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Bakunin

CONFESSIONE

Ebook Ita Calibre Collection

by Filuckfiluck.wix.com/pagineparlanti

0017

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LA FIACCOLA

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Edizioni La Fiaccola, Ragusa 1977Titolo dell'edizione francese: "Confession", Les

Editions Rieder,Parigi 1932

Traduzione di Domenico TarantiniPrima edizione italiana nella Biblioteca delle collane

«Anteo» e «LaRivolta» gennaio 1977

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INDICE Nota dell'editore "Bakunin, un grande nemico dell'ordine"

(Introduzione di Domenico Tarantini Lettera allo zar Nicola Primo Lettera allo zar Alessandro Secondo Note

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NOTA DELL'EDITORE La «confessione» di Bakunin allo zar Nicola Primo fu

pubblicata a Mosca nel 1921, e forse non è stata piùristampata. Undici anni dopo, nel 1932, uscì a Parigi laprima edizione integrale apparsa fuori dell'UnioneSovietica. Curata da Paulette Brupbacher, apparve nelleEditions Rieder, con un'introduzione di Fritz Brupbacher eun ricco apparato di note di Max Nettlau. Quelle notesono utili per un ristrettissimo numero di studiosi, eproprio per questo non sono state riprodotte in questa

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nostra edizione (la prima, in Italia), la cui traduzione èstata condotta sull'edizione francese citata. Bakunin scrissequesto documento nella fortezza di Pietro e Paolo aPietroburgo nel 1851 per invito di Nicola Primo e con lasperanza di ottenere una mitigazione della pena, magari ladeportazione in Siberia. Lo zar, lette queste pagine,scrisse in margine, di suo pugno: «Non vedo per luinessun'altra soluzione che la deportazione in Siberia». Malo lasciò in galera: Bakunin rimase nella fortezza di Pietroe Paolo dal maggio 1851 al marzo 1854, quando futrasferito nel carcere di Schlüsserburg, dove rimase fino al1857.

Nel febbraio 1855 Nicola Primo morì e gli successesuo figlio Alessandro Secondo. Due anni dopo,gravemente ammalato, Bakunin scrisse una breve petizione(che abbiamo inclusa in questa edizione) al nuovo zar, equesta volta ottenne il risultato che s'era propostoscrivendo a Nicola Primo: venne deportato in Siberia, dovegiunse alla fine di marzo 1857. Vi rimase circa quattroanni: nel 1861 riuscì a fuggire in Giappone, da doveraggiunse San Francisco e New York e, il 28 dicembredello stesso anno, Londra. Da allora e fino alla morte(Berna, 1867) riprese il suo posto di organizzatore e di

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combattente della rivoluzione.

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Introduzione

BAKUNIN, UN GRANDE NEMICODELL'ORDINE

di Domenico Tarantini Che cosa avrà mai potuto confessare il

«criminale pentito» (come egli stesso si definisce)Michail Aleksandrovic Bakunin allo zar Nicola

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Primo - intrighi, delazioni, meschinità? Bakuninera dunque sceso tanto in basso, era crollato a talpunto da gettarsi addosso l'incancellabile macchiadi fango di una confessione delatrice al nemicosupremo delle classi oppresse di tutte le Russie -la «Gentilissima Maestà Imperiale», il «grande etemibile Zar dinanzi al quale tremano milioni diesseri umani ed in presenza del quale nessuno osa,non manifestare, ma semplicemente concepire unaopinione contraria»?

La "Confessione" che Bakunin rese allo zarmentre era detenuto nella famigerata fortezza diPietro e Paolo a Pietroburgo - e che ora per laprima volta vede la luce in Italia 55 anni dopo lasua prima e forse unica pubblicazione in Russia e44 anni dopo la sua prima pubblicazione in unpaese dell'occidente (la Francia) - rivelerà allettore non solo un capolavoro della letteraturapolitica, ma anche e soprattutto alcune dellepagine più belle e travolgenti che il grandeanarchico abbia scritto.

Tradurre e pubblicare - oggi - la"Confessione" potrebbe sembrare un tentativo di

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rendere in qualche modo omaggio a Bakunin, unamaniera tra le altre di celebrare il centenario dellasua morte. Ma non di questo si tratta. Lapubblicazione della "Confessione" non è neppure -non è soprattutto - un invito a consumare B., aconsumarlo fino a morirne. Questa pubblicazionesi propone in realtà due scopi: offrire al lettore undocumento indispensabile ad una conoscenzadiretta, senza intermediari, dell'uomo che non èancora il grande anarchico ma è pur sempre unrivoluzionario non di seconda linea, autentico eforte; dargli un testo che si rivela prepotentementeattuale ancora oggi, in un periodo di fermentirivoluzionari e di aperte convergenze antipopolaritra i partiti storici della sinistra e le forze dellaconservazione capitalistico-borghese, in Italia ealtrove.

B. scrisse queste pagine nel 1851 (quasicertamente in agosto), in una cella della fortezza diPietro e Paolo, dov'era stato portato da Praga allafine di maggio di quell'anno, reduce da duecondanne a morte. Arrestato il 10 maggio 1849,dopo il fallimento dell'insurrezione di Dresda (di

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cui era stato nei giorni dello scontro armatol'irriducibile animatore) aveva infatti subito dueprocessi, culminati nella condanna alla fucilazione(il 14 maggio 1850, da parte della Prussia) eall'impiccagione (il 15 maggio 1851, da partedell'Austria). Consegnato dal governo austriacoalla Russia e condotto coperto di catene e benguardato nella tragica fortezza della capitale, B.non subì alcun processo. Alla durissima pena delladetenzione indeterminata (a vita), Nicola Primovolle aggiungerne anche un'altra, quelladell'umiliazione e della vergogna: confessare isuoi delitti, di proprio pugno, direttamente a lui, lozar, "come al suo padre spirituale". (L'«invito» glifu portato dal conte Orlov, colonnello deigendarmi, due mesi dopo il suo arrivo allafortezza: «L'Imperatore mi manda da voi conl'incarico di ripetervi le seguenti parole: "Digli discrivermi come un figlio scriverebbe al suo padrespirituale". Volete farlo?». B. accettò e chiese unmese di tempo, alla fine del quale inviò allo zar lasua confessione).

L'imperatore, però, non aveva fatto bene i suoi

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calcoli: se s'era proposto di schiacciare ilrivoluzionario sotto il peso di una non lieveumiliazione, ciò che ottenne fu un'umiliazione soloformale. Lo stile del documento è infattipienamente ossequioso e riporta tutte leconvenzioni formali di una petizione allo zar. Mascrivere in altro modo all'imperatore eraimpossibile: lo scritto non sarebbe neppurearrivato sul suo tavolo. Di «umiliante», però, la"Confessione" non ha altro. Anzi, sotto l'apparentee vorrei dire misuratamente ostentata umiliazionedell'ossequio, malamente si celano la fierezza diuna coscienza rivoluzionaria tutt'altro che vinta efinita, e la forza di un'intelligenza politica di primopiano. In realtà lo stile ossequioso assume una suapropria funzione, letteraria e politica. Essocontribuisce a conferire allo scritto un livelloletterario di tragica bellezza, e nello stesso tempoconsente allo scrittore di manifestare ancor piùarditamente certe idee e opinioni di per se stessepericolose, e certamente non presentabilinormalmente a Nicola Primo. Lo stile si amalgamacol contenuto in un armonioso, equilibrato ma

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vivissimo discorso che non cade mai da un pianodi alta dignità. Il livello "politico" della"Confessione" si rivela immediatamente, fin dallesue prime righe, quando B. fa la sua prima,sbalorditiva confessione (come avrà sogghignatodi soddisfazione l'imperatore!): un «soggiorno» didue mesi nella fortezza di Pietroburgo lo hadefinitivamente «convinto» che molte sue anticheconvinzioni sulla «brutalità del governo russo»non erano che pregiudizi assolutamente senzafondamento.

Languire da due mesi in una cella di unaprigione tristamente famosa come quella in cui èdetenuto, tagliato fuori dal mondo a due passidalla casa dei suoi genitori e dei suoi fratelli senzaalcuna possibilità non di vederli ma almeno diaverne notizia; marcire tra quattro muri umidi, buie puzzolenti, privo dell'indispensabile a vivere perun uomo come lui (amici, discussioni e disputepolitiche all'infinito); essere costretto a non averené certezze né incertezze sul proprio destino bensaldo nelle mani di uno zar padrone assoluto dellavita e della morte di tutti i suoi sudditi; e definire

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questa miserabile condizione, questa tortura fisicae intellettuale, «soggiorno» come se si trattasse diuna tranquilla vacanza: ecco la prima, sublimepresa per il culo che B. fa a «Sua GentilissimaMaestà» Nicola Primo di tutte le Russie. Non èsolo una finissima presa in giro del sovrano: B. inrealtà cela nella parola «soggiorno», per uneventuale lettore intelligente e amico, la chiave dilettura del testo che si accinge a scrivere.

Ma c'è di più: «Sire!, io non ho meritato unagrazia simile (l'invito a confessargli i suoi crimini)ed arrossisco ricordando tutto ciò che ho osatodire e scrivere della severità inesorabile di VostraMaestà Imperiale». B. che arrossisce dallavergogna. Ma se ogni riga, ogni frase, ogni paginarivelano tutt'altro che vergogna e rossore. Il fatto èche B. intuisce fin dal primo momento la grandeoccasione che l'inaspettato desiderio di NicolaPrimo gli offre: la possibilità non solo di chiedereuna mitigazione della sua trista condizione didetenuto, ma anche di ottenerla; una mitigazioneche potrebbe arrivare... alla deportazione inSiberia. Meglio i lavori forzati che il carcere.

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Dalla Siberia, poi, chissà.Ora, è dovere primario del rivoluzionario

caduto nelle grinfie del potere contro cui combattequello di fare tutto quanto gli è possibile persottrarsi alla sua reclusione, riacquistare lapropria libertà e riprendere il proprio posto dilotta. Combattere dal carcere il nemico non è lastessa cosa che combatterlo fuori dal carcere.D'altra parte, la situazione in cui si trova B. nel1851 non è certo quella in cui si trovano oggimolti detenuti. B. era completamente isolato.Isolato in un carcere terribile di un paeseschiacciato da un governo assoluto e isolato dalresto del mondo. Nella fortezza di Pietroburgo o inqualsiasi altra prigione, il suo destino èirrimediabilmente segnato: i suoi giorni sisarebbero consumati e sarebbero finiti nel vuoto,nella intima e sterile macerazione intellettuale, inuna tortura, come egli stesso dice, peggiore dellamorte. Una vita densa e calda di passione politica,un vulcano perennemente in eruzione si sarebberomiserabilmente spenti in qualche metro quadratodi una fossa peggiore di una cella mortuaria.

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L'agonia sarebbe stata inesorabile, invincibile,definitiva.

Sottrarsi a questa agonia, sottrarsi a questamorte tanto più sconvolgente perché lenta,lentissima nella sua quotidiana, inarrestabileprogressione: questo è il dovere che insorge nellamente di B. e gli si impone, in un baleno, mentre ilcolonnello della gendarmeria Orlov gli chiede, anome dello zar, se vuole confessare all'imperatorei suoi delitti. Ma non è solo un dovere, è anche undiritto. E' diritto di chiunque sia in carcere, vittimadel potere politico, ovvero suo irriducibile nemicocaduto prigioniero in un momento di lotta, è suodiritto cercare, costruire, cogliere qualunqueoccasione, qualunque mezzo, qualunqueopportunità gli renda possibile non solo disottrarsi alla detenzione, ma anche semplicementedi sperare di potervici sottrarre anche in un futuronon immediato. A B. l'occasione che si presentò èquella di una confessione-petizione allo zar, edegli sente il dovere-diritto di non lasciarselasfuggire. A questo dovere-diritto, però, c'è,invalicabile, un limite, una barriera tanto

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invisibile quanto assoluta: non cadere in unpericolo concreto e tutt'altro che remoto, unpericolo che sostituisce alla morte fisica la mortenella vita ignominiosa del tradimento. Si tratta,cioè, di non cadere nella trappola, di non farsistrumento, neppure inconsapevole, del nemico. Dinon farsi delatore. La delazione, il tradimento nonhanno mai avuto, non hanno, né potranno mai averenon dico una giustificazione, ma soltanto unaumana comprensione. Il tradimento e la delazionenon possono avere perdono. La mia vita, la mialibertà valgono sempre meno della vita e dellalibertà di qualunque mio compagno di lotta che ioho il dovere di salvare col mio silenzio.

Chi più di B. può esserne consapevole? Lacondizione alla quale egli deve subordinare esubordina il suo tentativo di mitigare e anzi mutareil suo destino corrispondendo al desiderio diNicola Primo, è quindi una sola: confessaresoltanto ciò che può nuocere a se stesso e a nessunaltro. Il suo onore di uomo e di rivoluzionarioviene prima e vale incomparabilmente più dellasua stessa vita, più di qualsiasi pena carceraria. B.

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non pone nessun limite al prezzo che può esserglichiesto per il suo silenzio sugli altri: il carcere avita, la tortura fisica e morale, la morte (per lui,però, la morte è una pena tanto più mite delle altredue). Anche questa condizione-dovere balenanella mente di B. mentre il colonnello gendarmegli è di fronte. Il dovere- diritto di cui dicevoprima e questa condizione-dovere balenano anzinello stesso tempo nella sua mente; meglio, sonodue aspetti - inscindibili - della sua intuizione-speranza, del suo «sì» allo zar. Accettando diconfessarsi a Nicola Primo, B. tende con estremasottigliezza ma non senza rischio una abilissimatrappola a Sua Gentilissima Maestà: la trappola diuna sincerità mista magistralmente alla piùsfrontata menzogna politica. Una menzogna che allettore si rivelerà addirittura grossolana, ma cheallo zar sarebbe stato molto difficile intuire osospettare. E' palese menzogna, ad esempio, lapseudo sincerità di certi suoi sentimenti politici, èmenzogna il suo pentimento. E' sincerità, invece, ilsuo professarsi colpevole, criminale. E comeavrebbe potuto dire altrimenti allo zar «sono un

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rivoluzionario», «sono un suo irriducibilenemico», se non professandosi «criminale» e«colpevole»?

Affinché la trappola funzioni, due cose, però,sono prima di tutto indispensabili: convincereimmediatamente lo zar che non gli avrebbe maimentito e disilluderlo fin dal primo momento sui"risultati pratici" della sua confessione.

«Vi supplico di non concedermi che due cose,Sire - scrive prima di dar inizio alla suaconfessione -. Innanzitutto, di non dubitare dellaverità delle mie parole: Vi giuro che nessunamenzogna, nemmeno un millesimo di menzogna,uscirà dalla mia penna. In secondo luogo Visupplico, Sire, di non esigere da me la confessionedei peccati altrui. Confessandosi, nessuno svela ipeccati commessi dagli altri, ma i suoi propri. Dalmio completo naufragio non ho salvato che un solobene: il mio onore, e la convinzione che in nessunluogo, né in Sassonia né in Austria, ho mai tradito,allo scopo di salvarmi o di mitigare la mia sorte.E se sapessi d'aver tradito la fiducia di qualcuno,oppure rivelato una parola che mi fosse stata

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confidata imprudentemente, ne soffrirei più dellatortura. E, Sire, piuttosto che esser vile, preferiscoessere ai Vostri occhi un criminale che merita ilpiù duro castigo».

Ho già accennato allo stile ossequioso,protocollare, di questo memoriale carcerario, alla«umiliazione» alla quale B. dovette piegarsiscrivendolo. Ma si tratta di una umiliazionestrumentale, una via unica e obbligata per arrivareall'imperatore. Ed è proprio qui che si rivelano laforza politica e la felicità formale del documento:grazie ad esse, il testo si spoglia dell'ossequio edel protocollo e si offre nella sua dimensioneautentica e vera di grande pagina, viva e fremente,di letteratura non soltanto politica. L'umiliazione,se mai fosse vera, si riscatta continuamente, tantoche il lettore non tarda ad accorgersi che non sitratta d'altro se non di un abilissimo gioco in cui lafinzione svolge felicemente il suo ruolo sottile manon fragile.

B. non solo sa approfittare delle occasioni cheil suo racconto gli offre, ma costruisce egli stessooccasioni nuove e diverse per dire allo zar (in

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chiave protocollare sì, ma non piatta) cose chenessuno avrebbe mai potuto osare di dirgli senzasuscitare la sua ira e la conseguente punizione.Così, B. riesce a mettere sotto gli occhidell'imperatore il quadro tragico del suo paesestretto nella ferrea mano del governo zarista: «Ilmotore essenziale, in Russia, è la paura, e la pauradistrugge ogni vita, ogni intelligenza, ogni nobilemoto dello spirito. E' duro e doloroso vivere inRussia per chiunque ami la verità, per chiunqueami il suo prossimo, per chiunque rispetti allostesso modo in tutti gli uomini la dignità el'indipendenza dello spirito immortale, perchiunque, in una parola, non soffre soltanto dellevessazioni di cui egli stesso è vittima, ma anche diquelle che colpiscono il suo prossimo...». Riesce afargli toccare con mano, come una cosa palpabile,non solo l'illimitato potere del suo governo, maanche le ragioni che ne determinano lasopravvivenza: «Il Governo non libera il popolorusso innanzitutto perché pur disponendo di unpotere illimitato e di una onnipotenza nel fare leleggi, in realtà è limitato da una massa di

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circostanze, invisibilmente legato dalla suacorrotta amministrazione e dall'egoismo dellanobiltà. Inoltre, perché non vuole in realtà né lalibertà, né l'istruzione, né l'elevazione del popolorusso, perché esso non lo considera che unamacchina senz'anima, una macchina per realizzaredelle conquiste in Europa».

Ma non basta. Egli osa parlare allo zar anchedei suoi irreprimibili slanci rivoluzionari, delpassato, certo, ma lo fa in un modo così vivo,travolgente, appassionato che il passato vienetravolto e tutto vive nuovamente in un presenteimmutabile. Osa parlargli perfino del comunismo(«un nuovo universo, nel quale mi buttai con tuttol'ardore d'un uomo stravolto e morente di sete.Credetti di assistere all'annuncio di una graziadivina, di avere la rivelazione di una nuovareligione della dignità, dell'elevazione, dellafelicità, della liberazione di tutto il genereumano...»). A tal punto ne parla, che ad un certomomento non può sottrarsi ad una domanda tantologica quanto inevitabile: «Che cosa pensi ora?».

Che cosa può rispondere B.? Può forse dire

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"apertamente" che le sue idee sono sempre lestesse, che i suoi pensieri non sono mutati, e che sepotesse non cesserebbe neppure per un attimo lasua lotta contro lo zar e il suo potere, dovunque cisia un re, un governo, un potere? La sua è unarisposta obbligata, ma non sciatta: «Durante i dueanni e più della mia carcerazione (in Prussia, inAustria e ora in Russia) ho avuto il tempo diriflettere su molte cose.... Ho capito che la storiaha la sua propria strada... e che - tranne alcuneeccezioni, rarissime nella storia, eccezioni che laProvvidenza ha, per così dire, ammesse e che lariconoscenza dei posteri ha santificate - nessunuomo privato... non ha né il diritto né il compito diseminare pensieri di rivolta e di alzare una manoimpotente contro le forze superiori e impenetrabilidel destino. In altre parole, ho capito che le mieintenzioni, i miei atti erano stati ridicoli, insensati,insolenti e criminali nel più alto grado; criminaliverso di Voi, mio Imperatore, criminali verso laRussia, mia patria, criminali, infine, verso tutte leleggi politiche e morali, divine ed umane».

Questo passo merita una particolare

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considerazione. Una lettura affrettata potrebbeindurre nell'errore di ritenere che B. condanni il«diritto» dell'«uomo privato» a «seminare pensieridi rivolta», a farsi rivoluzionario. E invero a B.questo «diritto» non importa per nulla. E chi maipuò stabilire una legge che renda legale il«seminare pensieri di rivolta»? La rivoluzione èqualcosa che va contro la legge, è l'esplosivo chedistrugge la struttura legale, il corpo delle leggiche imprigionano ogni singolo individuo, tutta lacollettività. Non è che l'«uomo privato» abbia opossa avere il diritto a lottare contro il suooppressore: questo diritto se lo prende, se locostruisce da sé, lo impone ai suoi nemici e,perché no?, anche ai compagni che con lui lottanocontro il nemico comune. In una parola, chiunquerompe i vincoli con i quali la società lo attanagliae lo schiaccia, per il fatto stesso che opera larottura non fa che imporre una sua propria legge,la legge della propria violenza, della propriacarica di distruzione del sistema che vuole e tentadi abbattere. Può non essere consapevole MichailAleksandrovic Bakunin, che ha speso tutto il

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tempo trascorso nelle regioni tedesche e in Franciaa tessere trame rivoluzionarie ed a combattere,armi in pugno, dove la rivoluzione s'è fatta viva evera nelle strade della città? E' un discorso cheovviamente B. non può fare a Sua MaestàGentilissima. E allora... parla di «diritto». Si badi,però: parla del diritto (che nessun «uomo privato»ha) di alzare una mano impotente contro le forzesuperiori eccetera. E se la mano fosse, invece,potente? Ma è un interrogativo che non può venirein mente all'imperatore.

