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Giancarla Sola La genesi filologica degli umanesimi classici

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Giancarla Sola

La genesi filologicadegli umanesimi

classici

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I edizione: febbraio 2009

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Indice

Proœmium .................................................................................. 9

I. Pedagogia e filologia ........................................................ 13

I.1. Classicità nella filologia ................................................... 13

I.2. L’Umanesimo per la filologia .......................................... 15

I.3. Filologia, filosofia e storia ................................................ 18

I.4. Identità della filologia ....................................................... 20

I.5. Pensiero pedagogico e originarietà filologica ................. 22

II. L’humanitas della classicità romano-latina ....... 29

II.1. Humanitas hominis e humanitas humani: uma-nità dell’uomo e umanità dell’umano ............................ 29

II.2. «Illa humanitas»: il De oratore di Cicerone .................. 38

II.3. La sapientia quale «ars vitae»: le Epistulae mo-rales ad Lucilium di Seneca ........................................... 46

II.4. «Instituere», «formare», «educare»: l’Institutio oratoria di Quintiliano .................................................... 52

II.5. Homo, humanus, humanitas ........................................... 60 III. La caritas nel Medioevo cristiano ......................... 67

III.1. Dio come «pedagogo dell’umanità» ............................. 67

III.2. La caritas medioevale ................................................... 73

III.3. I De Magistro: Agostino e Tommaso ........................... 78

III.4. Medioevo e sapientia christiana ................................... 85

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Indice 8

IV. La dignitas hominis dell’epoca umanisti-co–rinascimentale ......................................................... 91

IV.1. La città e l’arte, le filosofie e le scienze ...................... 91

IV.2. L’Umanesimo italiano e il Rinascimento eu-ropeo .............................................................................. 97

IV.3. La Respublica litteraria come specchio della forma hominis ............................................................... 103

IV.4. La filologia fra studia humanitatis e humanae litterae ........................................................................... 107

IV.5. Il codice della civil conversazione, delle buo-ne maniere e dell’educazione cortese: Ponta-no, Castiglione, Erasmo, Della Casa, Guazzo ............ 113

IV.6. Il canone umanistico-rinascimentale della di-gnitas hominis: Manetti e Pico .................................... 128

Bibliografia generale ............................................................. 137

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Proœmium

Se il compito di uno studio è sempre quello di portarsi fino alle radici dei problemi che affronta cercandone anche l’origine, la generazione, il formarsi, in una parola la ge-nesis – dal greco gígnomai, “nascere” –, l’impegno del presente lavoro dedicato agli umanesimi classici consiste nel metterne in luce anzitutto la genesi filologica. Ma cosa significa, oggi, “filologia”? E perché, poi, una “genesi filo-logica”? Si tratta, anzitutto, di spingere la ricerca nel cuore filologico della lingua e della letteratura passando attra-verso quella scienza – la filologia, appunto – che ha come fine la ricostruzione di una enciclopedia testuale capace di ruotare attorno ai perni linguistico-concettuali su cui è im-piantata la storia culturale dell’Occidente.

Dopo aver sondato nel volume del 2005, dedicato a La genesi teoretica della paideia classica, l’ideale paideutico con cui i polmoni della grecità hanno respirato, ora con La genesi filologica degli umanesimi classici l’attenzione si sposta storicamente e geograficamente sulle idee di huma-nitas, di caritas e di dignitas hominis; quindi, sul mondo romano posto fra repubblica e impero, sul mondo medioe-vale bilanciato tra le figure di Agostino e Tommaso, sul mondo umanistico-rinascimentale disposto fra crescita ur-bana e sviluppo della civiltà. La via trascelta non è quella immediatamente storica, supportata ad esempio da una storia dell’educazione, da una storia della pedagogia o da una storia delle istituzioni scolastiche. Né quella economi-ca o/e politica o/e sociale. Semmai tutto ciò costituisce un orizzonte, più o meno lontano, di riferimento. Il cammino

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prescelto sfocia piuttosto in un taglio di ordine filologico, intendendo così attraversare il crinale di un sapere stori-cizzato il cui oggetto è la conoscenza delle civiltà per il tramite delle epoche che hanno determinato le loro “classi-cità”, penetrando quindi nelle testimonianze letterarie per esercitarvi una critica del testo. Questa genesi filologica intorno alle forme dell’umanesimo classico si adopera ad individuare autori, opere, edizioni, non trascurando di rammentare l’ingente patrimonio che la filologia eredita dal suo passato.

