La Formazione dei Formatori della Sicurezza

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Un approfondimento metodologico verso una didattica consapevole quale mezzo di prevenzione degli infortuni sul lavoro

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Q1, 2012 AiFOS – La formazione dei formatori

Sommario Rocco Vitale 1

Il formatore e la formazione Chiara Ballarini 11

Il formatore alla sicurezza sul lavoro tra norme, attese e requisiti tecnico-metodologici

Renato Bisceglie 24 La formazione degli adulti: un approccio complesso

Paola Favarano e Massimo Soriani Bellavista 34 I Piani di Formazione alla Salute e Sicurezza: una risposta strategica agli obblighi di formazione del nuovo Accordo Stato-Regioni

Elena Bonfiglio 44

La progettazione di un intervento formativo: le fasi e gli elementi essenziali Adele De Prisco 56

L'analisi dei bisogni. L’attenzione alla tipologia dei destinatari. La valutazione dei risultati Giovanna Alvaro 66

La gestione dell’aula e dei gruppi di lavoro Chiara Bellotti 80

Comunicare il rischio

Maria Simonetta Spada 87 La percezione del rischio

Renata Borgato 98 Il role playing

Stefano Tomelleri 108

Outdoor: l’opportunità dei giochi sociologici

Francesca Morselli 114 L’e-Learning metodologia flessibile ed interattiva: le nuove frontiere della formazione

Rocco Vitale 122 La formazione in azienda

Monica Livella 126 La formazione degli adulti alla sicurezza sul lavoro anche attraverso il cinema

Francesco Naviglio 133 La qualità della formazione come strumento di contrasto degli infortuni sul lavoro

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Rocco Vitale

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Il formatore e la formazione di Rocco Vitale1

Delineare la figura del formatore cercando i riferimenti nel mondo accademico italiano in una visione che colleghi titolo di studio e professione risulterà impresa ardua e forse inutile. Mentre sono chiari i presupposti che stanno alla base di una professione come il medico o il ragioniere, l’avvocato o il geometra, l’architetto, l’ingegnere ed il perito industriale non vi è, allo stato attuale, la medesima combinazione tra il laureato in scienze dell’educazione e della formazione ed il ruolo del formatore.

Del resto, la prima ufficializzazione accademica delle “scienze dell’educazione” è comparsa nel 1973 ad opera dell’Università Pontificia Salesiana che, tra i primi, ha riconosciuto la necessità di una interdisciplinarità di più scienze sociali nel campo dell’educazione e della formazione.

Veniva di fatto avviato un profondo mutamento che anticipava la chiusura dei corsi di laurea in Pedagogia che, con la riforma del 1999, lasciarono spazio alle scienze dell’educazione e della formazione quali discipline di studio educative e formative dell’uomo che trae le proprie basi dalla storia dell’educazione passando attraverso la filosofia, la psicologia e la sociologia.

Nonostante vi siano molte Università italiane che hanno in attivo facoltà di Scienze della Formazione, diventare “formatori” è un processo che va ben oltre il titolo di laurea in Scienze della Formazione.

Non si tratta di una precisazione formale ma - occupandoci di

sicurezza sul lavoro - di una questione sostanziale. Deve essere rimosso l’assioma che vede il formatore solo come un docente: la formazione è costituita da differenti aspetti. Tra questi merita sicuramente un posto 1 Presidente AiFOS, Sociologo del lavoro, docente di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Brescia.

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importante il docente che assume, per l’appunto, il ruolo di docente-formatore. Ma il ruolo del formatore, come vedremo, non si esaurisce nell’attività di docenza: si espande nello sviluppo e nell’organizzazione dei processi formativi.

La formazione nel suo contesto sociale

I cambiamenti “del” lavoro e “nel” lavoro porteranno a nuovi scenari locali e mondiali con mutamenti di mentalità, culture, tecnologie e strategie produttive. Nuove definizioni lavorative saranno guidate da decisioni politiche globalizzate non più definite, ma indefinibili.

Tutto ciò, comunque, non ridurrà ma, anzi, solleciterà nuovi approcci ed apprendimenti da parte di persone adulte, di lavoratori a livello individuale e collettivo. In questo contesto la formazione sarà uno dei protagonisti più importanti.

La globalizzazione dei mercati2 ha spinto in tutto il mondo le imprese a perseguire con rinnovata determinazione due obiettivi: utilizzare la minor quantità possibile di forza lavoro per unità di prodotto, ovvero accrescere senza posa la produttività del lavoro; ed acquisire esclusivamente in ogni dato momento la quantità di forza lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine. Questo sistema ha prodotto la cosiddetta localizzazione estera trasferendo la produzione nei paesi dove il costo del lavoro è più basso. Secondo l’analisi del sociologo Gallino, il sistema globalizzato prospetta ai lavoratori ed alle loro famiglie un orizzonte di scarsa sicurezza per il proprio futuro e questa realtà sarà una caratteristica distintiva del mercato del lavoro mondiale per il prossimo decennio. Tuttavia, questo elemento non potrà essere né permanente né modello della nuova economia di mercato, in quanto una riflessione sul fatto che il senso di insicurezza per il proprio destino, unito all’angoscia collettiva che ne deriva è stato il motore di alcuni dei più violenti movimenti sociali della storia. 2 L. Gallino, Globalizzazione e disuguaglianze, Editori Laterza, Bari, 2007.

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Scriveva un attento filosofo dei nostri anni come Zygmunt Bauman che siamo ormai entrati in una società liquida3 nel senso di una società dove stanno sparendo le certezze, le cose concrete, la solidità e, forse - aggiungo - la solidarietà: non quella personale ed individuale che c’è, esiste e resiste. Parlo della solidarietà tra i popoli che vuol dire prima di tutto all’interno dello stesso popolo, della stessa nazione, della stessa area europea. Insomma, sempre più liquidi e sempre meno concretezza.

Alla fine del 2011 abbiamo ospitato presso la sede Nazionale AiFOS

una delegazione del Ministero del Lavoro e delle Risorse umane della Repubblica Popolare Cinese. Nelle oltre due ore di incontro, oltre ad illustrare i nostri modelli formativi sulla sicurezza sul lavoro e confrontarci con i visitatori cinesi, abbiamo ricordato la crisi che abbiamo in Europa ed in Italia, in particolare. Alle mie considerazioni, il capo delegazione cinese rispondeva che anche da loro vi è una certa crisi, forse più di crescita che di recessione.

La questione, al momento, non è stata approfondita, ma successivamente mi sono ricordato come l’ideogramma cinese che indica la parola crisi è composto da due caratteri: wei, che significa pericolo, e da ji, che significa opportunità. Mi sembra una buona descrizione della situazione che stiamo vivendo. Dovremmo quindi impostare il nostro dibattito passando a considerare la crisi non come pericolo, ma come opportunità ed in questo contesto inserire le tematiche della formazione alla sicurezza sul lavoro.

Le crisi si superano se si affrontano con successo ed in questo contesto un contributo di Weick e Sutcliffe4 studia l’importanza dell’organizzazione nel governare gli imprevisti e nel contempo l’affidabilità dei soggetti che contribuisce alla ricerca delle soluzioni possibili. La prospettiva è orientata alla ricerca delle soluzioni e alla prevenzione dei pericoli reagendo in modo flessibile anziché rigido.

La formazione, in questo contesto, rappresenta uno strumento fondamentale che può essere utilizzato per dare nuove prospettive ed uscire dalla crisi.

3 Z. Bauman, Modernità liquida, Editori Laterza, Bari, 2008. 4 K.E. Weick, K.M. Sutcliffe, Governare l’inatteso, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010.

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Quale formazione?

La formazione svolge un’azione non solo aziendale, ma anche sociale e per questo il ruolo del formatore non è semplicemente ed unicamente correlato alla nozione di docenza, ma deve ampliarsi.

Formare significa infatti aiutare persone, gruppi e organizzazioni ad apprendere per cambiare e come ricorda Bruscaglioni “a volte trasmettendo precisi contenuti, a volte aiutando a riflettere sulle esperienze; sempre più spesso agendo su entrambi questi due piani contemporaneamente”5. Quindi si tratta di avere sempre chiara la finalità che va in direzione dell’apprendimento nel mondo del lavoro.

Il rapporto diretto tra la formazione ed i formatori e la realtà aziendale ci porta ad entrare nelle storie degli altri6 che non possono essere lasciati soli o abbandonati a metà percorso.

La parte principale del termine “formazione” o “formatore” è data dalla parola “forma”. Il formatore7 è dunque colui che si interessa alle forme viventi e quando si trova di fronte alle persone agisce sulle forme per deformarle, riformarle, trasformarle, affinché coloro che partecipano all’azione trovino un nuova e buona forma da utilizzare e mettere in pratica.

Non si considera, in questo processo, la resistenza al cambiamento dei partecipanti che, spesso, subiscono più che partecipare al processo formativo. Le certezze e l’ambiente spesso creano difficoltà ed imbarazzo. Sul luogo di lavoro il lavoratore si sente sicuro in quanto conosce l’ambiente che gli trasmette certezze e tranquillità. Quando il lavoratore, invece, si trova in un’aula di formazione, è costretto a mettersi in discussione. Ne consegue un senso di difficoltà, incertezza.

Se al termine di un corso formativo i partecipanti affermano di “non aver imparato nulla di nuovo” significa che, come scrive Lizzola, non è stata superata la resistenza e, di fatto, non è avvenuto l’incontro. E non dipende solo e tanto dall’azione svolta in aula o dalle metodologie didattiche utilizzate, ma, spesso si tratta di un senso di fiducia nel ruolo e nel compito della formazione che è venuto mancare. Le resistenze non 5 M. Bruscaglioni, Testimonianza di una professione, in Professione Formazione, Franco Angeli, Milano, 1988. 6 I. Lizzola, Formare alla relazione, in Uomini di cantiere, Edizioni Unicopli, Milano, 2010. 7 E. Enriquez, Il formatore tra Scilla e Cariddi, in Formazione e percezione psicoanalitica, Feltrinelli, Milano 1980.

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sono aggirabili per via metodologica, bisogna offrire credibilità laddove la formazione deve essere sempre più integrata tra teoria e pratica e utilizzando il sistema dell’esperienzialità quale modello di azione, di coinvolgimento e di comportamento verso i lavoratori.

La formazione nella società di oggi e di domani tende a divenire un prolungamento della scolarizzazione, un’educazione permanente, un aggiornamento tecnico e professionale nonché uno strumento di prevenzione per l’inatteso, dotando l’individuo di mezzi e strumenti per affrontare le sfide dell’incertezza e delle nuove difficoltà.

Formatori e scenari di formazione Quella che abbiamo definito

“professione formazione” riguarda, secondo le stime dell’ISFOL, circa 20.000 unità tendenti ad aumentare in un mercato del lavoro che è sia interno alle aziende e sia nell’ambito della consulenza globale e sistemica.

Vale la pena sottolineare come i Sistemi di Gestione Salute e Sicurezza sul Lavoro saranno, a questo proposito, non solo sempre più importanti e diffusi ma, soprattutto, utili e necessari nell’ambito della sicurezza sul lavoro coniugando le attività di consulenza e gestione attraverso la formazione.

L’AIF, Associazione Italiana Formatori, e l’ISFOL hanno elaborato una serie di profili professionali per il formatore nel contesto generale della formazione.

a) Il formatore docente

È incaricato dello svolgimento pratico delle azioni formative per le quali elabora dettagliatamente contenuti e modalità (lezioni, esercitazioni e così via). Nella fase di realizzazione, il Formatore gestisce il gruppo ed i singoli attuando il programma e sa integrare adeguatamente le proprie competenze personali/professionali con le esigenze del percorso formativo affidatogli, per raggiungere gli obiettivi definiti.

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Deve saper elaborare, rielaborare ed integrare i contenuti della formazione in relazione ed in funzione dei partecipanti rispettando tempi, metodologie e la programmazione corsuale.

Il Formatore deve essere specializzato in una o più materie d’insegnamento. Fondamentali risultano le sue capacità di gestione dei rapporti interpersonali e dei meccanismi di conduzione sia dei gruppi che dell’aula.

Questa figura è tenuta ad avere competenze nei principali metodi di valutazione delle conoscenze, è poi in grado di motivare i partecipanti e sa trasmettere la voglia di apprendere.

Deve inoltre conoscere i sistemi organizzativi aziendali, i processi produttivi e le tendenze del mercato del lavoro, tenendosi costantemente aggiornato. Deve saper utilizzare gli strumenti multimediali, avere dimestichezza con le risorse del web.

b) Il progettista di formazione

È colui che elabora in modo dettagliato gli interventi formativi professionali operando in tutti gli ambiti della formazione (continua e permanente, aziendale, su progetto ecc.).

Il Progettista deve avere una profonda conoscenza del mondo della formazione, del lavoro e della scuola, nonché delle principali discipline che riguardano i processi formativi: psicologia, pedagogia, metodologie didattiche e tecniche di comunicazione. Nel frequente caso di consorzi tra enti o associazioni per uno stesso progetto, è anche necessaria un’ottima capacità di coordinamento.

Il Progettista deve saper esaminare il contesto socio-economico ed analizzare i fabbisogni formativi al fine di descrivere le finalità dell’intervento, anche definendo le conoscenze e le abilità da acquisire. Compito del progettista è quello di elaborare le modalità di diffusione e promozione dell’intervento, nonché verificare la fattibilità operativa e finanziaria.

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Il progettista di formazione conosce la psicologia comportamentale e le teorie sull’apprendimento degli adulti, il processo formativo nelle sue variabili sistemiche a livello analitico, la teoria della progettazione formativa nonché gli strumenti, le metodologie e le tecniche formative adeguate alle diverse fasi del processo formativo. Inoltre deve conoscere i principi generali delle discipline organizzative, il contesto organizzativo cui i progetti formativi sono rivolti, gli elementi di valutazione economica della formazione, le metodologie di gestione per progetti.

c) Il responsabile o direttore di progetto

È la persona incaricata di attivare, coordinare e presidiare lo sviluppo di un piano di formazione, valutandone i risultati rispetto agli obiettivi predefiniti.

Il Direttore di progetto supervisiona ed organizza, fin dalle prime fasi, l’intervento formativo verificando preventivamente la fattibilità tecnica e finanziaria delle diverse azioni previste.

Compete al direttore di progetto dare incarichi ai progettisti di formazione di preparare l’attività.

Il Direttore dirige e coordina le diverse fasi progettuali e le relative riunioni, incontra eventuali partner esterni, verifica che il progetto corrisponda ai criteri ed ai vincoli esposti nei bandi o nella richiesta del committente.

Una volta definito il progetto, il Direttore ne assume il coordinamento in qualità di Responsabile e ne supervisiona costantemente lo svolgimento. Egli risponde degli adempimenti necessari all’uso dei finanziamenti, controlla la gestione finanziaria e si occupa della stesura delle relazioni sul percorso formativo svolto.

d) Il responsabile di un centro di formazione

Persona incaricata di analizzare le tendenze dei macro-bisogni formativi, di definire le strategie di intervento, di pianificare e progettare la programmazione, di coordinare i collaboratori nell’erogazione, presidiando e valutando l’attività svolta.

Il responsabile di centro di formazione deve conoscere i principi e le tecniche della comunicazione, i principi della psicologia sociale e della

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pedagogia, nonché il processo di formazione dall’analisi dei bisogni alla valutazione dei risultati.

Inoltre deve conoscere i principi della macroeconomia, di organizzazione aziendale, di gestione del personale, di amministrazione e controllo di gestione e della legislazione commerciale.

e) Il tutor per le attività in e-Learning (e-tutor)

Si pone essenzialmente come facilitatore per gli utenti verso tutte le attività di accesso, fruizione e partecipazione all’esperienza corsuale, affiancandoli personalmente ed in gruppo nel percorso di studio.

Deve saper introdurre nei progetti sessioni di formazione on-line ed allestire “aule virtuali” utilizzando il sistema della piattaforma e, pertanto, deve avere una grande dimestichezza con gli strumenti informatici e telematici.

Deve fornire supporto nell’accesso ai contenuti e supporto agli utenti impegnati nello svolgimento di learning objects.

Si pone come interfaccia rispetto alla struttura organizzativa e monitora l’andamento organizzativo e didattico del corso somministrando ed elaborando test di gradimento e raccogliendo segnalazioni.

Formatori e sicurezza sul lavoro

Nell’ambito delle diverse politiche formative, la formazione alla sicurezza sul lavoro costituisce uno specifico sistema che segue le regole generali cui si affiancano quelle particolari proprie del settore.

Vi sono due fattori principali che incidono sulla formazione e la sicurezza sul lavoro: normativo ed etico. A livello legislativo8, la normativa da un lato ha il merito di definire ed obbligare specifici percorsi formativi, dall’altro è rigida, non flessibile, non si adatta al cambiamento della società ed al mercato del lavoro. Sul lato etico, invece, vale la pena ricordare come il tema della sicurezza sia spesso

8 Il sistema della formazione è previsto nel Decreto Legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e dagli Accordi Stato-Regioni che ne specificano in particolare gli aspetti formativi a livello di contenuti, metodologie, durata, organizzazione.

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considerato al di fuori, o al di sopra, del mondo del lavoro quasi fosse un argomento collocato in un contesto spaziale e non reale.

Una seria formazione si basa, prima di tutto, sull’etica del lavoro e questo deve essere messo al centro del dibattito. Problematica complessa9 che però è alla base del processo formativo considerato nel suo contesto sociale e non solo in ambito individuale e di organizzazione dei sistemi.

Il formatore alla sicurezza sul lavoro ha responsabilità etiche che lo differenziano da altre professionalità e lo rendono una figura di fiducia.

Se prendiamo, ad esempio, un corso di formazione sulla gestione delle risorse umane ci si augura che i partecipanti abbiano appreso e possano applicarne le indicazioni proposte. Se, tuttavia, qualche partecipante non ha particolarmente seguito la formazione, ciò, di fatto, non provoca grande danno.

Parimenti, nella formazione alla sicurezza i corsi e le lezioni sono utili per la prevenzione ed in molti casi possono anche salvare la vita o, quantomeno, ridurre il rischio di infortunio.

I corsi in materia di sicurezza sul lavoro non possono essere erogati per mero adempimento formale della norma, ma devono essere sostanziali, in quanto riguardano proprio il singolo soggetto che vi prende parte e tramite le verifiche e l’apprendimento deve essere dimostrata l’effettiva utilità per ridurre il rischio infortunistico.

Compito non facile. Da un lato vige il rispetto della norma e dall’altro lato l’effettiva analisi del bisogno aziendale che, in molti casi, non è in linea con le disposizioni normative. Non significa fare meno formazione, ma adeguarla alla realtà aziendale.

Allo stesso tempo calzano a fatica le indicazioni degli Accordi Stato-Regioni con le loro previsioni su numero di ore, metodologie e contenuti. È utile e importante rispettare le indicazioni di argomenti e durata dei corsi, però - sorge la constatazione - un formatore non ripete mai a memoria un corso già svolto.

Il ruolo dei formatori è quello di interagire con i partecipanti e ogni corso è propedeutico all’altro e le esperienze costituiscono un valore per i corsi successivi.

Parafrasando Mc Luhan10 laddove “il medium è il messaggio” gli strumenti rivestiranno, sempre più importanza e non potranno essere 9 Z. Bauman, L’etica in un mondo di consumatori, Editori Laterza, Bari, 2010. 10 M. Mc Luhan, Gli strumenti del comunicare, il Saggiatore, Garzanti, Milano, 1967.

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sostituiti da aspetti metodologici, ma andranno effettuati veri e propri interventi di carattere strutturale. Penso, ad esempio, a corsi che si possano svolgere in azienda un’ora alla settimana, con esercitazioni, con sistemi misti blended diluiti nel tempo, con registri di presenza individuali e personali. Perché e da chi siamo costretti a svolgere sempre lezioni di 4 ore che vanno dalle 9 alle 13? o dalle 14 alle 18?

Dalla breve analisi svolta risulta che questa nuova responsabilità è della formazione: intesa nel suo complesso che va dalla progettazione, all’analisi, allo svolgimento attraverso formatori capaci e qualificati.

La prospettiva dei formatori riguarda un nuovo impegno che veda lavoro e sicurezza mediati dalla formazione considerata nel suo complesso e non solamente fatta da docenze o da metodologie didattiche.

Nel proprio lavoro i formatori devono valorizzare l’insieme dei valori, credenze, opinioni, capacità ed esperienze in base ai quali un gruppo di persone decide di percorrere la stessa strada, sviluppando rapporti interpersonali, con la finalità di aumentare le difese per prevenire incidenti ed infortuni sul lavoro.

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Chiara Ballarini

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Il formatore alla sicurezza sul lavoro tra norme, attese e requisiti tecnico-metodologici di Chiara Ballarini1

“L’obiettivo dell’attività formativa in materia di prevenzione antinfortunistica è quello di far sì che nelle persone si inneschi un processo di trasformazione nel proprio modo di essere, tale per cui lavorare in sicurezza divenga desiderabile, prima ancora che necessario per il rispetto delle leggi”. Questo cambiamento di mentalità deve coinvolgere tutti i soggetti aziendali, ai vari livelli e nei diversi settori

E. Grassani2

Formazione alla Sicurezza: obbligo legislativo ed investimento

Fare formazione per la salute e la sicurezza significa intervenire, in maniera organizzata e finalizzata, sulla cultura professionale di individui e gruppi, attraverso la metodologia dell’apprendimento consapevole.

Possiamo individuare la nascita della figura del “Formatore alla salute e Sicurezza sul lavoro” con l’emanazione del Decreto Legislativo 19 settembre 1994, n. 626.

Tale decreto oltre ad introdurre il concetto della Valutazione dei Rischi e l’istituzione di un Servizio di Prevenzione e Protezione 1 Tecnico della Prevenzione nell’ambiente e nei Luoghi di lavoro, Responsabile Servizio Formazione della Direzione nazionale AiFOS. 2 E. Grassani, Rivista Elettrificazione n. 3/2007.

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aziendale (SPP), obbligava il datore di lavoro a formare i suoi dipendenti circa i rischi presenti sul posto di lavoro e ad individuare le misure generali di tutela da intraprendere per diminuire l’esposizione a tali rischi.

Il datore di lavoro, nella maggior parte dei casi, tuttavia, non aveva tempo, né capacità, di adempiere a tale obbligo ed si affidava sempre più spesso a consulenti esterni. Da qui la nascita del “Formatore alla Salute e Sicurezza sul Lavoro”.

Il D. Lgs 9 Aprile 2008, n. 813, decreto tanto atteso che ha innovato, ma soprattutto accorpato, in un unico testo - denominato infatti “Testo Unico” - le numerose precedenti normative in materia di Salute e Sicurezza sul Lavoro, dà evidenza all’importanza della Formazione.

Tanto che, all’art 6, comma 8, lettera m-bis fa riferimento all’elaborazione di criteri di qualificazione della figura del Formatore per la Salute e Sicurezza sul Lavoro, anche tenendo conto delle peculiarità dei settori di riferimento.

In tal modo il formatore si vede riconosciuto un ruolo centrale nell’ambito del sistema prevenzionistico e allo stesso tempo si vede gravato dalla necessità di possedere determinate competenze, specifiche per la materia in oggetto e, all’interno di essa, per i settori e le attività di riferimento delle aziende i cui lavoratori devono essere formati.

Si renderà necessario comunque un intervento legislativo per istituire un sistema di assistenza e controllo che garantisca concretamente l’applicazione ed il rispetto di tali criteri, a benefico delle imprese che intendono non solo adempire ad un obbligo, ma anche investire nella formazione e nella sicurezza sul lavoro.

3 Il D. Lgs. n. 81/2008 è entrato in vigore il 15 Maggio 2008 ed è stato successivamente integrato dal D. Lgs. n. 106 del 3 agosto 2009 recante Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Le normative che sono state integrate e quindi abrogate dal D. Lgs. n. 81/2008 sono: DPR n. 547/1955, sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro; DPR n. 164/1956, sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni; DPR n. 303/1956, sull’igiene del lavoro, fatta eccezione per l’articolo 64; D. Lgs. n. 277/1991, sul rischio chimico, fisico e biologico; D. Lgs. n. 626/1994, sul miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro; D. Lgs. n. 493/1996, sulla segnaletica di sicurezza; D. Lgs. n. 494/1996, sulle prescrizioni minime di sicurezza e di salute da attuare nei cantieri temporanei o mobili; D. Lgs. n. 187/2005, sull’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti da vibrazioni meccaniche; articolo 36 bis, commi 1 e 2 del decreto legge n. 223/2006 convertito con legge 248/06; articoli 2, 3, 5, 6 e 7 della legge n. 123/2007, sul riassetto e riforma della normativa sulla salute e sicurezza sul lavoro.

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Chiara Ballarini

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Fino ad ora, la mancanza di una vera e propria normativa ha infatti creato una situazione di grande incertezza, favorendo la nascita improvvisa di sedicenti formatori e la diffusione di attestati “falsi”.

Da precisare è, comunque, che l’obbligo di Formazione rimane

sempre in capo al Datore di Lavoro, che ai sensi della normativa, non si deve limitare a programmare interventi formativi, ma deve assicurarsi che ciascun lavoratore riceva una formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza, anche rispetto alle conoscenze linguistiche”4.

L’art. 37 del D. Lgs. n. 81/08, oltre che a definire la Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, nonché quella di preposti e dirigenti, puntualizza l’importanza dell’aggiornamento nell’ottica della formazione continua. Pertanto, la formazione e l’informazione non sono da effettuarsi “una tantum” al fine di assolvere l’obbligo normativo, ma rappresentano un percorso che, nella gestione della sicurezza e del miglioramento continuo, rappresentano un punto fondamentale della prevenzione dei rischi e della tutela della salute e della sicurezza sul lavoro.

Il compito del Formatore risulta, perciò, di fondamentale importanza

nel trasferimento di nozioni tecniche utili all’apprendimento e alla riduzione di infortuni e morti sul lavoro. Ovviamente una persona, per essere un buon Formatore, necessita oltre che di un’esperienza sul campo anche di un’ottima conoscenza di nozioni tecniche e legislative, di elevate capacità relative alla progettazione di corsi efficaci e alla trasmissione dei comportamenti sicuri tramite l’ausilio di metodologie didattiche attive che pongano il partecipante al centro del processo formativo.

Questo contributo intende riepilogare le indicazioni su soggetti formatori e requisiti del formatore alla sicurezza previsti dalla normativa di riferimento e soffermarsi sull’approccio e la competenza metodologica necessari per svolgere al meglio la professione di formatore alla sicurezza.

4 Art. 37, comma 1, D. Lgs. n. 81/08, rubricato “Formazione dei Lavoratori e dei loro rappresentanti”.

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Informazione, Formazione e Addestramento Prima di addentrarci nel tema “formazione” è opportuno fare

chiarezza tra i tre aspetti che vengono presi in considerazione dalla normativa: informazione, formazione ed addestramento, strumenti ritenuti “indispensabili” per prevenire i rischi negli ambienti di Lavoro.

Ma qual è la differenza? All’art. 2 del D. Lgs. n. 81/08 troviamo le tre definizioni:

1. “Informazione”: complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla identificazione, alla riduzione, e alla gestione dei rischi in ambiente di lavoro; 2. “Formazione”: processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori e agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi; 3. “Addestramento”: complesso delle attività dirette a far apprendere ai lavoratori l’uso corretto di attrezzature, macchine, impianti, sostanze, dispositivi, anche di protezione individuali, e le procedure di lavoro.

La Sezione IV del Titolo I del D. Lgs. n. 81/2008 “Formazione,

Informazione ed Addestramento” è dedicata a queste attività e ne sancisce l’obbligo agli articoli 36 e 37.

La normativa attribuisce all’informazione e alla formazione un ruolo chiave, ne impone lo svolgimento, prevede sanzioni in caso di inadempienza. Altrettanto importante è l’adeguatezza e l’efficacia di tali azioni.

Spesso è difficile agire sui comportamenti dei lavoratori, soprattutto quando il risultato auspicato è il mero passaggio di nozioni. È in questo caso che si può parlare di avvenuta ed adeguata informazione, soprattutto in ottica di adempimento normativo.

Ben diverso è quando si vuole agire sui comportamenti degli individui dove è necessaria una azione complessa che intervenga sugli atteggiamenti tenuti nei luoghi di lavoro. Se si vuole formare, prima ancora di preoccuparsi dei contenuti, è fondamentale ricordare a chi ci si sta rivolgendo, quale sia il patrimonio di conoscenze, esperienze,

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competenze ed abitudini dei destinatari che non sono “recipienti vuoti da riempire”, ma sono adulti con un loro bagaglio su cui agire5.

Ne conviene che l’addestramento si colloca all’interno dell’attività di formazione, nelle cosiddette attività pratiche, in cui i partecipanti dei corsi di formazione apprendono le procedure necessarie per l’utilizzo di determinate attrezzature, macchine e strumenti utili ad operare in sicurezza.

Formazione e Soggetti Formatori

Oltre ad individuare quali sono i requisiti del formatore è giusto sottolineare che la normativa fa una distinzione tra le diverse tipologie di corsi. Ossia, non basta un buon formatore, ma in alcuni casi, per consentire un maggior controllo, solo alcuni “enti” possono organizzare e quindi rilasciare certificazioni per tali corsi.

Per consentire una facile distinzione di tali corsi, AiFOS ha individuato 2 categorie:

A) Corsi con soggetto formatore ope –legis In questi casi la legge prevede che gli organizzatori e certificatori dei corsi possano essere solo particolari enti (gli enti accreditati alle Regioni, le associazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori, gli enti pubblici, gli ordini e i collegi professionali, le aziende produttrici, distributrici, noleggiatrici, utilizzatrici di attrezzature ecc.) Possiamo individuare in questa prima categoria le seguenti tipologie di corsi:

• Addetti e Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione (art. 32, D. Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato-Regioni 26/01/2006);

• Datore di Lavoro Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (art. 34, D. Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato-Regioni 21/12/2011);

• Lavoratori e Preposti Addetti al Montaggio/Smontaggio/ Trasformazione di Ponteggi (art. 136 D. Lgs. n. 81/2008 ed Allegato XXI);

5 Per un approfondimento dedicato ai destinatari del corso si rinvia all’intervento della dott. ssa Adele De Prisco pubblicato in questo Quaderno.

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• Lavoratori e Preposti Addetti ai Sistemi di Accesso e Posizionamento mediante funi (art. 116, D. Lgs. n. 81/2008 e Allegato XXI);

• Coordinatori per la Progettazione e per l’esecuzione dei lavori (art. 98, D. Lgs. n. 81/2008 e Allegato XIV);

• Operatori coinvolti nell’utilizzo Attrezzature di Lavoro per i quali è richiesta una specifica abilitazione (art. 73, D. Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato Regioni 22/02/2012).

B) Corsi liberi, ma vincolati da alcune norme In questi casi aziende, consulenti, ecc. possono organizzare e certificare i corsi, purché rispettino quanto previsto dalla legge. Rientrano in questa seconda categoria i corsi per:

• Lavoratori e Rappresentanti dei lavoratori (art. 37, D. Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato Regioni 21/12/2011);

• Preposti e Dirigenti (art. 37, D. Lgs. n. 81/2008 e Accordo Stato Regioni 21/12/2011);

• Addetti al Primo Soccorso aziendale (artt. 37,45, D. Lgs. n. 81/2008 e D.M. n. 388 15 Luglio 2003);

• Addetti alla prevenzione incendi, lotta antincendio e gestione delle emergenze (artt. 37,46 D. Lgs. n. 81/2008 e D.M. 10 marzo 1998);

• Formazione per Rischi specifici (es. Videoterminali art. 177 D. Lgs. n. 81/2008).

Il formatore ed i Requisiti tecnici

In attesa dei criteri di qualificazione della figura del formatore,

l’attuale normativa non presenta elementi chiari con riferimento a coloro che debbano/possono svolgere il compito di Formatore alla Salute Sicurezza sul lavoro6. Sono in alcuni casi, viene richiesta un esperienza professionale almeno biennale o triennale. 6 Al momento della stesura di questo contributo si attende l’emanazione di tali disposizioni; la CIIP – Consulta Interassociativa Italiana per la Prevenzione – di cui AiFOS fa parte, ha presentato in Senato nell’audizione del 15 giugno 2011 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e “morti bianche” la propria proposta per definire la figura qualificata del formatore alla sicurezza. Per ulteriori approfondimenti ed aggiornamenti che dovessero intervenire in corso di stampa della rivista si rinvia al sito www.aifos.it.

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Chiara Ballarini

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Cerchiamo di riassumere le casistiche secondo le tipologie di corsi:

Addetti e Responsabili del Servizio di Prevenzione e Protezione L’Accordo Stato-Regioni del 26/01/2006, per la Formazione degli Addetti e dei Responsabili del Servizio di prevenzione e Protezione stabiliva già un minimo di esperienza biennale in materia di prevenzione e sicurezza sul lavoro. Come ha evidenziato la ricerca di AiFOS condotta nell’anno 20107 i 2 anni di esperienza rappresentano comunque un periodo estremamente breve che non consente di accumulare esperienze e conoscenze. Dalla ricerca emerge la figura di un formatore ancorato, capace e sensibile che si è “fatto da solo” che comprende la necessità di una specifica formazione per i formatori (47%) ma che solo nel 25% dei casi ha frequentato anche corsi di comunicazione. Ne risulta, dunque, un formatore molto ancorato ad aspetti tecnici e normativi, che frequenta assiduamente corsi di formazione specifici ma che allo stesso tempo conosce poco le nuove metodologie didattiche.

