie ultime opere avevano un comune denominatore: il mondo. Nel quadro più grande era rappresentata la Terra tenuta tra le braccia di una donna. La donna sembrava volesse proteggerla da qualcuno o qualcosa perché la stringeva forte al petto. Lo sguardo della donna però non era intimorito. Anzi, era come se avesse a-vuto la consapevolezza che comunque “tutto sarebbe andato be-ne”. Verso la direzione dello sguardo c’era un fascio di luce nero che si stava avvicinando. Ansia e serenità allo stesso tempo. Poco distante c’era una tela più piccola. Ritraeva un bambino che guardava con attenzione una cartina geografica appesa tra due al-beri. La cartina geografica però non era suddivisa in Stati, vi era una sola scritta: Terra. Dietro la parte adibita a negozio c’erano le scale che portavano in una specie di scantinato. Prima vi si stoccavano le bottiglie di vi-

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no poi divenne la zona dove passavamo la maggior parte del tem-po a realizzare le opere o a perfezionarle. In un angolo della stan-za, che era abbastanza grande, c’era un tavolo di legno con due sedie. Sul banco c’era sempre una bottiglia di vino rosso e due bicchieri. Inoltre c’era un cestino in vimini con dentro alcuni formaggi e salumi. Spesso la sera, ultimato il lavoro, ci rilassa-vamo sorseggiando un bicchiere di primitivo e raccontandoci la giornata. Marco entrò alla svelta in bottega. Andò al laboratorio, aprì il cassetto dove teneva alcuni fogli bianchi e matite e si mise a di-segnare. A un certo punto squillò il telefono. Credo che il mio amico neppure lo sentì. «Pronto?» dissi distrattamente mentre raccoglievo della carta dal pavimento. «Buongiorno. Sono Albert Novak. Vi avevo scritto una e-mail qualche giorno fa, ricorda?» quel nome mi fece prestare la giusta attenzione alla telefonata. «Certamente. Siete quel signore di Praga, me la ricordo bene la sua e-mail.» «Perfetto, lei è il signor Gargano o il signor Scansato?» «Sono Luca Gargano, ma mi chiami semplicemente Luca.» «Bene, Luca. Allora avrà letto che sono interessato a delle vostre opere visionate sul sito internet.» Cercavo di fare mente locale. «Sì, ma se non ricordo male non ne ha menzionata nessuna nello specifico.» «Esatto. Le dico ora che sono interessato a due orologi a cucù.» Il mio interlocutore me li descrisse fino ad andare nei particolari. Poi continuò: «Purtroppo non posso muovermi per problemi di salute però se siete interessati a concludere l’affare, potete portare gli orologi qui a Praga dove sarete miei ospiti, spese per il viag-gio comprese.» Non sapevo cosa dire, la proposta era decisamente inusuale. Al-bert Novak percepì la mia esitazione così concluse: «Non deve

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rispondermi adesso, mi faccia sapere ma comunque in tempi bre-vi.» «D’accordo Mister Novak, ne parlo con il mio socio e la richia-merò a breve. Comunque la ringrazio per l’offerta, inoltre le fac-cio i complimenti per come parla la nostra lingua.» «Grazie. La mia famiglia ha origini italiane.» Fece una pausa, poi mi congedò: «Allora a risentirci presto, buona giornata.» Andai nel laboratorio per raccontare la cosa a Marco. Appena mi vide mi mostrò il suo disegno. «Guarda, che ne pensi?» Aveva disegnato un mezzo busto di donna con il viso tale e quale a quello di Caterina. Sul collo era raffigurata una collana incro-ciata dalla quale pendeva un ciondolo a forma di mezzaluna. «Ecco perché andavi così di fretta! E’ bellissimo questo schizzo già così curato nei dettagli. Cosa dovrebbe diventare?» «Pensavo di scolpirla su un pezzo di cedro, sì, credo che come le-gno andrà bene il cedro.» «Vieni, adesso sediamoci un attimo. Ho appena ricevuto la tele-fonata di quel tizio di Praga. Si chiama Albert Novak. Dice che non può muoversi per motivi di salute, ma ci pagherebbe vitto, alloggio e viaggio pur di vedere da vicino due orologi a cucù fatti da te.» «Addirittura! La cosa mi sembra un po’ strana. Non solo li acqui-sterebbe, ma ci paga anche il viaggio. Secondo me c’è qualcosa sotto.» Marco si toccava i capelli ricci. «Effettivamente, la cosa sembra strana anche a me, ma in fondo cosa abbiamo da perdere? Vista la situazione in cui siamo credo che dobbiamo cogliere l’occasione. Magari abbiamo beccato un vecchio mecenate.» «Quali sarebbero gli orologi?» «Uno è quello con la ragazza che lancia in aria una farfalla, l’altro è quello del vecchietto che offre da mangiare al cane.» Per me erano due orologi molto belli. La ragazza nella ripetizione del suo movimento ritmico era come se ballasse con la farfalla.