Da Eratostene all’Aretino fino ad Aprosio e, perciò, alla tradizione umanistico-rinascimentale, la filologia è venuta imponendosi come una disciplina rivolta a indagare i testi antichi per scoprirne la loro lezione originaria, per inter-pretarne storicamente, esegeticamente e linguisticamente il messaggio – individuale e collettivo, personale e sociale – da cui emergono la vita materiale e quella spirituale de-gli uomini, delle culture e delle civiltà.

A questo proposito, va sùbito precisato che l’ottica con cui si guarda alle tre differenti categorie di humanitas, ca-ritas e dignitas hominis si mantiene sempre attenta al ver-sante interdisciplinare, nei cui declivi si contano i numero-si rivoli della realtà storica, psicologica, antropologica, e-stetica, religiosa, etica, filosofica, sociale e pedagogica nelle loro pur differenti concrezioni. E va poi chiarito, in via preliminare, che l’analisi condotta vuole assumere non in senso “tecnico” la declinazione “filologica”, a cui tutta-via si ispira nella ricerca della genesi dell’umanesimo o, meglio, degli “umanesimi” classici con cui è venuta co-struendosi nella civiltà occidentale l’idea di formazione dell’uomo (cfr. Sola, 2008b; Gennari, 2001).

Questo libro, dunque, non è rubricabile all’interno della letteratura filologica, ma vuole essere uno studio radicato nella pedagogia, rivolto però a porre questa scienza difron-

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te alla propria responsabilità “filologica” nell’affrontare una questione particolarmente complessa come quella di ricostruire la genesi storico-critica dell’idea di “formazio-ne”, senza abdicare al dovere di impegnarsi in un’indagine rigorosa sul discorso terminologico e semantico con cui gli umanesimi classici, da quello romano a quello cristiano sino a quello rinascimentale, hanno fondato la loro parola intorno all’uomo e alla sua formazione umana. Per questo motivo, prima di entrare nel merito storico e letterario, fi-losofico e pedagogico delle diverse scritture vergate con l’inchiostro dell’humanitas, della caritas e della dignitas, il capitolo di apertura del volume tenterà di sondare il rap-porto che unisce la pedagogia alla filologia.

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Capitolo I

PEDAGOGIA E FILOLOGIA

I.1. Classicità nella filologia È stata una cultura di matrice “umanistica” quella che

nell’antichità classica ha dato vita all’amore per la parola, la scrittura, il discorso. Philein – l’amore – e logos – ossia un pensiero che si dice – sono i due termini con cui i greci indicano la propensione a considerare ciò che i latini chia-meranno litterae, distinguendo in esse i verba – cioè il “te-sto” scritto – dalle res – ovvero le “cose” che i messaggi evocano.

Nel III secolo a.C. sorge, agli inizi dell’ellenismo, il dif-fuso bisogno di mettere ordine nelle opere della classicità riportandole alla loro struttura formale originaria. Aristote-le aveva stabilito nella Techne rhetorike, redatta nel IV se-colo a.C., la forma dinamica del linguaggio retorico, con i suoi mezzi argomentativi, il suo carattere espressivo, la sua funzione esemplativa, il suo pathos emotivo. Sia gli aspetti elocutivi (la lexis greca e la electio latina, relative alla scelta delle parole) sia gli aspetti combinatori (la taxis greca e la compositio latina, relative alla disposizione delle parti del discorso) conferiscono vivacità, chiarezza e “per-sonalità” allo stile, tanto di un autore quanto di un’epoca. È, però, Eratostene – nato a Cirene intorno al 280 a.C., di formazione stoica, accademica e peripatetica, astronomo, matematico e geografo – a definirsi per la prima volta “fi-lologo”, poiché amante della cultura.

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Il mondo alessandrino nel III secolo a.C. dà vita alle prime indagini ricostruttive, la cui tensione filologica si appunta su Omero, sui lirici classici, sui prosatori e i drammaturghi con l’intento di interpretarne il senso e il si-gnificato più autentici. Da Aristarco di Samotracia, a Ze-nodoto fino a Aristofane di Bisanzio, la scuola filologica di Alessandria d’Egitto opera in pieno ellenismo sottraen-do all’incuria del tempo le edizioni dei grandi classici del-la letteratura greca. Nella città di Pergamo sorge, presso-ché contemporaneamente, l’altro centro di studi filologici dell’antichità. Intorno a Cratete di Mallo viene costituen-dosi un gruppo di kritikoi, cioè di “critici”, impegnati nella ricostruzione delle grammatiche di cui la classicità si ser-viva. Tale sensibilità filologica si fa sentire anche a Roma, quando intorno alla metà del II secolo a.C. si avvia la presa di coscienza circa la classicità latina e i suoi primi autori.