Lavoratori, Rappresentanti dei Lavoratori, Preposti, Dirigenti e

Datori di Lavoro Gli Accordi Stato-Regioni del 21/12/2011 specificano che in attesa dell’elaborazione dei criteri di qualificazione, i corsi per Lavoratori, Preposti, Dirigenti e Datori di Lavoro devono essere tenuti da docenti che possono dimostrare di possedere, un’esperienza almeno triennale di docenza o insegnamento o professionale in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Un accenno particolare, per quanto riguarda la Formazione dei lavoratori e dei loro rappresentanti, va fatto con riferimento agli Organismi Paritetici e alla “collaborazione” di cui parla il comma 12 dell’art. 37. Tale disposizione, per la sua formulazione poco esaustiva, ha dato origine a numerose interpretazioni e discussioni in merito. Per fare chiarezza8, infatti, è intervenuto il Ministero del Lavoro che il 29 luglio dello scorso anno ha pubblicato la Circolare n. 20, in cui

7 Michele Lepore, in Quaderni della Sicurezza AiFOS –La Figura del Formatore alla Sicurezza – Rapporto AiFOS 2010 n. 4 Anno I. 8 Nell’incipit della nota, infatti, viene chiarito come la circolare sia diffusa “in relazione alle numerose segnalazioni di criticità pervenute”.

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Q1, 2012 AiFOS – Il formatore alla sicurezza: requisiti

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sono stati declinati i criteri per individuare a quale Organismo paritetico chiedere la “collaborazione” per l’organizzazione dei corsi. Nello specifico, si definisce che “il datore di lavoro è tenuto a chiedere la collaborazione ex art 37, comma 12, D. Lgs. n. 81/08 unicamente agli organismi, costituiti da una o più associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative firmatarie del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro applicato dall’azienda, in possesso dei requisiti di legge appena richiamati, sempre che sussistano gli ulteriori elementi - che devono essere entrambi presenti - individuati ex lege (articolo 37, comma 12, del D.lgs. n. 81/2008), vale a dire che l’organismo operi nel settore di riferimento (es.: edilizia) e non in diverso settore e che sia presente nel territorio di riferimento e non in diverso contesto geografico”. Ciò a ribadire che la richiesta di collaborazione deve essere fatta esclusivamente nei confronti di quegli Organismi paritetici che siano correttamente titolati: costituiti tra le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, nonché presenti e costituiti nel settore di riferimento e a livello territoriale. L’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 20119 ha ulteriormente ribadito tali criteri, definendo ulteriormente che in caso di assenza dell’Organismo paritetico correttamente titolato il datore di lavoro (o l’azienda/ente di formazione incaricato dallo stesso) può procedere autonomamente alla pianificazione e realizzazione dell’intervento formativo. Così, anche nel caso in cui decorsi 15 giorni dall’invio della richiesta l’Organismo paritetico non dia alcun riscontro.

Antincendio e Primo soccorso

Allo stato attuale, purtroppo anche per i corsi addetto antincendio e primo soccorso non occorrono particolari requisiti o esperienza del formatore/istruttore. Per i corsi per incaricati all’attività di prevenzione e lotta antincendio è comunque raccomandabile che almeno la parte pratica sia gestita da un addestratore esperto. La Formazione per incaricati di attività a rischio incendio elevato deve avvenire in collaborazione con il Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco almeno per quanto riguarda l’effettuazione dell’esame finale

9 Nella nota alla Premessa dello stesso Accordo.

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Chiara Ballarini

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(D.M. 10 marzo 1998 - Criteri Generali di sicurezza antincendio e Gestione delle Emergenze nei luoghi di Lavoro e Legge n. 606/96). La Formazione degli incaricati al primo soccorso, è svolta da personale medico, in collaborazione ove possibile, con il sistema di emergenza del servizio sanitario nazionale. Nello svolgimento della parte pratica di formazione il medico può avvalersi della collaborazione di personale infermieristico o di altro personale specializzato (D.M. 15 luglio 2003).

Ponteggi e Funi I corsi di Formazione Teorico Pratichi, per Lavoratori e Preposti Addetti al Montaggio, Smontaggio, Trasformazione Ponteggi e per Lavoratori Addetti ai Sistemi di Accesso e Posizionamento mediante Funi devono essere tenuti da personale con esperienza documentata, almeno biennale, sia nel settore della formazione sia della prevenzione, sicurezza e salute nei luoghi di lavoro e da personale con esperienza professionale pratica documentata, almeno biennale, nelle tecniche per il montaggio/smontaggio ponteggi o nelle tecniche che comportano l’impiego di sistemi di accesso e posizionamento mediante funi e il loro utilizzo in ambito lavorativo.

Attrezzature Il recente Accordo Stato-Regioni del 22 febbraio 2012 disciplina durata, contenuti minimi e modalità di Formazione per gli operatori che impiegano le attrezzature di lavoro per i quali è richiesta una specifica abilitazione: piattaforme di lavoro mobili elevabili, gru a torre, gru mobile, gru per autocarro, carrelli elevatori semoventi con conducenti a bordo, trattori agricoli o forestali e macchine movimento a terra. Il presente accordo entrerà in vigore ad un anno dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e prevede particolari requisiti per i docenti:“Le docenze verranno effettuate, con riferimento ai diversi argomenti, da personale con esperienza documentata, almeno triennale, sia nel settore della formazione sia nel settore della prevenzione, sicurezza e salute nei luoghi di lavoro, e da personale con esperienza professionale pratica, documentata, almeno triennale, nelle tecniche di utilizzazione delle attrezzature di che trattasi. Le docenze possono essere effettuate anche da personale interno alle

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Q1, 2012 AiFOS – Il formatore alla sicurezza: requisiti

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aziende utilizzatrici di cui al punto 1.1, lettera f) in possesso dei requisiti sopra richiamati”.

Lo schema seguente riassume quanto detto finora in merito ai soggetti

formatori ed ai requisiti previsti per la professione dei formatori:

Requisiti docente/formatore

Tipologia corso

Ente di Formazione

Anni esperienza

Requisiti particolari

ASPP e RSPP Soggetto formatore ope-legis

2

Ponteggi /Funi Soggetto formatore ope-legis

2 Esperienza professionale pratica

Coordinatori Sicurezza

Soggetto formatore ope-legis

Non specificato

RSPP - DDL Soggetto formatore ope-legis

3

Attrezzature di lavoro con

abilitazione

Soggetto formatore ope-legis

3 Esperienza professionale pratica

RSPP - DDL Soggetto formatore ope-legis

3

Lavoratori, RLS Aziende di consulenza e Formazione,

Formatori e consulenti singoli

Non specificato Eventuale richiesta di collaborazione agli Organismi paritetici

Preposti, Dirigenti

Aziende di consulenza e Formazione,

Formatori e consulenti singoli

3

Primo Soccorso Aziende di consulenza e Formazione,

Formatori e consulenti singoli

Non specificato Personale medico in caso coauditavo da

istruttori specializzati

Antincendio Aziende di consulenza e Formazione,

Formatori e consulenti singoli

Non specificato Per la parte pratica: esperienza tecnica

antincendio Per il corso Antincendio rischio alto: è prevista una collaborazione con il Corpo nazionale dei

Vigili del Fuoco

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Chiara Ballarini

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Il Formatore ed i Requisiti metodologici

Come già anticipato, il “Formatore alla Salute e Sicurezza sul Lavoro” deve avere una competenza che unisca esperienza tecnico-legislativa, padronanza del linguaggio e capacità di comunicazione. Non esiste Formatore alla Sicurezza se non sussistono entrambi i concetti.

Un buon consulente è spesso un buon formatore, ed un buon formatore è spesso un buon consulente.

Il Formatore in aula non riuscirebbe a portare esempi concreti se non avesse una vasta esperienza d’azienda. Ma userebbe solo esempi altamente teorici estratti “da libri di testo” ed il risultato sarebbe senz’altro freddo se non avesse esperienza aziendale. Dunque, serve un buon mix tra competenza tecnico-pratica e competenza metodologica.

Lo schema sotto riportato ci permette di individuare le principali caratteristiche del formatore:

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Q1, 2012 AiFOS – Il formatore alla sicurezza: requisiti

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Il formatore qualificato e certificato: le proposte operative in attesa di una definizione normativa

Il susseguirsi di normative in campo di sicurezza, e quindi di continue opportunità di lavoro, ha creato la necessità di disporre di una garanzia preventiva circa la professionalità di coloro che vi operano, che sia resa evidente da rilevatori immediati, oggettivi e garantiti delle competenze; questo ovviamente al fine di tutelare i clienti, le aziende, le istituzioni e la collettività dai potenziali rischi generati da professionisti “improvvisatori”.

AiFOS ormai da alcuni anni ha attivato per i propri soci un “processo di qualificazione” che si basa su parametri ed indicatori (Titolo di studio, ore di docenza, frequenza a corsi ..) quali punti di riferimento per la definizione e la misura della professionalità dei formatori.

Seppur valida ed innovativa, si tratta comunque di una certificazione di I parte e basata su un’autocertificazione del singolo10.

Un rilevatore chiaro e preciso che individua il possesso di professionalità “garantita” è dato dalla certificazione di terza parte delle professionalità rilasciata da un Organismo di Certificazione del Personale operante in conformità alla norma ISO/IEC 17024:2004 “Conformity assessment - General requirements for bodies operating certification of Persons”.

Questa norma internazionale risulta utile al fine della certificazione delle competenze professionali per la maggior parte dei settori, industriali ed anche di servizi; essa definisce la struttura organizzativa degli Organismi che possono rilasciare le certificazioni professionali, sgomberando il campo, anche in questo settore, del “fai da te” autoreferenziale11.

I criteri della certificazione professionale sono pubblicati e resi noti al mercato in maniera trasparente, in modo da consentire a tutti i soggetti interessati di aderire, purché in possesso dei requisiti richiesti.

10 La “qualificazione AiFOS”, infatti, si basa sulle indicazioni inserite a sistema da parte del singolo professionista, che garantisce, in autocertificazione, la veridicità di quando dichiarato. Il sistema calcola in automatico un punteggio ed in base ai dati inseriti attribuisce o meno la qualificazione associativa. 11 Rosa Anna Favorito, Direttore CEPAS, Organismo di Certificazione delle Professionalità e della Formazione, in Quaderni della Sicurezza AiFOS – La Figura del Formatore alla Sicurezza – Rapporto AiFOS 2010 n. 4 Anno I.

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Chiara Ballarini

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La certificazione delle professionalità attesta che una determinata persona, valutata da una terza parte indipendente, secondo regole prestabilite, possiede i requisiti necessari e sufficienti per operare con competenza e professionalità in un determinato settore di attività12.

La certificazione non ha validità illimitata, ma ha una durata limitata a 3 anni; ogni anno l’attività della persona certificata è sottoposta a sorveglianza.

AiFOS ha stipulato con CEPAS una convenzione per i propri soci che intendono certificare la propria professionalità.

La scheda Requisiti CEPAS SH 130 descrive i requisiti necessari per la certificazione del profilo del Docente Formatore definito come “Persona in possesso di competenze nel campo della formazione degli adulti e che ha maturato una consolidata esperienza, in forma continuativa, in qualità di Docente Formatore, presso o per conto di Organizzazioni”.

Dimostrato il possesso dei requisiti, il candidato sosterrà una prova scritta ed una prova orale, attraverso cui gli esaminatori potranno riscontrare competenze e capacità del formatore.

Conclusioni

Alla luce di questa disamina emerge come la figura del formatore alla sicurezza rappresenti, pur rimanendo esterno al sistema di sicurezza aziendale, uno degli attori principali nello sviluppo della cultura della sicurezza tra i lavoratori. E per poter svolgere al meglio tale ruolo deve innanzitutto “formarsi”, aggiornarsi sulle novità in materia di salute e sicurezza sul lavoro e adeguare le proprie competenze relazionali, comunicative e anche strumentali alla realtà del mercato del lavoro sempre in movimento. AiFOS crede fermamente nella “formazione del formatore alla sicurezza”, realizzando dei percorsi di specializzazione per Formatore alla Sicurezza, in particolare rivolti a Consulenti, Tecnici, Responsabili della Sicurezza e tutti coloro i quali avendo già nozioni tecniche intendano operare nel campo della formazione applicando il più possibile la miglior metodologia formativa che consenta di privilegiare tecniche formative interattive e mettendo il partecipante e la sua esperienza al centro del “momento formativo”. 12 ISO/IEC 17024.

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Q1, 2012 AiFOS – La formazione degli adulti

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La formazione degli adulti: un approccio complesso di Renato Bisceglie1

Citando la dizione “formazione degli adulti”, viene subito in mente,

per contrasto, il parallelo con una formazione di tipo scolastico o prescolastico. Non è mia intenzione esplorare questo secondo binario, dando per scontato che tutti noi, pur non essendo necessariamente esperti nel campo, siamo stati oggetto della formazione che ci ha accompagnato nel periodo della nostra “crescita”.

Le età dell’apprendimento Non metto a caso in evidenza la parola crescita: un’accezione, da

alcuni data per scontata, è che esista un periodo della crescita, dello sviluppo e una età adulta in cui mettere a frutto quanto appreso nella “prima età”. Credo che questo concetto sia ampiamente superato e lo sia, a maggior ragione, in un tempo in cui tutti ci rendiamo conto che l’apprendimento è un processo continuo e necessario che ci accompagna per tutta la vita. Molteplici ragioni determinano questa necessità legata soprattutto alla rapidità evolutiva delle conoscenze e delle loro applicazioni in campo professionale, per cui non è possibile, come capitava alcuni decenni fa, apprendere nella prima età, l’età scolastica o, al più, universitaria, e capitalizzare poi per il resto della vita. Oggi il mondo professionale richiede l’apprendere e il riapprendere, un continuo aggiornamento senza il quale si rischia di essere, prima o poi, emarginati, espulsi dal mondo professionale. Ciò risulta particolarmente, e a volte drammaticamente, evidente nel momento in cui, per diversi motivi, viene a mancare l’ancoraggio lavorativo e professionale; quando, in altre parole e più brutalmente, ci si trova senza lavoro. Più volte mi è capitato di gestire persone in una situazione di questo tipo, tecnicamente in

1 Consulente di direzione, Presidente Lombardo dell’Associazione Italiana Formatori.

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Renato Bisceglie

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outplacement, e in molti casi ci si rende conto della difficoltà di alcuni a riattivare processi di apprendimento che però non sono, a questo punto, così lineari, così ripetitivi e scontati, in una parola così “semplici”, come quelli sperimentati nella prima età.

Risalta qui il primo elemento di diversità dell’apprendimento in età

adulta, nella “seconda età”: è necessario non solo apprendere ed applicare, ma saper gestire la complessità, il cambiamento, l’adattamento ad ambienti diversi e mutevoli, la relazione con persone e professionalità a volte conosciute, ma in contesti in parte diversi, a volte completamente nuovi almeno nell’approccio e nei modi.

Sta sempre più emergendo nella realtà in cui viviamo anche un’altra

esigenza: quella di far fronte a una “terza” o addirittura a una “quarta età”. “Ci sono persone che stanno lasciando il mondo lavorativo e si trovano davanti ad una prospettiva di vita media che dà loro la possibilità di vivere ancora un periodo quasi pari a quello della loro vita lavorativa pregressa”. Ciò veniva detto da Cristina Bombelli poco più di un anno fa, quando non erano ancora in essere le normative, oggi appena approvate, che allungano in misura significativa la vita lavorativa. Il problema però non cambia molto: comunque chi esce dal mondo lavorativo a 65-70 anni ha davanti a sé un periodo significativo di vita attiva e in ogni caso c’è da chiederci se l’allungamento della vita lavorativa non porti necessariamente ad una riconsiderazione delle modalità e delle necessità di apprendimento. Senza contare che, già oggi, una larga parte delle persone non esce dal contesto lavorativo improvvisamente, dando un taglio netto, ma gestisce un periodo, spesso molto lungo, di transizione o di attività a volte simile, ma non uguale, al precedente, a volte invece seguendo strade o modalità nuove di applicazione del proprio sapere. Che si tratti di gestire una terza età di transizione o una quarta età di vita consapevole e intelligente della propria individualità, in ogni caso ci sono da mettere in atto approcci di apprendimento innovativi.

Ecco quindi apparire alcune altre caratteristiche in aggiunta a quelle

già citate. Forse non sono solo tipiche della formazione degli adulti, ma, probabilmente, la caratterizzano significativamente: contesti mutevoli, adattamento a situazioni e circostanze particolari, individualizzate, risposta ad esigenze di persone che hanno già radicati convinzioni e

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Q1, 2012 AiFOS – La formazione degli adulti

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itinerari privilegiati e che, in qualche modo, vanno in parte rimossi e sostituiti, nei limiti del possibile, con altre matrici.

Formazione, educazione, sviluppo

Entriamo nel vivo di un’altra caratterizzazione e problematica dell’educazione degli adulti: una dimensione che gradualmente ci avvicina ad aspetti di comprensione del significato, di accettazione dei modi, di partecipazione, in ultima analisi di etica, nel suo significato più esteso. Provo a prenderla un po’ alla larga per cercare di comprendere meglio il terreno da esplorare e in questo ci aiuta l’etimologia di due parole che vanno per la maggiore in questo campo: educare e formare.

Educare deriva etimologicamente da “e docere”, cioè portare fuori, condurre da un luogo (a un altro): è evidente che nel momento in cui ciascuno di noi educa - facciamo un parallelo con l’educazione dei nostri figli o dei nostri “discepoli” - ciascuno dà una sua matrice, una sua impronta, un suo indirizzo. Dobbiamo considerarlo illegittimo? Assolutamente no, ma dobbiamo essere consapevoli che ciò avviene e che gli indirizzi che diamo a un discente saranno, poco o tanto, condizionanti. Ciò è particolarmente vero se lo riferiamo a un discente in età infantile o scolare che, in qualche modo, per sua struttura e per il momento particolare in cui si trova, lo accetta e, in una certa misura, lo richiede. Tutti noi abbiamo subìto questo “framing”, questo “imprinting” e ciò in molti casi è diventata una componente corretta e accettata del nostro modo di essere, ma dobbiamo essere altrettanto consapevoli che, in qualche caso, ha costituito base di un rifiuto o di un rigetto.

L’altra parola chiave è formare: dare forma. Domenico Lipari tuttavia si domanda: “siamo sicuri che il soggetto formato sia contento di ricevere questa forma?” Di nuovo ragioniamo su un doppio binario: è spesso opportuno e necessario dare forma, dare un riferimento, un

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Renato Bisceglie

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modello, ma attenzione a non far sì che ciò sia vissuto come una imposizione, persino una violenza.

Se questi concetti sono forse più sfumati nei confronti di una persona in età prescolare o scolare, o comunque, di fatto tendiamo a non porre questo accento più di tanto, un doveroso ripensamento è d’obbligo nei confronti di una persona adulta che è già educata e formata e che ha già assunto una sua individualità.

A questo punto c’è da chiedersi: è corretto educare, formare un adulto? Non vorrei farne una questione puramente lessicale o addirittura ideologica, possiamo tranquillamente utilizzare i termini che riteniamo più opportuni e più legati al contesto culturale nel quale operiamo, ma mi chiedo se non sia il caso di utilizzare concetti quali “sviluppo” o addirittura quel “crescita”, citato all’inizio del nostro discorso, dove però è necessario comprendersi sui contenuti e sui significati prima ed al di là delle parole.

Capisco benissimo che le circostanze portano anche le persone che hanno raggiunto la “maturità” ad atteggiamenti a volte sbilanciati (capo-collaboratore, medico-paziente...), ma il rapporto corretto tra “formatore” e “formato” (o discente, o allievo, o coachee...) - e qui le parole proprio non aiutano perché sembrano essere in contraddizione con il concetto espresso - deve, dal mio punto di vista, essere un rapporto paritetico, da adulto ad adulto. Il formatore, come ogni professionista serio, è quindi chi offre un know how, ma soprattutto chi aiuta a comprendere una necessità e ad indirizzarla, a supportare

metodologicamente e in termini di rapporto, ad essere nel complesso di sostegno per lo sviluppo e la crescita personale dell’altra persona più in una relazione di consulenza e di supporto, di guida, ma non “coercitiva”, che susciti e faccia emergere più che il (solo) “insegnare”.

So di esprimere un parere non condiviso da alcuni, ma sviluppare le capacità di una persona è diverso e lontano dall’approccio del “maestro”, del “luminare” di colui che conosce benissimo la sua materia e la “travasa” ai discenti lasciando però solo a loro la responsabilità di capire,

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di assimilare, se possono, se ne sono capaci, se hanno i numeri, o altrimenti, come diceva un mio vecchio professore, “cambino”, cioè se ne vadano per altre strade: la accetto come provocazione, come stimolo momentaneo, ma, fermo restando che non si può avere successo con tutti e che non tutte le persone sono compatibili con un determinato ambiente, l’insuccesso eventuale, e si spera infrequente, in un rapporto tra adulti è almeno una responsabilità condivisa.

Allargando ancora il perimetro, sviluppo degli adulti è quindi rapporto

paritetico, comprensione e tolleranza delle diversità, supporto, non pretesa di omologazione, condivisione, franco scambio di opinioni da cui si può uscire anche non cambiando la propria posizione, avendo però colto tutte le possibilità di approfondimento e di verifica.

Alcune dimensioni professionali ed etiche Sono stati affrontati fino ad ora numerosi aspetti ed elementi dello

sviluppo: il rischio è che ogni professionista si crei una immagine personale, individualistica e sostanzialmente diversa, rispetto ad innumerevoli colleghi, del suo modo di essere professionista. Sono per principio favorevole a interpretazioni personali e ritengo che, in un contesto rapidamente evolutivo e mutevole, non sia facile dare delle risposte univoche, come peraltro, proprio perché stiamo facendo un discorso tra adulti e liberi individui, non ritengo sia il caso di appellarsi a indirizzi etici assoluti. È però importante almeno porre il problema e proporre alcune considerazioni su aspetti di professionalità e di comportamento correlati, se non altro come contributo per cercare di delineare un perimetro di riferimento cui un professionista possa fare riferimento.

Secondo Emilio D’Orazio, “l’etica è basata su tre assi fondamentali: regolamentazione, fiducia, reputazione”. In quest’ambito un professionista ha degli obblighi, dovuti al ruolo che presidia: conoscenza, know how, basati su un percorso “teorico” di apprendimento, autorevolezza (non automaticamente acquisita) nell’ambito della professione, approvazione da parte della “comunità”, presenza di codici etici. Per perseguire le linee citate sono da tenere in considerazione: la necessità di acquisire sempre maggiore conoscenza,il rispetto dell’autonomia del cliente e il considerare prioritario il bene del cliente (anche al di sopra del proprio), mantenendo equilibrio tra

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professionista e cliente, evitando ingerenze (eccesso o abuso di potere) nei riguardi del cliente.

Se i precedenti elementi incidono fortemente su fiducia e reputazione, da dove proviene la regola? Una risposta può derivare dall’adesione a codici etici, carte dei valori, principi, che molte associazioni professionali fanno proprie e propugnano. Per fare un esempio, AiFOS, nel suo codice etico, fa propri i principi di: legalità, correttezza, trasparenza, integrità, riservatezza, eccellenza, competenza, indipendenza, valore della persona..... Vorrei inoltre richiamare la carta dei valori e dei comportamenti di AIF, che richiama principi similari e afferma: “L’iscrizione e la partecipazione attiva e propositiva ad AIF e ad altre associazioni professionali sono forme privilegiate di crescita professionale e di maturazione della coscienza etica e deontologica applicata alla prassi”.

Si tratta solo di due dei molteplici esempi che traggono origine da diversi contesti, ma che ci indicano almeno due direzioni: quella di principi guida condivisi nell’ambito di una comunità (e spesso come accennavo similari in differenti comunità professionali) e, non meno importante, il continuo confronto suggerito nel secondo caso. L’adesione ad un codice o l’accettazione di determinati principi non è, infatti, statica e indiscutibile, ma implica una riflessione su modalità diverse e un’accettazione consapevole che scaturisca anche dalla considerazione e dalla ridiscussione delle regole in un clima positivo. Non a caso molti di noi, professionisti, consulenti coach, formatori, ........, vivono spesso la dimensione associativa in una prospettiva di poliappartenenza che è dovuta certamente ad una ricerca di network e di allargamento della propria cerchia di contatti professionali, ma, alla luce di quanto detto, rappresenta anche un momento di confronto ed una consapevole o inconsapevole ricerca di libertà. La professionalità è infatti anche libertà di scelta, come affermava con forza Umberto Veronesi in un recente confronto di opinioni: “nella formazione, nello sviluppo, nella ricerca i migliori risultati si ottengono quando lasci libere le persone”.

Come si può vedere, il contesto non è né facile né semplice e non esiste una risposta univoca, ma secondo quanto afferma Mario Unnia, “un bilanciamento tra etero-regolazione (norme, leggi, regole), auto-regolazione individuale (le spinte individuali, la libertà personale, la propria visione, i propri principi) e auto-regolamentazione di gruppo (le

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associazioni con i loro codici e il riconoscimento professionale dato in base ad un processo di accreditamento o di certificazione)”. Si tratta di un equilibrio molto delicato in cui “una parte non deve essere predominante sulle altre, ma deve essere ben presente, altrimenti al rischio di eccesso di etero-regolazione (lo stato etico hegeliano con le sue negative devianze novecentesche: nazi-fascismo, comunismo), si possono contrapporre una etero-regolamentazione e, allo stesso tempo, una auto-regolamentazione deboli che sembrano essere una delle cause della crisi che stiamo vivendo”.

Siamo quindi alla presenza della necessità di avere un professionista

esperto e consapevole, riconosciuto dal cliente e dal mercato, accreditato alla professione attraverso modalità oggettive e ricorrenti presidiate da comunità professionali, con un intervento solo eccezionale di norme giuridiche e legislative che sicuramente esistono e devono esserci, ma come ultimo baluardo in caso di gravi deviazioni, essendo predominante e preventiva la consapevole auto-regolamentazione.

Modalità da mettere in campo I concetti affrontati nel precedente paragrafo sono estensivi e validi

per una molteplicità di professionisti che rendono servizi al cliente in ambiti diversi; tra questi servizi certamente possiamo annoverare lo sviluppo e la formazione e vorrei a questo punto convergere su questo campo più ristretto.

Una delle affermazioni precedenti riguarda l’eccesso d’ingerenza o di

guida nei confronti del cliente, ma dobbiamo guardarci anche dal rischio opposto, quello di aderire supinamente alle richieste del cliente. A chi non è capitato nella vita lavorativa (non uso volutamente professionale), di sentirci chiedere di fare il corso ... , in qualche caso addirittura di trovarci tra le mani un pacchetto preconfezionato da utilizzare in aula. Magari ciò accadeva nei primi anni, quando eravamo meno credibili e accreditati, ma è un rischio che possiamo correre ogni giorno.

La domanda che sorge allora è: qual è la modalità professionale per essere un consulente di sviluppo? Ciò avviene affermando concretamente, eticamente e anche assertivamente la nostra professionalità: tutti noi abbiamo necessità di conseguire risultati anche economici, e ciò è particolarmente evidente in questo periodo non facile,

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ma non si può prescindere da professionalità e comportamento etico. So che quanto sto per dire è, sotto certi punti di vista, ovvio e scontato, ma vedendo alcuni comportamenti, purtroppo ricorrenti, forse è il caso di ribadirlo. Da un lato non si può essere tuttologi ed essere pronti a fare qualsiasi cosa: ognuno di noi ha delle competenze, per quanto possa avere maturato esperienze diversificate e molteplici, ci sono cose che non sa, o non sa sufficientemente, fare. D’altro canto non è sempre vero che il cliente ha sempre ragione: è doveroso capirne le necessità, rispondere correttamente, essere anche disponibili e accattivanti, ma senza superare certi limiti.

Detto in altre parole, in entrambi i casi è opportuno essere chiari su limiti e contributi possibili, ricorrendo, se è il caso, ad altre professionalità, a un apporto di colleghi che garantisca più ampie coperture e qui può rientrare l’aiuto dei network e delle associazioni.

È necessario però anche un aspetto metodologico, una corretta

modalità di applicazione del know how, discorso lungo e complesso che provo a schematizzare in brevi cenni e più a titolo esemplificativo che esaustivo.

In prima istanza è necessario analizzare l’ambito nel quale iniziamo ad operare in termini di ambiente, cultura, organizzazione, situazione. Ciò è ben lontano dal “fare un corso”, occuparsi di sviluppo implica: sensibilità di lettura del contesto, capacità progettuale, abilità nel dare un risultato all’organizzazione per la quale si opera, verifica dei risultati ottenuti.

Probabilmente non tutti quelli che si dedicano allo sviluppo sono in grado, almeno inizialmente, di mettere in campo tutte le abilità richieste, ma si tratta certamente di una modalità a cui tendere, in un lasso di tempo ragionevole, se riteniamo di essere o di voler essere dei professionisti.

Leggere il contesto implica la conoscenza delle organizzazioni, delle persone che in esse operano, dei meccanismi in atto o in divenire in quell’ambito, la capacità di fare domande, di fare confronti, l’utilizzo di strumenti di base quali questionari, interviste, focus group...

Capacità progettuale implica la conoscenza e la scelta delle modalità e degli strumenti più opportuni per perseguire il risultato voluto: affiancamento, training on the job, assunzione e trasmissione di informazioni, modalità di training a distanza, aula classica, formazione esperienziale, ricorso a casi ed autocasi, ...... sono possibili modalità da

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Q1, 2012 AiFOS – La formazione degli adulti

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mettere in campo. È necessario conoscerle e utilizzarle coerentemente agli obiettivi e alle reali capacità operative d’uso: qui, forse più che altrove, è il caso di ricorrere a professionalità, almeno applicative, complementari se la nostra non è all’altezza della situazione.

Dare un risultato sembra quasi un’affermazione scontata, ma è necessario essere consapevoli che il cliente, interno o esterno, vuole, a ragione, ottenere un valore aggiunto: far emergere e concordare questo valore aggiunto e proporsi esplicitamente di raggiungerlo è un elemento chiave nel successo del nostro ruolo.

Un ultimo elemento, spesso trascurato o sottovalutato, è quello della valutazione che non è semplicemente il questionario di fine corso o la valutazione di gradimento, che dir si voglia, ma un processo per rilevare l’adeguatezza dell’azione di sviluppo che si sta mettendo in atto agli sforzi profusi e ai risultati ottenuti. Un processo non episodico, ma che parte dal momento dell’analisi e termina anche parecchio tempo dopo la conclusione delle azioni di sviluppo, proprio per comprenderne l’efficacia nel tempo.

Conclusione

Il territorio dello sviluppo e della formazione degli adulti è un campo moto vasto e variegato che comprende a vario titolo in Italia oltre 100.000 professionisti: alcuni svolgono la propria attività part time, altri all’interno di organizzazioni, pubbliche o private, altri ancora come consulenti esterni alle organizzazioni, nel complesso si tratta di situazioni spesso lontane tra loro e in molti casi parcellizzate. Quando si parla di formazione, spesso, ci si riferisce a settori specifici, più “tradizionali” (esempio: formazione manageriale, comportamentale....) o che fanno capo ad istituzioni più note e titolate (si pensi a tutta l’area dei Master, in buona misura interrelati, ma non sempre, con le istituzioni universitarie) o che si interessano sempre più di mondi fino a pochi decenni fa piuttosto circoscritti al loro interno, poi in fase di notevole sviluppo, anche se statici o in regresso negli ultimi anni (Amministrazione pubblica, Sanità) o che, spinti da un contesto legislativo si sono fortemente affermati (il settore della sicurezza, ad esempio). Esistono però anche realtà molto isolate e con un livello relativamente basso di auto riconoscimento: si pensi alle decine di migliaia di persone che si occupano di formazione-training, all’interno delle organizzazioni e sui loro clienti, nell’ambito

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Renato Bisceglie

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“tecnico” (su prodotti specifici, su servizi, su nicchie informatiche) o al mondo del no profit, per ora centrato su varie forme di assistenza, ma che potrebbe evolvere toccando quell’area della terza/quarta età di cui si parlava all’inizio del nostro discorso.

In tali ambiti esistono livelli diversificati di professionalità: da chi si occupa saltuariamente di “erogazione” di corsi a chi, con altissima professionalità, è in grado di presidiare al meglio il complesso mondo dello sviluppo nella sua interezza.

Parliamo inoltre di una professione, come si dice in gergo, “non

regolamentata”, non di un “ordine” tanto per intenderci, e che, di là dalle recenti posizioni e vicissitudini sul tema, credo che ben pochi colleghi auspichino sostanzialmente.

È tuttavia una professione alla quale molti si dedicano con passione, con dedizione, proficuamente da anni e che, anche se con tanti distinguo, a volte con delle contraddizioni, si alimenta e continua a crescere seguendo alcune linee di base che ho cercato di delineare. Il contesto è però aperto e non può essere che evolutivo: in un ambiente globale in cui la mutevolezza è all’ordine del giorno, fatti salvi i principi basilari, la discussione, il confronto, l’accettazione del cambiamento e quindi di nuove forme, di nuove direzioni, di nuove soluzioni, non può che essere la prassi costante.

Ho anche parlato di metodologia, di know how, di alcuni elementi

costitutivi, ma vorrei concludere con una citazione di un direttore d’orchestra, Mariss Jansons: “non parlo mai di capire la musica, ma di sentirla”. Credo che sia un ottimo parallelo: lo sviluppo, la formazione, la consulenza, in tutte le loro molteplici manifestazioni, vanno capiti, ma questo è solo l’aspetto tecnico, soprattutto devono essere vissuti e sentiti.

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Q1, 2012 AiFOS – I piani di formazione

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I Piani di Formazione alla Salute e Sicurezza: una risposta strategica agli obblighi di formazione del nuovo Accordo Stato-Regioni di Paola Favarano1 e Massimo Soriani Bellavista2

Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza

Derek Bok, già Rettore Harvard University

L’importante accordo firmato dalla conferenza Stato-Regioni sugli obblighi di formazione alla salute e sicurezza arriva in momento molto critico per l’economia italiana e necessita quindi di una lettura operativa in grado di rendere questo obbligo un’effettiva opportunità di costruire insieme una soluzione definitiva al problema degli infortuni sul lavoro.

Oggettivamente mancava una definizione più precisa in merito agli argomenti e alle durate della formazione erogata a lavoratori, preposti e dirigenti e questo accordo copre tale grave carenza, pur escludendo l’aspetto altrettanto importante della qualificazione dei formatori alla salute e sicurezza, che si spera, sarà oggetto di migliori definizioni nel prossimo futuro.

