La flotta scomparsa di Kublai - BBC History Italia - Novembre 2013

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[68] BBC HISTORY ITALIA Archeologia Il 15 agosto 1281 un tifone distrusse centinaia di navi partite dal porto cinese di Quanzhou per conquistare il vicino Giappone.Le aveva inviate il Khan dei mongoli.Una missione archeologica italo-nipponica ha scoperto dov’erano finite. Dopo due anni di ricerca ecco i primi risultati ALAMY, MARCO MEROLA/PREFETTURA DI NAGASAKI LA FLOTTA SCOMPARSA DI KUBLAI

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Archeologia

Il 15 agosto 1281 un tifone distrusse centinaia di navi partite dal porto cinese di Quanzhou per conquistare il vicino Giappone. Le aveva inviate il Khan dei mongoli. Una missione archeologica italo-nipponica ha scoperto dov’erano finite. Dopo due anni di ricerca ecco i primi risultatiA

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È un altro giorno di sole cocente a Takashima, piccola isola nel sud del Giappone, regione

del Kyushu. Difficile credere alle previsioni del telegiornale che annunciano l’arrivo di un tifone. Eppure da secoli qui é così. Ad agosto giungono perturbazioni e venti terribili che spazzano via qualunque cosa trovino sul loro cammino. Nel 1281 vi incappò anche la mitica flotta di Kublai Khan, nipote di Gengis, giunta davanti a queste coste per inva-dere l’ultima propaggine di Asia che ancora mancava all’immen-so impero mongolo.

La storia è bellissima, condita da interventi mitici di oscure for-ze, i kamikaze (venti divini), che avrebbero protetto il Giappone dalle brame del nemico distrug-gendone le imbarcazioni prima che potessero approdare.

È tutto disegnato su spettacolari emakimono (letteralmente “rotoli dipinti”, una sorta di lunga perga-mena fatta di carta di riso) che rac-contano per immagini quel che dovette succedere. Certo sono fon-

ti di parte nipponica, espressione artistica di un popolo abituato a esagerare i toni degli accadimenti storici che lo hanno riguardato, che non vanno prese per oro colato. E allora una missione congiunta ita-lo-giapponese di archeologi subacquei composta da esperti dell’Asian Research Institute for Underwa-ter Archaeology, dell’I.R.I.A.E. (International Rese-arch Institute for Archaeology and Ethnology) di Napoli e della Soprintendenza del mare del-la Regione Sicilia ha deciso di andare a verificare.

Le prove che non si tratti di una leggenda, che i tifoni nipponici sbaragliarono veramente l’armata mongola, esistono e sono conservate nel mare di Takashima e delle isole vicine. Legni del fasciame delle navi, ancore, armi, oggetti della vita di bor-do, mortai, c’è un tesoro sott’acqua. Prima, però, per capire l’importanza di questa scoperta faccia-mo un salto indietro nella storia.

Un titolo per il capoOriginariamente voleva significare comandante, leader o capo nelle tribù turco-mongole. Esso conobbe una incredibile fortuna dopo le conquiste di Gengis Khan e la formazione dell’impero mongolo. Questo titolo fu ereditato poi dai suoi successori fino a Kublai Khan

Il Giappone a tutti i costi Kublai non voleva un’altra guerra, non poteva permettersela. Nel 1279 aveva sostenuto un grande sforzo bellico ed eco-nomico per sottomettere gli epigoni della dinastia Song, asserragliati nell’ultimo spicchio ribelle del-la Cina continentale. Alla fine l’impero mongolo era stato unificato (i Khan dominavano un territorio cha andava dalla Corea all’Ungheria e dalla Siberia all’India) ma era anche squassato da inevitabili ten-sioni etniche interne. Aprire altri fronti in queste con-dizioni era rischioso.

Eppure Kublai voleva il Giappone a tutti i costi. L’invasione tentata (e non riuscita) del 1274 gli bru-ciava ancora. Allora, come gesto di distensione, inviò nel 1279 un’ambasceria per proporre all’imperatore nipponico e allo shogun una sottomissione pacifica. I giapponesi risposero giustiziando gli emissari.

Da quel momento in terra nipponica iniziarono i preparativi per la difesa. Lo shogun trasferì un lar-go contingente di samurai nel Kyushu e li rifornì di armi. Poi ordinò di erigere un muro di pietra (chia-mato ishi-tsuiji) lungo 20 chilometri, nella baia di Hakata. L’armata nemica sarebbe arrivata sicura-mente lì visto che era il luogo in cui aveva sede il Korokan, ovvero la “succursale” del Palazzo Impe-riale nel sud del Giappone.

Kublai, dal canto suo, non rimase con le mani in mano. Nei mesi successivi allestì una flotta senza precedenti. Raccontano le Yuan shi (cronache degli Yuan, che era il nome dinastico con cui i mongo-li presero a chiamare loro stessi e tutti i popoli sot-

Sulla carta da risoDue immagini (in alto e sotto)

tratte da un emakimono, rotolo in carta di riso su cui

sono riportate le illustrazioni che raccontano il tentativo di invasione mongola del 1281.