È poi il mondo bizantino, con Fazio, Àreta, Eustazio e Demetrio Triclinio, in un arco temporale che va dal IX se-colo al XIV a raccogliere l’eredità alessandrina (disciplina-ta nel vaglio delle autenticità e nelle catalogazioni) e quel-la pergamena (intenta nell’opera esegetica circa i contenuti e le forme). Si tratta di un secolare lavoro di raccolta, cata-logazione, emendazione, esegesi e commento in cui la scuola filologica di Bisanzio è impegnata, nel solco della tradizione greca, ellenistica e romana, che è parallelamen-te svolto anche dal monachesimo medioevale. Qui l’in-tento conservativo vede anche affiorare la necessità di tra-sporre da una lingua all’altra – dal greco al latino, ma an-che dall’ebraico o dall’arabo al latino – i testi che le tradi-zioni, le culture e le civiltà del passato hanno lasciato in eredità al presente. La questione della traduzione diviene decisiva quando ci si trova a dover trasferire, da un uni-verso linguistico a un altro, dei sistemi significazionali al-quanto complessi che devono essere reinterpretati attra-

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verso la ricostruzione il più possibile fedele dei rispettivi universi culturali. Un esempio di come la traduzione pre-supponga tanto la linguistica quanto l’antropologia è offer-to dalle molteplici traduzioni della Bibbia.

L’antica tradizione filologica latina – che comprende figure quali Varrone Reatino e Asconio Pediano, Servio e Macrobio fino a Donato –, insieme agli sforzi di conserva-re il patrimonio letterario del passato compiuti da filosofi come Boezio e Cassiodoro nei secoli V e VI d.C., trova ul-teriore vigore nelle istituzioni monastiche dell’Occidente dove più liberamente si può indagare non soltanto sulle Sacre Scritture, ma pure sui loro rapporti letterari, filoso-fici e teologici con le culture greche, ebraiche ed arabe, nonché con le arti liberali del Trivio e del Quadrivio. Sulle “sette scienze” (grammatica, dialettica e retorica; geome-tria, aritmetica, astronomia e musica) nelle loro connes-sioni con la filologia aveva scritto un’opera decisiva Mar-ziano Capella. Tra il IV e V secolo d.C. vive l’autore di Le nozze di Filologia e Mercurio: un capolavoro che dall’età carolingia al Rinascimento orienterà gli studi sul mondo classico, per essere a sua volta commentato ad esempio da Giovanni Scoto Eriugena, Remigio d’Auxerre e Nicolò Copernico. Si è, dunque, giunti all’Umanesimo quattro-centesco e al Rinascimento cinquecentesco.

I.2. L’Umanesimo per la filologia I secoli XV e XVI vedono non solo una ripresa degli stu-

di filologici, ma ancor più la rifondazione della loro intima struttura epistemologica. Conoscenza del greco e del lati-no secondo una purezza originaria, ricerca costante dei grandi classici e delle opere andate perdute, acribìa esege-tica e metodologica, ricognizione negli àmbiti storici in

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cui i testi della classicità hanno visto la luce, nuove edi-zioni a stampa curate secondo le regole di un lessico filo-logico che prende corpo attraverso le intuizioni degli uma-nisti: è entro questo contesto che operano gli uomini della Repubblica delle lettere, da Valla a Poliziano in Italia, da Erasmo agli Estienne in Europa. La filologia diventa “cri-tica”, ma ermeneuticamente critica, senza con ciò abdicare alla propria tradizione, eppure alimentandola di un più solido apparato tecnico-metodologico. Alla scoperta di te-sti antichi e alla loro redazione contribuiscono già gli stu-diosi del “preumanesimo”, tra cui si contano Lovato de’ Lovati e Albertino Mussati che operano a Padova tra il XIII e il XIV secolo. Quindi è la volta di autori come Petrarca, Coluccio Salutati e Boccaccio.

Umanesimo e Rinascimento raccolgono l’eredità filolo-gica del passato e si impegnano in un’opera di ricostruzio-ne delle forme originarie di documenti e volumi, depuran-doli da errori e incrostazioni esegetiche, lacune e fallaci interpretazioni. È la grande svolta nella storia della filolo-gia. Questa non costituisce più quell’amore per il sapere e l’erudizione, che aveva caratterizzato le sue origini greche e ellenistiche. Né si tratta semplicemente di accedere a più congrue interpretazioni, come era accaduto nelle scuole di Alessandria e Pergamo. Matura piuttosto una spiccata pro-pensione a conservare per ricostruire e a ricostruire per conservare l’eredità classica nella sua memoria profonda, che va dall’àmbito religioso a quello laico. Occorre porta-re la filologia a un livello capace di garantire il bisogno di certezza documentaria, preservando i testi antichi (ad e-sempio i Vangeli, ma anche Sofocle, Euripide o Eschilo, così come Platone e Aristotele) da illecite aggiunte, da pe-ricolose alterazioni, da arbitrarie mutilazioni, da indebite attribuzioni. La filologia cresce con l’elevarsi del gusto, l’affinarsi della civiltà, il progredire del processo di civi-