Effettivamente, l’accordo dispone un obbligo per le aziende di un numero di ore decisamente elevato, soprattutto per figure abitualmente restie a investire il proprio tempo in interventi di formazione così apparentemente lontani dagli aspetti operativi o manageriali. Inoltre i 12/18 mesi utili per adempiere, e quindi erogare, la formazione sono abbastanza stretti, se non si considerano però le definite possibilità

1 Responsabile Centro Formazione MWH spa. Formatore Certificato “Sei Cappelli per pensare”. Socia AiFOS. 2 AD Creattività srl. Docente Presso Università SUPSI. Responsabile didattico Master Sole 24 ore Managment della formazione. Socio AiFOS.

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Paola Favarano - Massimo Soriani Bellavista

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di valorizzare la formazione pregressa, che vanno a premiare, di fatto, le aziende virtuose che già possono dimostrare di aver gestito in modo pianificato la formazione dei propri lavoratori ad ogni livello.

Proprio per rispondere alla necessità di adeguarsi nel migliore dei modi nell’arco di un anno e per poter poi rendere conto di ciò che è stato attuato per ogni verifica ulteriore, il suggerimento che ci sembra più attuabile è quello di pianificare la formazione in modo da ottimizzare gli sforzi e diluire gli interventi in modo ragionato.

Una buona pianificazione ci permette, infatti, di partire per tempo con un’analisi del pregresso in modo da valorizzare la formazione già attuata, studiare progetti metodologicamente più coinvolgenti ed efficaci, strutturare interventi integrati con altre esigenze, magari di tipo manageriale (per i dirigenti) o operativo (per i preposti e i lavoratori).

Quello che suggeriamo è di far evolvere l’abituale logica reattiva- adattiva a favore di una logica proattiva-strategica.

Se nel primo caso subisco l’obbligo e cerco di adattarmi agli obiettivi poco chiari del dettato legislativo (obiettivi peraltro ovviamente diversi da quelli aziendali che sono legati più strettamente alla produzione), mi ritrovo a erogare interventi che rispondono al dettato di Legge, ma non alle mie esigenze, ottenendo risultati di poco valore rispetto ai miei obiettivi e mantenendo la formazione come costo.

Con la Logica proattiva-pianificatrice, invece, definisco un mio obiettivo e strumenti per valutarne il raggiungimento, lo allineo alle disposizioni di Legge, pianifico, programmo, valuto i risultati che io mi sono prefissato: rendendo la formazione un valore!

Rientrano nelle logiche proattive interventi come: 1. Gap Analisys mirate e valorizzare la formazione pregressa; 2. utilizzo di fornitori che conoscono adeguatamente la struttura

aziendale e possono fornire interventi di formazione integrati con gli interventi di consulenza;

3. pianificazione per tempo degli interventi al fine di diluire l’impegno temporale;

4. utilizzo di metodologie alternative all’erogazione in aula come e-learning, training on the job, coaching, affiancamento, ecc.;

5. gestione delle evidenze programmata e strutturata secondo le logiche dei sistemi qualità;

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Q1, 2012 AiFOS – I piani di formazione

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6. ricerca di alleanze interne attraverso il supporto alle HR (interessate a tutti i risvolti legali e organizzativi che il nuovo accordo comporta!);

7. massimizzazione dell’utilizzo strategico dei finanziamenti alla formazione per arrivare al “costo zero” della formazione.

Dal Piano di Formazione aziendale al Piano di Informazione,

Formazione e Addestramento alla Salute e Sicurezza (PIFASS)

Il Piano di Formazione Aziendale è il cervello della formazione, da esso dovrebbero discendere tutte le strategie, le policy dello sviluppo della formazione e i documenti operativi (utenti dei corsi, tipologie di corsi, obblighi formativi, selezione dei fornitori, calendarizzazione degli interventi, reperimento dei finanziamenti, il piano di qualità).

Il Piano di informazione, Formazione e Addestramento alla salute e sicurezza - PIFASS è ovviamente un’integrazione del piano di formazione aziendale e fa parte della programmazione delle misure di prevenzione e protezione da inserire annualmente nella redazione del DVR.

Dovrebbe quindi rispondere alle logiche e agli obiettivi del Piano Formativo Aziendale e, nello stesso tempo, dovrebbe garantire visibilità ed evidenze necessarie in caso di verifiche ispettive, aspetto questo specifico della formazione alla salute e sicurezza.

Un piano di formazione aziendale rientra nella più ampia

pianificazione aziendale secondo una struttura di questo tipo:

3. Piano di Formazione Aziendale

1. Piano strategico aziendale

2. Piano strategico di sviluppo risorse umane

3a Sottopiano formazione manageriale

3b Sottopiano formazione Tecnica/informatica

3c PIFASS Sottopiano formazione salute sicurezza

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Paola Favarano - Massimo Soriani Bellavista

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1. Piano strategico aziendale Il Piano di Formazione Aziendale dovrebbe partire dall’analisi del

piano strategico aziendale esistente e dovrebbe allinearsi ad esso. Ciò non è banale, in quanto, nella nostra esperienza professionale, il

management (imprenditore, amministratore delegato, direttore generale, ecc) non sempre possiede una visione strategica ad 1-3 anni.

Qualora invece fossero presenti documenti strategici approfonditi, basati su strumenti riconosciuti come la Balanced Score card, il Tableau de Bord, ed altri, il Piano di Formazione Aziendale andrà allineato alle priorità strategiche contenute nel documento della direzione che avrà tenuto conto anche degli aspetti legati alla compliance su salute e sicurezza e quindi anche della pianificazione degli interventi di informazione, formazione e addestramento ad essa relativi.

2. Piano strategico di sviluppo delle Risorse Umane (Human Capital) Lo step successivo nel processo è l’analisi (o la creazione se non

formalizzata) del piano strategico di sviluppo delle risorse umane: il cosiddetto “Human Capital Aziendale” (talent management, tabelle di rimpiazzo, politica delle risorse umane, relazioni sindacali, etc) in coerenza con la strategia aziendale di riferimento.

Nello specifico il piano strategico delle risorse umane dovrebbe tradurre attraverso lo specifico linguaggio e gli strumenti classici dello Human Resources il piano strategico aziendale.

Anche in questo caso la pianificazione degli interventi di formazione su salute e sicurezza avranno una parte importante per garantire un allineamento fra mansioni e aspetti di sicurezza e per favorire, ad esempio, buone relazioni sindacali.

3. Piano della formazione aziendale Il piano della formazione aziendale in definitiva ha come input due

macro direttive: l’analisi dei bisogni/opportunità formative sulla popolazione

aziendale interna; l’indirizzo delle priorità strategiche avute dal management

(con l’analisi dei due step precedenti). L’analisi dei bisogni/opportunità formative è uno dei punti

fondamentali del piano di formazione, benché in questa venga investito

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Q1, 2012 AiFOS – I piani di formazione

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pochissimo (sia in termini economici che temporali) anche nelle aziende medio grandi.

L’analisi approfondita dei bisogni ed opportunità è alla base per poter costruire un piano di formazione che incontri le reali necessità dei lavoratori e dell’azienda.

Per essere più specifici, questa fase di analisi può essere ulteriormente suddivisa in:

Tra gli strumenti che possono essere utilizzati per l’analisi dei bisogni citiamo:

Documenti strategia Human Capital; Documenti di indirizzo strategico aziendale; Dizionario delle competenze (se esistente) e relativa mappatura

in base alle famiglie professionali; Documento/i certificazione qualità (se esistente); Contratti di lavoro e politiche retributive; Aspetti legati agli obblighi di informazione e formazione (Es.

d.lgs. n. 81/08, DPR 177-11, Accordi Stato Regioni, ecc).

Il piano operativo, invece, è l’out put della fase di interpretazione e progettazione e riporta:

- La tipologia di corsi (es. comportamentale, informatica, manageriale, tecnica, ecc);

- La durata (giornate formazione); - La tipologia di partecipanti (famiglie professionali, singoli

partecipanti, ecc); - Le metodologie formative utilizzate per i vari corsi e percorsi

(outdoor, e-learning, coaching, ecc);

A. Analisi dei bisogni ed opportunità

B. Interpretazione dei dati analisi dei bisogni/opportunità

C. Piano operativo

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In sintesi, gli elementi tipici di cui si può comporre un piano di formazione (integrando anche le due fasi precedenti sulla strategia e le Risorse Umane) sono:

1. Obiettivi del Piano; 2. Storico delle attività Formative precedenti; 3. Strategia Aziendale (Generale, HR, Compliance salute e

sicurezza); 4. Organigramma e dati relativi al business (struttura organizzativa e

fatturato); 5. Architettura servizio formazione (risorse dedicate, flusso del

processo, fornitori esterni..); 6. Tipologia di interventi formativi: catalogo della formazione,

organizzato su ciclo di vita professionale (ingresso, sviluppo, cambio mansione, incentive, ecc) e su tipologia di azioni (informazione, aggiornamento, addestramento, formazione comportamentale);

7. Investimento formativo: total cost of training, budget, e fonti di finanziamento;

8. Piano di marketing e comunicazione interno (creazione consenso);

9. Governance e Quality management.

Start up di un (PIFASS) in ottemperanza agli obblighi di Legge

Visto come si colloca il PIFASS all’interno della logica dei piani formativi aziendali e vista la macro struttura tipica di un piano formativo aziendale, per aiutare coloro che vorranno provare a implementare in modo operativo un PIFASS, proponiamo uno schema riassuntivo di start up.

Questo schema integra le fasi classiche del Total Quality Management, il famoso PDCA (Plan, Do, Check, Act).

Le fasi di sviluppo del PIFASS possono essere, quindi, così strutturate:

1° step: Definizione obiettivi e fonte documentale; 2° step: Redazione del piano; 3° step: Implementazione piano; 4° step: Valutazione risultati e correttivi.

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Q1, 2012 AiFOS – I piani di formazione

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1° STEP: Definizione obiettivi e fonte documentale Attività Scopo Documenti

1.1 Analisi della storia aziendale nella gestione della prevenzione

Per capire quale spazio è stato dato alla salute e sicurezza e il contesto culturale aziendale relativo alla prevenzione

interviste semi-strutturate ai soggetti decisori, budget e consuntivi di investimento nella prevenzione con specificate le aree di intervento (es: interventi strutturali, interventi organizzativi, interventi informativi/formativi)

1.2 Analisi struttura aziendale

Per comprendere i ruoli e i decisori con cui è necessario interfacciarsi

Organigramma funzionali Descrizione delle mansioni

1.3 Analisi degli investimenti in formazione alla prevenzione stanziati negli anni precedenti

Per capire i budget a disposizione e i margini di ampliamento dello stesso

Piani di formazione aziendale Budget investito negli anni precedenti

1.4 Analisi del Documento di valutazione dei rischi

Per verificare l’esistenza di rischi i cui adeguamenti tecnici, organizzativi e procedurali non hanno portato ad una riduzione significativa degli incidenti e che quindi necessitano di azioni sul comportamento delle persone

Documento di valutazione dei rischi e suoi allegati

1.5 Analisi del trend infortunistico

Per rilevare quali interventi sono più urgenti

Statistiche

1.6 Analisi degli incidenti e dei quasi incidenti

Per rilevare se l’incidente deriva da comportamento o da carenze strutturali/organizzative

Report degli incidenti Report quasi incidenti e Non conformità

1.7 Rilevazione delle figure della prevenzione e individuazione degli obblighi formativi connessi

Per rispondere in modo puntuale agli obblighi legislativi (calcolato in figure professionali e numero di giornate di formazione obbligatorie da svolgere)

Schema del Servizio di Prevenzione e Protezione

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Paola Favarano - Massimo Soriani Bellavista

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2° step: Redazione del piano Attività Vantaggi Documenti utili

2.1 identificazione degli obiettivi

Per allineare lo sviluppo delle attività di informazione, addestramento e formazione ad obiettivi realistici

definizione degli obiettivi SMART

2.2 identificazione del target presente durante l’azione formativa

Per personalizzare gli interventi rendendoli più efficaci in base alle caratteristiche dei partecipanti

Questionario di KOLB

2.3 Identificazione soggetti formatori

Per selezionare gli enti più qualificati e idonei Per selezionare i formatori da mandare in aula con le competenze e le caratteristiche più conformi

modulo valutazione fornitore modulo di valutazione del docente

2.4 progetto esecutivo/ organizzativo

Per organizzare operativamente azioni essenziali quali: prenotazione aule, date, facilities,, ecc Per individuare la logistica più consona allo sviluppo dei percorsi formativi

Calendario Check list per la macroprogettazione

2.5 progetto didattico Per definire con precisione la struttura degli interventi formative

microschedulazione e scaletta didattica

2.6 definizione dei costi/investimenti, identificazione fonti di finanziamento interno ed esterno (es. fondi interprofessionali)

Per attivare le pratiche per possibili finanziamenti e sgravi fiscali Per definire il Total Cost of Training

documenti relativi ai costi di gestione aziendale: costi del personale, costi di docenza, costi per logistica, ecc

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Q1, 2012 AiFOS – I piani di formazione

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3° step: Implementazione del piano Attività Perché farlo? Documenti utili

3.1 Motivazione e Convocazione partecipanti ai corsi

Per garantire la buona riuscita del progetto

Lettera convocazione partecipanti

3.2 Incarico docenti Per avere anche evidenza dell’assegnazione delle docenze

Modulo qualifica docenti Lettera incarico docente

3.3 preparazione e compilazione documentazione

Per rispettare le procedure di archiviazione e evidenza dell’iniziativa

Registri delle presenze degli interventi, supporti didattici, test, esercitazioni, libretto formativo, comunicazioni organismi bilaterali, ecc

4° step: Valutazione Cosa fare in pratica? Perché farlo? Documenti utili 4.1 preparazione strumenti di valutazione

Per sapere fin da prima di cominciare il percorso formativo cosa vogliamo monitorare e quali obbiettivi vogliamo verificare

Questionario di valutazione del gradimento Testistica dell’apprendimento Casi di studio Check list per audit

4.2 identificazione dei tempi e dei modi

Per organizzare la buona riuscita della valutazione

Calendarizzazione scadenze valutazione

4.3 identificazione di chi fa cosa

Per assegnare le responsabilità

Elenco soggetti coinvolti nella valutazione

4.4 definire obiettivi economici e/o statistici all’interno dei bilanci aziendali

Per inserire gli obiettivi raggiunti e verificati anche all’interno dei documenti ufficiali di analisi

Target e budget

4.5 Analisi dei report Per rendere leggibili i risultati e condivisibili

Documenti di report finale: es numero persone coinvolte, numero azioni svolte, risultati raggiunti, ecc

Conclusioni

Un’ultima riflessione conclusiva. Ci occupiamo di formazione alla salute e sicurezza da quasi 15 anni e

su questo tema abbiamo notato un sincero sforzo da parte delle aziende a

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modificare i meccanismi che hanno per un certo periodo governato la risposta alla richiesta legislativa di formazione: meccanismi spesso legati al “formale” adempimento legislativo.

Paradossalmente proprio ora, in un momento di crisi, si chiede ancora uno sforzo che per alcune aziende, però, può diventare l’occasione per reinventarsi e può rendere questo accordo più efficace.

Ove le aziende si rendono conto di non poter continuare a fare quello che hanno sempre fatto, ovvero rispondere in modo reattivo-adattivo alla richieste piovute dall’alto, scatta la necessità di fermarsi a riflettere e di scegliere nuove soluzioni ad antichi problemi.

Se continui a fare le cose che hai sempre fatto otterrai i risultati che hai sempre ottenuto

A. Robbins

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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La progettazione di un intervento formativo: le fasi e gli elementi essenziali

di Elena Bonfiglio1

In questo intervento si vuole privilegiare un approccio teorico

essenzialmente introduttivo e un orientamento operativo di cui avvalersi per la stesura di un buon progetto formativo. Nelle note si possono trovare i riferimenti della letteratura.

Che cosa significa progettare Chi di noi non ha mai sentito

parlare di progettazione didattica della formazione?

Chiunque faccia parte di questo settore, sarà sicuramente inciampato in questo termine. Anzi, per chi si occupa di formazione in prima persona, è praticamente scontato preoccuparsi anche di progettazione.

Ma che cosa si intende esattamente per progettazione? È necessario tentare di fare chiarezza dal punto di vista terminologico

che permetta di orientarsi tra accezioni spesso contraddittorie. Nel linguaggio comune “progettare” e “programmare” sembrano quasi

sinonimi, mentre in letteratura troviamo accezioni diverse2.

1 Esperta in processi formativi, è occupata presso la Direzione Nazionale AiFOS nel Servizio Formazione, dedicandosi a progettazione didattica, corsi certificati per formatori, corsi sperimentali e progetti finanziati. 2 Secondo P. Calidoni, per esempio, le definizioni di programma, piano di studio e piano di lavoro sono del tutto diverse da quelle di seguito proposte (P. CALIDONI, Ricerca e programmazione didattica, La Scuola, Brescia, 1979). Per G. Flores d’Arcais, il termine progetto “ha il suo equivalente, assai più usato, in programma: con un significato che va da un ambito assai vasto, richiamante tutta l’educazione (progetto o programma educativo), ad un ambito molto ristretto e limitato nel tempo (un progetto di riforma scolastica, un programma di studio), quando non si riferisce più esplicitamente all’ambito della didattica, come è nel metodo dei progetti”. Tratto da G. FLORES D’ARCAIS (a cura di), Nuovo dizionario di Pedagogia, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (MI), 1992, p. 1020.

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Elena Bonfiglio

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Appare doveroso chiarire la differenza tra alcuni termini che sono utilizzato nella letteratura di riferimento:

Piano: insieme degli obiettivi-valore cioè degli orientamenti strategici

che determinano in prima istanza la realizzazione di una concezione del sistema formativo, nelle sue strutture fondamentali e nelle sue relazioni con il sistema culturale, sociale ed economico3.

Programmazione: raccordo tra piano e progetto. Fornisce indicazioni riguardanti l’organizzazione concreta dei percorsi formativi. È l’insieme dei criteri generali che consentono di organizzare l’impiego di risorse e materiali per la realizzazione degli obiettivi di piano.

La programmazione delle azioni formative è il momento gestionale di organizzazione di più attività formative, delle loro connessioni con il piano, della loro fattibilità in relazione a vincoli e risorse in possesso all’organizzazione. La programmazione è spesso intesa semplicemente come sinonimo di planning4, micro progettazione, time-table o storyboard.

Planning: operazionalizzazione di obiettivi specifici, azioni, metodi e strumenti per unità di lavoro5. Viene anche definito con i termini di micro progettazione6 o programma.

Progetto: insieme delle procedure tecniche, didattiche, logistiche e finanziarie impiegate per la realizzazione del piano. È strettamente legato al contesto, ai soggetti ed ai loro scopi, alle condizioni, ai vincoli, alle esigenze individuali ed organizzative, al processo ed infine al prodotto.

In relazione al progetto, diversi studiosi ne svelano tratti particolari. Dai contributi si evincono alcune caratteristiche tipiche di ogni

progetto formativo: l’intenzionalità, il cambiamento, la trasformazione, il miglioramento dello stato esistente, l’idea di relazione, l’organizzazione

3 E. Damiano, Società e modi dell’educazione. Verso una teoria della Scuola, Vita e Pensiero, Milano, 1984, pp. 198-199. 4 Anche il planning non è esente da ambiguità: esso è usato come sinonimo di calendarizzazione delle attività formative in un determinato periodo (semestre, anno), spesso con il supporto di diagrammi Gantt, che facilitano la pianificazione delle attività formative e la loro gestione (aule, risorse impegnate, ecc). 5 M. P. Mostarda, Progettualità formativa, Editrice la Scuola, 2008. 6 M. Castagna, Progettare la formazione. Guida metodologica per la progettazione del lavoro in aula, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 26.

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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di risorse, la negoziazione tra vincoli e opportunità, l’orientamento e la prescrittività7.

Piano, programma e progetto stanno assistendo ad uno spostamento verso la dimensione micro, probabilmente a causa dell’accelerazione al cambiamento che rende sempre più difficile immaginare azioni predittive.

La fase preparatoria è per sua natura più complessa sia nella delineazione dell’orientamento (che può essere generale: il piano), sia nella progettazione di eventi circoscritti (come i progetti), proprio per questo esistono forti difficoltà nel suo svolgimento.

Dal piano al programma si delinea un contiuum di valenza strategica, ma anche gestionale e formativa. Tra i tre momenti è utile regolarsi attraverso i feedback della committenza8.

La tavola che segue permette di cogliere i differenti livelli che competono al cambiamento formativo ed alle sue necessarie implicazioni con il sistema organizzativo interno9.

7 M. P. Mostarda, Progettare i processi formativi. Itinerari teorici e metodologici, ISU Università Cattolica, Milano 2002. 8 Per approfondire il rapporto con la committenza: M. Castagna, Progettare la formazione. Guida metodologica per la progettazione del lavoro in aula, Franco Angeli, Milano, 1997, p. 15-25. 9 M. P. Mostarda, Progettare i processi formativi. Itinerari teorici e metodologici, ISU Università Cattolica, Milano 2002.

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Elena Bonfiglio

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Oltre alle differenze terminologiche, spesso dipendenti anche da diversità culturali, si denotano la varietà dei soggetti coinvolti, l’ambito degli interventi di ciascuno, i tempi degli interventi e la loro dimensione.

Dal piano al planning, cambiano anche le figure coinvolte: dai responsabili dell’organizzazione ai responsabili della formazione, fino ad arrivare ai docenti.

Progettare la formazione significa agire: • con strumenti intellettuali e metodologici adeguati • entro un insieme di vincoli, prescrizioni, informazioni • per delineare piani formativi • per valutare i risultati ottenuti al termine delle attività. Progettare quindi deve essere un’azione guidata da una razionalità

stabilita e pensata. Perché è importante progettare? Per definire e proiettare nel tempo e nello spazio un percorso di

apprendimento condiviso fra Formatore, Docente, Committente, Partecipante.

Ma che cosa progettiamo? Contenuti, strumenti e metodi. La formazione intenzionale richiede una progettazione che è stata così

definita: 1. Analisi della situazione (esplorazione della realtà, dei destinatari,

risorse, vincoli, strategie..) 2. Definizione degli obiettivi generali e specifici 3. Pianificazione della valutazione 4. Pianificazione degli interventi 5. Attuazione degli interventi e verifiche di processo 6. Valutazione di risultato e di impatto 7. Diffusione dei risultati Un modello di progettazione deve essere flessibile, applicabile a

diverse tipologie di interventi formativi ossia deve comprendere le tre aree interconnesse: preparazione, realizzazione, valutazione.

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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Cerchiamo di riassumerne i tratti salienti:

LA PREPARAZIONE • Analisi del contesto • Rilevazione dei bisogni formativi • Elaborazione degli obiettivi formativi (i risultati attesi) • Elaborazione degli obiettivi didattici (mete parziali di

apprendimento, che concorrono al raggiungimento dei risultati) • Pianificazione del percorso didattico (nelle diverse giornate)

La progettazione delle singole giornate comprende: • Individuazione del gruppo di obiettivi didattici da conseguire • Selezione delle metodologie didattiche • Predisposizione dei materiali didattici • Articolazione del budget • Individuazione dei docenti • Individuazione dei momenti di verifica e preparazione di specifici

test LA REALIZZAZIONE • Azione didattica • Interventi di verifica intermedia • Eventuale revisione in itinere degli obiettivi didattici, dei metodi e

dei contenuti LA VALUTAZIONE • Elaborazione di ipotesi valutative • Colloqui individuali e di gruppo • Costruzione e somministrazione di questionari • Analisi dei cambiamenti al termine dell’attività formativa • Interventi valutativi on the field a distanza di tempo dalla

conclusione delle attività Gli elementi costitutivi del progetto formativo Un passo essenziale per l’elaborazione di progetti è la ricerca degli

elementi che lo compongono. Proviamo ad immaginare di stendere un progetto formativo.

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Che cosa inseriamo? Cosa dobbiamo definire? Potremmo, per esempio, utilizzare questa griglia:

1. Titolo

2. Motivazioni e premesse (soggetti promotori, beneficiari, ragioni, vincoli e opportunità)

3.1 Obiettivi generali

3.2 Obiettivi specifici

4. Orientamento metodologico

5. Destinatari

6. Aree tematiche da sviluppare

7. Sistema docenza

8. Setting

9. Articolazione corso

10. Periodizzazione

11. Sistema verifica

12. Budget/costi

13. Aspetti organizzativi

14. Documentazione

Come si potrà notare, gli elementi costitutivi di

un progetto formativo appena elencati vanno ben oltre l’ambiente dell’aula: proprio perché il momento dell’intervento formativo sia efficace, è necessario che tutto il sistema progettuale sia ben definito nei minimi particolari.

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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Le indicazioni contenute nella griglia potranno essere così declinate:

1. Titolo: spesso è già stabilito dal committente. Ci si può lavorare, andando ad inserire un sottotitolo specifico o proponendo una variazione accattivante che renda meglio l’idea di ciò che si intende approfondire nell’intervento formativo. Si stabilisce successivamente alla macro fase di preparazione.

2. Motivazioni e premesse: ogni azione formativa è sempre intenzionale: nasce con determinate premesse, per risolvere problemi, per colmare gap di conoscenze e competenze o per rispondere ad opportunità che si sono create in un’organizzazione. Un progetto non nasce dal nulla, ma si spiega in relazione alle contingenze specifiche. In questa parte si devono sintetizzare i motivi del percorso, le condizioni sine qua non, ciò che è emerso dall’analisi dei bisogni10.

3. Obiettivi: sono la base per la scelta di materiali, contenuti e metodi didattici. Per il formatore è assolutamente necessario conoscerli perché rappresentano la meta da raggiungere in base a cui si sceglieranno i mezzi più idonei per arrivarci: così come i meccanici ed i chirurghi non scelgono gli strumenti finché non sanno quale operazione eseguiranno11, così il formatore deve prima individuare gli obiettivi. Questi devono fare riferimento a comportamenti attesi che cambieranno in seguito all’apprendimento12. Gli obiettivi infatti fanno riferimento alla triplice distinzione tra conoscenze (nozioni, dati, concetti, ecc.) identificate nel sapere, capacità (abilità a fare, sia di natura mentale che comportamentale), tradotte in saper fare e atteggiamenti (opinioni e valori) chiamati saper essere13.

10 Per quanto riguarda un ulteriore approfondimento dedicato all’analisi dei bisogni si rinvia all’intervento della dott. ssa Adele De Prisco pubblicato in questo Quaderno. 11 R.F. Mager, Gli obiettivi didattici (trad. dall’inglese), Giunti Lisciani, Firenze, 1989, p. 11. 12 Il dibattito in letteratura sul tema degli obiettivi è molto acceso e vede posizioni anche contrapposte. Per approfondire: M. Knowles, Quando l’adulto impara. Pedagogia e andragogia (trad. dall’inglese), Franco Angeli, Milano, 1995. P. 148-152 e R.M. Gagnè, L.J. Briggis, Fondamenti di progettazione didattica (trad. dall’inglese), Sei, Torino, 1990, p. 129. 13 M. Pellerey, Educare,. Manuale di pedagogia come scienza pratico-progettaule, Las, Roma, 1999, p. 160.

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4. Orientamento metodologico: in questa fase si entra nel vivo del progetto. È il momento in cui spesso se ne stabiliscono le peculiarità. È il momento in cui si definisce come procedere attraverso diversi orientamenti: un orientamento pedagogico-didattico se si vogliono approfondire argomenti e trasmettere conoscenze attraverso esercitazioni addestrative, lavori di gruppo per raggiungere il massimo apprendimento di conoscenze; un orientamento psico-sociale in cui il gruppo apprende dalla propria esperienza e i contenuti sono soprattutto di tipo relazionale e sociale; un orientamento animativo-espressivo dove si animano i partecipanti in tutte le loro dimensioni affettive ed espressive; un orientamento curativo-aggregativo centrato sull’elaborazione di problemi personali ed interpersonali.

5. Destinatari: per una progettazione attenta all’individuo è importante focalizzarsi su alcuni interrogativi. Come sono stati individuati i partecipanti al corso? Chi sono i partecipanti? Che approccio hanno verso la formazione? Chi sono gli adulti? Non sempre è possibile operare personalizzando la formazione in base ai partecipanti, ma se non si riesce ad agire già sul progetto, è importante che il docente adotti una sensibilità d’approccio adattandosi a colore che devono essere al centro dell’azione formativa.

6. Aree tematiche: vengono dettagliate nei loro contenuti specifici in fase di micro progettazione. I contenuti sono riconducibili alle aree richiamate negli obiettivi (sapere, saper fare, saper essere). Il problema che si pone è quello di scegliere quali contenuti privilegiare e quali tralasciare e riservare ad ulteriori ed eventuali incontri formativi. Tale decisione dipende dalla contrattazione con il committente (di solito il responsabile scientifico ha già un’idea ben chiara sui contenuti); dalla scelta metodologica (ad esempio, se si vuole dare un orientamento psico-sociale, i contenuti avranno poco spazio e

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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verranno privilegiate le attività di gruppo); dalla contrattazione con i partecipanti (conoscenze pregresse, esperienze, modelli mentali, approccio alla formazione); dalla negoziazione con gli obiettivi (essi devono essere rielaborati individuando argomenti chiave, tra obiettivi e contenuti infatti non esiste un rapporto causa-effetto).

7. Sistema docenza: gli attori del processo formativo dipendono dagli obiettivi e dalle risorse disponibili e possono essere diversi e molti14. Si differenziano per la funzione svolta nelle seguenti tipologie principali: docente, formatore, trainer, responsabile scientifico, coordinatore del corso, responsabile del servizio formativo, referente per la formazione15. La letteratura - e anche la pratica - individua anche altre funzioni come il coach, il mentor, il counsellor16.

8. Setting: è l’ambiente in cui si svolge il corso, non è un semplice contenitore, è il clima che contribuisce a raggiungere gli obiettivi, rafforzando i messaggi del formatore. È rappresentato dal luogo fisico, dalla disposizione dei posti, dalle luci appropriate, dalla tranquillità, dalla riservatezza, dalla piacevolezza, dall’accoglienza, dalla funzionalità degli spazi, dalla sicurezza dell’aula, dall’estetica, dagli aspetti ergonomici, ecc.

9. Articolazione corso: è il risultato del processo di progettazione e la sua esplicitazione è la prima forma di contrattazione con i partecipanti.

10. Periodizzazione: obiettivi, metodi, strumenti e contenuti devono essere tarati sulla variabile “tempo” che si deve a sua volta plasmare sui ritmi di apprendimento dei partecipanti. È necessario valutare: durata complessiva del progetto (ore, giornate); posizionamento (diurno, pomeridiano, serale, festivo o feriale); durata (2 ore al

14 Per quanto riguarda un ulteriore approfondimento dedicato alle figure della formazione si rinvia all’intervento del Prof. Vitale, Il formatore e la formazione, pubblicato in questo Quaderno. 15 M. Bruscaglioni, La gestione dei processi nella formazione degli adulti, Franco Angeli, Milano, 1997. 16 S. Maioli, M.P. Mostarda, La formazione nelle organizzazioni sanitarie tra contributi pedagogici e modelli operativi. Cap.3 Facilitare l’apprendimento individuale ed organizzativo. A cura di Chiara Buizza.

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giorno o intere giornate, nell’orario lavorativo o fuori dall’orario lavorativo); continuità (intermittenza degli incontri, full-immersion); rapporto con il lavoro (è necessario valutare se il corso si colloca in fase pre-lavorativa, post-lavorativa o lavorativa o in altri momenti). La periodizzazione dell’intervento formativo non è necessariamente un vincolo, ma anche un’opportunità, in quanto poter scegliere il “quando” fermarsi e formarsi è fondamentale per far sì che il momento formativo sia un’occasione di crescita.

11. Sistema di verifica: è necessario stabilire in fase progettuale a quale scopo verificare, che cosa verificare, quale approccio utilizzare nella verifica, ogni quanto operare la verifica, a chi affidare la valutazione, cosa farne dei risultati, quali strategie utilizzare17.

12. Budget/costi: ogni progetto ha vincoli economici ai quali ci si deve attenere e con i quali ci si deve misurare durante e prima il processo formativo. È utile preparare un piano in cui sia di facile visualizzazione la differenza tra entrate ed uscite.

13. Aspetti organizzativi: riguardano tutte le questioni di gestione del processo formativo, ossia predisposizione dei documenti, raccolta delle iscrizioni, preparazione del materiale didattico come indicato dal formatore, ecc.

14. Documentazione: è importante stabilire in fase progettuale come organizzarsi con la documentazione, ossia se distribuire le dispense fotocopiate a tutti i partecipanti o lasciare che prendano gli appunti liberamente, senza lasciar nulla di cartaceo, dare dei suggerimenti bibliografici e se sì, stabilire il livello di approfondimento, come e quanto diffondere i materiali, come pubblicizzare l’intervento formativo, ecc.

Tutto quanto affrontato finora non ha la pretesa di essere esaustivo o

di fornire un manuale di istruzioni per la stesura di un buon progetto, ma vuole senz’altro stabilire almeno alcuni punti fondamentali da tenere

17 Per quanto riguarda un ulteriore approfondimento dedicato alla valutazione si rinvia all’intervento della dott. ssa Adele De Prisco pubblicato in questo Quaderno.

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Q1, 2012 AiFOS – La progettazione di un intervento formativo

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presenti per costruire quel processo di partenza che deve essere alla base di un buon progetto. D’altronde è davvero difficile, se non impossibile, ridurre la progettazione ad un mero processo operazionalizzabile. Gli esperti che hanno scritto in questo volume possono testimoniare quanto una “scaletta” ben studiata e costruita sia spesso rivoluzionata in itinere dai bisogni sempre diversi dei partecipanti, dalle logiche di lavoro delle più svariate organizzazioni, ecc.

Ai progettisti spetta il compito

di applicare non un metodo ma di elaborare una strategia progettuale adeguata alla condizioni e ai vincoli che gli si presentano in un sistema complesso e in continuo movimento.