«Ridicoli, insensati, insolenti» definisce B. isuoi «atti» rivoluzionari. E certo, nella misura incui rimasero circoscritti nell'area del desiderio edel sogno, quegli atti non potettero non avere unpo' le caratteristiche che lo stesso B. indica esottolinea. Ma furono, anche, «criminali nel piùalto grado»: furono, cioè, anche qualcosa diconcreto, azioni delittuose e quindi veramenterivoluzionarie, perché un atto rivoluzionario nonpuò non essere che delittuoso per chi detiene ilpotere. Cosicché, mentre sembra che condannidrasticamente i propri crimini, B. invece li

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conferma con un'audacia quasi scoperta e neafferma tutta l'autentica natura rivoluzionaria.Perché che cos'altro è la rivoluzione, se noninsorgere contro «tutte le leggi politiche e morali,divine ed umane» che costituiscono il sistema,l'ordine sociale che ci opprime, ci sfrutta e ciconsuma?

Eccoci, così, nel cuore della "Confessione", altema centrale - la rivoluzione - che fa di questostraordinario documento un testo leggibile conprofitto ancora oggi.

Come concepisce la rivoluzione B.? Comevede il processo di formazione dell'arearivoluzionaria? Quali problemi concreti gli sonolegati? E qual è lo scopo finale, il «contenuto»della lotta morale al sistema? Nel momento in cuiscrive queste pagine B. non è ancora arrivatoall'anarchia. Del resto, nel 1851 l'anarchiacomincia appena a muovere i primi passi. B. èquindi un rivoluzionario genericamente socialista,ed i fini che si propone rientrano necessariamentenei limiti della concezione socialista della società.Va da sé che il termine «socialismo» va preso con

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cautela: esso non contiene ancora tutto il suosignificato odierno, è un concetto ancora scarnonella sua essenzialità. Eppure, nonostante questilimiti oggettivi, c'è già nella concezionebakuniniana della rivoluzione qualcosa che è piùdi un germe del pensiero anarchico, che darà nonmolti anni dopo i suoi frutti.

Con la rivoluzione borghese che agita l'Europatra il 1848 e il 1849, B. ha tre tipi di rapporti: è unosservatore, un provocatore e organizzatore dellarivoluzione, un rivoluzionario che combatte. Il 26febbraio 1848, tre giorni dopo la proclamazionedella repubblica in Francia, B. giunge a Parigi,dov'è accorso subito dopo aver appreso che «ci sibatteva». Vive per molti giorni in una caserma adue passi dal palazzo del Lussemburgo con glioperai insorti, ed ha occasione di osservarli estudiarli «dal mattino alla sera». Trova in loro«nobile abnegazione», «integrità», «delicatezza dimodi», «eroismo»; ma si rende soprattutto contoche gli operai insorti valgono «mille volte di più»dei loro capi, e che se «avessero trovato un capodegno di loro», si sarebbe potuto «fare miracoli».

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B. intuisce, in sostanza, una grande verità: ilsuccesso della rivoluzione non può essere operaesclusiva delle masse in armi; è indispensabileanche una guida, una organizzazione di comando,che coordini le azioni, fissi obiettivi, dia unosviluppo logico e coerente alla lotta. E'indispensabile, però, che il «capo» (come lochiama) interpreti la volontà delle masse, che ognisua azione corrisponda non agli interessi dellarivoluzione in astratto, ma della rivoluzioneconcreta per la quale le masse sono insorte e sibattono. E' indispensabile che il «capo» non siaaltro che l'organo che raccoglie e realizza laconcreta volontà del popolo in lotta.

In Boemia, dove corre da Parigi per portarvil'incendio rivoluzionario, B. si fa provocatore eorganizzatore della rivoluzione. Ma qualerivoluzione? «Aspiravo ad una rivoluzioneassoluta, radicale; una rivoluzione inestirpabileanche se il governo austriaco fosse poi riuscito adomarla». Si proponeva di «esiliare» tutti i nobili,tutto il clero conservatore, di confiscare tutti i beni- «senza alcuna eccezione» - dei signori e di

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«distribuirne una parte ai contadini poveri perconquistarli alla rivoluzione», mentre l'altra partedoveva essere usata «come fondo straordinarioper la rivoluzione». «Il mio proposito era didemolire tutti i castelli, di bruciare, in tutta laBoemia, i fascicoli di tutti i processi, i documentie i titoli (di proprietà) dei signori, e di annullaretutte le ipoteche e gli altri debiti che nonsuperassero una certa somma». La rivoluzione cheprogettava era «orribile e senza precedenti»,rivolta «più contro le cose che contro le persone».«In effetti, (essa) avrebbe sovvertito le cose a talpunto nel sangue e nella vita del popolo che ilgoverno austriaco, anche se l'avesse battuta, nonsarebbe mai riuscito a sradicarla», perché glisarebbe stato difficile «ritrovare i resti dell'anticoregime distrutto per sempre».

In questi pochi «propositi» c'è, nella suaindiscutibile essenzialità, la legge che condizionail successo di un movimento rivoluzionariopopolare. Essa si compone di vari fattoriinscindibili: la messa fuori combattimento (ladistruzione) della classe egemone; un

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provvedimento economico (la distribuzione aipoveri di una parte dei beni tolti ai ricchi) capacedi risvegliare la coscienza rivoluzionaria deicontadini; la distruzione totale della strutturaorganizzativa del sistema da abbattere. Va da séche questa legge è caratterizzata da un elementofondamentale: la rapidità. Tutto dev'essere fattonel più breve tempo possibile. La rapiditàdisorienta il nemico, esalta il combattente inrivolta, trascina le masse, dà un contenuto vero,innegabile e tangibile alla rivoluzione. Ma larivoluzione va pensata, organizzata, costruitagiorno per giorno, studiata e programmata: solocosì può essere possibile portarla al successo.

Le pagine in cui B. rievoca l'insurrezione diDresda e le cause del suo fallimento contengononon poche considerazioni tuttora valide. AffermaB. che «bisognava preparare un piano di rivolta,un piano per tutta la Sassonia e particolarmenteper ogni città; era necessario designare dei capi,istituire una gerarchia rivoluzionaria, stabilire iprimi atti da fare, i primi provvedimenti daprendere». Era necessario che «la propaganda

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rivoluzionaria si diffondesse dalle città nellecampagne»; era necessario «indurre i contadini apartecipare al movimento rivoluzionario pergiungere ad una rivoluzione forte e generale e nonad una rivoluzione cittadina, isolata e facile dacombattere».

Non è un «piano di lavoro» attuale? Certo,l'odierna situazione politica, economica e socialedei paesi europei non è affatto paragonabile aquella di 125 anni or sono. Molto diversa, perquanto ci riguarda da vicino, è la situazione delnostro paese. E tuttavia il piano di lavoro indicatoda B. non è affatto superato. Si pensi, ad esempio,alla diffusione delle idee "diverse", delle ideerivoluzionarie, a quella che potremmo chiamare«lotta ideologica» contro l'ordine in cui siamocostretti ed in cui cerchiamo (sempre?) di esserenoi stessi. Il messaggio rivoluzionario vienediffuso a malapena solo in alcune aree sociali: lacittà, la scuola, la fabbrica. I piccoli paesi, lacampagna restano lontani, irraggiungibili. Non èche i contadini siano un mondo impenetrabile; èche noi li teniamo lontani, ne facciamo un mondo

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di esclusi. La circolazione non delle idee, maalmeno di certi fatti fondamentali che possonocontribuire a illuminare un intelletto, a dare unaprospettiva diversa ad un uomo, una donna, ungiovane, è inesistente nella immensa area degliesclusi; ma quali nuovi strumenti alternativi siamostati capaci di inventare?

Sarebbe, ovviamente, non solo tristissimo maanche profondamente errato ritenere che per poterlavorare per la rivoluzione e per portare acompimento il lavoro sia indispensabile unaciclopica opera preliminare di informazione, equindi di formazione di una coscienzarivoluzionaria nelle masse, contadine e no. Ilproblema è un altro. Il fatto è che noi non facciamonulla di concreto per essere con quella grandemassa degli «altri» che sono i contadini, gli operaiche non leggono un libro, un giornale. Noi siamo erestiamo (vogliamo restare) privilegiati. Noiportiamo in giro la nostra cultura, la nostraintelligenza, la nostra «prospettiva storica» per vieauliche che non sono quelle della gente che è gentee basta. Rileggiamo ciò che scriviamo e come

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scriviamo. Non è forse vero che finiamo spessocol chiuderci in una specie di isolamento diclasse, in una specie di compiaciuto ritrovare noistessi in quella che riteniamo sia l'area vera dellarivoluzione? Ma quale rivoluzione vogliamo (lavogliamo davvero?), se non riusciamo a liberarcineppure di certe nostre evidenti meschinità?Conosciamo i discorsi vecchi e nuovi - freddi,tragici, inesorabili - sulle minoranze che agisconoe sulla necessità di lavorare a crearle eprepararle. Ma siamo davvero convinti chebasteranno esigue «minoranze agenti» per imporrela rivoluzione alle masse? E che «rivoluzione»sarebbe mai una rivoluzione imposta da pochi amolti?

«Cercare la mia felicità nella felicità altrui, lamia dignità personale nella dignità del mioprossimo, essere libero nella libertà degli altri:ecco tutto il mio credo, l'aspirazione di tutta la miavita.» Questo «credo», questa «aspirazione» checos'altro sono se non il fine della rivoluzione, anzila sua stessa essenza? Il mondo al quale B."aspira", la società rivoluzionaria per la quale

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tesse le sue trame e impugna le armi, non è, e nonpuò essere, una società dell'amore. Una societàsimile non si costruisce con la guerra. Il tema dellasocietà fraterna, dell'altruismo, della rinuncia alsuperfluo, eccetera, non è un tema "nostro". Altrine sono i legittimi portatori, i preti di ieri, di oggi,di domani e di sempre. E' un tema falso e ipocrita,perennemente legato ad un domani che non verràmai. Ciò che invece B. vuole, ciò per cui lotta, èun domani vero e non lontano, una società nuova,di giustizia, di dignità, di libertà. Ma non èpossibile creare questa società senza abbattereprima la struttura sociale che ci viene impostadalla classe che ci domina. Ciò che ilrivoluzionario deve fare, pertanto, non è altro chedistruggere. E' un compito che B, ha intuito edefinito con estrema chiarezza: «la nostra missioneè di distruggere e non di costruire; altri uominicostruiranno, migliori di noi, più intelligenti e piùfreschi».

Dalle pagine in cui rievoca le durissimegiornate insurrezionali di Dresda emerge il profilodi un rivoluzionario che combatte, ma che

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combatte davvero con le armi e con il logorante,ininterrotto lavoro di organizzazione e di guidadella lotta. E' il profilo di un uomo che anche nelmomento culminante ed estremo della lotta nonperde minimamente la sua capacità di osservareuomini e fatti e quindi di scegliere e decidere. Ciòche colpisce in B. è l'aderenza completa, la sintesiarmoniosa e felice fra teoria e pratica, fraideologia e concreto operare nella lotta. Ilrivoluzionario teso a organizzare la battaglia, ilrivoluzionario che spara insieme con i compagni econ loro condivide la speranza e il pericolo, ilrivoluzionario che dà tutto se stesso nella propriaopera di distruzione, non sfugge neppure per unattimo alla sua coerenza, al suo rigore. Non ungesto disperato, non una violenza gratuita, nienteche non abbia un suo scopo logico, non dico vienecommesso, ma neppure sfiora la sua mente. Unalimpida lucidità di giudizio ed un pieno controllodell'azione sono sempre presenti nella mente enello spirito del rivoluzionario che combatte. Nonè una lucidità fredda, metallica; è il sensodell'umano, è quella carica di umana passione che

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è poi la stessa passione rivoluzionaria che incalzal'uomo in rivolta. Perché questo ci dev'essere diinsopprimibile perfino nel momento più vero dellarivoluzione, che l'uomo teso nella violenzadistruttrice dell'ordine sulle cui macerie si dovràcostruire la società della dignità e della libertà,non perda mai la consapevolezza d'essere, proprioperché un rivoluzionario, soprattutto un uomo.

Domenico Tarantinidicembre 1976.

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LETTERA ALLO ZAR NICOLA PRIMO A Sua Maestà Imperiale,Gentilissima Maestà Mentre venivo portato in Russia dall'Austria,

pensando alla severità delle leggi russe econoscendo il Vostro odio implacabile per ogniatto che somigli, anche poco, ad una

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disobbedienza, ed a maggior ragione per unapalese rivolta contro la volontà di Vostra MaestàImperiale; conoscendo anche tutta la gravità deimiei crimini, che non desideravo né speravonascondere o attenuare dinanzi ai tribunali, mi sondetto che mi restava solo una cosa: "soffrire finoalla fine", e imploravo Dio di concedermi la forzadi poter vuotare, con dignità e senza viledebolezza, fino alla feccia il calice amaro chem'ero preparato da me stesso. Sapevo che, privatodei miei titoli nobiliari per il decreto del Senato el'«ukase» di Vostra Maestà Imperiale, avrei potutolegalmente essere sottoposto alla tortura, e,aspettando il peggio, non speravo altro che lamorte, pronta liberatrice di tutte le pene e di tuttele prove.

Non saprei esprimere, Sire, quanto sia statosconvolto e profondamente commosso dalcomportamento nobile, umano e indulgente che hopotuto constatare non appena ho attraversato lafrontiera russa. M'aspettavo tutt'altra accoglienza.Tutto ciò che ho visto, sentito, provato lungo lastrada, dal regno di Polonia alla fortezza di Pietro

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e Paolo, era così contrario a ciò che con terroreattendevo, e così opposto a tutto ciò che io stesso,stando a quello che avevo sentito dire, avevopensato, detto e scritto della brutalità del Governorusso, che, avendo per la prima volta concepitodei dubbi sulla verità delle mie antiche opinioni,mi son chiesto con stupore: non ho forsecalunniato? Un soggiorno di due mesi nellafortezza di Pietro e Paolo mi ha definitivamenteconvinto dell'assoluta mancanza di fondamento dimolti dei miei antichi pregiudizi.

Non pensate, Sire, che, incoraggiato da questocomportamento così umano, abbia concepitoqualche vana speranza. So molto bene che laseverità delle leggi non esclude affatto l'umanità,come d'altra parte l'umanità non esclude affatto unarigorosa applicazione delle leggi. So quanto sianoimmensi i miei crimini e, avendo perduto il dirittodi sperare, non spero più niente. Oserò dirVi laverità, Sire? Sono tanto invecchiato in questiultimi anni ed il mio spirito è così appesantito, chenon ho quasi più desideri. Il conte Orlov mi hafatto sapere che Vostra Maestà Imperiale desidera

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che io Vi scriva una confessione completa di tuttele mie colpe. Sire!, io non ho meritato una graziasimile ed arrossisco ricordando tutto ciò che hoosato dire e scrivere della severità inesorabile diVostra Maestà Imperiale.

Cosa scrivere? Che dirò al terribile Zar Russo,al geloso e temibile custode della legge? Se miconfessassi a voi come mio sovrano, laconfessione si limiterebbe a queste parole: Sire,sono assolutamente colpevole verso VostraMaestà Imperiale e verso le leggi della Patria. Voiconoscete i miei crimini e ciò che Voi sapete bastaper condannarmi, secondo le leggi, alla più duradelle pene che esistono in Russia. Sono stato inaperta rivolta contro di Voi, Sire, e contro ilVostro Governo; ho osato levarmi contro di Voi,nella misura in cui e dove l'ho potuto. Che altrooccorre? Ordinate di giudicarmi e di punirmi,Sire; il vostro giudizio e il vostro castigo sarannoleali e giusti. Che cosa avrei potuto scrivere di piùal mio Sovrano?

Ma il conte Orlov m'ha riferito, da parte diVostra Maestà Imperiale, delle parole che mi

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hanno scosso fino in fondo all'anima e m'hannosconvolto il cuore: «Scrivete, m'ha detto, scriveteal Sovrano come se parlaste al vostro confessore».

Sì, Sire, mi confesserò a Voi come ad un padrespirituale dal quale aspettiamo il perdono, nonquaggiù, ma in un altro mondo; e prego Dio che misuggerisca parole semplici, sincere, venute dalcuore, senza furbizia e senza adulazione, paroledegne di entrare nel cuore di Vostra MaestàImperiale.

Vi supplico di non concedermi che due cose,Sire. Innanzitutto, di non dubitare della verità dellemie parole: Vi giuro che nessuna menzogna,nemmeno un millesimo di menzogna, uscirà dallamia penna. In secondo luogo Vi supplico, Sire, dinon esigere da me la confessione dei peccatialtrui. Confessandosi, nessuno svela i peccaticommessi dagli altri, ma i suoi propri (1). Dal miocompleto naufragio non ho salvato che un solobene: il mio onore, e la convinzione che in nessunluogo, né in Sassonia né in Austria, ho mai tradito,allo scopo di salvarmi o di mitigare la mia sorte.E se sapessi d'aver tradito la fiducia di qualcuno

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oppure rivelato una parola che mi fosse stataconfidata imprudentemente, ne soffrirei più dellatortura. Piuttosto che esser vile, preferisco essereai vostri occhi, Sire, un criminale che merita il piùduro castigo.

Comincio dunque la mia confessione.Affinché sia completa, devo dire qualche

parola sulla mia prima giovinezza. Fui per tre anniallievo della Scuola d'Artiglieria, fui promossoufficiale all'età di 19 anni; ma al termine delquarto anno di studio, mentre facevo parte dellaprima classe di ufficiali, m'incaponii, m'impegolai,mi fuorviai e abbandonai lo studio; superai gliesami nella maniera più vergognosa, o piuttostonon li superai affatto, e per tutte queste ragioni fuimandato in Lituania a prestarvi servizio; fu decisoche non sarei stato in alcun modo promosso per treanni e che non mi sarebbe stato concesso nessunpermesso, né possibilità di dimettermi, finché nonavessi avuto il grado di sottotenente. Così, la miacarriera fu rovinata fin dall'inizio, per mia propriacolpa e nonostante la sollecitudine veramentepaterna di M. Kowanka, allora comandante della

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scuola d'artiglieria.Dopo tre anni di servizio in Lituania, ottenni il

congedo, a stento e contro l'espressa volontà dimio padre. Lasciato il servizio militare, imparai iltedesco e mi immersi avidamente nello studiodella filosofia tedesca, dalla quale m'aspettavo lasalvezza e la luce. Dotato di un'ardente fantasia e,come dicono i francesi, «d'une grande dosed'exaltation» (2), - Vi chiedo perdono, Sire, nontrovo un'espressione russa corrispondente - hodato molto dispiacere al mio vecchio padre, e mene pento con tutto il cuore, ma, ahimé, troppo tardi.Non posso dire che una sola cosa a mia discolpa:le mie stupidaggini di allora, come i miei peccatied i miei crimini posteriori, non furono mai causatida ragioni basse ed egoiste; nella maggior partedei casi, furono causati da idee false, e ancor piùda un bisogno intensissimo e mai soddisfatto diconoscere, di vivere e di agire.

Nel 1840, mio ventisettesimo anno, ottenni damio padre, non senza grandi difficoltà,l'autorizzazione ad andare all'estero per studiareall'università di Berlino. Vi studiai per un anno e

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mezzo. Durante il primo e all'inizio del secondoanno del mio soggiorno all'estero, rimasi lontano,come del resto prima in Russia, da tutte lequestioni politiche, che disprezzavo perfinoconsiderandole da un punto di vista filosofico; lamia indifferenza per esse era così grande che nondesideravo aprire un giornale. Ma studiavo lascienza, soprattutto la metafisica tedesca, nellaquale mi immersi totalmente, quasi fino alla follia,e giorno e notte non vedevo nient'altro che lecategorie di Hegel.

