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SERAFINO CORRIERO - RAFFAELE MACINA

La magia del raccontonella cultura popolare

EDIZIONI NUOVI ORIENTAMENTI

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Proprietà letteraria riservata© NUOVI ORIENTAMENTIAssociazione culturaleVico Savoia, 12 - ModugnoPubblicazione a diffusione periodica, maggio 2009Registrazione Tribunale di Bari N. 610 del 7-3-1980Pubblicazione fuori commercio distribuita gratuitamente ai soci

Direttore responsabileRaffaele Macina

In copertinaAntonio Longo, Tóire freute, ca u ciucce róite

PatrocinioComune di Modugno

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SERAFINO CORRIERO - RAFFAELE MACINA

EDIZIONI NUOVI ORIENTAMENTI 2009

La magia del raccontonella cultura popolare

Fiabe, favole, novelle e leggendedella tradizione orale modugnese

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La magia del racconto nella cultura popolare raccoglie le “storie”modugnesi pubblicate in questi “primi” trent’anni di Nuovi Orienta-menti; “storie” che, pur trascritte da diverse persone, hanno un comu-ne denominatore: ripropongono fedelmente la narrazione orale cosìcome veniva offerta dagli anziani sino a qualche decennio fa.

La trascrizione dei racconti popolari, che fino all’Ottocento si tra-mandavano solo oralmente di generazione in generazione, è operazio-ne di rilevante dignità letteraria, che ha visto impegnati diversi intellet-tuali in diverse nazioni: da Charles Perrault in Francia ai fratelli Grimmin Germania; da Aleksander Afanasiev in Russia ad Italo Calvino inItalia. In questo panorama generale non sono mancate le trascrizionidei racconti popolari pugliesi, fra le quali va segnalata quella curata daGiovan Battista Bronzini. Ora, anche le storie modugnesi vengono tra-dotte in segni grafici, quasi a voler dimostrare quanto siano fecondi,dialettici e complessi i rapporti fra macrocosmo e microcosmo ancheall’interno dell’universo della narrazione popolare.

Tuttavia, nel momento in cui si passa dalla oralità alla scrittura, siperdono tanti aspetti della narrazione (l’interpretazione del narratore,il rapporto emotivo che si crea con chi ascolta, la vivacità e l’immedia-tezza della parola), poichéun racconto, nato spontaneamente nel rap-porto diretto e immediato con le cose, le persone, i fenomeni e la natu-ra, viene piegato ad una costruzione letteraria che ha bisogno di sche-mi mentali e di astrazione.

In una cultura orale la parola ha un potere magico, poiché essa ècapace di far rivivere una situazione, di dominare le forze della natura egli animali più terribili, di materializzare davanti agli occhi delle scene,di suscitare forti emozioni, mentre la scrittura può soltanto “connotare”

INTRODUZIONE

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oggetti, fenomeni, forze ed eventi. Parafrasando Freud, si potrebbe af-fermare al proposito che la differenza fra narrazione e scrittura è similea quella che intercorre fra il momento in cui si sogna e quello in cui ilsogno viene poi ricordato e ricostruito.

Nella storia del pensiero occidentale è presente una grande tradizio-ne che conferisce alla parola una sua superiorità sullo scritto. Sarà suffi-ciente qui riferirsi a Socrate, la cui filosofia assunse i caratteri di undialogo interpersonale, e a Platone, che più volte si soffermò sui limitidella scrittura.

È assai noto il brano del Fedro che illustra la posizione platonica sullascrittura tramite il mito del dio Theuth, che inventa e dona agli antichiEgizi le lettere dell’alfabeto, insieme ad altre arti.

Al dio Theuth, che esalta il grande valore della sua invenzione, desti-nata a rendere gli Egizi «più sapienti e ad arricchire la loro memoriaperché questa scoperta è una medicina per la sapienza e la memoria»,replica il re Thamus: «O ingegnosissimo Theuth», l’alfabeto, invece,«ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà; essi cesseranno di eser-citare la memoria perché, fidandosi dello scritto, richiameranno le cosealla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraversosegni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria,ma per richiamare alla mente. Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari,ma ne dai solo l’apparenza, perché essi, grazie a te, potendo avere noti-zie di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi,mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà unasofferenza discutere, imbottiti d’opinione invece che sapienti” (Plato-ne, Fedro, 274e - 275c, trad. it. di P. Pucci, in Opere complete, vol. 3,pp. 282-283).

Certo, questo giudizio di Platone sui limiti della scrittura ha un suopreciso e compiuto significato all’interno della sua filosofia; ciò nono-stante, esso offre utili sollecitazioni ai fini del nostro discorso.

Platone, infatti, non intende condannare la scrittura in quanto tale,ma l’atteggiamento rigido di chi ritiene il sapere come un patrimonioin sé concluso, che trova il modo di manifestarsi più agevolmente pro-prio nello scritto, dando luogo spesso ad una serie di semplici formule esterili nozioni; quando, invece, si accompagna al dialogo, al mito e alla

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narrazione, non c’è dubbio che per Platone la scrittura diventi una“traccia feconda”, contribuisca a sospingerci alla scoperta di noi stessi eal confronto, e fornisca un utile strumento a quella ricerca che, essendoinsieme interiore e comunitaria, dà senso alla nostra vita.

In questa prospettiva, è importante il recupero della narrazione po-polare, ed è importante soprattutto quel recupero che, riproponendole “storie” tramite lo scritto, si pone l’obiettivo di essere fedele alla tradi-zione orale.

La magia del racconto nella cultura popolare, che a quell’obiettivo si èispirato, non solo può contribuire a riannodare i rapporti con un cospi-cuo patrimonio di cultura popolare, ma ha anche l’ambizione di ripro-porre quell’atmosfera magica che aleggiava in una famiglia nel momentoin cui si raccontavano le “storie”.

Dunque, un libro che, in sintonia con la natura della narrazionepopolare, non solo si propone di parlare al mondo odierno dell’infan-zia, ma si rivolge anche al mondo degli adulti.

Comunemente, infatti, si ritiene che fiabe e racconti fantastici sianorivolti esclusivamente ai bambini, e non ci si sofferma mai abbastanzasul fatto che, invece, essi sono il risultato di una elaborazione collettivache, ovviamente, vedeva gli adulti come protagonisti principali.

Vladimir Propp, nel suo famoso saggio Le radici storiche dei raccontidi fate (Torino, 1949), ha dato della genesi della fiaba una spiegazioneche è ormai un dato acquisito nella letteratura: le fiabe popolari deriva-no direttamente da riti e miti primitivi delle comunità tribali e, in par-ticolare, esse sono una vera e propria rappresentazione del “rito di ini-ziazione”, che segnava per ogni componente della comunità il passag-gio dall’età infantile a quella adulta e la possibilità stessa di far partecome soggetto attivo della comunità degli adulti.

È superfluo affermare che il passaggio dall’infanzia all’età adulta co-stituisca per ogni uomo un momento fondante della sua personalità,per cui riflettere sulle “storie” popolari, che alla rappresentazione diquel passaggio o di altri riti tribali devono la loro stessa genesi, è impor-tante per tutti; anzi, in una società in cui l’orizzonte dell’immaginazio-ne e dell’invenzione rischia di essere oscurato da quella realtà virtualeche sempre più si sovrappone alla vera realtà, una “storia” popolare

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può sollecitare a quel senso di magia e di mistero dal quale ogni uomotrae nuova linfa per alimentare la sua curiosità e la sua stessa vitalità.

La magia del racconto nella cultura popolare intende così ricongiun-gersi idealmente alla pratica della narrazione, nella quale ogni famigliameridionale e modugnese era impegnata sino agli anni Cinquanta eSessanta.

Allora, come viene ben rappresentato dal disegno di copertina cheMichelino Cramarossa compose nel 1982, tutta la famiglia, spesso al-largata ad amici e parenti del vicinato, prima di andare a dormire siritrovava la sera intorno al braciere nelle rigide serate d’inverno o sedu-ti all’aperto nelle calde sere d’estate: si commentava la giornata, ci siaggiornava su quanto era successo nel rione, sull’operato dei vicini, sul-le liti sempre presenti fra quelle case ammucchiate del borgo antico;ma soprattutto, per le insistenze pressanti dei bambini, si raccontavanole “storie”.

Come in un rito sacro che ha le sue regole immodificabili, la nonna,quando c’era, o la mamma, doveva narrare qualche “storia”, non im-portava se fosse conosciuta o sconosciuta. I nonni e i genitori, infatti,possedevano una grande capacità narrativa, per cui essi non presenta-vano la stessa “storia” nello stesso modo, ma inserivano delle varianti odegli elementi aggiuntivi e sempre usavano toni diversi, creando cosìun’atmosfera magica. E i bambini, pur conoscendo a memoria i passag-gi e gli eventi della “storia”, erano completamente rapiti dalla narrazio-ne e pendevano con tutto il loro essere dalle parole lente ma sicure dichi narrava: solo la fantasia era libera e creava immediatamente le im-magini e le scene evocate dal racconto.

Immancabile era, da parte dei bambini, la richiesta petulante di unanuova “storia” dopo ogni singola narrazione, al punto che si innescava unvero e proprio tira-e-molla fra gli avidi ascoltatori e la narratrice, spessostanca per la sua intensa giornata di lavoro. Quando, poi, la misura eracolma, la mamma, alquanto spazientita, “scarvettave” nel braciere, ormaipieno solo di cenere, e, facendo notare ai suoi pargoli che non usciva piùnemmeno una “fascidde”, li invitava con calma ad andare a letto, ripetendospesso una delle formule di chiusura di ogni “storia”: «Stória mé nan é cchiù,male a llóre e bbuéne a nnù: a ccudde ca l’à dditte, ’ne bbèlle piatte de chem-

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bitte; a cchidde ca stónne vecìne, ’ne bbèlle peióne de lepìne; chidde ca stòn-ne lendàne, anna scì a senà le cambane, espressione, quest’ultima, chespesso era sostituita dalla più grossolana: s’anna mangià la mmèrde ducuane (Storia mia non è più, male a loro e bene a noi: a quello che l’haraccontata, un bel piatto di confetti; a quelli che ci sono vicini, un belpugno di lupini; quelli che ci sono lontani, devono andare a suonare lecampane ovvero si devono mangiare la merda del cane).

Sino ad ora è stato usato il termine “storie” per indicare tutti i rac-conti popolari, che, in realtà, sono riconducibili, per la loro struttura eper la loro finalità, a quattro generi letterari: la leggenda, la favola, lanovella e la fiaba.

Rimandando il lettore alla schede che, all’inizio dei singoli capitoli,definiscono questi generi letterari nella cultura popolare, in La magiadel racconto nella cultura popolare si trovano tre leggende (Tóire freute,ca u ciucce róite, U móneche de Medugne, La *zite de Vetònde); due favo-le (U jatte, u cueune e u sòrche, La jatta bèrafatte); sette novelle (U prìn-gepe e u *zappataure, La stórje du fésse néste, L’àneme de padre Frangè-sche, La stórje de cecerótte, La sarache du sólachianjedde, La stórje de le tréffrate, U rré Peluse); sei fiabe (U ciucce cacaterróise, U prìngepe ca nascìpuèrche, Peppenjedde e le fiche a la reggine, Fecatjedde, Le sétte signe, Lastórje de la Papanórchje).

Al di là delle differenze che caratterizzano i quattro generi letterari,è possibile cogliere alcuni elementi comuni che sono presenti in ogniracconto popolare, al di là del fatto che si tratti di una leggenda o diuna favola, di una novella o di una fiaba.

Analizzando, infatti, le diverse “storie” qui riproposte, non è difficileritrovare nella loro struttura narrativa una sorta di minimo comunedenominatore, che forse, più di ogni altro aspetto, dimostra come essesiano un prodotto collettivo che, ideato ed elaborato all’interno di unaprecisa comunità, propone una immagine del mondo e, soprattutto,della società. Anzi, sotto questo profilo, La magia del racconto nella cul-tura popolare può a ragione essere considerato una sorta di manifestodella mentalità popolare in uno specifico territorio.

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Non sarà difficile per il lettore raffrontare le tre leggende, le duefavole, le sette novelle e le sei fiabe qui presentate, individuarne gli aspetticomuni e coglierne la stessa matrice.

Da parte nostra, qui sarà sufficiente proporre solo una elencazionedi tratti comuni che si riferiscono alla struttura e alla forma di un rac-conto popolare:

- il linguaggio è per lo più semplice e, spesso, anche sgrammaticato,ma denso di modi di dire e formule sapienziali popolari;

- il discorso è soprattutto diretto, poiché questo permette al narrato-re di modulare la voce, di modificarne timbro e tono in base alla naturadel racconto e delle sue parti;

- sono frequenti le ripetizioni, sia di espressioni sia di azioni, che ser-vono a diversi scopi: ad allungare il racconto, ad alimentare la sensazio-ne di mistero della narrazione, a facilitare la memorizzazione e la com-prensione della vicenda;

- c’è sempre una finalità, che nelle favole e nelle fiabe ha per lo piùun intento morale, nelle leggende serve a conferire una identità ad unacomunità, nelle novelle contribuisce a delineare un modello di saggez-za nel comportamento e nei rapporti sociali;

- onnipresente è l’incipit “Jére ’na vólde e jére”, che preannunzia l’in-determinatezza dal punto di vista temporale della vicenda narrata;

- la conclusione, ad eccezione della leggenda U móneche de Medugneche ha una natura tragica, volge sempre al sereno, e prevede sempre lafelice soluzione di una condizione o di una situazione problematica perl’uomo retto.

Come si vede da queste annotazioni di natura generale, La magia delracconto nella cultura popolare, che pubblichiamo nella ricorrenza deitrenta anni di vita di Nuovi Orientamenti, non solo può rivelarsi unutile strumento per fermarsi un attimo a riflettere sulla comunità in cuisi vive, ma può sollecitare all’interno della famiglia momenti di aggre-gazione, tramite i quali è auspicabile venga alimentato quel fecondorapporto fra adulti e bambini che costituisce il nutrimento privilegiatodell’anima.

Un lavoro come La magia del racconto nella cultura popolare è opera

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complessa che si avvale delle competenze di molti soggetti che, non acaso, rappresentano generazioni diverse.

In primo luogo, il nostro pensiero va a quei nostri collaboratori chenon ci sono più e che con le loro immagini, qui riproposte, hanno neltempo commentato e chiarito il senso di diverse “storie” popolari: Mi-chelino Cramarossa, che, radicato nella cultura popolare, ci presentascene pregnanti di storia e di vita reale del passato; Mimmo Ventrella,che, con profondo scavo psicologico, coglie il senso più nascosto delledue “storie” da lui illustrate; Tonino Longo, che, con la sua fertile fanta-sia, ci dà una significativa interpretazione della leggenda Tóire freute cau ciucce róite e della fiaba U prìngepe ca nascì puèrche.

Ai tre pittori “storici” della rivista, si sono poi aggiunti negli anni ilgiovane Alessandro Brancaccio, autore della bella illustrazione dellafiaba Peppenjedde e le fiche a la reggine, e Teresa Trentadue, che hasintetizzato con una significativa immagine i tanti elementi della fiabaLe sétte signe. Un ringraziamento particolare va a Mattia Lacalamita,che ha illustrato e interpretato ben sei “storie”, cogliendo di ognuna ilsenso più autentico.

Naturalmente, La magia del racconto nella cultura popolare si avvaledel contributo, sempre prezioso, di Anna Longo Massarelli, “storica”collaboratrice di Nuovi Orientamenti, il cui impegno in questi trentaanni di vita della rivista è stato decisivo per ricostruire un vero e propriopatrimonio di cultura popolare modugnese.

Notevole è anche il contributo di Angela Pascazio, che ci ha fattoconoscere ben sei “storie”. Ricordo bene la sua timidezza quando mipropose, diversi anni fa, alcuni racconti popolari; racconti che – elladisse – «mi sono stati tramandati da mia madre, che a sua volta li avevaascoltati da mia nonna, e quest’ultima da sua madre, e così via. Vorreiche li pubblicaste per evitare la dispersione del patrimonio culturale dinoi Modugnesi. Spero che queste storie destano il vostro interesse, cosìcome lo noto nelle mie figlie e nei miei nipoti quando le racconto”.

Infine, un contributo decisivo, come in tutte le pubblicazioni diNuovi Orientamenti, è stato assicurato da Serafino Corriero, il quale hamaturato negli anni un vero e proprio modello (ancora perfettibile) diortografia del dialetto modugnese, che qui viene rispettato.

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Da ultimo, nel licenziare queste pagine, un ricordo di gratitudinevorrei rivolgere a mia madre e a mio padre, che hanno allietato la miainfanzia con tante “storie” popolari: durante tutto il lavoro di redazioneche è stato necessario per predisporre questa nostra ultima pubblica-zione, spesso ho avuto la sensazione che risuonassero nel mio studio leloro voci che riproponevano col loro timbro inconfondibile le“storie”modugnesi, come per tenermi compagnia ed aiutarmi nell’impresa.

Una sensazione, questa, bella, dolce ed intima, che, rinnovando illegame profondo fra padri e figli e stabilendo un rapporto di continui-tà fra generazioni diverse, penso proprio che sarà avvertita da ogni let-tore. Forse questo libro ha anche questa finalità.

Raffaele Macina

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Jére ’na vólde e jére (c’era una volta e c’era) era l’esordio di tutte le “sto-rie” dialettali modugnesi che nonne e bisnonne ci hanno raccontato. Ilmondo dei mass-media era ben lontano da quel tempo, e solo dalla boccadei nostri avi si apprendevano esperienze di ogni tipo, fatti e “stórje”, cioè lefavole. Esse rappresentano la fede, la credenza, lo spirito di un popolo,le sue usanze, anche magiche, motivo per cui sono pure un importantedocumento storico, ma per noi bambini costituivano lo svago serale.

La strada era il luogo dei giochi diurni con i compagni più grandi epiccini, perché le strade erano quiete e sicure: il lento traffico vi si svol-geva solo nelle ore in cui il sole stava sorgendo e la sera, verso l’AveMaria, quando i contadini tornavano sui traini o a piedi dai loro campi.

A sera, invece, quando si era consumato il frugale pasto, che potevaessere anche l’unico della giornata, la vita nelle strade si spegneva, tran-ne che in estate. Suonate “du jóre de nótte” (due ore dopo il calar delsole), gli uomini rientravano in casa e le porte si chiudevano fino almattino seguente. Ed era questo il momento delle favole.

I bimbi si piazzavano con i piccoli banchetti di legno (le vanghetjed-de) intorno alla nonna e la pregavano di raccontare loro “’na stórje”(una favola). Le nonne acconsentivano ben volentieri, perché questocostituiva uno dei piccoli compiti che le rendevano ancora utili in casa.

Infatti, spesso, mentre raccontavano, continuavano un loro lavoro:la scelta de “le fógghje de fóre” (le cicoriette campestri), che gli uominiavevano portato per il pranzo del giorno seguente, o il lavoro a magliacon i quattro ferri per confezionare le calze a figli e nipoti, o la sguscia-tura delle fave, o qualche altra piccola incombenza.

Per la verità, il repertorio delle fiabe non era molto vasto, anche per-ché non tutte erano adatte alle orecchie dei bambini. Inoltre, questi ave-vano le loro preferenze, e spesso chiedevano con insistenza che fosse loro

C’ERA UNA VOLTA...

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raccontata la stessa favola. Ecco perché le nonne, varie volte, apportava-no ai loro racconti piccole modifiche che li rendevano sempre graditi.

Allora, tutti attenti alla nonna, che diventava un’attrice, perché, aseconda dei personaggi che andava rappresentando, ella cambiava tim-bro di voce, passando dal monotono al dolce, al gioioso, al pauroso,facendo spesso rabbrividire i bambini. Per esempio, quando racconta-va “La stórje de la Papanórchje”, all’invito della bambina protagonista,che chiedeva alla “Papanórchje” (una specie di strega dei boschi) di re-stituirle “la cazzizze” (un recipiente utilizzato come pattumiera), che leera scivolata giù, la nonna, sostituendosi alla strega, con voce cavernosache incuteva paura, rispondeva: “Scìnne abbasce e vjendel’a ppigghje”(Scendi giù e vientela a prendere). Allora ci si stringeva fra noi bambiniaggrappandoci alla gonna della nonna, quasi che potessimo così difen-derci da un eventuale apparire della “Papanórchje”.

Michele Cramarossa, che era un profondo conoscitore di quel mon-do scomparso, aveva disegnato un bel quadretto di quelle ore vicino alfuoco con una nonna, che era il personaggio principale della scena: visorugoso per gli anni e le fatiche, fazzoletto nero in testa, maglia scura sor-montata da un largo scialle, gonna nera lunga fino ai piedi, coperta da ungrande “senale de langhé” (grembiule di stoffa molto spessa, che dovevadurare a lungo e ben riparare dallo sporco delle faccende domestiche).

Anche Carducci, in “Davanti San Guido”, fa cenno a sua nonnaLucia, “alta, solenne, vestita di nero”, che gli raccontava “la novella / dilei che cerca il suo perduto amor!”.

Ciò a dimostrazione di come la figura dell’ava fosse centrale nellavita di un bimbo che, divenuto “uom savio”, l’avrebbe ricordata contenerezza e avrebbe considerato la bellezza e la verità di quelle “storie”.

Come l’inizio era sempre uguale, così lo era anche la fine: “Stória ménan é cchiù, male a llóre e bbuéne a nnù” (La mia storia è finita, male aloro e bene a noi). Spesso, però, a seconda delle più o meno riccheconoscenze della nonna, nella chiusa di una storia c’erano delle variantio delle aggiunte: “A Ggrume le melune, a Bbare le prevelune, a Medugnetenime u ggrane e ama mangià sémbe le maccarune” (A Grumo ci sono imeloni, a Bari i provoloni, a Modugno abbiamo il grano e dobbiamomangiare sempre i maccheroni).

Questa chiusa merita due notazioni. La prima di carattere geografi-co-economico: a Grumo si coltivavano meloni; a Bari, città dove si svol-

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geva una vita commerciale più ricca, si vendevano i provoloni (ciboforse sognato e raramente assaporato); a Modugno si coltivava il grano,motivo per cui non sarebbero mancati mai i maccheroni, base impor-tante di una cucina povera. La seconda notazione vuol rilevare un certospirito di competizione del nostro paesino con quegli altri due comuni,specie con Bari, senz’altro più ricca e importante di Modugno, per evi-denziare che, ad onta di ciò, a noi non sarebbe mai mancato il ciboessenziale: pane e maccheroni. La nonna voleva così consolare i nipoti-ni della eccessiva frugalità della mensa casalinga? Questo, in fondo infondo, poteva essere lo spirito di quella chiusa: contentiamoci di quelloche abbiamo. Ed era salvo anche l’intento moralistico del racconto.

Un’altra conclusione era la seguente: “Sóp’o fuéche stà ’na tabacchére,jé cchiéne de chembitte; ’nge l’ama dà a cci l’à dditte” (Sulla mensola delfocolare sta una tabacchiera, è piena di confetti; glieli dobbiamo dare achi l’ha detta). È un modo di ringraziare chi ha raccontato. E anchequesto era un tratto di gentilezza che la nonna insegnava ai nipotini.

Inutile aggiungere che i confetti costituivano una leccornia deside-rata, di cui i bambini potevano godere o nei matrimoni, quando si lancia-vano confetti agli sposi, o durante il funerale di un bambino, a cui i geni-tori e i parenti davano l’addio con un piccolo dolce dono: i confetti.

E non ci sfugga anche che i confetti della formula dovevano esseretanto piccoli e pochi da essere contenuti in una tabacchiera!

Una terza chiusa che mi è pervenuta è la seguente: “’Ne piatte dechembitte a cci l’à dditte; a ccudde ca stà vecine, ’ne piatte de maccarune;ccudde ca stà lendane, và a senà le cambane” (Un piatto di confetti a chiha raccontato; a quello che sta vicino un piatto di maccheroni; chi stalontano va a suonare le campane).

Come vedete, tornano confetti e maccheroni, in forma più copiosa,a testimonianza di un pio desiderio. Perciò essi vanno dati a chi ha rac-contato e a chi ha ascoltato; chi sta lontano, invece, non li merita, eperciò deve compiere un lavoro: suonare le campane.

Immersa nei ricordi, mi vien voglia di sostare un po’, fuori dalla frene-sia di questo mondo sempre in corsa, e ripetere con Carducci: “O nonna,o nonna! / deh, com’era bella / Quand’ero bimbo! Ditemela ancor, /Ditela a quest’uom savio la novella / Di lei che cerca il suo perduto amor!”.

Anna Longo Massarelli

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LE LEGGENDE

Il termine “leggenda”, dal latino medievale legenda (cose da legge-re), indica, nel nostro caso, quel tipo di racconto che presenta un argo-mento “eroico” mescolando realtà, storia e fantasia. La leggenda, pre-sentando modelli di comportamento e regole morali, è finalizzata a de-lineare l’identità di un popolo, o ad esaltare e a radicare in ogni suomembro i legami della comune appartenenza.

Al pari del mito, col quale condivide molti aspetti, la leggenda ha unsignificato simbolico che, andando al di là del semplice fatto narrato,cerca di individuare l’origine e il perché della formazione di una socie-tà organizzata o di un suo tratto assolutamente peculiare.

Sull’esempio delle grandi leggende che riguardano i popoli, ogni co-munità urbana ha costruito la sua leggenda, che per lo più ha l’intento dipresentare un suo preciso modo d’essere. Spesso, soprattutto in Italiameridionale, queste leggende, attribuendo agli abitanti di una città unalto grado di astuzia, hanno un intento ironico verso gli abitanti dei cen-tri confinanti, che finiscono sempre col fare la figura degli allocchi.

A questo genere di leggende appartengono sia Tóire freute, ca u ciucceróite, che attribuisce ai Modugnesi la “virtù” di raggirare gli abitantidei centri vicini e di volgere a proprio vantaggio persino una calamità,sia La *zite de Vetònde, che presenta da un lato i Bitontini incapaci diusare la propria testa, dall’altro i Modugnesi come persone argute e abi-tuate ad individuare prontamente soluzioni ad ogni situazione concreta.

Di diversa natura, invece, è U móneche de Medugne che, mescolandorealtà e fantasia, dà dell’origine del menhir della statale 98 una inter-pretazione del tutto originale.

Non so se una leggenda, come afferma qualche studioso, “non è poicosì lontana dalla verità”; certamente, però, essa conserva nel tempotutto il suo fascino all’interno di una comunità.

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(R.M.)

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Tanto tempo fa, a Modugno siprodusse molto vino. Però, dalmomento che l’uva era moltomarcia, tutto il vino divenne aci-dulo.

Allora, i Modugnesi pensaronodi organizzare una grande festa e,per fare venire molta gente, disse-ro che due fratelli, che poi erano ipiù scemi del paese, dovevano ti-rare l’asino sul campanile.

Mandarono a Bitonto, Bitetto,Bitritto, Grumo e in altri paesi moltibanditori che con trombe e tamburidicevano che a Modugno doveva es-serci una festa grande e che alla finedella festa un asino doveva essere ti-rato sul campanile da due fratelli.

La gente che venne quella voltaa Modugno non si può dire: uo-mini, donne e bambini vennero datanti paesi per vedere come dove-vano fare i Modugnesi a tirare l’asi-no sul campanile.

Intanto, tutti i forestieri beve-vano e bevevano il vino spuntato

TÓIRE FREUTE CA U CIUCCE RÓITE(Tira fratello che l’asino ride)

Tanda tjembe feue, a Medugnefacèrene tanda mmìerre. Però, domoménde ca l’ajeue jàive mequeutebuénarjedde, u mmìerre devendeuesùbbete acetizze.

Allóre, le Medegnóise penzòrenede feue ’na fésta granna granne, e peffà menóje tanda ggénde, decèreneca du freute, ca peue jèvene le chiùsceime de Medugne, avèvena treueu ciucce sóp’o cambaneule.

Mannòrene a Vetònde, Vetétte, Ve-tritte, Gréume e all’alde paióise tandascjettabbanne ca che le tròmbe e che letammurre decèvene ca a Medugneavàiva steue ’na fésta granne e ca a lafóine de la féste u ciucce avàiva jéssetreute sóp’o cambaneule da du freute.

La ggénde ca menèrene chèddavólde a Medugne nan ze peute dói-sce: jómmene, fèmmene e meninnemenèrene da tanda paióise pe vedajecóme avèvane feue le Medegnóise attreue u ciucce sóp’o cambaneule.

Indande, tutte le frastierre be-vèvene e bevèvene u mmìerre acetiz-

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che si vendeva in ogni parte, e so-prattutto in Piazza Sedile.

Quando il vino finì, fecero usci-re i due fratelli, che erano tutti edue scemi, ma uno era grosso e for-te, e l’altro era mingherlino.

Il fratello forte, che fece vede-re a tutti che sorta di braccia ave-va, andò sopra al campanile e get-tò giù una grossa fune; il fratellomingherlino, invece, portò l’asi-no sotto al campanile, gli mise lacorda intorno al collo, fece un belnodo, incominciò a pungerlo, adargli mazzate con la frusta, e glidiceva di salire muro muro sulcampanile.

Da sopra, il fesso grosso tirava etirava con tutte le forze che aveva;da sotto, il fesso mingherlino pun-geva, spingeva e menava frustatecome una saetta.

Tanto fecero quei due, chel’asino si sollevò un poco da terrae, dal momento che la corda glistringeva la gola, aprì la bocca eincominciò a fare il suo verso: «I-hò! I-hò! I-hò!...». Il fesso mingher-lino, tutto felice, gridava: «Tirafratello, che l’asino ride».

La gente, che già rideva, a sen-tire queste parole, si pisciava sotto.

Quei due ancora di più si dava-no da fare: quello tirava e tirava contutta la sua forza da sopra al cam-

ze ca se vennàive a ttutte le vanne, e’mbróime ’mbróime mménze o Ségge.

Aqquanne u mmìerre fernóje,facèrene assóje le du freute, ca jèvenetutt’e ddéue sceime, ma jéune jàive grés-se e ffórte, e u ualde jàive menetjedde.

U freute fórte, ca facióje vedaje attutte ce ssórte de vrazze ca tenàive,scióje sóp’o cambaneule e scetteue ab-basce ’na *zauca gróssa grósse; u freu-te menetjedde, invéce, perteue u ciuccesòtt’o cambaneule, ’nge mettóje la*zauche atturne o cuédde, ’nge faciójene bbèlle néute, acchemenzeue appòngeue e ddange mazzeute cuschcrejeute, e ’nge deciàive de ’nghia-neue méure méure sóp’o cambaneule.

Da saupe, u fésse grésse tràive ettràive che ttutte la fórze ca tenài-ve; da sòtte, u fésse menetjedde pen-giàive, spengiàive e ammenàivemazzeute cóme a ’na saiétte.

Tande facèrene chidd’e ddéue, cau ciucce s’alzeue ’ne picche da ’ndèrree dò moménde ca la *zauche ’nge stren-giàive ’nganne, apróje la vócche, as-sóje le dìende, e acchemenzeue a ffeueu vèrse séue: «I-hò! I-hò! I-hò!...». Ufésse menetjedde, tutte prescéute, gre-deue: «Tóire freute, ca u ciucce róite».

La ggénde, ca ggià redàive, a sen-dóje chisse pareule, se pesciàive sòtte.

Chidd’e ddéue angheure de cchiéuese dàvene da feue: cudde tràive e ttrài-ve che ttutte la fórza saue da saupe o

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panile; quell’altro spingeva, pun-geva e colpiva con la frusta quellapovera bestia, gridando sempre«Tira fratello, che l’asino ride».

E tanto fecero, che l’asino morìsoffocato; però i due scemi non sene accorsero per niente, e diceva-no sempre che l’asino rideva.

Non vi dico quello che accaddequando il fratello grande con unultimo sforzo riuscì a tirare l’asinosul campanile.

E così la festa finì, e tutti, i pro-prietari di Modugno, i due fratelliscemi e i forestieri, se ne andaronocontenti alle case loro.

* * *

Tóire freute, ca u ciucce róite rientra nel novero di quelle leggendeciviche che, tramite la narrazione di un fatto totalmente falso, o soloparzialmente vero, intendono rappresentare la natura, le capacità e lospirito degli abitanti di un centro urbano. Su questa antica leggenda,anch’essa presentata nel dialetto “du sóine e nnaune”, sono sempre cir-colate due interpretazioni.

Della prima sono stati autori gli abitanti dei paesi limitrofi, che hannovoluto mettere in evidenza quanta stupidità regnasse (regni?) in Modu-gno: sino a qualche decennio fa, non era difficile, infatti, che ad un Mo-dugnese venisse ricordata con evidente intento ironico l’espressione “Tóirefreute, ca u ciucce róite”. Naturalmente, i detrattori forestieri della cosid-detta modugnesità tacciono del tutto sul vino aceto che sarebbe finitonello stomaco dei loro antenati, e si limitano a dire che i Modugnesi, perfare qualcosa di originale, come già facevano gli abitanti degli altri centri,si proposero seriamente di tirare un asino sul campanile.

Della seconda interpretazione, sono autori i Modugnesi che, invece,hanno voluto porre in risalto quanta e quale astuzia regnasse (regni?)

cambaneule; cudd’alde spengiàive,pengiàive e ammenàive u schcrjeute acchèdda póvera frùsceque, gredannesémbe «Tóire freute, ca u ciucce róite».

E ttande facèrene, ca u ciucce me-róje strafequeute; però le du sceimenan ze n’avvertèrene pendutte, e de-cèvene sémbe ca u ciucce redàive.

Nan ve digghe cèrrabbe seccedójeaqquanne u freute grésse che ’nn’ùl-deme sfórze rjescióje a ttreue u ciuc-ce sóp’o cambaneule.

E adaccheseje la féste fernóje, ettutte, le pròpriètarje de Medugne, ledu freute sceime e le frastìerre, se nescèrene chendénde a le càsere leure.

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Antonio Longo: Tóire freute, ca u ciucce róite (Giugno 1989)

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nella città: la festa e il sollevamento dell’asino sarebbero stati solo deipretesti per far affluire la gente in piazza. In realtà, la festa potè contaresu un’accorta regia, alla quale si sottomisero ben volentieri i due grullidel paese, perché ci si sbarazzasse del tanto vino spuntato, ottenuto daun abbondante raccolto di uva acida.

Secondo questa interpretazione, l’asino fu tirato sul campanile solodopo che tutto il vino fu consumato dalla folla dei forestieri che, essi sìstupidi, con la loro insana eccitazione permisero l’attuazione di un dise-gno scaltro e vantaggioso per i soli proprietari modugnesi.

Ma, al di là di queste due partigiane interpretazioni, nell’editoriale delN. 3 del 1989, utilizzando la leggenda Tóire freute, ca u ciucce róite, neavanzavo quasi per gioco una terza, grazie alla quale forse si potrebbecapire qualcosa intorno alle «fortune» politiche della città di Modugno.

Mi limito a riproporre quel testo, togliendo solo le sigle dei partiti cheallora alimentavano la tormentata vita politica modugnese e sintetizzan-dolo in qualche sua parte. Il lettore, poi, deciderà sulla bontà e sull’even-tuale attualità di quelle considerazioni, fatte esattamente 20 anni fa.