Da qui dovrebbe nascere un’ampia discussione sulla progettazione intesa come processo euristico, ma lascio a voi l’approfondimento nella letteratura di approfondimento ampiamente suggerita nelle note.

Conclusioni Concludendo, voglio sottolineare alcuni concetti che ho solo

accennato tra le righe di questo intervento. Dobbiamo sempre ricordarci che il protagonista assoluto

dell’intervento formativo è il partecipante. Non per nulla è chiamato destinatario. Senza di lui non esisterebbe tutto il processo stesso.

L’intervento formativo sarà fattibile se adotta una strategia chiaramente orientata al cambiamento, se coinvolge i soggetti-chiave e i partecipanti, se il progetto è connesso e condiviso con l’organizzazione e se viene sviluppato in tempi adeguati.

Un’azione formativa non può essere un evento casuale e saltuario. Al contrario, richiede una progettazione destinata ad abbracciare più

problematiche e più soggetti in ambito aziendale. L’impegno dei soggetti deve essere duplice e parallelo. Da una parte si colloca la progettazione degli incontri, ideata da

formatori secondo un ampio ed articolato programma di possibilità.

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Dall’altra parte si colloca la progettazione aziendale, volta ad abbracciare l’intera microsocietà che la compone, affinché ogni attore, in relazione al proprio ruolo, possa orientare od orientarsi nell’ottica del cambiamento.

Vogliate perdonarmi se ho passato in rassegna aspetti scontati e noti, ma ho voluto darmi il compito di puntualizzarli anche ai lettori meno esperti, sperando di aver stimolato un ulteriore e sostanzioso approfondimento.

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L'analisi dei bisogni. L’attenzione alla tipologia dei destinatari. La valutazione dei risultati di Adele De Prisco1

Introduzione Il contributo si propone di illustrare agli operatori della formazione il

significato e gli obiettivi di due importanti momenti del processo formativo, l’analisi dei bisogni di formazione e la valutazione dei risultati. Si suggeriscono, inoltre, alcuni possibili strumenti da utilizzare per rilevare i bisogni formativi e per valutare gli esiti del percorso di formazione realizzato.

L’analisi dei bisogni Atto preliminare di ogni iniziativa di

formazione, l’analisi dei bisogni rappresenta una fase molto delicata del processo di formazione, poiché è finalizzata a capire le motivazioni che generano la domanda di formazione2. L’analisi dei bisogni si qualifica, quindi, quale attività di ricerca finalizzata all’acquisizione di informazioni utili per proseguire nelle tappe successive del processo formativo: progettazione dell’esperienza formativa, individuazione degli obiettivi didattici, scelta dei contenuti e dei metodi, realizzazione di tale esperienza attraverso un corso di formazione3. 1 Esperta in processi formativi. Docente in corsi di formazione su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. 2 F. Zaccaro - V. A. Baldassarre, L’analisi dei bisogni formativi in Progettare la formazione, a cura di V. A. Baldassarre, F. Zaccaro, M. B. Logorio, Carocci Editore, Roma 2001, pag. 25. 3 G. P. Quaglino - G. P. Carrozzi, Il processo di formazione. Dall’analisi dei bisogni alla valutazione dei risultati, Franco Angeli, Milano 1981, pag. 56.

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Anche se il momento dell’analisi dei bisogni viene di solito collocato all’inizio del processo formativo, in realtà esso ritorna in altri momenti, poiché questo processo è, come ogni formatore sa, caratterizzato dalla circolarità4.

Il “bisogno di formazione” è espressione della relazione tra individuo (con le motivazioni, gli atteggiamenti e le conoscenze che influenzano la sua sfera lavorativa) ed organizzazione (intesa come l’ambiente o il contesto in cui vengono esercitati i comportamenti individuali). Se è vero, infatti, che gli individui appartengono all’organizzazione, è anche vero che l’organizzazione “appartiene” agli individui, in quanto occupa un posto privilegiato all’interno del mondo sociale entro cui essi agiscono. Il bisogno di formazione è, pertanto, quanto, di volta in volta, emerge dall’incontro tra i bisogni espressi dall’organizzazione e i bisogni espressi dai soggetti in formazione.

Il contesto relazionale, entro cui l’attività di ricerca dei bisogni si svolge, assume, pertanto, una rilevante importanza. Il processo formativo non avviene, infatti, in una situazione di “vuoto sociale”: l’attività di formazione è promossa, in larga misura, da organizzazioni concrete, pubbliche e private, che vedono nella formazione uno strumento per migliorare la loro efficienza e per risolvere taluni problemi generati da una non adeguata preparazione professionale dei prestatori d’opera.

Una corretta analisi dei bisogni prevede le tre fasi che di seguito vengono analiticamente descritte.

Nella prima fase del processo diagnostico il formatore entra in contatto con il committente dell’intervento formativo. Il committente è portatore di un problema organizzativo, che va esplorato e chiarito attraverso una specifica analisi della domanda, finalizzata ad individuare gli obiettivi per cui è stato richiesto l’intervento formativo e a chiarire la finalità che il committente attribuisce alla formazione. Chiarire il fine del progetto formativo evita di incorrere in sorprese che potrebbero ostacolarne l’esecuzione e condizionare il raggiungimento dei risultati attesi5.

4 D. Bramanti (a cura di), Progettazione formativa e valutazione, Carocci Editore, Roma 1998, pag. 37. 5 P. Favarano - M. Soriani Bellavista, Manuale per la formazione alla salute e sicurezza, Il Sole 24 Ore, Milano 2003, pag. 168.

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La seconda fase del processo diagnostico prevede il coinvolgimento degli utenti. Difficilmente, infatti, un intervento formativo riesce, se prima non è stato sollecitato il consenso dei diretti fruitori. Può accadere che i bisogni di formazione percepiti e formulati dall’organizzazione (committenza) siano diversi da quelli riconosciuti e dichiarati dai destinatari (utenza). Rispetto a tali divergenti esigenze, il formatore ha il compito di mettere a punto un’unica risposta, che risulti soddisfacente per entrambi6. Questo per evitare che diventi problematico il raggiungimento degli obiettivi progettuali e complicato realizzare l’intervento formativo7.

La terza fase del processo è rappresentata dalla condivisione

dell’analisi dei bisogni, premessa indispensabile per la piena riuscita dell’intero percorso formativo.

Gli strumenti di cui ci si può avvalere per l’analisi dei bisogni

formativi sono i seguenti8:

osservazione diretta e partecipe intervista individuale intervista di gruppo questionario storie di vita professionale.

Nel caso specifico della formazione in materia di salute e sicurezza, l’analisi dei bisogni deve riguardare9:

a) il contesto lavorativo in cui la formazione viene erogata (documento di valutazione dei rischi e dati in esso contenuti, trend infortunistico, attività connesse alla sicurezza implementate in azienda, piani di formazione, procedure di lavoro definite nell’ambito del sistema di gestione della salute e della sicurezza, esiti degli audit di sicurezza);

b) le prescrizioni del D. Lgs. n. 81/08 sulla formazione dei Datori di Lavoro che svolgono il ruolo di Responsabile del Servizio di

6 G. P. Quaglino - G. P. Carrozzi, op. cit., pag. 71. 7 F. Zaccaro - V. A. Baldassarre, op. cit., pag. 34. 8 Per una descrizione analitica e puntuale dei singoli strumenti si vedano, in particolare, F. Zaccaro - V. A. Baldassarre, op. cit., pagg. 38-42 e G. P. Quaglino - G. P. Carrozzi, op. cit., pagg. 79-85. 9 P. Favarano - M. Soriani Bellavista, op. cit., pagg. 16-18.

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prevenzione e Protezione (art. 34 del D. Lgs. n. 81/08), degli Addetti e dei Responsabili dei Servizi di Prevenzione e Protezione (art. 32 del D. Lgs. n. 81/08), dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza, dei Lavoratori, dei Dirigenti e dei Preposti (art. 37 del D. Lgs. n. 81/08);

c) le caratteristiche dei partecipanti al corso (età, titolo di studio, funzioni all’interno dell’organizzazione, storia formativa pregressa, modalità di apprendimento preferite, stato delle relazioni con i superiori ed i colleghi, aspettative ed obiettivi personali);

d) la “cultura” dell’organizzazione in merito alla prevenzione del rischio: i valori, gli atteggiamenti e le abitudini condivise in merito alla sicurezza, i sistemi premianti e quelli punitivi, il clima diffuso nei vari reparti10.

Nel corso dell’analisi dei bisogni di formazione, attività non meno importante per la buona riuscita del processo formativo, è l’analisi “delle risorse e dei vincoli”11. In via preliminare, è importante che il formatore individui le conoscenze e competenze già possedute dai destinatari del corso. Deve, inoltre, avere piena conoscenza delle risorse a disposizione (spazi disponibili, tempi utilizzabili e collaborazioni possibili con colleghi o esperti esterni) e dei vincoli (budget massimo, documenti ed autorizzazioni eventualmente necessarie per svolgere determinate attività, ecc.). Egli deve, altresì, prevedere soluzioni alternative laddove nel corso del processo formativo programmato dovessero verificarsi degli imprevisti.

La valutazione La valutazione dei risultati ha l’obiettivo di misurare il

soddisfacimento dei bisogni di formazione a seguito dell’intervento formativo realizzato.

10 L’attenzione a questo aspetto è particolarmente rilevante. I singoli soggetti all’interno delle organizzazioni di lavoro sono, infatti, sempre parte di una comunità più ampia, vale a dire il gruppo di lavoro e l’impresa nella quale operano, con i quali condividono, oltre al sapere tecnico-professionale, anche valori, credenze, atteggiamenti, norme implicite. Alcune volte, ad esempio, il comportamento non “sicuro” e poco partecipativo dei singoli è influenzato da una cultura organizzativa che non ha interiorizzato, tra i suoi valori, quelli della prevenzione, della leadership, della delega, ecc. 11 D. Bramanti, op. cit., pag. 37.

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Pur costituendo la tappa finale del processo formativo, la valutazione occupa un posto rilevante già in fase di progettazione. Occorre, infatti, aver prima identificato gli obiettivi didattici per poter individuare gli strumenti di valutazione più opportuni ed efficaci.

La valutazione è un processo che si esplica nei seguenti tre momenti:

all’inizio del percorso formativo, ex ante, con l’obiettivo di indagare l’esistenza di sufficienti premesse per avviare il percorso formativo. Possono essere oggetto di valutazione i bisogni formativi, gli obiettivi, le strategie didattiche, le risorse, ecc.

durante il percorso formativo, in itinere, volta a monitorare, correggere e potenziare il percorso formativo. Possono essere monitorati il livello di soddisfazione degli utenti, le modalità organizzative e didattiche, l’adeguatezza dei contenuti trattati e dei materiali forniti, ecc.

al termine dell’azione formativa o dell’intero processo formativo, ex post, con l’obiettivo di verificare i risultati ottenuti rispetto agli obiettivi didattici (a conclusione delle singole azioni formative) ed agli scopi complessivi dell’intervento (al termine dell’intero processo formativo)12.

Nel campo della valutazione dei risultati si dispone, da diversi anni, di

una letteratura ampia e dettagliata. Il tema della valutazione della formazione è, infatti, fra quelli più controversi e dibattuti tra gli addetti ai lavori13.

Il modello metodologico di riferimento più conosciuto ed utilizzato a

livello mondiale per classificare i livelli di valutazione di un programma formativo è quello messo a punto da Kirkpatrik14. Esso prevede i seguenti quattro step:

I) la valutazione della reazione (o del gradimento) dei partecipanti;

12 F. Zaccaro - V. A. Baldassarre, op .cit., pag. 202. 13 M. Castagna, La valutazione della formazione (1999), consultato in Internet all’indirizzo www.mida.biz, visitato il 14/01/2012. 14 In questo contributo si fa esplicito riferimento al modello di valutazione schematizzato già nel 1959 da Donald Kirkpatrick e riproposto nel noto saggio dal titolo Evaluating Training Programs: the Four Levels, Berrett - Koehler Publishers, S. Francisco (USA) 1994.

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II) la valutazione dell’apprendimento dei partecipanti al termine del corso;

III) la valutazione del cambiamento che i partecipanti hanno introdotto nel loro modo di lavorare a seguito del corso;

IV) la valutazione del risultato di business. I livelli di misurazione sono caratterizzati da una crescente

complessità e ciascuno step rappresenta una condizione necessaria per il successivo livello di analisi.

Le aree di valutazione del modello di Kirkpatrik possono essere così

sintetizzate: Primo livello: la valutazione della reazione (o del gradimento) È la valutazione che viene spesso realizzata

utilizzando il “classico” questionario di fine corso, con il quale vengono raccolte le opinioni “a caldo” dei partecipanti, spesso in forma anonima.

Con questo metodo vengono generalmente valutati i punti di vista dei partecipanti su vari aspetti, quali ad esempio: il raggiungimento degli obiettivi stabiliti l’utilità stimata dei vari argomenti trattati durante il corso l’interesse che i suddetti argomenti hanno suscitato nei

partecipanti la qualità della comunicazione da parte del/dei docente/i e delle

metodologie didattiche adottate l’opinione che i partecipanti hanno rispetto alla trasferibilità nella

pratica quotidiana di ciò che hanno appreso le emozioni che il corso ha suscitato in loro la qualità della sistemazione logistica (aule, eventuale hotel per i

corsi residenziali, ecc.).

La valutazione del gradimento consente di ottenere un feedback sull’effetto motivazionale che il corso ha prodotto nei partecipanti: più è alto il gradimento (del docente, dei contenuti, della logistica, ecc.) e più è alto l’entusiasmo che le persone riportano sul posto di lavoro. Si tratta di un risultato di non poco conto.

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Secondo livello: la valutazione dell’apprendimento È l’attività di valutazione che consente di misurare

l’apprendimento che i partecipanti hanno maturato sulle tematiche oggetto del corso.

A seconda del tipo e degli obiettivi del percorso

formativo, la misura dell’apprendimento può riguardare aspetti diversi: a) nuove conoscenze teoriche

b) nuove capacità razionali ed intellettuali c) nuovi comportamenti interpersonali15.

Prima di entrare nel merito delle metodologie da adottare nei vari casi,

è opportuno precisare che è teoricamente possibile operare due differenti livelli di misura dell’apprendimento: una di tipo “assoluto”, l’altra di tipo “differenziale”. La misura assoluta consiste nel valutare solo quanto i partecipanti sanno, o sanno fare, al termine del corso. La misura differenziale consiste, invece, nel valutare quanto i partecipanti sanno, o sanno fare, in più rispetto all’inizio dell’attività formativa. Questa seconda misura è preferibile, perché è realmente rappresentativa dell’utilità concreta che ha avuto il corso di formazione per i partecipanti.

I metodi da impiegare per valutare l’apprendimento “differenziale” al

termine di un corso sono differenti a seconda degli obiettivi e dei contenuti del corso. Più in particolare, è necessario distinguere tra apprendimento di conoscenze teoriche e capacità intellettuali da un lato ed apprendimento di nuovi comportamenti interpersonali dall’altro.

Nel primo caso (conoscenze teoriche e capacità intellettuali), lo strumento ideale è il questionario da somministrare sia all’inizio che alla fine del corso. Si tratta di una serie di domande (a risposta multipla chiusa, a completamento, a risposta aperta) costruite in modo tale da individuare coloro che conoscono la materia rispetto a coloro che non la conoscono.

Nel secondo caso (comportamenti interpersonali), è più opportuno utilizzare strumenti quali lo studio di casi16, le simulazioni17 o i role-play18. 15 G. P. Quaglino - G. P. Carrozzi, op. cit., pag. 209.

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Terzo livello: la valutazione del cambiamento sul lavoro Questo terzo livello di valutazione della

formazione è finalizzato a misurare quanto il modo di lavorare delle persone è cambiato per effetto del corso a cui hanno partecipato.

Le tecniche di misurazione di questo livello

consistono nell’osservazione diretta, nell’effettuare incontri con il personale e nell’analisi dei risultati sul lavoro. Possono essere utilizzate anche pratiche di valutazione del cambiamento sul lavoro basate su questionari (e/o check-list) distribuiti ad uno o più soggetti dell’organizzazione aziendale19, ai quali è richiesto di osservare il comportamento assunto dai partecipanti alcuni mesi dopo il corso e di esprimere un parere utilizzando tecniche di rilevamento e scale di giudizio atte a rilevare aspetti prettamente comportamentali.

Quarto livello: la valutazione del risultato di business

Questo livello di valutazione è il più complesso. Per “risultato di business” (o ricaduta organizzativa) si intende l’impatto della formazione sull’organizzazione in termini di riduzione dei costi, miglioramento dell’efficienza, incremento della produzione, riduzione dei tassi di turn over e degli indici infortunistici, miglioramento del “clima” aziendale.

16 Consiste nella ricostruzione di un evento/situazione/problema al fine di individuare possibili soluzioni o proporre un intervento a seguito dell’analisi delle informazioni a disposizione. Per un approfondimento di questa metodologia didattica si veda M. Castagna, Esercitazioni, casi e questionari, Franco Angeli, Milano, 2002. 17 Consiste nella sperimentazione e riproduzione attiva in aula di ruoli e situazioni tratte dal contesto lavorativo. Per un approfondimento di questa metodologia didattica si veda M. Castagna, Progettare la formazione. Guida metodologica per la progettazione del lavoro in aula, Franco Angeli, Milano, 2002. 18 Consiste nella drammatizzazione di ruoli predefiniti. Nella formazione in materia di sicurezza è utile per far emergere dinamiche motivazionali, conflittuali e relazionali di carattere organizzativo. Per un approfondimento di questa metodologia didattica si veda M. Castagna, role playing, autocasi ed esercitazioni psicosociali, Franco Angeli, Milano, 2002. 19 Essi possono essere i partecipanti stessi, i responsabili delle strutture cui afferiscono i partecipanti oppure i collaboratori dei partecipanti

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Q1, 2012 AiFOS – L’analisi dei bisogni

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Le condizioni che rendono possibile questo tipo di valutazione sono le seguenti: occorre poter contare su un gruppo “sperimentale”, che partecipa al

corso, da confrontare con un gruppo “di controllo”, che non prende parte all’intervento formativo. I due gruppi devono essere abbastanza confrontabili ed omogenei fra loro;

occorre poter individuare uno o più criteri quantitativi, che consentano di dire se il corso è stato utile o meno per l’azienda. A questo fine, i parametri più spesso impiegabili possono essere le quantità prodotte o vendute, i ricavi, i costi, indicatori di qualità, livelli di soddisfazione del cliente, gli indici infortunistici, ecc.;

occorre attendere un tempo sufficiente perché gli apprendimenti generati dal corso facciano sentire i loro effetti e producano dei risultati osservabili. Questo lasso di tempo è variabile in relazione all’obiettivo che si intende raggiungere.

È consigliabile seguire un iter sequenziale nelle fasi di valutazione,

cominciando dalla valutazione dei cambiamenti collegati direttamente all’azione formativa, quali sono quelli avvenuti a seguito dell’apprendimento e proseguendo con la valutazione del trasferimento sul lavoro e della ricaduta organizzativa, entrambe conseguenze indirette dell’azione formativa. Nessuna azione educativa modifica, infatti, in modo diretto il comportamento, ma può creare le condizioni (o rimuovere alcuni ostacoli) affinché i comportamenti desiderati vengano adottati; adozione che dipenderà, però, anche da altre variabili, non direttamente influenzate dall’attività formativa (ad es., gli atteggiamenti ed i comportamenti degli altri, i valori condivisi, la cultura dell’organizzazione in materia di prevenzione, il clima nell’ambiente di lavoro, ecc.).

Il terzo ed il quarto livello di valutazione, sebbene spesso trascurati, possono, in ogni caso, fornire indicazioni utili in merito ad eventuali nuovi bisogni emergenti, da soddisfare con futuri interventi formativi. In altre parole, essi rappresentano il punto di partenza per un processo di formazione continua20.

20 G. P. Quaglino - G.P. Carrozzi, op. cit., pag. 228.

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Infine, per rendere più completi i livelli di valutazione nel caso specifico dei corsi di formazione sulla sicurezza, è opportuno aggiungere, a quelli già descritti, altri due livelli21: il livello “0” di “valutazione formale/normativa”, nel corso del quale

vengono presi in considerazione durata e contenuti del corso (che devono essere adeguati a quanto obbligatoriamente richiesto dalla vigente normativa), attestati e materiali didattici utilizzati (che servono a testimoniare l’avvenuta formazione);

il livello di “valutazione della conformità del progetto”, trasversale a tutti gli altri, con il quale viene analizzato l’intero processo formativo (conformità della progettazione e della metodologia adottata, allineamento del preventivo di spesa al consuntivo, utilizzo di sistemi di registrazione). Questa tipologia di valutazione consente, tra l’altro, di testimoniare le attività svolte in caso di controllo da parte dei preposti Organismi di vigilanza (D. Lgs. n. 81/08).

21 P. Favarano - M. Soriani Bellavista, op. cit., pagg. 194-197.

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Q1, 2012 AiFOS – Gestione d’aula e gruppi di lavoro

La gestione dell’aula e dei gruppi di lavoro

di Giovanna Alvaro1

La composizione dell’aula: studio preliminare, ipotesi e

progettazione metodologica Per un Formatore entrare in aula significa finalmente mettere in azione

una serie di presupposti, progettazioni e riflessioni create a tavolino e spesso in solitaria.

Significa, inoltre, farlo con la consapevolezza che nessuna progettazione o riflessione aprioristica, per quanto accurata e meticolosa, potrà mai essere esattamente aderente al clima d’aula che di lì a poco si troverà a respirare.

L’abbattimento di qualsiasi sentimento di onnipotenza, necessario per affrontare l’inatteso, dovrà essere necessariamente accompagnato da una sufficiente consapevolezza di sé e delle proprie caratteristiche. Questi sono i primi requisiti richiesti ad un Formatore per far sì che abbia le capacità di mettersi davvero in gioco e di non risparmiarsi.

Il bravo formatore è colui che in aula non si risparmia. Il lavoro di analisi preliminare sopra accennato è dunque un lavoro

non solo importante ma determinante, e prevede l’analisi di precise variabili.

Tutti noi sappiamo quanto sia importante porsi alcune specifiche domande prima di entrare in aula: analizzare la tipologia dei partecipanti al corso, le loro caratteristiche di età o professionali, le aspettative, l’esperienza formativa pregressa, l’eventuale conoscenza dei partecipanti tra di loro.

1 Formatrice progettista. Consigliere Nazionale e Coordinatore Regionale AiFOS Lazio, dirige l’Area Formazione di TREnD Solutions Srl - Roma. È Docente Formatore Senior per la Sicurezza certificato Cepas (N° Reg. 004). Psicologa clinica secondo il modello Cognitivo-Comportamentale e specialista in Programmazione Neuro Linguistica.

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Nel caso di corso erogato per un’unica Azienda, sarà opportuno inoltre riflettere sulla visione e aspettativa del vertice aziendale rispetto alle attività formative richieste, oppure su quanto tali attività saranno, consapevolmente o no, utilizzate per veicolare messaggi ed obiettivi aziendali non esclusivamente formativi.

Sarà opportuno infine non sottovalutare quanto, in aula, contesto elettivo di scambio e di condivisione, gli stessi partecipanti avanzeranno ed evidenzieranno problematiche aziendali di tipo organizzativo, comunicazionale, di clima.

Il bravo formatore fa venir fuori le dinamiche del gruppo, le riconosce, le utilizza governandole.

Si tratta quindi di contenuti e di situazioni da approfondire. Per ogni contenuto o situazione dovrà essere prevista la migliore modalità di analisi, studio e approfondimento, con il possibile coinvolgimento diretto o indiretto del formatore che andrà in aula.

È utile ricordare come spesso il Formatore non sia il referente primario nei rapporti con il cliente che commissiona il corso, ma solo l’attore principale dell’erogazione formativa.

In questi casi la regia, cioè la progettazione e gli aspetti organizzativi e relazionali con il cliente, spetteranno alla Società o Agenzia formativa che gestisce l’attività.

Il Formatore dovrà tuttavia, sempre e comunque, garantire a se stesso la necessaria conoscenza preliminare di quanto ritiene utile al fine di svolgere al meglio la propria docenza.

Nella mia esperienza di formatrice e progettista molte volte ho avuto modo di verificare come l’analisi dei bisogni non sia sempre aderente alla domanda formativa espressa, perché fondata su significati più profondi e forse per questo anche meno noti alla stessa Azienda committente.

Il bravo progettista e formatore è colui che riesce a compiere una accurata rilevazione dei bisogni profondi, più intimi.

La domanda tipo non sarà solo “Cosa è importante per te?” ma anche “Per quale motivo è importante per te? Quale motivazione soddisfa?”

La risposta ottenuta orienterà tutta l’azione formativa, realizzando in aula la sua massima espressione. L’aula, come ripeto spesso, è la punta dell’iceberg, ciò che si vede: ma quello che sta sotto, e nel caso della formazione quello che c’è prima e quello che c’è dopo, è spesso molto più complesso e imponente.

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In aula si dà finalmente forma, in un’azione strutturata, agli obiettivi formativi prefissi (form-azione).

Questo dare forma necessita da parte del formatore di tempo, comprensione, ascolto, empatia, capacità di guardare le cose solite con occhi diversi. Necessita soprattutto del possesso della capacità di trasferire su tutti i partecipanti, e soprattutto sui più reticenti, questo reale significato.

Creazione e mantenimento del gruppo L’analisi preliminare sopra

illustrata è dunque importante al fine di orientare la maniera in cui il Formatore farà la sua prima comparsa in aula. Da questo momento tutto assumerà un significato. Non tutto ciò che il formatore agirà verrà compreso razionalmente dai partecipanti, ma ogni azione, ogni atteggiamento, ogni tono o ritmo di voce, ogni cambiamento di prossemica, ogni particolare setting creato in aula orienterà il feedback e la soddisfazione dei partecipanti, nonché, naturalmente, il loro apprendimento e il loro cambiamento percettivo futuro.

Le mie sperimentazioni sul campo, vissute naturalmente in contesti formativi particolari e dopo un’accurata analisi preliminare, hanno consentito di verificare la valenza di diversi possibili approcci utilizzati nella costituzione del gruppo, durante le prime fasi di creazione del patto d’aula.

Alcune metodologie, che esporrò di seguito nella sezione “Esperienze”, hanno previsto un coinvolgimento molto forte dei partecipanti sin dall’inizio, spesso anche prevedendo l’interruzione di modelli stereotipati e usuali, e dunque rischiando.

Il bravo formatore è colui che corre dei rischi. Tale impostazione, come è stato evidente in aula sin da subito e

successivamente anche confermato dagli stessi partecipanti, ha favorito tra gli stessi partecipanti la capacità di mettersi davvero in gioco, abbandonando forme di pensiero limitanti, per aprirsi all’accoglienza del nuovo.

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Proprio il Gioco (non giochino) ha consentito loro il reale cambiamento comportamentale e percettivo, nonché la sistematizzazione dei necessari elementi critici di giudizio. Platone2 diceva che “si può scoprire di più di una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione”.

Uno degli obiettivi primari del bravo formatore è quello di far comprendere ai partecipanti che soprattutto in aula è possibile giocare e mettersi in gioco, perché l’aula è uno spazio protetto gestito da un formatore abile e formato a tal proposito.

Concetto fondamentale è quello di considerare sempre, e su questo basare ogni possibile azione, che ogni singolo partecipante, sia esso adulto, giovane o bambino, arriva in aula con la sua particolare Mappa Cognitiva. La Mappa Cognitiva3 riassume in sé variabili innate e acquisite: rivolgendosi la nostra azione formativa soprattutto agli adulti, avremo per lo più a che fare con mappe molto strutturate, cresciute, e di per sé, se da un lato composite, dall’altro potenzialmente autolimitanti.

Da una visione ristretta traggono origine gli stereotipi, le cattive abitudini, gli atteggiamenti fissi e immutabili, i modi di vedere, di sentire e di percepire sempre uguali a sé stessi.

Sappiamo tutti come, nell’ambito della Sicurezza sui luoghi di lavoro, gli Atteggiamenti Umani siano di estrema importanza nel processo di attuazione di buone prassi, e ancor prima di una corretta valutazione di rischi e pericoli.

È evidente dunque come, proprio perché l’adulto possiede già una propria e strutturata rappresentazione del mondo in cui si trova inserito, non si possa prescindere da essa nel momento in cui ci si appresti a insegnare nuovi saperi, nuovi comportamenti e ancor più nuove modalità di pensiero. La Mappa Cognitiva individuale consente dunque di dare un senso a un’informazione e di inserirla nella nostra personale area di significato.

Solo quando l’integrazione tra nuovi saperi e vecchie credenze avviene in maniera fluida e senza traumi si rende possibile l’ampliamento e l’arricchimento necessario per un cambiamento accettato e consapevole.

2 Platone, citazione non sostenuta da un’indicazione precisa delle fonti. 3 Bandler – Grinder, La struttura della Magia, Astrolabio, 1981.

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L’efficacia della attività formativa consiste esclusivamente in questo, e alla formazione è data dunque la possibilità di diventare un importante supporto alla sopravvivenza di fronte all’inatteso e all’imprevedibile e alla “rinnova-azione” della propria visione del mondo, del proprio lavoro, del proprio ruolo.

Questo processo può attuarsi in aula solo quando il Formatore esperto considera adeguatamente tali elementi, non ritenendosi esclusivamente un mero trasmettitore di informazioni e di conoscenze. Dovrà prevedere un insegnamento e una comunicazione basati su due importanti presupposti: l’abbandono di ogni presunzione o convinzione di possedere l’assoluta verità, e parallelamente la possibilità, consentita all’interlocutore, di possedere una propria visione del mondo.

Insegnamento antico, oggi ancora attuale, e suggerito agli albori del pensiero da un filosofo precursore della didattica moderna, Socrate, che già nei suoi discorsi si rivolgeva ai propri discepoli utilizzando le arti dell’ironia e della maieutica.

Con l’ironia Socrate4 svelava ai suoi discepoli la loro ignoranza, suggerendo loro la ricerca e la distruzione di ogni presunzione di sapere. Con la maieutica, successivamente a tale de-strutturazione, stimolava lo stesso discepolo alla ricerca della propria verità. Socrate non inculcava mai nella mente del discepolo con la sua verità, ma possedeva l’innata arte di far partorire l’altro da sé.

In una classe di adulti l’esperienza dei discenti vale quanto il sapere del docente. Quest’ultimo dunque sarà impegnato con gli stessi partecipanti in un processo comune di ricerca e di evoluzione trasformativa.

Il bravo formatore facilita il processo di apprendimento, inteso come percorso di apertura a nuove possibilità.

In tale opera di facilitazione sarà opportuno che il Formatore consideri sia il contenuto di apprendimento, sostenendo la motivazione necessaria al dover imparare, sia il successivo cambiamento comportamentale; ciò è ancora più rilevante dovendo operare in un contesto, quello della Sicurezza, nel quale l’applicazione di norme e procedure prevede un estremo senso critico e di giudizio. Ciò significa aiutare la persona ad elaborare le proprie capacità, conoscenze e competenze; ad integrare le

4 Platone, La Maieutica – dialogo Teeteto, Opere Vol. 1, Laterza, 1967.

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conoscenze già possedute con quelle appena apprese; ad acquisire nuove skills; a rimettersi in gioco, tirando fuori risorse fino a quel momento poco usate o trascurate; ad applicare, infine, nella quotidianità lavorativa, quanto appreso e sperimentato in ambito formativo.

Le strategie didattiche

In considerazione delle finalità sopra esposte, al Formatore è richiesta dunque una riflessione accurata circa le strategie didattiche più efficaci per favorire e per valorizzare quanto atteso. Le strategie efficaci sperimentate sul campo prevedono diversi stili, tempi e luoghi. Come già detto, in aula tutto assume significato e nulla va lasciato al caso. Ogni processo di comunicazione, relazione e trasferimento contribuisce all’efficacia del processo di form-azione. Andrà sempre ricercata la migliore modalità per favorire nei destinatari un ruolo da attore principale nel proprio processo di apprendimento.

Le metodologie formative utilizzabili possono schematicamente essere ricondotte a due definite tipologie: i metodi espositivi e i metodi per scoperta. Questa distinzione, di per sé accademica, prevede tuttavia una interessante riflessione circa la modalità con la quale articolare i materiali ed i contenuti da apprendere e circa la tipologia di processo di apprendimento che si intende privilegiare. Spetta all’esperto di formazione scegliere volta per volta il metodo più adeguato in ordine a tutte le variabili presenti nella situazione in atto.

Rientrano tra i metodi espositivi le lezioni, in presenza o in e-learning, lo studio individuale, le presentazioni audiovisive.

La caratteristica di tali metodi è quella di essere centrati essenzialmente sui contenuti e sulle informazioni da trasmettere; tendono a trascurare le dinamiche presenti in aula e a favorire una relazione asimmetrica (one up-one down) tra Docente e Discente.

I metodi per scoperta comprendono l’analisi dei casi, momenti di brainstorming, role playing, lavori di gruppo in genere e qualsiasi altro

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tipo di metodologia volta a favorire una formazione emotiva ed esperienziale.

Tali metodi sono centrati essenzialmente sui processi e sulla modalità con la quale i soggetti elaborano le informazioni. Favoriscono nuove modalità di pensiero e la relazione simmetrica (one up-one up) tra Docente e Discente.

Io ritengo efficace un modello di intervento che si articoli tra momenti di spiegazione teorica (metodologie espositive), momenti di esercitazione pratica (metodologie per scoperta) e momenti di valutazione intermedia delle conoscenze acquisite. La valutazione intermedia può essere più o meno strutturata ma sempre finalizzata non solo ad una verifica di apprendimento cognitivo ma soprattutto ad un feedback sul cambiamento percettivo, nonché sulla soddisfazione in merito al lavoro che si sta svolgendo, per attuare, dove necessario, interventi correttivi.