La Germania stessa, però, mi guarì dellamalattia filosofica che vi predominava. Dopo averstudiato più da vicino i problemi metafisici, nontardai a convincermi della nullità e della vanità diogni metafisica: cercavo la vita, ma essa noncontiene che la morte e la noia; cercavo l'azione,ed essa non è che inattività assoluta. Questascoperta fu largamente facilitata dalle mierelazioni personali con professori tedeschi, perchénon c'è nulla di più limitato, di più spregevole, dipiù ridicolo del professore tedesco, ovvero deltedesco in guerra. Chiunque conosca da vicino la

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vita tedesca non può più amare la scienza tedesca;perché essa non è il prodotto puro della vitatedesca ed occupa tra le scienze il medesimo postodegli stessi tedeschi tra i popoli vivi. Alla fine, mene annoiai e smisi d'occuparmene. Così, guaritodella metafisica tedesca, non lo ero, però, dellasete del nuovo né del desiderio e della speranza ditrovare da me, nell'Europa Occidentale, unfavorevole oggetto di studi ed un grande campod'attività. Da quel momento cominciò agermogliare nel mio spirito la nefasta idea di nonrientrare più in Russia: abbandonai la filosofia emi precipitai nella politica.

Fu durante il periodo transitorio che lasciaiBerlino per Dresda e cominciai a leggere giornalipolitici. Con l'avvento al trono dell'attuale re diPrussia, la Germania prese un nuovo indirizzo: ilre, con i suoi discorsi, le sue promesse, le sueinnovazioni, agitò e mise in movimento non solo laPrussia, ma anche le altre regioni tedesche; per cuiil dottor Rüge l'ha chiamato, giustamente, il primorivoluzionario tedesco. Vi chiedo perdono, Sire,di esprimermi così arditamente parlando di una

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testa coronata. In quell'epoca, la Germania erainondata di opuscoli, giornali, poesie politiche, edio divoravo tutto, avidamente. Fu allora che, per laprima volta, sentii parlare del comunismo. Eraapparso un libretto intitolato «Die Sozialisten inFrankreich» [I socialisti in Francia], di Stein, unlibro famoso quasi dappertutto, come primal'opera di Strauss sulla "Vita di Gesù"; questolibro mi rivelò un nuovo universo, nel quale mibuttai con tutto l'ardore d'un uomo stravolto emorente di sete. Credetti d'assistere all'annunciod'una grazia divina, di avere la rivelazione di unanuova religione della dignità, dell'elevazione,della felicità, della liberazione di tutto il genereumano; mi misi a leggere le opere dei democraticie dei socialisti francesi, e lessi avidamente tuttociò che mi fu possibile procurarmi a Dresda.Avendo conosciuto, poco dopo, Arnold Rüge, chepubblicava allora la rivista «DeutscheJahrbücher», che stava abbandonando laletteratura per la politica, scrissi un articolofilosofico e rivoluzionario intitolato «DieReaktion in Deutschland», che firmai con lo

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pseudonimo di Jules Elysard (3); ed ebbi, fin daldebutto, la mano così infelice che la rivista fusoppressa all'indomani della pubblicazione diquesto articolo. Ciò avveniva alla fine del 1842.Giunse allora a Dresda dalla Svizzera il poetapolitico Herweg, ammirato da tutta la Germania eaccolto solennemente dallo stesso re di Prussia,che, poco dopo, lo espulse dai suoi territori. Nonmi soffermerò sulle opinioni politiche di Herweg,delle quali non oso parlare dinanzi a VostraMaestà Imperiale; devo dire, però, che egli è unuomo puro, realmente nobile, d'una larghezzad'animo rara nei tedeschi, un uomo che cerca laverità e non il suo personale interesse ed il suoprofitto. Lo conobbi, ne divenni amico, ebbi conlui, fino alla fine, rapporti di amicizia. Il mioarticolo nei «Deutsche Jarbücher», i miei rapporticon Rüge ed il suo circolo, e soprattutto la miaamicizia con Herweg che si proclamavarepubblicano - una intima amicizia non politica mafondata sulla analogia delle idee, dei bisogni edelle tendenze - tutte queste circostanze attrasserosu di me l'attenzione della ambasciata [russa,

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n.d.t.] di Dresda. Appresi che vi avevano discussodi farmi rientrare in Russia, ma il ritorno in Russiami sembrava peggio della morte.

L'Occidente mi apriva un orizzonte infinito;speravo da esso la vita, cose meravigliose, unaillimitata larghezza di idee, mentre nella Russianon vedevo che tenebre, freddo morale, torpore,inerzia, e decisi di rompere con la mia patria. Tuttii miei peccati e tutte le mie ulteriori disgraziederivarono da quella decisione presa alla leggera.Herweg fu costretto a lasciare la Germania, andaicon lui in Svizzera - se fosse andato in America,l'avrei ugualmente seguito - e mi fermai a Zurigo,nel gennaio 1843.

Come a Berlino ero a poco a poco guaritodella malattia filosofica, così in Svizzeracominciarono le mie delusioni politiche. Maessendo il male politico più nocivo, più grave, eradicandosi nell'anima più profondamente dellamalattia filosofica, per guarirne occorrevano piùtempo, più amare esperienze; "questo male mi haportato nella situazione poco invidiabile nellaquale mi trovo oggi, ed ora io stesso ignoro ancora

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se posso considerarmi completamente guarito" (4).Non oso infastidire Vostra Maestà Imperiale conla descrizione della situazione politica internadella Svizzera; a mio parere, può essere riassuntain due parole: sconci cancan. La maggior parte deigiornali svizzeri sono nelle mani degli emigratitedeschi - non parlo che della Svizzera Tedesca -ed i tedeschi sono sprovvisti di tatto sociale a talpunto che nelle loro mani ogni polemica politicadiventa generalmente una sconcia disputa, unapioggia di meschini e bassi insulti.

A Zurigo conobbi gli amici e gli intimi diHerweg, i quali non mi piacquero, cosicché pertutto il mio soggiorno in quella città evitai diincontrarli frequentemente, e mantenni la miaintima amicizia solo con Herweg.

La repubblica di Zurigo era allora governatadal consigliere di stato Bluntschli, capo del partitoconservatore. Il suo giornale «Der SchweizerischeBeobachter» sosteneva una violenta polemicacontro l'organo del partito democratico, «Derschweizerische Republikaner», il cui redattoreJules Probel era un amico di Herweg. Non oso

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parlare dell'oggetto di queste polemiche, è tropposconcio. Non era una polemica puramente politica,come ne nascono talvolta tra partiti nemici, in altristati: vi partecipavano dei ciarlatani religiosi, deiprofeti, dei Messia, che eranocontemporaneamente nobili cavalieri della liberasussistenza, o più semplicemente ladri, e perfinodelle prostitute, che in seguito si sono ritrovatisullo stesso banco di Bluntschli, come testimoni ecome accusati, nel processo pubblico che chiuse lascandalosa polemica. Bluntschli ed i suoi amici, ifratelli Romer, uno dei quali si diceva messia el'altro profeta, furono condannati e coperti divergogna, come anche le loro signore. Idemocratici trionfarono, anche se anch'essiuscirono non senza vergogna da quello sporcoaffare; e per vendicarsi, probabilmente anche perobbedire alle esigenze del governo prussiano,Bluntschli espulse dal cantone di Zurigo Herweg,che era completamente innocente.

Io vivevo in disparte da quei cancan, nonvedendo gli altri che raramente, ad eccezione diHerweg. Non conoscevo né Bluntschli, né i suoi

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amici, leggevo, studiavo e riflettevo sui mezzionesti con i quali potevo guadagnare il mio pane,perché non ricevevo più danaro dalla miafamiglia. Ma Bluntschli, avendo probabilmentesaputo della mia stretta amicizia con Herweg - checosa non si sa in una piccola città? - o forse per lesue mire d'accattivarsi il governo russo, vollecoinvolgere anche me, e presto ebbe un'occasionefavorevole. Herweg, rifugiato allora nel cantone diArgovia, mandò da me con una sua lettera dipresentazione il comunista Weitling, che fa ilsarto; Weitling, andando da Losanna a Zurigo edesiderando conoscerlo, era andato a fargli visita;da parte sua, Herweg, conoscendo il mio interesseper le questioni sociali, me lo raccomandò. Fuifelice di cogliere l'occasione, che mi avrebbeconsentito, con un contatto personale, di ampliarele mie conoscenze del comunismo, che cominciavaallora ad attrarre l'attenzione generale.

Weitling mi piacque. E' un uomo senza cultura,ma trovai in lui un'intelligenza innata, uno spiritonobile, molta energia, ma soprattutto un selvaggiofanatismo, una nobile e fiera convinzione nella

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liberazione e nell'avvenire della massa ridotta inschiavitù. Non conservò a lungo queste qualità,corrompendosi poco dopo nella schiera deiletterati comunisti. Nel nostro primo incontroriscosse tutta la mia simpatia. Ero disgustato a talpunto delle scipite conversazioni dei meschiniprofessori e letterati tedeschi, che fui felicissimod'incontrare un uomo spontaneo, semplice edincolto, ma energico e ardente. Lo pregai di venirea farmi visita. Veniva da me molto spesso, e mispiegava le sue teorie parlandomi a lungo deicomunisti francesi, della vita degli operai ingenere, del loro lavoro, delle loro speranze e deiloro svaghi. Mi parlava anche delle associazionicomuniste tedesche, che s'erano appena costituite.Io combattevo le sue teorie, ma ascoltavo con vivacuriosità i fatti che mi esponeva. I miei rapporticon Weitling non andarono oltre. Non ebbiassolutamente rapporti d'altro genere con lui, comeanche con altri comunisti, né in quell'epoca nédopo; in quanto a me, non fui mai comunista.

Sire, mi fermo qui, ed esaminerò questo puntopiù a fondo, poiché so di essere stato più volte

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denunciato al governo, prima da Bluntschli, poiprobabilmente da altri, di aver attivamentecollaborato con i comunisti. Voglio, una volta pertutte, liberarmi da ingiuste accuse: pesano su di metanti gravi peccati e non posso addossarmi anchequelli di cui assolutamente non sono colpevole.Ho conosciuto molti socialisti e comunistifrancesi, tedeschi, belgi e inglesi, ho letto le loroopere, studiato le loro teorie, ma non ho maiaderito a nessuna setta, a nessuna associazione, misono tenuto assolutamente lontano dalle loroimprese, dalla loro propaganda e dai loro intrighi.

Ho seguito con sostenuta attenzione ilmovimento socialista, soprattutto comunista,perché lo consideravo come un risultatonecessario e inevitabile dell'evoluzioneeconomica e politica dell'Europa Occidentale (5);vedevo in esso una forza giovane, elementare,incosciente, la cui missione era di far rinascere odi distruggere definitivamente gli stati occidentali.L'ordine sociale, l'organizzazione sociale, inOccidente, sono marci e si reggono solo consforzo doloroso; basta questo a spiegare sia

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l'incredibile debolezza sia il panico che hannotravolto, nel 1848, tutti gli stati occidentali, trannel'Inghilterra; ma tra poco quest'ultima subirà lastessa sorte. Dovunque si guardi, nell'EuropaOccidentale, non si vede che decrepitezza,debolezza, mancanza di fede e depravazione,depravazione dovuta alla mancanza di fede, acominciare dai più alti livelli della scala sociale.Nessuna delle classi privilegiate ha fede né nellapropria missione né nei suoi diritti; tutti fanno icommedianti, gli uni dinanzi agli altri, e non c'ènessuno che abbia fiducia in altri o in se stesso; iprivilegi, le classi ed i poteri dominanti si reggonoappena, con l'egoismo e con l'assuefazione (6), chesono debolissime dighe contro la tempesta ches'avvicina. La cultura si è identificata con ladepravazione dello spirito e del cuore, conl'impotenza. E nel generale marciume non c'è cheil popolo grossolano e incolto, chiamato«popolaccio», che abbia conservato in séfreschezza e forza, e ciò peraltro meno inGermania che in Francia. Inoltre, tutti gliargomenti e le considerazioni che sono serviti

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prima all'aristocrazia contro la monarchia, poi alterzo stato contro la monarchia e l'aristocrazia,servono oggi - forse con maggior forza - allemasse popolari contro la monarchia, l'aristocraziae la borghesia. Ecco in che cosa consiste, a mioavviso, l'essenza e la forza del comunismo, senzaparlare della crescente povertà della classeoperaia, conseguenza naturale dell'aumento delnumero dei proletari, che, a sua volta, èstrettamente legato allo sviluppo dell'industria,come si vede in Occidente. Il comunismo è venutoe viene dall'alto, almeno nella stessa misura chedal basso; in basso, nelle masse popolari, riesce evive un bisogno vago, ma energico, come un istintod'elevazione; nelle classi elevate, comedepravazione, egoismo, istinto di un'infelicitàminacciosa e meritata, vaga e impotente pauraprodotta dalla decrepitezza e dai rimorsi d'unacoscienza oppressa; e la paura, il gran parlarecontro il comunismo hanno contribuito adiffonderlo forse più efficacemente dellapropaganda degli stessi comunisti (7). Mi sembrache il comunismo vago, invincibile, inafferrabile,

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che è dappertutto, che, sotto una forma o un'altra, èvivo in ogni persona, è mille volte più pericolosodel comunismo definito e sistematizzato, predicatounicamente in alcune società comunisteorganizzate, conosciute o segrete (8). Nel 1848 laloro impotenza s'è nettamente manifestata inInghilterra, in Francia e in Belgio, e specialmentein Germania; e non c'è niente di più facile chedimostrare l'assurdità, le contraddizioni el'impossibilità di ognuna delle teorie socialiattualmente note, nessuna delle quali potrebbeessere realizzata, anche solo per tre giorni.

Mi scuso, Sire, di questo breve discorso; ma imiei peccati sono così intimamente legati alle miecolpevoli idee, che non posso confessare gli unisenza menzionare le altre. Dovevo dimostrareperché non ho potuto appartenere a nessuna settasocialista o comunista, come sono statoingiustamente accusato. Pur comprendendo lecause dell'esistenza di queste sette, non ne amavole teorie; non aderendo a queste ultime, non potevodiventare uno strumento della loro propaganda, einfine amavo troppo la mia indipendenza per

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consentire di diventar schiavo e arma cieca d'unaqualsiasi società segreta, senza parlare d'unasocietà di cui non potevo condividere le opinioni.A quell'epoca, nel 1843, il comunismo nonattraeva, in Svizzera, che un piccolissimo numerodi operai tedeschi. A Losanna ed a Ginevra la loroesistenza ufficiale assumeva la forma di società dicanto, di lettura e di vita in comune; a Zurigo, icomunisti contavano da cinque a sei sarti ecalzolai. Fra gli svizzeri non c'erano comunisti; glisvizzeri sono per natura contrari ad ognicomunismo, ed il comunismo tedesco era ancora aisuoi inizi. Ma per darsi importanza di fronte aigoverni europei, ed in parte nella vana speranza dicompromettere i radicali di Zurigo, Bluntschliraffazzonò un fantasioso spauracchio. Come eglistesso confessò, sapeva dell'arrivo di Weitling aZurigo; tollerò la sua presenza per due o tre mesi,e quindi lo fece arrestare nella speranza discoprire fra le sue carte documenti importanti inquantità sufficiente per compromettere i radicalizurighesi; ma non trovò nulla, tranne una scioccacorrispondenza e dei pettegolezzi (9), e contro di

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me due o tre lettere di Weitling contenenti alcuneparole insignificanti sulla mia persona. In una diqueste lettere, egli annunciava ad un suo amico cheaveva conosciuto un russo, e citava il mio nome; inun'altra mi chiama «il russo» aggiungendo: «ilrusso è un bravo ragazzo» o «un tipomeraviglioso», e altre espressioni del genere.Questa era la base delle accuse fatte contro di medal signor Bluntschli; egli non poteva averne altre,perché i miei rapporti con Weitling si limitaronoda parte mia alla curiosità, e da parte sua alpiacere di far due chiacchiere; ed io nonconoscevo, a Zurigo, nessun altro comunista tranneWeitling. Ma avendo appreso - ignoro se la vocefosse fondata o no - che Bluntschli aveva anchel'intenzione di farmi arrestare, ne temetti leconseguenze e lasciai Zurigo.

Abitai per qualche mese nella cittadina diNyon, sul lago Lemano, nell'isolamento e nellamiseria completa: dopo, vissi a Berna, dove nelgennaio o febbraio 1844 appresi dal signor Struve,segretario dell'ambasciata, che quest'ultima avevaricevuto una denuncia di Bluntschli contro di me

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ed aveva mandato un rapporto a Pietroburgo, dadove attendeva ordini. Nella denuncia, secondoquanto mi disse Struve, Bluntschli, non soddisfattod'accusarmi di comunismo, affermava anche, efalsamente, che io avevo pubblicato, o stavo perpubblicare, un libro sulla Russia e la Poloniacontro il governo russo.

Per accusarmi di comunismo, c'era un'ombra diverosimiglianza: i miei rapporti con Weitling. Mal'altra accusa era assolutamente priva d'ognifondamento e mi dimostrò chiaramente tutta lamalvagità delle intenzioni di Bluntschli; perchénon solo non avevo allora nessun proposito discrivere o pubblicare checchessia sulla Russia, mami sforzavo anche di non pensarci, perché ilricordo m'era penoso; tutto il mio spirito eraconcentrato sull'Europa Occidentale. Quanto allaPolonia, posso affermare che allora non miricordavo neppure della sua esistenza; a Berlinoavevo evitato di conoscere dei polacchi e non neavevo incontrato che qualcuno all'università; aDresda e in Svizzera non ne avevo visto neppureuno.

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Fino al 1844, Sire, i miei peccati sono stati«interni», intellettuali e non reali; io non avevomorso che un solo frutto dell'albero dellaconoscenza del bene e del male, ne avevomangiato un numero considerevole - enormepeccato, principio e fonte di tutti i miei criminiseguenti, ma che non assumeva ancora, allora, laforma d'una azione o d'una intenzione qualsiasi.Per le mie idee e l'orientamento del mio spirito,ero un democratico assoluto e sfrenato, ma nellavita ero inesperto, innocente quasi come unfanciullo. Fu rifiutando di tornare in Russiasecondo l'ordine del governo, che commisi il mioprimo crimine reale. Per conseguenza, lasciai laSvizzera e andai in Belgio, col mio amico Reichel.

Vorrei dire qualcosa di lui, poiché il suo nomeè citato molto frequentemente nei capi d'accusa:Adolfo Reichel, suddito prussiano, pianista ecompositore, è lontano dalla politica, e se ne hasentito talvolta parlare, è stato da me. Dopo averloconosciuto a Dresda ed averlo più tardi ritrovatoin Svizzera, mi legai d'amicizia con lui e nedivenni intimo; è stato sempre il mio vero e unico

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amico; fino al 1848, non mi sono separato da luied ho vissuto talvolta a sue spese. Quando fuicostretto a lasciare la Svizzera, non volleabbandonarmi e m'accompagnò in Belgio.

A Bruxelles conobbi Ledevel. Lì, per la primavolta, il mio spirito si rivolse alla Russia e allaPolonia. Essendo allora assolutamentedemocratico, presi a considerarle dal mio punto divista democratico, sia pure in una forma moltovaga e poco chiara: svegliatosi da un lungo sonno,il mio sentimento nazionale, in seguito ai conflittisopravvenuti con la nazione polacca, si scontròcon i miei ragionamenti democratici. Vedevospesso Ledevel, lo interrogavo molto sullarivoluzione polacca, sulle loro intenzioni, i loroprogetti in caso di vittoria, le loro speranze sulfuturo, e discussi moltissime volte con lui, speciedelle questioni concernenti la Piccola Russia e laRussia Bianca; queste, secondo loro, dovevanoappartenere alla Polonia; a mio parere, invece,dovevano entrambe, e soprattutto la PiccolaRussia, odiare nei polacchi i loro antichioppressori. Del resto, di tutti i polacchi che

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abitavano allora a Bruxelles, non conoscevo e nonincontravo che il solo Ledevel, e, anche con lui,malgrado i frequenti incontri, i miei rapporti silimitarono ad una semplice conoscenza. Tradussiin russo, è vero, il «Manifesto ai Russi», a causadel quale egli fu espulso da Parigi; ma ciò nonebbe conseguenze, poiché la traduzione rimaseinedita tra le mie carte. Rimasi qualche mese aBruxelles, quindi andai con Reichel a Parigi, dadove m'aspettavo, come già da Berlino e più tardidalla Svizzera, la salvezza e la luce. Fu nel luglio1844.

Parigi agì dall'inizio su di me come un secchiod'acqua fredda su un folle; in nessun luogo, delresto, mi son sentito a tal punto isolato, straniero e,consentitemi, Sire, quest'ultima espressione,disorientato come a Parigi. L'ambiente chefrequentavo si componeva innanzitutto, quasiesclusivamente, di democratici tedeschi rifugiati ovenuti liberamente dalla Germania con ilproposito di fondare un giornale franco-tedescoche avesse lo scopo di metter d'accordo e unire fraloro gl'interessi spirituali e politici delle due

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nazioni. Ma non potendo i letterati tedeschi fare ameno, nei loro rapporti, dei pettegolezzi, dellecontese e delle dispute, tutta l'impresa annunciatacon gran rumore si concluse in un settimanalemeschino e indegno, il «Vorwärts», che non vissea lungo, poiché affogò nella propria melma; dopodi che gli stessi tedeschi, con mio gran sollievo,furono espulsi da Parigi.