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lizzazione della società curtense. Così la ricerca filologica diventa tutt’uno con l’analisi storica, l’indagine filosofico-religiosa e la critica letteraria. Ma la filologia non si di-spone quale disciplina meramente “sussidiaria”; al contra-rio essa entra in un indispensabile intreccio transdiscipli-nare che la vuole – già in Erasmo – compartecipe di un progetto di polistoria secondo cui, per accedere alla com-prensione di un testo antico, è indispensabile collocarlo nell’alveo dell’antichità, nei significati dell’epoca che lo ha prodotto, nei codici culturali del suo autore.

Esaltando la dignitas dell’uomo, l’Umanesimo vuole conoscere gli insigni capolavori della storia dell’umanità. Gli auctores sono delle auctoritates. E se questa consape-volezza era già presente nei medioevali e in quel “Rina-scimento del XII secolo” esemplarmente rappresentato da Bernardo di Tours e Alano di Lilla, è la cultura rinasci-mentale propriamente detta, anzi, la civiltà umanistico-rinascimentale a orientarsi verso lo studio degli auctores antiqui. Tra essi spiccano non solo i greci, ma anche i lati-ni: Cicerone e Seneca, Virgilio, Orazio e Ovidio. È il 1416 quando Poggio Bracciolini, l’umanista nato a Terranova in Valdarno, scopre nell’abbazia svizzera di San Gallo il pri-mo e integro esemplare della Institutio oratoria di Quinti-liano. Ed è ancora Bracciolini, all’interno della sua attività di copista, a perfezionare la “lettera antica” – di matrice carolingia – con cui si soppianterà il gotico e verranno im-ponendosi i caratteri di una scrittura che la stampa contri-buirà a diffondere in tutta Europa.

La filologia è ormai una scienza mentre il modo stesso di concepire l’attività dello studioso consiste in una fami-liarità con i classici, che diverrà proverbiale per Brunetto Latini, Petrarca, Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Pog-gio Bracciolini, Agnolo Poliziano, Erasmo da Rotterdam, Giannozzo Manetti, Vittorino da Feltre, Guarino da Vero-

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na, Leon Battista Alberti, Matteo Palmieri, Cristoforo Lan-dino, Pico della Mirandola, Giovanni Pontano, Marsilio Fi-cino e una folta schiera di altri umanisti. La filologia, per tutti loro, innerva gli studia humanitatis e la pedagogia che li caratterizza ripone l’educazione e la formazione del-l’uomo nello studio di tutto ciò che è classico, facendo di-ventare l’Umanesimo stesso l’ultima, grande classicità.

I.3. Filologia, filosofia e storia Di fronte alla scomparsa nel millennio medioevale di

gran parte delle opere dell’antichità, il compito dei filologi umanisti diventa quello di porsi alla ricerca – anzitutto nelle biblioteche di conventi, monasteri e abbazie – degli originali esistenti o delle copie, talvolta incomplete o erra-te, di ciascuna opera antica per tentare di ripristinarne la forma originaria attraverso il confronto. Ciò dà avvio a un impegno di dimensioni colossali, che ancor oggi non è terminato: approntare edizioni critiche dei testi classici non andati irrimediabilmente perduti. Il Seicento, il Sette-cento e l’Ottocento vedono, quindi, proseguire il lavoro i-niziato dagli umanisti sulla scorta di quanto già avevano fatto prima di loro i medioevali. L’analisi della tradizione – la recensio –, il restauro – l’emendatio –, l’esame testua-le – la examinatio – passano attraverso progressivi svilup-pi. Lo statuto epistemologico della disciplina è costante-mente posto in discussione. Da un lato ci si impegna per meglio determinarne la struttura interna, che viene sospin-ta ora verso la storia (e/o la storia della cultura) ora alla volta di una più marcata determinazione metodologico-tecnica. Dall’altro lato la filologia vede nascere, in parte dal suo stesso corpo, nuove discipline come la paleografia, la numismatica, la diplomatica, la topografia, la stessa ar-

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cheologia. Sul fare dell’Ottocento, dalla filologia si stacca la linguistica, che manterrà nei Paesi anglosassoni i carat-teri di una comparative philology.