Il bravo formatore è colui che valuta sempre la soddisfazione dei

bisogni più intimi dei partecipanti all’azione formativa intrapresa. Partendo da questi presupposti, è importante che il Formatore che

voglia migliorare la sua attività metta a punto e sperimenti specifiche metodologie applicabili all’ambito formativo. Un approccio alla formazione come quello descritto richiede formatori molto competenti, che abbiano affinato non solo conoscenze e competenze tecniche ma anche sensibilità di tipo psicologico e relazionali di buon livello, e che pertanto siano in grado di gestire l’aula e la complessità delle sue dinamiche. Cade il modello di docente “dietro la cattedra” che impone le proprie conoscenze e che assegna ai partecipanti la diretta responsabilità del proprio apprendimento (“se non impari è perché non ne hai voglia, non ti interessa, non sei capace a imparare”) e si fa strada un modello di docente che si propone sullo stesso piano dei partecipanti, che ne stimola la curiosità, la motivazione ad apprendere e ne valorizza l’esperienza (“se non impari è perché io non ho usato la tua lingua”).

Abbiamo già detto quanto sia importante tenere in considerazione le particolari peculiarità dei partecipanti ai nostri corsi, il loro bagaglio di partenza. Ogni nuovo “oggetto formativo” inserito in tale bagaglio, dovrà essere posto con cura, attenzione e considerazione di quanto già contenuto nel bagaglio. Una mossa incauta da parte del Formatore, o una modalità poco attenta nella trasmissione di nuovi contenuti formativi,

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avrebbe lo stesso effetto che potrebbe avere l’inserimento di un oggetto fragile in un baule maneggiato senza alcuna cautela.

Dobbiamo tener dunque conto della Mappa Cognitiva di ogni individuo, ad esempio, nel momento in cui scegliamo i nostri strumenti didattici o impostiamo le nostre slide, esercitazioni, esposizioni. Ognuno di noi, infatti, apprende utilizzando per preferenza un particolare Sistema Sensoriale5; tra noi ci sarà qualcuno che vede le cose in un certo modo, qualcun altro che basa le proprie convinzioni su quello che si dice dentro - ad esempio si motiva o si demotiva utilizzando il suo sistema uditivo interno (tipo: “non ce la farò mai….”) - qualcun’altro che vuole toccare con mano o lasciarsi travolgere dalle proprie emozioni e sensazioni nei propri processi di apprendimento.

E il bravo formatore? Che deve fare per colpire nel segno sempre, fare un quadro accurato della situazione e dar voce alle esigenze di tutti?

Il bravo formatore è colui che sa parlare ogni lingua possibile, perché osserva, ascolta e adegua la propria comunicazione al proprio interlocutore.

Il docente efficace è colui che riesce ad utilizzare il proprio corpo e la propria voce come “strumenti” potenti e utili. Tramite tali strumenti può attirare l’attenzione o sottolineare i passaggi più importanti.

Un importante contributo ai risultati di efficacia comunicativa è dato ad esempio dall’utilizzo del canale paraverbale e dal modo in cui la voce accompagna il contenuto del messaggio: ritmo, velocità, volume, tono e pause.

Ognuno di noi sa quanto possa essere traumatica in aula una velocità costante, lenta, monotona. Quindi è opportuno che la velocità dell’esposizione sia alternata e non costante: a volte è importante parlare lentamente, altre volte più velocemente. La nostra voce è come un evidenziatore con il quale sottolineare i concetti più importanti. L’eccessiva costanza nella velocità infatti causa stanchezza e perdita di attenzione da parte del gruppo. Anche le pause sono importanti perché

5 Dilts – Bandler –Grinder - DeLozier, Programmazione Neurolinguistica, Astrolabio, 1982.

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danno il tempo di recepire i messaggi, creare curiosità ed attese, valutare le reazioni.

Anche l’attenzione dei partecipanti è un elemento da non trascurare e da sollecitare in ogni fase del processo formativo. Il Formatore può, ad esempio, ad inizio corso, sollecitare la curiosità attraverso una parola scritta alla lavagna, oppure citando una frase celebre o una statistica sorprendente, oppure raccontando una metafora o un aneddoto. Ognuna di queste tecniche, che sono solo alcune tra quelle possibili, presuppone diversi livelli di costruzione, di abilità e di applicazione da parte del Formatore.

Una volta ottenuta la necessaria attenzione, il docente avrà il compito di esporre al meglio i propri contenuti, non dimenticando di tenere sempre attento l’interesse e l’attenzione dell’intero gruppo classe.

Il feedback di attenzione e interesse non va ricercato solo nella relazione verbale, ma soprattutto nelle modalità comunicative paraverbali e non verbali, che rappresentando il nostro linguaggio simbolico e analogico, sfuggono per lo più alla coscienza vigile e ai nostri parametri razionali (e pertanto possono essere interpretati come più autentici).

Da quanto detto sin qui è evidente come la gestione più complessa dell’aula si realizzi soprattutto nelle fasi esercitative, dove, a prescindere dalla tipologia prescelta (case study, role playing, etc.) il docente dovrà lavorare su un canovaccio, potendo solo ipotizzare lo svolgimento dell’esercitazione e le dinamiche potenzialmente in gioco. Dovrà quindi essere pronto, abile e opportunamente formato nella gestione delle dinamiche stesse, in una loro rilettura critica e nell’identificare i ruoli giocati all’interno del gruppo dai diversi partecipanti.

Se da un lato le difficoltà sopra evidenziate potrebbero indurre il Formatore ad escludere gli schemi esercitativi dalle proprie progettazioni didattiche, dall’altro il bravo Formatore sa che le esercitazioni in generale, e qualcuna più di altre, sono in grado di favorire già in aula un processo di cambiamento, perché impongono al partecipante l’assunzione di una specifica posizione psicologica in relazione al problema trattato. Nel role playing, ad esempio, il discente è direttamente aderente al ruolo giocato, è dentro la situazione che va svolgendosi in quel momento. Ciò facilita una partecipazione emotiva e soprattutto addestra al controllo delle proprie emozioni.

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Nello studio dei casi è invece un giudice esterno di una situazione già successa. Ciò favorisce la capacità di giudizio e addestra a una rilettura razionale.

E se in alcune forme di apprendimento l’attenzione va posta sull’obiettivo, quando ad esempio si intende trasmettere in quantità contenuti e conoscenze, incidendo così sulla sfera del Sapere e Saper Fare, in altre forme va invece posta essenzialmente sul processo, ad esempio quando il fine sia quello di favorire un cambiamento sostanziale, un diverso modo di porsi, un Saper Essere che necessita di una profonda revisione della propria Mappa e dei propri schemi comportamentali.

Il partecipante diviene così il principale artefice della propria espansione cognitiva e comportamentale.

Naturalmente un tipo di formazione capace di incidere su tali presupposti richiede requisisti di alta professionalità del formatore, che non dovrà essere un mero lettore di slide ma il “dottore” chiamato ad osservare, anche i sintomi nascosti o quelli taciuti, riflettere, entrare in sintonia, modificare, crescere e far crescere. Il bravo Formatore sa tutto questo e si adegua, formandosi a sua volta.

Esperienze e testimonianze Di seguito alcune esperienze di gestione dell’aula realizzate durante

l’erogazione di più edizioni del corso “Il Formatore alla Sicurezza sul Lavoro”, corso di specializzazione con esame abilitante AiFOS e corso Qualificato CEPAS (Organismo di Certificazione delle Professionalità e della Formazione) con il n. iscrizione 110, e la testimonianza di un Docente Qualificato Aifos6, che ha voluto raccontare la sua esperienza, prima da partecipante, poi da Formatore, al corso sopra citato.

Creazione e mantenimento del gruppo: aspetti metodologici Primo corso: l’analisi preliminare della composizione dell’aula ha

evidenziato una composizione costituita prevalentemente da consulenti, già formatori con una discreta esperienza sul campo, di età media. Dai colloqui preliminari all’attuazione del corso si è inoltre evidenziato una 6 Dott. Andrea Sarli, Docente Qualificato AiFOS, si occupa di prevenzione e valutazione dei rischi presenti negli ambienti di lavoro, garantendo una buona visione dell’argomento sia dal lato tecnico che trasversale. Le valutazioni di gradimento ottenute dalle sue docenze indicano sempre alta soddisfazione da parte dei partecipanti ai corsi.

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generale motivazione a frequentare il corso per ottimizzare le proprie capacità metodologiche, e una buona propensione al “mettersi in gioco”. Tali considerazioni preliminari favoriscono la decisione di impostare sin da subito un’attività formativa dove tutti possano avere la possibilità di confrontarsi, mettersi in discussione, proporre. Si fa pertanto strada l’idea di strutturare uno spazio, un contenitore dove nelle varie giornate far crescere la consapevolezza di una crescita comune.

Si accolgono pertanto i partecipanti in una maniera insolita, facendo trovare il setting di aula non strutturato in maniera rigida, bensì aperto a possibili soluzioni e cambiamenti. Le sedie sono tutte impilate, e sulla lavagna a fogli, posta davanti alla porta di ingresso all’aula, è scritta la frase: “Benvenuti al corso Formazione Formatori alla sicurezza. Vi trovate in uno spazio formativo aperto dove avrete la possibilità di sperimentare, s-cambiare, giocare. Trovate il vostro posto all’interno di questo spazio”.

Tale interruzione di modello7 suscita all’inizio visibili reazioni di sorpresa: nessuno sa bene come e dove collocare la propria sedia. Si assiste a una sequenza di possibilità di disposizione dell’aula che infine sfocia in una modalità piuttosto confusa e disordinata e comunque configurabile essenzialmente in un setting di tipo tradizionale (sedie poste in fila). Il coordinatore del corso, che ha il compito di introdurre l’attività formativa, osserva senza commentare. Il corso ha inizio con una presentazione guidata dei partecipanti e del docente della prima giornata.

Il giorno seguente, ripetendo l’esperimento delle sedie, il risultato creato è quello di una disposizione circolare. A questo punto il coordinatore effettua una rilettura della dinamica del gruppo, in maniera leggera (a mo’ di battuta) al fine di non appesantire di troppi significati psicologici il contesto, visto che il gruppo è ancora debole nella sua identità e struttura e una analisi “hard” potrebbe provocare reazioni di chiusura e diffidenza.

Secondo corso: l’analisi preliminare del gruppo aula evidenzia la presenza di partecipanti di età più matura, con curriculum assolutamente di alto livello, molti dei quali maturati in contesti aziendali pubblici e privati molto strutturati. Il Coordinatore del corso decide di non rischiare una modalità di apertura del corso troppo fuori dalle attese, che potrebbe risultare poco gestibile. Il corso viene aperto con un setting tradizionale. 7 Bandler, Usare il cervello per cambiare, Astrolabio, 1986.

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Il coordinatore nota che il gruppo è molto formale nei rapporti interpersonali, i partecipanti si danno del “lei” tra di loro e gli scambi tra i partecipanti appaiono molto limitati. Dopo qualche giorno, quando il clima in aula appare più caldo, il coordinatore si “sente di rischiare” e apre il corso ponendo la sedia del docente al centro di un cerchio nel quale vanno a sedersi tutti i partecipanti. Il setting d’aula appare quindi ai partecipanti con una sedia centrale chiusa da un cerchio concentrico. Appena essi, sorpresi, prendono posto, il docente sposta la propria sedia e la allinea al cerchio, andandosi così a collocare all’interno del gruppo già costituito. Ancora una volta ciò non viene spiegato.

Quando il corso volge ormai al termine, all’inizio dell’ultimo modulo, tutti i partecipanti vengono fatti entrare in un’altra stanza dove vi è un tavolo rotondo. Tutti si siedono. Il Coordinatore del corso, apparentemente lì per iniziare la normale attività di docenza, chiede ai partecipanti cosa hanno notato di strano in relazione al setting d’aula nelle giornate trascorse.

Naturalmente tutti hanno notato i cambiamenti di sedie, di posizioni e il cambiamento del clima di aula dalla prima giornata del corso in poi (tutti i partecipanti si danno del tu tra di loro e interagiscono moltissimo).

Il Coordinatore effettua la rilettura di quanto agito durante le singole giornate, motivando la sua decisione di procedere per gradi nella costituzione del gruppo e sottolineando la necessità di monitorare costantemente il feedback ricevuto.

In questo corso, parallelamente all’attività di Formazione, è stata effettuata un’attività di Meta-Formazione!

Testimonianza “Il progetto AIFOS sulla Formazione dei Formatori alla Sicurezza,

sicuramente ambizioso, oggi vede delle punte di eccellenza e il raggiungimento di alcuni miei obiettivi personali inizialmente non sperati.

Le poche righe seguenti fanno parte di alcune pratiche vissute, fortunate e pregne di emozioni, che ormai fanno parte di un formatore con alcuni anni di esperienza e di aula, ma che, dopo aver intrapreso il percorso formativo “Formazione ai Formatori” di AiFOS ha visto la questione con altri occhi e da un’altra prospettiva, quindi diversa, sicuramente più matura e completa.

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Dopo vari anni di formazione in contesti e situazioni di natura diversa, oggi mi trovo a narrare le mie esperienze in aula dove cerco di portare la professionalità e la competenza che una responsabilità del genere richiede.

Formare il Formatore, per di più nello specifico alla Sicurezza sul Lavoro, è inebriante, fantastico, eccitante ma… cosa fare?

Tutte le aule che ho incontrato,inizialmente reticenti, sono alla fine convogliate nell’obiettivo di vedere le stesse problematiche da punti di osservazione differenti, per trovare soluzioni diverse, motivando e stimolando ogni individuo, ogni lavoratore, ogni persona, a fare emergere quello che dentro il proprio intimo nutre, e che a volte non esterna per pudore o paura.

Tutte le aule che ho incontrato mi hanno dato ragione, quando i partecipanti, più consapevoli delle loro possibilità alla fine del percorso, si sono nuovamente cimentati in qualità di Formatori in nuovi processi formativi, possedendo nuovi strumenti, nuove metodologie e nuove opportunità. Tutte le aule che ho incontrato mi hanno dato ragione nel dire:“Sì, effettivamente non esiste solo la formazione delle slide e del computer”. Esiste una formazione fatta di aziende, esigenze, e quindi individui singoli ed unici che hanno dei bisogni che il formatore, tramite questi corsi, apprende ad osservare, interiorizzare e condividere con i propri gruppi di lavoro attraverso processi di tipo esperienziale, pratico, personale e di gruppo.

Tutte le aule alla fine del nostro percorso mi hanno detto, “Ho vissuto un’esperienza unica, all’inizio non credevo fosse così “forte”, così “formativa”!!

Cari colleghi, che leggete questo articolo, non vi nascondo che non riesco a nascondere il mio orgoglio per il lavoro svolto, per avere capito di avere fatto centro specialmente quando, a conclusione di un corso, contattato via mail o per telefono, mi sento dire: “Sai, tutto quello di cui abbiamo parlato, tutto quello che abbiamo condiviso, lo rivivo nei miei corsi in aula, in ogni momento di ogni mia docenza, e mi chiedo come abbia potuto finora fare bene il mio lavoro pluriennale di formatore, senza aver preso in considerazione questi elementi di fondamentale importanza…”

Vorrei terminare questo piccolo diario riflessivo, scorrendo a mente tutti gli amici incontrati durante questi percorsi, ricordando anche i momenti lieti e sereni che si instaurano in questo viaggio, sottolineando

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che dal mio punto di vista non esiste un buon formatore che non si metta in gioco, che non faccia mettere in gioco e che non permetta di giocare. Insomma, citando Pascoli, il Formatore, secondo me, dovrebbe mantenere le caratteristiche del “fanciullino”, e credo che questo percorso favorisca tale possibilità.

Mi auguro quindi di incontrare nel mio percorso tanti colleghi e futuri colleghi che decidano di cambiare in continuazione i loro occhiali per vedere il mondo della formazione sotto molti aspetti diversi, ricordando che ogni individuo è tale in quanto diverso dall’altro, anche in relazione al D. Lgs. n. 81/08 s.m.i. che è, ovviamente, uguale per tutti.

Chiudo con un pensiero al quale tengo molto e con il quale molto spesso saluto le mie aule: “Dimmi e dimenticherò, mostrami e forse ricorderò, coinvolgimi e comprenderò”8.”

Con convinzione affermo, in conclusione, che il vantaggio

competitivo di un buon formatore e progettista è proprio quello di avere una visione laterale, una apertura mentale al nuovo, la voglia di sperimentare, di giocare, di rischiare.

Questa convinzione suggerisce l’impegno di continuare nella ricerca di strumenti, modalità, contenuti e forme nuove e innovative per crescere e far crescere mediante una Formazione e dei Formatori di qualità e di spessore.

8 Confucio, filosofo cinese, 551 a.c. – 497 a.c.

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Comunicare il rischio

di Chiara Bellotti1 L’assetto normativo vigente in campo sicurezza assegna un ruolo di

primo piano ai processi informativi e formativi che diventano elementi essenziali e basilari contro gli infortuni e le malattie professionali.

Saper riconoscere il rischio è condizione indispensabile sia per gli addetti ai lavori, che studiano e indagano le cause di comportamenti e percezioni errate, sia per i lavoratori, al fine di evitare infortuni.

Il passo successivo diventa quello di trovare le strategie, gli strumenti ed i metodi per poter diffondere, “comunicare” in maniera strategica ed efficace il rischio e il pericolo, nei diversi contesti lavorativi. Saper comunicare il rischio risulta una delle Key competence delle figure designate per la prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro (RSPP –RLS – Servizio di prevenzione e protezione, datore di lavoro, formatori, etc).

La sola informazione non basta, risulta indispensabile cercare nuove strategie che riescano a sviluppare nel lavoratore, una valutazione del rischio durante l’attività lavorativa, un’analisi delle buone e cattive pratiche messe in atto, e nuove azioni di miglioramento, volte a sviluppare un’operante cultura della sicurezza.

Entra in campo il ruolo del formatore alla sicurezza, come colui che padroneggia linguaggi e metodi in grado di facilitare l’apprendimento durante i percorsi formativi, e il ruolo di figure atte alla prevenzione e protezione nei diversi contesti lavorativi, come coloro che comunicano quotidianamente durante le pratiche lavorative con i diversi attori (lavoratori, capi reparto, dirigenti, ecc) e collaborano alla progettazione di procedure, spazi, momenti dedicati alla sicurezza nelle diverse aree/reparto aziendali. Il presente contributo vuole offrire una breve 1 Esperta nei processi formativi, collabora a vario titolo ad attività di ricerca e formazione presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia. Si occupa di formazione in ambito sicurezza sul lavoro.

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Chiara Bellotti

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analisi degli strumenti informativi-comunicativi della sicurezza, formali ed informali, che gli addetti ai lavori (formatori, datori di lavoro, RSPP, RLS, ecc..) possono utilizzare durante i diversi momenti di informazione e formazione ai lavoratori.

Risulta necessario un breve accenno sull’importanza di un flusso comunicativo aziendale ben organizzato e strutturato. Un contesto lavorativo, dove le informazioni e i messaggi positivi alla sicurezza passano in maniera verticale (dirigenza/datore di lavoro-lavoratori) e in maniera orizzontale (lavoratore-lavoratore), porta inevitabilmente alla diminuzione di interferenze, incomprensioni, interpretazioni dei messaggi “sicuri” nei diversi lavoratori che operano e rischiano quotidianamente.

Questo significa pensare ad un luogo di lavoro in cui tutti i diversi stakeholder aziendali2 interni conoscono perfettamente gli obiettivi aziendali legati alla sicurezza, regole, compiti, ruoli assegnati, rischi e pericoli legati alla loro attività lavorativa.

Una buona comunicazione interna garantisce che tutte le persone coinvolte nel raggiungimento di un obiettivo/risultato (produttivo o di sicurezza) siano informate sull’andamento delle attività, ricevano un feedback dai superiori, siano in grado di comprendere i diversi processi lavorativi messi in campo e finalizzare le proprie azioni verso comportamenti sicuri.

La mancanza di una corretta informazione porta inevitabilmente a situazioni di insicurezza lavorativa e di processo.

Informazioni, regole e procedure poco chiare, non esplicitate formalmente, inducono il lavoratore ad una situazione di confusione rispetto ai compiti da eseguire, conflitto tra ciò che è importante per me come singolo e le priorità aziendali ed una dispersione del tempo dedicato al cercare informazioni per un lavoro in sicurezza.

Costruire un contesto organizzativo che coinvolga il lavoratore, favorisca partecipazione, valorizzi le buone pratiche e condivida il valore della sicurezza diventa una priorità.

2 Stakeholder aziendali: con il termine stakeholder (o portatore di interesse) si individuano I soggetti influenti nei confronti di un’iniziativa economica, sia essa un’azienda o un progetto. Fanno parte di questo insieme I clienti, I fornitori, I finanziatori (banche e azionisti), I supporter, ma anche gruppi di interesse esterni, come I residenti di aree limitrofe all’azienda o gruppi di interesse locali. La definizione fu “upport” e nel 1963 al Research Institute dell’Università di Stanford da Edward Freeman: “Stakeholder come I soggetti senza il cui “upport” l’impresa non è in grado di sopravvivere”.

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Un luogo di lavoro che sposa la logica del Knowledge Management3, facilita convivenza “produttiva”, motiva e avvalora le molteplici soggettività che operano in essa4, riconoscendole come promotrici di buone pratiche.

In questa prospettiva si può pensare al lavoratore, non solo come colui che partecipa alla vita lavorativa, a progetti di formazione aziendale, ma come soggetto diffusore di comportamenti sicuri e cultura della sicurezza in azienda e al di fuori (vita privata, realtà sociale).

Il contesto lavorativo diventa luogo di educazione alla sicurezza, dove il processo educativo poggia sull’informazione e sulla formazione, l’acquisizione di schemi comportamentali dove il soggetto viene sollecitato a leggere le diverse situazioni pericolose. Da qui la necessità, di offrire strumenti e criteri di valutazione, che permettono al lavoratore di intervenire rispetto a se stesso e agli altri colleghi, al fine di favorire ambienti operativi ispirati dal tema della reciprocità relazionale assecondando forme di responsabilità verso se stessi e verso gli altri.

Ciò spinge ad asserire che la formazione e l’informazione alla sicurezza esigono il potenziamento di competenze comunicativo-relazionali da parte del lavoratore, e di tutti gli attori del contesto organizzativo, ossia quella capacità di mettersi in relazione con altre persone che agiscono e si trovano nello stesso luogo, spazio e tempo.

Comunicare la sicurezza non significa, solo, emettere dei messaggi ben costruiti (comunicazione verbale), ma allo stesso tempo mettere in atto buone azioni, comportamenti sicuri (comunicazione non-verbale), attraverso il “buon esempio” da parte dei capi e della dirigenza.

Spesso nei contesti produttivi, “il capo”, riprende e rinforza continuamente nel lavoratore l’utilizzo dei DPI, ma non porta il buon esempio indossando i DPI durante la fase lavorativa, contraddicendo

3 Knowledge Management: filone di ricerca teorica e applicativa che sviluppa il ciclo della conoscenza all’interno di una comunità di pratica o d’apprendimento (azienda). Si focalizza su come poter mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro. Questa logica spinge il knowledge management a diventare un sorta di “filosofia” della collaborazione e della condivisione negli ambienti di lavoro. 4 L. Pati, Il rischio scelto, La scuola, Brescia, 2010.

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quindi ogni messaggio mandato. Serve, da parte di ogni stakeholder aziendale la presa in considerazione che comunicare il rischio significa adottare quotidianamente comportamenti sicuri.

Questo assunto prende ancor più rilievo quando all’interno del reparto sono presenti lavoratori stranieri, con una scarsa padronanza della lingua italiana e dei diversi linguaggi tecnici e produttivi del caso, dove ripetere e comunicare continuamente informazioni sulla sicurezza risulta meno efficace rispetto all’osservare colleghi e/o capi che adottano buone azioni; questo genererà a sua volta ulteriori comportamenti sicuri.

La costruzione di una comunicazione efficace accompagnata da buone azioni assume, quindi, un ruolo fondamentale per la diffusione di una modalità di pensiero e il consolidamento di comportamenti aziendali condivisi.

È proprio il contesto organizzativo il luogo dove poter sperimentare in maniera strategica i diversi strumenti comunicativi formali come la riunione della sicurezza, circolari, avvisi, lettere, mail, report, cartellonistica, utilizzo di supporti audio-video.

Non basta utilizzare questi diversi strumenti informativi previsti dall’assetto normativo vigente, ma risulta indispensabile pensarli, progettarli e costruirli ad hoc in relazione agli obiettivi aziendali e agli obiettivi di apprendimento, costruire una progettazione partecipata, che coinvolga i diversi interlocutori aziendali, per la realizzazione della riunione della sicurezza, della cartellonistica, dei report durante i diversi momenti dedicati all’informazione e alla formazione dei lavoratori.

Progettare in maniera partecipata significa condividere obiettivi da raggiungere, stili di comportamento e di azione, metodologie di diffusione dei messaggi, strategie d’azione. Progettare una riunione della sicurezza vuol dire avere pensato, per tempo, agli obiettivi da raggiungere, stabilire un ordine del giorno, i temi da trattare, raccogliere dati significativi da presentare in maniera efficace, costruire una scaletta dell’intervento (time table), preparare i materiali, scegliere le metodologie di gestione della riunione e trovare spazi idonei alla presentazione (setting).

Tutto ciò implica la costruzione di competenze pedagogico-didattiche da parte del formatore/conduttore della riunione. Ritengo strategico riflettere sull’importanza della costruzione di uno strumento di supporto al formatore (slide), oggi largamente utilizzato durante la gestione delle riunioni della sicurezza, spesso erroneamente interpretato come “fare

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formazione”. Anche per le slide è necessaria la fase di progettazione: le slide sono un ausilio al relatore, e non un sacco in cui infilare informazioni a casaccio. Ogni formatore dovrebbe progettare e costruire i propri strumenti di supporto, perché anch’essi lo rappresentano. Le slide inoltre devono essere leggibili e chiare; l’utilizzo dei colori, dei caratteri e delle immagini deve accompagnare tutto il percorso riflessivo che si intende far percorrere agli uditori.

Durante le riunioni della sicurezza oltre alle slide vengono proiettati grafici relativi a dati tecnici, infortuni, rischi e situazioni pericolose.

Una tecnica efficace di comunicazione di dati significativi ed importanti è l’infografica (Information graphic o infographic) che si occupa principalmente dell’organizzazione e della rappresentazione di dati e informazioni in forma grafica. Ha il compito, non sempre semplice, di rendere visibili le parti nascoste, semplificare le nozioni complesse e comprensibili solo dagli addetti ai lavori (notizie di carattere tecnico e scientifico), evidenziare quegli argomenti che si nascondono fra le righe di una serie di informazioni. L’infografica è frequentemente utilizzata nei giornali, nelle riviste scientifiche, nei saggi, nei manuali d’istruzioni o di statistica, nei libri di testo scolastici.

È molto diffusa come strumento informativo da parte di matematici, statistici e informatici per semplificare i processi di sviluppo e comunicazione di informazioni astratte5. Durante la riunione della sicurezza l’infografica è lo strumento grazie al quale è possibile comprendere in modo immediato concetti articolati e renderli accessibili ad un pubblico meno esperto. Ideale per spiegare i risultati di ricerche, analisi di dati, andamento infortuni, ecc,ecc. Rappresentazioni grafiche sintetiche che comprendono dati di tipo quantitativo (grafici, numeri, percentuali) attraverso una visualizzazione grafica, e dati di tipo qualitativo (spiegazioni, legende, ecc). La rappresentazione grafica delle

5 L’infografica fa parte della nostra vita quotidiana, un qualsiasi elemento grafico che rappresenta dei dati o delle informazioni, foglietti illustrativi, cartine geografiche, grafici, immagini. In riferimento alla tematica della sicurezza sul lavoro, è possibile trovare numerosi esempi di infografica nella sezione “Dati Inail” presenti sul sito www.inail.it . In rete esistono numerosi siti e blog che permettono a chi fosse interessato di poter creare le proprie infografiche.

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informazioni (infographic) può rendere più “digeribili” dati e statistiche anche per chi non ha molta dimestichezza con i numeri e la lettura di grafici. Per l’utilizzo di questo strumento di comunicazione sono necessarie da parte del formatore o del conduttore della riunione una serie di competenze grafiche ed informatiche.

Durante i momenti formativi ed informativi della sicurezza, vengono utilizzati frequentemente video e filmati di sensibilizzazione dal contenuto persuasivo, per sollecitare riflessioni, colpire ed emozionare il partecipante. I filmati, ripercorrono situazioni di infortunio attraverso immagini, fortemente evocative, per comunicare le conseguenze negative di un comportamento poco sicuro.

Queste forme di immagini appartengono al modello teorico della fear appeal6 (comunicazione intimidatoria) che, suscitando paura, portano ad un cambiamento comportamentale.

Con il termine fear appeal si intende un messaggio elaborato con l’intenzione, da parte dell’emittente, di suscitare timore o paura nel destinatario. Sono pertanto fear appeal tutti quei messaggi che contengono rappresentazioni visive e/o verbali che mostrano, in maniera più o meno realistica, le conseguenze negative dell’aver seguito i comportamenti a rischio. Per essere considerato tale il messaggio deve essere stato elaborato con l’intenzione di suscitare paura nel soggetto destinatario, per cui gli elementi intimidatori nei fear appeal sono presenti in maniera chiara e importante. Tipicamente le immagini fear appeal hanno due componenti: la minaccia del messaggio delinea le conseguenze negative di un determinato comportamento, la risposta raccomandata descrive invece i comportamenti da attuare. Questo modello teorico di comunicazione pone un forte accento sulle emozioni suscitate che intervengono sui processi cognitivi dell’uditore. Forte impatto emotivo ed evocativo attraverso l’uso di immagini con descrizioni vivide delle conseguenze di un incidente, feriti, sangue, ecc, laddove un effetto positivo dei messaggi intimidatori è registrato, tale effetto diminuisce nel tempo.

6 Per approfondimenti: Witte K, Allen M. A meta-analysis of fear appeals: implication for effective public health campaigns. Health Education & Behavior 2000; G. Gadotti, Pubblicità Sociale. Lineamenti, sviluppi e nuove esperienze, FrancoAngeli, Milano, 2001.

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L’effetto positivo di immagini appartenenti a questo modello teoric spesso si registra solo in presenza di soggetti con determinate caratteristiche psicologiche, se il messaggio è troppo forte il soggetto tende a credere che non lo riguardi e che non sia possibile che accada a lui, in misura uguale si verifica lo stesso effetto se il messaggio è troppo debole.

La fear appeal in campo formativo può essere un supporto evocativo, il formatore può utilizzarla con molta accortezza, in relazione alle esperienze e alle personalità degli individui presenti.

Oltre ai momenti di formazione aziendale, le riunioni della sicurezza e le diverse metodologie didattiche a disposizione del formatore e degli addetti alla prevenzione, esistono numerosi strumenti aziendali “formali” della comunicazione alla sicurezza quali la cartellonistica, le circolari informative, i tabelloni elettronici indicanti il numero degli infortuni, ecc, ecc. Questi strumenti dedicati alla comunicazione al rischio sono posizionati in azienda accanto alle macchine, nei luoghi di passaggio, inviati in prossimità di avvenimenti aziendali particolari (certificazioni, verifiche, progetti di sensibilizzazione, ecc). La loro esposizione per un periodo troppo prolungato porta il lavoratore ad abituarsi al messaggio indicato, questo naturalmente non è il caso della cartellonistica obbligatoria prevista dalla normativa vigente. Risulta strategico pensare al loro utilizzo in maniera diversa, posizionare messaggi di sensibilizzazione, comunicazioni di dati relativi al numero degli infortuni, convocazioni delle riunioni, comunicazioni aziendali importanti, in spazi “informali”, come gli spazi adibiti al ristoro, la macchinetta del caffè, la mensa, gli spogliatoi, gli ingressi, le bacheche dedicate ai lavoratori. Questa modalità alternativa di comunicazione al rischio non deve però dimenticare gli strumenti solitamente utilizzati e previsti dalla norma. Lo spazio informale aiuta a dare continuità ai messaggi inviati dai referenti aziendali durante la pratica lavorativa, il loro obiettivo è quello di sollecitare continuamente riflessioni, rinforzare alcuni messaggi e far ricordare al lavoratore che la sicurezza permea tutta la vita dell’individuo e si radica nel tessuto umano delle relazioni organizzative.

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La percezione del rischio di Maria Simonetta Spada1

Un terreno complesso

Ormai da qualche anno sono presenti in commercio i “copriprese” commercializzati allo scopo di proteggere i bambini da possibili incidenti domestici. Il fine assolutamente nobile e la praticità dello strumento ne hanno, mi pare, promosso una diffusione capillare.

Attraverso questo escamotage abbiamo oggi messo i bambini in sicurezza rispetto a questo rischio? Spero non me ne vogliano gli inventori e i produttori di questi peraltro utilissimi aggeggi, ma credo che la risposta univoca non possa che essere negativa. O meglio, finché il bambino si trova in un ambiente dotato dello strumento di sicurezza è al sicuro, ma tutti sappiamo che, trovandosi di fronte ad una presa di corrente non protetta, il bambino non sarà in grado di valutarne il potenziale rischio. Un tempo, mi spiegava mia nonna, si esponevano i bambini ad un rischio “dosato” per permettere loro di fare esperienza e di imparare, in questo modo, ad interfacciarsi con la realtà facendo una stima del rischio basata sul ricordo dell’esperienza. Eppure, diceva sempre mia nonna, c’era il bambino che, malgrado avesse verificato di persona gli effetti conseguenti, insisteva ad avvicinarsi alle prese e allora subentravano

1 Psicologo Psicoterapeuta Responsabile Unità di Psicologia Clinica Azienda Ospedaliera Ospedali Riuniti di Bergamo Professore a contratto a titolo gratuito del Corso di “Psicologia del Lavoro” presso il Corso di Laurea in Ostetricia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca e presso il Corso di Tecnici di Radiologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca.

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un’attenta spiegazione prima e un sonoro castigo poi, ma, a volte, anche quest’ultimo deterrente non era sufficiente al piccolo esploratore.