Fu a quell'epoca, cioè alla fine dell'autunno1844, che seppi della sentenza che mi condannava,come anche Ivan Golowin, alla privazionedell'eredità ed ai lavori forzati. Non lo seppiufficialmente, ma da uno dei miei conoscenti, mipare dallo stesso Golowin; quest'ultimo pubblicòin quell'occasione, nella «Gazzetta dei Tribunali»,un articolo sui pretesi diritti dell'aristocrazia russaoltraggiati e calpestati da noi; come risposta econfutazione, pubblicai un altro articolo su ungiornale democratico, la «Riforma», come letteraal direttore. Questa lettera, il primo scritto da mepubblicato sulla Russia, costituisce il mio secondodelitto effettivo. Uscì alla fine del 1844 - hodimenticato il mese - nel giornale «La Riforma»,

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firmato col mio nome, ed è senza dubbio nellemani del governo, tra le prove d'accusa.

Dopo la mia partenza da Bruxelles e fino aquest'epoca, non vidi neppure un polacco. Il mioarticolo nella «Riforma» fu occasione di nuovirapporti con alcuni di loro. Innanzitutto, il principeAdam Czartoriskij m'invitò, tramite il suo affiliato,a casa sua. Ci andai una volta e, dopo, non lo vidipiù. In seguito, ricevetti da Londra una lettera difelicitazioni e piena di complimenti, mandatami dademocratici polacchi che m'invitavano apartecipare alla festa commemorativa checelebravano ogni anno in ricordo di Rylejev,Pestel, eccetera. Gli risposi anch'io concomplimenti, ringraziandoli del loro fraternoricordo, ma non andai a Londra, non avendoancora deciso l'atteggiamento da assumere - russo,malgrado tutto, pur essendo democratico - difronte all'emigrazione polacca ed al pubblicooccidentale; e inoltre temevo le frasi e ledimostrazioni vuote, inutili e sonore, che non misono mai piaciute.

Fu così che cessarono, quella volta, i miei

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rapporti con i polacchi, e fino alla primavera del1846 non ne vidi alcuno, tranne Alois Bierjatzky(che era stato ministro delle finanze durante larivoluzione polacca), vecchio venerabile e pienodi bontà, che conobbi in casa di Nicola IvanovicTurgenev, e che, lontano da ogni partito politicodell'emigrazione, s'occupava esclusivamente dellasua scuola polacca. Vedevo anche, talvolta,Mickiewicz, che veneravo come grande poetaslavo, ma nel quale compativo allora l'apostolometà ingannato e metà ingannatore d'una nuovareligione assurda e d'un nuovo messia. Mickiewiczcercò di convertirmi, perché, secondo la suaconvinzione, bastava che un polacco, un russo, unceco, un francese ed un ebreo consentissero avivere ed agire insieme secondo le idee diTovianski per cambiare la faccia del mondo esalvarlo. C'erano polacchi e cechi in numerosufficiente, c'erano anche ebrei e francesi; non glimancava che un russo; cercò dunque d'arruolarmi,ma non poté riuscirci.

Tra i francesi conobbi: del partitocostituzionale: Chambolle, redattore del «Siècle»,

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Merruceau, amministratore del «Constitutionnel»,Emilio Girardin, direttore della «Presse»,Durieux, direttore del «Courrier Français», LéonFaucher, gli economisti Fréderic Mastiat eWolowsky, e altri. Del partito repubblicano:Béranger, Lamennais, François, Etienne e EmanuelArago, Marraot e Bastiole, direttore del«National». Del partito democratico: Cavaignac(ora morto), fratello del generale, Flocon e LouisBlanc, direttori della «Réforme», VictorConsidérant, fourierista e direttore della«Démocratie pacifique», Pascal Duprat, direttoredella «Revue Indépendente», Félix Pyat, VictorScholcher, il negrofilo, Michelet e Quinet,professori, l'utopista Proudhon, che tuttavia è,senza alcun dubbio, uno dei francesi più notevolidel nostro tempo, infine George Sand e qualchealtra personalità meno nota. Vedevo piùfrequentemente alcuni, più raramente gli altri,senza intrattenere rapporti intimi con nessuno. Piùvolte, nei primi tempi del mio soggiorno a Parigi,andai tra gli operai francesi, a vedere gli ambienticomunisti e socialisti, però senza altro motivo e

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scopo che di soddisfare la mia curiosità. Mapresto smisi di andarci, prima per non attrarre sudi me l'attenzione del governo francese ed espormial pericolo di inutili vessazioni, ma soprattuttoperché non ritenevo affatto utile frequentare quegliambienti. Frequentavo specialmente - senzaparlare di Reichel, dal quale non mi separavo - ilmio vecchio compagno Herweg, anche lui rifugiatoa Parigi e che allora si occupava quasiesclusivamente di scienze naturali; in seguito,Nicola Ivanovic Turgenev. Quest'ultimoconduceva una vita appartata, fuori d'ognimovimento politico e, si può dire, da ogniambiente; del resto, da ciò che ho potuto vedere,egli non ha più altro ardente desiderio che vedersiperdonare e poter ritornare in Russia, per vivere isuoi ultimi anni in una patria di cui parla conamore e talvolta anche piangendo. E' in casa diTurgenev che mi capitò di incontrare talvolta ilconte Mamiani, quell'italiano che poi divenne, aRoma, ministro del papa, e il generale napoletanoPepe.

Vedevo anche, talora, dei russi di passaggio da

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Parigi. Ma, Sire, Ve ne supplico, "non chiedetemi iloro nomi" (10). V'assicuro - ricordatevi, Sire, vel'ho giurato all'inizio della mia lettera - chenessuna menzogna, neppure un millesimo dimenzogna profanerà la purezza di questaconfessione scaturita dal cuore; anche adesso Vigiuro che non ebbi rapporti politici con nessunrusso, né allora né dopo, e che nessun interessepolitico, sia pure il più tenue, mi ha mai legato anessuno di loro, sia direttamente, sia tramitequalcuno, sia per corrispondenza.

Vivevamo, i russi di passaggio a Parigi ed io,in mondi diversi; loro vivevano sfarzosamente,felicemente, scambiandosi feste, pranzi e cene l'unl'altro, gozzovigliando, andando agli spettacoli condonnine - un genere di vita poco conforme ai mieigusti ed ancor meno alle mie possibilità. Quanto ame, vivevo nella povertà, sostenendo una lottadolorosa con le circostanze ed i miei intimibisogni, mai appagati, di movimento e d'azione, enon condividevo con loro né i loro divertimenti néil mio lavoro o le mie occupazioni (11). Non dicoche non ho mai cercato - più precisamente dal

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1846 - di convertire qualcuno di questi russi allemie idee ed a quella che chiamavo allora unabuona azione; ma nessuno dei miei tentativi ebbesuccesso: m'ascoltavano sorridendo, mi trattavanocome un originale, in modo tale che dopo qualcheinutile sforzo rinunciavo alla loro conversazione.L'unica colpa commessa da qualcuno di loro fu divenirmi talvolta in aiuto, vista la mia miseria, mararamente.

Passavo generalmente i miei giorni a casa, eper vivere facevo traduzioni dal tedesco, miinteressavo anche di scienze: storia, statistica,economia politica, sistemi sociali ed economici,studi di politica, ed anche un po' di matematica edi scienze naturali. Mi sento obbligato a fare unanota a mio onore: alcune librerie parigine etedesche tentarono più volte, con l'offerta difavorevoli condizioni, di persuadermi a scriveredella Russia; ma rifiutai sempre, non volendo faredella Russia un oggetto di transazionicommerciali; non ho mai scritto della Russia perdanaro, ma sempre per legittima difesa, potrei diredi malavoglia, contro la mia volontà, e sempre col

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mio nome. Ad eccezione dell'articolo uscito nella«Réforme», di cui ho già parlato, e più tardi di unaltro articolo nel «Constitutionnel», e ildisgraziato discorso che mi fece espellere daParigi, non pubblicai mai una sola parola sullaRussia. Non mi riferisco a ciò che ho scritto dopoil febbraio 1848, quando mi trovai in una definitaattività politica. Del resto, anche allora le miepubblicazioni si limitarono a due proclami ed aqualche articolo nei giornali.

La vita a Parigi fu dura, Sire, molto dura. Nonper la miseria, che sopportavo con indifferenza,ma perché, essendomi alla fine svegliato daldelirio della giovinezza e delle mie fantastichesperanze, mi ritrovai improvvisamente in un paesestraniero, in un'atmosfera morale senza calore,privo della famiglia, dei genitori, senza possibilitàd'agire, senza un'occupazione e senza la minimasperanza in un avvenire migliore. Allontanatomidalla patria e vietatomi con leggerezza ognipossibilità di tornarvi, non potei diventare nétedesco né francese: al contrario, più restavoall'estero, e più profondamente sentivo che sono

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russo e mai avrei cessato di esserlo. Ma il ritornoalla vita russa non mi era più possibile se nontramite la via criminale della rivoluzione, nellaquale avevo allora poca fede e, per essere sincero,non credevo se non con uno sforzo grandissimo edoloroso, soffocando con forza la voce interioreche mi bisbigliava tutta l'assurdità delle miesperanze e delle mie imprese. Certi giorni micapitava di sentirmi depresso, a tal punto che mison fermato spesso di sera sul ponte che dovevoattraversare per tornare a casa, chiedendomi senon avessi fatto meglio a gettarmi nella Senna perannegarvi un'esistenza inutile e senza gioia.

Inoltre, tutto il mondo era allora in un profondoletargo. Dopo la breve agitazione che aveva fattoseguito, in Germania, all'avvento dell'attuale re altrono della Prussia; dopo l'effimero movimentosuscitato in tutta l'Europa, qualche mese dopo,sotto il breve ministero di Thiers, dalla questioned'Oriente, il mondo sembrava caduto in un sonnocosì profondo che nessuno, perfino tra idemocratici più esaltati, poteva credere al suoprossimo risveglio.

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Nessuno prevedeva allora che quel silenzioera la calma che precede la tempesta; com'è noto, ifrancesi condizionavano la realizzazione di tutte leloro speranze sulla morte del re Luigi Filippo.Marrast, è vero, mi disse un giorno, verso la finedel 1844: «La rivoluzione è imminente, ma non sipuò mai predire quando e come si farà unarivoluzione francese; la Francia è come unacaldaia a vapore che sta sempre sul punto discoppiare, di cui nessuno sa prevederel'esplosione». Ma lo stesso Marrast, i suoi amici,ed in genere tutti i democratici erano allora moltoabbattuti e si sentivano in preda ad una illimitatatristezza. Il partito conservatore, invece, trionfavae s'illudeva di una vita eterna. Quanto alla gente,per ammazzare il tempo s'occupava di variscandali sulle elezioni e dei gesuiti oppure delmovimento dei «free-traders» [libericommercianti] inglesi.

Verso la metà del 1845, dopo un lungo periododi calma, quelli che avevano seguito l'evoluzionedelle cose tedesche videro apparire le primedeboli onde alla superficie dell'oceano politico:

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due nuove sette religiose s'erano costituite inGermania, i «Lichtfreunde» [amici della luce] ed i«cattolici tedeschi». In Francia alcuni ridevano diquelle sette, altri, invece, secondo me giustamente,le consideravano come un segno dei tempi, come ilpresagio di un'epoca nuova. Queste sette, in sestesse senza alcun valore, erano tuttaviaimportanti, perché traducevano in linguaggioreligioso, vale a dire popolare, le concezioni e leesigenze del tempo. Esse non potevano esercitareuna grande influenza sulle classi colte, ma alcontrario esaltavano l'immaginazione delle masse,che hanno generalmente una accentuata tendenza alfanatismo religioso. Inoltre, il «cattolicesimotedesco» era stato inventato e lanciato per unoscopo puramente politico dal partito democraticodella Slesia prussiana; si mostrava più attivo dellasorella primogenita, la setta protestante, la quale, asua volta, era più onesta.

Fra gli apostoli ed i predicatori di questo«cattolicesimo o c'erano molti loschi ciarlatani,ma esso aveva anche un gran numero d'uomini ditalento, e si può dire che, sotto la forma della sua

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comunione collettiva, ripresa dalla chiesaprimitiva e rinnovata, predicava apertamente ilcomunismo. Ma tutto l'interesse suscitatodall'apparizione di queste due sette svanì prestoalla notizia che il re Federico Guglielmo Quartoaveva concesso una costituzione ai suoi sudditi. LaGermania si emozionò di nuovo e la Francia, perla prima volta, parve uscire dal suo sonnoprofondo. Poco dopo, si videro dapprima ilmovimento polacco, poi gli avvenimenti svizzeri eitaliani e infine la rivoluzione del 1848.

Mi dilungherò sull'insurrezione polacca,perché essa costituisce un'epoca della mia vita.Fino al 1846 m'ero tenuto lontano da ogniiniziativa politica. Non conoscevo i democraticipolacchi; i tedeschi, mi pare, non tendevanoancora, assolutamente, ad alcuna azione: i francesiche conoscevo non me ne parlavano affatto. Legati,da tempo e molto intimamente, con i democraticipolacchi, i francesi erano senza alcun dubbio alcorrente dei preparativi dell'insurrezione polacca,ma sapevano custodire un segreto, e poiché i mieirapporti con loro erano solo superficiali, non

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avevo potuto apprendere nulla da loro; cosicché iprogetti posnaniani, i tentativi fatti nel regno diPolonia, l'insurrezione di Cracovia e gliavvenimenti della Galizia mi sorpresero almenocome tutti. A Parigi l'impressione per quegliavvenimenti fu inimmaginabile: per due o tregiorni tutto il popolo visse nelle strade; la gente siparlava senza conoscersi, tutti esigevano, tuttiaspettavano con febbrile impazienza notizie dallaPolonia. Questo improvviso risveglio, questomovimento generale degli spiriti e delle passionis'impadronì anche di me, ebbi l'impressione disvegliarmi a mia volta e decisi di uscire, aqualunque costo, dalla mia inazione, e di prendereparte attiva agli avvenimenti che si preparavano.

Dovetti, perciò, richiamare su di mel'attenzione dei polacchi, che m'avevano giàdimenticato, e pubblicai un articolo sui polacchi esugli Uniati della Russia Bianca, di cui alloras'occupavano tutti i giornali d'occidente.L'articolo, uscito nel «Constitutionnel» all'iniziodella primavera del 1846, si trova senza dubbionelle mani del governo. Quando glielo consegnai,

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il direttore del «Constitutionnel», Merruceau, midisse: «S'accenda il fuoco ai quattro angoli delmondo, purché si esca da questo stato vergognosoe insopportabile». Gli ricordai queste parole nelfebbraio 1848, ma allora se ne pentiva già,atterrito, come tutti gli altri liberali,dall'opposizione alla monarchia, dalla rivoluzione,orribile e bizzarra, che essi avevano provocata.

Fino al 1846 i miei peccati non furono voluti,derivavano piuttosto dalla mia sventatezza e dalmio carattere, rimasto, per così dire, ancoraadolescente, perché, se il numero degli anni facevadi me un adulto, rimasi ancora per molto tempo unadolescente inesperto. Ma da allora cominciai apeccare consapevolmente, intenzionalmente e peruno scopo più o meno definito. Sire, non cercheròdi scrivere i miei imperdonabili delitti, né diparlarvi di un tardivo rimorso (12); nella miasituazione il pentimento è tanto vano quanto quellodel peccatore dopo la morte; esporrò unicamente ifatti, senza nasconderne o minimizzarne alcuno.

Poco dopo la pubblicazione dell'articolo,andai a Versailles senza esservi stato chiamato,

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spontaneamente, per conoscere i membri delladirezione centrale del partito democraticopolacco, in vista di un'azione comune e perprendere accordi con loro. Il mio proposito era diproporre loro di agire sui russi del regno diPolonia, su quelli della Lituania e della Podolia,perché supponevo che essi avevano in quelleregioni rapporti sufficienti per svilupparvi unapropaganda attiva. Ma lo scopo che mi proponevoera la rivoluzione russa e la repubblica federale ditutti gli stati slavi; federale, però, solo sottol'aspetto amministrativo, ma centralizzatapoliticamente.

Il mio tentativo non ebbe alcun successo. Vidi,più volte, i democratici polacchi, ma non riuscii amettermi d'accordo con loro. In primo luogo per ladiscordanza delle nostre concezioni e dei nostrisentimenti nazionali; essi mi parvero limitati,meschini, egoisti (non vedevano altro al mondoche la Polonia), incapaci di capire i cambiamentiavvenuti in Polonia anche dopo il completoasservimento del paese; d'altra parte, non avevanofiducia in me e non si ripromettevano grandi cose

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dalla mia collaborazione. In tal modo, dopoqualche incontro infruttuoso, cessammo del tutto divederci, e quel tentativo, benché criminoso neifini, si concluse senza alcun risultato.

Dopo l'estate 1846 e fino al novembre 1847,rimasi nuovamente in una completa inattività,occupandomi di scienze, come nel passato,seguendo febbrilmente la crescente agitazione inEuropa, ardendo dalla voglia di parteciparviattivamente, ma senza far nulla di concreto. Nonvedevo più i democratici polacchi emigrati nel1846 e diventati in seguito quasi tutti mistici allamaniera di Mickiewicz.

In novembre ero malato e rimanevo in casa, latesta rapata, quando due di quei giovani venneroda me per propormi di fare un discorso inoccasione dell'anniversario, celebrato daipolacchi e dai francesi, della rivoluzione del1831. Accettai con gioia, ordinai una parrucca, e,preparato il discorso in tre giorni, lo pronunciaidinanzi ad un folto pubblico il 17 novembre 1847.

Sire, voi conoscete forse quella disgraziataallocuzione che segna l'inizio delle mie tristi e

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criminali avventure. Fu per quel discorso che, peruna protesta dell'ambasciatore russo, venniespulso da Parigi e mi rifugiai a Bruxelles.

Ledevel mi preparò lì un nuovo trionfo:pronunciai un secondo discorso, che sarebbe statopubblicato se non me l'avesse impedito larivoluzione di febbraio. In esso, che era il seguitoe lo sviluppo del primo, parlai a lungo dellaRussia, del suo passato, dell'antico astio e dellalotta tra la Russia e la Polonia; parlai anche delgrande avvenire degli slavi, della loro missione,che consisteva nel rinnovare il putrefatto mondooccidentale; poi, dato uno sguardo d'insieme allasituazione dell'Europa e predetto una imminenterivoluzione europea, uno spaventoso cataclisma e,in particolare, l'inevitabile distruzione dell'imperoaustriaco, conclusi con queste parole:«Prepariamoci, e quando scoccherà l'ora ognunofaccia il suo dovere».

Anche in quel momento, però, e malgrado ilmio vivissimo desiderio di avvicinarmi aipolacchi, non riuscii a legarmi intimamente connessuno di loro; tutti i nostri rapporti si limitarono

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a reciproci complimenti ed a parole di simpatia.Le nostre nature, le nostre concezioni, i nostri gustierano troppo contraddittori perché si potesserealizzare una effettiva unione fra noi. Del resto, inquello stesso momento i polacchi manifestaronoverso di me più sfiducia che mai; con mia sorpresae grande dolore, s'era per la prima volta sparsa lavoce che ero un agente provocatore del governorusso. Più tardi, seppi dai polacchi chel'ambasciata russa, interpellata su di me dalministro Guizot, aveva risposto: «E' un uomo nonprivo di talento, noi lo utilizziamo, ma oggi èandato troppo lontano», e che Guizot avevacomunicato la risposta al conte Gartoryskij; seppianche che il ministro Duchâtel aveva scritto di meal governo belga, affermando che non ero affattoun emigrato politico, ma un comune ladro avendorubato in Russia una grossa somma, che ero evasoed ero stato condannato ai lavori forzati, per ilfurto e l'evasione.

In ogni modo, questa voce e le altre ragionisuddette resero impossibile ogni intimità fra ipolacchi e me.