“In questi anni sono state numerose, e sempre di breve durata, leAmministrazioni che si sono succedute a Palazzo Santa Croce; vi è stataanche una maggioranza di programma che, però, è naufragata nel mag-gio del 1989. Dunque, a Modugno sono state sperimentate tutte leformule politiche, persino una maggioranza di programma che metteinsieme partiti dichiarati incompatibili dai loro leader nazionali; ciono-nostante, la paralisi amministrativa e la confusione consigliare non sonostate rimosse, anzi si sono acuite col passare del tempo, ed oggi sono adun punto di non ritorno.

Ecco che, in riferimento alla dinamica politica così come essa si espri-me nella città, la terza interpretazione della leggenda si presenta da sé.

I due fratelli grulli, quello più forte e quello più mingherlino, sareb-bero rispettivamente la maggioranza e l’opposizione, che di volta involta i diversi partiti formano e disformano. In particolare, la coalizionedella maggioranza, indipendentemente dal colore politico, è buona se-guace del grullo più forte: si piazza alla sommità di Palazzo Santa Cro-ce, ostenta un semplice potere muscolare, ed infine, evitando ogni sfor-zo cerebrale, tira e tira perché l’asino rida e con l’asino rida tutto il

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popolo. L’opposizione, anche qui indipendentemente dal colore politi-co, segue felicemente la scia tracciata dal grullo più mingherlino: sipianta ai piedi di Palazzo Santa Croce, dà fondo platealmente al suo«eroico furore», ed infine spinge, punzecchia e picchia non la maggio-ranza, ma l’asino, perché si dica che il povero animale – e con esso tuttoil popolo – ride per l’incalzare della sua azione.

L’asino, invece, starebbe per la cosa pubblica, ovvero l’insieme degliinteressi della città, sempre mortificati ed uccisi dall’opposto ma com-plementare tirare della maggioranza e dell’opposizione.

E la folla, così numerosa e festosa nella leggenda? Ma è chiaro: saremmotutti noi, che non solo consegniamo la città ai due incoscienti fratelli, mache assistiamo compiaciuti ed ilari alle feste che di volta in volta si orga-nizzano, accontentandoci di bere un misero bicchiere di vino spuntato.

A questo punto, alla nostra interpretazione, che ha individuato glispettatori (la folla) e i protagonisti (i due fratelli), manca l’ultimo e ilpiù decisivo dei tasselli: la regia.

Già, chi sono i registi di questa festa continua che a Modugno dura dasempre? Non i due fratelli, che per la loro grulleria sono certamente inca-paci di concepire coerenti piani di regia; non la folla, che, disinteressata epassiva, accorre ad ogni festa. Ed allora? Allora, sarà necessario attribuire lapaternità della regia a soggetti che non sono visibili direttamente nella leg-genda. E così, come nei vecchi tempi i ricchi proprietari modugnesi utiliz-zavano i due grulli, l’asino e la folla per i loro affari, anche oggi vi sonogruppi esterni al consiglio comunale che alimentano e controllano la liti-giosità dei politici, ed intanto essi, stimati, rispettati ed onorati, vendono,comprano, smerciano. Se si facesse un reale censimento delle proprietà,con molta probabilità scopriremmo che mai come oggi tanta ricchezza dellacittà si è venuta concentrando nelle mani di pochi gruppi, o di poche per-sone, grazie alla fiorente compravendita di immobili di questi ultimi anni.

Ecco, allora, che l’antica leggenda dell’asino sul campanile si ripeteancora oggi con tutta la sua drammaticità, e tutti i Modugnesi, indi-pendentemente dal loro far parte della folla, della schiera dei grulli o diquella opulenta dei ricchi proprietari, possono vantarsi di essere rimastifedeli alle loro radici”.

Raffaele Macina

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C’era una volta a Modugno e c’eraun monaco che era assai avaro.

Questo monaco era padrone ditante terre che si era comprato conpochi soldi dalla Chiesa Madre equeste terre erano state lasciate allachiesa dai buoni cristiani perché glifossero dette tante messe per an-dare in paradiso.

Queste terre il monaco le davaa tanti poveri ad un fitto così caroche finiva di scorlticarli.

Anche il fondo in cui ora sta quel-la pietra che gli studiosi chiamano‘menhir’, era del monaco di Modu-gno; quella pietra, però, non ci stavaancora quando un giovane e una gio-vane di Modugno, che si volevanomolto bene, se ne scapparono.

I padri dei due fidanzati non livolevano aiutare, e allora i due gio-vani andarono dal monaco per ave-re lavoro.

Il monaco disse loro: «Vi possodare quel fondo (che era, poi, quel-lo in cui ora sta la pietra), ma voi,

U MÓNECHE DE MEDUGNE(Il Monaco di Modugno)

Jére ’na vólde e jére a Medugne’ne móneche ca jéve *zurre assà.

Cusse móneche jére patrune detanda tèrre ca s’avéve accattate cheppicche terrise da la Chiésa Madre,e cchisse tèrre jèvene state allassatea la chiése da le bbuéne crestienepe jésse ditte tanda mèsse pe scì oparavise.

Chisse tèrre u móneche le déve attanda poverjedde a ’ne fitte adac-chesé ccare ca fernéve de schertecalle.

Pure u léche adó mó stà chèddapéte ca le steddiuse chiàmene‘menhir’, jére du móneche de Medu-gne. Chèdda péte, però, nan ge stéveangóre aqquanne ’ne uagnóne e ’napecceuèdde de Medugne, ca se velève-ne bbéne assà, se n’ascennèrene.

L’attàndere de le du *zètere nanle velèvene ajetaje, e allóre le duggiùvene scèrene do móneche p’avéu fatì.

U móneche ’nge disse: «Ve pózze-che dà cudde léche (ca jére, po’, cud-de adó mó stà la péte), ma vu, ce ga-

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che garanzia mi potete dare? Io soche i vostri padri vi sono contra-ri... Possiamo fare così: se voletequel fondo, mi dovete dare il dop-pio del raccolto che mi spetta».

I poveri fidanzati, e che cosa po-tevano dire? Per non trovarsi in mez-zo a una strada, presero il fondo e simisero a lavorare come due asini.Lavoravano e lavoravano notte egiorno e, quando avevano un mo-mento libero, si mettevano sotto unalbero d’ulivo e facevano l’amore.

Ecosì per il molto lavoro e per iltroppo amore deperivano giornoper giorno. Dopo un po’ di tem-po, una brutta mattina due conta-dini di lì vicino li trovarono mortisotto quell’albero di ulivo.

La notizia si diffuse dappertut-to, e tanta gente andò a guardare ipoveri fidanzati, che stavano ab-bracciati stretti stretti sotto l’albe-ro di olivo. Tutti quelli che anda-vano restavano zitti zitti a guarda-re i due poveri fidanzati.

Il fatto arrivò alle orecchie delmonaco, che subito si fece porta-re là.

Vide tanta gente nel fondo, e al-lora si fermò ai confini e cominciò adire tutto arrabbiato: «E ora, chi mideve pagare? E ora, chi mi deve pa-gare?». E il brutto era che ripetevasempre queste parole, gridando

ranzì me petite dà? Jì sàcceche cal’attàndere véste ve sò condrarje... Pe-time fà adacchesé: ce velite cudde lé-che, m’avita dà u dduppje de la rac-cólde ca me spétte».

Le pòvere *zètere, e cèrrabbe pe-tèvene disce? Pe nan acchiarsemménz’a ’na strate, pegghiòrene u lé-che e se mettèrene a fateià cóm’a duciucce. Fateiàvene e fateiàvene nót-te e ddì, e aqquanne tenèvene nememénde lìbere, se mettèvene sòttea ’nn’arve d’auì e facèvene l’amóre.

E adacchesé, pe la tanda fatichee pu tròpp’amóre, deperèvene dì peddì. Dópe ’ne picche de tjembe, ’nabbrutta matine, du *zappature dedà ’nnanze l’acchiòrene muèrte sòt-te a cudd’arve d’auì.

La netizzje se sparnezzà a ttuttele vanne, e ttanda ggénde scèrene adacchiamendà le du pòvere *zèteremuèrte, ca stèvene abbrazzate strittestritte sòtte o uarve d’auì. Tutte chid-de ca scèvene remanèvene citte cittea chiamendà le du pòvere *zètere.

U fatte arrevà pure a le rècchjedu móneche, ca sùbete sùbete se facìpertà ddà.

Vedì tanda ggénde jinde o léche, eallóre s’affermà a le chembine e ac-chemenzà a ddisce tutte arrabbiete:«E mmó, ce m’avà paià? E mmó, cem’avà paià?». E u bbrutte jéve ca re-petéve sémbe chisse paróle, gredanne

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Mimmo Ventrella: U móneche de Medugne (Maggio 1980)

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Questa leggenda, di cui le insegnanti Anna Di Ciaula e Maria PiaCorrado mi fecero conoscere una versione più semplice, pubblicataperaltro su La Gazzetta del Mezzogiorno, alla fine degli anni Settantaera ancora presente nella cultura popolare modugnese, tanto che poi lariascoltai e la registrai in una versione più articolata dalla viva voce diun anziano contadino.

sempre di più senza guardare perniente quei due poveri fidanzati.

La gente, che stava vicino ai duegiovani morti per il molto lavoro eper il troppo amore, si avvicinò almonaco, e con gli occhi di pianto epieni di rabbia gli disse: «Pezzo dianimale, tu sei stato la causa dellamorte di questi due poveri fidanza-ti, e ora ti metti a pensare ai soldi?Tu sei proprio un brutto avaro edhai veramente il cuore di pietra».

E dicendo così, lo presero a col-pi di pietra: tutti quelli che stava-no 1à, bambini, donne, e uomini,prendevano pietre da terra e legettavano contro il monaco.

Che meraviglia! Quel monaco,che già aveva il cuore di pietra, pernon sentire dolore e per non senti-re le urla della gente, prima si ran-nicchiò tutto, e poi diventò tuttodi pietra e così rimase per sempre.

Per questo fatto, ancora oggi lovediamo con la testa nel collo eammaccato da tutte le parti.

* * *

sémbe de cchiù, sénz’acchiamendàpendutte chidd’e ddu pòvere *zètere.

La ggénde, ca stéve vecine a le duggiùvene muèrte pe la tanda fatije epu tròpp’amóre, s’avvecenà o móne-che, e che ll’écchje de chiande e cchji-ne de rabbje ’nge decì: «Ué piézzed’animale, e ttu sì state la cause dela mórte de chiss’e du pòvere *zètere,e mmó te mitte a penzà a le sólde?Tu sì ppróprje ’ne bbrutte *zerrónee tjenne adavére u córe de péte».

E decénne adacchesé, u pegghiòre-ne a mazzate de péte tutte chidde castévene ddà, meninne, fèmmene e jó-mene: pegghiàvene péte da ’ndèrre e’nge l’ammenàvene o móneche.

Ce maravigghje! Cudde móneche,ca tenéve già u córe de péte, pe nanzendì delóre e pe nan zendì le gritede la ggénde, apprime se rannecchiàtutte, e ppo’ devendà tutte de péte eremanì adacchesé pe ssémbe.

Pe ccusse fatte, angóre jósce u ve-dime che la cape jind’o cuédde eammaccate da tutte le vanne.

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È difficile datare questa leggenda, ma certamente essa riflette unaprecisa realtà storica, quando la Chiesa locale, i monasteri e le congre-gazioni religiose presenti nella città controllavano qui a Modugno mol-ta parte della terra, e i lasciti alla Chiesa erano molto diffusi.

Numerosi sono i documenti del ’500, ’600 e ’700 che parlano deilasciti ad una istituzione religiosa da parte di nobili, civili e benestanti e,in misura minore, anche di persone di condizione più umile. Il piùdelle volte accadeva che una persona senza eredi donasse tutta o partedella sua proprietà in cambio della celebrazione di messe in suffragiodella sua anima, che sacerdoti e monaci si impegnavano ad officiare perun lungo periodo di tempo, o addirittura per sempre. Non mancanolasciti, sia pure di numero assai inferiore, determinati dalla volontà diaffidare dei beni alla Chiesa perché questa si facesse promotrice di ope-re di beneficenza e di assistenza.

La mentalità popolare, con questa leggenda, interpreta questi lasciticome strumenti per l’arricchimento del clero, i cui componenti si ap-propriano di fatto delle terre lasciate « da le bbuéne crestiane», gestendolecon una logica di puro profitto personale, e non con pietà cristiana, comeappunto fa il monaco.

L’avarizia e l’ingordigia del monaco vengono più volte sottolineate;al proposito, l’uso dei termini dialettali *zurre e *zerróne, non traduci-bili direttamente nella lingua italiana, non alludono soltanto all’avari-zia, ma anche ad un animo volgare, impastato di ignoranza e di man-canza assoluta di solidarietà verso gli altri. Il tema dell’avarizia di unreligioso, comunque, è assai presente nella cultura popolare italiana, ead esso si ispira anche la favola-leggenda L’àneme de padre Frangèsche,qui pubblicata a p. 56.

Sono soprattutto i monaci ad essere presi di mira da queste “storie”,poiché, soprattutto nel Regno di Napoli, i conventi e i monasteri didiversi ordini religiosi non solo concentravano nelle loro mani ragguar-devoli beni rurali ed urbani, ma spesso costituivano dei gruppi chiusiche, a differenza dei rappresentanti del clero secolare, avevano scarsilegami e rapporti con la comunità cittadina.

Alla figura fredda del monaco si oppongono i due fidanzati: giovanisemplici e disposti ad accettate le dure condizioni del contratto di affit-

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to, pur di realizzare il loro progetto di vita, che nessuno è disposto asostenere.

Evidente, qui, la condizione del tutto subalterna dei giovani, che èun topos della cultura popolare, e che, per quanto riguarda quella mo-dugnese, è presente anche nel canto Mó se ne véne jidde o passe o passe.

Nella famiglia contadina sono i padri a decidere tutto, anche con chi ecome i loro figli si sarebbero sposati. D’altronde, sino alla prima metàdell’Ottocento, il matrimonio di fatto si ufficializzava davanti ad un nota-io, che compilava l’apposito contratto nel quale erano specificate le dotiche i due padri assicuravano rispettivamente ai loro due figli.

Durissimo era il comportamento di un padre davanti a quel figlioche non seguiva la sua volontà: non mancava persino chi giungeva adisconoscere e a diseredare un figlio “ribelle”. Ovviamente, in una so-cietà patriarcale, quale è quella contadina, questo era di fatto l’unicocomportamento possibile, poiché solo esso riceveva consenso e apprez-zamento da parte della comunità cittadina, per cui sottrarsi ad esso com-portava la disistima sociale.

E, in effetti, nella nostra leggenda i due giovani fidanzati sono lascia-ti tragicamente soli e nessuno, sino alla loro morte, sembra accorgersi diessi o è capace di un atto di solidarietà. La “gente”, infatti, accorre lì suquel fondo e manifesta pubblicamente attenzione per i due giovanisolo quando non c’è più nulla da fare.

Naturalmente, davanti alla tragedia, la folla si commuove e sembraquasi impotente, sospesa e paralizzata, per cui tutti stanno lì senza paro-le davanti ai due giovani abbracciati stretti stretti anche nella morte. Ariportarla alla realtà è il cinismo del monaco che, noncurante della tra-gedia, e quasi disperato, grida: «E mmó, ce m’avà paià?».

Tutte le menti della folla sono prese da un unico impeto: punire ilmonaco e lapidarlo, così come era previsto dalle leggi di molti popoliantichi per delitti di particolare gravità. Così, sia pure a livello di pura esemplice fantasia, tutti si liberano di questo monaco usuraio, punendo-lo con una delle più atroci e terribili condanne. L’immaginazione po-polare qui arriva al massimo della sua creatività: il monaco, che già ave-va il cuore di “pietra”, si trasforma completamente in pietra per nonessere intaccato dai colpi della folla.

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Ecco allora che la cultura popolare modugnese aveva già risolto conquesta leggenda la complessa interpretazione del menhir, sul quale an-cora oggi circolano diverse versioni, alcune delle quali certamente stra-vaganti.

È noto, infatti, come il menhir, che è una lunga pietra appena sgros-sata infissa verticalmente nel terreno, sia interpretato da alcuni comeun monumento preistorico, forse funerario, da altri addirittura comeuna divinità antica. In realtà, dagli studiosi più accreditati i menhir sonointerpretati come segni di delimitazione di confini risalenti alla centu-riazione romana.

Il menhir, un po’ dappertutto in Europa, viene indicato anche coltermine “monaco”, poiché solitamente i menhir si trovano da soli inluoghi non frequentati, e richiamano con la loro figura l’atteggiamentodi preghiera e di distacco da ciò che li circonda. In questo senso, unmenhir richiama gli atteggiamenti del monaco eremita che vive in soli-tudine pregando e disdegnando ogni rapporto col mondo.

Come spesso accade, una produzione della cultura popolare attingeelementi ed aspetti della cultura ufficiale, ma li interpreta secondo lasensibilità e la storia di una specifica comunità. Questo è vero ancheper la leggenda U móneche de Medugne, che da un lato denomina “mo-naco” il più importante menhir del suo territorio, dall’altro ne spiega lanatura e la formazione con la precisa condizione storica, sociale ed eco-nomica della città.

Raffaele Macina

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Jére ’na vólde e jére la dì du spòn-zalizzje de ’na bbédda pecceuèddede Vetònde.

La ggénde, parjende e amisce,scèvene e menèvene da la case pe vedéla *zite.

U uattane de la pecceuèdde jérericche, ma nóne de pènne. La mam-me scéve atturne atturne a la figghjep’ajetarle a vestirse che la biangarìabbóne ca ’ngi avév’accattate: ’ngestrengéve u bbuste pe farla paré chiùmmazze e ddrètte, ’nge mettéve uvéle e le fiure ’ngape, ajetate da lasarte e da la chembagna chiù strèn-de de la figghje.

Po’, che ’ngòcch’e llarme all’écchje,decéve: «Atténde, figghje, addrìzze-te, statte tàise! Tàise, figghje, me rac-còmande! Tàise, acchesé pare chiùjèrte, chiù ’mbónénde. Nan de sìchjecanne; tàise, figghje!

Dópe ca la fernì de vestì, decì:– «Ce pare bbédde chèssa figghia

maje! Meh, tàise, figghje!».Dópe ca la *zite jére prònde, ar-

C’era una volta e c’era il giornodello sposalizio di una bella ragaz-za di Bitonto.

La gente, parenti e amici, anda-vano e venivano dalla casa per ve-dere la sposa.

Il padre della ragazza era ric-co, ma non istruito. La mammagirava intorno alla figlia per aiu-tarla a vestirsi con la biancheriabuona che le aveva comprato: lestringeva il busto per farla sembra-re più magra e dritta, le mettevail velo e i fiori sui capelli, aiutatadalla sarta e dall’amica più caradella figlia.

Poi, con qualche lacrima agliocchi, diceva: «Attenta, figlia, rad-drizzati, stai tesa! Tesa, figlia, miraccomando! Tesa, così sembri piùalta, più imponente. Non ti piega-re; dritta, figlia!».

Dopo che finì di vestirla, disse:– «Come sembra bella questa fi-

glia mia! Beh, dritta, figlia!».Dopo che la sposa fu pronta, ar-

LA *ZITE DE VETÒNDE(La sposa di Bitonto)

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revòrene le chembare de féte, peccèu chembare jére jidde ca pertéve la*zite o bbracce a la chiése. La mam-me passò u resóglje a cchidde castèvene e ppo’, a ccòcchje a ccòcchje,se mettèrene tutte june dréte all’al-de pe scì a la chiése.

Pèrò, arrevate ’nnanz’a la chié-se, u chembare se n’avvertì sùbeteca la pórte jére chiù vvasce de la*zite e, pe cchèsse, cóm’avéva fà atrasì?

Acchemenzà sùbete u murmurremménze a le ’mbetate, e ògn’e duneveléve dà u chenziglje sù.

– «Tagghiàmenge la chèupe!».– «No tutte la chèupe, tagghià-

menge ’ne pezzétte!».– «Nóne la chèupe, tagghiàmen-

ge re pìete!».U *zite, tanne, tutte arrabbiate,

decì: «Ma jì nan vógghje ’na *zitesénza chèupe o sénza pìete!».

La mamme, tutta desperate, s’av-vecenà a la figghje e decì: «Madónnamaje, cóm’ama feue! Figghia maie,cóm’ama feue! Figghia maje, cióinete vóle tagghià re pìete, cióine te vóletagghià la chèupe. Naune, naune allafigghia maje. Statte citte, figghje, nanzi chiangénne, nan zi pegghiannepaghéure. La Madónne n’av’aiuteue.Indande, tàise, figghje!».

Tutte ’nnanz’a la chiése parlàve-ne, s’acchiamendàvene e tenèvene la

rivarono i compari d’anello, perchéera il compare che accompagnavaal suo braccio la sposa in chiesa. Lamamma offrì il rosolio a tutti quelliche stavano e poi, a coppia a cop-pia, si misero tutti una dopo l’altraper andare alla chiesa.

Però, arrivati davanti alla chie-sa, il compare si accorse subito chela porta era più bassa della sposae, perciò, come doveva fare ad en-trare?

Cominciò subito il mormoriotra gli invitati, e ognuno volevadare il suo consiglio.

«Come dobbiamo fare?».«Tagliamole la testa!».«Non tutta la testa, tagliamole

un pezzetto!».«No la testa, tagliamole i piedi!».Lo sposo, allora, tutto arrabbia-

to, disse: «Ma io non voglio unasposa senza testa o senza piedi!».

La mamma, tutta disperata,s’avvicinò alla figlia e disse: «Ma-donna mia, come dobbiamo fare!Figlia mia, come dobbiamo fare!Figlia mia, chi ti vuole tagliare i pie-di, chi ti vuole tagliare la testa. No,no alla figlia mia. Stai zitta, figlia,non piangere, non avere paura. LaMadonna ci deve aiutare. Intan-to, stai tesa, figlia!».

Tutti, sul sagrato della chiesa,parlavano, si guardavano e aveva-

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facce de la bbile, peccè nesciunesapéve cóme s’avév’acchià la drètte.

Tutte ’na vólde, s’acchiò a passàda ddà ’mbà Cicce de Medugne,june de fóre de Medugne, ca tutte de-cèvene ca jére n’ómene gedezziuse, casapéve dà le chenziglje ggiuste, cómea tutte le Medegnise. U chiamòrenee ’nge decèrene u fatte pe sapécóm’avèvena fà.

’Mbà Cicce che ll’écchje facì aca-pì ca jèrene tutte scìeme e po’ decì:

– «Ma vìue a Vetònde sóite tuttemmàmbere, mmàmbere fórte! Sapói-te fà re chiése, re palazze, ma du ré-ste nan gapescióite próprje nudde!Ma cóme jé: velóite tagghià re pìete,la chèupe a cchèssa bbèdda figghje!E ppóue ci’avà remanaje? Ma sóiteadaveire mmàmbere!».

Allóre ’mbà Cicce s’avvecenòsùbbete a la *zite, ca, pure ce stévea cchiange, stéve sémbe tésa tése,cóme ’ngi avéve ditte la mamme,’nge mettì la mane sóp’a la spaddee, spengénne ’ne picche, ’nge decì:«Tìue nan zi stanne drètte cóm’a’na lliaune! Abbasce la chèupe,chjìche re spadde, abbàscete, e ttreu-se. Treuse! Treuse!».

E ttutte abbattèrene le mane ouómene gedezziuse de Medugne caavéve acchiàte la drètte ca nanavèvene sapute acchià lóre, pure cejèvene tanda ggénde.

no il viso preoccupato, perché nes-suno sapeva come rimediare.

Ad un tratto, si trovò a passare dilà ’mbà Cicce di Modugno, uno dicampagna di Modugno, che tutti di-cevano fosse un uomo giudizioso,che sapeva dare i consigli giusti, cometutti i Modugnesi. Lo chiamarono egli raccontarono il fatto per saperecome dovevano fare.

’Mbà Cicce con gli occhi fece ca-pire che erano tutti scemi e poi dis-se: «Ma voi a Bitonto siete tutti sce-mi, ma scemi forte! Sapete costru-ire le chiese, i palazzi, ma per tuttoil resto non capite proprio niente.Ma com’è: volete tagliare i piedi,la testa a questa bella giovane! E poiche cosa rimarrà? Ma siete vera-mente stupidi!».

Allora ’mbà Cicce si avvicinò su-bito alla sposa, che, anche se stavapiangendo, si manteneva sempredritta dritta, come le aveva dettola mamma, le mise la mano sullaspalla e, spingendo un po’, disse:«Tu non stare dritta come un pez-zo di legno! Abbassa la testa, pie-ga le spalle, abbassati ed entra.Entra! Entra!».

E tutti batterono le mani all’uo-mo giudizioso di Modugno cheaveva trovato il rimedio che nonavevano saputo trovare loro, anchese erano in tanti.

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Mattia Lacalamita: La *zite de Vetònde (Aprile 2009)

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La storiella ci riporta ai tempi lontani in cui i paesi si arroccavanodentro le loro mura sviluppando una municipalità e una rivalità chesfociavano in certe occasioni o in vere e proprie guerriglie o nell’inven-zione di racconti che avevano il fine di mettere in ridicolo l’abitante delpaese vicino, quasi a mo’ di punizione.

È il caso di Modugno e Bitonto.Quanto all’agricoltura, i due paesi si pareggiavano, in quanto pro-

duttori di olio, mandorle e frutti saporiti. Per ciò che riguardava, inve-ce, la cultura, l’arte e l’artigianato, Bitonto era superiore alla contadinaModugno: la cattedrale, i palazzi imponenti, le scuole d’arte erano ilsuo giusto vanto.

I Modugnesi, senza darlo ad intendere, riconoscevano queste diffe-renze, ma di contro vantavano intelligenza, arguzia, senso umoristico espirito pratico, con cui potevano fronteggiare meglio dei Bitontini si-tuazioni di disagio.

Il rappresentante di queste virtù è ’mbà Cicce de Medugne, che, a mo’di disprezzo, sottolinea la stupidità dei Bitontini con l’appellativolocaledi “mmàmbere”.

Nella storiella si notano due tipi di dialetto, perché essa viene rac-contata in modugnese, in quanto inventata a Modugno; ma i discorsiche sono pronunziati dai Bitontini vengono riportati nel dialetto biton-tino.

Da questa amena storiella, nel 1981, alcune classi della Scuola Me-dia “F. Casavola” realizzarono un film, che vinse il 1° premio nel con-corso internazionale “Ciak d’argento”.

Anna Longo Massarelli

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II

LE FAVOLE

La favola è una “breve narrazione, in prosa o in versi, di cui sono pro-tagonisti, insieme con gli uomini, anche animali, piante o esseri inanima-ti, che racchiude un insegnamento morale” (da Il vocabolario Treccani).

A differenza delle fiabe, che per lo più sono state tramandate sinoall’Ottocento per via orale, le favole hanno avuto sin dall’antichità unagrande tradizione letteraria scritta, alla quale si è ispirata la cultura po-polare.

Per limitarci alla sola tradizione occidentale, bisogna subito dire cheil modello della favola, ancora oggi seguito nelle sue linee essenziali, èstato fissato da Esopo e poi ripreso nel mondo latino da Fedro: al pri-mo, vissuto in Grecia tra la fine del VII e l’inizio del VI secolo a.C.,sono attribuite circa 500 favole, i cui protagonisti sono animali cherappresentano vizi, virtù e sentimenti umani; al secondo, vissuto fra lafine del I secolo a.C. e la prima metà del II secolo d.C. ed entrato a farparte della “famiglia” di Augusto dal quale fu poi liberato, si conserva-no cinque libri per 94 favole con prologhi ed epiloghi che contengonola “morale” della favola.

Nelle favole di Fedro vi è spesso un contrasto fra forze opposte, rappre-sentate da specifici animali, che si risolve nella denuncia o della sopraffa-zione o di un vizio (superbia ed ipocrisia, in particolare), o ancora nellaallegorica sofferenza della vittima che soccombe alla legge del più forte.

Le due favole modugnesi che qui di seguito presentiamo si ispiranomaggiormente alla struttura fedriana: infatti in U jatte, u cueune e usòrche è rappresentata l’eterna conflittualità che regna fra i tre animali,mentre ne La jatta bèrafatte va in scena l’eterna capitolazione del piùdebole, il cui destino è sempre segnato quando si rapporta con ingenuocandore al più forte e astuto.

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(R. M.)

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’Na vólde ’ne jatte, geranne sóp’ale titte de le càsere, vedóje ’ne cueuneca faciàive la uardje a ’ne ciardóine.

«Bbòngiòrne», ’nge decióje u jat-te, «cóme steue?».

«Bueine!», respennóje cudde.«E ccàume te la passe?», adde-

manneje ’n’alda vólde u jatte.«Nan me manghe nudde»,’nge

decióje ’n’alda vólde u cueune. «Upatréune me deue u ppeune, la car-ne e le maccaréune, e jóje sò chen-dénde de fange le servèzzje».

«E ssì chendénde de chèssa vói-te?», demanneue u jatte.

«Sóine», respennóje cudd’alde,«me sénghe d’arrabbjeue aschkitte desteue sémbe attaccheute. Uè farme upiaciàire de ste téue ’ne picche detjembe o póste móje, adacchesé jójeme ne vògghe ’ne picche aggeranne?».

U jatte decióje sóine, e u cueune,próime de se scissirne, ’nge racche-manneue de feue bóna uardje e dejésse ameure che ttutte.

U jatte permettóje.Ma mendre jidde stàive atténde o

Una volta un gatto, girando so-pra i tetti delle case, vide un cane chefaceva la guardia ad un giardino.

«Buongiorno», gli disse il gatto,«come stai?».

«Bene», rispose quello.«E come te la passi? », chiese

un’altra volta il gatto.Non mi manca niente», gli dis-

se un’altra volta il cane. «Il padro-ne mi dà il pane, la carne e i mac-cheroni, e io sono contento di far-gli i servizi».

«E sei contento di questa vita?»,domandò il gatto.

«Sì», rispose quell’altro, «mi sen-to di arrabbiare soltanto di staresempre attaccato. Vuoi farmi il pia-cere di stare tu un poco di tempoal posto mio, così io me ne vadoun poco girando?».

Il gatto disse di sì, e il cane, pri-ma di andarsene, gli raccomandòdi fare buona guardia e di essereamaro con tutti.

Il gatto promise.Ma mentre lui stava attento al

U JATTE, U CUEUNE E U SÒRCHE(Il gatto, il cane e il topo)

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suo servizio, arrivò un pesce che glichiese un grappolo d’uva; il gatto, permantenere la parola, lo mandò via.

Dopo un poco, venne un’altravolta con una cesta piena di pescipiccoli, e gli chiese di nuovo ungrappolo d’uva.

Quando vide la cesta dei pesci,il gatto non ebbe la forza di dire dino al pesce di dargli il grappolo uva.

Quando il cane ritornò e videche l’uva mancava, domandòspiegazione al gatto. Il gatto ri-spose di non saperne nulla, ma untopo, che stava vicino, uscì dalbuco dove stava nascosto e disseogni cosa al cane.

A sentire questa cosa, il gattonon poteva resistere dalla rabbia,e voleva vendicarsi contro il topo;allora non ne potette più: si lanciòsu di lui, che subito si nascoseun’altra volta nel buco.

Da allora questi animali si vo-gliono male.

L’autore di questa significativa favola è un certo Michele Carito, dicui purtroppo non sono riuscito a raccogliere alcuna notizia. Probabil-mente, essa è stata scritta all’inizio del ’900, periodo, questo, che vedeuna copiosa produzione di composizioni dialettali che venivano pub-blicate su numerosi giornali di cultura popolare che si stampavano inPuglia, particolarmente in Terra di Bari.

Di questa favola circolavano sino agli anni Settanta delle copie datti-loscritte, una delle quali mi fu data da Nicola Maggi, un uomo profon-damente radicato nella cultura popolare modugnese.

* * *

servizzje séue, arreveue ’ne pèsce ca ’ngecercheue ’na raspe d’aiéue. U jatte,pe mandenaje la pareule, u manneue.

Dópe ’n’ald’e ppicche, menóje’n’alda vólde u pèsce che ’na cèstachiàine de pisce menunne, e ’nge cer-cheue arreite ’na raspe d’aiéue.

Quanne vedóje la cèste che le pisce,u jatte nan avóje la fórze de dóisce nau-ne o pèsce de dange la raspe de l’aiéue.

Quanne u cueune menóje e vedójeca l’aiéue mangheuve, addemannejeo jatte spiégazziaune. U jatte respen-nóje ca nan ne sapàive nudde; ma’ne sòrche, ca stàive vecióine, assójedo carvutte adó stàive aschennéute edecióje tutte càuse o cueune.

A sendóje chèssa càuse, u jatte nanbetàive resiste da la rabbje e velàivevendecarse còndr’o sòrche. Allórenan ne peté cchiéue: s’ammeneuesóp’a jidde, ca sùbbete s’aschennóje’n’alda vólde jind’o carvutte.

Da tanne, chisse anemeule se vó-lene meule.

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Mimmo Ventrella: U jatte, u cueune e u sòrche (Ottobre 1980)

La favola è assai originale, e potrebbe degnamente reggere il con-fronto con le più famose produzioni di questo genere di Esopo e diFedro: infatti, i suoi protagonisti sono tre animali che rappresentanotipi umani ben precisi, e le vicende narrate intendono proporre unamorale: la morale, come si dice, della favola.

Il cane è la persona rassegnata, ubbidiente, sempre disposta ad ac-cettare il suo stato servile, ad eccezione di qualche momento di rabbia;è contento di servire il proprio padrone, perché pensa che questo sial’unico modo possibile per ottenere « pane, carne e maccheroni».

Il gatto, invece, è la persona libera, randagia, alla ricerca continuadi guadagnarsi da sé il pane con ogni espediente che il caso e la suaintelligenza gli offrono quotidianamente. È la persona difficilmente as-soggettabile a regole e schemi fissi di una vita monotona, e soprattutto

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subalterna agli interessi di un padrone: infatti, non riesce a sostituire nep-pure per poco tempo il cane nel ruolo di guardiano severo. Con questotipo di vita, comunque, il gatto riesce soltanto a procurarsi pesci piccoli.

Il topo, invece, è la persona infida, pronta a spifferare tutto in cam-bio di un tornaconto personale; è simile a quegli individui che, nasco-sti, stanno sempre lì a guardare dalla finestra senza scegliere né la vitadel cane, né quella del gatto, ma sono pronti ad inserirsi fra questi persfruttare a proprio vantaggio ogni vicenda e litigio.

Questi tre animali, pertanto, presentano non soltanto tre tipi umanidiversi, ma anche tre modelli di vita contrastanti, ed è logico che essinon possano andare d’accordo, per cui si «vogliono male».

La società modugnese doveva essere dominata da queste tre figuresociali all’inizio del ’900, se Michele Carito avvertì l’esigenza di rappre-sentarla in questa favola sotto le sembianze di questi tre animali.

La morale della favola è piuttosto chiara: i tre animali, che pure avreb-bero bisogno di mettersi insieme e di allearsi per migliorare la loro con-dizione, “si vogliono male” da sempre, per cui il padrone può dormiresonni tranquilli. Una morale, come si vede, assai attuale.