Peraltro esplorare ed assumersi una certa dose di rischio rappresenta una caratteristica fondante della crescita. Intendo dire che la percezione e la rappresentazione del rischio si coniugano con la possibilità di valutare quale livello di rischio siamo in grado di assumere. Pensare al concetto di rischio e pericolo rimanda, quasi inevitabilmente ad un’accezione negativa, ma, nella realtà, se ci astenessimo da qualunque esposizione a pericoli escludendo il rischio dalla nostra vita, saremmo fermi ai blocchi di partenza.

Il quesito centrale, infatti, resta quello relativo a come si modula

l’esposizione e come si educa a proteggersi dal pericolo. Questo tema attraversa la pedagogia come la sanità, il mondo del lavoro come quello del tempo libero.

Il grado di complessità è davvero elevato. Alcune cose le stiamo imparando a spese nostre.

Pensiamo al fumo di sigaretta. Da ormai alcuni anni (legge 428 del 1990) sui pacchetti di sigarette è d’obbligo la scritta: “il fumo nuoce gravemente alla salute” o diciture analoghe. È quindi indubbio che un fumatore non analfabeta sia informato del rischio che assume nella condotta che prevede l’accensione e il consumo della sigaretta eppure le scritte non ne hanno diminuito l’uso; al contrario, oggi assistiamo ad un ritorno al consumo nelle fasce dei più giovani. Parliamo di sigarette per ancorarci ad un esempio pratico, ma potremmo spostarci agevolmente nei territori attraversati dall’alcol o al contesto della guida, etc.

La questione pare non potersi spiegare esclusivamente tenendo conto del continuum che vede paradigmaticamente contrapposto il concetto del fare esperienza a quello dell’essere informati. Ci sono infatti molti altri piani che intersecano la percezione del rischio, la sua rappresentazione e le condotte conseguenti che potremmo chiamare: i piani dei posizionamenti.

Esiste un piano di posizionamento che rimanda al contesto socio economico culturale e politico nel quale ognuno è inserito. Tale posizionamento funge da cornice all’organizzazione del dato di realtà.

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Che la realtà non sia percepita oggettivamente è una di quelle informazioni che abbiamo da molto tempo e che tendiamo a dimenticare. L’evidenza che ciò che è pericoloso per me, in Europa, oggi non è sovrapponibile a ciò che è fonte di pericolo in Iraq, ci aiuta a ricalibrare. L’esempio più classico è rappresentato dalla presenza delle armi come oggetto del quotidiano depauperato del suo essere altamente rischioso e utilizzato anche nell’età della fanciullezza con conseguenze devastanti, in un paese che è stato per anni teatro di guerra rispetto ad un contesto, come è il nostro, dove le armi vengono perlopiù associate al gangster della televisione, ma nella realtà sono considerate oggetti estremamente pericolosi che gli adulti, se non costretti, non maneggiano e assolutamente precluse ai bambini.

Hisaya Sugiyama Presidente dell’AIA giapponese (sezione dell’America Institute of Architects) nel marzo 2011 a Tokyo ha detto:

“many people in the coastal community did not rush to high grounds after the tremor because they had been accustomed to the “crying wolf” of tsunami alarms, and had a false sense of security with massive “state of the art” anti-tsunami levees built along the shorelines, which were in a sense proud symbols of technological progress and political maneuvering.”

Anche davanti a rischi così importanti per la sopravvivenza a cui, ad esempio, gli animali reagiscono istintivamente, gli uomini si comportano in base ad una molteplicità di fattori e di considerazioni in parte soggettive, ma perlopiù appartenenti ad un pensiero gruppale.

Dall’analisi statistica dei dati di uno studio sulla percezione e rappresentazione del rischio in gruppi di lavoratori di diverse etnie e culture occupati in edilizia2 si è potuto verificare che l’appartenenza culturale costituisce una variabile rispetto alla percezione e rappresentazione dei rischi. L’analisi per etnia ha fornito diverse situazioni, con differenti valutazioni dei pericoli e delle modalità di prevenzione e di protezione da adottare rendendo evidente come la cultura di appartenenza può giocare un ruolo molto importante nel percepire il rischio e nell’adottare comportamenti cautelativi o imprudenti.

2 Per approfondimenti: http://www.osservatorioprevenzione.eu/LaboratorioDiIdee/Lavori/De% 20Pasquale_Fabrizio_La_percezione_e_rappresentazione_del_rischio%20Tesi%.

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Ci siamo dunque addentrati in un territorio dove due piani si intersecano, ma se i piani fossero solo questi due si potrebbe azzardare una mappa dei pericoli per fasce omogenee in un dato contesto e settore. Questa mappa, da rivedere possibilmente ogni quinquennio, si dovrebbe poi modulare lungo il continuum di cui abbiamo parlato poc’anzi che si dipana tra esperienza e informazione.

Esistono però, dicevamo, altri posizionamenti. Consideriamo, inoltre, i posizionamenti familiari. Ogni famiglia ha il

suo, o i suoi, Ercole. Ogni famiglia coltiva un grado di esposizione al rischio e al pericolo sotteso che ha a che vedere con la sua storia, con le sue tradizioni e con i suoi valori, ma si spinge anche oltre.

Quelle famiglie che, ad esempio, coltivano la passione per gli sport estremi avranno, almeno per quello specifico, una percezione e valutazione del rischio e della loro abilità nel fronteggiamento del rischio stesso sbilanciata sul versante dell’esposizione. Esistono poi nuclei familiari che, oltre a tenersi a distanza di sicurezza dagli sport estremi, conducono uno stile di vita improntato al timore e alla prudenza e crescono i figli addestrandoli all’evitamento di ogni situazione percepita come potenziale fonte di pericolo.

Potremmo evidentemente affrontare il medesimo discorso dal punto di vista dei gruppi professionali. Siamo abituati a pensare al muratore come molto più temerario del ragioniere. L’iconografia comica stigmatizza un paurosissimo ragionier Fantozzi che si spaventa praticamente per tutto ciò che lo circonda e ce lo fa contrapporre a personaggi muscolosi e forti che non temono il lavoro faticoso e le intemperie facilmente identificabili in professioni come quella del muratore.

Non stiamo certo parlando qui di singoli, bensì di categorie. Il senso di appartenenza mobilita in ognuno di noi, nel bene e nel male, dei comportamenti che hanno senso nella misura in cui ci aiutano ad identificarci col gruppo. So di non dire cose nuove, anzi il mercato conosce così bene questo meccanismo che lo piega alle logiche commerciali, ma torniamo al rischio. Il direttore della Scuola Edile di Bergamo mi spiegava come fosse fondamentale gestire l’inserimento lavorativo degli studenti della scuola affinché fossero promotori delle buone pratiche nella percezione, valutazione e gestione del rischio, anche attraverso l’uso dei DPI previsti. L’effetto contagio rischiava infatti di invalidare l’accurata formazione. Nel tentativo di assimilarsi al gruppo ed ai suoi valori e la stretta vicinanza a coloro i quali, per anzianità

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lavorativa, spesso tendono a sottovalutare il rischio, il giovane muratore pareva disposto a lasciare che le sue buone pratiche venissero derubricate ad aspetti meramente teorici.

Ecco allora che all’aumentare della nostra complessità non ci resta che

attrezzarci per trovare chiavi di lettura che, partendo dalle specificità, ci mettano nelle condizioni d’intercettare e gestire i meccanismi che sottendono la percezione del rischio. Rischio, che viene definito come la valutazione della probabilità che la persona entri in contatto con un pericolo e la gravità del potenziale danno (Yates & Stone, 1992) e che sottende un pericolo.

Non vorrei però dimenticare uno dei posizionamenti più importanti e specifici: il posizionamento personale.

Gli studi sul funzionamento cognitivo spiegano che ci sono differenti modi di processare l’informazione, in ogni caso gli individui, nello stimare un evento rischioso, non si affidano al modello statistico di probabilità oggettiva, bensì “formulano delle stime personali che possono essere influenzate sia da una serie di parametri soggettivi quali, tra gli altri, le proprie esperienze personali (Brehmer, 1987; Weinstein, 1989), la conoscenza diretta o indiretta dell’evento (Berger, 1998), nonché la possibilità di esercitare o meno un controllo su di esso (Horrens e Buunk, 1993; Otten e van der Plight, 1996) ma anche da variabili emotive (Mehta e Simpson-Housley, 1994; Gasper e Clore, 1998) e da caratteristiche di personalità (Twigger-Ross e Breakwell, 1999; Källmen, 2000; Sjöberg, 2003)”3.

Nei percorsi formativi in cui mi sono trovata, ad esempio nel contesto AiFOS, a parlare della percezione del rischio ho chiesto ai partecipanti di esprimersi. Cosa penso in questo momento della mia vita del rischio e del pericolo, come li percepisco e come li valuto sono, a mio parere, uno dei punti centrali per affrontare un tema come questo nel complesso intreccio che abbiamo cercato di dipanare.

Come sostengono Kaneklin e Scaratti4 “non si può parlare di formazione al di fuori del riconoscimento della sua connessione a processi di elaborazione e di pensiero verso un’ipotesi di apprendimento

3 http://www.scienzaonline.com/index.php?option=com_content&view=article&id=2536:quisque-leo-non-malesuada&catid=284:antropologia&Itemid=556. 4 Kaneklin C., Scaratti G. “Formazione e narrazione” Raffaello Cortina Editore, Milano, 21-22.

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dell’esperienza come valorizzazione dei contesti e delle situazioni operative all’interno delle quali i soggetti si trovano a costruire il rapporto con la realtà e la loro storia professionale e lavorativa”

Luca Pietrantoni, Psicologo della Salute, ha presentato un esperimento

relativo all’efficacia di messaggi circa la vaccinazione antinfluenzale (rischio di sviluppare una complicanza, pericolo rappresentato dal virus) ad una popolazione la cui età era superiore ai sessantacinque anni.

Dalla sua ricerca risulta che lo strumento più efficace è il messaggio narrativo.

Tra i fattori che ne costituiscono il vantaggio Pietrantoni stesso indica: • la maggiore comprensibilità; • l’identificazione, il coinvolgimento e l’attivazione di

emozioni; • la vicinanza di storie credibili vissute da persone simili al

ricevente.

La prossimità delle storie narrate, sia essa fisica o emotiva, al contesto sociale e culturale risulta essere, quindi, un fattore predittivo di successo ed efficacia. La via indicata per sensibilizzare su temi che riguardano il concetto di rischio e di pericolo è dunque quella che partendo dalla soggettività chiama in causa il piano emotivo e costruisce un senso.

Il concetto di “sensemaking” è ben espresso nel suo nome, che letteralmente indica la costruzione del significato.

L’attribuzione personale del significato al concetto di rischio deve fare i conti con la necessità di una rete di relazioni che dà un senso e un significato diverso al rischio ed alle strategie per affrontarlo.

Ciò definisce l’interdipendenza nella sicurezza e la capacità di negoziare significati condivisi.

Weick5 sostiene che “le organizzazioni attribuiscono significati in modo specifico e talora originale agli eventi ed agli stimoli sia interni che esterni” ed ancora “possiamo considerare le organizzazioni come sistemi culturali con valori propri, modalità proprie di interpretare i fatti e attribuire senso agli eventi”.

5 Karl E. Weick , “Senso e significato nell’organizzazione” Raffaello Cortina Editore, Milano.

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Un’esperienza di ricerca In “La percezione e rappresentazione del

rischio nei cantieri edili: uno studio esplorativo”, che ho contribuito a realizzare qualche tempo fa, si cercava proprio di dare risposte a domande su cosa sia il rischio, quali attività siano pericolose e perché lo siano, in un settore come quello edile, da sempre afflitto da un elevato tasso infortunistico e da una elevata incidenza di malattie professionali.

Questo studio esplorativo e sperimentale si poneva l’obiettivo di approfondire i meccanismi sottostanti alla percezione e alla rappresentazione del rischio e le conseguenti scelte operative in una categoria spesso alla ribalta della cronaca per incidenti sul lavoro. Ulteriore obiettivo era offrire spunti di riflessione e formazione per gli operatori del settore, un aiuto nella progettazione di strategie, linguaggi e mezzi per efficaci azioni di prevenzione di condotte a rischio e, dulcis in fundo, la possibilità di costruire uno strumento predittivo dei comportamenti stessi.

Lo studio si è articolato principalmente in quattro fasi: nella prima è

stata effettuata una rassegna della letteratura, raccolti di studi precedenti, pareri di esperti. Successivamente si è passati all’osservazione del contesto del lavoro ed all’identificazione di fotografie stimolo; in una seconda fase sono stati condotti dei focus group6 con lavoratori e successivamente con studenti della scuola edile, al fine di raccogliere la percezione soggettiva di ciascuno attraverso uno strumento tipico della ricerca qualitativa.

La terza fase e la quarta fase hanno visto rispettivamente la conduzione di alcune interviste a soggetti identificati in qualità di osservatori privilegiati e l’analisi dei dati raccolti.

6 Focus group è una forma di ricerca qualitativa, in cui un gruppo di persone è interrogato riguardo all'atteggiamento personale nei confronti di un tema specifico.

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All’interno dei focus group con i lavoratori, presso la sede della scuola edile, venivano proposte a questi ultimi una serie di fotografie con situazioni tipiche di cantiere e si chiedeva loro di stimarne, in modo individuale, il grado di rischio. Il passaggio successivo prevedeva un confronto delle singole valutazioni all’interno del gruppo con il compito di negoziare le differenti posizioni per giungere ad una scelta condivisa. Sia la posizione di partenza che quella ottenuta come effetto della mediazione, entrambe espresse in forma numerica, venivano registrate.

Dai risultati della ricerca è stato possibile cogliere come le discussioni che si realizzavano nei piccoli gruppi e venivano riassunte per spiegare gli scostamenti tra la prima valutazione e la seconda, chiamavano in causa elementi quali l’esperienza del singolo, la formazione, l’anzianità di servizio, la conoscenza del singolo strumento nella costruzione di un’articolata mappa che prevedeva ampi margini discrezionali e soggettivi.

Alcuni elementi di sintesi emersi dalla ricerca riguardano, ad esempio, la percezione di maggior rischio in situazioni che potevano portare a ferimenti, a cadute dall’alto o a caduta di pesi. Meno rischiose, risultavano invece, le situazioni in cui mancavano adeguati DPI o in cui c’era movimentazione di carichi.

In generale si evinceva la tendenza a stimare come meno rischiose le situazioni che portano a conseguenze differite nel tempo, come ad esempio l’esposizione a rumore. Un altro dato che merita una riflessione a sé stante è relativo all’età. Dalla ricerca risulta una variabile influente sulla percezione del rischio poiché sono proprio i più giovani che ne hanno una percezione minore. Questo dato, in controtendenza con il valore esperienziale nell’acquisizione di confidenza d’uso, potrebbe essere inquadrato nell’ottica di quel posizionamento personale che induce nel giovane una percezione di sé come più abile nel destreggiarsi in situazioni di potenziale rischio. Inoltre, perfino di fronte a infortuni pregressi, sembra che la sensibilizzazione si limiti all’esposizione a quello stesso rischio che ha prodotto l’infortunio.

Infine, le stime di rischio fornite dai gruppi sono risultate mediamente maggiori se confrontate con le medie delle risposte dei partecipanti date individualmente. Tali stime sembrano rispecchiare posizionamenti più prudenti del gruppo rispetto al singolo.

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Un elemento che ho trovato di grande interesse è relativo ad un fatto che illustro attraverso un esempio: una sega circolare senza cuffia veniva indicata come pericolosa. Una sega circolare coperta con una cuffia bloccata da un legno, e quindi resa inutile, veniva percepita sicura come una con il DPI utilizzato regolarmente. Aprendo con i partecipanti una discussione su questo punto ci siamo resi conto di come la necessità di manovrare una macchina velocemente induca delle abitudini che non opponendosi palesemente alla buona prassi (il dispositivo di protezione è presente anche se reso inutile) sono difficili da rimettere in discussione. Vengono in mente le parole dell’antropologo Edward T. Hall che parla di “un meccanismo di selezione culturale che sposta, per così dire, gli oggetti dell’attenzione sociale dallo sfondo verso il proscenio e viceversa. Ciò che è relegato sullo sfondo, pur esistendo, non entra a far parte dei sistemi di norme e valori che regolano effettivamente il comportamento di un sistema sociale e culturale ”7.

La ricerca cercava anche di comprendere se, per il campione dei lavoratori del settore, l’attività edile venga considerata pericolosa.

Dalle interviste e dai dati raccolti risulta che per almeno un terzo degli operai non lo sia per niente o, comunque, poco.

E quali sarebbero, quindi, i principali rischi? Per quasi l’80% degli intervistati sono le cadute, seguite da tagli e ferimenti (63%) e dalla caduta dei pesi (47%). Meno considerati i rischi legati alle sollecitazione delle articolazioni (11%) o derivanti da pericoli quali polveri (11%) e condizioni igieniche (5%).

Quali, invece, i fattori rilevati che influiscono sul rischio? In risposta a questa domanda sono stati indicati tra i fattori organizzativi, la fretta, l’organizzazione del cantiere e la dimensione dell’azienda; tra quelli personali alcune caratteristiche della personalità (come la fiducia in sé o il desiderio di mettersi alla prova), la preparazione, l’esperienza e gli eventuali infortuni pregressi; tra i fattori di gruppo la tendenza al conformismo, l’imitazione di modelli sbagliati, il desiderio di appartenenza, ...; infine i fattori culturali sono considerati come un elemento influente ma trasversale (l’insieme di “valori, credenze, significati che caratterizzano individuo, gruppo e organizzazione”).

7 In Annalisa Cicerchia “Il bellissimo vecchio. Argomenti per una geografia del patrimonio culturale”.

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Tutti i dati sopra riportati andrebbero sicuramente rivalutati con un campione più ampio, ma offrono comunque ampi spunti di riflessione non da ultimo per la scelta di far chiamare in causa proprio i lavoratori e chiedere loro di ripensare i percorsi per valutare dove e come intercettano la dimensione del pericolo e del rischio a questo connesso.

È evidente, comunque, che nella rappresentazione del rischio da parte degli operai intervengono diverse “variabili di natura personale, organizzativa, gruppale e culturale” funzionando da modulatori tra “la percezione del rischio e l’assunzione di comportamenti rischiosi”.

Quale sguardo operativo? È possibile allora calcolare il rischio? Che spazio si deve riconoscere

al contesto? Quanto al singolo? Quanto al gruppo? Quanto alla multidisciplinarietà? Quanto alla rappresentazione sociale di quel rischio specifico?

Valutare la decisione di assumere un comportamento dopo aver

percepito, stimato e valutato il rischio da soli o in un gruppo è un processo che intercetta il livello psicologico, sociale e organizzativo. Ognuno, singolarmente e/o in gruppo, può e deve fare qualcosa affinché il rischio percepito sia il più possibile sovrapponibile al rischio reale, riducendo così sempre più la discrepanza tra la percezione soggettiva del rischio e del pericolo e la loro valutazione oggettiva.

Promuovere l’empowerment inteso come quel “processo dell’azione sociale attraverso il quale le persone, le organizzazioni e le comunità acquisiscono competenza sulle proprie vite, al fine di cambiare il proprio ambiente sociale e politico per migliorare l’equità e la qualità di vita”8 è probabilmente oggi l’arma più potente a nostra disposizione.

La percezione di se stessi come portatori di valori e di cultura consapevoli del proprio ruolo sociale, lo sviluppo di sentimenti di efficienza personale rispetto all’organizzazione, l’acquisizione di un ruolo nell’intervenire attivamente rispetto alla salute propria e altrui sono, credo, i percorsi che, compatibili con la situazione di crisi che il Paese sta attraversando, possono permettere, ad isorisorse o quasi, di

8 Nina Wallerstein – Professore e Direttore del Master in Public Health Program dell’Università del New Mexico U.S.A. Comunicazione orale.

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costruire percorsi promotivi di salute con particolare riferimento alla percezione e alla rappresentazione del rischio.

In quest’ottica, ogni membro è chiamato, dunque, ad una assunzione

di responsabilità, ad ognuno è richiesto che diventi “competente” in modo tale che competenza, motivazione e risorse conducano ad attività volte al miglioramento della qualità della vita.

Non potendo eliminare dalla nostra vita completamente i rischi e i pericoli, nell’ambiente di lavoro come nella vita privata, l’attenzione si sposta sulla promozione consapevole della salute “intesa come una combinazione di esperienze di apprendimento pianificato che offre la possibilità ad individui, gruppi e comunità di acquisire informazioni e competenze necessarie a decidere adeguatamente rispetto alla propria salute”9.

In questo processo dinamico di assunzione di responsabilità ogni individuo è portatore di un sapere che deve essere integrato a livello gruppale, nella consapevolezza che la sicurezza è un problema collettivo.

9 Braibanti, Strappa, Zunino, Psicologia sociale e promozione della salute: Volume 1.

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Il role playing di Renata Borgato1

Come si può conoscere se stessi? Non mai attraverso la contemplazione, bensì attraverso l’agire.

Goethe, Massime e Riflessioni

Durante lo svolgimento di un corso di formazione possono essere proposte delle attività ludiche attraverso le quali far acquisire conoscenze, abilità, competenze e può essere promossa l’acquisizione di particolari atteggiamenti, anche sostitutivi di quelli che i partecipanti tenevano precedentemente. Il gioco, infatti, diminuisce, almeno potenzialmente, la resistenza al cambiamento e propizia l’accettazione degli elementi innovativi, sia da parte dei singoli partecipanti che del gruppo.

Per questo l’uso dei giochi didattici risulta particolarmente adatto ai corsi di formazione sui temi della prevenzione e della sicurezza. Infatti i comportamenti auspicati e gli atteggiamenti funzionali all’adozione di comportamenti sicuri in molti casi devono essere appresi ex novo, ma più frequentemente devono indurre le persone a cambiare abitudini mentali e operative che hanno già acquisito e che sono reticenti a modificare.

Il gioco colloca gli insegnamenti in un contesto inusuale e quindi ne

facilita l’osservazione da un punto di vista privo di preconcetti, da un’angolatura nuova. Il lieve spaesamento che deriva dal cambiamento

1 Formatrice manageriale, docente a contratto presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi Milano-Bicocca.

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dell’angolo visuale già di per sé tende a facilitare l’abbandono degli abituali punti di osservazione e dei comportamenti.

In questo modo si abbassano le resistenze al cambiamento da parte dei partecipanti e si facilita l’assunzione di un atteggiamento meno protettivo di credenze e comportamenti, persino meno protettivo nei confronti dell’ immagine di sé e delle proprie cornici: «può rimettere in moto pensieri e sentimenti, riposizionando e relativizzando il proprio essere nel mondo (Staccioli 2004)».

La separazione netta dal contesto reale permette di sperimentare vie nuove senza sentirsi minacciati: trovarsi in un contesto dichiaratamente ludico infatti rende meno marcati gli automatismi di comportamento ed è possibile che il partecipante sviluppi strategie nuove che nel contesto abituale non avrebbe considerato a causa dell’instaurarsi di meccanismi legati alla coazione a ripetere o alla routine.

Il gioco promuove un clima rilassato, favorisce la riduzione dell’ansia da prestazione, del bisogno di difendersi, di dimostrare qualcosa a sé e agli altri, di competere. Il gioco infatti «in generale è considerato più facile e variato rispetto alle occupazioni consuete … e viene apprezzato quale un espediente per ricreare l’energia nervosa nell’individuo stanco (Kaiser 2001)»: per questo, se usato in un percorso didattico, svolge una funzione di recupero energetico.

Aiuta a riconoscere all’errore il potenziale di risorsa conoscitiva di cui, anzi, è opportuno che il conduttore enfatizzi le potenzialità didattiche. Se il conduttore non censura gli eventuali sbagli, ma anzi incoraggia la ricerca di procedure e idee non ancora validate e di cui quindi non è stata precedentemente testata la correttezza, prepara un contesto favorevole alla produzione di pensieri originali. Inoltre

tranquillizza i più insicuri e favorisce così la partecipazione anche di chi in altri contesti non emerge per capacità personali di prontezza e intelligenza.

Favorisce la consapevolezza delle dinamiche di gruppo e delle reazioni proprie e altrui (metariflessione). In tal senso il gioco è un mezzo di sviluppo collettivo ed individuale.

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L’utilizzo dei giochi didattici produce effetti che si prolungano nel tempo: l’uso dei giochi didattici infatti coopera a radicare nella memoria non solo il gioco come esperienza a sé stante, ma anche i concetti, spesso assai complessi, correlati al gioco. In particolare, non esaurisce la sua valenza formativa nel momento in cui viene svolto e nella fase di rielaborazione. Esso permette di seminare concetti e di far esperire cose che in seguito, secondo i ritmi naturali del partecipante, potranno essere ulteriormente sviluppati.

Permette inoltre di verificare nel tempo e in contesto reale intuizioni innescate durante le attività ludiche, di leggere con occhi nuovi situazioni già note o di ricevere da quanto appreso indicazioni per interpretare nuove realtà. Favorisce quindi la capacità di cogliere la molteplicità dei frame in cui gli eventi possono essere inseriti.

Simulazioni Tra le tipologie di giochi d’aula che meglio si adattano alla trattazione

dei temi connessi alla sicurezza si inscrivono le simulazioni. Si dicono tecniche di simulazione quelle che cercano di riprodurre in

aula e quindi in situazione protetta e di laboratorio, problemi e accadimenti simili a quelli della vita lavorativa. Trattandosi, comunque, di situazioni simulate, per quanto aderenti alla realtà, il rischio derivante da eventuali errori risulta annullato, o quanto meno, drasticamente ridotto2.

Una delle forme più note di simulazione è il Role playing. Role playing È una metodologia che richiede ai partecipanti di un’attività formativa

la rappresentazione scenica di una situazione direttamente inerente alle finalità di apprendimento perseguite. Il fine dell’utilizzo del role playing in aula è quello di imparare a far meglio il proprio mestiere, ruolo o professione.

Risulta particolarmente efficace nei casi in cui l’apprendimento desiderato riguardi principalmente abilità interattive.

2 I rischi residui si riferiscono alle ricadute psicologiche per i giocatori e alle eventuali implicazioni relazionali.

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Lo psicologo Jacob Levi Moreno teorizzò l’utilità del gioco e dell’azione drammatica in campo terapeutico e sperimentò il “teatro della spontaneità” a Vienna nel 1921. Emigrato negli Stati Uniti, puntualizzò negli anni 30 una tecnica di esplorazione e di analisi che chiamò “psicodramma” e avvertì il valore pedagogico della drammatizzazione. Per non generare confusioni con lo psicodramma terapeutico, chiamò “tecniche di role playing” le applicazioni del “teatro della spontaneità” a fini formativi.

Il role playing fu utilizzato dallo stesso Moreno nell’ambito di programmi di addestramento nell’amministrazione pubblica.

I primi utilizzi in Italia risalgono agli anni 60 nel campo della formazione commerciale realizzata dall’Olivetti di Ivrea.

L’elemento che caratterizza il role playing è l’interazione verbale e comportamentale tra i vari soggetti che vi prendono parte, rivestendo dei ruoli. Partecipare a un role playing consente di:

• interpretare il ruolo assegnato; • interagire in tempo reale con i ruoli limitrofi; • sperimentare e verificare i risultati dell’interazione mediante

l’osservazione diretta e le osservazioni successive degli altri partecipanti.

L’attore che interpreta un ruolo ha la possibilità di esprimere in

maniera consapevole e non proiettiva tutte le sue credenze, opinioni, percezioni, aspettative, certezze, dubbi sul ruolo stesso, anche se ciò avviene in un campo parziale, ridotto, più simile che uguale alla realtà.

Il role playing consente ai partecipanti una classificazione di: • informazioni e aspettative personali (osservare se stesso): il role

playing permette infatti una migliore comprensione delle proprie modalità di porsi nelle situazioni relazionali, una buona individuazione dei propri modelli interattivi e del proprio modo di ricoprire un ruolo;

• relazioni interpersonali (guardare i comportamenti e le azioni degli altri).

Il metodo insegna ad agire meglio in situazione senza essere agiti,

insegna cioè a governare gli accadimenti anziché esserne governati (perché se ne sono sperimentati i fattori influenzanti). Costringe inoltre i partecipanti a recitare spesso parti non in sintonia con i propri

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atteggiamenti e comportamenti prevalenti e rappresenta una metodologia utile anche per mettere in discussione gli stereotipi culturali e rendere ragionevolmente elastici gli orientamenti personali.

Punti di forza del role playing Il role playing ha molti punti di forza, primo tra i quali il

coinvolgimento diretto dei partecipanti. L’apprendimento avviene attraverso un’esperienza diretta, anche se

non reale. Di conseguenza, la partecipazione, oltre che cognitiva, è emotiva e l’esperienza effettuata in aula può risultare addirittura sostitutiva rispetto a esperienze maturate in precedenza nella vita reale.

Rispetto alla situazione reale, il role playing garantisce la possibilità costante di dare e avere feedback e per questo migliora nell’immediato la consapevolezza dei propri comportamenti e delle loro conseguenze e favorisce l’adattamento alle varie situazioni sociali e la plasticità emotiva individuale.

Punti di debolezza del role playing Come tutte le tecniche d’aula, il role playing presenta anche delle

debolezze, prima fra tutti la necessità per raggiungere i propri obiettivi didattici di essere condotto con perizia in tutte le sue fasi: utilizzare il role playing per ottenere risultati formativi e non solo per produrre un’interazione richiede al conduttore abilità durante tutte le fasi dello svolgimento e grande delicatezza.

Proprio per il suo potere di coinvolgimento il role playing è infatti eternamente sospeso tra l’irrilevanza e l’eccesso di reazione: se il conduttore non è esperto può infatti trasformare questa esperienza in una scenetta da filodrammatica o, al contrario, mettere in moto meccanismi emotivi che non è preparato a contenere.

Al conduttore è richiesta anche la capacità di individuare il momento esatto per interrompere il gioco.

Un altro svantaggio è da ricercarsi nella lunghezza dei tempi che un’esecuzione efficace richiede: abbreviare eccessivamente le fasi penalizza la riuscita. Fin dall’introduzione, il warming up, occorre dare il tempo ai partecipanti di vincere le proprie resistenze.

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Tipologie di role playing I role playing possono avere diversi gradi di strutturazione. È compito

del formatore scegliere il grado adeguato di strutturazione in relazione a obiettivi, contesto, tempi e, almeno in parte, alle caratteristiche del formatore (propensioni, gusti, ma anche abilità gestionale, sicurezza e padronanza dello strumento e, più in generale, della gestione dell’aula, capacità di leggere i fenomeni interattivi che nel role playing possono verificarsi e di correlarli alle finalità formative).

a) Role playing strutturato Il role playing strutturato può puntare l’attenzione sul caso o sulle

istruzioni ai ruoli. Esso risulta particolarmente indicato quando l’apprendimento riguarda un ruolo interattivo per il quale sono previste linee guida abbastanza predefinite e rigide.

Le linee guida e le regole vengono imparate molto meglio esercitandosi che attraverso l’ascolto di lezioni o lo studio individuale: si impara e ci si perfeziona attraverso l’interazione.

Con questo tipo di role playing si possono addestrare tutti coloro i cui ruoli lavorativi sono abbastanza definibili, per i quali l’organizzazione di appartenenza richiede un’esecuzione relativamente fissa e standardizzata.

Esso si adatta quindi bene a essere adoperato in corsi o seminari di addestramento, in particolare a quelli che si propongono di addestrare le persone all’esercizio di ruoli relativamente definibili a priori.

In questi casi il role playing è utilizzato per prescrivere, indurre e orientare comportamenti voluti.

Il role playing strutturato è il più efficace quando l’obiettivo è quello di far imparare a eseguire le istruzioni, di interiorizzare in modo attivo la one best way di un comportamento di ruolo.

Purtroppo, un role playing molto strutturato può facilmente diventare noioso, dare un senso di falso e rischia di lasciare pochi spazi al commento: se tutto o quasi viene predefinito, è probabile che nel debrifing si possa esaminare solo l’adeguatezza o meno delle istruzioni impartite “questo era giusto, questo era sbagliato”

b) Role playing non strutturato In questo caso la strutturazione è meno rigida e vengono impartite

solo indicazioni di massima su come gestire i ruoli. Essi possono essere o

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quello realmente ricoperto dall’interprete o il ruolo di altri o ruoli inventati.

Il role playing non strutturato si orienta alla valorizzazione del pensiero autonomo dei partecipanti, della riflessione e delle risorse presenti in aula, offre maggiori potenzialità formative e rende possibili alcune evoluzioni delle componenti personali interne ai ruoli.

Un role playing non strutturato può generare all’inizio imbarazzo e resistenze, ma finisce per responsabilizzare sul proprio apprendimento, induce a essere creativi, può favorire l’emersione di caratteristiche personali, relative al simbolico e alle mozioni.

Tra questi estremi si situano tutta una serie di situazioni intermedie. Preparazione di un role playing

Il conduttore deve fare la scelta di un tema in sintonia con gli obiettivi di apprendimento. Il conduttore sceglierà un tema in cui recitino un numero limitato di partecipanti e un’azione non troppo complessa per rendere facilmente leggibile l’azione. Farà la scelta delle caratteristiche più evidenti che vuole fare risaltare nelle parti degli attori e del contesto in cui si svolge la situazione da recitare.

Deve provvedere alla descrizione scritta del contesto in cui si svolge l’azione. In essa si dovrebbero fornire solo i dati essenziali, utili a orientare, ma essa non deve essere così dettagliata da distrarre l’attenzione dai temi essenziali per l’apprendimento.

Il conduttore deve provvedere anche alla stesura dei ruoli assegnati ai partecipanti. Le indicazioni dovrebbero essere sintetiche e suggerire atteggiamenti, comportamenti, tesi.

Le parti non devono essere né troppo strutturate né troppo vaghe. Il copione deve dare un orientamento chiaro del ruolo da recitare, ma al contempo lasciare ai partecipanti spazi di libera interpretazione e di creatività.