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Leggera questa si staccava per poi tornare sulla mano della fan-ciulla. Il vecchietto invece era seduto su una panchina con il suo bastone vicino e con delicatezza imboccava il cane. C’era una piazza con un orologio a completare il paesaggio. Marco prese una fetta di salame piccante e stava per mangiarla quando sentimmo una voce provenire dall’ingresso della bottega. «Buongiorno, permesso?» Era la voce del signor Tranquilli che chiedeva permesso dopo essere entrato. Lo raggiungemmo. «Buongiorno signor Tranquilli, come sta?» chiesi educatamente. Non mi rispose. «Scusate il disturbo, ero qui con un amico che voleva vedere il negozio. Nulla d’impegnativo, soltanto un’occhiata.» Alle sue spalle spuntò un tipo piccolo e curvo. Ci salutò mentre si guardava intorno. Dopo pochi istanti era già scivolato all’interno della bottega. Il signor Tranquilli ci prese da parte. «Mi dispiace ragazzi, ma devo iniziare a organizzarmi. Spero che non serva, ma nel caso in cui voi doveste andare via, è meglio non farsi trovare impreparati, no?» «Faccia pure» dissi in maniera formale e con tono stizzito. Presi Marco sotto braccio e tornammo nel laboratorio. Il mio a-mico concluse la nostra conversazione interrotta. «D’accordo Luca, partiamo.» «Perfetto. Non facciamo passare troppo tempo, credo che sia un’occasione da cogliere al volo. Domani chiamo questo Albert. Che ne dici degli inizi di luglio?» «Direi che va bene e poi con l’occasione mi capita di festeggiare il mio compleanno a Praga.» La data era quindi decisa, non restava che avvisare l’acquirente e prepararsi per il viaggio. Tornammo al lavoro. Nell’animo ave-vamo sentimenti contrastanti. Malinconia per la situazione finan-ziaria che attraversavamo, ma anche inquietudine ed eccitazione per la strana opportunità che ci si stava presentando. In Marco era evidente la gioia per l’avvicinamento con Caterina. Mentre in se-

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rata uscivamo per andarcene a casa mi confidava le sue sensazio-ni. «Mi fa strano, è come se i miei sentimenti per Caterina non fosse-ro allineati con la realtà che sto vivendo. Il nostro rapporto, se co-sì si può chiamare, è talmente acerbo che è poco più di una cono-scenza. Eppure è come se sentissi di aver trascorso molto più tempo insieme a lei. Mi riesci a capire?» «Non molto. Secondo me sei semplicemente innamorato!» «Forse è come dici, ma ti ripeto, provo la sensazione di riscoprire le bellezze di un percorso. In apparenza nuovo, ma poi mentre cammino mi guardo intorno e riconosco perfino l’odore del fiore più piccolo.» Non aggiunsi altro, ma un po’ lo invidiavo anche se in senso buono. Facemmo ancora qualche passo insieme e poi ci salutam-mo dandoci appuntamento al giorno dopo.

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CAPITOLO 4 Arrivai al ponte di legno che erano appena passate le nove. Marco era lì che mi aspettava tirando calci ai sassi. Non disse nemmeno buongiorno. «Sempre in ritardo, anche oggi.» «Iniziamo bene, intanto buongiorno. E poi stai calmo, sono co-munque arrivato prima delle ragazze. O no?» Non riusciva a stare fermo. Camminava avanti e indietro e mi gi-rava intorno. Questo era l’effetto che Caterina aveva su di lui. «Dai Marco, rilassati. È una così bella giornata, guarda che sole» cercavo di distrarlo. «Ci mancherebbe altro. Siamo in piena estate» mi rispose alzando gli occhi al cielo. Finalmente ecco apparire le due ragazze. Caterina salutò non ap-pena ci fu vicina. «Buongiorno. Scusate il ritardo. Wow il mare è fantastico oggi, guardate che blu!» «E’ una vita che non vado alle Conche. Spero siano rimaste un posto tranquillo» aggiunse Carla. L’aria cominciava a scaldarsi così decidemmo che era meglio in-camminarci. «Beh, sì, ancora lo sono. Per fortuna sono raggiungibili soltanto a piedi. Questo già è un freno per molti turisti.» Effettivamente il posto che ci attendeva era bello davvero. Una piccola baia scogliosa con diversi punti panoramici molti dei qua-li buoni anche per tuffarsi. La zona è frequentata anche dai sub per via delle stupende grotte sommerse e comunicanti fra loro. Il sole si stava velocemente alzando. Sudavamo mentre percorre-vamo il sentiero. Il viottolo costeggiava il mare che rimaneva sul-