Tra Settecento e Ottocento nelle università europee si sviluppano un confronto e un dibattito sempre più ricchi e serrati. Vi partecipano studiosi come R. Bentley, J. J. Wet-tstein, J. A. Bengel, C. G. Zumpt, F. W. Ritschl e K. La-chmann, con il quale si afferma la moderna critica testua-le, mentre è con U. von Willamowitz-Möllendorf che la fi-lologia si orienta verso la storia della cultura.

La lezione di G. B. Vico, che voleva la filologia come coscienza del certo nel compimento di una scienza del ve-ro; quella di F. S. Schlegel che rendeva inseparabili storia, filosofia, ermeneutica e filologia; quella dei romantici nel loro insieme, che accoglieva nella filologia l’organicità o-listica di tutta l’antichità; e poi la lezione di filologi come F. A. Wolf, A. Böckh, K. O. Muller, O. Jahn, J. Burnet, I. Bekker e J. G. Hermann, oscillante tra l’analisi formale delle opere e la loro lettura ermeneutica dove prevale la sensibilità dell’interprete costituiscono i sedimenti su cui s’innestano le due strade dell’obiettività scientifica (di ma-trice positivista) e dell’intuizione soggettiva (di ordine squi-sitamente ermeneutica), caratterizzando il panorama all’in-terno del mondo accademico, in prevalenza tedesco.

Così, in pieno Ottocento, Bekker edita il Corpus Aristo-telicum, mentre Hermann nel 1851-53 appronta un’edizio-ne critica dei dialoghi platonici e T. Mommsen raccoglie e sistema le fonti della cultura romano-latina. Nietzsche pubblica nel 1871-72 la Nascita della tragedia, nella quale la libertà interpretativa si radicalizza in una filologia che è già filosofia. Quindi il dibattito si fa ancor più intricato. E mentre s’addensa la polemica tra positivismo e storicismo, tra oggettività della scienza e soggettività dell’interprete, fra canoni classici e interpretazioni extratestuali, sono or-

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mai una realtà le grandi “filologie regionali”: la filologia romanza, quale studio delle lingue neolatine; la filologia germanica, con i differenti alberi genealogici tedesco, in-glese, neerlandese, ecc.; la filologia slava dislocata nelle diverse forme della slavistica articolate sulle differenti i-dentità del mondo slavo.

In Italia, dopo G. Vitelli, E. Romagnoli, D. Camporetti e A. Fraccaroli, nel Novecento spicca l’intelligenza filolo-gica di G. Pasquali, che pone l’indagine nel solco della ri-cerca – flessibile e critica – dei «testimoni» storici e empi-rici che ruotano intorno al testo: dal lettore all’epoca, dall’autore alla storia, dalle Weltanschauungen alle tracce delle interpretazioni avvenute in passato, dalla lingua al linguaggio. Si pongono pertanto le condizioni per un’ulti-ma e definitiva svolta: da un lato l’ermeneutica, con la sua attenzione al soggetto e alla storia; dall’altro lo strutturali-smo e poi la semiotica, con la loro attenzione all’oggettivi-tà strutturale del testo quale esito di sistemi di codici rivol-ti alla produzione segnica. Siamo nel secondo Novecento. Siamo già a Gadamer con il suo Verità e metodo, del 1960, e a Umberto Eco con il suo Trattato di semiotica ge-nerale, del 1975. Ma siamo ormai fuori dalla filologia, as-sunta in senso stretto.

I.4. Identità della filologia Insomma, sembra ormai che si sia approdati al proble-

ma dell’identità della filologia. Ovvero, della cifra episte-mologica che vede questa scienza equilibrarsi fra esegesi testuale, critica disciplinare, autosufficienza analitica, me-todologia transtestuale. E poi fra storicismo e empirismo, tra positivismo e ermeneutica, fra connotazioni letterarie e denotazioni linguistiche. Al rigore ecdotico, che richiede

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ormai l’impiego di tecniche statistiche, matematiche e in-formatiche, si contrappone il fascino dell’interpretazione globale, che libera la ricostruzione testuale da quanto pos-sa essere considerato un laccio formalistico teso al collo dell’interprete.

Tuttavia, se la filologia deve continuare ad assicurare le capacità e le competenze euristiche che avevano caratte-rizzato il suo nobile passato umanistico, essa non può che aprirsi alla polivalenza dei contributi interdisciplinari pro-venienti dalle scienze storiche, filosofiche, socio-antropo-logiche e, più in generale, dalla grande famiglia delle scienze umane nei loro risvolti letterari, religiosi, politici, estetici. Se il fine è anche quello di non smarrire il mezzo, alla filologia va assicurata la sua identità epistemologica, nel rispetto però della fertile differenza dei contributi di-sciplinari a cui può ricorrere e con cui, specularmene, le diverse scienze possono ad essa far ricorso.