È utile che il formatore prepari anche delle griglie che orientino all’osservazione degli elementi salienti del role playing e che consegnerà ai partecipanti cui affida, appunto, il compito di monitorare l’andamento dei lavori. Il possesso della griglia suggerisce una prospettiva omogenea di lettura del role playing. Nel predisporla il conduttore dovrà riferirsi agli scopi di apprendimento per il quale il role playing è stato progettato.

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Oltre che fare ricorso agli osservatori, il conduttore può anche utilizzare durante l’esecuzione del role playing strumenti audiovisivi, che permettano ai partecipanti di verificarsi, anche in relazione ai commenti fatti dagli osservatori.

Gli osservatori devono prepararsi a vedere come le scelte comportamentali degli attori influiscono sugli effetti dell’interazione. Per guidare la propria osservazione, è bene che stabiliscano a priori il campo su cui effettuarla. In questo la griglia fornita dal conduttore può essere di grande aiuto.

Elementi sempre utili da osservare sono: • le modalità con cui le cose cui vengono dette, ma anche il modo

con cui esse vengono dette; • la centratura sull’ascoltatore; • la gestione/distribuzione dei tempi di parola; • la proposta relazionale che emerge insieme allo scambio dei

contenuti; • la congruenza della comunicazione verbale con la comunicazione

non verbale; • la gestione della leadership.

Fasi del role playing L’esecuzione di un role playing attraversa varie fasi.

1. warming – up (riscaldamento); 2. gioco; 3. osservazione; 4. discussione; 5. raffreddamento.

1. La fase di warming – up è introduttiva ed è indispensabile per

abbassare le resistenze e le difese, favorire l’emergere di idee. Essa prevede:

• la presentazione e lettura del materiale; • la definizione di massima di situazioni e ruoli; • la preparazione della scena e la definizione dei tempi.

2. La fase del gioco costituisce l’azione vera e propria in cui i

partecipanti ricevono o scelgono una parte e inizia la “recita”.

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3. La fase di osservazione è contemporanea a quella del gioco. Coloro

che non recitano una parte osservano la recitazione degli “attori”, dopo aver concordato con il conduttore quali aspetti devono essere tenuti sotto osservazione e con quali strumenti.

4. La fase della discussione è il momento della valorizzazione e utilizzazione del lavoro fatto.

Nello svolgimento della discussione, il conduttore ha il compito di stimolare e organizzare le comunicazioni di partecipanti e osservatori.

È necessario, peraltro, che durante l’attività il conduttore tenga sotto controllo gli eventuali conflitti che si possono sviluppare nel corso dell’azione ed eventualmente, nella fase di raffreddamento, ne favorisca l’elaborazione.

5. La fase di raffreddamento è necessaria prima di intraprendere altre attività in quanto il role playing è molto coinvolgente e quindi richiede una fase di allontanamento dall’esperienza.

Istruzioni per utilizzare i role playing

Prima di cominciare un’attività di role playing, il conduttore distribuisce una scheda contenente una breve descrizione degli elementi di contesto per lo svolgimento del role play stesso.

Dice ai partecipanti che probabilmente le informazioni fornite con la scheda sembreranno loro troppo poche e che potranno colmare le lacune con la discussione e riferendosi alla propria esperienza, anche maturata in contesti diversi.

Raccomanda ai partecipanti di tener presente che anche gli altri attori possono fare la stessa cosa e che di conseguenza potrebbero emergere specificazioni diverse del contesto in cui si svolge il role playing.

Questa situazione può apparire paradossale, ma essa non è che un’estremizzazione della situazione ordinaria in cui ci si trova anche nei contesti più noti.

Infatti, spesso può essere ben chiaro quello che noi sappiamo del contesto, ma non quello che ne sanno gli altri, anche se agiscono nello stesso contesto.

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Quindi è necessario usare l’interazione con l’altro anche per verificare la consonanza o la dissonanza tra le percezioni degli elementi del contesto.

La differenza tra la realtà e la simulazione risiede nel fatto che nella realtà è possibile accedere a fonti di documentazione e nella simulazione no (almeno non per tutti gli elementi emergenti dalla discussione).

Quando è meglio non usare i role playing L’uso del role playing non è sempre indicato e in alcuni casi può

addirittura risultare controproducente: è bene non usarlo all’inizio delle attività, quando la socializzazione tra i partecipanti è ancora scarsa.

È sconsigliabile anche in un contesto formativo non chiaro in cui i partecipanti abbiano paure valutative o in caso non abbiano capito lo scopo dell’esercizio.

Consigli di efficacia Per rendere efficace un role playing, il conduttore dovrebbe: • illustrare le finalità generali e le modalità applicative della

metodologia; • favorire la composizione del gruppo di attori e di osservatori

privilegiando le scelte spontanee; • spiegare che la metodologia si basa sull’apprendimento

progressivo dagli errori e che si svolge tesaurizzando i risultati positivi e negativi delle esperienze;

• interrompere in ogni caso l’azione alla fine del tempo assegnato; • sollecitare al termine dell’esercizio una verifica possibilmente

senza contraddittorio da parte dei soli osservatori in merito a come hanno vissuto l’azione, e poi fare lo stesso con gli attori;

• stimolare il dibattito sull’utilità dell’esercizio in termini di apprendimento3.

3 Per approfondimenti: Sul role playing: Boccola F., (2004) Il role playing, Carocci; Capranico S., (1997), Role playing, Cortina. Sui giochi d’aula: Borgato R. (2004), Giochiamo. FrancoAngeli.

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Outdoor: l’opportunità dei giochi sociologici di Stefano Tomelleri1

L’outdoor training nel contesto della

formazione si riferisce ad attività esperienziali di gruppo realizzate all’aria aperta. Questa tipologia di formazione ha una natura spiccatamente ludica. Il gioco riveste un’importanza cruciale: spesso determina il successo o meno di un’iniziativa, influenza il clima di gruppo, l’affiatamento di gruppo, e molto altro ancora.

Il gioco richiede una particolare attenzione soprattutto da parte delle scienze sociali che si occupano di processi formativi. Tradizionalmente è una sorta di esclusiva competenza della psicologia o della filosofia. Tuttavia esiste una specificità sociologica del gioco che l’outdoor mette in luce più di altre esperienze formative. Si tratta di una particolare capacità immaginativa in grado di creare punti di intersezione tra la biografia personale e la storia della convivenza umana. Più precisamente, riguarda la circolarità e conflittualità tra i più ampi processi sociali nei quali siamo quotidianamente immersi: tra relazioni micro-meso e macrosociali (ovvero tra rapporti interpersonali e dinamiche comunitarie e politiche); tra interazioni sociali agite qui e ora e paesaggi mentali culturalmente condivisi; tra turbamenti interiori e mutamenti di assetti politici e istituzionali.

Questa affinità tra dimensioni apparentemente così estranee «permette a chi la possiede di vedere e valutare il grande contesto dei fatti storici

1 Docente di Sociologia Generale presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi di Bergamo e direttore del Master di I livello in Esperto di Processi Formativi e Sviluppo della Sicurezza sul Lavoro.

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nei suoi riflessi sulla vita interiore»2; noi potremmo aggiungere: e farsi attore di cambiamento.

In altre parole l’outdoor training è un gioco sociologico in quanto occasione di nuova immaginazione condivisa3. In una recente pubblicazione, insieme all’amico e collega Martino Doni4, ho avuto modo di mostrare più dettagliatamente i contenuti e le istruzioni dei giochi sociologici. In questa sede mi limito ad evidenziare la dimensione sociologica della pratica ludica nel contesto dell’outdoor.

Vediamo dunque di cogliere uno dei fattori fondamentali del gioco. Ovvero la gratuità, vale a dire la radicale inutilità, o se si preferisce insensatezza che sta all’origine del gioco. Molti autori e studiosi di comportamento umano e animale, sostengono che il gioco si possa spiegare tramite il bisogno di acquisire o trasmettere operazioni necessarie per la sopravvivenza. Senza dubbio questa

funzione “pedagogica” è più che evidente: basta tener presente l’animosità con cui si partecipa ai percorsi formativi di outdoor, o l’ostinazione con cui i partecipanti cercano di costruire una barca, un ponte, o cercano di decidere quale strategia adottare nelle fasi di gioco.

Tuttavia non si gioca soltanto perché è vantaggioso, o per un tornaconto di qualunque genere (adattivo, terapeutico, formativo, economico, ecc.), ma per il piacere di giocare. Questo è il punto più importante. La nostra specie ha in comune con altri mammiferi superiori una naturale predisposizione al gioco. Questa “naturale predisposizione” precede ogni altro tipo di interazione. Di per sé, anzi, non sarebbe nemmeno “naturale”. Quel che sappiamo con i sensi e l’esperienza, è che giocare provoca piacere. Ci espone, e questa è la peculiarità sociologica, alla relazione sociale, anche quando non vogliamo, anche quando non ci sentiamo pronti e recalcitriamo. Ci espone a gestire il piacere e il dolore del nostro essere destinati al legame sociale.

2 C. W. Mills, L’immaginazione sociologica, Saggiatore, Milano 1968, p. 18. 3 S. Fuller, The New Sociological Imagination, Sage, London 2006. 4 M. Doni, S. Tomelleri, Giochi sociologici, Raffaello Cortina, Milano, 2011.

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Esiste il gioco come condizione etologica e antropologica, ma sul piano sociologico sperimentiamo sempre e soltanto giochi situati in un contesto storico e sociale. Ogni società ha i “suoi” giochi che possono essere classificati in vari modi, l’outdoor è uno di questi: un gioco della formazione. Se le varie discipline che fan capo alle scienze umane e sociali sono chiamate a studiare il nesso tra cultura e attività ludiche, a comprenderne le funzioni e le possibili classificazioni, interrogandosi su come i giochi contribuiscano all’evoluzione o all’involuzione del comportamento sociale, vi è in ogni caso un altro modo di trattare sociologicamente i giochi e l’outdoor, e cioè immaginarli come altrettanti luoghi sociali simulati, dove i giocatori mettono in scena la società. Ed è precisamente questo il modo che propongo quando affermo che l’outdoor ha una natura spiccatamente ludica ed una valenza sociologica.

La questione diviene quella di come giocare consapevolmente il gioco della società. Si tratta di sperimentare e studiare in presa diretta la produzione della soggettività (l’identità, l’agire individuale, i gruppi, le minoranze attive, ecc.) e la produzione delle strutture (lo spazio, il tempo, il corpo, le risorse, le istituzioni e le organizzazioni). È questo che chiamo “gioco sociologico”.

Un gioco sociologico è essenzialmente un gioco di posizionamento sociale5. L’attività principale di un giocatore è partecipare, insieme ad altri, creando e orientando un’immagine di sé distinta e riconoscibile. Ciò significa che chi partecipa occupa innanzitutto uno spazio, e tale occupazione ha fin da subito rilevanza sociale. Come sanno bene gli antropologi, non vi è alcuna neutralità nella prossemica6. Nel contempo, la propria posizione funge da indicatore di differenza, ovvero serve per segnalare la relazione con il posto che gli altri stanno occupando, senza che con ciò si sia necessariamente assunto un dato ruolo sociale. In breve, è sufficiente occupare uno spazio per influenzare il corso di un’azione e di un gioco.

5 E. Goffman, L’interazione strategic, il Mulino, Bologna 1988. 6 H. Plessner, Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, Bompiani, Milano 2007.

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L’osservazione del comportamento dei partecipanti alle attività di outdoor (e non solo) può facilmente mostrare come il gioco inizi semplicemente quando si decide di partecipare insieme ad altri a un’attività che si riconosce come gioco, non fosse altro che la preparazione o l’allestimento della scena ludica. Si tratta di una circolarità che, come direbbe Bateson7, è costitutiva del gioco stesso. Si pensi, per esempio, a un gruppo che si mette d’accordo per decidere come costruire un ponte o una barca al fine di percorrere un tratto di percorso su acqua: il tempo che passano a cercare il posizionamento adeguato ciascuno nei confronti dell’altro è quasi sempre uguale se non superiore rispetto al tempo effettivo di costruzione dell’oggetto. Lo spazio e il tempo dedicati a negoziare le decisioni sono tanto importanti quanto la pratica del gioco in sé.

I giochi sociologici non devono essere confusi con i giochi di ruolo tradizionali, intesi come utili strumenti formativi e psico-pedagogici8. Il ruolo, in quanto tale, rimanda a una zona predefinita di intersezione tra la motivazione personale e dunque la sfera intrapsichica e le più ampie cornici normative e valoriali, ossia le istituzioni e le macrocategorie sociali.

Secondo il tradizionale gioco di ruolo, occorre che l’integrazione sociale poggi su una condivisione di valori circa un carattere o una funzione dati in anticipo, come in una sorta di canovaccio, dove i partecipanti cercano di fare del loro meglio, con i ruoli che sono stati predisposti in partenza. Questo è il motivo per cui i giochi di ruolo sono serviti e servono, nei contesti formativi, per esprimere e talvolta esasperare il dualismo tra soggettività e società, tra sfera intrapsichica e categorie macrosociali. Ma il problema non è soltanto l’imporsi dogmatico di un dualismo teorico, ma è uno spaesamento generale dell’agire quotidiano, dove le persone non sanno più quali parti prendere: il copione o il canovaccio, o comunque la scena predisposta, oggi, non c’è più9. Sempre più difficile diventa, oggi, “far bene”, non importa se per finta o sul serio, il manager, il medico, il leader o il mediatore di una 7 G. Bateson,Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976. 8 S.S. Boockock, J.S. Coleman, Games with Simulated Environments in Learning. Sociology of Education, 39, n. 3, pp. 215-236 1969; A. Bondioli, Gioco e educazione, Franco Angeli, Milano 1996; S. Capranico, Role playing. Manuale a uso di formatori e insegnanti, Cortina, Milano,1997. 9 P. Berger, T. Luckmann, Lo smarrimento dell’uomo contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2010; M. Magatti, Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009.

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comunità. Il ruolo non è più interiorizzato dal soggetto a partire da un repertorio culturale già dato, come sembra far pensare l’impostazione del role playing, ma si forma nell’interazione faccia a faccia con gli altri soggetti, in un susseguirsi di approssimazioni per tentativi ed errori.

Un posizionamento sociale comporta la creazione di un “tipo-ideale”, definito entro una trama di relazioni reciproche, uniche e irripetibili e a partire da un particolare repertorio di norme e sanzioni riferito alla cultura regionale del gruppo locale. Allestire un gioco sociologico in outdoor presso un gruppo di educatori di un centro diurno per disabili nelle valli bergamasche e allestire il medesimo gioco a un gruppo di educatori dell’Emilia Romagna o del Lazio significa considerare non soltanto i posizionamenti contingenti dei singoli partecipanti, ma anche i condizionamenti culturali, le biografie incrociate, le tradizioni incorporate nei gesti e nelle formule ricorrenti.

Tutto ciò significa che le condotte di posizionamento sociale si costruiscono durante i giochi, ogni volta, in modo unico e irripetibile, ma anche seguendo delle regolarità, che mostrano come nella società contemporanea sia ancora possibile, “malgrado tutto”, la produzione della soggettività e delle strutture. Soggettività e strutture sociali si costruiscono come intersezioni di discorsi, relazioni e legittimazioni emergenti dai processi di tipizzazione dei partecipanti: per esempio chi gioca a fare il “capo clan”, interpreta il proprio ruolo secondo modi di pensare tipici del senso comune e nel contempo intrecciati con quanto sta accadendo nel corso del gioco, a partire dall’interazione con gli altri partecipanti che, a loro volta, agendo allo stesso modo, concorrono alla definizione della situazione, dei suoi vincoli e delle sue possibilità strutturali.

In una società individualistica e competitiva, come quella contemporanea, la sociologia può aiutare a riconoscere le dinamiche di risentimento che sottendono alcune costanti, tra il nevrotico e lo psicotico, delle nostre strutture10; ma i giochi sociologici aiutano i partecipanti a capire come funzionano e come si possono influenzare i posizionamenti sociali.

Il bello dei giochi sociologici è per l’appunto questo: i partecipanti hanno l’occasione di mettere in discussione la propria identità esplorando

10 S. Tomelleri, Identità e gerarchia. Per una sociologia del risentimento, Carocci, Roma, 2009.

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altre possibilità di azione, rimanendo comunque all’interno di un sistema abbastanza protetto, se non altro grazie alla facoltà di interrompere il gioco e di evitare rotture o approfondimenti imbarazzanti nelle fragilità proprie o altrui.

Ogni gioco è, ovviamente, un mondo a parte, unico e irripetibile, e mi scuso se per ovvi limiti di spazio rinvio alla mia pubblicazione Giochi sociologici11 per un approfondimento dei differenti giochi, delle loro regole e delle implicazioni teoriche e formative. A me è capitato spesso, nel corso delle molteplici sperimentazioni dei giochi sociologici, che si concretizzasse un contesto sociale compatto, un ambiente ben definito, distinto, quasi plastico, con il suo lessico, i suoi tic, le sue dinamiche macro riprodotte in miniatura davanti ai miei occhi di osservatore. In ogni caso, ciò non rimandava tanto all’assunzione surrettizia di un ruolo sociale prestabilito, quanto alla dinamica del gioco stesso, tale per cui giocando si tende a riprodurre in un contesto simulato, per certi versi protetto, ma proprio per questo tanto più esposto alle intemperie delle relazioni, il legame sociale costitutivo del gruppo o della comunità locale.

11 Op. cit.

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Q1, 2012 AiFOS – Formazione e- learning

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L’e-Learning metodologia flessibile ed interattiva: le nuove frontiere della formazione di Francesca Morselli1

Nonostante da alcuni anni siano fruibili corsi di formazione alla salute

e sicurezza sul lavoro attraverso piattaforme online, la normativa non aveva fornito indicazioni specifiche riguardo le caratteristiche e gli aspetti organizzativi della formazione via e-Learning.

Con l’Allegato I dei nuovi Accordi Stato-Regioni2 non solo viene fornita una definizione di e-Learning, intendendolo come un modello formativo interattivo e realizzato previa collaborazione interpersonale all’interno di gruppi didattici strutturati (aule virtuali tematiche, seminari tematici) o semistrutturati (forum o chat telematiche), nel quale operi una piattaforma informatica che consente ai discenti di interagire con i tutor e anche tra loro, ma viene anche specificato che l’e-Learning non si limita alla semplice fruizione di materiali didattici via internet, all’uso dell’e-mail tra docente e studente o di un forum online dedicato ad un determinato argomento, ma utilizza la piattaforma informatica come strumento di realizzazione di un percorso di apprendimento dinamico che consente al discente di partecipare alle attività didattico-formative in una comunità virtuale.

Quest’ultima definizione fa a sua volta un’importante passo avanti: nella normativa precedente si cita il termine FaD3 (Formazione a Distanza) mentre ora si fa riferimento al termine e-Learning, spostando così l’attenzione da un apprendimento “isolato” ad un apprendimento “molti-molti”, realizzato tramite rapporti cooperativi e caratterizzato da vere e proprie classi virtuali con dinamiche proprie.

1 Laureata in Scienze dell’educazione e dei processi formativi, referente per la Formazione e-Learning del Servizio Formazione della Direzione Nazionale AiFOS. 2 Si fa riferimento agli Accordi Stato-Regioni approvati in data 21 dicembre 2011 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano. 3 Linee Interpretative Accordo Stato Regioni del 5 Ottobre 2006 (G.U. 7 Dicembre 2006), Punto 2.2.

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Differenza tra Fad ed e-Learning Spesso accade che i termini e-

Learning e Formazione a Distanza (FaD) vengano usati come sinonimi. Ciò è inesatto, in quanto la formazione a distanza include tutti i tipi di formazione che non si basano sulla compresenza discente-docente; non riguarda quindi esclusivamente l’uso del World Wide Web ma anche libri, televisione, CD-rom ed altro4. Nella FaD i fattori rilevanti si limitano esclusivamente ai contenuti ed ai materiali del processo di apprendimento, senza concentrarsi sull’elemento psicologico ed umano della formazione: questa considerazione viene invece modificata dall’e-Learning.

Come altri termini simili con il prefisso “e” – e-commerce, e-government – l’e-Learning si riferisce ad un apprendimento che avviene attraverso l’utilizzo di internet. Con il costruttivismo interazionista si comincia a parlare di ambienti di apprendimento basati sulla costruzione sociale della conoscenza, sull’idea che i soggetti devono, anche nelle situazioni a distanza, riprodurre le dinamiche sociali dell’aula5.

Nell’educazione tradizionale accade spesso che il discente non ricordi gli argomenti trattati in aula: l’e-Learning dispone invece di una varietà di strumenti atti a conservare e storicizzare il percorso didattico sia per quanto riguarda i contenuti, sia per tutto ciò che attiene alle azioni del discente (risultati dei test, numero e tempi di accesso alla piattaforma, ecc.).

Le caratteristiche dell’e-Learning Come ogni metodologia didattica, anche l’e-Learning ha

caratteristiche proprie.

4 Libri, televisione, CD-rom e altri possono essere utilizzati come formazione a distanza. Si pensi per esempio al programma televisivo “Non è mai troppo tardi”, in onda tra il 1959 ed il 1968 in cui il presentatore/docente Alberto Manzi conduceva delle vere e proprie lezioni di scuola primaria, avviando di fatto un procedimento di formazione a distanza e consentendo una lotta all’analfabetismo. 5 Bruschi B, Ercole M.L. (2005), Strategie per l’e-Learning: progettare e valutare la formazione online, Carocci editore, Roma.

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In primo luogo si caratterizza per la modularità dei contenuti: il materiale didattico è composto da brevi moduli, chiamati anche Learning Object, che consentono al discente di apprendere secondo i propri ritmi e nei tempi più opportuni, favorendo così anche una focalizzazione dell’attenzione.

Altre caratteristiche sono: • interattività: con l’e-Learning si ha l’opportunità di creare contenuti

interattivi per non rendere la fruizione passiva, ma instaurando feedback ed interazioni con il discente per ravvivare la motivazione e l’attenzione. Si possono sviluppare anche test dinamici di autoapprendimento per fornire la possibilità di sperimentare nuovi metodi esercitativi e di studio;

• aggiornabilità: tutti i contenuti sono facilmente aggiornabili, aumentando in questo modo l’adattabilità a situazionei formative differenti. Nell’ambito della sicurezza nei luoghi di lavoro questa caratteristica è fondamentale in quanto, con il cambiamento di norme e tecniche, esiste la necessità di aggiornarsi e formarsi nel più breve tempo possibile;

• flessibilità: altro grande vantaggio consiste nella flessibilità di erogazione: la formazione diventa fruibile a qualsiasi modalità, nelle ore prescelte, ecc. Una formazione disponibile 24 ore su 24 (anytime) fruibile da parte di tutti (anyone) e da qualunque luogo (anywhere).

Blended learning

I percorsi formativi e-Learning possono svolgersi non solo completamente online, ma anche prevedendo una forma mista e-Learning-aula o altre modalità che alternino l’e-Learning con metodologie attive. Da qui il nome blended learning, dall’inglese to blend, mescolare, miscelare6.

Il blended learning può essere adeguato per tutta quella formazione che necessita di ore di pratica e di laboratorio o che si basa su contenuti specifici che non sono adatti ad essere affrontati online.

6 Definizione tratta da Dizionario inglese-italiano, italiano-inglese, Oxford University Press, a cura di Malcolm Skey.

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In questi casi l’e-Learning potrebbe essere utilizzato: • al fine di fornire informazioni teoriche di base prima dell’inizio del

corso formativo in aula, in modo tale che tutti i discenti possano acquisire delle conoscenze iniziali sull’argomento;

• per aiutare l’allievo, dopo il corso, a rivedere gli argomenti della lezione;

• come momento di discussione su argomenti e quesiti sorti in aula, per esempio attraverso forum o chat presenti in piattaforma.

I momenti in aula ed in e-Learning non devono essere distaccati tra

loro, ma ognuna delle due modalità deve gettare la basi per la fruizione della successiva.

Il legislatore, come emerge dagli Accordi Stato-Regioni del 21 dicembre 2011, ha avvertito le potenzialità del blended learning, andando così a contrastare quella percezione che identificava l’e-Learning come qualcosa di totalmente staccato e a sé stante rispetto alla formazione in aula. È stato, infatti, previsto che l’e-Learning possa essere la modalità di fruizione di alcuni moduli dei percorsi formativi individuati (come per esempio la formazione particolare aggiuntiva per il Preposto e la formazione dei Datori di Lavoro), che verranno successivamente completati attraverso un apprendimento frontale. I concetti generali e normativi vengono quindi affrontati in e-Learning, lasciando la trattazione di argomenti specifici al docente in aula, secondo le specificità e le esigenze del settore in cui il discente va ad operare.

La figura dell’e-tutor

Spesso il termine tutor viene utilizzato in modo equivalente a quello dell’e-tutor: in realtà il tutor è considerato come supporto all’attività del docente, occupandosi degli aspetti “extra” di un corso. Nell’e-Learning l’e-tutor diventa una delle figure principali in quanto non si occupa esclusivamente della parte didattica, ma possiede capacità di facilitatore dell’apprendimento, di moderazione di gruppi di lavoro, di forum, competenze informatiche, ecc. .

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Per questo motivo, si attribuiscono all’e-tutor specifiche funzioni: • funzione tecnica/tecnologica: deve svolgere ruoli che vanno oltre la

semplice didattica. Deve saper anche aiutare i discenti in eventuali risoluzioni di problemi legati all’uso della tecnologia. Si parla così del “tecneducatore: questa figura riunisce in sé le anime di un tecnico che volge lo sguardo agli aspetti strumentali della tecnologia e dell’educatore il quale promuove la crescita del soggetto attraverso di essa”7.

• funzione pedagogica e sociale: l’e-tutor deve preoccuparsi di stimolare intellettualmente i discenti fornendogli input e spunti utili per la focalizzazione degli argomenti. Per far ciò deve agire in un ambiente stimolante per i corsisti, cercando di sviluppare dibattiti tra i discenti.

• funzione di monitoraggio: l’e-tutor svolge una funzione di monitoraggio trasversale per tutta la durata del corso. Deve poter visualizzare le attività svolte o non svolte dai corsisti, monitorare e valutare gli apprendimenti durante il corso esaminando le discussioni, risposte e reazioni dei singoli partecipanti, verificare l’avvenuta esecuzione delle esercitazioni nel percorso, ecc. .

L’e-Learning nella sicurezza sul lavoro

Dal 2009 AiFOS si impegna, ogni anno, nella pubblicazione di un

Rapporto che prende in esame le principali figure nell’ambito della sicurezza sul lavoro – in ordine: lavoratori, formatori, datori di lavoro – in relazione alla formazione alla sicurezza sul lavoro. Nelle ricerche, sono state poste ai soggetti delle domande inerenti l’e-Learning: • i lavoratori hanno ritenuto non utile, per l’80% circa, la formazione

online; il 50% la ritiene poco utile, il 29% abbastanza utile e solo il 21% fornisce un giudizio positivo (Rapporto AiFOS 2009);

• i formatori hanno espresso sull’e-Learning un giudizio sommariamente negativo: il 55% si esprime per la poca utilità della formazione online, il 25% la definisce “abbastanza utile” mentre solo il 16% la ritiene importante.

7 Cfr. Rizzi C., Tassalini E., Funzioni in Rivoltella P.C. (a cura di), E-tutor. Profilo, metodi, strumenti, Carocci, Roma, 2006

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Positivo per i formatori è invece l’e-Learning svolto attraverso una formazione mista, unitamente alla presenza di un tutor e controlli adeguati (54%) (Rapporto AiFOS 2010);

• il 16,8% dei datori di lavoro ha ritenuto molto utile la formazione online, il 28% abbastanza utile mentre il 55,2% la ritiene poco o scarsamente utile. Interessanti sono le risposte alle domande “la formazione online è una scorciatoia per svolgere la formazione” ed “è utile una formazione mista online ed in aula”: nel primo caso il 50% dei datori di lavoro ritiene che la formazione online sia una scorciatoia, il 25% sono “abbastanza” d’accordo con la domanda, mentre il 30% non è in accordo con la domanda. Per quanto riguarda il secondo quesito, l’80% dei datori di lavoro ritiene utile una metodologia blended, al contrario del 20% che la ritiene poco utile (Rapporto AiFOS 2011).

Da queste brevi indicazioni, emerge una percezione in complessivo

negativa dell’esperienza e-Learning da parte di tutti i soggetti presi in esame: questa percezione può essere determinata, oltre a causa di una mancanza di regole e di controlli effettivi, anche dalla scarsa attenzione che gli enti erogatori di corsi di formazione in modalità online hanno prestato alla qualità del prodotto, puntando maggiormente ad una vendita di massa di prodotti commerciali e di attestati di formazione.

Con l’Allegato I degli Accordi Stato-Regioni, approvati in data 21/12/2011, vengono fornite indicazioni sulle condizioni che deve possedere l’e-Learning della formazione alla sicurezza sul lavoro. Alcuni degli elementi più importanti inseriti sono: • la presenza obbligatoria, per ogni corso, di un tutor esperto con

esperienza almeno triennale in materia di salute e sicurezza sul lavoro;

• oltre alla progettazione di prove auto-valutative distribuite lungo tutto il percorso, è necessario che la verifica finale di apprendimento sia effettuata in presenza, dandone prova negli atti dell’azione formativa;

• l’accesso alle unità didattiche deve essere obbligato secondo un percorso prestabilito, senza dare la possibilità di evitare unità didattiche del corso; • in piattaforma deve essere presente un sistema di tracciabilità sia

dei tempi di fruizione, sia del percorso formativo.

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Il digital divide

Parlando di formazione alla sicurezza sul lavoro, che fa riferimento ad una panoramica estesa di soggetti con diverse esigenze, know how ed istruzione, non si può non parlare di digital divide intendendo con questo termine il divario digitale tra chi ha la possibilità di utilizzare l’ICT8 e chi no. Le motivazioni di questo divario possono essere molteplici: età (giovani e meno giovani), livello d’istruzione (maggiormente competenti o non competenti in materia di utilizzo dell’ICT), diversa disponibilità di banda, competenze linguistiche ed altro.

Per esempio, per il divario riguardante l’età, le nuove generazioni nate e cresciute con l’ICT possono avere più dimestichezza con la Rete e le tecnologie; al contrario, molte persone meno giovani possono avere difficoltà ad utilizzare le tecnologie, soprattutto se non le utilizzano nella vita quotidiana.

È auspicabile che un datore di lavoro valuti preventivamente la reale capacità del proprio lavoratore all’utilizzo della tecnologia e della Rete o di un supporto tecnologico prima di optare per la modalità e-learning per la formazione alla sicurezza dei propri dipendenti.

Conclusioni

Con l’introduzione delle condizioni dell’e-Learning dell’Allegato I

degli Accordi Stato-Regioni del 21/12/2011, si è sicuramente stabilito un punto di partenza per una maggior regolamentazione dell’apprendimento online, cercando quindi di creare una vera e propria aula virtuale, ossia un ambiente di apprendimento che fornisce input di discussione e di valorizzazione dell’attività formativa, costituendo in questo modo una valida e regolamentata condizione per favorire una cultura della sicurezza sul lavoro.

A conclusione di questo breve intervento, che non vuole essere esaustivo, ma solo tracciare a linee generali le caratteristiche principali della metodologia e-learning, preme sottolineare come sia auspicabile che ogni formatore accresca le sue capacità non solo per affrontare al meglio le lezioni frontali con metodologie attive, ma anche per

8 Dall’acronimo inglese ICT (information and communication technology). Per la traduzione in italiano si usa anche l’acronimo TIC ossia tecnologia dell’informazione e della comunicazione.

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sviluppare quella moltitudine di competenze necessarie per divenire un e-tutor. Nonostante negli Accordi Stato-Regioni a cui si faccia riferimento e non sia espressa la necessità di una conoscenza, oltre che specifica del settore, anche andragogica ed informatica da parte del tutor, è comunque necessario che l’e-tutor, essendo la figura cardine della formazione e-learning, possegga queste competenze in modo da creare l’aula virtuale permettendo in questo modo al corsista di partecipare dinamicamente alle attività didattico-formative.

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La formazione in azienda di Rocco Vitale1

L’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 relativo alla

formazione dei lavoratori contiene, nelle sue premesse, una riga di testo di straordinaria importanza e potenzialità che potrà, se utilmente applicata, modificare radicalmente i sistemi formativi.

Si precisa, infatti che “la formazione prevista dall’Accordo può avvenire sia in aula che nel luogo di lavoro”. Si tratta della formazione destinata ai lavoratori, preposti e dirigenti.

Sgombriamo subito il campo da una semplicistica interpretazione: svolgere la formazione in azienda non significa avere a disposizione la sala mensa od un ufficio direzionale nel quale i lavoratori vengono avviati allo svolgimento della formazione.

In questo caso si tratta pur sempre di una formazione in aula. L’aula che si trovi in azienda o in un albergo o in una struttura formativa resta sempre un’aula.

Con un semplice rigo l’Accordo Stato-Regioni ha, invece, aperto ad una nuova straordinaria possibilità di svolgere la formazione nel luogo di lavoro modificandone così, di fatto, aspetti metodologici, culturali e formativi. Si tratta di cogliere il meglio e sviluppare nuove esperienze formative all’interno dell’azienda e sul luogo di lavoro.

Deve essere, tuttavia, chiaro che stiamo parlando di formazione e non di addestramento od informazione2.

Nel contesto della formazione risulta chiaro che l’Accordo si riferisce

alla possibilità concreta che la formazione dei lavoratori e dei preposti possa essere svolta in azienda.

1 Presidente AiFOS, sociologo del lavoro, docente di Diritto del Lavoro presso l’Università degli Studi di Brescia. 2 Per le definizioni di formazione, informazione ed addestramento si rinvia all’intervento della dott. ssa Chiara Ballarini, pubblicato in questo Quaderno e nello specifico alla pagina 14.

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Si pongono con evidenza alcuni problemi di ordine amministrativo e logistico che introducono nuove azioni per lo svolgimento della formazione.

Da precisare è che la formazione in azienda non modifica in alcun

modo l’Accordo Stato-Regioni, ma ne consente una coerente applicazione sui luoghi di lavoro adattandone, naturalmente, aspetti organizzativi e procedurali. Una prima analisi presenta le seguenti problematiche.