Il rotolo è stato realizzato alla fine del XIII secolo su

commissione di un samurai

Kublai Khan voleva il Giappone a tutti i costi. L’invasione non riuscita del 1274 gli bruciava ancora. Ne chiese la sottomissione, ma i suoi ambasciatori furono uccisi

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tomessi) che abbia assegnato 100mila uomini al comando di tali Fan e Xindu e abbia chiesto aiuto ai coreani, altro popolo ormai “mongolizzato”. Que-sti risposero fornendo 25mila soldati, 15mila marinai, 900 navi e riserve di grano.

I capi militari organizzarono così un’armata “bice-fala” che, cioè, sarebbe dovuta arrivare in Giappone da due direzioni diverse, entro il mese di febbraio del 1281. I quarantamila uomini provenienti dal sud del-la Corea sarebbero approdati sull’isola giapponese di Iki, conquistandola, e lì si sarebbero ricongiunti con i 100mila partiti dal porto di Quanzhou, nella Cina meridionale. Poi, insieme, avrebbero proseguito per Hakata, dove avrebbero scatenato l’inferno.

Le truppe sino-mongole però tardarono molto all’appuntamento, circa sei mesi. Conseguenza ine-vitabile del fatto che a governare le navi c’erano guer-rieri “di terra”, cavalieri e formidabili arcieri ma non veri ed esperti marinai. I coreani aspettarono un po’ e poi decisero di attaccare da soli. Il 10 giugno 1281 Iki fu presa. Dopo due settimane entrarono nel Kyushu e ingaggiarono una battaglia navale che durò per un paio di mesi. Fino al fatale agosto del 1281.

“I coreani che riuscivano a raggiungere la riva con dei piccoli vascelli erano costretti ad aggira-re il muro, a cercare punti di entrata alternativi, ma lì trovavano ad aspettarli i samurai con le spa-de sguainate”, spiega Daniele Petrella, presidente dell’I.R.I.A.E e direttore della missione italiana in Giappone, di cui è partner il Soprintendente del Mare siciliano Sebastiano Tusa. Ancora una volta l’invasore fu ricacciato indietro.

E la flotta partita dalla Cina? Dopo aver arrancato tra le onde per mesi arrivò a vedere le coste giappo-nesi. Appresa la notizia dell’attacco coreano tentò di raggiungere Hakata per dare manforte agli alleati ma non arrivò mai a destinazione.

La violenza degli elementi Mentre transita-va di fronte a Takashima, infatti, la flotta fu colpita alle spalle da un’arma non convenzionale e poten-tissima: un tifone. Era il 15 agosto 1281.

Il gigantesco turbine (che viaggiava a una velocità di 250 km/h) si abbatté sul Kyushu con la forza di una bomba atomica, sradicando alberi e spazzando via

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Archeologia/La flotta scomparsa di Kublai

il ritrovamento della flotta di kublai khan sarà svelato al mondo nel cor-so della prossima Borsa Mediterra-nea del turismo Archeologico di Pae-stum. Nell’ambito dello stesso even-to, il 16 novembre alle ore 14,30, sarà presentato ufficialmente l’i.R.i.A.E (www.iriae.com). L’istituto, giovane nel-la data di nascita (è stato fondato a Napoli nel 2012) e nei componenti, in quanto annovera tra le sue fila molti professionisti under 40 impegnati in missioni di studio in tutto il mondo, è il primo ente italiano ad avere un proget-to di ricerca archeologica con il giap-pone riconosciuto dal Ministero per gli Affari Esteri. Nel 2014, l’i.R.i.A.E. pre-vede di aprire nuove missioni in india e turchia e, attraverso partnership con

università e governi esteri, la pos-sibilità di inviare giovani archeolo-gi italiani a fare esperienza sul cam-po in altri Paesi europei o extraeuro-pei. Con il supporto dell’Ambascia-ta del giappone in italia l’istituto si è anche fatto promotore di un inedito gemellaggio archeologico e turistico tra takashima, santuario delle navi mongole e Baia, alle porte di Napoli, dove c’è un affascinante porto som-merso di epoca romana. •

Sotto i riflettoriL’Italia, con l’I.R.I.A.E., ha avuto un grande ruolo nella missione. I risultati saranno presentati al mondo dell’archeologia a Paestum

Le tracce di una storia affascinante

A destra, due sub misurano la zavorra di una nave

mongola. Sotto, lo schema ricostruttivo della spedizione del 1281. In basso a sinistra

alcune bombe esplodenti chiamate Teppō e un elmo

mongolo. Nel box, il professor Hayashida Kenzō e il

presidente dell’I.R.I.A.E. Daniele Petrella

I kamikaze, venti divini, spiravano a una velocità di 250 km/h e distruggevano tutto quello che trovavano sul loro cammino