La questione di fondo non è soltanto quella dell’identità della filologia, ma anche quella dell’identità nella filolo-gia. Ossia del riconoscere, proprio in questa scienza, la possibilità che ricerche provenienti da altre aree disci-plinari sappiano trovare gli strumenti e il clima adatto per rendere più incisive le loro analisi. Così la filologia, anzi-ché chiudersi in se stessa autenticando soltanto una esclu-sività preclusiva, può contribuire – senza venir meno alla propria peculiarità – alla messa a punto di sistemi interpre-tativi con cui sterrare le radici del testo, che affondano sempre nei codici culturali che hanno contribuito a produr-lo. Questo la pone tra la storia e la filosofia così come fra l’antropologia e la geografia.

Entro tale visione epistemologicamente “democratica”, la filologia guadagna o riscopre il proprio ruolo decisivo nell’impegno che la cultura occidentale vede oggi difronte a sé: risolvere l’esperienza della coscienza politicamente,

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storicamente e esteticamente alienante che l’uomo ha di se stesso. Risolverla in termini anzitutto pedagogici, cioè ten-tando di ridare dignità alla formazione e all’educazione dell’uomo. L’importanza degli studi filologici diventa, a questo proposito, imprescindibile. Se si desidera risponde-re alle forme dell’alienazione nichilista attraverso le forme della formazione umanistica è necessario muoversi alla ri-cerca dello statuto originario della “formazione”. Ma l’ori-ginarietà della formazione la si può soltanto riscoprire nel-l’originalità delle parole con cui le grandi tradizioni uma-nistiche l’hanno chiamata. Si tratta di entrare nel merito della genesi filologica degli umanesimi classici, quindi nella storia del loro linguaggio inteso nell’intreccio che esso ha con le idee, le culture, le conoscenze.

I.5. Pensiero pedagogico e originarietà filologica Se, dunque, la pedagogia si impegna in una approfondi-

ta analisi sulle due categorie fondative di “formazione” e “educazione”, è indispensabile che essa agisca a ritroso nella storia umana per osservare come, quando, perché e da chi esse siano state impiegate. È ovvio che ci si muova, qui, all’interno dell’Occidente. Ed è però necessario chia-rire, in via preliminare, che la ricognizione non può che essere circoscritta a quelle epoche e a quelle civiltà che sono riconoscibili a partire da una loro cifra umanistica. Inoltre, delle grandi età storiche capaci di evocare un prin-cipio, ossia un ideale, di umanesimo sarà certo proficuo fa-re emergere i concetti pedagogici con cui si è inteso parla-re di formazione dell’uomo e di educazione tra gli uomini. Ma la ricerca delle epoche, delle civiltà, degli umanesimi e delle loro categorie pedagogiche maggiormente denotative non può essere svolta se non ponendo la pedagogia in un

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rapporto non soltanto con la storia e la filosofia, ma anzi-tutto con la filologia. Questa rete disciplinare ha come scopo principale riconoscere i concetti con cui nel passato si è parlato di formazione e educazione. E tale genere di concetti, come suggerisce Croce (1938: 125), «debbono essere definiti in modo rigoroso ed esatto, perché altrimen-ti tanto varrebbe non pronunziarne mai i vocaboli, decadu-ti a vuoti fiati di voce».

Un tentativo rivolto in questa direzione è stato già av-viato nel volume La genesi teoretica della paideia classi-ca. In esso, lo sforzo euristico si indirizzava a indagare la classicità greca studiandone la categoria pedagogica che meglio rende manifesta la portata umanistica di quella ci-viltà. L’ideale e l’idea di paideia venivano riletti per quel-lo che essa significava presso gli autori classici greci e non piuttosto secondo gli usi – non sempre ortodossi o filologi-camente inappuntabili – che del termine si sono fatti in età contemporanea. In quel volume (cfr. Sola, 2005) la pai-deia greca era riconosciuta non già come una «educazione rivolta al fanciullo», bensì quale universo culturale capace di cogliere nell’uomo il vortice del «vivere formandosi» e del «formarsi vivendo». Ma proprio quella pedagogia pai-deutica, sorta nel contesto dell’“umanesimo” classico gre-co, non può essere oggi riproposta tout court poiché essa mantiene il proprio senso e il proprio valore soltanto se rimane circoscritta al contesto culturale, oltre che storico-geografico, che l’ha generata.