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la nostra sinistra. Caterina si fermò un attimo per legarsi i capelli. Marco si bloccò ad aspettarla mentre io raggiunsi Carla. «Allora signore del tempo su cosa stai lavorando in questi gior-ni?» Marco rimase un po’ sorpreso della domanda o forse non voleva dirle che stava pensando di creare un mezzo busto di donna con le sue sembianze. «Beh… effettivamente c’è una cosa, ma…è ancora un’idea allo stato embrionale ed è difficile parlarne.» Di certo non è uno che riesce a dire bugie e mentre balbettava, mettendosi la mano dietro la nuca, girò lo sguardo verso una nave in lontananza. Caterina invece non è una che gira troppo intorno alle questioni. «Ok. Non me ne vuoi parlare. Non insisto.» Intanto avevano ripreso a camminare. «Ma no. Veramente. È che ci stavo giusto pensando ieri, sono an-cora confuso al riguardo. Ancora non ho ben chiaro come fare, ma intanto ho scelto il legno: userò il cedro.» Mi sentivo felice nel vederli chiacchierare uno vicino all’altra. «Beh, mi sembra già un buon punto di partenza. Non credi?» E sorridendo raggiunse Carla. Allora mi fermai ad aspettare Marco. «Ma perché non le dici semplicemente che ti piace?» «E magari le dico pure che non me la tolgo dalla testa da anni.» «Fa come credi, ma ricorda che oggi lei è qui con noi. Forse non gli sei del tutto indifferente.» Nel frattempo eravamo arrivati alle Conche. Carla con un piccolo slancio si era portata avanti a tutti raggiungendo la scogliera. «Ehi ragazzi, qui è una meraviglia! Non c’è nessuno.» Ci sono posti che hanno questa magia. Staccano con la normalità di un paesaggio che se pur bello non ti mozza il fiato. In genere non sei preparato, cammini, non ci pensi e invece a un certo pun-to giri un angolo e… rimani a bocca aperta. Mi chiedevo se que-sta sensazione l’avrei prima o poi provata anche nella vita. Carla e Caterina che sapevano nuotare bene si erano già tuffate senza timore. Anche noi avevamo il nostro stile dopo anni di pra-

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tica. I tuffi ci avevano sempre appassionato. Nel momento in cui alzi le braccia dietro al collo e stacchi i piedi dallo scoglio ti senti leggero. Non so se si poteva definire libertà, incoscienza o altro, però ci faceva stare bene. Alle Conche c’era un punto, il più alto di tutti, che chiamavamo la Torre per via della sua forma. Saran-no circa dieci metri sulla superficie dell’acqua e in pochi si tuffa-no da lì. A parte per l’altezza, anche per le rocce che si intrave-dono sott’acqua. Sembra che tuffandosi uno possa sbatterci ad-dosso, ma non è così. In realtà è molto profondo ed è la purezza dell’acqua che trae in inganno. Caterina, uscendo per l’ennesima volta dall’acqua, ci guardò. «Voglio fare un tuffo dalla Torre.» «Ma tu sei matta, non ci penso proprio!» Carla ebbe un sussulto. Io invece non sapevo che dire a Marco. Di certo avevamo un pro-blema. Tutte le volte che andavamo alle Conche, il mio amico vo-leva tuffarsi da quel benedetto punto. Salivamo, ci preparavamo, ma poi niente. Rimaneva impietrito. Purtroppo o per fortuna per lui era cocciuto. Così preso dall’eccitazione rispose d’impeto a Caterina. «Ok, andiamo, proviamo!» Mentre io mi limitavo a invitare Carla. «Vieni anche tu, anche se non ci tuffiamo possiamo sempre go-derci il panorama.» Iniziammo la salita fra gli scogli. La Torre era preceduta da un sasso enorme e piatto. Appena arrivati ci sedemmo lì. C’era una calma surreale rispetto alla frenesia del periodo. «Avete organizzato qualcosa per quest’estate?» dissi alle ragazze. «Veramente no. Abbiamo una sessione all’università con esami difficili. Intanto pensiamo a questo poi vedremo. Voi?» Carla mi rispose mentre sistemava il suo telo sugli scogli. «Anche noi non avevamo organizzato nulla poi, proprio in questi giorni, ci è arrivata un’offerta di lavoro da un signore di origini italiane che vive a Praga e abbiamo deciso di partire per la città ceca.»