Infine, la favola è scritta nel dialetto “du sóine e nnàune” che, come ènoto, differenziandosi da quello “du sine e nnóne”, era la lingua – sidiceva – degli zappatori. In realtà, consultando alcuni giornali sui qualisono state pubblicate diverse composizioni dialettali modugnesi e leg-gendo altre produzioni che risalgono alla prima metà del Novecento, sinota che la lingua a cui si ricorre è per lo più quella “du sóine e nnàune”.Forse, la spiegazione è da ricercare nelle caratteristiche della pronunziadel dialetto “du sóine e nnàune”, che, accentuando marcatamente tuttele vocali e soffermandosi su di esse, soprattutto sulla “a” e sulla “o”, su-scita nell’ascoltatore più ilarità e, oserei dire, anche più attenzione.

Probabilmente, si deve a questi due aspetti l’utilizzazione in questa favo-la, da parte di Michele Carito, del dialetto “du sóine e nnàune”.

È forse il caso di aggiungere, infine, che la presenza di due pronun-ce dialettali, quella più gentilizia “du sine e nnóne” e quella più grossola-na “du sóine e nnàune”, è una caratteristica solo di Modugno, poichénon risulta che in altre città vi sia un fenomeno di questo genere, alme-no in forma così rilevante.

Raffaele Macina

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Jére ’na vólde e jére ’na jatte cascéve ògn’e matine a mennà jind’ala chiése. ’Na dì acchià ’na lire’ndèrre e acchemenzà a ddisce:

«Ce m’accàtteche ’na lire d’ami-nue, m’agghia mangià u nuzze e ag-ghia scettà la scórze...

Ce m’accàtteche ’na lire de cera-se, m’agghia mangià u frutte e ag-ghia scettà le nòzzere...

Mó m’accàtteche ’ne cuénze-e-rrusse e nan scétteche nudde, memècche a la fenéstre e m’àcchjeche ’ne*zite!». E acchesé facì.

Se mettì a la fenéstre, passà ’neciucce e decì: «Cóma jatta mé, ce stàbèrafatte stamatine, me ué pe *zzitea mmé?».

«E ccóme shcame la nótte?».«I-hò! I-hò! I-hò!».«Nóne, nóne! Vattinne, vattin-

ne! Ce shcame bbrutte!».La jatte se mettì arréte a la fené-

stre, passà ’ne cuane e decì: «Cómajatta mé, ce stà bèrafatte stamatine:me ué pe *zzite a mmé?».

LA JATTA BÈRAFATTE(La gatta bellafatta)

C’era una volta e c’era una gattache andava ogni mattina a scoparenella chiesa. Un giorno trovò unalira per terra ed incominciò a dire:

«Se mi compro una lira di man-dorle, mi devo mangiare il nòccio-lo e devo gettare la buccia...

Se mi compro una lira di cilie-gie, mi devo mangiare il frutto edevo gettare i nòccioli...

Ora mi compro un rossetto enon getto niente, mi metto alla fi-nestra e mi trovo un fidanzato!». Ecosì fece.

Si mise alla finestra, passò unasino e disse: «Commara gatta mia,come sei bella stamattina, mi vuoiper sposo a me?».

«E come gridi la notte?».«I-hò! I-hò! I-hò».«No, no! Vattene, vattene.

Come gridi male!».La gatta si mise di nuovo alla fi-

nestra, passò un cane e disse: «Com-mara gatta mia, come sei bella sta-mattina, mi vuoi per sposo a me?».

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«E ccóme shcame la nótte?».«Bau! Bau! Bau!».«Nóne, nóne! Vattinne, vattin-

ne! Ce shcame bbrutte!».La jatte se mettì arréte a la fené-

stre, passà ’ne sòrche e decì: «Cómajatta mé, ce stà bèrafatte stamatine:me ué pe *zzite a mmé?».

«E ccóme shcame la nótte?».«Zi! Zi! Zi!».«’Nghiane suse, marite mì,

’nghiane suse, marite mì!».Acchesé la jatte se pegghià u sòrche.La dìa dópe, la jatte avéva scì a

mennà jind’a la chiése, e decì o ma-rite: «Jì vògghe a mennà jind’a lachiése: statte atténde tu o suche sópeo fuéche; ògn’e ttande va’ e aggire, cese nóne s’av’attaccà o tiane!».

U sòrche respennì: «Statte bbó-ne, megghiéra mé! Vattinne chen-dénda chendénde...».

U sòrche ògn’e ttande scéve ’mbacceo fuéche e aggerave u suche, ma u ad-dóre jére acchesé bbèlle ca ’nge scì at-turne la cape e se ne scì jind’o tiane...

Aqquanne la jatte scì a la case,chiamà u marite e nesciune re-spennì; chiamà june, dù, tré vvól-de, e ttanne decì: «Cudde maritemì, se n’à sciute geranne próprjeall’óre de mangià. Ppésce pe jidde;àgghia mangià sóla sóle, peccè meténe fame e u addóre du suche jèbbèlle assà!».

«E come gridi la notte?».«Bau! Bau. Bau!».«No, no! Vattene, vattene.

Come gridi male!».La gatta si mise di nuovo alla fi-

nestra, passò un topo e disse: «Com-mara gatta mia, come sei bella sta-mattina, mi vuoi per sposo a me?».

«E come gridi la notte?».«Zi! Zi! Zi!».«Sali sopra, marito mio, sali so-

pra, marito mio!».E così la gatta si prese il topo.Il giorno dopo la gatta doveva

andare a scopare in chiesa e disseal marito: «Io vado a scopare inchiesa: stai attento tu al ragù sulfuoco; ogni tanto vai e gira, altri-menti si attacca al tegame!».

Il topo rispose: «Statti buona,moglie mia! Vattene contenta con-tenta...».

Il topo ogni tanto andava vici-no al fuoco e girava il ragù, mal’odore era così buono che gli giròla testa e se ne andò nel tegame...

Quando la gatta ritornò a casa,chiamò il marito e nessuno rispo-se; chiamò una, due, tre volte, eallora disse: «Quel marito mio, sene è andato girando proprio al-l’ora di mangiare. Peggio per lui;devo mangiare sola sola perché hofame e l’odore del ragù è buonoassai!».

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* * *

E acchesé la jatte se mangià u su-che cu sòrche ca stéve jinde...

Aqquanne fernì de mangià,decì: «À state bbrave adavére cud-de marite mì: à ffatte u suche pro-prje cóme u veléve jì». Po’ se ne scì addórme...

La sére, aqquanne s’alzà, chiamàarréte u sòrche june, dù, tré vvólde,e fenalménde capescì ca su jére man-giate jind’o suche. Le chiande ca sefacì! Chiangì pe tré ddì, po’ decì:«Ma ce ccólpe ténghe jì ce jidde àstate scéme? Ce stéve chiù atténde, jìnan m’u jére mangiate! U sà mó cete digghe? Mó me mècche arréte ucuénze-e-rrusse, me mècche arréte ala fenéstre e m’àcchjeche ’n’alde *zitechiù ’nziste!». E acchesé facì.

E così la gatta si mangiò il ragùcol topo che stava dentro...

Quando finì di mangiare, dis-se: «È stato bravo davvero quelmarito mio: ha fatto il sugo pro-prio come lo volevo io». Poi se neandò a dormire.

La sera, quando si alzò, chiamòdi nuovo il topo una, due, tre volte,e finalmente capì che se lo era man-giato col sugo. I pianti che si fece!Pianse per tre giorni e per tre notti,poi disse: «Ma che colpa ho io se luiè stato scemo? Se stava più attento,io non me lo sarei mangiato! Lo saiora che ti dico? Ora mi metto dinuovo il rossetto, mi metto di nuo-vo alla finestra e mi trovo un altromarito più furbo». E così fece.

La struttura di questo notissimo testo orale è quella tipica della favo-la: i personaggi sono degli animali che agiscono, ragionano, parlanocome gli uomini; il testo, semplice e breve, contiene a bella posta for-mule ripetitive, la vicenda narrata è esemplare, cioè è funzionale aduna morale più o meno esplicita.

Ricordo che quando questa favola mi veniva raccontata da bambi-na, vivevo sempre con una certa angoscia il momento in cui la jattabèrafatte divora il povero topolino; in seguito, mi sono chiesta spessoche cosa attraverso questa storia si intendesse insegnare. La morale piùevidente è certamente questa: chi si accompagna o si allea con qualcunopiù astuto, o comunque più potente di lui, è destinato a soccombere.

Però ad un’analisi più attenta delle caratteristiche dei personaggi edello svolgersi degli eventi si scoprono cose più interessanti.

Il fatto che il protagonista sia femmina, e per giunta intelligente,

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Mattia Lacalamita: La jatta bèrafatte (Aprile 2009)

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non deve trarre in inganno: non si tratta di un testo femminista antelitteram, semmai è il contrario.

La gattina possiede (apparentemente) tutte le virtù: esegue con reli-giosa assiduità il suo lavoro volontario in un luogo pio, è accorta e previ-dente nel disporre del denaro, è assennata nell’utilizzare la propria im-magine per fini onesti (il matrimonio) e nello scegliere il futuro sposo, ègentile ed affettuosa con lui, infine è sinceramente disperata per la scom-parsa del consorte, almeno per tre giorni. A fronte di questa protagonista,c’è una vera “anima candida”: un povero sorcio, ingenuo, mite e innamo-rato cotto, ma alla fine, vittima predestinata di una moglie tanto disinvoltache non solo lo ha irretito con la sua bellezza e lo ha scelto per sua volontà,ma che, dopo il matrimonio, esce liberamente di casa (sebbene per andarein chiesa) e gli dà con autorevolezza disposizioni circa i lavori domestici.

Alla fine, la vera natura di predatrice della jatta bèrafatte si rivelasenza mezzi termini, ed è come se si dicesse ai destinatari del testo: “At-tenti, signori! Ecco quello che potrebbe accadervi se lasciaste le vostredonne libere di seguire la loro indole che, come ognuno sa, è perversa!Non siate mai così ingenui da fidarvi di una donna!”.

Infatti, è proprio l’ingenuità del topo che provoca la catastrofe e fascoprire alla gatta la sua autentica natura. Ma, mentre per il malcapita-to topolino la partita è definitivamente chiusa, per la crudele e fatalegatta la tragedia apre nuove feconde prospettive. È lei la vincitrice asso-luta, e per lei si intravede un futuro in cui tutte le virtù si trasformeran-no in vizi e l’accadimento casuale (l’aver mangiato il maschio) diventeràun macabro sistema di vita. Orrore!

Unico problema resta la fornitura del mezzo magico: riuscirà ancorala jatta bèrafatte a trovare una lira in chiesa per comprare il cuénze-e-rrusse con cui farsi bella? A proposito, per chi non lo sapesse, il cuénze-e-rrusse (mi ha spiegato la prof.ssa Anna Longo Massarelli) era un belletto,una specie di fard, che le ragazze adoperavano per colorare labbra e guance.

E dunque, se si paragona questo semplice ma, a quanto dice la favola,infallibile strumento di seduzione con tutte le moderne diavolerie dellacosmesi e della chirurgia estetica, viene da pensare a quanta strada hannopercorso le donne nella secolare vocazione di mangiatrici di uomini!

Anna Maria Dilillo

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III

LE NOVELLE

Il Libro di novelle et di bel parlare gientile, comunemente noto coltitolo di Novellino, scritto nell’ultimo decennio del secolo XIII, defini-sce per la prima volta la natura e la finalità della novella: si tratta di unanarratio brevis, destinata ai “cuori gentili e nobili”, con l’intento di di-lettare “con cortesia ed onestade”.

L’intento di dilettare il pubblico conferisce alla novella una naturaassai diversa da quella dei racconti moralistico-religiosi che erano inauge nel Medioevo, e inaugura in Italia la tradizione laica del novellareche, dopo qualche decennio, troverà la sua più alta espressione nel De-cameron di Boccaccio.

Il termine “novella” (dal latino medievale novellus), dunque, indicauna narrazione breve di “cose nuove”; di cose, cioè, che siano “inaudi-te, straordinarie e meravigliose”. A differenza delle fiabe, però, il carat-tere straordinario e meraviglioso della novella non è determinato dal-l’intervento di forze magiche, ma dall’assunzione di personaggi reali e dimomenti di vita quotidiana sui quali si basa la narrazione di una vicenda.

Nella cultura popolare, il genere della novella era assai diffuso, poi-ché tramite essa le classi più umili potevano non solo esercitare unasorta di autoironia sui valori e sui modelli vigenti al loro interno, maanche denunciare la condotta di quanti occupavano i gradi più altidella gerarchia sociale.

Delle sette novelle modugnesi che sono presenti in questa sezione,quattro (U prìngepe e u *zappataure, La stórje du fésse néste, L’àneme depadre Frangèsche, La stórje de le tré ffrate) sono un esercizio di autoironiadelle classi popolari; tre, invece, esprimono critica e denuncia verso ipotenti e i fraudolenti (La stórje de cecerótte, La sarache du sólachianjed-de, U rrè Peluse).

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(R. M.)

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’Na vólde ’ne prìngepe sciàivefacénne ’na passeggieute feure che lacarrózza d’aure. Arreveue a ’ne pun-de adó stàive ’ne *zappataure ca stài-ve a ffeue ’na fósse, peccè avàiva chian-deje ’na cióme de fóiche. U prìngepes’affermeue che la carrózza d’aure edecióje: «Bell’uomo, che stai facendo?».

«La vérità – respennóje cudde –,stògghe a ffeue na fósse pe chiandeje’na cióime de fóiche».

«E l’adà vedaje le fóiche?», adde-manneje angheure u prìngepe».

«Ce càmbeche, l’àgghia vedaje»,respennóje ’n’alda vólde cudde.

Dópe tand’anne, u tarjedde sefacióje grésse, e annecióje dù foiche.U *zappataure pegghjeue le du fói-che e se ne scióje o palazze rieule edecióje a le sendenelle ca jóje jà par-leue cu prìngepe; chidde nan velève-ne e ’nge decèrene de scissirne.

Cudde repetóje ca avàiva parleuea ffórze cu prìngepe, ca ggià u cane-sciàive. Allóre chidde scèrene séuse e’ngiu decèrene o prìngepe. U prìnge-pe allóre jerdeneue: «Fatelo venire».

Una volta un principe andava fa-cendo una passeggiata in campagnacon la carrozza d’oro. Arrivò ad unpunto dove stava uno zappatore chestava facendo una fossa, perché do-veva piantare una cima di fico. Il prin-cipe si fermò con la carrozza d’oro edisse: «Bell’uomo, che stai facendo?».

«La verità, – rispose quello –,sto tacendo una fossa per piantareuna cima di fico».

«E li devi vedere i fichi?», chie-se ancora il principe».

«Se campo, li devo vedere», ri-spose un’altra volta quello.

Dopo tanti anni, il virgulto sifece grosso e portò due fichi. Lozappatore prese i due fichi e se neandò al palazzo reale e disse allesentinelle che io devo parlare colprincipe; quelle non volevano e glidissero di andarsene.

Quello ripetè che doveva parlareper forza col principe, che già lo co-nosceva. Allora quelle andarono sue glielo dissero al principe. Il princi-pe allora ordinò: «Fatelo venire».

U PRÌNGEPE E U *ZAPPATAURE(Il principe e lo zappatore)

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Aqquanne u *zappataure s’ac-chjeue ’nnanze o prìngepe, ’nge de-cióje: «Signor prìngepe, jóje sò ccud-de *zappataure ca stàive a cchian-deue la cióme de fóiche, e vvéue de-cjesteve “U adà vedaje u frutte?”; ejóje respenniebbeche ca ce cambài-ve u avàiva vedaje. E allóre cusse jejeu próime frutte de fóiche».

U prìngepe se ne prescióje, peg-ghjeue na bbèlla vòrse de terróise e’nge la détte che cchisse pareule: «Vea cambeue che la famigghia taue».

Cusse *zappataure, ad avaje chis-se terróise, devendeue ricche. Lechenvecióine, ca se meravegghiàve-ne, ’ngi addemannórene: «E ttéue,come si ffatte a ffarte tanda terróise?

E ccudde respennóje: « Ué sapaje,u fatte jé adaccheseje e adaccheseje».

’Ne chenvecióine ’nge decióje:«Njendedemeine, e ttéue che du fói-che sì avéute tanda terróise, e ffejùr-dete jóje ce ’nge jègneche ’na céèstede chelumme e ’nge la pórteche!».

E adacchesé facióje: scióje o pa-lazze rieule e u stèsse le sendenèlle nou velèvene fe trasóje. Sforzatamén-de, pèrò, u facèrene trasóje che la cè-ste de le chelumme.

Scióje u prìngepe e ’nge decióje:«E cce ste ad abbetteue u puèrche?».

Chiameue le sendenèlle e jerde-neue: «Ammenatangille tutte ’mbac-ce, a stu pjezze de mulacchiaune!».

Quando lo zappatore si trovòdavanti al principe, gli disse: «Si-gnor principe, io sono quello zap-patore che stava piantando la cimadi fico, e voi mi domandaste ‘Lodevi vedere il frutto?’; e io risposiche se campavo lo dovevo vedere.E allora questo è il primo fruttodel fico».

Il principe se ne rallegrò, preseuna bella borsa di soldi e gliela dettecon queste parole: «Vai a camparecon la tua famiglia».

Questo zappatore, ad averequesti soldi, diventò ricco. I convi-cini, che si meravigliavano, gli do-mandarono: «E tu, come hai fattoa farti tanti soldi?».

E quello rispose: «Vuoi sapere,il fatto è così e così».

Un convicino gli disse: «Nien-tedimeno, e tu con due fichi haiavuto tanti soldi, e figurati io segli riempio una cesta di fioroni egliela porto!».

E così fece: andò al palazzo re-ale e lo stesso le sentinelle non lovolevano far entrare. Forzata-mente, però, lo fecero entrarecon la cesta dei fioroni.

Andò il principe e gli disse: «Eche stai a gonfiare il porco?».

Chiamò le sentinelle e ordinò:«Gettateglieli tutti in faccia, a que-sto pezzo di mulacchione!».

(R.M.)

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U prìngepe e u *zappataure si ispira al genere letterario della novel-la. Siamo all’interno di una società agricola, della quale il principe elo zappatore costituiscono rispettivamente il punto più alto e quellopiù basso; evidente è l’accettazione dei ruoli sociali stabiliti, che so-spinge da una parte il principe ad essere benevolo verso chi gli dimo-stra fedeltà e riconoscimento della sua condizione privilegiata, dall’al-tra lo zappatore, del tutto conscio della sua umilissima condizione, aprivarsi persino delle primizie del suo lavoro, pur di rendere omaggioa chi occupa il vertice della gerarchia sociale.

Un contadino, infatti, non può sperare di arricchirsi col proprio la-voro all’interno di tale società; egli può soltanto fantasticare, sognare esperare nel caso, in un fatto o incontro provvidenziale che modifichiradicalmente la sua vita. L’avvenimento eccezionale, capace di elevarela propria condizione, non va, però, “furbescamente costruito”: esso èopera del destino o della ruota della fortuna, e tocca specialmente quantisono rassegnati alla propria condizione e accettano di buon grado ilpaternalismo del principe. Ed infatti, lo zappatore della nostra “storia”riceve la “vòrse de terróise” proprio per il suo omaggio disinteressato e

Michele Cramarossa: U prìngepe e u *zappataure (Febbraio 1982)

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leale al principe, del quale riconosce la potenza, la superiorità e la indi-scutibile autorità con l’offerta delle primizie del suo fico.

Per inciso, è forse opportuno aggiungere che la donazione delle pri-mizie al proprietario era un atto quasi dovuto, sino a non molto tempofa, tra i nostri contadini, che, in tal modo, riconoscendo la loro posizio-ne subalterna, intendevano accattivarsi le simpatie del proprietario siaper poter continuare ad avere in affitto o in colonia la terra, sia perottenere da lui qualche favore.

Naturalmente, al proprietario, nel nostro caso al principe, bisognavaoffrire le primizie, i frutti delicati, non i fioroni, magari in piena stagio-ne, quando questi si producono in abbondanza. E, a tal proposito, la“storia” presenta una finezza quando da un lato ci propone lo zappato-re con solo due fichi, i primi due in assoluto di quel «tarjedde» che ilprincipe ha visto piantare, dall’altro il suo convicino che si presenta conuna grossa cesta di fioroni. La distinzione fra i due omaggi è evidente: ilfico, infatti, è gentile e grazioso, mentre il fiorone è volgare, tanto chead esso si allude spesso in espressioni dialettali pittoresche e ironiche oper rappresentare situazioni e personaggi poco positivi.

Il convicino, dunque, che con furbizia assai ingenua rende un omag-gio calcolato e grossolano, non poteva non suscitare l’ira del principe,che si vede colpito nella sua autorità e quasi messo alla pari dei comunimortali che, magari, non avrebbero disdegnato un bel piatto di fioroniper riempirsi la pancia. Sintomatiche le sue parole al proposito: «E cceste ad abbetteue u puèrche?».

Date queste premesse, la conclusione della favola appare scontata econseguente: u mulacchiaune, termine che nel nostro dialetto è alta-mente dispregiativo, quasi come avviene nel lancio del boomerang, sen-te sulla sua faccia il tonfo melmastro dei fioroni, coi quali aveva osatopensare di poter compiacere il principe.

Anche questa “storia-novella” usa il dialetto “du sóine e nnàune” che,come si è avuto già modo di dire, si presta meglio a rappresentare situa-zioni piuttosto comiche e a suscitare l’ilarità dell’ascoltatore.

Raffaele Macina

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Stèvene tré *zappatéure, e stévenea *zappeue. Passeue u Sìndeche e ’ngedecióje: «Buongiòrne o chiù ffésse».

Chidd’e ttraje, p’avàje l’aldèzze dubbongiòrne du Sìndeche, acchemen-zòrene a ffe lóite: «Cudde m’à ssale-teute a mmaje, peccè sò jóje u chiù ffés-se». Sciàive u ualde e deciàive: «Nàu-ne, invéce m’à ssaleteute proprje ammaje, ca sò addaveire jóje u chiùffésse de tutte»; e addaccheseje deciàivepéure u térze *zappataure. ’Na pa-reule tira l’alde, arrevòrene a ddarsele *zàppere ’ngheupe.

U fatte arreveue alle meune duggiùdece, e se facióje la cause pe ve-dàje cióine jàive u chiù ffésse cameretàive u saléute du Sìndeche.

Aqquanne scèrene ’nnanz’oggiùdece, cudde addemanneue opróime: «Peccè dóisce ca sì ttéue uchiù ffésse?».

Cudde respennóje: «Veraménde, si-gnor giùdece, ’na dóje scìebbeche o mer-cheute e accattàbbeche ’ne ’mbrèlle.Criste se mettóje a cchieuve; quand’ac-

C’erano tre zappatori che zap-pavano. Passò il Sindaco e disse:«Buongiorno al più fesso».

Quei tre, per avere l’onore delbuongiorno del Sindaco, inco-minciarono a fare lite: «Quello hasalutato me, perché sono io il piùfesso»; andava l’altro e diceva:«No, invece ha salutato propriome perché sono davvero io il piùfesso di tutti»; e così diceva pure ilterzo zappatore. E, una parola tiral’altra, arrivarono a darsi le zappein testa.

Il fatto arrivò nelle mani del giu-dice e si fece la causa per vederechi era il più fesso che meritava ilsaluto del Sindaco.

Quando arrivarono davanti algiudice, quello domandò al pri-mo: «Perché dici che sei tu il piùfesso?».

Quello ripose: «Veramente, si-gnor giudice, un giorno andai almercato e comprai un ombrello.Cristo si mise a piovere; quant’ac-

LA STÓRJE DU FÉSSE NÉSTE(La storia del fesso nostro)

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Mattia Lacalamita: La stórie du fésse nèste (Aprile 2009)

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qua che fece non si può dire. Maio per non ‘battezzare’ l’ombrel-lo, me ne andai sotto l’acqua e mimisi l’ombrello sotto il cappotto».

Il giudice disse: «Bè, allora èvero che sei fesso».

Andò il secondo e disse: «Ilgiorno della fiera mi comprai uncappotto. Cristo, quanta neve evento fece! Ma io il cappotto nonlo ‘battezzai’ e me lo misi ben benesotto il braccio».

Il giudice domandò al terzo: «Etu?».

Quello rispose: «Signor giudi-ce, un giorno uscii di casa; prendied entrò un altro dentro casa e sene andò a coricarsi con mia mo-glie. Io, dopo un altro poco, andaia casa e li trovai tutti e due a cuorea cuore nel letto. “Buongiorno,” –dissi loro – “continuate a fare i fat-ti vostri”, e me ne andai un’altravolta».

Allora il giudice disse: «Bè..., al-lora è proprio vero che sei propriotu il più fesso; sei proprio il re ditutti i fessi».

* * *

Sulla grulleria degli zappatori-braccianti, che all’interno del mondoagricolo svolgevano i lavori più umili e meno qualificati, ci sono raccon-ti di tutti i generi, sempre finalizzati a mettere in risalto la loro profonda

que ca facióje nan ze peute dóisce. Majóje, pe nan ’ngelesceue u ’mbrèlle, mene scìebbeche sòtt’a ll’acque e me met-tìebbeche u ’mbrèlle sótt’ o cappótte».

U ggiùdece decióje: «Mè, jé ad-daveire ca téue sì ffésse!».

Scióje u secònde e decióje: «La dójede la feire m’accattàbbeche ’ne cap-pótte. Criste, quanda nàive e vvjen-de ca facióje. Ma jóje u cappótte nonu ’ngelesciàbbeche e mu mettìebbechebèlle bbèlle sòtt’o vrazze».

U ggiùdece addemanneue o tèr-ze: «E ttéue?».

Cudde respennóje: «Signor giùde-ce, ’na dóje assìebbeche da cheuse; pig-ghj’e trasóje ’n’andéune jinde a ccheusee se ne scióje a ccòlche che megghiére-me. Jóje, dópe ’n’and’e ppicche, scìeb-beche a ccheuse e l’acchiàbbeche tut-t’e ddéue a ccóre a ccóre jind’o lìette.“Bòngiòrne,” – ’nge decìebbeche –“chendenuete a ffeue le fatte véste”, eme ne scìebbeche ’n’anda vólde».

Scióje u ggiùdece e decióje: «Mè,allóre jé addaveire ca sì ppróprje téueu chiù ffésse, sì ppróprje u rré de tut-te le fìesse».

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condizione di ignoranza, la loro condotta bizzarra e la disponibilità asottomettersi al padrone e ad ogni autorità costituita.

Quello che, invece, i racconti di questo genere nascondono è chebraccianti e contadini poveri, inchiodati ad una condizione di impo-tenza, spesso ostentavano il loro spirito di sottomissione e si fingevanogrulli per strappare qualcosa ai benestanti: fosse anche un bicchiere divino sul luogo di lavoro. In realtà, sotto l’apparente sottomissione sinascondeva in molti casi dell’astuzia: non si dimentichi l’antico detto“Còndadine, scarpa grósse e cervjedde fine” che, persino nella letteratura,esprimeva ed esprime ancora la natura più profonda del contadino.

Le squadre dei mietitori, ad esempio, intonavano durante la giorna-ta di lavoro un antico canto fatto di due versi; il primo, che veniva ripe-tuto più volte con tono umile e solenne, diceva: “Patrune, e jì te vógghjeadarricchì” (Padrone, ed io ti voglio arricchire); il secondo, invece, can-tato velocemente e con un certo tono di sfrontatezza, intimava quasi unordine: “E vvall’a ppigghje la fiasche” (E vallo a prendere il fiasco, natu-ralmente di vino fresco).

Evidenti nella nostra storia non solo l’ironia sulla pochezza dei con-tadini, ma anche l’atteggiamento canzonatorio verso di essi da parte delpotere e dei benestanti, qui rappresentati dal Sindaco, il quale, lungidal salutarle veramente, mira solo a provocare fra quelle persone social-mente più deboli un litigio che sembra far divertire lui e le persone delsuo rango.

Ed ecco che la storia de “U fésse néste”, pervenendo al paradosso,offre a quanti occupavano posti medio-alti nella gerarchia sociale mo-menti e contenuti di ilarità che servivano a confermare quanto fossenaturale e giustificata la loro condizione di superiorità.

Ma alla storia de “U fésse néste” erano affezionati anche i contadini,che la raccontavano volentieri fra grandi risate di tutti, ridendo di sestessi e, soprattutto, del giudizio che la cultura dominante riservava adessi. E ridere di se stessi, come è noto, è un atto liberatorio, che sospingealla presa di coscienza della propria condizione sociale ed esistenziale.

Raffaele Macina

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’Na fémmene stàive preine e ’ngemenóje u desedérje du cappucce.

Scióje o maróite e ’nge decióje:«Vóite d’acchiamme ’ne cappucce,ca u vógghje feue cu graneróise».

De chidde tìembe, u cappuccenan ze vennàive facilménde. Jind’opajóise asckitte le muénece tenéve-ne la checèvue che tanda cappucce.

U uómene, allóre, pegghiò e sciójeo cheménde a ceccà a cchidde ’necappucce.

Ma chidde respennèrene ca nanne tenévene, e a l’inzisténze de cud-de, u mannòrene fescénne.

Allóre cudde cèrrabbe scióje a pen-zeue? La nótte se mettóje ’ne renzeu-le, *zembeue u méure de chenvóinedu cheménde e se ne scióje mménze ala checèvue, adó stèvene le cappucce.

Pe pajéure de jésse scopèrte, acche-menzeue a ccandeue a vóscia jalde:«Quando ero vivo mi mangiavo que-sti fichi, ora che son morto passeggioin quest’orto».

Le muénece, da jinde, a la pajéu-

Una donna stava incinta e levenne il desiderio della verza.

Chiamò il marito e gli disse:«Vedi di trovarmi una verza, per-ché voglio cucinarla col riso».

Di quei tempi, la verza non sivendeva facilmente. Nel paese sol-tanto i monaci avevano l’orto contante verze.

Il marito, allora, prese e andò alconvento per chiedere a quelli unaverza.

Ma quelli risposero che non neavevano, e all’insistenza di quello,mandarono fuggendo.

Allora quello cosa andò a pen-sare? La notte si mise un lenzuolo,saltò il muro di confine del con-vento e se ne andò in mezzo all’or-to, dove stavano le verze.

Per paura di essere scoperto co-minciò a cantare a voce alta:«Quando ero vivo mi mangiavoquesti fichi, ora che son mortopasseggio in quest’orto».

I monaci, da dentro, per la pa-

L’ÀNEME DE PADRE FRANGÈSCHE(L’anima di padre Francesco)

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ura dissero che era l’anima di pa-dre Francesco che se ne era anda-to da poco.

Allora aprirono una finestra euno chiese: «Padre Francesco, cosadobbiamo fare per guadagnarci ilparadiso?».

E quello rispose: «Sangue e pe-nitenza!».

Allora i monaci se ne andaronodentro la chiesa e con le catene sele diedero per tutta la notte.

Così l’uomo ebbe tutto l’agiodi tagliare tante verze, di riempi-re tre sacchi e di andarsene in san-ta pace.

Tornato a casa, disse alla moglie:«Tieni, abbuffati!».

Al mattino i monaci stavanopieni di sangue per la penitenzache avevano fatto per tutta la not-te e morivano di fame; andò ilpriore al più giovane e gli disse:«Vai nell’orto e raccogli un po’ diverze, così oggi mangiamo riso conle verze».

Pensate cosa successe quandoquello andò lì e non trovò nean-che una verza. Allora i monaci ca-pirono tutto: «»Quella non eral’anima di padre Francesco», disseil priore.

Intanto a casa di quella donnasi mise tavola con la verza come leidesiderava.

re, decèrene ca jàive l’àneme de pa-dre Frangèsche, ca da picche se nn’éresciéute.

Allóre aprèrene ’na fenéstre e jéu-ne addemanneue: «Padre Francesco,cosa dobbiamo fare per guadagnar-ci il paradiso?».

E ccudde respennóje: «Sangue epenitenza!».

Allóre chidde se ne scèrene tuttejind’a la chiése e che le catàine se ledéttere pe ttutte la nótte.

E ccudde adacchesseje avóje tuttel’agge de tagghjeue tanda cappuc-ce, de jègne tré ssàcchere e de scissir-ne in zanda peusce.

Arreveute a la cheuse, decióje ala megghjeire: «Nà, abbùttete!».

A la matóine le muénece stéve-ne chióine de sagne per la penetén-ze ca avèvene fatte pe ttutte la nót-te e merèvene de feume; scióje uprióre o chiù ggiòvene e ’nge decióje:«Vai nell’orto e raccogli un po’ diverze, così oggi mangiamo riso conle verze».

Penzeute cèrrabbe seccedóje aq-quanne cudde scióje ddà e nan ac-chjeue manghe ne cappucce. Allórele muénece acapescèrene tutte:«Quella non era l’anima di padreFrancesco», decióje u prióre.

Indande a la cheuse de chèddafèmmene se mettóje tavue a cap-pucce accóme jèdde adesederàive!

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In passato si pen-sava che un uomodovesse far di tuttoper soddisfare le vo-glie della moglie in-cinta, perché, incaso contrario, ci sa-rebbe stato il perico-lo che il bambinonascesse con unamacchia – la famo-sa “voglia” – sul cor-po. Ed in effetti,l’uomo di questanovella ricorre adun progetto assai ar-dito, col quale queimonaci, che nonpraticano lo spiritodi carità e fanno delconvento un sem-

plice luogo che assicura vitto e alloggio a buon mercato, vengono so-spinti, tramite un singolare stratagemma, a praticare per una notte in-tera una dura penitenza.

Evidente qui la volontà dell’uomo di infliggere una punizione se-condo una logica di tipo dantesco: quei monaci, che non conoscono leprivazioni e le sofferenze del mondo, non solo perdono tutte le verze,ma vengono costretti alla penitenza che, pur prevista dallo loro regola,è di fatto esclusa dalla loro vita conventuale.

Questo racconto-novella, insieme a U móneche de Medugne, pubbli-cato nelle pagine precedenti, fa parte di un ricco filone della culturapopolare, oltre che di quella dotta, che, per motivazioni storiche benprecise, dà un’immagine piuttosto negativa della figura e del ruolo delmonaco all’interno della società tradizionale.

Raffaele Macina

C. Ripa, La Penitenza (xilografia del XVII secolo)

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’Na vólde, ’ne vécchje passà da ’nepajìse; jére de demèneche, e ccussetenéve ’ne cìcere jinde a la palde.Senà la cambane de la chiése, e ccussecrestiane veléve scì a la mèsse, manan betéve scì cu cìcere, e penzà:«Mó addemanghe a ’na fèmmene cem’u póte tené».

Tezzeuà a ’na case e ceccà: «Lapatróne, me puéte tené cusse cìcere,ca ja scì a la mèsse e n’o pózze pertàche mmé?».

«Sine – respennì la fèmmene –appuéggeue ddà, sópe a la beffétte,aqquanne vjenne, ddà u jacchje».

U vécchje u lassà e se ne scì, ma lafèmmene tenéve ’na jaddine ca vedìu cìcere e s’u mangià. Acchesé, aq-quanne vènze cudde da la chiése, lafèmmene ’nge disse: «Me despiasce,ma la jaddine s’u à mangiate».