Il compito del presente libro – nel cui titolo La genesi filologica degli umanesimi classici si inscrivono i tre gran-di umanesimi che seguono quello greco – è individuare le categorie esplicative della formazione e dell’educazione nella società romano-latina, in quella cristiano-medioevale e in quella umanistico-rinascimentale. E poiché le tre dif-ferenti epoche vanno connesse con ciò che in loro vi è di

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“umanistico” e con le parole capaci di esplicarlo pedago-gicamente, va da sé che storia, filosofia, filologia e peda-gogia diventino le discipline senza le quali l’indagine ri-sulterebbe inefficace. Più in particolare, dopo aver stabilito che la classicità latina, la classicità medioevale e la classi-cità rinascimentale compongono le tessiture storico-filoso-fiche degli umanesimi europeo-occidentali, l’analisi peda-gogico-filologica si rivolge a ricostruire i significati del-l’humanitas romana, della caritas cristiana e della dignitas hominis umanistica. Il senso pedagogico di queste tre ca-tegorie, per non risultare vago o indefinito, deve essere coniugato con il loro effettivo valore filologico. Pertanto, è indispensabile ricorrere a testi, autori, edizioni (e tradu-zioni) che riconducano non solo alla dimensione dell’“ori-ginalità” ma anche a quella dell’“originarietà”. Ciò perché dalle opere originali si ricava non una semplice traduzio-ne, bensì la cifra originaria di ciò che oggi noi chiamiamo “formazione” e “educazione”.

Certo nessuna delle tre categorie considerate – humani-tas, caritas, dignitas hominis – traduce il “formarsi” e l’“educare”, così come li si può intendere all’interno di una prospettiva umanistica contemporanea. Tuttavia, pro-prio quelle tre categorie sembrano rappresentare, meglio di altre, il riferimento logico-linguistico, storico-filosofico e pedagogico-filologico esplicativo di tre distinte epoche e dei loro rispettivi modi di rappresentare la formazione e l’educazione (cfr. Gennari, 2001).

Così, nell’uomo latino – che pur conosce le spietate po-litiche belliche dell’imperialismo di Roma – può trovare posto (all’interno della sua formazione) quell’humanitas di cui Cicerone ha tratteggiato i significati.

Egualmente, nell’uomo medioevale – che pur conosce le acute crisi e le profonde contraddizioni in cui l’impero e la chiesa si dibattono – può trovare posto (all’interno della

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sua formazione) quella caritas di cui i Vangeli sono stati il grande magistero.

Allo stesso modo, nell’uomo rinascimentale – che pur conosce quanto la città umanistica sia soltanto un ideale – può trovare posto (all’interno della sua formazione) quella dignitas hominis di cui proprio la città ha costituito il tea-tro.

Stabilito ciò, va sùbito operato un ribaltamento: nel-l’uomo latino, nell’uomo medioevale e nell’uomo rinasci-mentale l’humanitas, la caritas e la dignitas hominis non sono soltanto le cifre che agiscono all’interno delle rispet-tive idee di “formazione” e “educazione”, ma costituiscono il contesto e il clima, l’atmosfera e l’aura delle tre epoche entro cui l’uomo occidentale si forma e si educa. Quindi, alle tre categorie corrispondono sia il processo culturale delle tre differenti epoche sia il percorso formativo-educa-tivo che in esse l’uomo può vivere.

Tanto la complessità della dimensione “esogena” quan-to la particolarità della dimensione “endogena” obbligano a una accurata circospezione filologica nella ricerca pedago-gica svolta intorno e dentro al formarsi delle categorie di humanitas, caritas e dignitas hominis. E ciò che è valso per la paideia, con cui il mondo greco ha espresso la forma-zione e l’educazione dell’uomo ellenico, varrebbe anche per la Bildung, con cui il Neoumanesimo tedesco tra Set-tecento e Ottocento ha messo a tema la formazione e l’edu-cazione dell’uomo mitteleuropeo (cfr. Gennari, 1995).

La ricerca, la critica e il discorso in pedagogia se si av-valgono di concetti devono ricostruirne la genesi. In que-sto senso la filologia diventa una dimensione costitutiva dell’indagine pedagogica. Qui la filologia è sapere della parola, studio storico del linguaggio nelle sue evoluzioni epocali, cognizione delle lingue e dei loro reciproci rap-porti storici, ricostruzione interpretativa di orizzonti cultu-

