La libertà è un colpo di tacco

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Brasile, 1982. Sullo sfondo il trionfo del Corinthians di San Paolo, la squadra di futebol con cui Socrates in quell'anno vinse il campionato paulista, dando una spallata al regime militare al seguito della sua bizzarra “Democracia Corinthiana”. Raccontato con gli occhi di un ragazzo innamorato del calcio e del giornalismo, la storia dei personaggi ci aiuta a raccontare un pezzo di storia recente del Brasile: un papà che sparisce misteriosamente la notte del millesimo gol di Pelè, un vecchio saggio che si lascia andare alla sua saudade per i tanti campioni del glorioso passato verdeoro. Poi, un ragazzo che si guadagna da vivere facendo il gigolò nella San Paolo bene. Ognuno di loro porterà più o meno consapevolmente il suo contributo alla libertà, che arriva leggera ed elegante, come una canzone di Vinicius de Moraes o una ballata di Caetano Veloso.

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Armando Curcio Editore

la libertàè un colpo

di taccoriccardo lorenzetti

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ELECTII Edizione giugno 2014© 2014 Gruppo Armando Curcio Editore S.p.A., Roma

Direzione editoriale: Prof.ssa Cristina SicilianoArt direction: Mauro OrtolaniSupervisione editoriale: Enrico ConticchioCopertina e impaginazione: Stefano Mencherini

ISBN978-88-6868-042-8

Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto

di riproduzione integrale e/o parziale in qualsiasi forma.

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la libertàè un colpo

di tacco

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A Gaia e Jacopo.

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Prefazionedi Federico Buffa 11

Prologo 15Capitolo 1 17Capitolo 2 21Capitolo 3 23Capitolo 4 29Capitolo 5 37Capitolo 6 39Capitolo 7 47Capitolo 8 55Capitolo 9 61Capitolo 10 63Capitolo 11 73Capitolo 12 79Capitolo 13 87Capitolo 14 91Capitolo 15 95Capitolo 16 103Capitolo 17 111Capitolo 18 115Capitolo 19 131Capitolo 20 135Epilogo 139

SOMMARIO

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PREFAZIONE

Un giorno al Pacaembu. Un grande semicerchio e undicipugni chiusi alzati.

Prima che costruissero il Maracana, il Pacaembu era ilpiù grande stadio del Brasile. Nei Mondiali del ‘50 ilBrasile ci pareggiò 2-2 con la Svizzera. Non una sorpresaassoluta: son pochi a saper giocare contro quelli forti comegli svizzeri. San far gruppo sul terreno come nessuno, einfatti sino alla battaglia di Marignano hanno avuto lamiglior fanteria del mondo. Flavio Costa, “o mister”, indi-spettito dai fischi, giurò che a San Paolo non ci sarebberotornati mai più in quella edizione del Mondiale.

Nemmeno questa una sorpresa.A San Paolo sanno di essere succeduti a Buenos Aires

come capitale culturale del Sud America. Oggi hanno la piùalta percentuale di teatro per abitante del mondo nella zonacentrale della città.

Hanno tutto perché ci sono venuti tutti e chi viene portasempre qualcosa. La loro cultura per esempio. Se siete pra-ticanti o vi piace il ju jitsu di stile e concezione brasiliana, lodovete al fatto che i giapponesi vi hanno fondato la più gran-de japantown lontano dalle isole; e il giovane e gracileGracie ha cominciato a frequentare quelli che eran disponi-bili a trasmetterne una frazione di quella cultura.

Le Idee per esempio. E le Idee non le fermi con un’armae nemmeno con tante altre cose.

Il Brasile è una terra fertile per le Idee. Una serra caldadove farle crescere. E trasformare.

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Le navi di Sua Maestà partivano da Southampton e sbarca-vano a Santos. Il calcio è penetrato così. E quando è stato osser-vato per la prima volta, in Brasile hanno intuito che ne avrebbe-ro fatto molto più che un gioco. Come per cinquant’anni lo ave-vano pensato gli inglesi, ai quali si deve la sua stessa invenzione.

I neri e i meticci han fatto il resto. E nel farlo diventareuna rappresentazione del loro esistere, hanno anche intuitoche lontano da alcuni dei valori dell’uomo non poteva resta-re. Normalmente son mondi che non collidono o, se lofanno, rimbalzano.

Non in questo caso.Quella che state per leggere è una di quelle storie che

non ha i requisiti richiesti per essere una storia di calcio. Einfatti lo è solo marginalmente. Imparerete ad affezionarviad ogni personaggio come in un film che vi strattona primae commuove poi.

Fino a che dovrete fare i conti con lui, il Dottore.Non è detto che vi piaccia per forza un uomo con le sue

caratteristiche, ma non può lasciarvi indifferente.Uno che pensava si dovesse giocare in nove e che aveva

detto che sarebbe voluto morir di domenica col Corinthianscampione... e tante altre cose che non hanno cittadinanzanelle storie di calcio. Il Corinthians è stato fondato ad unafermata d’autobus, e se nasci così non puoi pretendere d’a-ver una storia come le altre.