E u vécchje decì: «O damme ucecerótte, o damme la jaddenótte!»,e ttanda vólde u ddisse, ca la fèm-mene ’nge détte la jaddine.

Senà arréte la cambane e u véc-

LA STÓRJE DE CECERÓTTE(La storia del cece)

Una volta un vecchio passò daun paese; era di domenica, e questoaveva un cece nella tasca. Suonò lacampana della chiesa, e questo cri-stiano voleva andare alla messa, manon poteva andarci col cece, e pen-sò: «Adesso chiedo ad una donna seme lo può tenere».

Bussò ad una casa e chiese: «Pa-drona, mi puoi tenere questo cece,perché devo andare alla messa enon posso portarlo con me?».

«Sì – rispose la donna – appog-gialo là, sulla credenza; quando vie-ni, là lo trovi».

Il vecchio lo lasciò e se ne andò,ma la donna aveva una gallina chevide il cece e se lo mangiò. Così,quando venne quello dalla chiesa,la donna gli disse: «Mi dispiace, mala gallina se l’è mangiato».

Ed il vecchio disse: «O dammiil cicerotto o dammi la gallinotta!»,e tante volte lo disse, che la don-na gli dette la gallina.

Suonò di nuovo la campana ed il

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chje aveva scì all’alda mèsse e nanbetéve scì che la jaddine. Acchesé,tezzeuà a ’na case, e ceccà a la pa-tróne ce la petéve lassà, e cchèddedisse: «Sine, làssela ddà ’ndèrre ve-cine a la pórte, e ddà la jacchje».

U vécchje se ne scì, ma la fèmme-ne tenéve ’ne puèrche ca se mangiàla jaddine. Aqquanne se la menì apegghià e la patróne ’nge disse u fat-te, u vécchje se mettì a ddisce: «O dam-me la jaddenótte o damme u puèr-cótte!»; e ttande facì, ca la fèmmene’nge détte u puèrche.

Senà la cambane de la messe dele désce, e u vécchje tezzeuà a ’na pór-te ca veleve lassà u puèrche pe scì al’alda mèsse.

La patróne ’nge disse: «Làssue ddà,sòtte o tavuine, ca ddà u jacchje».

La fèmmene tenéve ’na figghje chela fréva fórte da tanda dì e nonuaréve mà, peccé nan denèvene nud-de da mangià, ca jèrene póverjedde.

A la menènne ’nge tenéve fame,e ccóme vedì u puèrche, disse a lamamme: «Tàgghjenge ’na rècchje efammille arrestute, tande u vécchjenan ze n’avvèrte». La mamme nanveléve, ma la figghje chiangéve, eacchesé fu acchendendate.

Dópe ca se mangià la prima rèc-chje, la menènne ceccà l’alda rèc-chje peccè nan ze jére abbegnate, eddópe ceccà la cóte, e ddópe ’na

vecchio doveva andare all’altra mes-sa, e non poteva andare con la galli-na. Così, bussò ad una casa, e chiesealla padrona se la poteva lasciare là,e quella disse: «Sì, lasciala là per ter-ra vicino alla porta, e lì la trovi».

Il vecchio se ne andò, ma la don-na aveva un porco che mangiò lagallina. Quando venne a prender-sela e la padrona gli disse il fatto, ilvecchio si mise a dire: «O dammila gallinotta o dammi il porcotto!»;e tanto fece, che la donna gli die-de il porco.

Suonò la campana della messadelle dieci, ed il vecchio bussò aduna porta perché voleva lasciare ilporco per andare all’altra messa.

La padrona gli disse: «Lascialolì, sotto il tavolo, ché là lo trovi».

La donna aveva una figlia con lafebbre alta da tanti giorni e non gua-riva mai, perché non avevano nien-te da mangiare, ché erano poveri.

La bambina aveva fame, ed ap-pena vide il porco, disse alla mam-ma: «Tagliagli un orecchio e fam-melo arrosto, tanto il vecchio nonse ne accorge». La mamma non vo-leva, ma la figlia piangeva, e cosìfu accontentata.

Dopo aver mangiato il primoorecchio, la bambina chiese l’altroorecchio perché non si era saziata,e dopo chiese la coda, e dopo una

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ciambe. Sénze ca se fasce a la lógne,se mangià tutte u puèrche.

Aqquanne vènze u vécchje da lamésse e sendì u fatte, se mettì a ddi-sce: «O damme u puèrcótte o dam-me la pecceuèddótte».

La mamme decéve: «Ti à dà lamenènne pe ’ne puèrche? Tu sì sce-menute!».

Ma cudde, tande se mettì cóme a’na *zècche e ’nge facéve pegghiàpajure pe ccóme s’arrabbiéve, ca lafèmmene ’nge détte la figghje. U véc-chje la mettì jinde a ’ne sacche e sene scì.

Senà la mèsse de menzadì, e ccusseaveva lassà u sacche pe scì a la chié-se. Ceccà a ’na fèmmene de lassauedréte a la pórte pe ’n’orétte, e cchèd-de disse: «Va bbéne».

La menènne se lagnéve pe lafréve, e la fèmmene, ca jére la ziane,a sendì cusse lagne, scì a spià jinde osacche e vedì la nepóte, ca ’nge chen-dà tutte u fatte.

La ziane la facì assì e mettì jindeo sacche ’ne ruagne chjine de mmèr-de che ’ne cuane e ’na jatte. U véc-chje menì, se mettì u sacche sópe a laspadde e pegghià la strate pe ’nn’al-de pajìse. U cuane e la jatte acche-menzòrene ad acciaffasse e shcamàve-ne, ma cudde se credéve ca jére lamenènne.

Indande u vécchje arrevà a ccud-

zampa. Senza tirarla per le lunghe,si mangiò tutto il porco.

Quando venne il vecchio dallamessa e sentì il fatto, si mise a dire:«O dammi il porcotto o dammi laragazzotta!».

La mamma diceva: «Ti devodare la bambina per il porco? Tusei scimunito!».

Ma quello, tanto si mise comeuna zecca e le faceva paura percome si arrabbiava, che la donnagli diede la figlia. Il vecchio la misein un sacco e se ne andò.

Suonò la messa di mezzogiorno,e questo doveva lasciare il sacco perandare in chiesa. Chiese ad unadonna di lasciarlo dietro alla portaper un’oretta, e quella disse: «Vabene».

La bambina si lamentava per lafebbre e la donna, che era sua zia,nel sentire questo lamento, andò aspiare nel sacco e vide la nipote, chele raccontò tutto il fatto.

La zia la fece uscire e mise nelsacco un pitale colmo di merdacon un cane ed un gatto. Il vec-chio venne, si mise il sacco in spal-la e si avviò verso un altro paese.Il cane ed il gatto cominciaronoad azzuffarsi e schiamazzavano,ma quello pensava che fosse labambina.

Intanto, il vecchio arrivò a quel

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Mattia Lacalamita: La stórje de cecerótte (Aprile 2009)

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de pajìse e passà da ’ne mercate. ’Nauardje sendì de shcamà, s’avvecenàe ’nge ceccà cèrrabbe tenéve jinde osacche, ma cudde nan respennéve;acchessé ’ngiu levà e u aprì. U cua-ne e la jatte, tutte lurde e arrabbia-te, *zembòrene ’nguédde a la uar-dje, e pedènne u vecchje fu pertate’ngalé e ddà remanì pe tand’anne.

paese e passò da un mercato. Unaguardia sentì schiamazzare, si avvi-cinò e gli chiese cosa avesse nel sac-co, ma quello non rispondeva; cosìglielo tolse e lo aprì. Il cane ed ilgatto, sporchi ed arrabbiati, salta-rono addosso alla guardia, per cuiil vecchio fu portato in carcere e lìrimase per tanti anni.

Angela Pascazio

La stórje de cecerótte si presenta con le caratteristiche classiche dellanovella:

- la brevità, poiché il testo si legge o si ascolta in un tempo ridotto etale che esso possa essere facilmente memorizzato;

- la centralità dell’azione, poiché il testo è costruito intorno all’azionedi un solo protagonista (il vecchio);

- l’unità dell’evento narrato, nel senso che tutta la vicenda, caratterizzatada un suo dinamismo intrinseco, è proiettata verso la soluzione finale;

- l’attrazione esercitata dalla conclusione su tutti gli elementi dellanarrazione, che “corrono” verso l’esito finale;

- la presenza di un destinatario, qui rappresentato dalle donne, rassi-curate e divertite dalla fine meschina di quel vecchio che aveva carpitola loro buona fede per arricchirsi;

- la fruibilità molteplice, nel senso che il testo, anche sottoposto amodifiche, riesce a mantenere nelle sue linee essenziali la fisionomiaoriginaria (le caratteristiche della novella qui elencate sono prese da G.Nuvoli, La novella italiana, Mondadori, Milano 1992, pp. 9-12).

Una precisazione, infine, sull’intento del delectare, che, comune atutte le novelle, talvolta è solo fine a se stesso, talaltra ha anche l’obietti-vo di ammonire, persuadere, insegnare (delectat ut doceat).

Ne La stórje de cecerótte è evidente il modo del delectat ut doceat,poiché la fine ingloriosa del vecchio vuol essere un severo ammonimen-to per quanti volessero emulare la sua condotta.

Raffaele Macina

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’Ne sólachianjedde, ca javetave ala vì “Cònd’e Stèlle”, jére próprje póve-rjedde assà, e ògn’e ddì stendave a ’nze-meuà le terrise pe ’ne picche de pane.

La dì de la vescigghje de Natale’n’accunde scì a retrà le scarpe ca ’ngiavéve aggestate e ’nge détte ’ne ssólde.Pjenze e ppjenze cóm’avéva spénne cus-se sólde, e ppo’ decì alla megghiére: «Mòvògghe ad accattà ’ne picche de pane e’na sarache, ca facime Natale». Arre-vate a ccase cu pèsce, appecciò u fué-che daffóre p’arròsteue mégghje.

Sóp’a la póvera case du sóla-chianjedde javetave ’ne ricche se-gnóre, e le cammarére stèvene a pre-parà ’ne sórte de pranze de Natale:lasagne, bróte de jaddine, vicce, fe-necchiétte cu alisce du spróne, cimede rape, pèsce, baccalà, dòlge e jò-gn’e ssórte de bbéne de Ddì. U adórejére fórte, e da le fenjestre apèrte sespannève pe ttutte la vì.

Però pure u fume de la misera sa-rache ’nghianò sóp’a le fenjestre dupalazze e affetescì tutte le càmere.La segnure se sendì bbrutte a ccudde

Un ciabattino, che abitava in viaConte Stella, era davvero molto po-vero, e ogni giorno stentava a raci-molare il denaro per un po’ di pane.

Il giorno della vigilia di Natale uncliente andò a ritirare le scarpe chegli aveva risuolato e gli dette un soldo.Pensa e pensa come lo doveva spen-dere, e poi disse alla moglie: «Adessovado a comprare un po’ di pane e unasalacca, così facciamo Natale».Arrivato a casa con il pesce, accese ilfuoco fuori per arrostirlo meglio.

Sopra la povera casa del ciabat-tino abitava un ricco signore, e ledomestiche stavano preparando ungrosso pranzo di Natale: lasagne,brodo di gallina, tacchino, finoc-chietti con le acciughe, cime dirape, pesce, baccalà, dolci e ognisorta di ben di Dio. L’odore eraforte, e dalle finestre aperte si span-deva per tutta la via.

Però pure il fumo della misera sa-lacca salì alle finestre del palazzo eappestò tutte le camere. La signorasi sentì male a quell’odore, e si mise a

LA SARACHE DU SÓLACHIANJEDDE(L’aringa del calzolaio)

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fìete, e se mettì a gredà. Allóre ’na cam-marére s’affacciò e facì u rembróve oscarpare pu fìete ca stave a ffà.

Cudde penzò ’ne picche, alzò lacape e decì: «Lor segnóri che jaddi-ne e jaddenazze, e jì che ’na sarachefume fazze; jósce jé Natale pe vvù ep’ògn’e rrazze».

La cammarére, ca jére pure jèdde’na poverédde de Ddì, accapescì, nanrespennì e achjedì tutte le fenjestre.

gridare. Allora una cameriera si af-facciò e rimproverò il ciabattino perla puzza che stava facendo.

Quello pensò un poco, alzò latesta e disse: «Lor signori con galli-ne e gallinaccio, ed io con una sa-lacca fumo faccio; oggi è Natale pervoi e per ogni razza».

La cameriera, che era pure leiuna poveretta di Dio, capì, non ri-spose e chiuse tutte le finestre.

Tutte le storie hanno una connotazione geografica, temporale e so-ciale, perché sono nate in un certo luogo, in un certo tempo, in uncerto tipo di società. Qui siamo a Modugno intorno al ’700-’800, quan-do governava il paese un gruppo di famiglie aristocratiche di proprie-tari terrieri, i cui proventi derivavano dai terreni posseduti.

Ciascuna di esse possedeva il suo palazzo e, nella maggior parte deicasi, nei locali a piano terra erano situati il frantoio e le abitazioni deidipendenti, contadini e artigiani (falegnami, bottai, stagnatori ecc.),variamente addetti al loro servizio. Qui “u sólachianjedde”, costituisceun’eccezione, perché non appartiene alla schiera della “servitù” dellafamiglia; e ciò spiega il moto di ribellione e la risposta dell’uomo allelamentele della signora. Mai un dipendente del palazzo avrebbe osatouna simile replica alle sue richieste, pena l’allontanamento dal lavoro.Siamo in una società autoritaria, che quasi sempre disconosce i dirittidel popolo, dal che i moti di rivolta che talvolta si verificavano.

La risposta del povero ciabattino, che a stento riusciva a raggranella-re la moneta per una misera minestra, ne è la riprova.

È Natale, gli odori della cucina del palazzo fanno sognare al poveri-no una mensa ben imbandita, mentre invece la signora non vuole la-sciargli neanche il diritto di un po’ di fumo odoroso di “sarache”, cheserve a riempirgli le narici, e forse un po’ lo stomaco.

La rabbia del poveruomo è incontenibile, e il suo sfogo è una rispo-

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sta in rima in cui prevalgono suoni forti e aspri (jaddenazze, fazze, raz-ze), che lo aiutano a smaltire la sua collera.

Mi pare opportuno sottolineare la solidarietà della domestica a quel-l’uomo povero come lei: per difendere la padrona non replica alle in-vettive, ma cerca di dirimere la questione chiudendo le finestre impe-dendo così al fumo maleodorante di invadere il palazzo.

Anna Longo Massarelli

Michele Cramarossa: La sarache du sólachianjedde (Dicembre 2002)

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Stéve ’na vólde ’n’attane ca tenévetré ffigghje. Jére poverjedde e vvécchje.Seccóme su penzéve ca avéva merì,chiamà le figghje e ’nge disse ca tenéveashkitte ’na vacca préne, e ’nge la las-séve a ttutt’e ttré. U vécchje merì, e lefigghje chiù ggranne se pegghiòrene lavacche, ca jind’o frattjembe se jévesgravate, e ’nge déttere o frate menun-ne u vetjedde; ma cusse, sénze u llattede la mamme, merì.

Peppine – adacchesé se chiaméveu chiù menunne – schercià u vetjed-de e facì ’ne tammurre, e se ne scéveatturne atturne o pajìse senanne cus-se tammurre, e acchesé facèvene tan-ne pure le uardje de cudde pajìse.

Chesé facénne, passà ’nnanze a’na casédde de fóre, jind’adó stèvenele latre ca se stèvene a spartì u uórearrebbate. Chisse, aqquanne sendère-ne u tammurre, se credèrene ca jère-ne le uardje; allóre lassòrene le terrisee u uóre, e se ne fescèrene. Peppinespià jinde a la casédde e vedì u uore:trasì, se pegghià tutte cóse e se ne fescì.

C’era una volta un padre, pove-ro e vecchio, che aveva tre figli. Sic-come se lo pensava che doveva mo-rire, chiamò i figli e disse loro cheteneva solo una mucca gravida, egliela lasciava a tutti e tre. Il vecchiomorì e i due figli più grandi si pre-sero la mucca, che nel frattempo siera sgravata, e diedero al fratellopiccolo il vitellino; ma questo, sen-za il latte della mamma, morì.

Peppino – così si chiamava il piùpiccolo – scorticò il vitello e fece untamburo, e se ne andava intorno in-torno al paese suonando questo tam-buro, e così facevano allora pure leguardie di quel paese.

Così facendo, passò davanti aduna casina di campagna, nella qua-le c’erano dei ladri che si dividevanol’oro rubato. Questi, quando senti-rono il tamburo, credettero che era-no le guardie; allora lasciarono i sol-di e l’oro, e se ne scapparono. Peppi-no spiò nella casina e vide l’oro: en-trò, si prese ogni cosa e fuggì via.

LA STÓRJE DE LE TRÉ FFRATE(La storia dei tre fratelli)

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Ora era diventato ricco e andò alpaese vestito per bene, sopra ad uncarretto, che sembrava un signore. Ifratelli, a vederlo, si sentirono dirabbia e gli chiesero come fosse di-ventato ricco, e Peppino rispose: «Ilvitello è morto e si è putrefatto, lostavo andando a gettare e sono pas-sato per un paese; la gente di là èamante della carne putrefatta, se lasono comprata, e mi hanno datotanti soldi».

I fratelli, sentito il fatto, si miseroin testa di fare lo stesso: ammazzaro-no la vacca, la fecero putrefare e an-darono a quel paese che aveva det-to il fratello piccolo, ma furono fer-mati dalle guardie che sentirono lapuzza e li misero in galera. Hai vo-glia quelli a dire che il fratello avevafatto lo stesso ed aveva avuto i soldi.

Stando in galera, dicevano:«Quando usciamo di qui, lo dob-biamo uccidere». Quando usciro-no, andarono al paese, trovaronoPeppino e gridarono: «Ora ti dob-biamo uccidere», e Peppino disse:«No, non mi uccidete, però mette-temi in una stalla con tanto letameche io, alla puzza, devo morire».

I due fratelli fecero propriocosì, e lo chiusero in una stalla colletame. Peppino, però, si liberò,riempì tre quattro secchi di letamee di merda e li coprì con due dita

Mó jére addevendate ricche, e scìo pajìse vestute bbuéne, sópe a ’nesciarabballe, ca paréve ’ne segnóre.Le frate, a vedèue, se sendèrene d’ar-rabbià e ’ngi addemannòrene cóm’jéca jére addevendate ricche, e Peppi-ne respennì: «U vetjedde à mmuèr-te e av’affetesciute, jì u stéve a scì ascettà e sò passate pe ’ne pajìse; laggénde de ddà sò amande de la car-ne affetesciute, se l’ònne accattate, em’ònne date tanda terrise».

Le frate, sendute u fatte, se met-tèrene ’ngape de fà u stèsse: accedère-ne la vacche, la facèrene affetèsce escèrene a ccudde pajìse ca jére ditteu frate menunne, ma fùrene affer-mate dalle uardje ca sendèrene u fìe-te e le mettèrene ’ngalé. Évógghjechidde a ddisce ca u frate jére fatte ustèsse e jére avute le terrise.

Stanne ’ngalé, decèvene: «Aq-quanne assime da ddó, u am’acci-te!», e aqquanne assèrene scèrene opajìse de lóre, acchiòrene a Peppinee gredòrene: «Mó t’am’accite», e Pep-pine disse: «Nóne, nan me site acce-dénne, però mettìteme jinde a ’nastadde che tanda remmate ca jì, ofìete, agghia merì».

Chidde facèrene adacchesé, e uachjedèrene jinde a ’na stadde curemmate. Peppine, però, se leberà,agnì tré-quatte sècchjere de remmatee mmèrde, e l’acchemegghià che dù

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di miele, li mise sul carro e andòad un paese lontano, nel quale c’eramolto commercio. Andò in un al-bergo di lusso e disse al proprieta-rio che si doveva incontrare con cer-ta gente che voleva comprare il mie-le. Portò i secchi nella camera, tolseil miele da sopra e se ne andò.

Quando venne con la gente, su-bito si sentì la puzza dentro la came-ra, chiamò il proprietario e disse che isecchi erano stati scambiati mentre luinon stava, e gridava arrabbiato. Il pro-prietario, per farlo stare zitto e pernon fare una chiassata, gli dette tan-ti soldi, quelli che doveva guada-gnare se vendeva tutto quel miele.

Dopo un po’, Peppino si vestìper bene e andò al paese con unacarrozza di due cavalli. I fratelli, avederlo, furono più gelosi e gli do-mandarono che cosa era successoda quel giorno che stava in quellastalla. Peppino disse: «Io mi sono li-berato, ho preso il letame, l’ho co-perto col miele...», e raccontò tuttoil giusto.

I fratelli pensarono di fare lo stes-so per diventare ricchi anche loro,ma quando entrarono nell’albergoe dissero al proprietario che dove-vano vendere il miele, quello li fer-mò per vedere se era vero, e comesi accorse che era letame, chiamò leguardie che li misero in galera.

dèstre de mméle, le mettì sópe o scia-rabballe e scì a ’ne pajìse lendaneadó stéve assà commèrce; scì a ’n’al-bèrghe de lusse e ddisse o patrune cas’avév’acchià che ccèrta ggénde cavelèvene accattà u mméle. Pertà lesècchjere jind’a la càmere, levà umméle da sópe e se ne scì.

Aqquanne menì che la ggénde,sùbete se sendì u fìete jinde a la càme-re: chiamò u patrune e ddisse ca lesècchjere jèrene state scangiate quan-ne jidde nan ge stéve, e gredéve ar-rabbiate. U patrune, pe ffaue stà cit-te e pe na ffà chiaranzate, ’nge déttetanda terrise, chidde ca avéva uada-gnà ce vennéve tutte cudde mméle.

Dópe ’ne mmuèrse, Peppine sevestì bbuéne e scì o pajìse che ’nacarrózze che du cavàddere. Le frate,a vedèue, fùrene de cchiù celuse e ’ngiaddemannòrene cérrabbe jére sec-cjesse da chèdda dì ca stéve jinde ala stadde. Peppine disse: «Jì me sò le-berate, sò pegghiate u remmate, u sòacchemegghiate cu mméle…», echendà tutt’u ggiuste.

Le frate penzòrene de fà u stèssepe devendà ricche pure lóre, ma aq-quanne trasèrene jinde o albèrghe edecèrene o patrune ca avèvena vèn-ne u mméle, cusse l’affermà pe vedéce jére adavére, e ccóme se n’avvertìca jére remmate, chiamà le uardjeca le mettèrene ’ngalé.

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“Dópe ’ne mmuèrse, Peppine se vestì bbuénee scì o pajìse che ’na carrózze che du cavàddere”

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Là pensavano sempre a Peppi-no, e che si volevano vendicare:«Quando usciamo di qui, lo dob-biamo uccidere; questa volta nonsfugge, lo dobbiamo uccidere!».

Quando uscirono, andarono alpaese, lo trovarono e gli dissero: «Orati dobbiamo uccidere», e quello, chenel frattempo si era sposato, disse:«Non uccidete me, uccidete miamoglie». I fratelli pensarono che eralo stesso: così le fecero un buco nellagola e quella morì. Peppino, imme-diatamente, chiuse il buco con unturacciolo, la coprì bene bene, la misesu un letto e la portò ad un paesedove stava un medico bravo.

Là prese una camera nel miglioralbergo e al proprietario raccontòche sua moglie era malata e che do-veva andare a chiamare il medico perportarlo lì. Nella camera le tolse il tu-racciolo dalla gola e se ne andò.

Quando ritornò col medico,trovò la donna in un mare di san-gue e gridò che era stata uccisa. Sic-come quello stava faceva una chias-sata, il proprietario gli dette tantisoldi per farlo stare zitto.

Dopo un po’, Peppino andò alsuo paese più ricco e con l’aria. Ifratelli, gelosi e arrabbiati, gli chie-sero com’è che era diventato piùricco di prima e quello raccontò ilfatto giusto.

Ddà penzàvene sémbe a Pep-pine, e ca se velèvene vendecà:«Mó ci assime da ddó, u am’acci-te; chèssa vólde nan sfusce, uam’accite!».

Aqquanne assèrene, u acchiòrenee ’nge decèrene: «Mó t’am’accite», eccudde, ca jind’o frattjembe se jére’nzerate, disse: «Nan me site accedén-ne a mmé, accedite a megghiéreme».Le frate penzòrene ca jére u stèsse;acchesé ’nge facèrene ’ne bbuche’nganne e cchèdde merì. Peppine tan-ne tanne achjedì u bbuche che ’nefeldure, l’acchemegghià bèlle bbèlle, lamettì sóp’a ’ne lìette e la pertà a ’nepajìse adò stéve ’ne mjedeche buéne.

Ddà pegghià ’na càmere o még-ghje albèrghe e o patrune chendà cala megghiére jére malate e ca avévascì a chiamà u mjedeche pe pertau-ue ddà. Jinde a la càmere ’nge levàu feldure da ’nganne e se ne scì.

Aqquanne menì cu mjedeche, ac-chià la fèmmene jinde a ’ne marede sagne e gredà ca jére state accise.Seccóme cudde facéve la chiaranza-te, u patrune ’nge dette tanda terri-se pe ffaue stà citte.

Dópe ’ne mmuèrse, Peppine scì opajìse de jidde chiù rricche e chell’arie. Le frate, celuse e arrabbiate,’ngi addemannòrene cóm’jé ca jérechiù rricche de prime, e ccudde ’ngechendà u fatte ggiuste.

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«Ora dobbiamo fare anche noicosì», dissero i fratelli, e subito ucci-sero le mogli, le misero il turaccioloalla gola e andarono allo stesso al-bergo del fratello; ma il proprieta-rio, appena li vide, chiamò le guar-die. Li misero in galera per tantotempo, quelli dicevano sempre:«Quando usciamo, lo dobbiamouccidere, lo dobbiamo gettare inmare, così muore veramente».

Quando uscirono, andarono atrovare Peppino, lo presero, lo mise-ro in un sacco su un traino e si avvia-rono verso il mare. La strada era lun-ga e si fermarono ad una taverna permangiare e dormire, e lasciaronofuori il traino col carico. Peppino silamentava, e lo sentì un signore ric-co ed amico del re, che passava di là:«Chi è là?», disse; e Peppino: «Mi vo-gliono far sposare la figlia del re, e ionon la voglio». Quello, allora, che lavoleva lui la figlia del re, gli disse chesi metteva lui nel sacco per andare asposarsela e a Peppino gli dava tuttele ricchezze che aveva.

Il ragazzo acconsentì, e quandoi fratelli uscirono dalla taverna, an-darono vero il mare, si misero colsacco su una barca, e andarono agettarlo al largo.

Ritornati al paese, trovarono Pep-pino e si fecero meraviglia che eravivo e gli chiesero perché, e quello

«Mó ama fà pure nù adacche-sé», decèrene le frate, e ssùbete ac-cedèrene le megghiére, ’nge met-tèrene le feldure ’nganne e scèreneo stèsse albèrghe du frate; ma u pa-trune, cóme le vedì, chiamà le uar-dje. Le mettèrene ’ngalé pe tandatjembe, e cchisse decèvene sémbe:«Mó ci assime, u am’accite, u amascì a scettà a mmare, acchesé móreadavére».

Aqquanne assèrene, acchiòrenePeppine, u pegghiòrene, u mettèrenejinde a ’ne sacche sópe a ’na sciarrét-te, e scèrene vèrse u mare. La stratejére lógne e s’affermòrene pe mangiàe ddórme a ’na tavèrne, e lassòreneda fóre la sciarrette cu càreche. Pep-pine se lamendéve, e u sendì ’ne se-gnóre ricche e amiche du rré, ca pas-séve da ddà: «Chi è là?», decì; e Pep-pine: «Me vólene fà spesà la figghjedu rré, e jì nan la vógghje». Cudde,ca la velève jidde la figghje du rré, ’ngedisse ca se mettéve jidde jinde o sac-che pe scì a spesassille, e a Peppine ’ngedéve tutte le recchèzze ca tenéve.

U uagnóne acchesendì, e aqquan-ne assèrene le frate da la taverne,scèrene a mmare, se mettèrene cusacche sópe a ’na varche, e u scèrenea scettà o llarje.

Sciute o pajìse, acchiòrene arrétePeppine e se facèrene maravigghje cajére vive e ’ngi addemannòrene pec-

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rispose che una volta nel mare, erauscito dal sacco e aveva trovato tantesarde, era andato al porto nuotandonuotando e con una barca e una retele aveva pescate; erano molte, e luiera diventato ricco.

«Ora dobbiamo fare pure noicosì», dissero i fratelli, e dopo:«Mettici in un sacco e portaci amare». Peppino fece così: li misein due sacchi, li portò a mare, limise sopra una barca e andò allargo: «Vi posso gettare qui», equelli: «No, vai più in là che è piùprofondo», fino a quando, inmezzo al mare, gli dissero di get-tarli là.

Angela Pascazio

cè, e ccudde disse ca ’na vólde jind’ammare, jére assute do sacche e jéreacchiate tanda sarde, jére sciute opuèrte natanne natanne e che ’navarche e ’na rèzze le jére pescate; jére-ne assà, e jidde jére devendate ricche.

«Mó ama fà pure nù adacchesé»,decèrene le frate, e ddópe: «Mìttenejinde a ’ne sacche e ppuèrtene ammare». Peppine facì adacchesé: lemettì jinde a du sàcchere e le pertàa mmare, le mettì sópe a ’na varchee scì o llarje: «Ve pózze ammenàddó?», e cchidde: «Nóne, va’ chiù ddàca jé chiù affunne», fine a qquan-ne, mménz’a mmare, ’nge decèrenede scettalle ddà.

Anche questa novella, al pari delle altre sei qui proposte, ha un suogrado di realismo, nel senso che il fatto narrato, pur avendo elementi emomenti immaginari, viene costruito mettendo insieme comportamentie furbizie profondamente radicati nella società non solo del passato, maanche di oggi. Infatti, la divisione tra fratelli del patrimonio di famigliaè un eterno problema, che spesso scatena dinamiche reali ancora piùtragiche di quella presentata da questa novella.

Naturalmente, come avviene qui, assai diffusa è la pratica della con-giura orchestrata dai fratelli più grandi (più forti) ai danni del più pic-colo (più debole), alla cui arguzia si devono le tante situazioni diverten-ti che suscitano ilarità in chi ascolta.

La stórje de le tré ffrate, pur non priva di un intento pedagogico,vuole soprattutto suscitare distrazione e divertimento.

(R. M.)

* * *

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Stéve ’na vólde ’ne rré vidue catenéve sétte figghje fèmmene e ògn’ essére tenéve l’abetùdene de parlà chellóre.

’Na sére de statì stèvene o palaz-ze de la vellèggiature, ca jére jind’a’ne vóscue, e u rré ceccà a ògn’e ffig-ghje: «Cóme m’apprìezze?».

June respennì: «T’apprézzechecóm’ o sóle».

E ll’alde: «Cóm’a le stèdde».’N’aldune: «Cóm’o mare».Ma la lùldeme, ’na menènne de

désc’ianne, decì: «Papà, t’apprézze-che cóm’o ssale jinde a la menéstre».

U rré remanì bbrutte, e la cac-cià decénne: «Cóme te permitte dedisce adacchesé ad attande, u rré?Vattinne!».

La menènne tenéve ’nguéddeashkitte la camesédde, tremuave deffridde e se pegghiéve paiure. Cam-menà mménz’o vósche. Jére de nóttee nan z’affettéve nudde, ma vedì ’nalusce e scì ddà: jére ’ne palazze adójavetéve ’ne rré ca nan ére ’nzerate.

C’era una volta un re vedovoche aveva sette figlie, ed ogni seraaveva l’abitudine di parlare conloro.

Una sera d’estate, mentre stava-no nel palazzo della villeggiatura, chesi trovava in un bosco, il re chiese adogni figlia: «Come mi apprezzi?».

Una rispose: «Ti apprezzo comeil sole».

E l’altra: «Come le stelle».Un’altra: «Come il mare».Ma l’ultima, una bambina di

dieci anni, disse: «Papà, ti apprez-zo come il sale nella minestra».

Il re si offese, e la cacciò via di-cendo: «Come ti permetti di direcosì a tuo padre, il re? Vattenevia!».

La bambina aveva addosso sol-tanto la camiciola, tremava di fred-do ed aveva paura. Camminò nelbosco. Era di notte e non si vedevanulla, ma scorse una luce ed andòlì: era un palazzo dove abitava unre che non era sposato.

U RRÉ PELUSE(Il re peloso)

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Mattia Lacalamita: U rré Peluse (Aprile 2009)

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S’acquaquagghià dréte o pertóne eddà acchià u sénne.

U rré nan ’ge stéve e, ’mbarte ala matine, se retrétte. Tanne stévead aprì la pórte, ca ’nge sfescì ’nepidde. O remmóre fórte, la menèn-ne shcandà do sénne e se mettì acchiange.

«Oh, figlia, ho fatto dal mioculo!», disse u rrré, ca se facì mara-vigghje de cudde chiande. Po’ disse ale sìerve de pertalle jinde.

La dìa dópe la menènne ’nge chen-dà peccè s’acchiéve ddà. Da tanne urré la tenì cóm’a ’na figghje e cchèdde’nge veléve bbéne com’ a n’attane.

Ma u rré Peluse – acchesé ’nge de-cèvene – ògn’e ttande se ne scéve a’ne viagge e ògn’ e vvólde s’arecheman-néve che jèdde: «Puéte scì adó ué, manóne jinde a cchèssa càmere», e ’ngefacì avedé ’na càmere achjuse.

La menénne u sendéve. Passòre-ne l’anne e se facì pecceuèdde, e ’nadì ca u rré jére partute, penzà: «Pec-cè nan bózze scì jinde a cchèddacàmere?».

Acchesé trasì dà ninde: jére va-cande, e stéve ashkitte ’ne fenestró-ne achiuse; u aprì e assì sópe a ’nalógge. Facce ’mbrònde stéve n’aldepalazze, e ssópe a ’na lógge stéve ’nepappagalle, ca cóme la vedì shcamà:«Ih, la figghje du rré Peluse! Ih, lafigghje du rré Peluse!».

Si accovacciò dietro il portonee là si addormentò.

Il re non c’era e, verso la matti-na, si ritirò. Allora stava per aprirela porta, quando gli sfuggì unascorreggia. A quel rumore forte, labambina si svegliò di soprassalto esi mise a piangere.

«Oh, figlia, ho fatto dal mioculo!», disse il re, che si meravigliòdi quel pianto. Poi disse ai servi diportarla dentro.

Il giorno dopo la bambina gli rac-contò perché si trovasse lì; da quelgiorno il re la tenne come una figliae quella lo amava come un padre.

Ma il re Peloso – così lo chiama-vano – ogni tanto partiva per unviaggio ed ogni volta si raccoman-dava con lei: «Puoi andare dove vuoi,ma non in questa camera», e le fecevedere una camera chiusa.

La bambina ubbidiva. Passaro-no gli anni e diventò signorina, eun giorno che il re era partito, pen-sò: «Perché non posso andare inquella stanza?».

Così entrò dentro: era vuota, ec’era solo un finestrone chiuso; loaprì e uscì su un balcone. Di fron-te c’era un altro palazzo, e su unbalcone c’era un pappagallo, cheappena la vide esclamò: «Ih, la fi-glia del re Peloso! Ih, la figlia del rePeloso!».