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rali del passato, studio dei testi e degli autori, infine opera di traduzione. L’impegno filologico è sempre una ricostru-zione del senso e del significato, una decostruzione erme-neutica e una re-interpretazione linguistico-letteraria indi-rizzate sia a penetrare nell’unità minima significante di una parola, sia ad aprirsi alla poliformità di una cultura o/e di una civiltà. Condurre filologicamente una ricerca in pe-dagogia assume il valore di una ricognizione che si inoltra nei sentieri semantici che dai libri conducono alle parole, per poi dilatarsi alle polisemie che transdisciplinarmente coinvolgono storia, filosofia, teologia, antropologia, socio-logia, scienza politica, economia, psicologia, linguistica. Il tutto senza mai smarrire la portata del discorso pedagogi-co, l’asse della critica pedagogica e il fine della ricerca pe-dagogica consistente nel conferire chiarezza al complesso processo della formazione umana e dell’educazione uma-na. Rigore e pertinenza sono le coordinate sul piano carte-siano dell’indagine filologica in pedagogia, indirizzata a ri-scoprire la genesi dei concetti nella storia delle parole. È per questo che si può considerare ogni studio filologico sulla formazione e l’educazione come il tentativo di pro-cedere a ritroso nella storia della cultura, della conoscenza e delle idee per sondarne i sedimenti più originari.

Il risultato è individuabile nel riuscire a comprendere in quale modo gli umanesimi del passato possano parlare al-l’epoca presente, anche attraverso le parole che altre civil-tà hanno coniato pensando l’uomo nella sua formazione e nella sua educazione. E così, paideia, humanitas, caritas, dignitas hominis e Bildung celano le cifre originarie na-scoste nel pensiero degli autori, nei testi, così come nelle culture in cui sono venute formandosi le rispettive Weltan-schauungen, a loro volta figlie dello Zeitgeist che ha con-tribuito a generarle. Ogni epoca “umanistica” possiede una propria originalità e in essa riluce (filologicamente) l’ori-

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ginarietà in cui si è dato vita alla concezione della forma-zione e dell’educazione dell’uomo.

Nell’autunno dell’anno 1886, Friedrich Nietzsche sulle alture della Ruta di Camogli, in Liguria, stende la Prefa-zione a un volume del 1881 il cui titolo tradotto in italiano suona: Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali. Scrive: «Fi-lologia è (…) quella onorevole arte che esige dal suo cul-tore soprattutto una cosa, trarsi da parte, lasciarsi tempo, divenire silenzioso, divenire lento, essendo un’arte e una perizia di orafi della parola, che deve compiere un finissimo attento lavoro e non raggiunge nulla se non lo raggiunge lento» (Nietzsche, 1881: 8-9). A questo invito a una ricerca laboriosamente misurata e prudente, Nietzsche fa seguire un’indicazione circa l’importanza della filolo-gia: «Ma proprio per questo fatto è oggi più necessaria che mai; è proprio per questo mezzo che essa ci attira e ci in-canta quanto mai fortemente, nel cuore di un’epoca del “lavoro”, intendo dire della fretta, della precipitazione in-decorosa e sudaticcia, che vuol “sbrigare” immediatamen-te ogni cosa, anche ogni libro antico e nuovo» (ibid.: 9). La modernità non consente e non richiede – questo vuole dirci Nietzsche – la pacatezza dell’approfondimento per-ché il pensiero stesso si è ridotto a un computo, a una sti-ma, a una valutazione, a un rapido esame delle convenien-ze. Sicché, Nietzsche può concludere considerando la filo-logia come quell’arte che «insegna a leggere bene, cioè a leggere lentamente, in profondità, guardandosi avanti e in-dietro, non senza secondi fini lasciando porte aperte, con dita e occhi delicati…» (ibid.: l.c.).

La citazione risale a oltre centoventi anni fa, ma è la sua patente attualità che rende Nietzsche un classico. Inol-tre, essa fornisce alla riflessione pedagogica una perspicua indicazione: soltanto la fretta, nemica della profondità teo-retica, può indulgere a dislocare nella dimensione storica

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dell’età contemporanea concetti e parole che possiedono il loro senso autentico solo se mantenuti all’interno dei con-fini storici, geografici e linguistici in cui sono stati genera-ti. Categorie come quelle di paideia o di Bildung usate og-gi per interpretare un tempo presente che è a loro del tutto estraneo smarriscono qualsiasi forza argomentativa. Pro-prio per meglio riconoscere la modernità in cui viviamo e la crisi profonda della formazione e dell’educazione, ridot-te ormai a mero apprendimento, è necessario studiare i grandi umanesimi della storia occidentale e le loro catego-rie “formative” pensandole nel contesto in cui sono venute alla luce.

Si dovrà, quindi, concludere che l’epistemologia peda-gogica non potrà più trascurare l’apporto dell’analisi filo-logica; al contrario la filologia sarà sempre più presente o-gni qual volta l’indagine vorrà orientarsi verso la ricerca della originarietà delle parole, delle idee e del pensiero re-lativi alla formazione e all’educazione dell’uomo.