Il libro lo potreste anche leggere nell’altro senso, tantosembra ammantato nella circolarità del pensiero orientaleche tanto affascinava il Dottore. Tutto quello che non cono-sceva lo affascinava, come per esempio che ne sarebbe statodi un gruppo d’uomini che avessero fatto guardare il calcio,ma soprattutto al calcio, in altro modo.

Vi accorgerete presto che sarete diventati parte della tor-cida corinthiana, la stessa che a ogni partita interna srotola ilgrande gonfalone che raffigura Ayrton Senna.

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RICCARDO LORENZETTI

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Altra storia senza eguali.Ecco perché i bianconeri a metà campo quel giorno al

Pacaembu avevan tutti la testa bassa e il pugno alzato comeil Dottore quando celebrava i suoi gol. Il Corinthians eracampione ma il Dottore era passato ad altra dimensione. Didomenica, naturalmente.

Buona lettura.

Federico Buffa

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LA LIBERTÀ È UN COLPO DI TACCO

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Ci sono anni di mezzo. Sono quegli anni nei quali ilmondo smette di essere quello che era stato fino a quel

momento ma non è ancora quello che sarà. Sono anni chesfuggono anche alla normale disciplina alfanumerica.Semplicemente, escono dalla storia. Come studenti in gitapremio o militari in libera uscita. Ci fu un momento, inItalia, che quelli che passarono davanti, non furono né anniSettanta né anni Ottanta. Come se tra la Milano diVallanzasca e la Milano da bere ci sia stato un momento, unlasso di tempo in cui Vallanzasca non c’era più, ma non ave-vano ancora servito il drink. In quegli anni di mezzo, l’Italiavinse i Mondiali in Spagna e il Corinthians di Sócrates feceparlare di sé per il suo calcio e molto altro.

Sócrates, dicono, è morto il 12 dicembre 2011. Arrestocardiaco, dopo la solita serata trascorsa a eccedere in birra eliquori: quindi fedele a quella regola aurea che allega sempreal campione una certa fornitura di vizi fuori dal campo.«Perché con il campione viziato vinco le partite importanti,mentre il bravo ragazzo lo riservo per mia figlia il giorno chedeciderà di sposarsi», come disse quel famoso allenatore chepassò per cinico e invece era uno che la sapeva lunga.

Sócrates Brasileiro Sampaio de Souza eccetera eccetera: ilcapitano e il punto avanzato del centrocampo del Brasile1982. Gli altri tre punti del quadrilatero erano ToninhoCerezo, Falcão e Zico. Che è come entrare in una chiesa e tro-varci una natività di Giotto, una crocifissione di Caravaggio euna Madonna di Raffaello. E prima dell’uscita, seminascosta,

PROLOGO

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un’acquasantiera da attribuire a Michelangelo. Non si facevamancare niente, quel centrocampo: talmente esagerato cheLéo Júnior, che era bravo quanto gli altri, pur di trovargliposto lo relegarono a fare il terzino sinistro. E anche da terzi-no sinistro giocò da fuoriclasse, quale era. Non bastavano, evi-dentemente, quattro portate di arrosti, fritti, umidi e fricassee.Quella squadra pretese anche il carrello dei bolliti. Léo Júniorterzino diventò così l’emblema del Brasile 1982: un’opulenzaaddirittura esibita. Una specie di schiaffo alla miseria.

E poi c’è quel giornalista della «Gazzetta dello Sport»che quando pochi mesi dopo (la morte di Sócrates), DinoZoff compiva settant’anni, ha pensato bene di dedicargli unrichiamo in prima pagina con tanto di fotografia ed un tito-lo affettuoso: «Auguri Nonno Dino».

Nonno Dino? Nonno Dino lo vada a dire a sua sorella.Perché Zoff i settant’anni non li compirà mai. Come non licompiranno mai né Batman né Topo Gigio... e nemmenoTex Willer. Perché certa gente non muore mai, e soprattut-to non invecchia. E soprattutto perché mentre tutti noi fac-ciamo le cose che riempiono i nostri giorni, tipo aspettare ilverde al semaforo, pagare il bollo auto o giocare al supere-nalotto, Zoff è ancora lì, allo stadio Sarrià. Con la sua etàindefinita, la sua maglia grigia con il numero 1 cucito dietroe soprattutto con le mani sul pallone appena schiacciato daldifensore Oscar. Sulla linea di porta, nella parata più belladella storia del calcio. Quella che neanche Batman, o TopoGigio o Tex Willer sarebbero riusciti a fare.

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Sócrates e Dino Zoff. Due personaggi più da romanzo cheda futebol. Di quelli che piacevano tanto al «Cardellino

di San Paolo», il giornale più off della città quando la paro-la off non era stata ancora declinata nel vocabolario. Offinteso come una cosa «fuori»… fuori dagli schemi, fuori dalcoro, fuori persino dalla logica.