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La pecceuèdde shcandà, se peg-ghià abbrevógne e paiure, peccé stévea ffà ’na cóse ca nan avéva fà, e sene fescì jinde.

Aqquanne se retrétte, u rré se n’av-vertì ca jére seccjesse ’ngualch’e ccóse, e’ngiu addemannà; e cchèdde chian-génne ’nge decì u fatte. U attane re-spennì: «Nan zì chiangénne, ma aq-quanne va arréte ddà, ’ngi’ada disce:

Pappagallo, pappagallo,dalle tue piume farò un ventaglio,dai tuoi occhi farò uno specchio,dalle tue zampe farò un bastone,sarò la sposa del tuo padrone!».

La pecceuèdde facì adacchesé, eu acìedde, a sendì chidde paróle, sene fescì. Da tanne, aqquanne assévesópe a la lógge e acchiéve u pappa-galle, decéve sémbe le stèsse paróle.

’Na dì assì ’ne uagnóne ca ’ngedisse: «So jì u patróne du pappagal-le; acchesé, me ué spesà!».

La pecceuèdde facì ròsse e se ne fe-scì. ’Ngiu chendà o rré Peluse, ca decì:«Te piasce cudde uagnóne? Jé ’ne prìn-gepe; ce u ué, t’u puéte spesà!».

Acchesé facèrene u matremónje,peccé pure o uagnóne ’nge piacévela pecceuèdde.

U rré Peluse ’mbetà tutte le rré cajavetàvene vecine, e ppure u attaneadavére de la pecceuèdde.

La dì de spesà, détte jòrdene a le

La ragazza si spaventò, ed ebbevergogna e paura, perché stava fa-cendo una cosa che non dovevafare, e scappò dentro.

Quando si ritirò, il re Peloso siaccorse che era successo qualcosa,e glielo chiese; e quella piangendogli disse il fatto. Il padre rispose:«Non piangere, ma quando vai dinuovo là, gli devi dire:

Pappagallo, pappagallo,dalle tue piume farò un ventaglio,dai tuoi occhi farò uno specchio,dalle tue zampe farò un bastone,sarò la sposa del tuo padrone!».

La ragazza così fece, e l’uccello,a sentire quelle parole, fuggì via.Da allora, quando usciva sul bal-cone e vedeva il pappagallo, dice-va sempre le stesse parole.

Un giorno uscì un ragazzo chele disse: «Sono io il padrone del pap-pagallo! Così, mi vuoi sposare!».

La ragazza diventò rossa e fuggìvia. Lo raccontò al re Peloso, che ledisse: «Ti piace quel ragazzo? È unprincipe; se vuoi, puoi sposarlo!».

Così combinarono il matrimo-nio, perché anche al giovanottopiaceva la ragazza.

Il re Peloso invitò tutti i re cheabitavano vicino, ed anche il veropadre della ragazza.

Il giorno del matrimonio, ordi-

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cuéche ca avèvena servì ashkitte accudde tutte le menjestre sénza sale.

Stèvene a la tavue, e le ’mbetatemangiàvene che ttutte u juste, peccèjèrene bbóne le piatanze, ma cudderré se facéve maravigghje peccè a jiddejèrene sciapite.

Aqquanne fernèrene de mangià,u rré Peluse ceccà a le ’mbetate: «V’àpiaciute u pranze?».

E ttutte respennèrene: «Sine, jérebbuéne!».

June ashkitte, ca jére u attane ada-vére de la *zite, decì: «Jére sciapite».

Allóre u rré Peluse decì: «V’agghiachendà ’na stórje», e chendà la stórjede la pecceuèdde. A la fine decì ouattane: «Chèdda menènne, jé la*zite; avite accapesciute ce jé ’mbor-tande u ssale jinde a la menéstre?».

Cudde accapescì e facì la pasceche la figghje.

nò ai cuochi di servire solo a quel-lo tutte le portate senza sale.

Stavano a tavola, e gli invitatimangiavano con tutto il gusto, per-ché le pietanze erano buone, maquel re si meravigliava perché a luierano insipide.

Quando ebbero finito di man-giare, il re Peloso chiese agli invita-ti: «Vi è piaciuto il pranzo?».

E tutti risposero: «Sì, era buo-no».

Uno solo, che era il vero padredella sposa, disse: «Era insipido».

Allora il re disse: «Vi devo rac-contare una storia», e raccontò lastoria della ragazza. Alla fine disseal padre vero: «Quella bambina èla sposa; avete capito quanto è im-portante il sale nella minestra?».

Quello capì e si riappacificò conla figlia.

Angela Pascazio

Le battute finali di questa novella non lasciano dubbi sull’intentoche la ispira, che è essenzialmente quello di proporre un insegnamentoed un ammonimento.

All’interno della famiglia patriarcale, un tempo così radicata e reale,non era data possibilità ad un figlio di rivolgersi ad un padre con parolediverse da quelle che esprimevano adulazione e sottomissione. Ancheuna risposta innocente, frutto di immediatezza e di spontaneità, come èquella della protagonista di questa novella, poteva causare reazioni im-prevedibili e molto severe, salvo poi arrivare ad una riconciliazione, grazieall’intervento di qualche intermediario.

* * *

(R. M.)

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IV

LE FIABE

“La fiaba è un racconto fantastico di origine popolare che si è tra-mandato oralmente, e che narra vicende ambientate in spazi e tempiindeterminati in cui compaiono esseri soprannaturali dotati di poterimagici, accanto ad animali parlanti e personaggi umani” (Marisa Car-là, Fiabe del Novecento, Palermo, 1998, p. 4).

Questa definizione della fiaba, che ricalca quelle di gran parte deglistudiosi di novellistica popolare, è allo stesso tempo vera e ingannevole.Dietro l’apparente semplicità della fiaba, infatti, si nasconde in realtà unastruttura compositiva complessa, che riguarda non solo il modo in cui essaè tecnicamente costruita, ma anche le diverse stratificazioni storiche e cul-turali che vi si sono depositate, e addirittura le influenze che l’inconsciocollettivo di una comunità o della nostra generale umanità vi ha trasfuso,proiettando in vicende e personaggi il percorso di formazione di un mododi essere dell’uomo sia come individuo che come membro di una società.

In sintesi, questo percorso si articola in una serie di tappe che vedo-no un personaggio protagonista (l’eroe) indotto o costretto da unamancanza ad allontanarsi da casa e a cimentarsi in una serie di prove,impostegli con un tranello da un avversario (antagonista); il supera-mento di queste prove, garantito dall’aiuto di altri personaggi dotati dipoteri o strumenti magici (aiutanti), consente all’eroe di tornare a casavincitore e, punito l’avversario, di colmare la mancanza o di conseguireun premio, consistente per lo più in un felice matrimonio.

Queste “tappe”, che sono come gli “ingredienti” della storia, sonostate esattamente individuate e definite dallo studioso russo VladimirPropp (Morfologia della fiaba, 1928), il quale ne ha individuate in tutto31, classificandole come “funzioni” che, in tutto o in parte, ricorronoin tutte le fiabe del mondo all’interno di quello schema fisso primaesposto. Di frequente, poi, un gruppo di funzioni si ripete uguale una

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o più volte, determinando così uno o più “passi”; ma anche l’interoschema compositivo può ripetersi con nuovi antagonisti e nuovi aiu-tanti, sino alla conclusione finale. (Per una più precisa conoscenza diqueste funzioni e del sistema dei personaggi, rimandiamo alla tavolasinottica presente a p. 82 e all’analisi compositiva di ciascuna fiaba).

Il nucleo compositivo della fiaba, dunque, è costituito dal determi-narsi di un destino umano che assume un valore simbolico e paradig-matico per l’intera comunità. Per questo, normalmente l’eroe è rappre-sentato da una figura di adolescente che, attraverso il distacco dall’am-biente domestico, matura una coscienza superiore di sé e stabilisce lapropria collocazione nel mondo.

Questo spiega anche tutto quello che di irreale, di astratto e indeter-minato si riscontra nella stesura del racconto: la piattezza dei personaggi,non delineati interiormente (Fecatjedde è solo un bambino “che vuolefare la guerra col re”); la semplificata caratterizzazione degli oggetti (iltamburo, il velo, l’anello); l’indeterminatezza dei tempi (’na dì, la matìnadópe; jére de vìerne) e dei luoghi (Peppiniello viene mandato a cercareuna regina “che abita lontano”); la fantasiosa varietà dei personaggi fatati(i venti, S. Giuseppe, la Papanorchia) e dei mezzi magici (l’asino cacasol-di, il tovagliolo che imbandisce la tavola, i peduncoli che ridiventanofichi); e poi l’uso di formule fisse (stéve ’na vólde, dópe de tanda strate), diripetizioni (cammenanne cammenanne, scénne scénne), di moltiplicazioni(tre figli, sette scimmie, sei scale), di esagerazioni (Fegatino si infila nel sede-re il mare). E colpisce anche la vaghezza dei sentimenti che animano i per-sonaggi (l’amore, l’avarizia, l’invidia), per cui si direbbe che, più che indivi-dui con proprie attitudini e ambizioni, ad agire siano forze e istinti primor-diali che si scontrano in una competizione condotta senza esclusione dicolpi, dove la vita e la morte, la sofferenza e la felicità, risultano deprivati diogni carica emotiva e quasi “sterilizzati” nella loro essenziale naturalità.

Ma questo è vero, beninteso, per gli adulti che raccontano la fiaba, oche la ascoltano, o la studiano; non è affatto così, invece, per gli elettidestinatari di questi racconti orali, i bambini, catturati e talvolta scon-volti da minacce e paure, ma alla fine regolarmente rassicurati e appa-gati nella loro identificazione con l’eroe trionfante.

E qui, proprio nella felice conclusione della vicenda e nell’appaga-

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mento del piccolo ascoltatore, si rivela la finalità più profonda, e più na-scosta, della fiaba: la sua intenzione morale e psicologica. “La morale del-la fiaba – cito Calvino – è sempre implicita, nella vittoria delle semplicivirtù dei personaggi buoni e nel castigo delle altrettanto semplici e asso-lute perversità dei malvagi… E forse la funzione morale che il raccontarefiabe ha nell’intendimento popolare, va cercata non nella direzione deicontenuti ma nell’istituzione stessa della fiaba, nel fatto di raccontarle ed’udirle” (Italo Calvino, Fiabe italiane, Cles, 1981, pp.53-54).

L’altro intento, quello psicologico, ci viene svelato invece dagli studi diCarl Gustav Jung, psichiatra svizzero fondatore della psicologia analitica.Secondo Jung, infatti, è proprio attraverso la fantasia che l’uomo riesce acogliere l’unità della sua complessa personalità interiore (il Sé), realizzandol’integrazione tra la sua parte cosciente (l’Io) e la sua parte inconscia (l’Om-bra). Questa interiorità dell’individuo, però, si configura diversamente nel-la psiche dell’uomo e della donna, poiché nell’uomo agisce soprattutto comeAnima, cioè come componente femminile di sé, avvertita come tenerezza,struggimento, emozione, mentre nella donna agisce come Animus, che èla sua componente maschile, la sua interiore proiezione dell’uomo, senti-to come audacia, forza, determinatezza (cfr. M. Carlà, op. cit, p. 5).

Le fiabe, dunque, al pari degli antichi miti, rappresenterebbero pro-prio questa ambivalenza dell’animo umano, lacerato tra intelletto e pas-sione, tra ragione e istinto, e proteso alla ricerca di una integrazione diqueste due forze contraddittorie in una superiore unità. (Anche qui,per una migliore comprensione di questo aspetto, rimandiamo al com-mento delle singole fiabe).

Insomma, come si diceva all’inizio, la fiaba non è affatto un raccon-tino semplice e facile come appare a prima vista, ma è piuttosto “unprodotto complesso, stratificato e indefinibile”, che, nelle sua infinitavarietà e infinita ripetizione, nasconde “una natura tentacolare, arac-noidea” (I. Calvino, op. cit., p. 13), coniugando una sapiente tecnicanarrativa con quelle generali qualità di grazia e leggerezza che, unite alfantastico e al meraviglioso, ne fanno un prodotto della cultura popola-re così affascinante e coinvolgente. Perché le fiabe, come fortementeriteneva Calvino, sono vere, in quanto “spiegazione generale della vita,nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminìo delle coscienze conta-

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dine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomoe a una donna, soprattutto per la parte di vita che appunto è il farsi diun destino: la giovinezza” (ibidem, p.15).

Serafino Corriero

PERSONAGGI E “FUNZIONI” SECONDO PROPP

Lo studioso russo Vladimir Propp (1895-1970), analizzando un cam-pionario di 100 “racconti di magia” secondo un criterio sincronico(confronto tra fiabe appartenenti a differenti paesi e culture), ha perprimo individuato in ciascun racconto la presenza di una “struttura”costante, determinata dal rincorrersi di personaggi e situazioni simili.

Il “sistema dei personaggi” prevede una serie di ruoli fissi, che sono:Eroe protagonista: è il personaggio principale della storia, ed è sempre

dotato di qualità positive. Se l’eroe è un maschio, a lui può spesso af-fiancarsi una eroina (deuteragonista), che ad un certo punto incrocia lasua vicenda con quella dell’eroe, fino alla conclusione del matrimonio.

Antagonista: dotato di qualità negative, è colui che cerca di ostacolare intutti i modi l’eroe, spesso assumendo false sembianze. Egli può anchepresentarsi inizialmente come un falso eroe.

Destinatore o Donatore: è un personaggio che di solito l’eroe incontra percaso, e dal quale viene messo alla prova prima di ottenere un mezzomagico o dei consigli risolutivi.

Aiutante: è colui che aiuta l’eroe a realizzare la sua impresa, oppure aiutal’antagonista ad operare contro l’eroe. Spesso è anche dotato di poterimagici.

Le azioni dei personaggi, che danno origine a situazioni simili nelle diver-se fiabe, si chiamano “funzioni” e, sebbene non compaiano sempretutte, si dispongono sempre nello stesso ordine generale. Propp ne haindividuate 31, che sono le seguenti:

1. Allontanamento: uno dei membri della famiglia è costretto ad allonta-narsi da casa, di solito per una mancanza.

2. Proibizione: all’eroe protagonista è rivolta la raccomandazione o impo-sto il divieto di non fare qualcosa.

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3. Violazione: l’eroe non obbedisce alla raccomandazione, oppure infran-ge il divieto.

A questo punto spesso entra in gioco l’antagonista.4. Investigazione: l’antagonista cerca di scoprire qualcosa per danneggiare

l’eroe o si mette sulle sue tracce per ostacolarlo.5. Delazione: l’antagonista ottiene delle informazioni sulla sua vittima.6. Tranello: l’antagonista, spesso ricorrendo a travestimenti o magie, ten-

ta di ingannare la sua vittima per privarla di qualcosa.7. Connivenza: il protagonista si fa ingannare dal suo avversario favoren-

dolo involontariamente.8. Mancanza o Danneggiamento: l’eroe avverte ad un certo punto che gli

manca qualcosa, e si muove per cercarla; oppure lui, o un membrodella famiglia, subisce un danno al quale va posto rimedio. Spesso lafiaba esordisce proprio con una mancanza che induce l’eroe ad agire.

9. Mediazione: all’eroe si rivolge la preghiera o l’imposizione di porrerimedio alla mancanza.

10. Inizio della reazione: l’eroe acconsente alla richiesta e comincia a rea-gire.

11. Partenza: l’eroe lascia la casa di sua iniziativa, mosso da qualche im-pulso, e dà inizio alla sua ricerca. Come l’allontanamento, anche lapartenza può trovarsi all’inizio della fiaba.

A questo punto di solito compare la figura del destinatore o del donatore,che aiuta l’eroe nella sua impresa dopo averlo messo alla prova.

12. Prima funzione del donatore: l’eroe è messo alla prova dal donatoreprima di ottenere il suo aiuto, che può anche consistere in un mezzomagico.

13. Reazione: l’eroe risponde alla prova, ma può andare incontro ad unsuccesso (supera la prova o rende un servigio) o ad un fallimento (nonriesce nell’intento).

14. Conseguimento del mezzo magico: l’eroe entra in possesso di un mezzomagico, che può essere un oggetto, o un animale, o un potere straordi-nario, e quindi riprende ad agire con maggiore impeto. Il mezzo magi-co può anche essere sottratto all’eroe, salvo essere recuperato in seguito.

15. Trasferimento: l’eroe arriva o viene portato nel luogo meta del suoviaggio, dove si trova l’oggetto della sua ricerca.

16. Lotta: l’eroe lotta con il suo antagonista o lo sfida in prove di abilità

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per poter continuare la sua ricerca, eventualmente aiutato da altri per-sonaggi o da animali al suo servizio.

17. Marchiatura: l’eroe riporta sul suo corpo un marchio, che può essereuna ferita, o un oggetto, o un segno qualsiasi che finisce per contrad-distinguerlo.

18. Vittoria: l’eroe supera il suo rivale in una prova o in una competizione.19. Rimozione: il danno o la mancanza vengono rimossi, ovvero il perso-

naggio viene liberato da una costrizione o da un incantesimo.20. Ritorno: l’eroe fa ritorno al luogo di partenza, spesso trionfante per la

felice conclusione della sua ricerca.21. Persecuzione: l’eroe è inseguito o perseguitato da un persecutore (uomo,

strega, animale), che intende impedire il suo cammino o addiritturaucciderlo.

22. Salvezza: l’eroe riesce a salvarsi dal suo persecutore mediante trucchio oggetti o poteri speciali.

A questo punto la fiaba può terminare con la funzione 31, oppure ri-prendere con altre funzioni, dette di movimento, con altre mancanze,altre ricerche, altri ostacoli.

23. Arrivo in incognito: l’eroe torna a casa o nel luogo prefissato senza farsiriconoscere.

24. Pretese infondate: il rivale dell’eroe o falso eroe si attribuisce il meritodi aver realizzato una impresa compiuta in realtà dall’eroe.

25. Compito difficile: all’eroe viene proposta una prova molto ardua dalpunto di vista fisico o intellettuale o morale.

26. Adempimento: l’eroe riesce a superare la prova difficile.27. Riconoscimento: l’eroe, tornato a casa, viene riconosciuto da un segno

che lo contraddistingue o da una particolare abilità.28. Smascheramento: il falso eroe viene smascherato perché, a differenza

del vero eroe, non riesce a superare la prova decisiva.29. Trasfigurazione: l’eroe, anche grazie alla magia, assume un nuovo aspet-

to. Se aveva le sembianze di un animale, subisce una metamorfosi eacquista la figura umana.

30. Punizione: l’antagonista o il falso eroe vengono puniti.31. Ricompensa: l’eroe, realizzata la sua impresa, ottiene la giusta ricom-

pensa, che può essere il regno o l’agognato matrimonio, o altro.(S. C.)

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U CIUCCE CACATERRÓISE(L’asino cacasoldi)

C’era una volta un ragazzo senzapadre che viveva con la madre. Era-no poveri e tiravano avanti comepotevano: la donna andava facendoi servizi e lasciava il figlio a casa per-ché facesse qualcosa, ma questi nonla sapeva fare tanto bene.

Un giorno disse al figlio di setac-ciare la farina, perché dopo dovevaimpastare una focaccia. Il ragazzo,che era scemo, si mise fuori, perchéfaceva caldo e stava un bel venticello.

Il vento di quel giorno era lo sci-rocco, vento dispettoso, che comelo vide, gli fece volare tutta la fari-na e si fece una bella risata. Il ra-gazzo rimase brutto, e si mise apiangere, poiché sapeva che lamamma gli doveva dare un saccodi mazzate quando ritornava, per-ché dovevano stare digiuni.

E così fu: la mamma si arrab-biò, ma il figlio disse: «Io devo an-dare a casa dello scirocco, perchémi deve dare indietro la farina».

Verso la controra, se ne andò

Stéve ’na vólde ’ne uagnónesénz’attane ca vevéve che la mamme.Jèrene poverjedde e ttràvene ’nnan-ze cóme petèvene: la fèmmene scévefacénne le servezzje e lasséve u figghjea la case pe ffà ’ngualche ccóse, macusse nan la sapéve fà tande bbuéne .

’Na dì ’nge disse o figghje de cèr-ne la farine, ca dópe avéva fà ’nafecazze. U uagnóne, ca jére scéme,se mettì daffóre, peccè facéve caldee stév ’ne bbèlle vjendecjedde.

U vjende de chedda dì jére u sce-rócche, vjende despettuse, ca cómeu vedì, ’nge facì vuà tutte la farinee se facì ’na bbèlla resate. U uagnó-ne remanì bbrutte, e se mettì acchiange, peccè u sapéve ca la mam-me ’ngi avéva dà ’ne sacche de maz-zate aqquanne menéve, peccèavèvena stà desciune.

E adacchesé fu: la mamme s’ar-rabbià, ma u figghje disse: «Jì ja scìa la case du scerócche, peccè m’avadà ’ndréte la farine».

’Mbarte a la condróre, se ne scì

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verso la casa del vento. Andandoandando, trovò un convento, e sic-come era sera e si era stancato, bus-sò e chiese se poteva dormire là; ilmonaco volle sapere dove andava,e quello gli disse tutto il fatto.

«Vieni, vieni», dissero i monaci,e lo fecero dormire». Il giornodopo, gli dissero pure la strada chedoveva fare per andare alla casa delvento.

Il ragazzo se ne andò, e cam-minando camminando arrivò. Làstava la mamma dei venti. Questaera una fata, e sapeva già tutto ilfatto; prese il ragazzo, se lo nasco-se sotto la veste e disse: «Figlio mio,adesso devono venire i venti e conla fame che hanno ti devono man-giare».

Vennero i venti ad uno ad unoe dicevano: «Oh, che odore dicarne di cristiani!»; e la madre ri-spondeva: «È l’agnello che sto ar-rostendo».

Quando finirono di mangiare, co-minciarono a raccontare i fatti: ilMaestrale disse di una barca in mez-zo al mare, e lui che aveva fatto agi-tare il mare. La Tramontana raccon-tò di aver fatto volare il mantello adun uomo che camminava per la stra-da, e lo Scirocco disse che aveva fat-to volare la farina ad un ragazzo scioc-co che la stava setacciando fuori.

vèrse la case du vjende. Scénne scén-ne, acchià ’ne cheménde, e seccómejére sére e se jére stangate, tezzeuà eaddemannà ce petéve dórme ddà.U móneche velì sapé adó scéve, eccudde ’nge disse tutte u fatte.

«Vìenne, vìenne», decèrene lemuénece, e u facèrene dórme. Ladìa dópe, ’nge decèrene pure la stra-te ch’aveva fà pe scì a la case duvjende.

U uagnóne se ne scì, e camme-nanne cammenanne arrevà. Ddàstéve la mamme de le vìende. Chès-se jére ’na fate, e sapéve già tutt’ufatte; pegghià u uagnóne, s’uaschennì sòtte a la véste e ddisse:«Figghje mì, mó ònna menì le vìen-de e che la fame ca ténene t’ònnamangià».

Menèrene le vìende a june a junee decèvene: «Uh, ci adóre de carnede crestiane!»; e la mamme respen-néve: «Jé u agnjedde ca stògghe adarròste».

Aqquanne fernèrene de mangià,acchemenzòrene a chendà le fàtte-re: u Majestrale disse de ’na varchemménz’a mmare, e jidde ca jére fat-te agetà u mare. Tramendane chen-dà ca jére fatte vuà u mandjedde a’nn’ómene ca scéve pe la vì, e u Sce-rócche disse ca jére fatte vuà la fari-ne a ’ne uagnóne scéme ca la cer-néve daffóre.

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Disse la mamma dei venti:«Quel ragazzo è qui, è molto pove-ro, e vuole indietro la farina».

I venti si commossero, e gli die-dero un asino affatato e dissero:Quando vuoi i soldi, devi dire “Asi-no, caca i soldi!”, e quando non nevuoi più, digli “Basta!”.

Tutto contento, il ragazzo se neandò con l’asino, e alla sera arrivò alconvento e bussò per dormire là.

Subito fece venire tutti i mona-ci nella camera dove mangiavanoper dir loro una cosa da farsi me-raviglia. Quando stavano tutti, dis-se: «Ciuccio, caca i soldi!», e l’asinosi mise ad espellere tanti soldi, e imonaci a raccogliere da terra. Poiil ragazzo disse: «Basta!», e l’asinofinì di cacare i soldi.

Poi il ragazzo se ne andò a dor-mire, e il frate priore gli disse chel’asino stava nella stalla e che il mat-tino dopo se lo poteva prendere edandarsene, ma durante la notte imonaci scambiarono l’asino e ilgiorno seguente il ragazzo presel’asino senza accorgersi di nulla.

Giunto all’angolo di casa sua,gridò: « Mamma, mamma, tira fuo-ri la tovaglia buona, perché ti devofar vedere una bella cosa».

La mamma con la santa pazien-za, prese la tovaglia buona e la miseper terra.

Disse la mamme de le vìende:«Cudde uagnóne stà ddó, jé poverjed-de, e vvóle la farine ’ndréte».

Le vìende s’acchiatòrene, e ’ngedéttere ’ne ciucce affatate e decèrene:«Aqquanne ué le terrise, adà disce“Ciucce, cache terróise!”, e aqquan-ne na ne ué cchiù, dinge “Avaste!”».

Tutte chendénde, u uagnóne se nescì cu ciucce, e a la sére arrevà ocheménde e tezzeuà pe ddórme ddà.

Sùbete facì menì tutte le muéne-ce jinde a la càmere adó mangiàve-ne pe dìscenge ’na cóse de fasse ma-ravigghje. Aqquanne stèvene tutte, uuagnóne disse: «Ciucce, cache terrói-se!», e u ciucce se mettì a cacà terri-se, e le muénece ad adenà da ’ndèr-re. Po’ disse: «Avaste!», e u ciucce fer-nì de cacà le terrise.

Po’ u uagnóne se scì a ccòlche, e ufrate prióre ’nge disse ca u ciucce stévejinde a la stadde e ca la matinadópe su petéve pegghià e scissinne,ma la nótte le muénece scangiòreneu ciucce, e la dìa dópe u uagnóne sepegghià u ciucce sénz’ avvèrtissinnede nudde.

Arrevate o pezzule de la case, gre-dà: «Mamme, mamme, jìesse la te-vagghia bbóne, ca t’agghia fà vedé’na bbèlla cóse».

La mamme, che la sanda pacién-ze, pegghià la tevagghia bbóne e lamettì ’ndèrre.

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Michele Cramarossa: U ciucce cacaterróise (Marzo 2001)

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«Ciuccio, caca i soldi!», diceva ilragazzo; e di nuovo: «Ciuccio, cacai soldi!»; ma siccome l’asino non nevoleva sapere, afferrò una scopa egli diede tante mazzate che la bestiaquesta volta cacò davvero sulla to-vaglia buona.

La donna, nel vedere questo,non vide più, e lo fece nuovo nuo-vo di mazzate dicendo: «Ora te nedevi andare, sparisci dagli occhimiei! Cosa ho fatto per avere un fi-glio così scemo?».

Il ragazzo, che credeva di esserestato preso per fesso dai venti, tor-nò di nuovo alla caverna per farsiavere l’asino fatato.

Là successe lo stesso dell’altra vol-ta: i venti prima mangiarono e dopola mamma disse loro quello che eraaccaduto al ragazzo e all’asino.

I venti, che erano buoni, gli die-dero un tovagliolo e gli dissero:«Quando vuoi mangiare, devi dire:“Tovagliolo, metti tavola!”».

Tutto contento, il giovane se neandò, e pure questa volta andò alconvento per dormire. Chiamò dinuovo tutti i monaci e disse al fra-te priore di non far cucinare, e poidisse: «Tovagliolo, metti tavola», ela tavola si riempì di ogni sorta diben di Dio.

I monaci mangiarono fino adabuffarsi, e quando il ragazzo andò

«Ciucce, cache terróise!», decéveu uagnóne; e arréte: «Ciucce, cacheterróise!»; ma seccóme ca u ciuccenan ne veléve sapé, auuandà nascópe e ’nge détte tanda mazzate cala bbéstje cacà adavére sópe a la te-vagghia bbóne.

La fèmmene, a vedé adacchesé,nan affettà cchiù, e u facì néve névede mazzate, decénne: «Mó te na dascì, sparisce da nanze a ll’écchje mì!Cèrrabbe sò ffatte p’avé ’ne figghjeacchesé scéme?».

U uagnóne, ca se credéve d’éssestate pegghiate pe ffésse da le vìende,scì arréte a la gròtte pe ffasse avé uciucce fatate.

Ddà seccedì u stèsse de l’alda vól-de: le vìende apprime mangiòrene eddópe la mamme ’nge disse cudde cejére seccjesse o uagnóne e o ciucce.

Chisse, ca jèrene bbuéne, ’nge dét-tere ’ne salviétte e ’nge decèrene:«Quanne ué mangià, adà disce:“Salviétte, mitte tàvue!”».

Tutte chendénde, u uagnóne sene scì, e ppure chèssa vólde scì ocheménde pe ddórme. Chiamà ar-réte tutte le muénece e ddisse o frateprióre de nan và checenà, e ppo’disse o salviétte: «Salviétte, mitte ta-vue!», e la tavue s’agnì d’ògn’e bbé-ne de Ddì.

Le muénece mangiòrene ad ab-beffarse, e aqquanne u uagnóne se

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a coricarsi, mise il tovagliolo piega-to sul comodino. Il mattino seguen-te, lo riprese e se ne andò alla casa, enon si accorse che durante la nottei monaci glielo avevano cambiato.

Quando arrivò all’angolo dellacasa, gridò: «Mamma, mamma,non cucinare oggi, perché ti devofar vedere una bella cosa!».

La mamma lo ascoltò di nuovoma quando si misero a tavola permangiare, non successe nulla; haivoglia a dire: «Tovagliolo, metti ta-vola».

Così quel giorno rimasero di-giuni, e la donna, arrabbiata, gri-dò al figlio: «Vattene da qui den-tro, prima che ti dò mazzate».

Il ragazzo, pensando di esserestato ingannato un’altra volta, andòalla grotta dei venti.

Successe lo stesso come le altredue volte, e siccome i venti sapeva-no che questo ragazzo era scemo,gli dissero: «Vai al convento e chia-ma i monaci; quando stanno tuttiinsieme, devi dire a questo basto-ne che ora ti diamo: “A la testa a latesta, all’infuori della testa mia!”; edopo devi dire: “Tirate fuori l’asi-no e il tovagliolo!”. Quando te liavranno tirati fuori, dirai: “Basto-ne, basta!”; prendili e vattene, per-ché sono stati loro ad ingannarti».

Solo allora il ragazzo capì tutto

scì a ccòlche, mettì u salviétte chjeca-te sópe a la colonnétte. La matinadópe, s’u pegghià e se ne scì a la case,e nan ze n’avvertì ca la nótte le mué-nece u avèvene scangiate.

Aqquanne arrevà o pezzule de lacase, gredà: «Mamme, mamme, nanzì checenanne jósce, ca t’agghia fàvedé ’na bbèlla cóse!».

La mamme arréte u sendì, maacqquanne se mettèrene a la tavuepe mangià, nan zeccedì nudde;évogghje a ddisce : «Salviétte, mittetavue!».

Acchesé chèdda dì remanèrenedesciune, e la fèmmene arrabbiategredà o figghje: «Vattinne da dó nin-de, prime ca te dògghe mazzate».

U uagnóne, penzanne de jésse sta-te ’ngannate ’n’alda vólde, scì a lagròtte de le vìende.

Seccedì u stèsse cóme all’ald’e ddùvólde, e seccóme ca le vìende sapève-ne ca cusse uagnóne jére scéme, ’ngedecèrene: «Va’ o cheménde e cchia-me le muénece; aqquanne stònnetutte ’nzìeme, adà disce a ccusse ba-stóne ca mó te dame: “A la cape a lacape, da fóre la capa mé!”; e ddópeadà disce: “Assìteme u ciucce e u sal-viette!”. Aqquanne te l’ònne assute,tanne di’: “Bastóne, avaste!”; acciaf-fatille e vattinne, peccè ònne statelóre a frecatte».

Ashkitte tanne u uagnóne acca-

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il fatto, e fece come gli avevano det-to i venti.

Andò al convento, chiese alpriore di far venire tutti i monaci edisse: «Bastone, alla testa alla testa,all’infuori della testa mia!»; e il ba-stone, dalli a dare mazzate a tutti imonaci, che gridavano «Basta!».

E il ragazzo diceva: «Tiratemifuori l’asino ed il tovagliolo!». Tan-te mazzate ebbero i monaci dal ba-stone, che gli diedero l’asino e il to-vagliolo, e così il ragazzo se ne andòalla casa.

Dall’angolo un’altra volta gridò:«Mamma, mamma, chiama moltagente, ché vi devo far vedere unacosa».

La donna, che se lo voleva to-gliere davanti, chiamò i parenti e ivicini di casa. Il figlio fece cacare isoldi all’asino e fece mettere tavoladal tovagliolo.

Ma ogni giono la gente andavaalla casa del ragazzo per avere i sol-di e per mangiare gratis.

Un bel giorno il ragazzo si stancòe ordinò al bastone: «A la testa allatesta, all’infuori della testa mia!», ecosì tutti quanti ebbero tanter maz-zate che se ne andarono alle case.

Da quel giorno, la mamma e ilfiglio ebbero soldi e da mangiareper sempre.

Angela Pascazio

pescì tutt’u fatte, e facì cóme ’ngejèrene ditte le vìende.

Scì o cheménde, ceccà o prióre defa menì tutte le muénece e ddisse:«Bastóne, a la cape a la cape, da fórela capa mé!»; e u bastóne, dalle addà mazzate a ttutte le muénece, cagredàvene “Avaste!”.

E u uagnóne decève: «Assìtemeu ciucce e u salviétte!». Tanda maz-zate avèrene le muénece do bastó-ne, ca ’nge déttere u ciucce e u sal-viétte, e acchesé u uagnóne se ne scìa la case.

Do pezzule ’n’alda vólde gredà:«Mamme, mamme, chiame tandaggénde, ca v’agghia fà vedé ’na bbèl-la cóse».

La fèmmene, ca su veléve levà dananze, chiamà le parjende e le veci-ne de case. U figghje facì cacà le ter-rise o ciucce e facì mètte tavue dosalviétte.

Ma ògn’e ddì la ggénde scèvene ala case du uagnóne p’avé le terrise epe mangià ’ndune.

Na bbèlla dì u uagnóne se stangàe jerdenà o bastóne: «A la cape a lacape, da fóre la capa mé!», e acchesétutte quande avèrene tanda mazza-te ca se ne fescèrene a le càsere.

Da chèdda dì, la mamme e u fig-ghje tenèrene terrise e da mangià pessémbe.