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A Bruxelles fui introdotto nell'associazioneformata dai comunisti e dai radicali belgi etedeschi unificati. Essi erano in rapporto con icartisti inglesi e con i democratici francesi. Questaassociazione, tuttavia, non era clandestina, avevapubbliche riunioni; c'erano probabilmente ancheriunioni segrete, ma non vi partecipai; del restonon assistetti che due volte alle riunioni pubbliche,e quindi smisi di frequentarle, non essendomipiaciuti né i modi né il tono. Anche le loroesigenze mi parvero intollerabili, cosicchém'attirai il malcontento e anche l'odio deicomunisti tedeschi, che si misero, più degli altri, asbraitare sul mio preteso tradimento. Frequentai icircoli aristocratici; conobbi il generaleSkrzynecki e, tramite lui, il conte Mérodé, exministro, e un francese, il conte Montalebert,genero di quest'ultimo. In altre parole, mi trovai alcentro della propaganda dei gesuiti, c'erano anchedelle signore che s'occupavano della mia salvezza,mi divertivo abbastanza nel loro ambiente. Nellostesso tempo, scrivevo per il «Constitutionnel»articoli sul Belgio e sui gesuiti belgi, non cessando

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però di seguire il rapido sviluppo degliavvenimenti politici in Italia e in Francia.

Alla fine, scoppiò la rivoluzione di febbraio.Appena seppi che a Parigi ci si batteva, chiesi inprestito, per fronteggiare ogni eventualità, unpassaporto ad un mio conoscente, e mi avviai aParigi. Ma il passaporto era inutile: «A Parigi èstata proclamata la Repubblica», queste furono leprime parole udite alla frontiera. Apprendendo lanotizia sentii un fremito; arrivai a piedi aValenciennes, perché la ferrovia era stata distrutta.Dappertutto folla, grida d'entusiasmo, bandiererosse in tutte le strade, in tutte le piazze e sugliedifici pubblici. Fui costretto a percorrere unadeviazione, perché la ferrovia era interrotta inmolti punti, e giunsi a Parigi il 26 febbraio, tregiorni dopo la proclamazione della repubblica.

Già lungo la strada tutto mi rallegrava, ma cheVi dirò, Sire, dell'impressione che mi fece Parigi?Questa enorme città, il centro della culturaeuropea, era diventata improvvisamente unCaucaso selvaggio: in ogni strada, quasidappertutto, barricate erette come montagne e alte

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fino ai tetti; sulle barricate, tra le pietre ed imobili danneggiati, come georgiani nelle lorogole, operai in pittoreschi camiciotti, neri dipolvere e armati fino ai denti; grossi bottegai dalvolto inebetito per la paura guardavanopavidamente dalle finestre; nelle strade e nei vialineppure una carrozza, scomparsi tutti i vecchiimbecilli, gli odiosi e fatui damerini con gliocchiali a stringinaso e, al loro posto, i miei nobilioperai, masse entusiaste e trionfanti che alzavanole bandiere rosse, cantavano canti patriotticiinebriati della loro vittoria. In mezzo a questagioia senza limite, tutti erano a tal punto dolci,umani, comprensivi, onesti, modesti, gentili,amabili e spirituali, che una cosa simile può esservista solo in Francia, anzi, solo a Parigi. Dopo,per più d'una settimana, vissi con operai nellacaserma di via Tournon, a due passi dal palazzodel Lussemburgo; la caserma, prima riservata allaguardia municipale, era allora diventata, comemolte altre, una fortezza repubblicana che servivada quartiere delle forze di Caussidière. Ero statoinvitato a restarvi da un democratico mio amico

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che comandava un distaccamento di cinquecentooperai. Ebbi perciò l'occasione di osservare glioperai e studiarli dal mattino alla sera. Sire, Vel'assicuro, giammai ed in nessun luogo, innessun'altra classe sociale ho trovato altrettantanobile abnegazione, né tanta integrità davverocommovente, delicatezza di modi e amabilegaiezza congiunta a simile eroismo, come in quellagente semplice e incolta, che ha sempre avuto unvalore e varrebbe sempre mille volte di più deisuoi capi. Ciò che soprattutto colpisce in loro è ilprofondo istinto di disciplina; nelle loro casermenon ci potevano essere né ordine prestabilito, néleggi, né obblighi; ma Dio volle che nessunsoldato regolare seppe obbedire con tantaesattezza, intuire tanto bene i desideri dei suoicapi e mantener così strettamente l'ordine, comequegli uomini liberi. Essi chiedevano ordini,chiedevano capi, obbedivano minuziosamente, conpassione; nel loro penoso servizio, per giorniinteri, pativano la fame, e non erano perciò menoamabili e sempre felici. Se quella gente, queglioperai francesi avessero trovato un capo degno di

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loro, capace di capirli e animarli, egli avrebbepotuto compiere miracoli con loro.

Sire, non saprei darvi un esatto resoconto diquel mese vissuto a Parigi, perché fu per il miospirito un mese d'ebbrezza. Non io soltanto erocome ebbro, lo erano tutti: gli uni di folle paura,gli altri di folle estasi, di insensate speranze.M'alzavo alle cinque o alle quattro del mattino,andavo a letto alle due, rimanendo in piedi tutto ilgiorno, andando a tutte le assemblee, riunioni,club, cortei, passeggiate o dimostrazioni; in unaparola, respirai con tutti i miei sensi e tutti i mieipori l'ebbrezza dell'atmosfera rivoluzionaria. Erauna festa senza principio e senza fine; vedevo tuttie non vedevo nessuno, perché ogni individuo siperdeva nella stessa folla innumerevole ed errante;parlavo a tutti senza ricordare né le mie parole néquelle degli altri, perché l'attenzione era ad ognipasso attratta da avvenimenti e cose nuove, danotizie inattese. Questa febbre generale non eraneppure mediocremente mantenuta e rafforzatadalle notizie che arrivavano dalle altre partid'Europa; non si udivano che parole come queste:

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«Si battono a Berlino; il re è fuggito dopo averpronunciato un discorso. Si sono battuti a Vienna,Metternich è fuggito, è stata proclamata larepubblica. Tutta la Germania è insorta. Gl'italianihanno trionfato a Milano, a Venezia; gli austriacihanno subìto una vergognosa disfatta. E' stataproclamata la repubblica; tutta l'Europa diventarepubblica. Viva la Repubblica!».

Sembrava che il mondo intero fosse capovolto;l'incredibile era diventato familiare, l'impossibilepossibile, ed il possibile ed il familiare insensati.In una parola, gli animi erano allora in tale statoche se qualcuno fosse venuto a dire: «il buon Dioè stato scacciato dal cielo, vi è stata proclamata larepubblica», tutti l'avrebbero creduto e nessuno nesarebbe stato sorpreso. I democratici non erano isoli ad essere inebriati, al contrario: furono iprimi a scuotersi dall'ubriacatura, costretticom'erano a mettersi al lavoro ed a consolidare unpotere che gli era caduto nelle mani contro ogniattesa e come per miracolo. Il partito conservatoree l'opposizione dinastica, diventata in un giornopiù conservatrice degli stessi conservatori,

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insomma tutti gli uomini del vecchio regimecredevano più dei democratici a tutti i miracoli eda tutte le cose inverosimili, avevano smesso dicredere che due più due fa quattro e Thiers inpersona aveva dichiarato: «Non ci rimane più cheuna cosa, farci dimenticare».

Solo questo fatto spiega la prontezza el'unanimità con cui tutte le città di provincia e tuttele classi, in Francia, riconobbero la repubblica.

Ma è tempo che ritorni alla mia storia.Dopo due o tre settimane di questa ebbrezza,

mi disillusi un po' e cominciai a pormi questoproblema: che farò adesso? La mia missione non èa Parigi, né in Francia; il mio posto è alla frontierarussa; gli emigrati polacchi ci vanno ora,preparandosi alla guerra contro la Russia; anch'iodevo trovarmici, per agire contemporaneamentesui russi e sui polacchi, in modo da non permetterea questa guerra di degenerare in una guerradell'Europa contro la Russia, nel tentativo, cometalvolta hanno dichiarato, di respingere questopopolo barbaro nei deserti dell'Asia. Devo agirein modo, pensavo, che la guerra non divenga

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quella dei polacchi tedeschizzati contro il popolorusso, ma una guerra slava, una guerra degli slaviliberi uniti contro l'imperatore russo.

Sire, non mi soffermerò sul carattere criminalee sul donchisciottismo della mia impresa; se misoffermo su quest'ultima è per definire piùchiaramente la mia situazione d'allora, i mieimezzi e le mie relazioni. Considero assolutamenteindispensabile una particolareggiata spiegazionesu questo punto, poiché so che la mia partenza daParigi fu il pretesto di un gran numero di falseaccuse e di sospetti.

So innanzitutto che alcuni mi fecero passareper un agente di Ledru- Rollin. Sire, in questaconfessione non Vi ho nascosto neppure uno solodei miei peccati e dei miei crimini; ho messo anudo davanti a Voi la mia anima; Voi avete visto imiei smarrimenti, m'avete visto cadere di follia infollia, da un errore in un peccato e da un peccatonel delitto. Ma Voi non dubiterete della mia parolaSire, se Vi dico che malgrado tutta la mia follia,tutta la perversità delle mie idee e dei miei delitti,avevo conservato abbastanza orgoglio,

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indipendenza, dignità e infine amore per la miapatria da non consentire di diventare, di fronte adessa, lo spregevole agente, il cieco e sporcostrumento d'un uomo o d'un partito qualsiasi. Piùvolte, nelle mie deposizioni, ho affermato di averappena conosciuto Ledru-Rollin, non avendolovisto che una sola volta nella mia vita, ed è troppose gli ho rivolto una dozzina di insignificantiparole; lo ripeto qui, perché questa è la verità. Hoconosciuto più intimamente Louis Blanc e Flocon,e non ho conosciuto Albert se non dopo il mioritorno dalla Francia (13). Durante tutti i mesi chetrascorsi a Parigi cenai tre volte in casa di LouisBlanc e feci una visita a Flocon; inoltre, cenai piùvolte in casa di Caussidière, il prefetto di poliziarivoluzionario, dove incontrai spesso Albert. Nonvidi allora nessun altro membro del governoprovvisorio. Un solo fatto avrebbe potuto darpretesto all'accusa suddetta, ma esso, mi sembra, èignorato dai miei vecchi accusatori: avendo decisodi andare alla frontiera russa e non avendo ildenaro per il viaggio, tentai a lungo diprocurarmelo dai miei amici e dai miei

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conoscenti, ma non essendoci riuscito, decisi dimalavoglia di rivolgermi ai democratici delgoverno provvisorio; scrissi dunque in quattroesemplari il seguente biglietto, che spedii aFlocon, Louis Blanc, Albert e Ledru-Rollin:«Esiliato dal governo caduto e rientrato in Franciadopo la rivoluzione di febbraio, vorrei ora andarealla frontiera russa, nel ducato di Posnania, peragire d'accordo con i patrioti polacchi; per farloho bisogno di danaro, e prego i membridemocratici del governo provvisorio diconcedermi duemila franchi, non in dono, che nondesidererei né avrei la pretesa di chiedere, ma inprestito, promettendovi di restituire la somma nonappena ne avrò la possibilità».

Ricevuto il biglietto, Flocon mi chiese diandare da lui e mi disse che lui ed i suoi amici delgoverno provvisorio consentivano a prestarmi lapiccola somma ed anche di più se l'avessi chiesto,ma che egli doveva prima conferire con la centralepolacca, perché essendo strettamente legati aquest'ultima, erano obbligati a farlo per tuttoquanto riguardasse la Polonia. Non so di che

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specie di «conferenza» si trattasse, come ignoroanche ciò che i democratici polacchi dissero di mea Flocon. Non so che una cosa, e cioè che il giornoseguente egli mi offrì una somma molto più grande,che presi duemila franchi e che salutandomi michiese di scrivere dalla Germania e dalla Poloniaper il suo giornale «La Réforme».

Gli scrissi due volte: subito, da Colonia, e piùtardi, alla fine del 1848, inviandogli il mio«Appello agli Slavi». Per quanto lo riguarda, nonricevetti da lui nessuna lettera né alcun ordine, enon ho più avuto con lui rapporti diretti o indiretti.Quanto al danaro, non gliel'ho restituito, essendovissuto in Germania in una continua miseria.

Ero accusato, in secondo luogo, o piuttosto -non c'erano fatti concreti per un'accusa - erosospettato di aver avuto segreti legami, alla miapartenza da Parigi, con i democratici polacchi,d'agire d'accordo con loro, per una missione chefaceva parte d'un piano prestabilito. Il sospetto eraperfettamente naturale, ma allo stesso modo privod'ogni fondamento. Bisogna distinguere due cosenell'emigrazione: la massa che fa chiasso, e le

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società segrete composte da alcuni uominiintraprendenti la cui mano dirige invisibilmente lamassa, preparando l'azione nelle sedute segrete.Conoscevo allora la massa degli emigrati polacchie anch'essa mi conosceva, anche meglio di quantoio stesso avessi potuto conoscere ogni emigrato,perché loro erano molti ed io ero il solo russo inmezzo a loro; ascoltavo ciò che dicevano, - le lorofanfaronate, le loro fantasticherie, le lorosperanze, in una parola tutto ciò che ognunoavrebbe potuto capire per poco che lo avessevoluto; ma non partecipai affatto alle loro riunionie non conoscevo i segreti dei veri cospiratori.

Non c'erano allora a Parigi che due societàpolacche serie: quella di Czartoryski e quella deidemocratici. Non ebbi mai nessun rapporto conl'ambiente di Czartoryski e non vidi lui stesso cheuna sola volta. Nel 1846 avevo avuto l'intenzionedi allacciare rapporti con la centrale democratica,ma il tentativo non ebbe successo. A Parigi, dopola rivoluzione di febbraio, non incontrai nessunodei suoi membri, per cui ero allora molto meno alcorrente dei piani dei democratici polacchi, di

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quanto non fossi di tutto ciò che riguardasse idemocratici belgi, italiani e specialmente leiniziative tedesche. Tra gl'italiani conoscevoMamiani e il generale Pepe, che nonappartenevano a nessun gruppo. Fra i belgiqualche capo, ero al corrente dei loro progetti, manon mi ci immischiavo. E' nelle cose tedesche cheero molto intimamente iniziato poiché avevoamichevoli rapporti con Herweg, che partecipavamolto attivamente. Assistetti agli inizi dell'infelicecampagna nel Baden, fui al corrente delle suerisorse, dei suoi mezzi ausiliari, dei suoiarmamenti, delle promesse fatte dal governoprovvisorio, del numero degli operai arruolatinella sua organizzazione militare, come anche deisuoi rapporti con i democratici badesi; tutto ciò losapevo perché ero amico di Herweg, pur senzalegarmi con lui in nessun modo né confondereaffatto i miei propositi con i suoi.

Allo scopo di completare il quadro della miasituazione d'allora e non lasciarvi nessuna ombradi menzogna, devo dire qualche parola dei russi.Dire che li ho conosciuti non può comprometterli

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più di quanto non si siano compromessi essi stessia Parigi. Ivan Golowin, Nicolaj Sasonov,Aleksàndr Herzen e forse anche Nicolaj IvanovicTurgenev - questi sono i soli russi che si possano,con qualche ragione, sospettare d'aver avutorapporti politici con me. Per quanto concerneGolowin, non nutrivo per lui né affetto né rispetto;ero molto riservato con lui e, dopo la rivoluzionedi febbraio, credo di non averlo neppureincontrato. Nicolaj Sasonov è un uomointelligente, colto, dotato, ma d'un eccessivo amorproprio. Fin dal principio s'era dichiarato mionemico perché non mi lasciavo convinceredell'indipendenza dell'aristocrazia russa, di cuiegli stesso si considerava il rappresentante quasiperfetto; in seguito si mise a chiamarmi suo amico;io non credevo alla sua amicizia, ma lo incontravomolto spesso, provando piacere per la suaconversazione intelligente e gentile. Dopo il mioritorno dal Belgio, lo incontrai molte volte in casadi Herweg; mi trattava freddamente e, comeappresi dopo, fu lui a spargere per primo la vocedella mia pretesa dipendenza da Ledru-Rollin. Più

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simpatia avevo per Herzen. E' un uomo di grandebontà, nobile, spirituale, brillante, un po' ciarlieroed epicureo; lo vidi a Parigi durante l'estate del1847; allora non pensava nemmeno ancora diemigrare e si divertiva più degli altri delle mietendenze politiche; anche lui s'occupava diargomenti e problemi d'ogni genere, specie diletteratura. Alla fine dell'estate dello stesso anno,partì per l'Italia e tornò a Parigi l'anno seguente,due o tre mesi dopo la mia partenza, per cui non ciincontrammo più; non ci rivedemmo più e non cisiamo mai scritto. Ma una volta mi mandò deldanaro tramite Reichel. Infine, di Nicolaj IvanovicTurgenev non posso dire che questo: viveva,allora più che mai, in disparte e riccoproprietario, era abbastanza atterrito dallarivoluzione. Non lo vidi che frettolosamente e percosì dire di sfuggita.

In una parola, Sire, ho pienamente il diritto diaffermare che la mia vita, i miei progetti ed i mieiatti sono rimasti fuori d'ogni gruppo, senza alcunainfluenza o impulso dall'esterno; la mia follia, imiei peccati, i miei crimini sono solo miei. Sono

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un grande colpevole, ma non mi sono abbassatomai a diventare l'agente di chicchessia o loschiavo di idee altrui.

C'è infine contro di me un'altra accusa,un'accusa infame: sono stato accusato d'aver avutol'intenzione di attentare alla vita di Vostra MaestàImperiale, d'accordo con due polacchi, dei qualiho dimenticato perfino i nomi. Non voglio entrarenei particolari d'una simile calunnia; ne ho parlatoparticolareggiatamente nelle mie deposizioniall'estero, e avrei vergogna a dilungarmi ancora alriguardo. Non dirò che una cosa, Sire: sono uncriminale nei Vostri confronti e dinanzi alla legge,ma so anche che il mio spirito non è mai statocapace d'un misfatto né di una vigliaccheria. Vivopiù nella mia mente che nel mio cuore, il miofanatismo politico aveva i suoi limiti ben definiti,e mai né Bruto né Ravaillac né Alibaud sono stati imiei eroi. Inoltre, Sire, non c'è stato mai nel mioanimo il più piccolo fermento d'odio per voi.Quando ero sott'ufficiale alla scuola d'artiglieria,vi amavo ardentemente come tutti i miei compagni.Allora, quando Voi arrivavate al campo, queste

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sole parole: «Arriva l'Imperatore», ci gettavano inun'estasi ineffabile, e tutti si precipitavanoincontro a Voi. Alla Vostra presenza, ignoravamoil timore; al contrario: era in Voi e nella Vostraprotezione che cercavamo un rifugio contro i nostricapi; essi non ardirono mai seguirci adAlessandria. Era, ricordo, l'epoca del colera; Voieravate triste, Sire; noi Vi circondavamo insilenzio; Vi guardavamo con illimitatavenerazione, e ognuno di noi sentiva nel suospirito la Vostra grande tristezza, benché non neconoscessimo affatto la ragione - e com'era felice,colui al quale rivolgevate la parola.

Più tardi, molto più tardi, all'estero, quandoero diventato ormai un democratico forsennato, misono sentito obbligato a odiare l'ImperatoreNicola; ma l'odio era nella mia immaginazione,nelle mie idee, non nel mio cuore - odiavo unpersonaggio politico astratto, l'Incarnazione delPotere Autocratico in Russia, l'oppressore dellaPolonia, ma niente affatto la Figura Vivente eMaestosa che m'era apparsa al principio della miavita e s'era impressa nel mio giovane cuore. Le

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impressioni della giovinezza non si cancellanocosì facilmente, Sire. Anche al culmine del miofanatismo politico, la mia follia ha conservatocerti limiti; i miei attacchi a Voi non sono maiusciti dalla sfera politica; osavo chiamarVidespota crudele, duro, spietato, ho predicatol'odio, l'insurrezione contro il vostro potere, manon ho mai osato, non ho mai voluto, giammaiavrei potuto sporcare con parole sacrileghe laVostra Persona, Sire; infine - come dire?, mimancano le parole per esprimere una differenzache sento profondamente - mai ho parlato e scrittocome un vile lacché che ingiuria il suo padrone,calunniandolo e rimproverandolo perché sa cheegli non lo ascolta oppure è troppo lontano perpoterlo battere col suo bastone. Infine, Sire, anchenegli ultimi tempi, nonostante tutte le mie ideedemocratiche e come a dispetto di me stesso,sentivo per Voi un profondo rispetto. E non ero ilsolo; molti altri, polacchi ed europei in genere,convenivano con me che fra tutte le attuali testecoronate Voi, Voi solo, Sire, avete custodito lafede nella Vostra Missione di Zar. Con questi

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sentimenti, con queste idee, e per quanto grandepossa essere stata tutta la mia follia politica, nonpotevo diventare un regicida, e sarete convinto,Sire, che una simile accusa non è altro cheun'infame calunnia.