«Il Cardellino», con quella dicitura sotto il titolo che erail più palese incoraggiamento a non leggerlo: «periodico dicultura sindacale brasiliana». Una definizione così cripticae così scoraggiante. Che qualcuno si avventurasse in edico-la per leggere qualcosa di inerente alla «cultura sindacalebrasiliana» significava avere una visione fin troppo ottimi-stica della vita. E una fiducia verso il prossimo ai limiti del-l’incoscienza, come i tifosi del Messico che sono sempreconvinti di avere la squadra giusta per vincere il Mondialedi calcio e se ne ritrovano una buona giusto per vincere lerisse a fine partita.

Eppure «Il Cardellino» era, a quei tempi, una piccolaistituzione. Perché era uno dei pochi giornali, se non l’u-nico che, pur nella sua piccolezza, non le mandava a dire.Che faceva le pulci, che mugugnava, che non era mai sod-disfatto. Che chiamava ladri i ladri e gli dava un nome eun cognome.

Certo, come giornalino non era il massimo: troppo poli-ticizzato e troppo spostato verso una sinistra estrema chespesso andava ben oltre la «cultura sindacale brasiliana». Epoi era impaginato malissimo e la tipografia sembrava

CAPITOLO 1

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composta da ubriachi. Una pagina troppo chiara e poiun’altra troppo scura dove non distinguevi le parole e timacchiavi tutte le dita di inchiostro.

Ti cadevano le braccia a leggerlo, perché ad ogni nuovonumero si aveva l’impressione di vivere in una città con gliamministratori più inetti, corrotti e fannulloni del globo ter-restre. San Paolo era, secondo quel giornale, una specie diSodoma-Gomorra dei tempi moderni. Un agglomeratourbano in attesa solo della voragine che l’avrebbe giusta-mente inghiottita o del fuoco che l’avrebbe finalmente ince-nerita, come nelle migliori tradizioni bibliche.

Per fortuna, c’era Alvaro Cunha. Che nel «Cardellino» diSan Paolo scriveva di calcio e ne scriveva così bene che ledue pagine che curava lui valevano ampiamente tutto ilresto. «Del vostro giornaletto apprezzo molto gli scritti deldottor Cunha. Il resto lo trovo ottimo solo quando decido dipulire i vetri», scrisse un lettore in una delle tante lettere allaredazione che, democraticamente, venivano pubblicatesenza censura. Del resto, gli stessi politici della Preifetura(sui quali si abbattevano gli strali del «Cardellino») non locitavano mai per nome, ma solo per la luce riflessa del suogiornalista principe. E siccome lo vedevano come il fumonegli occhi, ecco che il «Cardellino» nemmeno lo degnava-no di una menzione e diventava «quel fogliaccio dove scriveanche il grande Alvaro Cunha» oppure «quella pubblicazio-ne semiclandestina, famosa esclusivamente per ospitare lapenna del dottor Alvaro Cunha».

E la penna di Alvaro Cunha portava al successo tutta lasquadra. Come il grande Leonidas da Silva, che prese sullespalle un modesto Flamengo e lo trascinò nel campionatoCarioca del ‘39.

Scriveva con una stilografica vecchissima disegnandonell’aria ideali ghirigori e linee sinuose. La calligrafia diAlvaro Cunha era svolazzante, come la sua prosa. Chi

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bestemmiava forte, poi, era il dattilografo, perché il gran-de Alvaro Cunha non si degnava di toccare la macchinada scrivere. E soprattutto non ne voleva sapere di battutee spazio da rispettare: i suoi scritti non subivano né tagliné modifiche. Al «Cardellino» qualunque sciagura o cala-mità naturale si metteva pazientemente in fila e cedeva ilpasso al resoconto del grande giornalista sportivo. Coneffetti talvolta grotteschi, come quella volta che vennefuori lo scandalo dell’acqua inquinata a Campinas, emorirono una ventina di persone. «Vogliamo le dimissio-ni della Preifetura, e i responsabili in galera», tuonò «IlCardellino». Naturalmente con il titolo in basso a destra,perché il proscenio toccò come sempre al grande AlvaroCunha: «Ancora uno zero a zero per il Corinthians».

Il Corinthians. La squadra del popolo. E poi si scrivevadel Palmeiras, la squadra degli italiani. Che erano popoloanche loro, ma non quanto quelli del Corinthians. E anchedel San Paolo, i ricchi tricolor, che con il popolo non aveva-no molto a che vedere, e della superiorità sociale ne faceva-no un punto d’onore.

E poi il Santos. Anche se il Santos non contava, perchénon era proprio San Paolo: e poi era la squadra di Pelé etutti le volevano bene. E soprattutto perché il Santos vince-va quasi sempre ma era una presenza rara, nel Paulista.Come quei parenti che si fanno vedere giusto per Natale.Colpa delle tournée e degli inviti in giro per il mondo, comefosse un circo equestre. E quando tornavano, per rimettersiin pari con gli altri giocavano anche una partita ogni duegiorni. Una roba da schiantare un toro. Che quando ilSantos ne buscò dall’Ituano perché non si reggeva in piedi,la protesta del «Cardellino» si alzò alta e vibrante: «Il Santosdi Pelé è la nostra squadra migliore. Un patrimonio naziona-le, né più né meno di Ilhabela e della Praça da Sé. E cometale va custodito. Esporre il Santos a queste brutte figure,

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