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SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

- Eroe protagonista: il ragazzo orfano e un po’ scemo.- Danneggiamento: lo Scirocco disperde la farina.- Partenza: il ragazzo parte di sua iniziativa per colmare la mancanza.- Falso aiutante: i monaci accolgono il ragazzo e gli indicano la strada per

andare alla casa dei venti.- Trasferimento: arrivo alla casa dei venti.- Aiutante intermediario: la mamma dei venti raccomanda il ragazzo ai figli.- Donatore: i venti, già cattivi e dispettosi, si commuovono e donano

all’eroe il mezzo magico.- Fornitura del 1° mezzo magico: l’asino cacasoldi.- Ritorno: 1a tappa al convento.- Delazione-Complicità: il ragazzo rivela ai suoi avversari le virtù del-

l’asino.- Antagonista: i monaci avidi.- Tranello: i monaci sostituiscono l’asino cacasoldi con un asino comune.- Connivenza: l’eroe cade nel tranello.- Ritorno: il ragazzo torna a casa.- Reazione-fallimento: l’eroe non rende il servigio alla mamma (letame

invece di denari).- 2° passo: da Trasferimento a Reazione-fallimento: il ragazzo ottiene dai

venti, e si fa togliere dai monaci, il 2° mezzo magico (il tovagliolo cheimbandisce le vivande), e delude ancora la mamma.

- 3° passo: da Trasferimento a Fornitura del 3° mezzo magico (il bastoneche dispensa legnate).

- Inizio della reazione: l’eroe acconsente al consiglio dei venti e inizia areagire.

- Ritorno: 3a tappa al convento.- Punizione: i monaci vengono duramente bastonati.- Rimozione: l’eroe rientra in possesso dei mezzi magici sottratti.- Ritorno: l’eroe rientra definitivamente a casa.- Reazione-successo: il ragazzo rende finalmente alla madre il servigio pre-

fisso (soldi e vivande).- Danneggiamento: parenti e vicini approfittano della generosità dell’eroe.- Antagonista: la gente profittatrice.

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- Reazione: il ragazzo fa ricorso al bastone per cacciare via i profittatori.- Punizione: Parenti e vicini profittatori vengono bastonati e cacciati via.- Rimozione-Riparazione: il danno viene rimosso e si ricompone, ad un

livello superiore, l’equilibrio tra madre e figlio.

Questa fiaba sintetizza due fiabe raccolte da Calvino nel suo già cita-to libro: “Il regalo del vento tramontano”, proveniente dal Mugello(Toscana), e “Ari-ari, ciuco mio, butta danari”, da Maglie (Terra d’Otran-to). Nella prima, il vento tramontano dona all’eroe contadino due sca-tole (una che fornisce vivande e un’altra che distribuisce bastonate),delle quali fruiscono un monaco priore disonesto e la moglie ciarlieradell’eroe. Nella seconda, il ragazzo-eroe riceve da Nanni Orco tre mezzimagici: un ciuco cacadenari, un tovagliolo che imbandisce vivande euna mazza che mena fendenti; dei tre strumenti si giovano prima lostesso eroe e poi un locandiere disonesto, fino al soddisfacimento, daparte del ragazzo, delle aspettative di sua madre.

In realtà, come spiega lo stesso Calvino, la fiaba dei doni magici di-spensatori di cibi e ricchezze sottratti al legittimo proprietario, e successi-vamente riacquistati grazie ad un altro dono magico che dispensa legnateo fa fiorire in testa corna ramificate, è diffusissima in Europa e in Asia(cfr. I. Calvino, op. cit., pp. 334 sgg. e 459 sgg.).

Come si vede dalla sua struttura compositiva, questa fiaba è assai com-plessa, sia per la presenza di numerosi personaggi e di molteplici mezzimagici, sia per i diversi ruoli svolti insieme da alcuni personaggi (i monaci,prima accoglienti, diventano malvagi; i venti, prima cattivi e dispettosi, di-ventano buoni), sia anche per la iterazione del danneggiamento subìto dal-l’eroe (prima la farina, poi i mezzi magici, infine parte della propria ric-chezza). Di conseguenza, la fiaba si articola in più “passi”, come li chiamaPropp, cioè nella reiterata ripresa di una intera fase dello svolgimento del-l’azione (qui l’eroe si deve allontanare tre volte da casa prima di farvi undefinitivo e felice ritorno); ma perfino la conclusione è anch’essa complica-ta, perché il ragazzo, dopo aver sconfitto i monaci, è costretto anche adaffrontare i parenti e i vicini di casa che approfittano della sua generosità.

Ricca e complessa è anche la lettura morale e psicologica del racconto.All’inizio della vicenda, il ragazzo è un povero scemo incapace di fare

(S. C.)

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qualcosa di buono. Poi, un giorno, all’improvviso, di fronte all’ennesimasciocchezza da lui compiuta e all’ennesimo rimprovero da parte dellamamma, prende l’inopinata decisione di partire, come mosso da un oscuroimpulso interiore, per rimediare ad un evento negativo che rivela a luistesso, prima che agli altri, la propria stoltezza-incapacità-immaturità.

Egli entra così per la prima volta in contatto con la sua Ombra, cioècon il proprio inconscio, che gli rimprovera la sua pochezza e la suadebolezza, e nello stesso tempo con la sua Anima, cioè con la sua inte-riorità emotiva e impulsiva, che egli non riconosce neppure nella ma-dre, costretta dalle condizioni di miseria, dopo la morte del marito, afare da “uomo di casa” che sostiene la famiglia con il suo lavoro.

Ed anche la madre, evidentemente, ricoprendo un ruolo improprio,è in conflitto con sé stessa, e riversa questo conflitto sul figlio, che vor-rebbe vedere, alla luce del suo Animus, come un ragazzo sveglio, auda-ce e determinato.

Si avvìa, così, per il ragazzo, un vero e proprio percorso di iniziazio-ne: il passaggio, attraverso l’esperienza di inganni e fallimenti, dall’igno-ranza alla conoscenza di sé, aiutato dai venti, cioè da quelle forze inte-riori sinora latenti, che, emergendo lentamente dal profondo della psi-che, gradualmente si rafforzano, fino ad imporsi sulle proprie insuffi-cienze e sui propri sensi di colpa. La metamorfosi, alla fine, è compiuta,e trova la sua consacrazione quando il ragazzo, di sua iniziativa, ha an-che l’accortezza di cacciare via i profittatori ricorrendo al bastone. Ora,finalmente, il ragazzo e la madre possono vivere riccamente felici, per-ché l’uno si è appropriato della parte di sé mancante e l’altra si è libera-ta della parte di sé sovrabbondante, e i due possono pienamente inte-grarsi, accettandosi e riconoscendosi a vicenda.

Di qui, infine, l’insegnamento morale e il significato simbolico dellastoria, valido per l’intera comunità: il riscatto dell’individuo buono, madebole e solo; la punizione delle persone avide e profittatrici; l’ambiva-lenza bene-male, nella inversione di ruoli tra i venti e i monaci, comeespressione delle contraddizioni dell’animo umano; il rapporto inte-grato e consapevole tra madre e figlio, garanzia di stabilità della fami-glia e dell’intera comunità.

Serafino Corriero

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’Na vólde, stéve ’na reggine canan denéve figghje peccè nan nepetéve avé e prejéve sémbe la Ma-dónne: «Madónna mé, famme avé’ne figghje, come jé e jé!». E ttandepreià ch’assì inginde e facì ’ne prin-cipine, ca però... jéve ’ne puèrche.

«Nan vasce nudde – disse la reg-gine –, avaste ca me jé ffigghje».

U puèrche crescì cu tjembe, majéve lurde e ’nzevuse; però la mam-me ’nge veléve bbéne u stèsse.

’Na dì disse: «Mamme, mam-me...».

E la reggine: «Ce ué?».«Me vógghje spesà».«Figghje mì, tu sì ’ne puèrche, ne-

sciune t’avà velé pegghjà».«Vógghje la figghje de cóma

Marì».Finalménde, la reggine mannà a

chiamà cóma Marì e ’ngiu decì.Chéssa cóma Marì jéve ’na fèmme-ne ca javetéve dà ’nnanze, e tenévesé figghje cu marite e ’na fegghiastre,peccé u marite jéve vidue.

U PRÌNGEPE CA NASCÌ PUÈRCHE(Il principe che nacque porco)

C’era una volta una regina chenon aveva figli perché non ne pote-va avere e pregava sempre la Madon-na: «Madonna mia, fammi avere unfiglio, come sia sia». E tanto pregòche uscì incinta e fece un principi-no, che però... era un porco.

«Non fa nulla – disse la regina –,basta che mi è figlio».

Il porco crebbe col tempo, maera lurido e sudicio; ma la mammagli voleva bene lo stesso.

Un giorno disse: «Mamma,mamma...».

E la regina: «Che vuoi?».«Mi voglio sposare».«Figlio mio, tu sei un porco,

nessuna ti vorrà prendere».«Voglio la figlia di comare

Maria».Finalmente, la regina mandò a

chiamare la comare Maria e glielodisse. Questa comare Maria era unadonna che abitava lì davanti, ed ave-va sei figlie col marito e una figlia-stra, perché il marito era vedovo.

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Cóma Marì, come u sendì, dissesùbbete sine, e penzà alla figghia chiùmenònne. Chèdde nan veléve, ma lamamme la chenvengì decénne: «Nan’mbasce nudde ca te spuse ’ne puèr-che: dópe ada jésse ’na reggine».

La dì de spesà, stàvene a mangiàche ttutte le ’mbetate. U puèrche man-già fescénne e ddópe, che le ciambe,arrebbà ’na brascióle do piatte dela megghiére e cchèdde ’nge disse:«Vattinne, cusse puèrche!».

Dópe, ’nge veléve fà ’na carèzze,ma la ciambe jéve lòrde e ’nge straz-zà la vésta bbianghe. «Vattinne, cus-se puèrche!», disse arréte la megghiére.Fingh’a la sére ’ngiu ddisse tanda vól-de ca cudde s’arrabbià, e aqquannese scèrene a ccòlche, l’accedì.

La matina dópe, la camarére scìpe destalle, e vedì la *zita mórteménz’a ttanda sagne. Se mettì a gre-dà e acqquanne menì la reggine,decì: «Citte, citte, nan zite decénnenudde a nesciune!».

Mannà a chiamà cóma Marì, e’nge disse: «Perdùneme, ma fìgghjemejé ’ne puèrche. No sime decénne anesciune».

Passà ’n’anne, e u puèrche disse ala reggine: «Mamme, mamme, mevógghje spesà».

E la reggine respennì: «Arréte? Tusì ’ne puèrche, nesciune te vóle; e po’,sì accise già ’na megghiére!».

La comare Maria, come lo sen-tì, disse subito sì, e pensò alla figliapiù piccola. Quella non voleva, mala mamma la convinse dicendo:«Non fa niente che ti sposi un por-co: dopo sarai una regina».

Il giorno del matrimonio stava-no mangiando con tutti gli invitati.Il porco mangiò velocemente edopo, con le zampe, afferrò dal piat-to della moglie una braciola, e quel-la gli disse: «Allontanati, porco!».

Dopo, lui le voleva fare una ca-rezza, ma la zampa era lurida e lestracciò il vestito bianco. «Allonta-nati, porco!», disse la moglie. Fino asera glielo disse tante volte che quel-lo si arrabbiò, e quando andaronoa coricarsi, la uccise.

La mattina seguente, la came-riera andò per svegliarli, e vide laragazza morta in un mare di san-gue. Si mise a gridare e quandoarrivò la regina, questa disse: «Zit-ti, zitti, non dite niente a nessuno!».

Mandò a chiamare la comareMaria e le disse: «Perdonami, mamio figlio è un porco. Non dicia-mo niente a nessuno».

Passò un anno, ed il porco dissealla regina: «Mamma, mamma, mivoglio sposare».

E la regina rispose: «Ancora? Tusei un porco, nessuna ti vuole; e poi,hai anche ucciso una moglie!».

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Ma cudde: «Vógghje l’alda figghjede cóma Marì».

La reggine mannà a chiamà cómaMarì e ’ngiu decì, e cchèdde disse sine’n’alda vólde. Sénze ca se fasce a lalógne, u puèrche se spesà le sé figghjede cóma Marì e l’accedì tutte, peccéchidde u nanesciàvene e ’ngiu decève-ne ’nanze a ttutte le ’mbetate.

Passà u tjembe, e u puèrche se velìspesà pure la fegghiastre de cómaMarì. Chèdde disse a la reggine: «Ceme ne ’mbórte: av’accise tutte le fig-ghje mé, accedèsse pure a cchèsse».

Ma aqquanne ’ngiu decì a la feg-ghiastre, chèdde se mettì a cchiange pec-cè nan veléve, ma la matré ’nge déttemazzate e la pecceuèdde disse ca velévetre ddì de tjembe pe ddà ’na respóste.

A la matine scéve o camesande, adòstéve prequate la mamme, e chiangévee cecchéve aiute. La terza dì, ’mbarte ala sére, la mamme ’nge respennì: «Spu-satiue u puèrche, ma ada fà cóme te dig-ghe jì». ’Nge détte le chenziglje e acche-sé la pecceuèdde se velì spesà u puèrche.

La dì de spesà, stàvene tutte allatavue, e u puèrche strafequéve manghece ’ngi avévena levà u piatte da ’nan-ze, ma la *zite stéve ’ndandavigghje,acchessè, aqquanne vedì ca u maritestéve a mangià l’ùldema brascióle, ’ngedisse: «Nà, marite mì», e ’nge mettì’na brascióla sò jinde o piatte de jidde.

U puèrche se ne prescià, ’nge facì

Ma lui: «Voglio l’altra figlia dicomare Maria».

La regina mandò a chiamare lacomare Maria e glielo disse, e quelladisse di sì un’altra volta. Per farla bre-ve, il porco sposò le sei figlie di co-mare Maria e le uccise tutte, perchéquelle lo schifavano e glielo diceva-no davanti a tutti gli invitati.

Passò il tempo, e il porco si vollesposare anche la figliastra di coma-re Maria. Quella disse alla regina:«Che m’importa? Ha ucciso tutte lemie figlie, uccidesse anche questa».

Ma quando lo disse alla figliastra,quella si mise a piangere perché nonvoleva, ma la matrigna la picchiò e laragazza disse che voleva tre giorni ditempo per dare una risposta.

La mattina andava al cimitero,dove era sepolta la mamma, e pian-geva e chiedeva aiuto. Il terzo giorno,verso sera, la mamma le rispose: «Spo-satelo il porco, ma devi fare come tidico io». Le diede dei consigli, e cosìla ragazza si volle sposare il porco.

Il giorno delle nozze, stavano tut-ti a tavola, e il porco si rimpinzavacome se gli dovessero togliere il piat-to davanti, ma la sposa era vigile, ecosì, quando vide che il marito stavamangiando l’ultima braciola, gli dis-se: «Prendi, marito mio», e gli miseuna braciola sua nel piatto di lui.

Il porco fu contento, le fece la

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la carèzze che la ciamba lòrde e ’ngestrazzà la vesta bbianghe.

La *zite respennì: «Marite mì,tu me la sì strazzate, e ttu m’ad’ac-cattà l’alda chiù bbèlle».

A la sére se scèrene a ccòlche e la*zite disse a la reggine: «Me fascefridde, famme appeccià u fuéche».

Fu acchendandate, e aqquanneu marite se spegghià e se levà la péd-de de puèrche, la *zite, alla ’mba-me, la scettà jinde o fuéche. Sòtte acchèdda pédde, stéve ne bbèlle ggiòve-ne ca disse: «Ah, sé! Me sì levate cus-se chiangóne: jì tenéve ’na mascì case levéve ce qualchedune m’abbre-scéve la pédde».

La matina dópe, la reggine dissea la sèrve: «Vògghe jì a destalle, tan-de u sacce ca jagghj’acchià la *zitamórte». Ma aqquanne aprì la pór-te e vedì cusse bbèlle ggiòvene che lamegghiéra vive, se ne prescià.

Dópe, u figghje ’nge chendà tutteu fatte, e da tanne fùrene tutte chen-djende.

carezza con la zampa sporca e lestrappò il vestito bianco.

La sposa rispose: «Marito mio,tu me l’hai strappato, e tu me necomprerai un altro più bello».

Alla sera si andarono a coricaree la sposa disse alla regina: «Hofreddo, fammi accendere il fuoco”.

Fu accontentata, e quando losposo si spogliò e si tolse la pelle diporco, la sposa, con gesto fulmineo,la gettò nel fuoco. Sotto quella pel-le stava un bel giovane che disse:«Ah, sì! Mi hai tolto questo peso:io ero vittima di un incantesimoche si sarebbe sciolto se qualcunomi avesse bruciato la pelle».

La mattina seguente, la reginadisse alla serva: «Vado io a svegliarli,tanto lo so già di trovare la sposamorta». Ma quando aprì la porta evide quel bel giovane con la mo-glie viva, fu felice.

Dopo, il figlio le spiegò tutto ilfatto, e da allora vissero tutti felicie contenti.

Angela Pascazio

- Eroe protagonista: il principe che nasce porco.- Doppia mancanza: il principe non possiede la figura umana e desidera una moglie.- Aiutante: la mamma regina si impegna a procurargli una moglie.

SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

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Anche questa fiaba richiama una tra quelle raccolte da Calvino (“Ilre serpente”, da Palmi di Calabria, in op. cit., p. 495), ma solo nellaprima parte di questa, là dove il principe serpente, dopo aver uccisodue spose di umili origini, trova la sua vera moglie nella figliastra di unaregina alla quale la mamma morta consiglia di indossare sette vesti parialle sette pelli del serpente. La notte dopo il matrimonio i due si leve-ranno, uno per uno, indumenti e pelli, fino a che l’ultima pelle toltascoprirà nel serpente un bellissimo giovane, che però può rivelarsi solodi notte. La fiaba poi prosegue con varie prove imposte dal principealla ragazza per ottenere che il giovane possa mostrarsi tale anche digiorno.

La fiaba riprende motivi notissimi, che rimandano soprattutto allasplendida favola di Amore e Psiche narrata dallo scrittore latino Lucio

- Aiutante-intermediario: comare Maria convince sua figlia a sposare il porco.- Rimozione parziale-Matrimonio: il principe si sposa e si festeggiano le nozze.- Antagonista: la moglie si rivela ostile al marito ributtante.- Vittoria: il porco-eroe uccide la moglie ostile.- Salvataggio: l’uccisione viene tenuta nascosta.- Movimento: nuova mancanza, nuovi antagonisti, nuovi salvataggi, negli stessimodi del 1° passo.- Mancanza: il principe, dopo aver sposato e ucciso le sei figlie di comare Maria,vuole sposare anche la figliastra.- Aiutante-Intermediario: la regina e la comare cercano di procurargli la settimamoglie.- Falso antagonista-Eroina deuteragonista: la ragazza rifiuta il matrimonio e chiedetempo.- Aiutante-Destinatore: la mamma morta dà alla ragazza i consigli risolutivi.- Rimozione parziale-Matrimonio: il principe si sposa e si festeggiano le nozze.- Reazione-successo dell’eroina: la ragazza, seguendo i consigli della madre, superale tre prove di fronte al marito ributtante.- Trasfigurazione: il porco si trasforma in un bel giovane.- Rimozione completa della mancanza e Ricompensa-matrimonio: conferma dellenozze e vita felice. (S. C.)

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Antonio Longo: U prìngepe ca nascì puèrche (Giugno 2005)

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Apuleio (II sec. d. C.) ne “Le metamorfosi ovvero L’asino d’oro”, doveAmore, descritto come mostruoso serpente all’ignara Psiche dalle sueinvidiose sorelle, può raggiungere la sua sposa solo di notte senza chequesta possa mai vederlo.

Anche questa fiaba presenta una struttura compositiva complessa,soprattutto per la presenza, nella figura dell’eroe, di una doppia man-canza (la figura umana e la sposa) e per l’intervento di un deuteragoni-sta, l’eroina, che si presenta inizialmente come antagonista dell’eroe.

In effetti, in questa fiaba prendono forma due diversi destini umani:quello dell’eroe, che, turbato dalle reazioni delle prime mogli, vince i suoiistinti animaleschi e recupera la sua umanità; e quello dell’eroina che,ripiegandosi nell’intimo colloquio con la sua Ombra (la figura della mam-ma morta), trova in sé le energie psichiche per vincere il ribrezzo di unmarito-porco (probabile allusione alla paura del primo atto sessuale), di-ventare donna e salvare il giovane dal suo infame destino. E, se il giovaneprincipe-porco è mosso nel suo rapporto con le mogli dalla sua idea delladonna come gentile e amorevole, la ragazza è mossa nel suo rapporto colmarito dall’idea che il suo uomo debba essere bello e forte.

Tra le due figure protagoniste, tuttavia, non c’è dubbio che la fiabadia maggior rilievo all’eroina e, più in generale, all’elemento femmini-le. Questo aspetto, fondamentale in tantissime fiabe, è stato studiatospecificamente da una allieva di Jung, Marie-Louise von Franz, autricedi una saggio che si intitola proprio “Il femminile nella fiaba” (Torino,1955) e di diverse altre pubblicazioni intese alla interpretazione psico-logica delle fiabe, delle quali si rivelano tutte le sfumature simboliche.

In questa nostra fiaba, in particolare, si può riconoscere la presenzadi questo elemento femminile già nella figura della regina che, proprioin quanto donna, e quindi di natura pregiudizialmente malefica, primaviene punita con la mancanza di figli, e poi è essa stessa “colpevole”della nascita mostruosa di un figlio porco. Ma anche nella figura del-l’eroina questo elemento è preponderante, poiché essa, più che acquisi-re coscienza di sé, ha il compito, ben più arduo, di riscattare l’eroemaschile dall’incantesimo che lo imprigiona (cfr. M.Carlà, op. cit. p.7).

Serafino Corriero

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’Ne vécchje tenéve tre ffigghje, eprime de merì ’nge lassà la sóla cóseca tenéve ’ne stezze de terréne chetré jarve de fiche: june de fiche at-tave, june de fiche a scòrce e june defiche a la reggine.

Jére de vjerne, e cchisse uagnunestévene a merì de fame. Allóre, uchiù ggranne scì fóre pe vedé ce stéve’ngualch’e ccóse da recógghje.Shcandà aqquanne vedì u uarve dele fiche attave chjine de frutte ama-ture, le chegghjì, le mettì jinda a ’naspórte, l’acchemegghià che la ra-canédde e le scì a vvènne o pajìsevecine, adó stéve u rré.

Scénne scénne, acchià ’ne vécchjeca ’ngi ademannà: «Céte puèrte jin-de a cchèdda spórte?», e ccudde re-spennì: «Surche e ssìerpe»; e u véc-chje: «E cchidde t’ad’acchià!».

Arrevate o pajise, gredà: «Ce vólele fiche attave?».

U sendì la reggine, ca stéve pré-ne, e ’nge menì u desedérje, peccè jérecondratìempe pe le fiche.

Un vecchio aveva tre figli e, pri-ma di morire, lasciò loro la sola cosache possedeva, un pezzo di terre-no con tre alberi di fichi: uno difichi dottati, uno di fichi scorcia euno di fichi regina.

Era d’inverno, e questi ragazzi sta-vano morendo di fame. Allora, ilpiù grande andò in campagna pervedere se ci fosse qualcosa da racco-gliere. Si meravigliò quando videl’albero dei fichi dottati pieno difrutti maturi, li raccolse, li mise inuna sporta, li coprì con un grem-biule e andò a venderli al paese vi-cino, dove stava il re.

Andando andando, incontròun vecchio che gli domandò:«Cosa porti in quella sporta?», equello rispose: «Topi e serpi»; e ilvecchio: «E quelli ti ritroverai!».

Arrivato al paese, gridò: «Chivuole i fichi dottati?».

Lo sentì la regina, che era incin-ta, e le venne la voglia, perché nonera tempo di fichi.

PEPPENJEDDE E LE FICHE A LA REGGINE(Peppiniello e i fichi alla regina)

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U rré mannà sùbete a chiamà uuagnóne p’accattalle, ma aqquanneschemmegghiòrene la spórte, assère-ne surche e ssìerpe, e tanne tanne fupertate ’ngalé.

Passà u tjembe, e u ualde frate scìfóre, pure jidde p’arecógghje qualch’eccóse, e vedì u uarve de le fiche a scòr-ce che le frutte amature; le chegghjì,le mettì jinde a ’na spórte, l’acche-megghià che la racanédde e le scì avvènne o pajìse adó stéve u rré.

Scénne scénne, acchià u stèsse vé-cchje, ca ’ngi addemannà: «Cétepuèrte, uagliò!»; e ccudde respennì:«Surche e ssìerpe»; e u vécchje: «Ecchidde t’ad’acchià!».

O pajìse gredà: «Ce vóle accattàle fiche a scòrce?».

A la reggine ’nge menì arréte udesedérje, ma aqquanne la uardjeschemmegghià la spórte, assèrene lesurche e le sìerpe, e ppure cusse fu per-tate ’ngalé.

U tèrze uagnóne, ca se chiama-ve Peppenjedde, scì fóre e acchià lefiche a la reggine amature, le cheg-ghjì, agnì ’na spórte, e le scì a vvèn-ne o pajìse du rré.

Scénne scénne, acchià cudde véc-chje de prime, ca ’nge ceccà: «Cétepuèrte jinde a la spórte?», e ccudderespennì: «Le fiche a la reggine». Mapo’ se vedì bbrutte, s’assedì o quéste edecì: «Mange». Pure a jidde ’nge

Il re mandò subito a chiamareil ragazzo per comprarli, ma quan-do scoprirono la sporta, uscironotopi e serpi, e allora stesso fu por-tato in galera.

Passò del tempo, e l’altro fratelloandò in campagna, anche lui perraccogliere qualcosa, e vide l’alberodei fichi scorcia coi frutti maturi; liraccolse, li mise in una sporta, li co-prì con un grembiule e li portò avendere al paese dove stava il re.

Andando andando, trovò lostesso vecchio, che gli domandò:«Cosa porti, ragazzo?»; e quello ri-spose: «Topi e serpi»; ed il vecchio:«E quelli ti ritroverai!».

Al paese gridò: «Chi vuole com-prare i fichi scorcia?».

Alla regina venne di nuovo ildesiderio, ma quando la guardiascoprì la sporta, uscirono topi e ser-pi, ed anche questo fu portato ingalera.

Il terzo ragazzo, che si chiama-va Peppiniello, andò in campagnae trovò i fichi regina maturi, li rac-colse, riempì una sporta e andò avenderli al paese del re.

Andando andando, trovò quellostesso vecchio, che gli chiese: «Cosaporti nella sporta?», e quello gli rispo-se: «I fichi regina». Ma poi sì senti inimbarazzo, si sedette al suo fianco edisse: «Mangia». Anche a lui venne

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menì u desedérje, e acchesé se man-giòrene tutte la spórte de le fiche.

U vécchje, ca po’ jéve San Gesép-pe, decì: «Nan zi scettanne le pede-cine, mìttele arréte jinde a la spór-te, acchemmuégghjele che la racanéd-de e vvalle a vvènne o pajìse».

E ppo’ decì angóre: «Ce u rré s’ac-catte le fiche e te vóle pajà, tu di’ canan ué le terrise, ma c’ava fà assì da’ngalé a ffratte e ca ué cudde cavad-de staddigne ca jidde téne achiusejinde a la stadde».

Peppenjedde arrevà o pajìse e gre-dà: «Ce vóle le fiche a la reggine?».

La reggine le veléve assaprà, ac-chesé u rré mannà la uardje pe vedéce jére adavére ca tenéve le fiche, eccóme schemmegghià la spórte, assère-ne cèrte fiche a la reggine ma’ viste.

U rré u veléve pajà assà, ma Pep-penjedde ceccà cudde ca ’nge jére ditteu vécchje.

U rré u acchendandà, e ccómePeppenjedde s’avvecenà o cavadde,cudde devendà benigne. Da chèddadì facì la vite du segnóre, e le fratefateiàvene o castjedde.

Aqquanne arrevà u meménde desgravarse, la reggine merì.

Dópe ’ne mmuèrse de tjembe, lefrate de Peppenjedde decèrene o rré:«Tu t’adà spesà arréte. Stà ’na reg-gina bèrafatte assà ca jàvete lenda-ne: chèdde jé bbóne pe tté».

il desiderio, e si mangiarono tuttala sporta dei fichi.

Il vecchio, che poi era San Giu-seppe, disse: “Non buttare i pedun-coli, mettili di nuovo nella sporta,ricoprili col grembiule e vai a ven-derli al paese».

E poi disse ancora: «Se il re com-pra i fichi e ti vuole pagare, tu di-gli che non vuoi i soldi, ma chedeve far uscire di galera i tuoi fra-telli e che vuoi quel cavallo ribelleche tiene rinchiuso nella stalla».

Peppiniello arrivò al paese e gri-dò: «Chi vuole i fichi regina?».

La regina li voleva assaggiare, cosìil re mandò la guardia per vedere sefosse vero che aveva dei fichi, e quan-do scoprì la sporta, vennero fuori cer-ti fichi regina mai visti.

Il re voleva pagarlo molto bene,ma Peppiniello chiese quello chegli aveva detto il vecchio.

Il re lo accontentò, e non appe-na Peppiniello si avvicinò al cavallo,quello diventò benigno. Da quelgiorno fece la vita del signore, ed ifratelli lavoravano al castello.

Quando fu il momento di par-torire, la regina morì.

Dopo un po’ di tempo, i fratellidi Peppiniello dissero al re: «Tu tidevi sposare di nuovo. C’è una re-gina molto bella che abita lonta-no: quella va bene per te».

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U rré addemannà: «Adó jàvetechèssa reggine?»; e cchidde decèrene:«Peppenjedde u sape», peccè jéreneceluse e u velèvene mannà lendanedo castjedde.

U rré mannà a chiamà u uagnó-ne, e ’nge decì: «Vamme a pegghiàchèssa reggine ca tu canusce, ce senóne te mànneche a mmórte».

Peppenjedde na u sapéve adó stévechèssa reggine, e scì a la stadde chian-génne, ma u cavadde, ca jére affata-te, ’nge decì: «Crà matine amà par-tì sùbbete, ma tu pigghje ’ne mmuèr-se de vatte e ’ne panétte de pane».

La matina dópe se ne scèrene, pas-sòrene da ’ne vósche, e ddà stéve ’naghézze ’mbregghiate jinde a le spine.

U uagnóne decì: «Mó l’acciàffe-che e la facche arrestute».

Ma u cavadde ’nge decì: “Nón-zignóre, ne póte abbesegnà».

Passòrene do mare, e ssópe a ’nechiangóne stéve ne pèsce, ca jére urré de le pisce. Peppenjedde decì: «Móu acciàffeche e m’u fàzzeche arrestu-te, ca me téne fame».

«Nónzignóre, ne póte abbese-gnà», decì u cavadde.

Passòrene da ’na vanne adóstèvene tanda fermiche ad arraiarsepe ne mmuèrse de pane.

U cavadde decì: «Fa’ u ppane astézzarjedde e dangìue a le fermiche,ca stònne a merì de fame».

Il re domandò: «Dove abitaquesta regina?»; e quelli dissero:«Peppiniello lo sa», perché eranogelosi e lo volevano mandare lon-tano dal castello.

Il re mandò a chiamare il ragaz-zo e gli disse: «Vai a prendermiquesta regina che tu conosci, se noti mando a morte».

Peppiniello non sapeva dove stes-se questa regina, e andò piangendoalla stalla, ma il cavallo, che era fata-to, gli disse: «Domattina partiremopresto, ma tu prendi con te un po’di ovatta ed una pagnotta di pane».

La mattina dopo se ne andaro-no, passarono da un bosco, e là c’erauna gazza aggrovigliata fra le spine.

Il ragazzo disse: «Ora la catturoe la faccio arrosto».

Ma il cavallo gli disse: «Nossi-gnore, ci può servire».

Passarono vicino al mare e so-pra uno scoglio c’era un pesce, cheera il re dei pesci. Peppiniello dis-se: «Ora lo prendo e me lo faccioarrosto, perché ho fame».

«Nossignore, ci può servire», dis-se il cavallo.

Passarono da un posto dove sta-vano molte formiche a litigare perun po’ di pane.

Il cavallo disse: «Sminuzza ilpane e dallo alle formiche, chemuoiono di fame».

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U uagnóne facì acchesé e le fer-miche nan z’arraiòrene cchiù.

Dópe de tanda strate, arrevòre-ne a ’na tòrre sénza pórte, che ’nafenéstre all’arje all’arje, e atturnestèvene tand’arve fulde de róse.

U cavadde decì: «Mitte u vatte ale campanjedde de le finemjende, can’am’avvecenà citte citte. Sópe a latòrre stònne tré ffèmmene ca aq-quanne m’ònna vedé, ’ngi avà menìu desedérje de fars ’ne ggire e ònnascènne. La prime m’avà ’nghianà’nguédde e ama fà ’ne ggire atturneatturne a la tòrre, po’ s’ava fà u ggi-re la secònde, e ddópe l’ùldeme, ca jéla reggine. Tu ascùnnete sòtte a’nn’arve de róse, e ccóme pàsseche jìche la reggine, ammìnete sópe ammé, ca n’ama scì».

Peppenjedde facì adacchesé, e ucavadde fescì cóme a ’na saiétte.

La reggine se sendì de fòtte e pe-dènne, aqquanne arrevòrene omare, se levà ’n’anjedde e u scettàmménze a la fertune; po’ scettà ’nevéle mménze o vósche.

Arrevòrene o pajìse, e u rré adde-mannà a la reggine ce se veléve spe-sà, ma chèdde respennì: «Prime dedarte ’na respóste, m’ada fà nepiacére: jinde a la tòrre stà ’ne men-dóne de lijume tutte meshcate, m’adàcapà le lendècchje, m’ada jègne ’nesacche e m’u adà pertà».

Il ragazzo così fece, e le formi-che non litigarono più.

Dopo tanta strada, arrivaronoad una torre senza porte e con unafinestra alta alta, ed intorno c’era-no tanti alberi folti di rose.

Il cavallo disse: «Metti l’ovattaai campanelli dei finimenti, per-ché mi devo avvicinare in silenzio.Sulla torre ci sono tre donne chequando mi vedranno, avranno ildesiderio di farsi un giro e scen-deranno. La prima monterà su dime e faremo un giro intorno allatorre, poi si farà un giro la secon-da, e dopo l’ultima, che è la regi-na. Tu nasconditi sotto un albe-ro di rose, e come passo io con laregina, salta su di me, che ce neandiamo».

Peppiniello fece così, ed il caval-lo si allontanò come una saetta.

La regina si sentì di fottere eper questo, quando arrivarono vi-cino al mare, si tolse un anello elo buttò fra le onde; poi gettò unvelo nel bosco.

Arrivarono al paese, ed il re chie-se alla regina se si voleva sposare,ma quella rispose: «Prima di dartiuna risposta, mi devi fare un piace-re: nella torre c’è un mucchio di le-gumi tutti mescolati, mi devi sceglie-re le lenticchie, me ne devi riempi-re un sacco e me lo devi portare».

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Alessandro Brancaccio: Peppenjedde e le fiche a la reggine (Aprile 2003)

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U rré penzà: «Peppenjedde m’av’ac-chià la drètte»; u mannà a chiamà e’nge decì: «Ce nan vasce cèrrabbe tedigghe, te manghe a mmórte».

U uagnóne chiangénne scì a lastadde, e u cavadde decì: «Mó amascì adó am’acchjate le fermiche,amà chiamà la reggine e ’ngi amadisce de fà cusse servizzje; nu ava fàa ffórze, peccè ’ngi ame date u ppa-ne aqquanne lóre merèvene defame».