Ritorno al mio racconto.Preso il danaro da Flocon, andai a chiedere un

passaporto a Caussidière, uno a mio nome e l'altrocon un nome immaginario, perché desideravocelare quanto più possibile la mia presenza inGermania ed in Posnania. Dopo di che, cenato daHerweg e caricatomi di lettere e di commissioniper i democratici badesi, salii sulla diligenza e midiressi a Strasburgo. Se nella vettura qualcunom'avesse chiesto del mio viaggio e avessiacconsentito a rispondere, si sarebbe svolto ilseguente dialogo:

«Perché te ne vai?». «Vado a cospirare».«Contro chi?» «Contro l'Imperatore Nicola». «Inche modo?» «Non lo so ancora neppure io». «Madove vai ora?» «In Posnania». «Perché proprio inPosnania?» «Perché ho saputo dai polacchi chelaggiù c'è più vita, più movimento, e che sarebbe

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più facile agire nel regno di Polonia dallaPosnania che dalla Galizia». «Di quali mezzidisponi?» «Di duemila franchi». «Quali speranzehai nelle tue risorse?» «Nessuna speranzadeterminata, ma forse troverò qualcosa». «Haidelle conoscenze e delle relazioni in Posnania?»«Fatta eccezione per qualche giovane che hoincontrato abbastanza spesso all'università diBerlino, non conosco nessuno». «Come vuoi,dunque, solo e privo di mezzi, lottare contro lo Zarrusso?». «Ho la rivoluzione dalla mia parte espero, arrivato in Posnania, di uscire dal mioisolamento». «Ora i tedeschi si levano contro laRussia, glorificando i polacchi e preparandosi afare con loro la guerra contro l'impero russo. Tu,russo, non ti alleerai con loro?». «Dio me nescampi. Appena i tedeschi oseranno metter piedesulla terra slava, diverrò loro implacabile nemico;vado in Posnania proprio per impedire con ognimezzo la mostruosa alleanza dei polacchi e deitedeschi contro la Russia». «Ma i polacchi nonsono per nulla in grado di lottare da soli contro leforze russe?». «Da soli, no; ma alleandosi agli

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altri slavi e, specialmente, se riesco a trascinare irussi del regno di Polonia...». «Su che cosa fondile tue speranze? Hai relazioni con i russi?».«Nessuna, ma ripongo ogni mia speranza nellapropaganda e nello spirito potente dellarivoluzione, che, in quest'ora, s'è impadronito ditutto il mondo.»

Prescindendo dall'immensità del crimine, Sire,troverete meschino che solo, senza un nomefamoso e senza una forza effettiva, sia partito inguerra contro di Voi, il Grande Zar di un GrandeImpero. Oggi mi rendo nettamente conto di tutta lamia follia; io stesso ne riderei se ne avessi ilcoraggio, e mi tornano involontariamente nellamemoria certe favole di Ivan Andrejevic Krilov...Ma allora non vedevo niente, non volevo pensarea nulla e, come un insensato, correvo verso la miasicura rovina. E se c'è un fatto che, in una certamisura, possa servire come discolpa, non dico allaperversità ma all'assurdità della mia bravata, è chevenivo da una Parigi immersa nell'ebbrezza, e cheio stesso ero ebbro e che tutto, intorno a me, eracome ebbro.

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Arrivando a Francoforte, al principio d'aprile,vi trovai una gran folla di tedeschi venuti da tuttala Germania per il «Vor-Parlament»; conobbiquasi tutti i democratici, consegnai le lettere e fecile commissioni avute da Herweg, osservando ilcaos tedesco e sforzandomi di trovarvi un sensoqualsiasi, di scoprire un germe d'unità in quellanuova torre di Babele. Restai a Francoforte unasettimana circa, andai a Mayence, Mannheim,Heidelberg assistetti a molte riunioni popolariarmate e non armate, frequentai i clubs tedeschi,conobbi personalmente i capi più importantidell'insurrezione badese, fui al corrente di tutte leloro imprese, ma senza partecipare attivamente anessuna, simpatizzando in pieno con esse eaugurando loro il miglior successo possibile; maper tutto ciò che riguardava me stesso ed i mieiprogetti, rimasi in un completo isolamento, siaprima che dopo. In seguito, andando a Berlino,trascorsi qualche giorno a Colonia, aspettandovi lamia roba inviata da Bruxelles. Man mano che miavvicinavo al nord, il mio spirito andavaraffreddandosi: a Colonia mi vinse un'indicibile

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angoscia, come il presentimento della miaprossima rovina. Ma niente poteva fermarmi.All'indomani del mio arrivo a Berlino, fuiarrestato; fui scambiato prima per Herweg, poi mimisero in galera per punirmi di avere duepassaporti. Ma non fui trattenuto che un giorno, efui quindi scarcerato, dopo aver promesso di nonandare in Posnania e di non rimanere a Berlino,ma di andare a Breslavia. Il prefetto di polizia,Minutoli, tenne il passaporto col mio nome ma mirestituì l'altro, intestato a Léonhard Nelinski, chenon è mai esistito; e mi dette inoltre, di propriainiziativa, un altro passaporto, col nome di Wolf oHoffmann - non me ne ricordo più - probabilmentecol lodevole proposito di non farmi perderel'abitudine di viaggiare con due passaporti. Perciò,senza aver visto a Berlino niente altro che uncommissariato di polizia, partii e giunsi aBreslavia alla fine d'aprile o al principio dimaggio.

A Breslavia rimasi ininterrottamente fino alcongresso slavo, cioè fino alla fine di maggio, percirca un mese. Fin dal principio, cercai di far

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conoscenza con i democratici del luogo; poi mimisi a cercare i polacchi, col proposito d'unirmi aloro. Il primo proposito fu realizzato facilmente,ma il secondo apparve non solo difficile maimpossibile. In quell'epoca molti polacchi diGalizia, di Cracovia, di Posnania, molti emigrati aParigi ed a Londra, s'erano riuniti a Breslavia. Sitrattava d'una specie di congresso polacco. Nonebbe, a quanto parve, risultati molto apprezzabili.Non assistevo alle riunioni, ma seppi tuttavia cheera stato occasione di molto rumore, d'unaprofonda discordia e di liti fra i partiti e leprovince, per cui i polacchi se ne andarono senzaprendere la più piccola decisione concreta. Findal principio, la mia situazione fra loro fu penosae bizzarra: tutti mi conoscevano, tutti erano moltogentili con me, mi facevano molti complimenti, mami sentivo straniero fra di loro, e più le loroparole erano dolci, più si raffreddava il miospirito e meno potevamo capirci l'un l'altro.Inoltre, in quello stesso tempo, per la secondavolta e più intensamente della prima, s'era sparsatra di loro la voce del mio preteso tradimento; gli

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emigrati, specie i membri della societàdemocratica, erano quelli che prestavano ilmaggior credito a quella calunnia e ladiffondevano più attivamente. Più tardi, molto piùtardi, se ne scusarono, addossandone laresponsabilità ad un vecchio ciarlatano, il conteLeduchowski, il quale, prevenuto da Lamartine,non avrebbe avuto niente di più incalzante cheprevenire a sua volta tutti i democratici polacchi. Ipolacchi mi trattavano apertamente con freddezza,e perdendo alla fine la pazienza, cominciai adallontanarmi da loro, per cui non ebbi rapporti conloro fino al congresso di Praga; non ne vidi chepochi, senza alcuno scopo politico.

Frequentavo, invece, di più i tedeschi, andavospesso al loro club democratico ed ero, allora,così popolare fra loro che fu unicamente graziealla mia influenza che il mio vecchio amicoArnold Rüge fu eletto deputato di Breslaviaall'Assemblea Nazionale di Francoforte. I tedeschisono bizzarri, ma buoni; e sono riuscito quasisempre a intendermi con loro, ad eccezione, però,dei letterati comunisti. I tedeschi, allora,

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s'occupavano di politica e mi consideravano unoracolo. Non si trattava, per loro, di cospirazionio di seri piani, ma facevano molto chiasso evanterie, cantavano canzoni, consumavano birra;facevano e discutevano tutto per strada, conostentazione; non c'erano più né leggi né autorità,si godeva di una libertà piena e intera e ogni sera,come divertimento, si offrivano una piccolainsurrezione. I loro clubs non erano che sempliciscuole d'eloquenza o, più esattamente, dichiacchiere.

Per tutto il mese di maggio rimasi del tuttoinattivo; mi sentivo solo, in attesa della mia ora.Questa prostrazione derivava, in larga misura,dalle circostanze politiche del tempo. Lo scaccodell'insurrezione di Posnania, nonostante sia statovergognoso per l'esercito prussiano, l'espulsioneda Cracovia dei polacchi (emigrati), poi la loroespulsione dalla Prussia, il completo insuccessodei democratici badesi, infine la prima sconfittadei democratici di Parigi, tutte queste cose eranoaltrettanti sintomi palesi che sarebbe cominciatoun riflusso controrivoluzionario. I tedeschi non lo

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vedevano né lo capivano, ma io ne coglievo ilsenso e, per la prima volta, cominciai a dubitaredel successo. Finalmente, ci si mise a parlare delcongresso slavo; decisi di andare a Praga, nellasperanza di trovarvi il mio punto d'appoggiod'Archimede per l'azione. Fino allora - fattaeccezione dei polacchi e, beninteso, dei russi - nonavevo conosciuto un solo slavo e non ero mai statoin territorio austriaco. Non conoscevo gli slavi cheper sentito dire e dai libri. A Parigi, non avevoignorato l'esistenza del club fondato da CypricaRobert, che ha sostituito Mickiewicz nella cattedradi letteratura slava; ma non lo avevo frequentato,non desiderando affatto mischiarmi con slavidiretti da un francese. Così, il fatto di conoscere estringere rapporti con loro era per me una nuovaesperienza e m'aspettavo molto dal congresso diPraga, sperando particolarmente di vincere, conl'aiuto degli altri slavi, ciò che di meschino c'ènell'amor proprio nazionale dei polacchi.

Se le mie speranze non si realizzaronocompletamente, non furono però del tutto deluse.Gli slavi, dal punto di vista politico, sono

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fanciulli, ma trovai in loro un'incredibilefreschezza e più intelligenza innata ed energia chenei tedeschi. I loro incontri erano commoventi, laloro estasi infantile, ma profonda; si sarebbe dettoche i membri d'una stessa famiglia, dispersi nelmondo intero da una sorte crudele, si trovavanoper la prima volta riuniti, dopo una lunga edolorosa separazione; piangevano, ridevano,s'abbracciavano; la loro gioia, le loro lacrime, lacordialità della loro accoglienza erano senzaparole, senza menzogna, senza affettata solennità;tutto era semplice, sincero, segnato da un caratteresacro. A Parigi m'ero lasciato prenderedall'esaltazione democratica, dall'eroismo dellemasse popolari; ma qui fui sedotto dalla sinceritàe dal calore del sentimento slavo, ingenuo, maprofondo. Sentii battere in me un cuore slavo, a talpunto che in un primo tempo avevo quasidimenticato tutte le simpatie democratiche che milegavano all'Europa Occidentale. I polacchiguardavano gli altri slavi dall'alto del loro livellopolitico, tenendosi un po' in disparte, con unsorrisetto. Da parte mia, invece, mischiandomi con

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loro, vivevo con loro e condividevo le loro gioiecon tutta la mia anima ed il mio cuore; così, essim'amavano e godevo tra loro d'una fiducia quasicompleta.

Il sentimento che predomina negli slavi èl'odio per i tedeschi. L'espressione energica,sebbene poco cortese, di «maledetto tedesco», lacui pronuncia è la stessa in quasi tutti i dialettislavi, produce su ogni slavo un incredibile effetto:ne sperimentai più volte la forza ed ho potutoconstatare che quelle parole riuscivano aconquistare gli stessi polacchi. Talvolta, ingiuriarei tedeschi molto a proposito bastava a fardimenticare ai polacchi il loro esclusivismo, illoro odio contro i russi e la politica scaltra, manon inutile, che li ha frequentemente spinti acercare l'aiuto dei tedeschi; quest'odio, in unaparola, bastava a farli uscire completamente dalguscio stretto, doloroso e artificialmente gelido incui loro malgrado si trovavano a vivere, per viadelle loro grandi disgrazie nazionali, ed arianimare infine il loro vivo cuore slavo,costringendoli a sentire all'unisono con i loro

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fratelli di razza. A Praga, dove l'indignazione per itedeschi non aveva limiti, mi sentivo più vicino aipolacchi di quanto non si sentissero essi stessi.L'odio contro i tedeschi era il tema inesauribile diogni conversazione, sostituiva il buongiorno trasconosciuti: quando due slavi s'incontravano, laloro prima parola era quasi sempre rivolta contro itedeschi, come se volessero reciprocamenteassicurarsi così che erano veri e buoni slavi.

L'odio contro i tedeschi è la base dell'unioneslava; quest'odio e così intenso, cosìprofondamente radicato nel cuore di ogni slavo,che anche adesso sono convinto, Sire, che presto otardi, in un modo o nell'altro, e qualunque siano lecondizioni politiche in Europa, gli slavi silibereranno del giogo tedesco, e che verrà ilgiorno in cui non ci saranno più slavi prussiani, néaustriaci, né turchi. L'importanza del congressoslavo consisteva, a mio parere, nel fatto che essocostituiva il primo incontro, il primo contatto, ilprimo tentativo degli slavi di unirsi e capirsi. Perquanto concerne il congresso, fu, come tutti glialtri congressi e assemblee politiche dell'epoca,

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vuoto d'idee e assurdo. Quanto alle sue origini,ecco ciò che so.

Da lungo tempo esisteva a Praga un circolo distudi letterari che s'era dato il compito diconservare, coltivare e sviluppare la letteraturaceca ed i costumi nazionali, come anche quellidella nazionalità slava in genere, oppressa, offesa,disprezzata sia dai tedeschi che dagli ungheresi.Questo circolo aveva relazioni molto attive eininterrotte cogli altri circoli analoghi dislovacchi, di croati, di sloveni e di serbi, con iLuziaciens di Sassonia e di Prussia, e si trovava,per così dire, alla testa di questo movimento.Palacki, Schafarik, il conte Thun, Hanka, Kolar,Hurban, Louis Stur e alcuni altri erano i capi dellapropaganda slava che, da letteraria agli inizi,aveva a poco a poco assunto importanza politica.Il governo austriaco, pur non amandole affatto,tollerava queste organizzazioni, che costituivano,in effetti, un'opposizione contro gli ungheresi. Percaratterizzarne l'attività, non farò che un soloesempio: dieci o quindici anni or sono, nessuno, aPraga, assolutamente nessuno, parlava ceco, salvo,

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forse, il popolino e gli operai; tutti vivevano cometedeschi e parlavano tedesco, ognuno avevavergogna delle sue origini ceche e della linguanazionale; ora, invece, uomini, donne, fanciulli,nessuno vuol parlare tedesco, e gli stessi tedeschi,a Praga, hanno imparato a capire il ceco edesprimersi in questa lingua.

Non ho citato che l'esempio di Praga, ma lostesso fenomeno s'è realizzato in tutte le altrepiccole e grandi città della Bosnia, della Moraviae della Slovacchia; nei villaggi non si è maismesso di vivere come slavi e di parlare slavo.Voi sapete, Sire, quanto profonde e intense sianole simpatie che gli slavi provano per il potenteImpero russo, dal quale sperano aiuto eprotezione, ed a qual punto il governo austriaco etutti i tedeschi in genere temevano e temono ilpanslavismo russo. In questi ultimi anni il circolodi studi letterari, apparentemente inoffensivo, s'eraallargato e consolidato; aveva conquistato etrascinato tutta la gioventù, gettato radici nellemasse popolari, ed il movimento letterariodivenne improvvisamente un movimento politico;

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gli slavi non aspettavano più che l'occasionepropizia per apparire dinanzi al mondo.

L'occasione si presentò nel 1848. L'imperoaustriaco fu sul punto di dividersi nei suoi diversielementi incompatibili e reciprocamente ostili, ese è riuscito per un momento a sopravvivere, nonlo deve alle sue forze indebolite, ma ne è debitore,Sire, esclusivamente al Vostro aiuto. Gl'italiani sirivoltarono, poi gli ungheresi ed i tedeschi e,finalmente, gli slavi. Il governo austriaco, opiuttosto il governo di Innsbruck - perché c'eranoallora molti governi austriaci, due almeno: unoreale, a Innsbruck, l'altro, ufficiale ecostituzionale, a Vienna, senza parlare del terzo,quello d'Ungheria, anch'esso ufficialmentericonosciuto - il governo dinastico di Innsbruck,dico, abbandonato da tutti e quasi completamenteprivo di mezzi, si mise a cercare la sua salvezzanel movimento nazionale degli slavi.

La prima idea di riunire a Praga un congressoslavo venne ai cechi, a Schafarik, a Palacki e alconte Thun. A Innsbruck l'idea fu accolta conentusiasmo, nella speranza che il congresso slavo

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servisse da contravveleno al congresso deitedeschi riunito a Francoforte. Il conte Thun,Palacki, Brauner crearono allora a Praga unaspecie di governo provvisorio; riconosciuto dalgoverno di Innsbruck, allacciò con esso rapportidiretti, all'insaputa dei ministri viennesi che essorifiutava di riconoscere ed ai quali non volevaobbedire, considerandoli come nemici, come irappresentanti della nazionalità tedesca. E' cosìche si formò il partito ceco quasi ufficiale,semislavo e semigovernativo; governativo perchévoleva salvare la dinastia, il principio monarchicoe l'integrità dell'Impero austriaco; ma non senzaesigere in cambio: innanzitutto, una costituzione,poi il trasferimento della capitale imperiale daVienna a Praga, ciò che in effetti fu promesso,beninteso col fermo proposito di non tenervi fede;infine, la trasformazione completa dell'Imperoaustriaco chiamato a diventare, da impero tedesco,un impero slavo, sebbene né i tedeschi né gliungheresi avessero oppresso più gli slavi, ma glislavi, al contrario, gli ungheresi e i tedeschi.

Nell'opuscolo pubblicato allora, Palacki

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espresse così le sue idee: «Noi vogliamocompiere lo sforzo di rianimare, guarire econsolidare l'impero austriaco dilaniato fin nellesue fondamenta, con l'aiuto della nostra forza slavae sulla nostra terra slava». Impresa impossibile,che li condannò a ingannare o ad essere essi stessiingannati.

Ma il partito ceco non s'accontentava dellapreminenza accordata agli slavi nell'imperod'Austria. Fiducioso nel suo carattere quasiufficiale e nelle promesse false d'Innsbruck,cercava anche di organizzare a suo favore unaspecie di egemonia ceca e di far ratificare daglistessi slavi la preminenza della lingua e dellanazionalità ceca. Senza parlare della Moravia,questo partito si proponeva di riunire alla Boemiala Slovacchia, la Slesia austriaca ed anche laGalizia; in una parola, lo scopo perseguito era lacreazione di un potente regno di Boemia.

Questo pretendevano i politici cechi. Le loropretese suscitarono, naturalmente, una forteopposizione negli slovacchi e negli slesiani, masoprattutto nei polacchi. Questi ultimi erano venuti

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a Praga non col proposito di sottomettersi ai cechi,e neppure, se bisogna dire la verità, per unasimpatia particolare verso i loro fratelli slavi el'idea slava, ma unicamente nella speranza ditrovarvi un aiuto ed un sostegno in vista delle loroimprese nazionaliste. Per questo, fin dal primogiorno scoppiò una lotta, non tra gli slavi venuti alcongresso, ma tra i capi, particolarmente tra ipolacchi ed i cechi e tra i polacchi ed i ruteni; unalotta finita nel nulla, come lo stesso congresso.

Gli slavi del sud non partecipavano ad alcunadiscussione, ma si occupavano solo deipreparativi della guerra d'Ungheria e cercavano dipersuadere gli altri slavi che era necessariorinviare l'esame di tutti i problemi interni fino alladisfatta completa degli ungheresi o, comedicevano altri, fino alla loro completa espulsionedall'Ungheria. I polacchi non parteggiavano pernessuna delle due parti ma offrivano la loromediazione, che gli slavi del sud, e sembra anchegli stessi ungheresi, rifiutavano. In una parola,ognuno faceva i propri interessi e tutti cercavanodi utilizzare gli altri come pedana per elevare se

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stessi. Più degli altri, si comportavano così icechi, rovinati dai complimenti venuti daInnsbruck, e, dopo di loro, i polacchi, che nonerano stati rovinati dalla sorte ma dai complimentidei democratici europei.