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«Già, una strana offerta» m’interruppe Marco. «Vuole vedere due orologi a cucù. Oltre a essere interessato all’acquisto ci paga pure viaggio, vitto e alloggio. La cosa mi puzza.» «Aggiungi pure che non può muoversi per motivi di salute. Dai. Abbiamo già fatto questo discorso.» Caterina si rivolse a Marco: «Secondo me è una cosa bellissima. Dovresti essere fiero. La tua arte supera i confini nazionali. Non è stupendo? Però prima di partire mi devi far vedere gli orologi.» «Non c’è problema, quando vuoi, partiamo i primi di luglio.» Il mio amico aveva finito i boccoli da arricciare. Caterina si alzò e si avvicinò al bordo dello scoglio. «Cavolo è davvero alto qui. Da sotto non sembra.» «Guarda che non sei obbligata a tuffarti. Dai torniamo indietro.» Carla era preoccupata. «Non ci penso proprio.» Caterina si preparò, fece un paio di respiri profondi, si piegò un po’ in avanti e si staccò dallo scoglio leggera come una farfalla. La sentimmo entrare in acqua per poi riemergere scuotendo i suoi lunghi capelli neri. Poi fu il mio turno. Ogni volta che mi avvicino al punto di lancio penso sempre al mio primo tuffo dalla Torre. Ero poco più di un bambino. Ricordavo ancora la paura ma anche l’incoscienza dell’età. Mi gettai a candela. Dritto e rigido presi subito fiato, ma l’altezza era troppa. Così entrai in acqua che stavo già espirando l’aria. Da sotto l’acqua iniziai a risalire verso la luce del sole, ero quasi senza più fiato, ma per fortuna tutto andò bene. Da quel giorno, me li godo tutti questi secondi che mi separano dall’entrare in acqua e mi sembra di essere un gabbiano che si getta in picchiata nel mare. È come tornare bambino, anche se per pochi istanti. Riemerso dall’acqua guardai in alto. Avevo già lo stomaco sotto sopra. Caterina chiamava Marco. Il mio amico co-me al solito era arrivato in zona tuffo. Speravo che questa fosse la volta buona. Respirava affannato. Allungò le braccia dietro la te-sta. Fece per lanciarsi, ma poi… nulla. Indietreggiò dallo scoglio

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e prese a scendere lungo il sentiero. Tutte le volte la stessa storia. Per un buon periodo ne parlavamo. Mi diceva che non riusciva a darsi una spiegazione. Quando si trovava sul bordo della Torre provava sempre la stessa sensazione. Come un freno, una vocina che gli sussurrava “non tuffarti, non farlo, è pericoloso.” Avrebbe voluto lasciarsi andare. Era consapevole che poteva farcela. Ma niente, i suoi piedi si cementavano allo scoglio. Ormai non ne parlavamo nemmeno più. Dopo anni di tentativi falliti eravamo giunti a un naturale silenzio. Fra l’altro adesso neanche ci prova-va più, se ne rimaneva seduto sullo scoglio a immaginare i suoi orologi. Ma quel giorno evidentemente era diverso. Vidi Caterina quasi sollevata del fatto che Marco non si fosse tuf-fato. Aveva percepito qualcosa e si vedeva che era preoccupata. Il mio amico era imbarazzato e credo anche arrabbiato con se stes-so. Forse Carla gli disse qualcosa per consolarlo, ma fu peggio. La mattinata insieme alle ragazze stava per finire. Non so se Car-la si aspettasse qualcosa da me. Cercavo di lasciare Marco e Cate-rina da soli e questo per forza di cose mi costringeva a rimanere da solo con lei. Sentivo però che per me non era scattata nessuna scintilla. Carla era una persona interessante per molti aspetti, ma non era il mio tipo, di questo fui sicuro fin da subito. All’epoca non avevo ancora conosciuto l’amore, ma alla luce delle espe-rienze passate, mi era ormai chiaro quello che di certo non poteva esserlo. La sensazione piacevole che provavo e che avrei voluto condivi-dere con Marco al più presto, era che percepivo lui e Caterina come protagonisti di un quadro. E come avviene nei migliori dei quadri, i protagonisti si svelano da soli, non appena il pittore fa un passo indietro. Fine anteprima.Continua...