Facèrene adacchesé, e la regginemannà tutte le fermiche a capà lelendècchje. Jinde a qquanne tu sòdditte, se specciàrene. Peppenjeddeagnì ’ne sacche e u pertà o rré, ca udétte a la reggine.

Ma chèdde decì: «Menénne ddò,sò perdute ’n’anjedde jind’o mare:m’u ad’acchià».

Arréte u rré ’ngiu decì a Pep-penjedde, e ccusse scì chiangénnejind’a la stadde, e u cavadde ’ngedecì: «Mó ama scì o mare, adàchiamà u rré de le pisce e ’ngi adàcercà d’acchiarte u anjedde. T’avafà a ffórze u piacére, peccè tanne usalvaste».

Facèrene adacchesé, e ttutte le pi-sce se mettèrene ad acchià u anjed-de, e Peppenjedde u pertà o rré.

Ma la reggine decì: «Jinde o vó-sche só perdute ne véle, u vógghje ac-chianne».

Il re pensò: «Peppiniello mi devetrovare la dritta»; lo mandò a chia-mare e gli disse: «Se non fai ciò cheti dico, ti mando a morte».

Il ragazzo piangendo andò allastalla, ed il cavallo disse: «Adesso an-dremo dove abbiamo trovato le for-miche, dobbiamo chiamare la regi-na e le dobbiamo dire di fare questoservizio; ce lo deve fare per forza, per-ché gli abbiamo dato il pane quan-do loro morivano di fame».

Fecero così, e la regina mandòtutte le formiche a scegliere le len-ticchie. In men che non si dica, sispicciarono. Peppiniello riempìun sacco e lo portò al re, che lodette alla regina.

Ma quella disse: «Venendo qui,ho perduto un anello nel mare: melo devi trovare».

Di nuovo il re lo disse a Peppi-niello, e questo andò piangendoalla stalla, ed il cavallo gli disse:«Ora dobbiamo andare al mare,chiamerai il re dei pesci e gli chie-derai di cercarti l’anello. Ti devefare per forza il piacere, perché al-lora lo hai salvato».

Fecero così, e tutti i pesci si mi-sero alla ricerca dell’anello, e Pep-piniello lo portò al re.

Ma la regina disse: «Nel boscoho perduto un velo, lo voglio ria-vere».

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Arréte Peppenjedde scì chiangén-ne a la stadde, e u cavadde decì:«Ama scì o vósche e adà chiamà laghèzze e ’ngi adà cercà d’acchiarteu véle: t’ava disce a ffórze sine, peccèla sì salvate da le spine».

Acchesé la ghèzze vedì ca n’acjed-de se stave a ffà u nite cu véle, ’ngiulevà e u détte a Peppenjedde, ca upertà o rré.

La reggine nan ére scéme, e jéreaccapesciute ca Peppenjedde ’ngiacchiave la drètte o rré, e ’nge decì:«Ce sì capasce d’ammenarte jinde a’ne furne appecciate tré vvólde e d’as-sì vive, jì te spùseche».

U rré decì a Peppenjedde: «Tut’ad’ammenà jind’a ’ne furne e amafà créte ca sò state jì».

Peppenjedde chiangénne scì a lastadde e decéve: «Mó jé la mórtamé».

Ma u cavadde decì: «Jé la mórtamé, invéce. Mó puèrteme fescénnefingh’aqquanne nan shcàtteche’nguèrpe; tanne nan zi chiangénne,ma lìeveme sùbbete la shcume da’nguédde e mmìttele jinde a ttré pe-gnatjedde. Aqquanne t’ad’am-menà jind’o furne, jùngete tutte chela shcume du prime pegnatjedde, po’che cchèdde du ualde, e ppo’ che cchèd-de du tèrze. Aqquanne u rré t’adde-manne che ccéte te sì angiute, tu adàdisce: “Llarde e ’nzògna vécchje”».

Di nuovo Peppiniello andòpiangendo alla stalla, ed il cavallodisse: «Andremo nel bosco e chia-merai la gazza e le chiederai di cer-carti il velo; ti deve dire per forzasì, perché l’hai salvata dalle spine».

Così la gazza vide che un uccel-lo si stava facendo il nido col velo,glielo tolse e lo diede a Peppiniel-lo, che lo portò al re.

La regina non era scema, ed ave-va capito che Peppiniello trovavala dritta al re, e gli disse: «Se sei ca-pace di buttarti per tre volte in unforno acceso e di uscirne vivo, io tisposo».

Il re disse a Peppiniello: «Tu tidevi buttare in un forno e dobbia-mo far credere che sono stato io».

Peppiniello piangendo andòalla stalla e diceva: «Adesso è lamorte mia».

Ma il cavallo gli disse: «È la miamorte, invece. Adesso portami ve-loce fino a che non schiatto in cor-po; allora non piangere, ma togli-mi subito la schiuma di dosso emettila in tre piccole pignatte.Quando ti devi gettare nel forno,ungiti tutto con la schiuma dellaprima pignatta, poi con quelladell’altra, e poi con quella dellaterza. Quando il re ti domandacon che cosa ti sei unto, tu devidire: “Lardo e sugna vecchia”».

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Peppenjedde facì adacchesé, upertà fingh’o vósche fescénne e chian-gì assà aqquanne merì u cavadde,ma arrjescì a levange la shcume e usedóre da ’nguédde.

Dópe scì o pajìse, adó tutte ustàvene ad aspettà cu furne appec-ciate.

U uagnóne se spegghià, s’angì e sescettà tré vvólde jinde o furne.

U rré penzà: «Ci av’assute vivePeppenjedde, pòzzeche assì vive purejì»; e ’ngi addemannà: «Che ccétete sì angiute?».

Peppenjedde respennì: «Llarde e’nzògna vécchje».

U rré se facì preparà cusse ’mba-ste, s’angì e s’ammenà jinde o furne,ma jidde merì abbresciate.

La reggine allóre decì: «Pep-penjedde à ffatte tutte chisse cóse, e ajidde m’agghia spesà».

E adacchesé se facì, e le frate de Pep-penjedde se resecuòrene d’ammidje.

Peppiniello fece così, lo portòfino al bosco a tutta corsa e piansemolto quando il cavallo morì, mariuscì a togliergli la schiuma e ilsudore di dosso.

Dopo andò al paese, dove lo sta-vano tutti ad aspettare col forno ac-ceso.

Il ragazzo si spogliò, si unse e sigettò tre volte nel forno.

Il re pensò: «Se è uscito vivoPeppiniello, posso uscire vivo an-ch’io»; e gli chiese: «Con che cosati sei unto?».

Peppiniello rispose: «Lardo esugna vecchia».

Il re si fece preparare questo im-pasto, si unse e si gettò nel forno,ma lui morì bruciato.

La regina allora disse: «Peppi-niello ha fatto tutte queste cose, elui io mi devo sposare».

E così si fece, ed i fratelli di Pep-piniello si rosero d’invidia.

Angela Pascazio

- Falso eroe: 1° figlio.- Mancanza-Partenza: ha fame e va in campagna per raccogliere qualcosa.- Rimozione: trova fichi maturi d’inverno.- Partenza: il giovane parte per andare a vendere i fichi.- Prima funzione del donatore: il vecchio mette alla prova il giovane pri-ma di procurargli il mezzo magico.

SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

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- Reazione-fallimento: il giovane risponde male e viene colpito da unamaledizione.

- Trasferimento: il giovane arriva al paese per vendere i fichi.- Smascheramento: il falso eroe non supera la prova.- Punizione: il falso eroe viene messo in prigione.- 2° passo, da Falso eroe a Punizione: il secondo figlio compie le stesseazioni del primo e subisce la stessa sorte.

- Eroe protagonista: Peppiniello.- Mancanza-Partenza: si reca in campagna, evidentemente indotto anchelui dalla fame.

- Rimozione: trova i fichi alla regina maturi.- Partenza: Peppiniello parte per andare a vendere i fichi.- Prima funzione del donatore: il vecchio mette alla prova l’eroe prima diprocurargli il mezzo magico.

- Reazione-successo: Peppiniello rende il servigio al vecchio e supera laprova.

- Fornitura del mezzo magico: Il vecchio raccomanda a Peppiniello i pe-duncoli, che diverranno fichi.

- Aiutante-Destinatore: il vecchio dà a Peppiniello le opportune istruzioni.- Trasferimento: Peppiniello arriva al paese per vendere i fichi.- Reazione-successo: Peppiniello supera la prova e rende il servigio al re.- Ricompensa: il re concede all’eroe la liberazione dei fratelli e il cavalloribelle.

- Conseguimento del mezzo magico: Peppiniello diventa padrone del ca-vallo magico.

- Mancanza: la regina muore e il re si ritrova solo.- Antagonista: i fratelli invidiosi vogliono allontanare Peppiniello dal pa-lazzo del re.

- Aiutante dell’antagonista: il re mette alla prova l’eroe.- Mediazione: il re impone a Peppiniello di procurargli una sposa.- Inizio della reazione: Peppiniello intraprende la ricerca che gli è stataaffidata.

- Allontanamento: Peppiniello lascia il palazzo col cavallo magico.- Conseguimento del mezzo magico: Peppiniello si fa amici una gazza, unpesce e le formiche, dotati di poteri straordinari.

- Trasferimento: Peppiniello arriva nel luogo dove potrà trovare l’oggettodella sua ricerca.

- Rimozione: Peppiniello rapisce la regina ed elimina la mancanza.

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- Ritorno: l’eroe torna al palazzo con la sposa per il re.- Reazione-successo: Peppiniello rende il servigio al re e supera la prova.- 2° passo, da Nuova mancanza a Reazione-successo: la sposa esige dal re lelenticchie e Peppiniello, con l’aiuto delle formiche, gliele procura.

- Falso eroe-Pretesa infondata: il re, falso eroe, si appropria dell’impresa diPeppiniello.

- 3° passo, da Nuova mancanza a Pretesa infondata: Peppiniello, con l’aiutodel pesce, procura al re l’anello.

- 4° passo, da Nuova mancanza a Pretesa infondata: Peppiniello, con l’aiutodella gazza, procura al re il velo.

- Compito difficile: la regina impone al falso eroe, il re, di buttarsi trevolte nel forno infuocato.

- Mediazione: il re impone a Peppiniello di sperimentare la prova.- Inizio della reazione: Peppiniello è costretto ad accettare la prova diffici-le e si rivolge al cavallo.

- Aiutante-Destinatore: il cavallo è pronto a sacrificarsi per il suo padronee fornisce a Peppiniello i consigli risolutivi.

- Trasferimento: corsa col cavallo fino al bosco dove l’eroe si procurerà unnuovo mezzo magico.

- Conseguimento del mezzo magico: Peppiniello si procura la schiuma e ilsudore del cavallo.

- Ritorno: l’eroe ritorna al palazzo provvisto del mezzo magico.- Adempimento: Peppiniello, grazie alla schiuma del cavallo, supera laprova difficile.

- Smascheramento-Punizione: il re, falso eroe, non supera la prova e vienepunito con la morte.

- Ricompensa-Matrimonio: la regina decide si sposare Peppiniello.- Punizione: i fratelli antagonisti di Peppiniello si rodono d’invidia.

(S.C.)

Questa fiaba, come si vede, ha una struttura compositiva estrema-mente complessa, alimentata dalla presenza di molti personaggi e dimolti mezzi magici, ma anche dai molteplici ruoli assunti da qualcunodi essi (il re è aiutante, mediatore, falso eroe, antagonista) e dal sovrap-porsi di alcuni ruoli (gli animali sono tutti dotati di poteri speciali e gliantagonisti sono ora i fratelli, ora il re).

E tuttavia la fiaba, tra le più dinamiche e avvincenti, si conclude

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classicamente con un matrimonio regale, ma questo neppure richiestoo progettato dall’eroe, ma semplicemente offertogli dalla regina comeadeguata ricompensa per le straordinarie virtù da lui mostrate grazie aisuoi strumenti magici (che poi sono le sue stesse virtù). In realtà, Peppi-niello è sin dall’inizio presentato come un personaggio positivo attra-verso un altro espediente narrativo tipico delle fiabe, il contrasto, percui il vecchio padre muore lasciando tre figli, ma, di questi, due sonoegoisti e cattivi, l’ultimo è buono e altruista.

Ma anche qui si intravede il percorso di vita di Peppiniello, che,dotato di questa naturale bontà -che gli deriva anche dalla serena ac-cettazione della sua condizione sociale misera e subalterna, per cui siacconcia a sostenere le prove al posto del re-, alla fine si ritrova riscatta-to dal suo destino di miseria ed elevato alla dignità regale: non un veropercorso di formazione, dunque, capace di trasformare interiormenteil personaggio, ma piuttosto un percorso di riconoscimento e premia-zione delle sue innate virtù.

Rispetto allo “statico” Peppiniello, in effetti, è la regina che, con lesue capricciose e sempre più esigenti pretese, mostra di essere un perso-naggio dinamico, fino ad intuire i meriti del vero autore delle diverseimprese (perché “non era scema”), a smascherare il falso eroe, e a deci-dere di sua volontà di concedersi in premio al servo, facendolo re. Conquesta scelta, in realtà, essa finisce per conciliare, e forse moderare, ilsuo Io femminile, cioè la consapevolezza della sua indole dispettosa,capricciosa e volubile, con il suo Animus maschile, cioè con l’idea in-conscia dell’uomo come individuo dotato di abilità, coraggio, sicurezzadi sé, che lei proietta non nel re, inetto e infingardo, ma nell’umileservo dalle mille risorse: tanto che vien quasi da pensare che il vero eroedi questa fiaba non sia veramente l’innocuo Peppiniello, ma piuttostol’intraprendente regina.

Più scoperta e facile, invece, la morale della fiaba: a chi è buono consé e con gli altri (e addirittura, cristianamente, con i suoi nemici -i fra-telli-), il destino (o la Provvidenza, presumibilmente rappresentata dalvecchio destinatore, identificato significativamente con S. Giuseppe)non mancherà di procurare la giusta ricompensa.

Serafino Corriero

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’Na fèmmene nan betéve avé fig-ghje e se pegghiéve la bbile; pedènnechiangéve e priéve sémbe adacchesé:«Madónna mé, famme avé ’ne fig-ghje, pure ca jé menunne».

La Madónne l’acchendandà e’nge facì nasce ’ne meninne gréssequand’ a ’ne fecatjedde. La fèmme-ne u stèsse fu chendénde e u chiamàFecatjedde. Passà u tiembe e u me-ninne crescéve d’età, ma remanévesémbe menunne.

A ddùdece anne la mamme ’ngerialà ’ne tammurre, e acchesé u ua-gnóngjedde scéve pe ttutte u pajìsecandanne e senanne: «Mblebèm,mblebèm, mblebèm, vógghje fà la uèr-re cu rré». E nan la fernéve cchiù.

La ggénde se stangòrene de chèssajóse e ’nge decèrene: «Uagliò, a ccud-de pajìse stà u rré. Vaue ad acchià effange la uèrre».

Fecatjedde se ne scì. Via vì, sém-be candanne e senanne, passà da’ne vóscue adó acchià ’na vòlpe ca’nge disse: «Fecatjedde, adó va?».

Una donna non poteva averefigli ed era amareggiata; per que-sto piangeva e pregava sempre così:«Madonna mia, fammi avere un fi-glio, anche se piccolo».

La Madonna la accontentò e lefece nascere un bambino grossoquanto un fegatino di pollo. La don-na fu ugualmente contenta e lochiamò Fegatino. Passò il tempo edil bambino cresceva in età, ma re-stava sempre piccolo.

A dodici anni la mamma gli re-galò un tamburo, e così il ragazzinoandava per tutto il paese cantandoe suonando: «Mblebèm, mblebèm,mblebèm, voglio fare la guerra colre». E non la finiva più.

La gente si stancò di quel chiassocontinuo e gli dissero: «Ragazzo, inquel paese c’è il re. Vai a trovarlo efagli la guerra».

Fegatino se ne andò. Lungo la via,sempre cantando e suonando, passòper un bosco dove incontrò una vol-pe che gli chiese: “Fegatino, dove vai?”.

FECATJEDDE(Fegatino)

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Fecatjedde scéve sémbe gredanne: «Vógghje fà la uèrre cu rré»

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E ccudde: «Vògghe a ffà la uèrrecu rré».

«Pózze menì pure jì?», addeman-nà la vòlpe.

«Sine, fa’ tré ggire e shcàffete ’ngu-le a mmé», disse Fecatjedde.

La vòlpe acchesé facì.Cammenà angóre e acchjà ’ne

nite de vrìespe ca ’nge ceccòrene:«Fecatjedde, adó va?».

E ccudde: «Vògghe a ffà la uèrrecu rré».

«Petime menì pure nù?”, decère-ne chidde.

«Sine, facite tré ggire e shcaffàte-ve ’ngule a mmé». E trasèrene purelóre jinde o uagnóne.

Cammenanne cammenanne, ar-revà o mare e s’affermà a chiamendà,e ccudde ’nge addemannà la stèssa cósede l’alde. Fecatjedde respennì u stèsse.

Arrevà fenalménde o pajìse durré. Jére de nótte; acchesé trasì jin-de a ’ne ciardine e se shcaffà sòtte a’ne cappucce: cudde jére u ciardinedu rré...

Fecatjedde acchemenzà a senà utammurre e a candà: «Sòtt’a ’nachiande de cappucce stà Mariannee Mariucce».

U sendì u uardiane, scì jinde ociardine, e p’acchiaue tagghià u pri-me cappucce, po’ u secònde e u tèrze,ma u frestate nan asséve. Sénze ca sefasce a la lógne, tagghià tutte le cap-

E quello: “Vado a fare la guerracol re”.

“Posso venire anch’io?”, chiesela volpe.

«Sì, fai tre giri ed infilati in culoa me», disse Fegatino.

La volpe così fece.Camminò ancora e trovò un nido

di vespe che gli chiesero: «Fegatino,dove vai?».

E quello: «Vado a fare la guerracol re».

«Possiamo venire anche noi?», dis-sero quelle.

«Sì, fate tre giri ed infilatevi inculo a me». Ed entrarono anche loronel ragazzo.

Camminando camminando, arri-vò al mare e si fermò a guardarlo, equello gli chiese la stessa cosa degli al-tri. Fegatino rispose allo stesso modo.

Arrivò finalmente al paese delre. Era di notte; così entrò in ungiardino e si intrufolò sotto uncappuccio: quello era il giardinodel re...

Fegatino cominciò a suonare iltamburo ed a cantare: «Sotto unapianta di cappuccio, c’è Marian-na e Mariuccio».

Lo sentì il guardiano, andò nelgiardino e, per trovarlo, tagliò ilprimo cappuccio, poi il secondo epoi il terzo, ma il chiassoso ragazzonon usciva. Senza che si porti alla

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pucce, e sòtt’o lùldeme stéve aschen-nute Fecatjedde.

Ah, tu sì! Me credéve ce jére!”, dis-se u uardiane. Chiamà le uardje e umannà ’nnanze o rré.

U rré ’nge ceccà cèrrabbe scéveacchianne, e ccudde candà e senà:«Mblebèm, mblebèm, mblebèm, vóg-ghje fà la uèrre cu rré», e nan la fer-néve cchiù.

U rré disse: «Uardje, ammenàtuejinde o jaddenare, acchesé le jaddi-ne s’u màngene».

Fu scettate ddà, ma u uagnónedisse citte citte: «Vòlpe, jìesse». Chèd-de assì e se mangià tutte le jaddine.

La matina dópe u acchiòrene cacandéve e senave u tammurre. U per-tòrene arréte ’nnanze o rré, ca dissea le uardje: «Ammenàtue jinde o rua-gne, ca ténghe la sciólde, acchesé móreaffequate».

Facèrene acchesé, e u rré s’assedìsópe pe cacà, ma Fecatjedde disse cit-te citte: «Vrìespe, assite!». Chidde as-sèrene e pengèrene u cule du rré, cas’alzà fescénne.

Arrabbiate, disse a le uardje: «Am-menàtue jinde o fuéche, acchesé móreabbresciate».

Fu ammenate jinde o fuéche, macudde disse citte citte: «Mare, jìesse!».U mare assì e stetà u fuéche.

U rré remanì ’nnanze a ccusse cre-stiane ca nan meréve mà, e ’nge ceccà

lunga, tagliò tutti i cappucci, e sot-to l’ultimo era nascosto Fegatino.

«Ah, sei tu! Pensavo chi fosse!»,disse il guardiano. Chiamò le guar-die e lo mandò davanti al re.

Il re gli chiese cosa volesse e quel-lo, cantò e suonò: «Mblebèm,mblebèm, mblebèm, voglio farela guerra col re», e non la smet-teva più.

Il re disse: «Guardie, buttatelonel pollaio, così le galline se lo man-giano».

Fu buttato lì, ma il ragazzo dis-se sottovoce: «Volpe, esci!». Quellauscì e si mangiò tutte le galline.

La mattina dopo lo trovaronoche cantava e suonava il tamburo.Lo condussero davanti al re, chedisse alle guardie: «Buttatelo nelvaso da notte, ché ho la diarrea, cosìmuore affogato».

Fecero così, ed il re vi si sedetteper cacare, ma Fegatino disse sot-tovoce: «Vespe, uscite!». Quelleuscirono e punsero il culo del re,che se ne andò scappando.

Arrabbiato, disse alle guardie:«Buttatelo nel fuoco, così muorebruciato».

Fu buttato nel fuoco, ma quel-lo disse sottovoce: «Mare, esci!». Ilmare uscì e spense il fuoco.

Il re rimase esterrefatto dinanzi aquesta persona che non moriva mai,

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cèrrabbe scéve acchianne pe sparèsceda nanze all’écchje, e Fecatjedde decìca veléve ’ne sacche chjine d’óre.

U rré ’nge détte ’ne sacche gréssedésce vólde u uagnóne, cudde su mettìsópe a ’na sciarrétte e u pertà o pajì-se sù. Scettà u tammurre, e da tannefacì la vite du segnóre.

e gli chiese cosa volesse per spariredalla vista degli occhi, e Fegatino dis-se che voleva un sacco pieno d’oro.

Il re gli dette un sacco grandedieci volte il ragazzo, quello se lomise su un carro e lo portò al suopaese. Gettò via il tamburo, e daallora fece la vita del signore.

Angela Pascazio

SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

- Eroe protagonista: Fegatino.- Marchiatura: Fegatino riceve in dono un tamburo, che sarà il suo emblema.- Mancanza: Fegatino vuole fare la guerra col re.- Mediazione: la gente del paese, infastidita dal suo tamburo, lo spinge a

partire.- Aiutanti magici: Fegatino si procura l’aiuto di una volpe, di uno sciame

di vespe e del mare.- Trasferimento: Fegatino arriva al paese del re.- Tranello: Fegatino si fa scoprire dal giardiniere del re.- Aiutante dell’antagonista: il giardiniere porta il piccolo davanti al re.- Antagonista: il re.- Investigazione: il re interroga l’eroe per danneggiarlo.- Danneggiamento: Fegatino viene gettato nel pollaio per essere divorato

dalle galline.- Reazione-successo: Fegatino si salva con l’aiuto della volpe.- Danneggiamento: Fegatino viene buttato nel cantero per essere soffoca-

to dalla diarrea del re.- Reazione-successo: Fegatino si salva con l’aiuto delle vespe.- Danneggiamento: Fegatino viene buttato nel fuoco per morire bruciato.- Reazione-successo: Fegatino si salva con l’aiuto del mare.- Vittoria: il re si dichiara vinto dall’eroe.- Ricompensa: Fegatino ottiene un sacco grande di oro.- Ritorno: l’eroe torna a casa trionfante. (S.C.)

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Lo schema compositivo di questa fiaba rivela che ci troviamo di frontead un racconto un po’ anomalo: la vicenda non prende l’avvìo da una verae propria mancanza, ché non può essere considerata tale la mancata cresci-ta fisica di Fegatino (che infatti resterà piccolo sino alla fine), quanto piutto-sto da una voglia bizzarra del protagonista, che cerca, lui che è così piccolo,di realizzare un confronto-sfida con la persona più potente, il re. Anche imezzi magici sono tali non perché siano in grado di produrre effetti straor-dinari, ma in quanto aiutano l’eroe a salvarsi da situazioni difficili, cioè asuperare le prove, esercitando semplicemente la loro naturale funzione.Per questo, più che di mezzi magici, si tratta di aiutanti magici; e la loro“magia”, più che in poteri straordinari, consiste nell’infilarsi nel sedere diFegatino, che così potrà portarseli con sé e giovarsene all’occorrenza.

Questa fiaba, insomma, appare alquanto semplice nella sua ideazionee nel suo sviluppo; eppure, essa riesce piacevole nella sua “bizzarria”, oltreche accattivante per quel modo singolare di procurarsi gli aiuti magici daparte dell’eroe; ed anche comica, se pensiamo alla diarrea del re e al suosedere punto da uno sciame di vespe. Questi aspetti scurrili, in realtà,segnalano, come ritiene Calvino, la specifica destinazione di una fiabacome questa ad ascoltatori bambini, contrariamente a quelli che sonooggi i requisiti della letteratura infantile (cfr: I. Calvino, op. cit., p. 53).

Se, dunque, lo svolgimento della vicenda risulta piuttosto semplice elineare, allora forse il valore della fiaba andrà cercato non nell’effettonarrativo, ma piuttosto nel suo significato morale e simbolico: Fegatino èun bambino che anela a crescere; ma poiché, sottoposto a chissà qualeincantesimo punitivo, non può crescere in statura (una colpa di sua ma-dre?), crescerà in abilità e volontà, fino a diventare ricco e felice: segnoche a nessuno, neppure a chi presenti limiti fisici anche gravi, viene im-pedito di coltivare aspettative e di conseguire la propria realizzazione.Quanto poi al significato o valore simbolico da attribuire al tamburo,direi che, non essendo esso un mezzo magico, ma solo uno strumento checonnota Fegatino, e tutt’al più favorisce l’avvìo del suo processo di cresci-ta, esso può rappresentare proprio la condizione infantile del piccolo eroe,il suo “marchio”, e pertanto, una volta che Fegatino è abbastanza “cre-sciuto” e si è realizzato, può essere tranquillamente gettato via.

Serafino Corriero

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’Ne rré tenéve tre ffigghje masque,e u granne ’na dì scì che le chemba-gne a la jacche jinde a ’ne vóscue.Tanne stèvene ddà, ca menì ’na tem-béste e acchemenzà a cchióve fórte.Tutte se ne fescèrene, ce da ’na van-ne e ce da l’alde.

U prìngepe, pe scì sòtte a ’ne re-pare, se perdì, e aqquanne scambà,’nghianà sópe a ’nn’arve pe vedé adós’acchiéve, e vedì ’na luscia lendane.Cammenà vèrse chèdda lusce e se n’av-vertì ca jére ’na case che la pórte apèr-te. Scennì do cavadde e ceccà: «Upatrune, pózze trasì? Cine stà?».

Nesciune respennéve. Acchesé tra-sì. Stéve tutte bagnate e jére chjetra-te: tenéve la fréve. Stéve ’ne fuécheappecciate, ’na tavua preparate ejinde a ’nn’alda càmere stéve ’ne lìet-te che ssópe le rròbbe nìette e ’na va-sche che ll’acqua calde.

Apprjesse a cchèssa case, stéve lastadde che la bbiave pe jevernà u ca-vadde. U prìngepe mettì u cavaddejinde ddà, po’ se scì a lavà, se cangiàle rròbbe, mangià, e se scì a ccòlche.

Un re aveva tre figli maschi, edil più grande un giorno andò con icompagni a caccia in un bosco.Allora stavano lì, che arrivò unatempesta e cominciò a piovere for-te. Tutti se ne fuggirono, chi da unaparte e chi dall’altra.

Il principe, per andare sotto adun riparo, si perse, e quando spiov-ve, salì su di un albero per vederedove si trovava, e vide una luce lon-tana. Camminò verso quella luce e siaccorse che era una casa con la por-ta aperta. Scese dal cavallo e chiese:“Padrone, posso entrare? Chi c’è?”.

Nessuno rispondeva. Così en-trò. Era tutto bagnato ed era in-freddolito: aveva la febbre. C’eraun fuoco acceso, una tavola appa-recchiata e in un’altra camera c’eraun letto con sopra della roba puli-ta e una vasca con l’acqua calda.

Accanto a questa casa, c’era lastalla con la biada per governare ilcavallo. Il principe mise il cavallo lìdentro, poi andò a lavarsi, si cam-biò la roba, mangiò, e si coricò.

LE SÉTTE SIGNE(Le sette scimmie)

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La dia dópe, aqquanne se destà,acchià la tavua preparate cu llatte eu café, e addemannà: «Éee, u pa-trune, ce jàvete ddó?».

Nesciune respennéve. Acchesémangià e se scì arréte a ccòlche pec-cè tenéve la fréve. Ògn’e ddì acchiévele rròbbe nìette, l’acqua calde e la ta-vua preparate. Dópe ’na semane, sesendéve bbuéne. Pegghià le rròbbe ese ne stév’ a scì, aqquanne se pre-sendòrene sétte signe ca ’nge decère-ne: «Sì mangiate, sì dermute, e mó,ce te ne ué scì, t’adà spesà june denù, peccè tu nan zà la strate pupajìse», e no facèvene assì.

U prìngepe se vedì costrètte edecì: «Va bbéne, càpeche la chiùmenònne». Se mettèrene sóp’ o ca-vadde, e la signe ’nge disse da dó sen’avèvena scì.

Aqquanne arrevòrene, u rré stéve’mbenzìere pu figghje, e remanìbbrutte aqquanne cusse ’nge disse cala signe jére la megghiére. U uatta-ne nan ’nge velì disce o figghje ca mónan betéve devendà cchiù rré, peccènan ze jére mà viste ’na signe pe reg-gine; penzà ’na nótte e ’na dì, e ac-chià la drètte.

Mannà a chiamà le tre ffigghje edecì: «Avìta disce a le megghiére vó-ste de chesì na chevèrte. Ce cuse lachiù bbèlle ava jésse reggine».

U granne se ne scì che la bbile,

Il giorno dopo, quando si sve-gliò, trovò la tavola apparecchiatacol latte e il caffè, e chiese: «Ehi, ilpadrone, chi abita qui?».

Nessuno rispondeva. Così mangiòe si mise di nuovo a letto perché ave-va la febbre. Ogni giorno trovava laroba pulita, l’acqua calda e la tavolapreparata. Dopo una settimana, si sen-tiva bene. Prese la sua roba e se ne sta-va andando, quando si presentaronosette scimmie che gli dissero: «Haimangiato, hai dormito, e adesso, se tene vuoi andare, ti devi sposare una dinoi, perché non sai la strada per ilpaese», e non lo facevano uscire.

Il principe si vide costretto edisse: «Va bene, scelgo la più pic-cola». Si misero sul cavallo, e lascimmia gli disse da dove doveva-no andarsene.

Quando arrivarono, il re erapreoccupato per il figlio, e rimasemale quando questo gli disse chela scimmia era la moglie. Il padrenon volle dire al figlio che ora nonpoteva diventare più re, perchénon si era mai vista una scimmiaper regina; pensò una notte ed ungiorno, e trovò la soluzione.

Mandò a chiamare i tre figli edisse: «Dovete dire alle vostre mo-gli di cucire una coperta. Chi cu-cirà la più bella sarà regina”.

Il più grande se ne andò con la

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peccè su penzave ca la megghiérenann ére capasce. La signe, a vedèuemertefecate, addemannà cèrrabbejére seccìesse.

Aqquanne sendì u fatte, s’achjedìjinde a ’na càmere e se trétte ’ne pile,e sùbbete accherrèrene le srure, ca’nge decèrene cét’ avéva fà: «Manne’ne servetóre pu pajìse scettanne ubbanne: “Ce téne la stóppe?”. Ce lecanate tó ’ngi addemànnene: “Cét’ava fà la signe de la stóppe?”, avàrespònne: “Avà chesì la chevèrte”».

Fu ffatte adacchesé, e le canate sefacèrene tanda resate a sendì caavéva chesì la chevèrte che la stóppe,e decèrene: «Nù l’ama chesì che lamammasce; acchesé se fàscene le che-vèrte bbóne».

La dì ca l’avèvena chenzegnà, lasigne disse o marite: «Jì nan zacce che-sì, ma tu adà disce ad attande ce vólepegghià ’ne pìzzeche de tabbacche»,e ’nge détte ’na tabacchéra d’óre.

U uagnóne scì o palazze e vedìca le frate tenèvene cèrte bbèlle che-vèrte recamate; po’ decì o rré le parólede la signe.

Cudde aprì la tabacchére e assì’na chevèrta de séte recamata d’óree d’argìende, che ccèrte desègne bèlleassà. Jére chèdde la chevèrta chiùmmégghje, ma u rré nan veléve ca lasigne devendave reggine, e ddisse a lefigghje: «Decìte a le megghiére vóste

bile perché immaginava che la mo-glie non ne fosse capace. La scim-mia, a vederlo mortificato, chiesecosa fosse successo.

Quando sentì il fatto, si chiuse inuna stanza e si tirò un pelo, e subitoaccorsero le sorelle, che le disseroquello che doveva fare: «Manda unservitore per il paese gridando: “Chiha della canapa?”. Se le tue cognategli chiedono: “Cosa deve fare la scim-mia della canapa?”, deve risponde-re: “Deve cucire la coperta”».

Fu fatto così, e le cognate si fe-cero tante risate nel sentire chedoveva cucire la coperta con la ca-napa, e dissero: «Noi la dobbiamocucire con la bambagia; così si fan-no le coperte buone».

Il giorno della consegna, la scim-mia disse al marito: «Io non so cucire,ma tu devi dire a tuo padre se vuoleprendere un pizzico di tabacco», egli diede una tabacchiera d’oro.

Il ragazzo andò al palazzo e videche i fratelli avevano certe bellecoperte ricamate; poi disse al re leparole della scimmia.

Quello aprì la tabacchiera e nevenne fuori una coperta di seta ri-camata d’oro e d’argento, con deidisegni molto belli. Era quella lacoperta più bella, ma il re non vole-va che la scimmia diventasse regi-na, e disse ai figli: «Dite alle vostre

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de crèsce ’ne cuane. Chèdde ca crèsceu chiù mmégghje ava jésse reggine».

Arréte u uagnóne scì a la casemertefecate, e ’nge chendà u fatte ala megghiére.

Chèdde s’achjedì jinde a la càme-re e se trétte ’n’alde pile pe chiamàle srure. Fescénne menèrene e ’ngedecèrene: «Manne ’ne servetóre pupajìse scettanne u bbanne: “Ce ténela canigghje?”. Ce le canate tó ’ngiaddemànnene céte ava fà la signe dela canigghje, avà respònne ca sèrvepe ccrèsce u cuane».

Acchesé scì u fatte, e le canate, asendì chèdda respóste, se facèrenearréte tanda resate e decèrene: «Nùu ama crèsce che la carne».

La dì ca avèvena pertà u cuanennanz’ o rré, arréte la signe disse omarite: «Jì nan zò ’na fèmmene, enan zacce crèsce le cuane, ma ce urré vóle ’ne pìzzeche de tabbacche,dange chèssa tabacchére».

U uagnóne scì o palazze e ddà stève-ne le frate che ccèrte cuane grésse chele-quate ’ndèrre, e ddisse o rré ce velévepegghià ’ne pìzzeche de tabbacche.