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isamurai ebbero un ruolo fondamentale nella

vittoria contro i guerrieri del khan. tutti quelli che si erano salvati dalla tempesta raggiungevano le spiagge e venivano uccisi. Con le armature lustre, gli elmi orrorifici e le katana in mano i guerrieri nipponici erano così invasati da non accorgersi neanche delle ferite.“i samurai non furono l’unico incubo dei mongoli”, spiega lo storico britannico stephen turnbull, esperto di storia militare del giappone che abbiamo intervistato al festival “èstoria” di gorizia. “Ancora più spietati furono i wako, pirati che infestavano il sud-ovest del giappone e compivano continue scorribande. Anche loro, con l’avallo dello shogun, difesero il paese dall’assal-to degli stranieri. Che fossero fuorilegge poco importava, agli occhi dei giapponesi perseguivano una causa nobile e per questo sarebbero stati ricordati come eroi”. •

cose e persone. I mongoli tentarono inutili manovre di fuga ma erano in balia degli elementi. Le loro, tra l’altro, erano “giunche” normalmente utilizzate per la navigazione fluviale, non adatte al mare aperto.

Si calcola che affondarono centinaia di navi e mori-rono in mare almeno 50mila guerrieri. Un’apocalis-se. “Sui numeri, ovviamente, abbiamo tutti i dubbi del caso”, spiega ancora Petrella. “Secondo le fon-ti sarebbero partite 900 navi dalla Corea e 3500 dal-la Cina, per un totale di 140mila uomini. Se fosse così si tratterebbe della più grande flotta della sto-ria, seconda solo a quella impegnata nello sbarco in Normandia del 1944”.

Oltre al numero delle navi però, l’elemento più interessante dal punto di vista archeologico scoper-to dalla missione di ricerca è la presenza a bordo di armi di ultima generazione: i teppo. Si tratta di bom-be esplodenti da lancio composte da un globo di ceramica ripieno di polvere da sparo e schegge di fer-ro (lo si è capito osservando alcuni esemplari inesplo-si ai raggi X). I teppo sono perfettamente raffigurati in alcune scene del Moko shurai ekotoba (“Racconto illustrato dell’invasione mongola”, un emakimono realizzato alla fine del XIII secolo), e ciò conferma che furono utilizzati proprio in quella tragica cam-pagna. “Sappiamo che venivano lanciati con delle catapulte a peso”, puntualizza lo studioso italiano.

La storia riemerge dal mare Ogni giorno un’imbarcazione messa a disposizione dalla Pre-fettura di Nagasaki viene a prelevare gli archeolo-gi italiani e giapponesi che attendono al molo già divisi in piccole squadre di ricognizione da 4-5 uni-tà. Arrivati sui punti prescelti, i sub si immergono per 40-45 minuti. Al termine della sessione si torna tutti al “quartier generale”, una sala riunioni all’in-terno del Museo di Takashima. Lì, dopo l’imman-cabile pranzo a base di sushi, Hayashida Kenzo,

capo della missione, organizza un briefing sull’an-damento della campagna.

Dopo giorni di ricerche interlocutorie un pome-riggio uno degli archeologi comincia a disegnare sulla lavagna il profilo di un oggetto. È un mortaio in pietra che veniva utilizzato per preparare cibo e medicamenti. Si infervora, mentre ne parla ai col-leghi. L’aria è a dir poco elettrica: riferisce di aver-lo visto sotto costa, a circa 12 metri di profondità.

“Mortai di quel tipo lì”, bisbiglia Petrella, “li aveva-no solo le navi sino-mongole”. Sott’acqua, a distan-za di qualche metro da quell’oggetto, ci sono resti di ancore e ceramica cinese del XIII secolo, dicono altri studiosi. Ormai non ci sono più dubbi: ecco la flotta di Kublai! E la prova del tifone?

“Quella è difficile trovarla”, sorride l’archeologo italiano, “anche se i legni delle barche rinvenute non presentano segni di bruciature né di battaglia. Gli scafi sono ridotti in migliaia di pezzi, come se fossero stati sbattuti con violenza contro qualcosa, forse la roccia della costa”.

Cinquantamila mongoli morirono nella tempe-sta ma altrettanti si salvarono. Che ne fu di loro?

Tentarono di arrivare a terra per trovare riparo, ma ad attenderli sul bagnasciuga c’erano i samurai che non gli concessero un solo metro. Dopo que-sto disastro Kublai Khan desistette. Avrebbe voluto organizzare un terzo assalto al Giappone ma non fu in grado di concretizzare il progetto.

Nonostante tutto, alla sua mitica flotta il tempo ha dato l’onore delle armi, ora che la leggenda sta facendo posto alla storia. •

AscesA e cAdutA di un khAnDopo i tragici fatti del 1281 Kublai aveva in animo di tentare nuovamente

l’invasione del Giappone ma alla fine decise di rinunciare. Si ritrovò grasso, alcolizzato e provato dalle morti della moglie e del figlio. Era solo l’ombra

del condottiero valoroso di pochi anni prima. Nella sua lunga carriera aveva compiuto azioni ardimentose ma anche tanti gravi errori strategici.

Samurai, guerrieri senza macchia

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