Il congresso si componeva di tre sezioni: ilnord, che comprendeva i polacchi, i ruteni e glislesiani; l'ovest, con i cechi, i moravi e glislovacchi; il sud, con i serbi, i croati, gli sloveni ei dalmati. Secondo la prima idea di Palacki,promotore e capo del congresso, al congressoavrebbero dovuto partecipare solo gli slavidell'Austria, mentre i non austriaci avrebberodovuto assistervi solo come ospiti. Ma questa ideafu battuta fin dal principio; al congresso furonoammessi come membri attivi, non come ospiti,molti polacchi della Posnania, polacchi emigrati,alcuni serbi turchi e anche due russi - io ed unpope di cui ho dimenticato il nome (questo nomepuò essere trovato nel resoconto del congressopubblicato da Schafarik). Questo pope o, piùesattamente, monaco, apparteneva ad un conventodi antica fondazione, esistente in Bucovina, diretto

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da un metropolita speciale; il convento, se nonsbaglio, era stato allora chiuso su richiesta delgoverno russo Questo monaco, che si recava aVienna col metropolita destituito, aveva sentitoparlare del congresso slavo ed era venuto solo aPraga.

Io feci parte della sezione del nord, cioèpolacca, e entrandovi a far parte pronunciai unabreve allocuzione. La Russia, dissi, assoggettandola Polonia e mettendola per di più nelle mani deitedeschi, nemici comuni di tutta la razza slava, s'èmessa fuori della comunità slava; essa non puòpertanto rientrare nella fraternità e nell'unità slavese non liberando la Polonia e, perciò, il mio postodeve essere fra i polacchi. Essi m'accolseroapplaudendomi e, su mia richiesta, mi elesserodeputato nella sezione degli slavi del sud. Anche ilpope entrò nella sezione polacca e, per miainiziativa, fu eletto membro dell'assembleagenerale composta dei deputati dei tre gruppiprincipali.

Non voglio nasconderVi, Sire, che il miocelato proposito era di utilizzare il pope nella

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propaganda rivoluzionaria in Russia. Sapevo checi sono in Russia molti vecchi credenti e variesette e non ignoravo che il popolo russo è apertoal fanatismo religioso. Ora, il mio pope era unuomo scaltro, sveglio, un vero avventuriero efurfante russo; andava spesso a Mosca, sapevamolte cose sui vecchi credenti e sullo scismadell'impero russo, ed il suo convento, pare, avevaavuto rapporti ininterrotti con i vecchi credenti.Ma non ebbi il tempo d'occuparmi di lui, e avevod'altra parte dei dubbi sulla moralità di similecollaborazione. Non avevo, inoltre, nessun pianodefinito per un'azione qualsiasi, né sufficientirelazioni, e soprattutto non avevo danaro, e senzadanaro non c'è nulla da fare con gente di quellaspecie. Per giunta, essendo preso esclusivamentedal problema slavo, lo vedevo raramente, e finiiper perderlo di vista del tutto.

I giorni passavano ed il congresso non facevaalcun progresso. I polacchi s'occupavano delregolamento, delle forme parlamentari, delproblema interno; i problemi più importanti sitrattavano fuori del congresso, in riunioni speciali

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e meno numerose. Io non partecipavo a questeriunioni, ma seppi che gli alterchi di Breslavia visi ripetevano in parte, e che vi si parlava molto diKossuth e degli ungheresi, con i quali, se nonsbaglio, i polacchi avevano cominciato ad avererapporti concreti, con gran malcontento degli altrislavi. I cechi pensavano ai loro ambiziosi disegni,gli slavi del sud alla futura guerra. Pochicongressisti pensavano alla questione slava. Sentiivincermi dalla tristezza e cominciai a trovarmiisolato a Praga come lo ero stato a Parigi e inGermania. Parlai molte volte nella sezionepolacca, in quella degli slavi del sud ed ancheall'assemblea generale. Il contenuto essenziale deimiei discorsi può essere così riassunto.

«Perché vi siete riuniti a Praga? Per discutereproblemi locali oppure per far convergere iproblemi particolari di tutti i popoli slavi, i lorointeressi, le loro esigenze in una sola questione,grande e indivisibile? Cominciate dunque adoccuparvi di ciò, subordinandogli tutte le vostreprivate necessità. La nostra è la prima assembleaslava e la nostra missione è quella di porre le

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prime basi di una nuova vita slava, di proclamaree sanzionare l'unità di tutti i popoli slavi, riunitiormai in un grande corpo politico indivisibile.Chiediamoci innanzitutto se la nostra non è che unaassemblea di slavi d'Austria ovvero di slavi ingenere. Che senso ha l'espressione «slaviaustriaci»? Si riferisce agli slavi che abitanol'impero austriaco, cioè, se vogliamo dire così, glislavi asserviti dai tedeschi austriaci? Se intendetelimitare la vostra assemblea esclusivamente airappresentanti degli slavi austriaci, con qualediritto la chiamate slava? Voi escludete, con tuttigli slavi dell'impero russo, gli slavi che sonosudditi prussiani e quelli della Turchia. In altreparole, la minoranza esclude una enormemaggioranza e osa darsi il nome di slava.Chiamatevi dunque slavi tedeschi, e chiamate ilvostro un congresso di slavi tedeschi, ma non uncongresso slavo.

Lo so, molti di voi sperano di trovare un aiutonella monarchia austriaca. Ora essa vi promettetutto, vi lusinga, perché siete indispensabili; mamanterrà le sue promesse? Potrà mantenerle, una

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vola restaurato, col vostro aiuto, il suo potereattualmente svilito? Dite che le manterrà; io sonopersuaso del contrario. La legge fondamentale diogni governo è la sua conservazione; tutte le leggimorali vi sono subordinate, e la storia non conosceancora un esempio d'uno stato che ha mantenuto,senza esservi costretto, le promesse fatte in unmomento critico. Lo vedete, la monarchiaaustriaca non solo dimenticherà i vostri servizi,ma si vendicherà su di voi per la vergognosadebolezza che l'avrà costretta a umiliarsi davanti avoi ed a blandire le vostre esigenze rivoluzionarie.La storia della monarchia austriaca è più ricca ditutte le altre di esempi di questo genere e voi,cechi colti, che conoscete così bene e cosìparticolareggiatamente tutte le antiche sciaguredella vostra patria, dovreste capire meglio deglialtri che ciò che costringe oggi questa monarchia acercare la vostra amicizia non è né la tenerezzaper gli slavi né l'amore dell'indipendenza slava,della lingua, dei diritti e dei costumi slavi, maesclusivamente la forza d'una ferrea necessità.

Infine, anche supponendo l'impossibile, anche

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accettando che la monarchia austriaca vogliaeffettivamente e possa mantenere le promessefatte, quali saranno le vostre conquiste? L'Austria,da impero semitedesco diventerà imperosemislavo; ciò significa che voi da oppressi vitrasformerete in oppressori, e che invece di odiaresarete odiati; cioè voi, slavi austriaci non moltonumerosi, vi staccherete dalla maggioranza slava edistruggerete voi stessi ogni speranza nell'unionedegli slavi, in questa grande unità slava che -almeno nelle vostre parole - costituisce il primooggetto e l'essenza delle vostre preoccupazioni.L'unità slava, la libertà slava, la restaurazioneslava non sono possibili che con la distruzionecompleta dell'impero d'Austria. In quanto aglialtri, che sperano nell'aiuto dello zar perrestaurare l'indipendenza slava, non si sbaglianomeno. Lo zar ha concluso una nuova e molto solidaalleanza con la monarchia austriaca, non in vostrofavore ma contro di voi, non per aiutarvi ma perfarvi tornare con la forza, come gli altri sudditiaustriaci ribelli, nell'antica sottomissione,nell'antica obbedienza assoluta.

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L'Imperatore Nicola non ama né la libertà delpopolo né le costituzioni; avete potuto constatarloin Polonia. So che il Governo russo vi lavora datempo, voi e gli altri slavi della Turchia, con isuoi agenti, i quali girano per le regioni slaveseminando tra voi idee panslaviste, allettandovicon la speranza di un aiuto imminente e dellalibertà vicina di tutti i slavi grazie alla forzadell'impero russo. E non dubito affatto che eglipreveda, in un lontano, molto lontano futuro, ilmomento in cui tutte le terre slave faranno partedell'impero russo. Ma non dovendo nessuno di noivedere quell'ora felice, volete aspettare fino a queltempo? Non solo voi stessi, da oggi a quell'epoca,ma tutti i popoli slavi saranno caduti indecrepitezza. Nell'ora attuale non c'è più posto pervoi nell'impero russo; voi chiedete la vita, e lì nonc'è che un silenzio di morte; volete l'indipendenza,il movimento, ed in Russia non c'è che unameccanica obbedienza. Voi aspirate allarisurrezione, alla rinascita, alla luce, alla libertà, elaggiù non c'è che la morte, il buio e il lavorodegli schiavi.

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Venendo a far parte della Russiadell'Imperatore Nicola, scendereste nella tomba diogni vita nazionale e di ogni libertà. E' vero che,senza la Russia, l'unità slava non è completa esenza di lei la forza slava non esiste, ma sarebbeinsensato aspettarsi dalla Russia contemporaneaun aiuto per gli slavi e la loro salvezza. Che virimane dunque da fare? Innanzitutto, unitevi fuoridella Russia, senza escluderla ma aspettando,sperando prossima la sua liberazione; essa saràtrascinata dal vostro esempio e voi sarete iliberatori del popolo russo che, a sua volta,diventerà la vostra forza e il vostro scudo.

Cominciate dunque a unirvi nel modo seguente:proclamate che, slavi, non austriaci ma abitanti leterre slave del sedicente impero d'Austria, vi sieteriuniti a Praga per gettare le fondamenta dellafutura federazione, grande e libera, di tutti i popolislavi; proclamate anche che aspettando l'unionedei popoli slavi dell'impero russo, dei territoriprussiani e della Turchia, avete concluso tra voi,cechi, moravi, polacchi di Galizia e di Cracovia,suteri, slesiani, slovacchi, serbi, croati, dalmati,

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un'alleanza forte e inalterabile, difensiva eoffensiva sulle seguenti basi...».

Non elencherò tutti gli articoli che avevoimmaginato; dirò solo che il mio progetto,pubblicato in seguito, però a mia insaputa e soloframmentariamente, era stato composto in unospirito democratico e lasciava ampio spazio alledifferenze nazionali e regionali per tutto ciò che siriferiva all'apparato amministrativo, dopo averstabilito in questo campo certi principi generali eobbligatori per tutti; ma in tutto quanto si riferivaalla politica estera e interna, il potere eraconcentrato e affidato al governo centrale. In talmodo tutte le pretese egoiste e ambiziose deipolacchi e dei cechi dovevano essere indotte ascomparire nell'unione slava generale. Consigliaial congresso anche di esigere dalla corte diInnsbruck, che allora cedeva ancora su ogni punto,di riconoscere ufficialmente l'Unione e diconcedere ai buoni e fedeli sudditi slavi le stesseconcessioni appena fatte agli ungheresi: lacreazione di un ministero slavo, di un esercitoslavo con ufficiali slavi, di un'amministrazione

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finanziaria slava. Consigliai anche che venisserorichiamati dall'Italia l'esercito croato e altrireggimenti slavi; infine, di inviare un incaricatod'affari in Ungheria, non da parte del governatoreJelatchitch ma in nome di tutti gli slavi riuniti, alloscopo di risolvere pacificamente la questioneslavo-ungherese e di offrire agli ungheresi, comeanche ai polacchi della Transilvania, di entrare sianell'unione slava dell'ovest sia nell'unionerepubblicana occidentale, su un pianod'uguaglianza con tutti gli altri slavi.

Lo confesso, Sire: indirizzando questo progettoal congresso slavo mi proponevo la distruzionecompleta dell'impero austriaco, allora inevitabile,sia che il governo vi avesse forzatamentecondisceso, sia che vi avesse opposto un rifiutoche avrebbe dovuto necessariamente condurre adun conflitto tra la dinastia e gli slavi. L'altro mioscopo, il più importante, era di trovare nell'unionedegli slavi il punto di partenza d'una largapropaganda rivoluzionaria in Russia, per iniziarela lotta contro di Voi, Sire.

Mi era impossibile unirmi ai tedeschi; sarebbe

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stata una guerra europea, peggio, una guerra deitedeschi contro i russi. Mi era ugualmenteimpossibile unirmi ai polacchi: essi non avevanofiducia in me, ed io stesso, quando conobbi più davicino il loro carattere nazionalistico, il loroegoismo incurabile anche se storicamentecomprensibile, mi sentii a disagio e mi fuimpossibile unirmi a loro e agire d'accordo conloro contro la patria. Per contro, nell'unione slavatrovai una più vasta concezione della patria, e ilgiorno in cui la Russia si fosse fusa con essa,polacchi e cechi sarebbero stati costretti a cederleil primato.

Ho usato più volte l'espressione propagandarivoluzionaria in Russia; devo ora spiegare comeconcepivo questa propaganda, quali erano le miesperanze e di quali mezzi disponevo. Devoinnanzitutto assicurarvi solennemente, Sire, che néprima né allora né dopo non ebbi non dicorapporti, ma nemmeno un'ombra, un inizio dirapporti con la Russia ed i russi, neppure con unodegli esseri umani che abitano nei confini delvostro impero.

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Dopo il 1842, non ho ricevuto dalla Russia senon una decina di lettere, e ne ho mandate soloaltrettante. Queste lettere non contenevano neppureil più piccolo accenno alla politica. Nel 1848avevo sperato di avviare rapporti con i russi cheabitano lungo la frontiera della Posnania e dellaGalizia; per farlo avevo bisogno dell'aiuto deipolacchi, ma, come ho detto più volte, non potevoe non sapevo legarmi a loro; non sono mai andatonel ducato di Posnania né a Cracovia, né inGalizia, non conoscevo neppure un solo abitante diquelle regioni, di cui possa affermare in pienacoscienza che avesse relazioni con il regno diPolonia o con l'Ucraina. Non credo, del resto, chei polacchi avessero, a quell'epoca, relazionistabili con le regioni limitrofe dell'impero russo;si lamentavano delle difficoltà dellecomunicazioni, della muraglia impenetrabile dellaquale è circondato. Non vi arrivavano che vocisoffocate, insensate, una volta, ad esempio, sisparse la voce di un'insurrezione a Mosca e di unacospirazione russa scoperta di recente; un'altravolta si diceva che gli ufficiali russi avevano reso

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inutilizzabile i cannoni della cittadella diVarsavia, e altre assurdità, alle quali, malgradotutta la follia in cui ero immerso, non ho maicreduto.

Tutti i miei progetti rimasero fermi, non permancanza di volontà, ma per impossibilità diagire; poiché non mi era possibile la propagandané avevo i mezzi necessari. Come mi ha detto ilconte Orlof, è stato riferito al governo cheall'estero avrei parlato dei miei rapporti con laRussia, particolarmente con la Piccola Russia.Non posso rispondere che una cosa; avendosempre disprezzato la menzogna, non ho potutoparlare di relazioni che non ho mai avuto.

Dall'Ucraina mi pervenivano notizie tramite iproprietari polacchi che abitavano in Galizia.Appresi in tal modo che l'abolizione dellaschiavitù tra i contadini galiziani aveva fattosorgere, agli inizi del '48, una grande agitazionetra i contadini ucraini di Volhynie, di Podolia edel governatorato di Kielf, i quali temevano per laloro vita; molti proprietari terrieri avevano dovutotrovar rifugio a Odessa. E' solo questo che ho

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saputo della Piccola Russia. E' possibile cheabbia, in seguito, parlato pubblicamente di questenotizie, perché m'aggrappavo disperatamente atutto ciò che potesse, sia pure solo vagamente,sostenere, o più esattamente suscitare nel pubblicoeuropeo e particolarmente slavo la fede nellapossibilità, nella necessità inevitabile dellarivoluzione russa.

Su questo è necessaria una breve osservazione.Dedicatomi - per il mio passato, le mie idee, lamia situazione, il mio insoddisfatto bisogno diagire ed anche per mia volontà - alla disgraziatacarriera del rivoluzionario, non riuscivo mai adistogliere dalla Russia il mio spirito, il mio cuoreed il mio pensiero; pertanto non potevo averenessun altro campo di attività all'infuori dellaRussia; ero parimenti costretto a credere nellarivoluzione russa, o piuttosto a persuadermi epersuadere gli altri con me di credere in essa. Ciòche ho scritto nella lettera a Mickiewicz, benchéforse ad un livello inferiore, potrebbe essereapplicato a me stesso: ero nello stesso tempol'ingannatore e l'ingannato, m'illudevo da me

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stesso, e gli altri con me, facendo più o menoviolenza alla mia intelligenza ed al buon senso deimiei ascoltatori. Non sono nato ciarlatano, Sire; alcontrario, niente mi ripugna come il ciarlatanesimoe la sete della verità semplice e pura non si èestinta mai in me; ma la situazione, anormale edinfelice, nella quale m'ero cacciato io stesso, miha talvolta costretto ad essere un ciarlatano. Senzarelazioni, senza mezzi, solo con le mie idee,smarrito tra gente straniera, non avevo che uncompagno: la fede; e dicevo a me stesso che lafede muove le montagne, supera l'insuperabile,crea l'impossibile, distrugge gli ostacoli; che lafede da sola è già la metà del successo, la metàdella vittoria; unita ad una forte volontà, fa nascerele circostanze, suscita gli uomini, aduna, unisce,fonde le masse in una sola anima ed in una solaforza; dicevo a me stesso che, credendo anch'ionella rivoluzione russa, portare anche gli altri acrederci, persuadere gli europei ed in particolaregli slavi, e persuadere, alla fine, gli stessi russisignificava render possibile e perfino inevitabilela rivoluzione in Russia. In una parola, desideravo

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credere, desideravo far credere agli altri. Questafede falsa, artificiale e forzata l'acquisii non senzasforzo, senza lotte dolorose. Quante volte, nelleore in cui ero solo, dubbi strazianti sulla moralitàe sulla possibilità della mia impresa si sonoimpadroniti di me, quante volte ho sentito irimproveri della voce interiore, quante volte horipetuto a me stesso le parole rivolte all'apostoloPaolo, quando si chiamava ancora Saul: «E' duroresistere al pungolo», ma invano; soffocavo in mela voce della coscienza e respingevo come indegnii miei dubbi.

Conoscevo male la Russia. Ho passato ottoanni all'estero e quando abitavo in Russia ero cosìesclusivamente assorbito dalla filosofia tedescache non vedevo nulla intorno a me. D'altra parte,senza un aiuto speciale del governo è quasiimpossibile studiare la Russia anche a quelli chesi assumono il compito di studiarla. Lo studiodella massa dei contadini è, per quanto ne so,difficile per lo stesso governo. All'estero, quandola mia attenzione s'è rivolta per la prima volta allaRussia, mi son messo a raggruppare antiche

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impressioni incoscienti e, in parte su questa base,in parte sulle varie voci che potevano pervenirmi,ampliando o riducendo ogni fatto, ogni circostanzasul letto di Procuste delle mie aspirazionidemocratiche, mi son creato una Russiaimmaginaria e pronta alla rivoluzione. In tal modo,ingannavo me stesso e gli altri. Non parlavo mainé dei miei rapporti né della mia influenza inRussia: sarebbe stata una menzogna, e io odio lamenzogna. Ma quando intorno a me si supponevache avevo una certa influenza, che avevo rapportireali, tacevo, non obiettavo niente, trovando inquella supposizione il solo sostegno ai mieiprogetti. E' così che sono potute nascere certe vocifantasiose, prive d'ogni fondamento, e di cui ilGoverno ha, verosimilmente, avuto sentore.

Perciò non c'era allora, neppure in germe,nessuna propaganda russa; essa esisteva tutta nellamia mente. Ma in quale forma? Cercherò dirispondere con tutta la franchezza e tutti iparticolari possibili. Sire, queste confessionisaranno dure per me. Non è che tema di suscitarela giusta ira di Vostra Maestà Imperiale, né

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d'incorrere nel castigo più crudele. Dopo il 1848,e specie dopo la mia incarcerazione, ho vissutotante situazioni e impressioni: amare esperienze eamari presentimenti, speranze, apprensioni etimori, che il mio spirito è venuto indurendosi, si èpietrificato, a tal punto che su di esso sembra nonabbiano più presa la speranza e l'angoscia. No,Sire, non sento vergogna e penosi rimorsiparlandovi dei crimini da me stesso tramati controdi voi e contro la Russia, anche se questi delittiabbiano trovato posto solo nell'intenzione e nelpensiero e non si siano giammai tradotti in azioni.