Quanne u rré aprì la tabacchére,assì ’ne cuagnéle ca ’nge *zembave’nguédde e veléve scequà. U rré re-manì a vedèue, e ’nge piacì assà, manan betéve fà devendà reggine la si-gne, e acchesé disse: «Ja mètte ’na fé-ste da bballe che ttutte l’amisce mì,

mogli di allevare un cane. Quellache alleva il migliore sarà regina».

Di nuovo il ragazzo andò a casamortificato e raccontò il fatto allamoglie.

Quella si chiuse nella stanza e sitirò un altro pelo per chiamare lesorelle. Di corsa vennero e le disse-ro: «Manda un servitore per il pa-ese gridando: “Chi ha della cru-sca?”. Se le cognate gli chiedonocosa deve fare la scimmia della cru-sca, deve rispondere che serve perallevare il cane».

Così andò il fatto, e le cognate,nel sentire quella risposta, si fecerotante risate e dissero: «Noi lo dob-biamo allevare con la carne».

Il giorno in cui dovevano porta-re il cane davanti al re, di nuovo lascimmia disse al marito: «Io nonsono una donna, e non so allevare icani, ma se il re vuole un pizzico ditabacco, dagli questa tabacchiera».

Il ragazzo andò al palazzo e lì c’era-no i fratelli con cani grossi sdraiatiper terra, e disse al re se voleva pren-dere un pizzico di tabacco.

Quando il re aprì la tabacchie-ra, venne fuori un cagnolino chegli saltava addosso e voleva gioca-re. Il re fu stupito nel vederlo e glipiacque molto, ma non poteva fardiventare regina la scimmia, e cosìdisse: «Metterò una festa da ballo

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e ssite ’mbetate pure vu e ttré. Lanóre c’ava paré chiù bèrafatte avàdevendà reggine».

U granne se mertefecà, peccè giàs’affejeréve la signe chengertate cóm’a’na segnure, e ca la ggénde s’avèvenamètte tutt’ a rrite. Scì a la case e ’ngiuddisse.

Chèdde ’n’alda vólde se trétte’n’alde pile e se chenzegnòrene le sru-re, ca decèrene: «Manne ’ne sèrvescettanne u bbanne pu pajìse: “Ceténe la calgia vèrgene?”, e ce le ca-nate ’ngi addemànnene: “Cét’ avafà la signe de la calge?”, avà respòn-ne: “S’avà lavà le capidde”».

Acchesé fu ffatte, e aqquanne lecanate sapèrene céte avéva fà che lacalge, decèrene: «L’alde vólde jèrenechiù mmégghje la chevèrte e u cuanesù, ma chèssa vólde amà fà pure nùcóme fasce jèdde». Se lavòrene le ca-pidde che la calge e remanèrene spe-late. La bbile fu assà, e p’asconne ufatte se mettèrene la parrucche.

La dì de la féste, a la matina sùbe-te, la signe decì o marite: «Adà discead attande ce fasce mètte ’ne ’nginesòtt’o uarche da dó se trase jind’o pa-lazze; cusse ashkitte vógghj’acchianne».

U rré acchesendì.Chiù ttarde la signe se trétte ’ne

pile, chiamà le srure e s’achjedère-ne jind’ a la càmere pe ttanda tìem-be. Aqquanne assèrene, la signe jére

con tutti i miei amici, e siete invitatianche voi tre. La nuora che sembre-rà più bella diventerà regina».

Il grande si mortificò, perchégià si immaginava la scimmia ac-conciata come una signora, e chela gente si sarebbe messa a ridere.Andò a casa e glielo disse.

Quella di nuovo si tirò un altropelo ed accorsero le sorelle, chedissero: «Manda un servo gridan-do per il paese: “Chi ha la calceviva?”, e se le cognate gli chiedo-no: “Cosa deve fare la scimmia del-la calce?”, deve rispondere: “Sideve lavare i capelli”».

Così fu fatto, e quando le cogna-te seppero cosa doveva fare con lacalce, dissero: «Le altre volte eranomigliori la sua coperta ed il suo cane,ma questa volta faremo anche noicome fa lei». Si lavarono i capelli conla calce e diventarono pelate. La bilefu molta, e per nascondere l’acca-duto si misero la parrucca.

Il giorno della festa, di primo mat-tino, la scimmia disse al marito: «Devidire a tuo padre se fa mettere un un-cino sotto l’arco da dove si entra nelpalazzo; solo questo ti chiedo».

Il re acconsentì.Più tardi la scimmia si tirò un

pelo, chiamò le sorelle e si chiuse-ro nella stanza per tanto tempo.Quando uscirono, la scimmia era

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’na bbèlla ggiòvene, tenéve ’na vé-sta ma viste, e stéve preparate cóm’a’na reggine.

U marite shcandà a vedèlle, ejèdde ’nge spiaià ca jérene signe af-fatate.

Mó, la ggénde du pajìse stèvene’nnanz’ o palazze ad aspettà ca ar-revéve la signe pe ffarse tanda resate.

Prime menì u figghje menunne chela megghiére, scennèrene da la carróz-ze e passòrene sòtt’o uarche. La fèm-mene nan vedì u ’ngine, e la parruccheangappà e remanì appennute. Tuttevedèrene ca jére spelate e acchemenzòre-ne a rrite. Fescénne ’ne sèrve ’nge mettì’ngape la parrucche, e cchèdde trasì tut-ta ròsse pe la brevógne e pe la ragge.

Menì u frate menzane, e se repetìla stèssa scéne. La ggénde pe la rise sepesciàvene ’nguédde e decèvene:«Feiurde mo ce véne la signe, cóm’avàparé; quanda resate n’ama fà». A lafine, arrevà u granne, e da la carróz-ze scennì chèssa bbèlla fèmmene. Lecrestiane se facèrene maravigghje a ve-dèlle; e cchèdde, passanne sott’o ’ngi-ne, abbascià la cape.

Aqquanne s’assedèrene a la tavuepe mangià, la signe ògn’e ttande semettéve ne stézze de carne jinde a lascollature, e le canate a vedèlle facère-ne u stèsse. Po’ assèrene tutte a ballà,e da sòtte a la véste de la signe assèvenetanda stèdde d’óre, e u cuagnéle ca jére

una bella ragazza, aveva un vestitomai visto, ed era acconciata comeuna regina.

Il marito rimase sbalordito nelvederla, e quella gli spiegò che loroerano scimmie fatate.

Ora, la gente del paese stava da-vanti al palazzo ad aspettare l’arrivodella scimmia per farsi tante risate.

Prima venne il figlio piccolo conla moglie, scesero dalla carrozza epassarono sotto l’arco. La donnanon vide l’uncino, e la parrucca s’im-pigliò e rimase appesa. Tutti videroche era pelata e cominciarono a ri-dere. Di corsa un servo le rimise intesta la parrucca, e quella entrò tut-ta rossa per la vergogna e la rabbia.

Venne il fratello medio, e si ripe-tè la stessa scena. Le persone per lerisate se la facevano addosso e dice-vano: «Figurati quando verrà lascimmia, come sembrerà; quanterisate ci faremo». Alla fine, arrivò ilgrande e dalla carrozza scese questabella donna. La gente si meraviglia-va nel vederla; e quella, passandosotto l’uncino, abbassò il capo.

Quando si sedettero a tavola permangiare, la scimmia ogni tanto simetteva un pezzo di carne nella scol-latura, e le cognate nel vederla fece-ro lo stesso. Poi uscirono a ballare, eda sotto il vestito della scimmia usci-vano tante stelle d’oro, e il cane che

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Teresa Trentadue: Le sétte signe (Giugno 2005)

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assute da la tabacchére l’auuandéve e’nge le mettéve sóp’ a la véste.

Da sòtte a la véste de le canate,assèvene le stózzere de carne ca sejèrene ammenate da sópe. Le cuanegrésse ca jèrene cresciute lóre stèsse,scèvene a mangiassille e angèrene desuche ’ndèrre.

Tutte le ’mbetate redèvene e nanz’acapescéve cchiù la drètte. U rrénan ’nge la facì cchiù, e le caccià.

Dópe disse o figghje granne capróprje jidde avéva devendà rré, pec-cè tenéve ’na megghiére dégne de jés-se reggine.

era uscito dalla tabacchiera le pren-deva e gliele metteva sul vestito.

Da sotto i vestiti delle cognate,venivano fuori i pezzi di carne chesi erano infilati da sopra. I grossicani che avevano allevato loro stes-se, andavano a mangiarseli e spor-carono di sugo il pavimento.

Tutti gli invitati ridevano e nonsi capiva più niente. Il re non ce lafece più, e le cacciò.

Dopo disse al figlio grande cheproprio lui doveva diventare re,perché aveva una moglie degna diessere regina.

Angela Pascazio

- Eroe protagonista: il principe grande.- Partenza: il principe va a caccia nel bosco.- Trasferimento: il principe si perde e arriva in una casa vuota.- Danneggiamento: il principe ha la febbre ed è costretto a restare nella casafatata.

- Rimozione: il principe riacquista la salute.- Mancanza: il principe non ha una moglie.- Mediazione: le scimmie impongono al principe di scegliere una di essecome sposa.

- Inizio della reazione: il principe accetta di sposare la più piccola.- Ritorno: il principe torna a casa con la sposa-scimmia.- Antagonista: il re suo padre si oppone alle nozze del principe con unascimmia.

- Compito difficile: il re chiede che l’aspirante regina confezioni la copertapiù bella.

- Eroina: la scimmia sposa del principe.

SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

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- Inizio della reazione: la scimmia accetta la sfida imposta dal re.- Aiutante magico-Destinatore: le sorelle della scimmia accorrono in suoaiuto e le danno il giusto consiglio.

- Antagonista: le cognate della scimmia.- Investigazione-Delazione-Tranello: le cognate chiedono e ottengono in-formazioni ingannevoli sulla loro rivale.

- Conseguimento del mezzo magico: la scimmia fornisce al principe latabacchiera magica.

- Adempimento: il principe vince la prima prova.- 2° passo, da Compito difficile a Adempimento: il re impone una secondaprova e il principe la supera con il cane più bello.

- 3° passo, da Compito difficile a Investigazione-Delazione-Tranello: il reimpone una terza prova (la sposa più bella) e le cognate vengono ancoraingannate.

- Punizione: le cognate rimangono calve.- Destinatore: la scimmia eroina dà il giusto consiglio all’eroe (l’uncino).- Aiutante magico: le scimmie sorelle acconciano splendidamente l’eroina.- Conseguimento del mezzo magico: la scimmia indossa un vestito magico.- Trasfigurazione: la scimmia diventa una ragazza bella e splendida comeuna regina.

- Punizione: la prima cognata rivela la sua calvizie ed è derisa da tutti.- Punizione: la seconda cognata subisce la stessa sorte.- Adempimento: l’eroina supera anche la terza prova.- Trasfigurazione: l’eroina diventa ancora più bella grazie al vestito magico.- Punizione: le due cognate rivali vengono di nuovo derise.- Vittoria-Ricompensa: il re decide che il figlio grande diventi re e la suasposa diventi regina.

Con questa fiaba si ritorna ad una struttura compositiva complessa, equindi ad una storia narrativamente accattivante. L’esordio appare tutta-via inconsueto: il principe si allontana da casa non per sua scelta, o per-ché costretto da qualcuno, ma per una occasionale circostanza, che però,in realtà, si rivelerà guidata da una volontà superiore, quella delle settescimmie fatate, che faranno trovare al principe smarrito e malato unacasa assai confortevole, e che poi gli imporranno, come ricompensa per leloro cure, il matrimonio con una di loro. Anche la mancanza, che di solitodà avvìo all’azione, qui è all’inizio del tutto ignota, salvo essere poi rivelata, e

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(S.C.)

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addirittura imposta, all’eroe ignaro: simbolo, evidentemente, del suo essere“costretto” a prendere coscienza della necessità di uscire dalla sua condi-zione di “irresponsabilità” giovanile per prendere moglie e diventare re.

Anche in questa fiaba, in effetti, la vera protagonista della vicenda èl’eroina, la scimmia pelosa che aspira a diventare regina: è lei che sicimenta in realtà con i vari antagonisti, dapprima il re, che non la vuolecome regina, poi le cognate sue rivali nell’aspirare alla dignità regale. Ilprincipe, dal canto suo, sembra in apparenza un personaggio più stati-co, e del tutto passivo, costantemente ispirato e guidato dalle scimmiesorelle, interessate a favorire l’elezione a regina della prescelta tra loro:prescelta, tra l’altro, solo perché è la più piccola (ma di solito nelle fiabesono proprio i più piccoli a prevalere sui grandi).

Nella figura della scimmia-eroina si concentra anche l’aspetto piùmeraviglioso della fiaba, la metamorfosi della scimmia in giovinetta re-gale: tema assai diffuso nelle fiabe, inteso da un lato a ricordare a noiumani la nostra primigenia natura animale, ma anche a suggerire lapossibilità, che ognuno di noi può avere, di dominare i suoi istinti be-stiali, o la speranza, che ognuno di noi può coltivare, di modificareradicalmente la propria condizione di nascita.

Questo tema della metamorfosi, ricorrente nelle fiabe di ogni tem-po, è massicciamente presente in un’altra fiaba, simile alla nostra, accol-ta da Calvino (“Il palazzo delle scimmie”, in op. cit. p. 290), dove è ilprincipe che, accettando di sposare una scimmia con piena e reiterataconsapevolezza, libera dalla condizione animalesca non solo la sposaprescelta, ma tutte le innumerevoli scimmie che invadono il paese delre, le quali si trasformano chi in dama, chi in paggio, chi in contadino,chi in cavaliere; sicché, come osserva appunto Calvino, questo temadella metamorfosi vuol rappresentare in effetti la nostra “comune sortedi soggiacere a incantesimi, cioè d’essere determinati da forze comples-se e sconosciute, e lo sforzo per liberarsi e autodeterminarsi inteso comedovere elementare, insieme a quello di liberare gli altri, il liberarsi libe-rando” (I. Calvino, op. cit., p.16): come avviene appunto qui, dove lascimmia, liberando se stessa dalla sua condizione animalesca, libera asua volta anche il giovane dalla sua indolente soggiacenza al padre.

Serafino Corriero

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Stéve ’na vólde ’na vidue catenéve ’na figghje du prime marite e’na fegghiastre du secónde marite.Mó, chèssa fèmmene, trattéve la fig-ghia ggiuste cóm’a ’na segnerédde, ela fegghiastre cóm’ a ’na sèrve.

Chèssa menènne, petéve tenédùdec’janne, ògn’e ssére, aqquannefernéve de fà le servèzzje, scéve a sde-vacà u remmate de la cazzizzejind’o fuésse. Dà ssòtte javetéve laPapanórchje, ’na vécchia fatate.

’Na sére, ’nzjemm’o remmate,cadì abbasce pure la cazzizze, ela menènne, ca se pegghiéve paiu-re de le mazzate de la matré, gre-dà: «Papanórchia mé, damme lacazzizze».

E cchèdde ’nge respennì: «Scin-ne abbasce e vvjendel’a pegghià».

E la pecceuèddòzze: «E da dó jàscènne?».

«Scinne da la scale de sapóne».«Nóne, se sceveuèsce. Papanór-

chia mé, damme la cazzizze».«Scinne da la scale de vitre».

C’era una volta una vedova cheaveva una figlia del primo maritoed una figliastra del secondo mari-to. Ora, questa donna trattava lafiglia giusta come una gran signo-ra e la figliastra come una serva.

Questa ragazza, poteva averedodici anni, ogni sera, quando fi-niva le faccende, andava a svuota-re l’immondizia della pattumierain un fosso. Là sotto abitava la Pa-panorchia, una vecchia fata.

Una sera, insieme all’immondi-zia, cadde giù anche la pattumie-ra, e la bambina, che aveva pauradelle botte della matrigna, gridò:«Papanorchia mia, dammi la pat-tumiera».

E quella le rispose: «Scendi giùe vienitela a prendere».

E la ragazzina: «E da dove devoscendere?».

«Scendi dalla scala di sapone».«No, si scivola. Papanorchia mia,

dammi la pattumiera».«Scendi dalla scala di vetro».

LA STÓRJE DE PAPANÓRCHJE(La storia di Papanorchia)

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Mattia Lacalamita: La stórje de la Papanórchje (Dicembre 2006)

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«Nóne, me tàgghjeche le pìette.Papanórchia mé, damme la cazzizze».

«Scinne da la scale de *zóche».«Nóne, se spézze. Papanórchia

mé, damme la cazzizze».«Scinne da la scale de spine».«Nóne, me pòngeche. Papanór-

chia mé, damme la cazzizze».«Scinne da la scale de tavue».Fenalménde, la menènne scennì

abbasce e decì: «Cèrrabbe jà fà p’avéla cazzizze?».

La vécchje respennì: «Ce la ué,m’ad’acchià le peducchje».

Chèdde, ca jére abetuate a ffà leservèzzje e jére bbóne, se mettì a spe-decchialle, e aqquanne acchiéve upeducchje, decéve: «E mmó, cèrrab-be jà fà de cusse?».

E la Papanórchje: «Dammeddó!”, e s’u mangiave jèdde e decéve:“Peducchje a mmé, chembitte a tté».E ’nge déve ’ne chembitte.

Aqquanne fernì, pertà la menèn-ne jinde a ’na càmere adó stàveneda ’na vanne tanda vésta bbóne, dal’alde tanda véste jerdenarie, e decì:«Càpete ’na véste».

Chèdde, ca stéve sémbe jind’a lacase a ffà servèzzje, se capà ’na véstajerdenarie, peccè nan zapéve ce ffàde la vésta bbóne.

«Nóne» – ’nge decì la vécchje –e ’nge mettì ’nguédde ’na véste deséte recamata d’óre e d’argìende.

«No, mi taglio i piedi. Papanor-chia mia, dammi la pattumiera».

«Scendi dalla scala di corda».«No, si spezza. Papanorchia mia,

dammi la pattumiera».«Scendi dalla scala di spine».«No, mi pungo. Papanorchia

mia, dammi la pattumiera».«Scendi dalla scala di tavola».E finalmente la bambina scese

giù e disse: «Cosa devo fare per ave-re la pattumiera?».

La vecchia rispose: «Se la vuoi,mi devi trovare i pidocchi».

Quella, che era abituata a fare iservizi ed era brava; si mise a spi-docchiarla, e quando trovava il pi-docchio, diceva: «E adesso cosadevo fare di questo?».

E la Papanorchia: «Dai qua!», ese lo mangiava lei e diceva: «Pidoc-chio a me, confetto a te». E le davaun confetto.

Quando finì, condusse la bam-bina in una stanza dove stavano daun lato tanti vestiti buoni, dall’al-tro tanti vestiti ordinari, e le disse:«Scegliti un vestito».

Quella, che stava sempre incasa a fare servizi, si scelse un vesti-to ordinario, perché non sapevache farsene di una veste buona.

«No» – disse la vecchia – e lemise addosso un vestito di seta ri-camato d’oro e d’argento. Lo stes-

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U stèsse pe le scarpe: chèdde se capà’ne pare de scarpune, ma avì chid-de de séte.

Po’ ’nge decì: «Aqquanne va susee ssjende shcamà u ciucce, abbascela cape, ce sjende shcamà u ardjed-de, jalze la cape».

La menènne, tutta vestute, ’nghia-nà suse. O shcame du ciucce abba-scià la cape e o shcame du ardjeddealzà la cape, e ’nge nascì ’na stèddad’óre ’mbrònde.

Scì a la case, e ccóme la vedì, lamatrè s’ arrabbià che jèdde, e velìsapé peccè stéve vestute adacchesé. Lamenènne ’ngiu ddisse, e cchèdde lafacì spegghià e ’nge facì mètte la vé-ste de la case e decì a la figghia ggiu-ste: «Mó ada scì tu o fuésse».

Chèdde scì e ammenà abbasce lacazzizze, po’ decì: «Papanórchia mé,damme la cazzizze».

La vécchje già se n’avertì ca chès-se jére supèrbe e decì: «Scinne abba-sce e vvjendel’a ppigghje».

«E da dó ja scènne?».«Scinne da la scale de sapóne».Chèdde, ca non zapéve manghe

ca sópe o sapóne se sceveuéve, facìp’ascènne e cadì abbasce.

«Mè, céte ja fà p’avè la cazziz-ze?», disse shcattose.

«Jàcchjeme le peducchje», decì laPapanórchje. E cchèdde fu costrèttea spedecchialle, ma chèssa vólde, aq-

so per le scarpe: quella si scelse unpaio di ciabatte, ma ebbe quelledi seta.

Poi le disse: «Quando vai su esenti ragliare l’asino, abbassa la te-sta; se senti cantare il gallo, alza latesta».

La bambina, tutta vestita, salì.Al ragliare dell’asino abbassò la te-sta e al canto del gallo alzò la te-sta, e le nacque una stella d’oro infronte.

Andò a casa, e come la vide, lamatrigna si arrabbiò con lei e vollesapere perché era vestita così. Labambina glielo disse, e quella la fecespogliare e le fece mettere i vestiti dicasa e disse a sua figlia: «Ora deviandare tu al fosso».

Quella andò e buttò la pattu-miera, poi disse: «Papanorchia mia,dammi la pattumiera».

La vecchia già si era accorta chequesta era superba e disse: «Scen-di giù e vienitela a prendere».

«E da dove devo scendere?».«Scendi dalla scala di sapone».Quella, che non sapeva nem-

meno che sul sapone si scivola,come fece per scendere, cadde giù.

«Beh, cosa devo fare per averela pattumiera?», disse dispettosa.

«Trovami i pidocchi», disse laPapanorchia. E quella fu costrettaa spidocchiarla, ma questa volta,

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quanne acchiéve u peducchje, s’uavéva mangià jèdde, e la vécchje de-céve: «Peducchje a tté, chembitte ammé». E se mangéve u chembitte.

Dópe, pure a cchèsse la pertàjind’a la càmere che le véste e la facìcapà. La menènne se pegghià ’na vé-ste de séta bbóne, ma la vécchje lavestì che ’ne sacche e ’nge facì mètte’ne pare de scarpune, e ppo’ decì :«Aqquanne va suse e ssjende shcamàu ciucce, jalze la cape, ce sjendeshcamà u ardjedde, abbasce la cape».Chèdde facì adacchesé e ’nge nascì’na cóte de ciucce ’mbrònde.

Scì a la case, e ccóme la mammela vedì, se pegghià la bbile e ’nge dis-se le paróle. Po’ ’nge arrevegghià lacóte mménz’a le capidde pe non lafà vedé, ma nònn’ ére cóse, e accheséla tenéve aschennute la figghje.

Passà u tjembe e cchisse menèn-ne devendòrene pecceuèdde. ’Na dìpassà ’ne prìngepe da nanze a lacase e vedì la sóra bbóne ca stévedaffóre a ffà la vecuate; se n’anna-merà peccè jére bèrafatte e ’ngiumannà a ddisce.

La matré acchesendì o ma-tremónje, però la dì de spesà, facìmètte la figghia sò, che la cóte arre-vegghiate mménze a le capidde e ac-chemegghiate da ’ne véle, jind’a lacarrózze pe scì a la chiése.

U prìngepe, ca stéve a ffèrve pe

quando trovava il pidocchio, do-veva mangiarselo lei e la vecchiadiceva: «Pidocchio a te, confetto ame». E si mangiava il confetto.

Poi portò anche questa nellastanza con i vestiti e le fece sceglie-re. La bambina prese un vestito diseta buona, ma la vecchia la vestìcon un sacco e le fece mettere unpaio di ciabatte e disse: «Quandovai su e senti cantare il gallo, ab-bassa la testa, quando senti raglia-re l’asino, alza la testa». Quella fececosì e le nacque una coda d’asinoin fronte.

Andò a casa, e non appena lamamma la vide, si angustiò e la rim-proverò. Poi le avvolse la coda tra icapelli per non farla vedere, manon era possibile, e così la tenevanascosta la figlia.

Passò del tempo e queste bam-bine diventarono ragazze. Un gior-no passò un principe da lì vicino evide la sorella buona che stava fuoria fare il bucato; se ne innamoròperché era bella e le fece una pro-posta di matrimonio.

La matrigna acconsentì allo spo-salizio, però il giorno delle nozzefece mettere sua figlia, con la codaavvolta nei capelli e coperta da unvelo, nella carrozza per andare inchiesa.

Il principe, impaziente di vede-

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vedé la zite, la schemegghià sùbbetee se n’avvertì ca jére la sorastre; tan-ne tanne facì mètte ’ngalé la mam-me e la figghje, e se spesà che cchèddabèrafatte.

re la sposa, la scoprì subito e si ac-corse che era la sorellastra; imme-diatamente fece imprigionare lamamma e la figlia, e si sposò conquella bella.

Angela Pascazio

- Eroina protagonista: la figliastra trattata come serva.- Allontanamento: la bambina va al solito fosso per gettare l’immondizia.- Mancanza: la bambina perde il recipiente.- Aiutante magico: la Papanorchia.- Prima funzione del donatore: la Papanorchia mette l’eroina alla prova

della scala prima di fornirle il mezzo magico.- Reazione-successo: la bambina supera la prima prova rispondendo conve-

nientemente alla maga.- Ricompensa: la bambina raggiunge incolume la Papanorchia.- 2° passo, da Prima funzione del donatore a Ricompensa: la Papanorchia

mette l’eroina alla prova dello spidocchiamento e la bambina supera laprova ricevendo in premio i confetti.

- 3° passo: la Papanorchia mette di nuovo l’eroina alla prova dei vestiti e labambina supera la prova ricevendo in compenso un vestito magico.

- 4° passo: la Papanorchia mette l’eroina alla prova delle scarpe e la bambi-na supera la prova ricevendo in compenso delle scarpe di seta.

- Destinatore: la Papanorchia suggerisce alla bambina i comportamentigiusti perché si attui la magia.

- Reazione-successo: la bambina esegue correttamente i suggerimenti della maga.- Ricompensa: alla bambina nasce una stella d’oro sulla fronte.- Trasfigurazione: la bambina-serva ha ora completamente assunto un nuo-

vo splendido aspetto.- Ritorno: la bambina ritorna a casa trionfante.- Antagonista: la matrigna si arrabbia e la riveste con abiti servili.- Falsa eroina: la figlia privilegiata.

SCHEMA COMPOSITIVO(FUNZIONI DI PROPP E SISTEMA DEI PERSONAGGI)

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- Allontanamento: la bambina viene mandata di proposito al fosso dalla mamma.- Mancanza: la bambina perde di proposito la pattumiera.- Prima funzione del donatore: la Papanorchia mette alla prova della scala

la bambina.- Reazione-fallimento: la falsa eroina non supera la prova.- Punizione: la bambina inetta scivola dalla scala e cade giù.- 2° passo: da Prima funzione del donatore a Ricompensa: la Papanorchia

mette la falsa eroina alla prova dello spidocchiamento, ma la bambinaaltezzosa non supera la prova e viene punita mangiando i pidocchi.

- 3° passo: la Papanorchia mette di nuovo la falsa eroina alla prova deivestiti, ma la bambina superba non supera la prova e viene punita conun vestito di sacco.

- 4° passo: la Papanorchia mette la falsa eroina alla prova delle scarpe e labambina pretenziosa non supera la prova ricevendo come punizionedelle semplici ciabatte.

- Destinatore: la Papanorchia raccomanda alla falsa eroina precisi com-portamenti.

- Reazione: la bambina esegue le raccomandazioni.- Punizione: la bambina viene punita con una coda d’asino in fronte.- Trasfigurazione: la bambina trattata dalla madre come una signora ha ora

assunto l’aspetto di una orrida serva.- Ritorno: la bambina torna a casa senza soddisfare le attese della madre.- Aiutante della falsa eroina: la madre della bambina punita le nasconde la

coda d’asino fra i capelli e la tiene nascosta alla vista della gente.- Nuova mancanza: le due bambine sono cresciute e non hanno uno sposo.- Aiutante dell’eroina: un principe si innamora della ragazza-serva e la

vuole sposare.- Aiutante della falsa eroina: la matrigna sostituisce la figliastra vera sposa

con sua figlia.- Arrivo in incognito: la falsa eroina arriva in chiesa per le nozze col viso

coperto da un velo per non farsi riconoscere.- Smascheramento: la falsa eroina viene subito smascherata dal principe.- Punizione: la mamma ingannatrice e la figlia orrida vengono messe in

prigione.- Matrimonio: il principe sposa l’eroina.

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(S.C.)

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Come si vede dal suo schema compositivo, fra le sei fiabe qui propo-ste questa appare come la più classicamente impostata: basterebbe ri-chiamare le evidenti analogie con la fiaba di Cenerentola. La protago-nista è una bambina figliastra vilipesa dalla matrigna e ridotta alla con-dizione di serva; in contrasto ad essa viene opposta, come falsa eroina, lafiglia giusta della matrigna, trattata come una gran signora.

Tra le due bambine si interpone la donna vedova, aiutante dellafalsa eroina e antagonista dell’eroina vera, la quale avrà bisogno del-l’aiuto esterno di una maga misera e sudicia come lei per prevalere sullamatrigna antagonista e sulla ragazza sua rivale ed essere premiata per lesue virtù.

Anche questa fiaba ricalca molto da vicino una fra quelle tradotte daCalvino (“L’acqua nel cestello”, da Jesi delle Marche, in op. cit. p. 370),con la variante del cestello bucato per raccogliere l’acqua nel fosso alposto della “cazzizza” e l’altra, della punizione beffarda della falsa eroi-na ad opera della sua stessa madre che, senza saperlo, uccide la figliaanziché la figliastra versando acqua bollente in una botte dove avevarinchiuso quest’altra.

La fiaba è davvero un paradigma dell’animo femminile, diviso, ocon-diviso, tra bene e male, tra capacità di amare intensamente donan-dosi agli altri e capacità di profondamente odiare perseguitando glialtri; ma essa è anche, nella sua interpretazione letterale, un segno dellacondizione storica femminile, quale si è concretamente determinata nellasocietà feudale contadina: la più debole, la più esposta, la più fragile fratutte le condizioni di miseria, la cui speranza di riscatto è proiettata nelmondo dell’immaginazione e del meraviglioso.

In effetti, basterebbero queste poche fiabe modugnesi a illuminarela diversa percezione della figura maschile e di quella femminile nellasocietà arcaica: anche il maschio, sia pure figlio di un re, è ostacolatonel suo percorso di formazione da forze oscure e nemici incombenti,ma l’eroe tende ad uscire dalla sua condizione subalterna sulla base diun impulso dinamico che lo spinge ad affrontare un viaggio o a cimen-tarsi in una impresa difficile, che possano ricondurlo in seno alla comu-nità vittorioso e ammirato. Al contrario, i personaggi femminili confi-nati in una solitudine senza rimedio possono trovare conforto solo nel

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ripiegamento interiore, nel colloquio con la propria Ombra, simboleg-giata dalla madre morta, o dalla maga amica, o dalla natura selvaggia,della quale avvertono la consonanza con la selva oscura della loro inte-riorità.

E all’origine di questa condizione di miseria materiale, e spesso an-che morale, c’è di solito un rapporto contrastato con la propria madre(la “matrigna”), esacerbato dal senso di colpa dell’una di aver messo almondo una femmina e dal sentimento di inferiorità dell’altra, colpevo-le soltanto di essere nata donna: riflesso tremendo della durezza dellavita contadina, dove il dato di partenza è una “condizione d’estremamiseria, di fame, di mancanza di lavoro”, che “non è solo un motivod’apertura di una fiaba, una specie di trampolino di lancio per il saltonel meraviglioso, un termine di contrasto con il regale e il sovrannatu-rale”, ma è piuttosto una condizione permanente, “coi poteri magiciche restano appena un precario aiuto alla forza delle braccia e alla virtùostinata” (I. Calvino, op. cit., pp. 56-57).

Serafino Corriero

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INDICE

Introduzione di Raffaele Macina 5C’era una volta..., di Anna Longo Massarelli 13

I. LE LEGGENDE 17

Tóire freute, ca u ciucce róite (R. Macina), p. 18; U móneche deMedugne (R. Macina), p. 24; La *zite de Vetònde (A. L. Massarelli),p. 31.

II. LE FAVOLE 37

U jatte, u cueune, u sòrche (R. Macina), p. 38; La jatta bèrafatte(A. M. Dilillo), p. 42.

III. LE NOVELLE 47

U prìngepe e u *zappataure (R. Macina), p. 48; La stórje du féssenéste (R. Macina), p. 52; L’àneme de padre Frangèsche (R. Maci-na), p. 56; La stórje de cecerótte (testo di A. Pascazio, commento diR. Macina), p. 59; La sarache du sólachianjedde (A. L. Massarelli),p. 64; La stórje de le tré ffrate (testo di A. Pascazio, commento diR. Macina), p. 67; U rré Peluse (testo di A. Pascazio, commento diR. Macina), p. 74.

IV. LE FIABE 79

U ciucce cacaterróise (testo di A. Pascazio, commento di S. Corriero),p. 85; U prìngepe ca nascì puèrche (testo di A. Pascazio, commentodi S. Corriero), p. 95; Peppenjedde e le fiche a la reggine (testo diA. Pascazio, commento di S. Corriero), p. 102; Fecatjedde (testodi A. Pascazio, commento di S. Corriero), p. 114; Le sétte signe(testo di A. Pascazio, commento di S. Corriero), p. 120; La stórjede la Papanórchje (testo di A. Pascazio, commento di S. Corriero),p. 130.

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VOLUMI PUBBLICATI

Vito Faenza, La vita di un Comune (a cura di R. Macina), 1982;Raffaele Macina, Il 1799 in provincia di Bari, 1985;Anna Longo Massarelli, Costume e società nei proverbi modugnesi, 1986;Serafino Corriero, Alla scuola del fascismo, 1987;Sandro De Feo, Gli inganni (presentazione di A. Moravia), 1988;Giuseppe Ceci, Balsignano, 1988;Ivana Pirrone, Stagioni di Puglia, 1990;Anna Longo Massarelli, La vita quotidiana nella cultura popolare, 1991;Vincenzo Romita, Liriche, 1991;Raffaele Macina, Modugno nell’età moderna, 1993;Anna Longo Massarelli, Dizionario del dialetto modugnese (presentazione di Serafi-

no Corriero), 1995;Raffaele Macina, Estro e malizia negli agnomi popolari, 1996;Anna Longo Massarelli - Ivana Pirrone, I sapori della terra, 1997;Quinto Tullio Cicerone, Commentariolum petitionis (Vademecum del candidato, a

cura di Cristina Macina), 1997;Lucio Anneo Seneca, Epistula XVIII ad Lucilium (Intorno ai Saturnali, a cura di

Cristina Macina), 1997;Raffaele Macina, Viaggio nel Settecento, 1998;Raffaele Macina, Viaggio nel 1799, 1999;Dina Lacalamita, Storia segreta di un converso del 1799, 1999;Vincenzo Romita, Uno stupido fondo di bottiglia, 2000;Raffaele Macina, Antologia di una città, 2004;Vincenzo Romita, Entroterra, 2004.Anna Longo Massarelli, L’arguzia del popolo, 2007.

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Finito di stamparenel mese di maggio del 2009 da

Litopress Industria Grafica s.r.l.