1. Registro firma del corso

Il Registro firma sarà individuale in quanto ogni lavoratore potrà svolgere azioni formative singolarmente. Il registro dovrà essere controfirmato da un referente del sistema della sicurezza aziendale (Datore di lavoro, dirigente, preposto, R.S.P.P. o Addetto, R.L.S.). Sul registro verranno evidenziati gli argomenti svolti.

2. Composizione della classe e numero dei partecipanti La formazione in azienda potrà essere singola e pertanto non potrà essere costituita la classica “classe” frequentante il corso. Per quanto riguarda le fasi di verifica per il conseguimento dell’Attestato, i colloqui o i test verranno effettuati a classi di lavoratori con un massimo di 35 partecipanti.

3. Svolgimento delle lezioni Il corso deve essere progettato e concordato con il R.L.S. . Il corso, nel numero di ore previste dall’Accordo, sarà svolto nell’arco di tempo definito dal formatore per ogni singolo lavoratore o per gruppi omogenei di lavoratori. Un corso di 4 ore può anche svolgersi nell’arco di tempo di un mese e le singole lezioni o esercitazioni potranno durare un’ora con più sessioni fino al raggiungimento delle ore previste dall’Accordo. I docenti potranno anche svolgere lezioni ai singoli lavoratori in occasione di visite o consulenze per la durata di una o più ore trattando argomenti strettamente connessi ai rischi presenti in azienda ed alla mansione del lavoratore.

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Q1, 2012 AiFOS – La formazione in azienda

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4. Gli strumenti Bisogna considerare che non si dispone di un’aula con videoproiettore e pertanto la strumentazione del docente sarà, per esempio, costituita da un PC dotato di sufficiente autonomia di carica. Esercitazioni, test, check list costituiscono una delle forme essenziali per lo svolgimento della formazione in azienda, in quanto costituiscono il momento di intervento da parte del lavoratore che deve eseguire o compilare i documenti che vengono sottoposti.

5. Docenti e tutor Il docente dovrà essere opportunamente formato affinché conosca e sappia applicare nuove tecniche e metodologie di insegnamento per i lavoratori sul posto di lavoro. Il sistema di sviluppo della formazione in azienda prevede l’intervento di altri soggetti che devono essere informati e, nei casi previsti, è necessario svolgere azione di supporto alla docenza con attività di tutoraggio ed assistenza. I soggetti coinvolti sono: - Datore di Lavoro e Dirigenti, - Preposti, che svolgeranno il ruolo di tutor, - R.S.P.P o A.S.P.P., - R.L.S. che avrà il compito di rappresentare e coinvolgere i

lavoratori.

6. Conclusione del corso I lavoratori che hanno partecipato ad almeno il 90% delle ore di formazione (compresi i tempi per le esercitazioni) parteciperanno ad una prova di verifica obbligatoria da effettuarsi con un colloquio o test. Alla prova sono ammessi un massimo di 35 lavoratori per sessione.

Il modello AiFOS per la formazione in azienda AiFOS ha sperimentato - con successo - alcuni modelli formativi in

azienda coinvolgendo i lavoratori attraverso fasi di lezioni, esercitazioni, discussioni, valutazioni.

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Il modello AiFOS (formazione, modulistica, strumenti didattici, attrezzature di supporto) è a disposizione per coloro che intendono svolgere ed attuare e sperimentare corsi di formazione dei lavoratori sui luoghi di lavoro.

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La formazione degli adulti alla sicurezza sul lavoro anche attraverso il cinema

di Monica Livella1

Il cinema e la formazione Nella formazione degli adulti

sono diverse le finalità ed i momenti in cui si possono utilizzare i contributi cinematografici.

Il materiale video può rappresentare un momento di “riscaldamento” all’inizio di una giornata, oppure può essere inserito alla ripresa dei lavori dopo una pausa o a fronte della percezione da parte del docente di una certa stanchezza dell’aula. In quest’ultimo caso il contributo di un breve filmato può ravvivare l’interesse o introdurre un tema che verrà poi affrontato.

Ai diversi scopi può essere impiegato sia un materiale di tipo didascalico sia un materiale che richiami il tema in questione.

La cinematografia è utile anche per offrire una dimostrazione chiara e puntuale di un comportamento che si vuole analizzare; si tratta cioè di visionare e commentare scene di film che propongano esempi positivi o negativi (per esempio, come si deve o non si deve fare).

Talvolta il contributo filmato è adatto per illustrare una situazione analoga a quella su cui vogliamo porre l’accento durante il percorso formativo. Sono disponibili molti film o sequenze che presentano circostanze di vita lavorativa o contesti organizzativi che possono corrispondere con gli aspetti trattati durante il percorso formativo.

Il cinema dunque può ritenersi, a pieno titolo, uno strumento da utilizzare nei processi dell’apprendimento, poiché tramite la visione

1 Pubblicista, docente Senior in Salute e Sicurezza sul lavoro certificato CEPAS, socio AiFOS.

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l’aula viene stimolata e coinvolta creando spunti per il dibattito, il circolo delle idee e l’apprendimento.

Oltre alla visione cosiddetta riflessiva di film o di singole scene che possono avere connessione diretta ed esplicita con le tematiche e gli obiettivi degli interventi formativi, è possibile ipotizzare anche la creazione di filmati e storie narrate originali. Si tratta, ad esempio, di realizzare brevi video clip o di visionare brani prodotti dagli stessi partecipanti al percorso formativo, accrescendo in tal modo la funzione di coinvolgimento didattico.

I filmati

L’uso del filmato all’interno di un corso si dimostra produttivo per l’apprendimento, come spunto per la discussione e per alleggerire i tempi della lezione frontale.

Certamente il film non sopperisce al corso e con esso al ruolo del docente, nonché all’uso di role playning o altre modalità didattiche, ma ne rappresenta un importante strumento di arricchimento. Sarà il docente che, nel progettare l’unità formativa, individuerà il momento più adatto alla visione; naturalmente la proiezione è possibile solo in presenza di idonei strumenti accessori, che del resto vanno preventivamente predisposti e testati (… prova audio, prova nitidezza dell’immagine).

Un sistema semplice è quello di registrare parti di film o immagini da programmi o telegiornali. È buona norma che il clip non superi i dieci minuti e che il conduttore ne conosca i contenuti, anche per poter programmare e meglio gestire il debriefing. A questo proposito nella fase di progettazione è bene tenere presente che:

• 15 minuti di film equivalgono pressoché ad un’ora di lezione; • è opportuno che il docente sieda tra i partecipanti e presti la

medesima attenzione nella visione, come se la vedesse per la prima volta;

• la discussione sia ricondotta sulle scene da approfondire e gli argomenti da trattare.

L’uso dei filmati come metafore

Le metafore possono, per certo, diventare strumenti didattici

interessanti poiché, riferendosi a significati universali, favoriscono il passaggio dalla teoria alla pratica del contesto lavorativo.

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Attraverso le metafore si possono raccontare delle storie allo scopo di stimolare nuovi comportamenti ed accendere le riflessioni e le emozioni di chi ascolta; possono essere usate quando il clima d’aula è favorevole e, ovviamente, quando l’argomento trattato lo consente.

I filmati possono sostituirsi all’uso di metafore costruite ad hoc per lo specifico corso. Per questo scopo è però indispensabile che sin dalla progettazione didattica si analizzi il clip, il film o il cortometraggio che si intende utilizzare in modo approfondito, per verificarne l’attendibilità e la coerenza con i contenuti delle unità didattiche.

Per tale verifica occorre: • individuare un’analogia tra quello che vogliamo spiegare e

l’argomento del filmato; • assicurarsi che i personaggi del filmato siano coerenti con le

finalità didattiche; • valutare il contesto in cui è ambientato il film/metafora; • definire i parallelismi con la realtà oggetto dello specifico

percorso formativo; • predisporre delle similitudini e delle esperienze reali che possono

essere collegate al contesto trattato; • predisporre e proporre le soluzioni e i temi del debriefing che

potrà seguire alla visione.

La scelta del film

Una prima attività da svolgere è quella di individuare nel film le scene più adatte a trasmettere i concetti ed accendere emozioni.

Naturalmente è bene tenere presente che la forza di un film come mezzo di comunicazione cresce in base al suo spessore artistico e in base alla capacità del docente di penetrare all’interno dei significati contenuti in esso. Infatti come lo stesso concetto può essere supportato da diverse scene, così può aumentare o diminuire l’emotività e la profondità del messaggio.

Quindi il formatore che intenda utilizzare spezzoni di film, più o meno noti o plauditi dalla critica cinematografica, nella sua selezione non dovrà solo saper scegliere un contenuto adatto alle sue finalità didattiche, ma

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dovrà effettuare delle scelte tenendo conto anche delle capacità artistiche del regista o degli attori protagonisti.

Coinvolgimento emotivo L’utilizzo di film e il successivo debriefing sono efficaci solo se

producono un coinvolgimento emotivo del discente, e l’emozione è già di per sé un percorso formativo.

La visione di un video è la risultante di molte e diverse dinamiche, spesso talmente complesse da non poter essere nemmeno spiegate. È comunque indubbio che un buon risultato sia ottenibile partendo dalla predisposizione del discente nel comprendere i termini, i suggerimenti, gli spunti e le indicazioni del docente, che a sua volta dovrà sviluppare e stimolare il giusto coinvolgimento emotivo, e quindi, in ultima analisi, sostenere un buon clima d’aula.

Il coinvolgimento emotivo nell’utilizzo dei filmati nella formazione è l’elemento che potremmo definire strategico e che determina il successo di un percorso formativo che ne faccia uso.

Identificazione dello spettatore

Nella formazione della salute e sicurezza dei lavoratori è particolarmente importante tenere presente chi sono i fruitori del percorso a cui si riferisce l’azione formativa nel momento in cui si decide di utilizzare i filmati.

È anche questa la chiave del successo dello strumento didattico, estremamente potente, ma altrettanto difficile da utilizzare in modo efficiente ed efficace. La scelta dei filmati, infatti, è particolarmente importante per raggiungere quel coinvolgimento emotivo dei partecipanti di cui abbiamo parlato e che si può spingere ai limiti della identificazione nelle situazioni rappresentate o nei personaggi: anzi, maggiore sarà l’identificazione e più forte sarà il coinvolgimento emotivo.

Lo stato emotivo viene assunto come reale e riesce ad abbattere lo scetticismo dello spettatore che non considera più il film come un artefatto, ma come un qualcosa che, anche se irreale, richiama argomenti

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e situazioni reali. Se ciò avviene l’azione formativa ottiene il risultato sperato. Il filmato assume il ruolo di metafora ed utilizzando una situazione di per sé “irreale” si riesce a coinvolgere totalmente i partecipanti ad a trasmettere loro buone prassi ed idee da utilizzare nel mondo reale, in situazioni concrete.

Nel momento del debriefing, in cui si scende sul campo della “verità”, la relazione tra docente e discente è chiara in quanto pur nascendo da un argomento artefatto, entrambi sanno che sono giunti sul campo della realtà, e quindi, le argomentazioni che si andranno a trattare godranno della completa predisposizione del discente nell’apprendere e comprendere.

È necessario che in tutti i soggetti della formazione (dal docente al discente) ci sia la consapevolezza che questa metodologia non è un inganno o un passatempo, poiché il transfert che si realizza connettendo il mondo “fittizio” di un film, con argomenti, riflessioni, dinamiche, emozioni della vita reale, esiste ed è realizzabile; proprio agendo su questo collegamento il docente troverà gli strumenti e le motivazioni per le quali potrà incidere in modo determinato ed efficace sui comportamenti dei partecipanti.

Un altro aspetto da tenere presente nella scelta dei filmati è quello relativo al tipo di identificazione che si vuole ottenere in relazione ai partecipanti.

Tale aspetto risulta particolarmente importante nei corsi sulla salute e sicurezza dei lavoratori nei quali i film da utilizzare potranno, e forse dovranno, essere diversificati a seconda che ci si rapporti a dirigenti, preposti, RLS, oppure lavoratori impegnati su attività ad alto rischio.

È intuibile poi che il tasso di coinvolgimento del partecipante sarà maggiore nel visionare situazioni che in tutto o in parte lo hanno coinvolto nella vita reale.

Questa circostanza consentirà un’elevata predisposizione, da parte del partecipante immediatamente “identificatosi”, a recepire, partendo dai contenuti del filmato appena visto, argomentazioni, concetti e conclusioni proposte dal docente come applicabili alla vita reale.

Si assisterà, invece, ad una sorta di identificazione indiretta quando il discente/spettatore riesce ad identificarsi, pur non avendo mai vissuto esperienze analoghe. L’identificazione indiretta può scattare nel momento in cui il partecipante, adeguatamente predisposto nella dinamica d’aula da parte del docente, riesce a penetrare nel personaggio

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e nella situazione raccontata nel filmato al punto da vivere la realtà rappresentata, anche se molto diversa dalla sua, come se gli appartenesse.

Conclusioni

Desidero concludere questi appunti sull’uso dei filmati nella formazione, che definirei uno strumento innovativo nello specifico ambito della tanto tecnica e spesso standardizzata formazione alla sicurezza sul lavoro, riportando il pensiero di un filosofo francese, Edgard Morin, noto per l’approccio transdisciplinare con il quale ha affrontato un’ampia gamma di argomenti.

“…La scienza, le scienze sono ancora oggi in gran parte riservate agli esperti, agli iniziati e incomprensibili ai più. La democrazia cognitiva presuppone che tutti i cittadini possano appropriarsi degli apporti fondamentali delle scienze non come mere conoscenze di tipo enciclopedico, bensì come mappe organizzatrici dei saperi che fanno parte di uno stesso sistema. Ci sono tanti modi per andare verso la democrazia cognitiva, altrimenti essa si svuota: attraverso i mass media, istituendo Centri di studi e insegnamenti permanenti, promossi anche dalle università, che fungono da uffici di “domanda e offerta di conoscenza” a tutti i cittadini opportunamente sensibilizzati. Ma anche la democrazia cognitiva presuppone la riforma del pensiero.

Gli insegnanti per primi devono essere sensibilizzati dell’inderogabilità dell’avvento di una democrazia cognitiva e quindi della riforma del pensiero per una riforma dell’insegnamento. Si tratta di un lavoro impegnativo, ma non impossibile, che richiede la formazione dei formatori e l’auto-rieducazione degli educatori. Essi devono sperimentare nel campo la interdisciplinarità e la transdisciplinarità tra cultura umanistica e quella proveniente dalle scienze, vale a dire appunto la circolarità dei saperi pur nella loro complessità.

La sfida per tutto l’insegnamento, all’alba del terzo millennio, è quella di superare l’epoca caratterizzata da saperi separati gli uni dagli altri e di proporre agli studenti una cultura che permetta di articolare, collegare, contestualizzare, di mettere all’interno di un insieme le conoscenze che essi hanno acquisito. Gli insegnanti possono certamente trovare un valido aiuto nel riferimento a metodi e modelli di lavoro già ora fruibili, ma devono soprattutto auspicare per se stessi la rinascita dell’amore e della passione per la loro professione perché, per essere

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educatori, come Platone ci suggerisce, bisogna amare ciò che si insegna e le persone a cui si insegna ...”

È stato forse anche dopo questa lettura che ho approfondito il pensiero, per il vero già condiviso da molti, sull’uso di uno strumento didattico ancora poco usato nella formazione alla sicurezza sul lavoro2.

2 Per approfondire, una breve bibliografia sul tema, usata anche per la redazione del presente contributo: Morin E. (1999), Educare gli educatori, EdUP. L'uso del film nella formazione - Michelangelo Gentile, http//www.bloom.it/gentile1.htm. Carley, M.S. (1999) Training go to the movies, Training & Development, Cortese C.G., Ghislieri, C. (2004) Il Cinema. In: R.C.D. Nacamulli. D. Boldizzoni (a cura di) Oltre l’aula, Apogeo. Milano, pp. 143-164. D’Incerti, D., Santoro, M., Varchetta, G. (2007) Nuovi schermi di formazione. Guerini e associati, Milano. Quaglino, G.P., Piccardo, C. (a cura di) Scene di leadership. Raffaello Cortina Editore, Milano. Casula Consuelo (2008), I porcospini di Schopenauer, Franco Angeli,Milano. Castagna Maurizio (2009), Progettare la formazione, Franco Angeli, Milano. Castagna Maurizio (2007), Esercitazioni,casi e questionari, Franco Angeli, Milano.

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La qualità della formazione come strumento di contrasto degli infortuni sul lavoro

di Francesco Naviglio1

La recente approvazione degli Accordi Stato-Regioni2 sulle modalità

di progettazione, gestione ed erogazione dei corsi di formazione sulla salute e sicurezza sul lavoro, impongono una seria riflessione sulla qualità dei contenuti di tali corsi, sulle modalità di erogazione e verifica dell’efficacia e sulla idoneità dei docenti. Per tale motivo all’interno di questo articolo ho riportato in parte i contenuti di altri miei interventi su queste tematiche che appaiono ancora attuali.

Il Mercato della formazione sulla sicurezza del lavoro in Italia

L’Italia, dal punto di vista giuridico, è all’avanguardia da diversi decenni. Tuttavia ogni qualvolta si presentano o commentano i dati sugli infortuni sul lavoro e le malattie professionali il coro è univoco: c’è ancora molto da fare!

È vero! Finché ci sarà un solo morto o un infortunato per cause di lavoro, l’opera non sarà compiuta, ma è anche vero che non possono essere accettabili riduzioni annue degli infortuni sul lavoro dell’1 o 1,5% e che si registri ancora una media di più di 3 morti al giorno.

1 Segretario Generale AiFOS, Sociologo dell’organizzazione, Docente Formatore Senior per la sicurezza. 2 Gli Accordi dello scorso 21 dicembre 2011 sono stati pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale n. 8 dell’11 gennaio 2012. Sono entrati in vigore il 26 gennaio 2012.

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Tale andamento infortunistico, peraltro, è in clamoroso contrasto con «l’ambizioso obiettivo» della Commissione Europea di ridurre in media del 25% il numero degli infortuni sul lavoro nell’UE (cfr. Relazione di Glenis Willmott sulla strategia comunitaria 2007-2012 per la salute e la sicurezza sul luogo di lavoro).

Dal 2003, anno di entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 195/033, si è dato un grande impulso alla formazione considerata, a ragione, una leva imprescindibile per la lotta al fenomeno. In cinque anni, tuttavia, le cifre sulla riduzione degli infortuni e delle malattie professionali hanno subito un trend di leggera flessione che non può considerarsi soddisfacente considerato l’impegno profuso dalle forze politiche, sociali ed economiche nell’ambito della prevenzione e sicurezza dei luoghi di lavoro.

Come si spiega tutto ciò? Le politiche prevenzionali sui posti di lavoro, a parte alcune disgraziate eccezioni, sono diffuse nella quasi totalità delle aziende italiane. I lavoratori stessi sono sottoposti regolarmente a processi di formazione ed informazione, considerati, giustamente, cardini del sistema di prevenzione e protezione aziendale.

È dunque lecito chiedersi dove si annidi il problema. Evidentemente il problema si nasconde proprio nel modo di fare

formazione, che risente di un sistema tutto italiano di affrontare alcune questioni nell’immediato da un punto di vista formale, senza preoccuparsi delle conseguenze nel lungo periodo.

La grande richiesta di corsi conseguente all’emanazione della legge 195/03, integrativa del D. Lgs. n. 626/94, ha determinato la proliferazione di innumerevoli “scuole”, “enti”, “accademie” che si sono avventurate nel campo della formazione in tema di salute e sicurezza dei lavoratori risultando “ope legis” legittimate ad erogare i corsi con “verifica finale dell’apprendimento”.

Come e da chi vengono definite le modalità di verifica dei corsi per datori di lavoro RSPP, chi accerta le professionalità e l’accuratezza di coloro che effettuano le verifiche, e ancora, chi accerta al di là dei contenuti dei corsi, la qualità delle metodologie didattiche e dei docenti

3 Decreto Legislativo 23 giugno 2003, n. 195 “Modifiche ed integrazioni al decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, per l’individuazione delle capacità e dei requisiti professionali richiesti agli addetti ed ai responsabili dei servizi di prevenzione e protezione dei lavoratori, a norma dell'articolo 21 della legge 1° marzo 2002, n. 39”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 174 del 29 luglio 2003.

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che operano nelle strutture didattiche che erogano i corsi previsti dalla 195/03?

Sono le stesse domande che ci poniamo quando affrontiamo i dibattiti sulla qualità ed efficacia della formazione scolastica ed universitaria in Italia. Penso che sia altrettanto legittimo interrogarsi sulla qualità ed efficacia di corsi che hanno l’obiettivo di formare gli operatori che sui posti di lavoro hanno il compito di contribuire alla salvaguardia della salute e sicurezza dei lavoratori.

Si spera che l’innalzamento dell’attenzione verso i processi formativi sulla salute e sicurezza del lavoro, testimoniato dalle scelte fatte nell’Accordo Stato-Regioni del 21 dicembre 2011 inerente la formazione dei datori di lavoro che assuma direttamente il ruolo di RSPP, possa contribuire ad una migliore qualificazione dell’offerta formativa inducendo tutti coloro che sono interessati solo al business e non all’efficacia e della qualità dei percorsi formativi ad abbandonare il mercato.

Quale formazione è adeguata alla sicurezza sul lavoro?

In modo erroneo si è ritenuto, e si

ritiene ancora oggi, da più parti, che la formazione nel campo della salute e sicurezza dei lavoratori sia riservata a docenti di estrazione specialistica (giuristi, medici, ingegneri, geometri, tecnici della sicurezza, etc.) in quanto direttamente coinvolti nella gestione di tutte quelle attività codificate nelle normative che regolano la materia.

C’è inoltre la sensazione che tra coloro che si occupano di formazione con la “F” maiuscola tale settore venga considerato “altro” rispetto a quello tradizionale, quello che nasce e si sviluppa nelle università e negli ambienti aziendalistici, rivolto soprattutto a dirigenti, quadri e risorse “ad alto potenziale”.

Tale orientamento ha fatto sorgere nei formatori, che potremmo definire “tradizionali”, la convinzione che questo campo di attività sia loro precluso in quanto riservato, per l’appunto, a figure professionali caratterizzate da una specializzazione ed una conoscenza tecnica. La

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conseguenza è stata una quasi totale assenza dei formatori tradizionali nella progettazione e gestione dei percorsi di formazione previsti dal D. Lgs. n.195/03 e dal Decreto Legislativo n. 81/2008.

Come già accennato nel paragrafo precedente, inoltre, il problema principale è da ritrovare nella progettazione e gestione di percorsi formativi pensati esclusivamente per rispondere ai requisiti ed alle imposizioni dettate dalle norme. Percorsi formativi che, ideati per “…essere in regola con le leggi…”, hanno lasciato in secondo piano l’esigenza di formare i lavoratori per contribuire realmente a ridurre il numero degli incidenti sul lavoro ed il tributo di sangue che giornalmente pagano i lavoratori.

Naturalmente di ciò non possono essere considerati colpevoli coloro che, pur esperti in campi ed attività specifiche, vengono chiamati a svolgere un’attività di formazione di cui spesso ignorano i fondamenti e le tecniche. Quanti di coloro che vanno in aula a tenere corsi di formazione sulla salute e sicurezza dei lavoratori ritengono sufficiente essere in possesso di mere conoscenze specialistiche e competenze tecniche senza aver mai frequentato un corso per formatori e senza avere competenze sulle metodologie e tecniche formative dedicate agli adulti? Troppo spesso si confonde, non avendone chiare le differenze, il concetto di formazione e addestramento; si ritiene che un esperto possa essere anche un formatore tralasciando di verificarne le capacità comunicative e il possesso di competenze relazionali fondamentali in un tipo di formazione che necessariamente comporta l’esigenza di modificare i comportamenti e gli atteggiamenti dei lavoratori esposti a rischi lavorativi.

È altrettanto vero che la colpa non può essere addossata agli stessi

lavoratori che subiscono, a volte inconsapevolmente, processi di formazione di cui non capiscono e non condividono le finalità. Da molte parti si sostiene che gran parte degli incidenti sul lavoro (circa l’80%) siano determinati dal fattore umano quasi a voler evidenziare che i datori di lavoro poco possono fare se i lavoratori continuano ad essere disattenti e imprudenti!

Siamo al paradosso: si vuole quasi sostenere che i lavoratori stessi siano la causa primaria degli infortuni sul lavoro e che quindi poco si può fare affermando addirittura (incaute fonti governative) l’inutilità della formazione alla sicurezza sul lavoro.

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Forse una parte di verità c’è in queste dichiarazioni se, in modo miope, ci si limita a discutere sulla mancata preparazione dei lavoratori ad affrontare i rischi ed i pericoli legati alla loro attività. Arrivare però a teorizzare cinicamente una loro intenzionalità a non voler attuare misure prevenzionali a tutela della loro integrità psico-fisica sembra veramente troppo!

La realtà è che da sempre l’approccio formativo verso la salute e sicurezza dei lavoratori è stato finalizzato e ridotto al mero rispetto delle norme senza una reale volontà e/o possibilità di intervenire sui comportamenti ed atteggiamenti dei lavoratori, unica modalità formativa in grado di incidere sugli andamenti infortunistici.

Da sempre la formazione in tema di salute e sicurezza dei lavoratori si ferma sulla porta dell’azienda, della fabbrica, dell’ufficio. Ci si limita a formare quello che potremmo definire il “front office” della salute e sicurezza dei lavoratori: l’R.S.P.P., gli A.S.P.P., il Datore di lavoro, il medico competente, oggi i dirigenti, i preposti e gli R.L.S. Insufficiente, oltre che inadeguata, è la formazione rivolta ai lavoratori impegnati giornalmente nelle attività operative e che sono le vittime reali degli infortuni.

Questo tipo di formazione è solitamente gestita dagli R.S.P.P. o dagli

stessi datori di lavoro che, spesso, non sono in possesso (loro per primi) di adeguate competenze e conoscenze tali da garantire una formazione efficace, oltre ad essere spesso pressati da esigenze di bilancio.

Tutti aspetti questi che, se analizzati a fondo, possono aiutare a prendere coscienza sui variegati aspetti del problema utili ad individuare metodologie e strumenti idonei a fronteggiare e combattere il fenomeno degli infortuni e delle morti sul lavoro.

In primo luogo è necessario che esperti formatori, senza delegare figure intermedie, entrino in contatto direttamente con i lavoratori in azienda, sul posto di lavoro, analizzando con i diretti interessati le modalità lavorative, valutando insieme a loro i rischi, i pericoli, i mancati infortuni e le possibili misure idonee a ridurre se non addirittura escludere le possibilità di incidente.

Anche la formazione rivolta ai responsabili della realizzazione delle misure di prevenzione (datori di lavoro, dirigenti, preposti, R.S.P.P. e A.S.P.P.) dovrà essere integrata dando maggiore spazio ed enfasi nei programmi a tematiche quali i processi comunicativi, le tecniche

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formative, la gestione delle risorse umane e delle dinamiche di gruppo, le tecniche di integrazione e lo sviluppo delle competenze.

La conoscenza e la formazione sulla normativa in tema di salute e sicurezza dei lavoratori dovrà essere considerata un “pre-requisito” per chiunque abbracci una nuova professione o avvii una qualsiasi attività commerciale o industriale.

Non è possibile che si dedichi ancora tanto, troppo, tempo nei corsi di formazione per illustrare le norme e le possibili sanzioni per chi viola le normative sulla salute e sicurezza dei lavoratori, mentre viene dedicato un tempo sicuramente insufficiente per rafforzare nei datori di lavoro, nei dirigenti e preposti, negli R.S.P.P. competenze e tecniche per gestire i rapporti con e tra i lavoratori, per valutarne le competenze, le attitudini, le loro possibili reazioni di fronte ai rischi e pericoli connessi alla loro attività lavorativa, la loro propensione a lavorare in gruppo e a garantire, oltre alla loro sicurezza e integrità psicofisica, anche quella dei compagni di lavoro.

Evidentemente tali contenuti formativi non sono facilmente trasferibili e, cosa importante, non tutti sono in grado di farlo efficacemente.

Gli Accordi Stato-Regioni di cui abbiamo parlato in apertura hanno tentato di porre rimedio a tale situazione riformulando la struttura dei percorsi formativi, escludendo la possibilità di aule composte da partecipanti eterogenei e indicando la strada di una reale formazione alla sicurezza basata sull’individuazione dei rischi specifici a cui ciascun lavoratore è esposto. In relazione a tale individuazione i percorsi formativi, identici nella prima fase, dovranno essere integrati da percorsi incentrati, per ciascun lavoratore, sul rischio specifico a cui lo stesso è esposto.

È indubbio che l’onere a cui i soggetti della sicurezza in azienda dovranno sottoporsi aumenterà sia per tempo dedicato che per risorse economiche investite, ma è altrettanto vero che non c’è un termine di paragone a cui si possano rapportare la salute e la vita di un lavoratore.

Un altro problema da affrontare e risolvere - da me più volte sottolineato - è quello relativo al superamento dell’idea che la formazione alla salute e sicurezza dei lavoratori sia “sporca di polvere, unta d’olio, impregnata di sudore” e destinata unicamente agli operai, ad una platea a basso potenziale e quindi con scarsi contenuti culturali.

Certo non è una formazione a cui si addicono le aule accademiche, gli hotel di lusso, le dotte disquisizioni, le citazioni ad effetto. È una

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formazione concreta, a volte arida, finalizzata ad obiettivi reali, dalla cui efficacia spesso dipende l’integrità fisica dei partecipanti stessi.

Ciò non esclude, tuttavia, che, adottate le opportune contestualizzazioni ed integrazioni, i partecipanti a corsi di formazione alla salute e sicurezza sul lavoro possano apprezzare ed interiorizzare, tramutandoli in comportamenti ed atteggiamenti adeguati, percorsi formativi che li accompagnino nel loro vivere quotidiano fatto di rischi e pericoli per la loro salute ed integrità fisica.

Diviene quindi necessario, e su questo si sta lavorando a livello ministeriale, definire dei parametri certi mediante i quali identificare un corpo docente qualificato e preparato a condurre percorsi formativi dedicati al mondo del lavoro e finalizzati a rafforzare e diffondere una cultura della sicurezza comportamentale e motivazionale, non solo tecnica, nella convinzione che ciò si può ottenere, al di là degli investimenti in tecnologia e ricerca e di una formazione il cui unico risultato sia un “effetto placebo”.

Una vera prevenzione si realizza entrando nel vissuto dei lavoratori

fornendo loro schemi di comportamenti e atteggiamenti adeguati a fronteggiare i rischi e i pericoli connessi con lo specifico ambiente lavorativo.

Tale progetto formativo comporta naturalmente l’esigenza di valutare attentamente l’opportunità di utilizzare innovative tecniche di formazione che siano finalizzate a quanto detto: il teatro d’impresa, il PCM (Process Comunication Management), l’utilizzo di filmati, l’analisi transazionale appaiono come alcuni degli strumenti idonei a modernizzare le metodologie e i programmi formativi nel campo della salute e sicurezza sul lavoro.

Tale prospettiva comporterà inevitabilmente un innalzamento del livello medio dei programmi formativi alla salute e sicurezza dei lavoratori in quanto le competenze richieste ai formatori andranno oltre, e a prescindere, dalle conoscenze tecnico-specialistiche che dovranno essere integrate da quelle proprie della formazione tradizionale.

Sarà questo un salto di qualità che permetterà alla formazione dedicata alla salute e sicurezza dei lavoratori di essere considerata e valutata non solo come una formazione “tecnica” e di nicchia, ma alla stessa stregua delle altre tipologie di formazione degli adulti, acquistandone pari dignità.

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L’aspetto che più ritengo degno di attenzione è quello relativo ai

destinatari della formazione: i lavoratori impegnati nei vari processi produttivi. Per questa tipologia di destinatari l’approccio formativo e le metodologie didattiche acquistano una valenza di estrema importanza essendo loro stessi il punto critico della prevenzione e della salute e sicurezza sul lavoro.

Ciascun formatore nel prepararsi ad erogare un percorso formativo

alla sicurezza sul lavoro dovrà, in fase di progettazione, tenere presente che è fondamentale in questa fase della formazione agevolare, secondo un approccio andragogico, l’instaurazione di un clima d’aula che favorisca l’apprendimento, che sia emotivamente sicuro, in cui i partecipanti si sentano certi di non essere giudicati ma aiutati ad orientarsi verso un cambiamento “evolutivo” in un clima in cui ai partecipanti sia concesso, senza timori, la possibilità di “sbagliare”.

Secondo tale impostazione il formatore dovrà sostituire ad una didattica meccanicistica, vista come semplice adempimento professionale fondato sul trasferimento di conoscenze con modalità passive, una metodologia formativa che abbia l’obiettivo di coinvolgere il lavoratore trasferendogli “sensazioni e motivazioni” che aiutino a far percepire la sicurezza sul lavoro anche come un fatto etico e sociale.

Deve utilizzare metodiche di formazione esperienziale per far toccare con mano e vivere il collegamento tra i modi di agire connessi alla sicurezza e le conseguenze pratiche e psicologiche che possono assumere alcuni comportamenti e/o atteggiamenti sul posto di lavoro.

Presupposto di successo per i corsi rivolti ai lavoratori sarà l’adozione di tecniche formative interattive e multimediali che consentano un completo coinvolgimento dei soggetti partecipanti stimolando emozioni che facilitino il processo di apprendimento che produrrà la modifica o l’integrazione dei loro comportamenti una volta rientrati sul posto di lavoro.

Quindi,“utilizzare situazioni emotivamente coinvolgenti risulta non solo un metodo utile per rendere più piacevole e gradito l’apprendere, ma soprattutto un processo fisico indispensabile da dover attivare per realizzare apprendimenti efficaci” (Marco Rotondi . FOR 2002).

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QUADERNI DELLA SICUREZZA AiFOS Rivista trimestrale dell’Associazione Italiana Formatori della Sicurezza sul Lavoro

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