Se fossi davanti a voi, Sire, come davanti soloallo Zar-Giudice, potrei liberarmi di questosupplizio interiore non attardandomi su inutiliparticolari. Per la giusta applicazione delle leggipenali basterebbe che dicessi: «Ho cercato contutte le mie forze e tutti i mezzi possibili discatenare la rivoluzione in Russia; volevopenetrare in Russia con la forza, sollevare il paesecontro lo zar e distruggere da cima a fondol'ordine esistente. E se non ho fatto nulla, se non hocominciato la mia propaganda, non è per mancanza

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di volontà, ma di mezzi». La legge sarebbesoddisfatta, perché questa confessione basterebbea farmi condannare alla pena più dura esistente inRussia. Ma la Vostra straordinaria concessione,Sire, ha voluto che io sia ora dinanzi a Voi noncome dinanzi allo Zar-Giudice, ma come dinanziallo Zar-Confessore, al quale devo rivelare tutti isegreti del mio pensiero. Voglio dunqueconfessarmi a Voi: cercherò di far luce nel caosdei miei pensieri e dei miei sentimenti, allo scopodi esporli in un certo ordine. Parlerò dinanzi a Voicome farei dinanzi a Dio stesso, che nonsapremmo ingannare né con adulazioni né conmenzogne. Ma, Sire, Ve ne supplico, permettetemidi dimenticare per un momento che mi trovodavanti al grande e terribile Zar dinanzi al qualetremano milioni di uomini ed in presenza del qualenessuno osa, non dico manifestare, masemplicemente concepire una opinione contraria.Permettetemi di pensare che parlo unicamente almio padre spirituale.

Volevo la rivoluzione in Russia. Primadomanda: perché la volevo? Seconda domanda:

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con quale ordine volevo sostituire l'ordineesistente? Terza e ultima domanda: con qualimezzi e per quali vie mi accingevo a scatenare larivoluzione in Russia?

Girando il mondo si scopre dappertutto moltomale, oppressioni e ingiustizie, ma forse più inRussia che negli altri Stati. Non perché il popolosia in Russia più cattivo che nell'Europaoccidentale; al contrario, credo che il russo abbiapiù bontà, più cuore, più larghezza d'animodell'occidentale. Ma nell'Europa occidentaleesiste un rimedio contro il male: la pubblicità,l'opinione pubblica, e infine la libertà, che nobilitaed eleva ogni essere. Questo rimedio non esiste inRussia. L'Europa occidentale sembra talvolta piùcattiva, ma è perché tutto il male viene alla luce epoche cose vi restano segrete. In Russia, invece,tutte le malattie penetrano all'interno e intaccano lastessa costituzione dell'organismo sociale. Ilmotore essenziale in Russia è la paura, e la pauradistrugge ogni vita, ogni intelligenza, ogni nobilemoto dello spirito. E' duro e doloroso vivere inRussia per chiunque ami la verità, per chiunque

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ami il suo prossimo, per chiunque rispetti allostesso modo in tutti gli uomini la dignità el'indipendenza dello spirito immortale, perchiunque, in una parola, non soffre soltanto dellevessazioni di cui egli stesso è vittima, ma anche diquelle che colpiscono il suo prossimo. In Russia lavita sociale è una catena di reciprochepersecuzioni: il superiore opprime l'inferiore;costui sopporta, non osa lamentarsi, ma opprimechi è sotto di lui, il quale sopporta a sua volta, masi vendica allo stesso modo su colui che eglidomina. Ma la sofferenza maggiore è quella delpopolo, del povero contadino russo, che,trovandosi al livello più basso della scala sociale,non può opprimere nessuno e deve sopportarevessazioni da parte di tutti, secondo il proverbiorusso «solo il pigro non ci batte».

Si ruba in ogni luogo, la concussione esistedappertutto e si commettono ingiustizie per un po'di danaro in Francia, in Inghilterra o nell'onestaGermania, ma credo che questo si faccia in Russiapiù che negli altri paesi. In Occidente il ladropubblico raramente può nascondersi, perché

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migliaia di occhi sono fissati su ognuno; chiunquepuò scoprire il furto e l'ingiustizia, e allora non c'èpiù nessun ministero capace di difendere il ladro.Ma in Russia tutti conoscono talvolta il ladro,l'oppressore, che per danaro compie ingiustizie;tutti lo conoscono ma tutti tacciono, perché hannopaura; e le autorità tacciono esse stesse sapendosiin colpa. Tutti hanno una sola preoccupazione: chenon sappiano nulla né il ministro né lo Zar, e lastrada che conduce allo Zar è altrettanto lunga diquella che porta a Dio. Sire, è difficile, è quasiimpossibile, in Russia, per un funzionario, nonessere un ladro. Innanzitutto, tutti rubano intorno alui; l'abitudine diventa una seconda natura e ciòche, al principio, aveva indignato, appare prestonaturale, inevitabile e necessario; poi, unsubordinato è spesso costretto a pagare un tributoal suo capo, sotto una o l'altra forma; infine, sequalcuno ha l'intenzione di rimanere onesto, i suoicompagni ed i suoi capi nutrono contro di lui unodio implacabile; lo tratteranno prima come unoriginale, un selvaggio, uno spirito antisociale. Senon si corregge, lo si farà anche passare per un

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liberale e per un pericoloso libero-pensatore, e lapersecuzione non cesserà se non quando egli siascomparso dalla terra. I funzionari di gradoinferiore, educati a questa scuola, diventano coltempo i funzionari superiori, che plasmano a lorovolta ed allo stesso modo le nuove generazioni; edin Russia i furti, le ingiustizie e le oppressioniprosperano e crescono come un polipo dalleinnumerevoli ramificazioni e che non muore mai, adispetto delle mutilazioni e dei colpi.

La paura non ha in sé alcun effetto controquesto male che divora tutto. Essa atterrisce, fermail male per qualche tempo, ma solo per poco.L'uomo si abitua a tutto, anche alla paura: ilVesuvio è circondato da villaggi e la stessa zonanella quale sono sepolte Ercolano e Pompei èpopolata di gente; in Svizzera, villaggi popolosi sitrovano sotto una roccia spaccata: tutti sanno chepuò cadere da un giorno all'altro, da un'oraall'altra e che, nella terribile caduta, ridurrà inpolvere tutto ciò che si trova sotto; tuttavia,nessuno cambia posto, ci si culla nell'idea cheforse non cadrà ancora per molto tempo. Così è di

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tutti i funzionari russi, Sire. Essi sanno quanto siaterribile la Vostra ira e quanto siano severi iVostri castighi quando Voi apprendete di unaingiustizia o di un furto qualsiasi; tutti tremanosolo al pensiero della Vostra collera, e tuttaviacontinuano a rubare, ad opprimere, a commettereingiustizie. In parte, perché è difficile liberarsi diuna tenace e inveterata abitudine; in parte ancheperché ognuno si trova come preso e trascinato,avendo a sua volta obblighi verso gli altri ladrisuoi complici, ma soprattutto perché ognuno siillude di agire con tale prudenza e di godere di unatale protezione, ugualmente criminosa, che la vocedei propri misfatti non arriverà mai alle Vostreorecchie. La paura è di per sé inefficace. Controun male simile, altri rimedi sono necessari: lanobiltà dei sentimenti, l'indipendenza del pensiero,l'intrepidità orgogliosa di una coscienza pura, ilrispetto della dignità umana in se stesso e neglialtri, infine il pubblico disprezzo di tutti gli esserisenza coscienza e senza umanità, il rispetto umanoe la coscienza sociale. Ma queste qualità e questeforze non possono svilupparsi se non laddove c'è

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libertà illimitata per lo spirito e non la schiavitù ela paura; in Russia si ha paura di queste virtù, nonperché non le si ama, ma perché si teme cheportano in sé idee libere....

Non oso, Sire, scendere nei particolari.Sarebbe ridicolo e insolente che io parlassi dicose che Voi conoscete mille volte meglio di me.Da parte mia, conosco poco la Russia, e ciò chesapevo l'ho detto in pochi articoli e opuscoli,come anche nella mia lettera di difesa, redatta dimio pugno nella fortezza di Königstein.

Ho impiegato spesso, in questi scritti,espressioni insolenti e delittuose verso di Voi,Sire, con tono e con spirito malatamente febbrili,peccando così contro il proverbio russo che «nonbisogna portar fuori dell'isba la spazzatura», maconformemente alla mia convinzione d'allora, dimodo che tutte queste menzogne e contro- veritàdevono essere attribuite alla mia ignoranza dellaRussia ed alla mia modesta intelligenza, non almio cuore.

Ciò che mi rivoltava, ciò che m'indignava dipiù, era la situazione disgraziata nella quale si

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trova ora il sedicente popolino, il contadino russo,buono e oppresso da tutti. Sentivo per questaclasse molta più simpatia che per le altre,incomparabilmente di più che per quella dei nobilirussi, corrotta e senza carattere. Fondavo suicontadini tutte le mie speranze nella risurrezione,tutta la mia fede nella grandezza dell'avvenirerusso; vedevo in essi freschezza, uno spirito largo,una intelligenza luminosa che la depravazionestraniera non aveva contaminata; è in questopopolo che vedevo la forza russa, e pensavo a ciòche sarebbe potuto diventare se gli fossero statedate la libertà e la proprietà, se gli si fosseinsegnato a leggere e scrivere. E mi domandavoperché l'attuale governo, che detiene il potereassoluto, che è investito di un potere che non halimiti né nella legge né nelle cose, né in un dirittostraniero né nell'esistenza di un solo potere rivale- non usava la sua onnipotenza per la liberazione,l'elevazione e l'istruzione del popolo russo. E,legate a questa domanda essenziale efondamentale, molte altre se ne presentavano almio spirito. Ma invece di rispondere, come deve

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fare ogni suddito di Vostra Maestà Imperiale:«Non spetta a me ragionare su simili questioni;l'Imperatore e le autorità sanno ciò che devonofare, ed io non ho che da sottomettermi», invece diquest'altra risposta che sarebbe stata altrettantopriva di fondamento e potrebbe servire di basealla prima: «Il Governo considera le cose dall'altoabbracciandole tutte contemporaneamente; ma ionon posso vedere tutti gli ostacoli, tutte ledifficoltà, le circostanze attuali della politicainterna ed estera, perciò non posso stabilire ilmomento favorevole per una determinata azione»(14); invece di queste risposte, nel mio pensiero enei miei scritti dicevo con insolenza e come untraditore: «Il Governo non libera il popolo russoinnanzitutto perché pur disponendo di un potereillimitato e di una onnipotenza nel fare le leggi, inrealtà è limitato da un insieme di circostanze,invisibilmente legato dalla sua corrottaamministrazione e dall'egoismo della nobiltà.Inoltre, perché non vuole in realtà né la libertà, nél'istruzione, né l'elevazione del popolo russo,perché esso non lo considera che una macchina

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senz'anima, una macchina per realizzare delleconquiste in Europa».

Questa risposta, assolutamente contraria al miodovere di suddito fedele, non contraddiceva affattole mie convinzioni democratiche. Voi potrestechiedermi: che pensi ora? (15).

Sire, mi sarebbe difficile rispondere. Durante idue anni e più della mia carcerazione ho avuto iltempo di riflettere a molte cose, e posso affermareche mai, nella mia vita, ho riflettuto tantoseriamente come durante questo tempo: ero solo,lontano da tutte le seduzioni del mondo e resoavveduto da una esperienza effettiva e dura. Ebbidubbi maggiori sulla giustezza delle mie ideequando, tornando in Russia trovai, invece deltrattamento duro e volgare che m'aspettavo,un'accoglienza così umana, nobile emisericordiosa. Ho appreso durante il viaggiomolte cose che ignoravo ed alle quali non avreiaffatto creduto stando all'estero. Molte, molte cosesono cambiate in me; ma posso affermare conpiena coscienza che non è rimasta in me nessunatraccia dell'antica malattia? Non c'è che una verità

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che io abbia compreso perfettamente: che lascienza e la pratica di governo son cose cosìgrandi, così difficili, che poche sono capaci diconcepirle con la loro sola intelligenza, senzaesservi preparati da una educazione speciale, dauna speciale atmosfera, da una approfonditaconoscenza e da un permanente contatto; che lavita degli stati e dei popoli richiede molte qualitàsuperiori, molte leggi che sfuggono al livelloordinario e che moltissime cose che ci sembranodure, ingiuste e crudeli nella vita privata,diventano necessarie al livello superiore dellapolitica. Ho capito che la storia ha la sua propriastrada, misteriosa, logica, anche se spessocontraria alla logica del mondo, che questa stradaè salutare, sebbene essa non corrisponda sempreai nostri desideri personali e che - salve alcuneeccezioni, rarissime nella storia, eccezioni che laProvvidenza ha, per così dire, ammesse e che lariconoscenza dei posteri ha santificato - nessunuomo privato, per quanto grandi possano essere lasincerità, la verità e la santità apparenti delle suecondizioni, non ha né il diritto né la missione di

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seminare pensieri di rivolta e di alzare una manoimpotente contro le forze superiori e impenetrabilidel destino. In una parola, ho capito che le mieintenzioni, i miei atti erano stati ridicoli, insensati,insolenti e criminali nel più alto grado; criminaliverso di Voi, mio Imperatore, criminali verso laRussia, mia patria, criminali, infine, verso tutte leleggi politiche e morali, divine e umane.

Ma torniamo ai miei problemi sediziosi edemocratici.

Io mi chiedevo anche: «Quali vantaggi ricavala Russia dalle sue conquiste? E se mezzo mondole si sottomettesse, gliene deriverebbero maggiorefelicità, più libertà e ricchezza? Sarebbe anche piùforte? E il potente impero russo, già ora cosìesteso e immenso, non finirebbe per crollare nellostesso momento in cui spingesse ancor più lontanole sue frontiere? Qual è il fine ultimo di questaespansione? Che cosa darebbe l'impero russo aipopoli asserviti in compenso della loroindipendenza perduta? Né la libertà, nél'istruzione, né la prosperità delle masse, masoltanto la loro propria nazionalità già ridotta in

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schiavitù. Ora, la nazionalità russa, o piùesattamente panrussa, deve e può essere quella delmondo intero? L'Europa occidentale può diventaremai russa di lingua, di cuore e d'anima? Gli stessipopoli slavi possono diventare tutti russi?dimenticare la loro lingua, quando la PiccolaRussia non ha potuto ancora dimenticare la sua,dimenticare la loro cultura ed il loro focolare,cessare completamente, in una parola, di essere sestessi e, come dice Puskin, «perdersi nel marerusso»? Che cosa guadagnerebbero, qualevantaggio trarrà la stessa Russia da questa fusioneforzata? Essi non avranno che lo stesso risultatodella Russia Bianca dal suo lungo assoggettamentoalla Polonia: la prostrazione e il completorincretinimento del popolo. E la Russia? La Russiasarà costretta a portare sulle sue spalle tutto ilpeso di questa centralizzazione complicata,imposta e incommensurabile. Essa diventerà unoggetto di odio per tutti gli altri slavi, come lo èora per i polacchi; essa non sarà il liberatore, mail tiranno di tutta la famiglia slava, il suoinvolontario nemico, e ciò a spese della sua

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prosperità e della sua libertà; infine, odiata datutti, arriverà a odiarsi da se stessa non avendotrovato nelle sue vittorie artificiali che la schiavitùed i supplizi. Essa ucciderà gli slavi e si suicideràessa stessa con loro. Dev'essere questa la finedella vita slava, la fine della storia slava, che èappena cominciata?»

Sire, non ho cercato affatto di attenuare le mieparole. Ho esposto in tutta la loro nudità iproblemi che allora mi tormentavano, riponendo lamia speranza nella vostra gentile indulgenza edesideroso di spiegare, per quanto poco, a VostraMaestà Imperiale come, passando o piuttostovacillando di problema in problema e dideduzione in deduzione, ho potuto arrivare aconvincermi in parte della necessità e dellamoralità della rivoluzione russa.

Ho detto abbastanza per mostrare fino a qualpunto le mie idee erano sprecate. Ora mi affretto, arischio d'apparire illogico, a saltare tutta una seriedi questioni e di pensieri analoghi, che mi hannoportato alla definitiva conclusione rivoluzionaria.Mi è difficile, Sire, mi è indicibilmente duro

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parlarvi di ciò. Difficile, perché non so in chemodo esprimermi: se attenuo le mie parole, Voipotete credere che io cerchi di dissimulare odiminuire l'insolenza del mio pensiero e che la miaconfessione non è sincera, non è completa; ma seripeto le espressioni che usavo durante ilparossismo della mia follia politica, voi pensereteforse, Sire, che io ho, Dio me ne guardi,l'intenzione di mettere in mostra dinanzi a Voi lalibertà del mio pensiero. Inoltre, per esporre tuttele mie vecchie idee dovrei fare una distinzione traquelle che ho abbandonato completamente e quelleche ho conservato in parte o del tutto; dovreiavventurarmi in spiegazioni senza fine, inragionamenti che qui sarebbero non solo indecentima anche assolutamente contrari allo spirito ed alfine unico di questa confessione, la quale non devecontenere altro che il racconto semplice e sincerodei miei peccati. Mi è più doloroso che difficile,Sire, confessarvi ciò che ho osato pensare delladirezione e dello spirito della vostraamministrazione. Mi è doloroso sotto tutti gliaspetti: doloroso a causa della mia condizione,

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perché apparisco dinanzi a Voi, mio Imperatore,come un criminale condannato.

Doloroso per il mio amor proprio; mi par disentirvi dire, Sire: questo ragazzino ciarla di cosedi cui non sa nulla. Ma è soprattutto il mio cuoreche ne soffre, perché mi presento dinanzi a Voicome il figliuol prodigo, come un figlio sradicatoe smarrito si presenta dinanzi all'indignazione e alcorruccio di suo padre. (16) Per dirlo con unaparola, Sire, m'ero persuaso che la Russia, alloscopo di salvare il suo onore ed il suo avvenire,doveva fare la rivoluzione, abbattere il VostroPotere Imperiale, abolire il governo autocratico e,liberatasi così della schiavitù interna, mettersi allatesta del movimento slavo, volgere le armi control'Imperatore d'Austria, contro il re di Prussia,contro il sultano turco e, se fosse stato necessario,anche contro la Germania e gli ungheresi, in breve,contro il mondo intero, allo scopo di liberaredefinitivamente dal giogo straniero tutti i popolislavi. La metà della Slesia prussiana, una granparte della Prussia orientale e occidentale, in unaparola tutti gli stati di lingua slava e polacca,

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dovevano separarsi dalla Germania. Le miefantasticherie andavano anche più lontano:pensavo, speravo che la nazione ungherese -costretta dalle circostanze, dal suo isolamento tra ipopoli slavi, come anche dalla sua natura piùorientale che occidentale - che tutti i Moldavi eValacchi, perfino che la Grecia stessa sarebberoentrati nell'Unione Slava e che si sarebbecostituito pertanto un Impero d'Oriente libero eunificato, una specie di mondo orientale risorto -opposto, senza essergli ostile, al mondooccidentale - la cui capitale sarebbe stataCostantinopoli.

Queste erano le mie aspirazioni rivoluzionarie.Queste aspirazioni, però, non mi erano affattoimposte dalla ambizione, ve lo giuro, Sire, ed ososperare che presto Voi stesso ne sarete convinto.Ma devo prima rispondere a questa domanda:quale forma di governo mi auguravo per laRussia?

Mi è difficile rispondere, perché le mie idee alriguardo erano vaghe e indeterminate. Dopo unsoggiorno di otto anni all'estero, mi rendevo conto

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che non conoscevo la Russia e mi dicevo che nonspettava a me, tanto più che mi trovavo fuori dellaRussia, stabilire le leggi e le forme della suanuova vita. Vedevo che anche nell'Europaoccidentale - dove le condizioni di vita sonochiaramente stabilite, dove la conoscenza di sestesso è incomparabilmente più diffusa che inRussia - nessuno era in grado di prevedere nonsolo le forze permanenti dell'avvenire, ma anche isemplici mutamenti dell'indomani, e mi dicevoancora: nell'ora attuale tutti, gli europei ed i russi,ignorano la Russia, la Russia tace; ma se essa tacenon è affatto perché non ha nulla da dire, è che lasua lingua non è più libera e che essa ha tutti gliarti legati. Si svegli e parli! Sapremo ciò chepensa e ciò che crede; essa stessa ci dirà qualisono le forme e le istituzioni di cui ha bisogno. Seavessi avuto allora accanto a me un solo russo colquale parlare della Russia, si sarebbero formate inme delle nozioni, non dico migliori o piùragionevoli, ma almeno più precise. Ma ero solocon le mie idee; migliaia di fantasticherie, vaghe econtraddittorie, s'ammucchiavano nel mio

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cervello; non potevo metterle in ordine e, convintodell'impossibilità di uscire da quel labirinto con lemie forze, rimandavo la soluzione di tutti i mieiproblemi al giorno del mio rientro in Russia.

Volevo la repubblica. Ma quale? Non larepubblica parlamentare. Il governorappresentativo, le forme costituzionali,l'aristocrazia parlamentare e il sedicenteequilibrio dei poteri in cui tutte le forze si trovanocosì astutamente controbilanciate che nessuna puòagire; tutto il catechismo politico sospettoso,ottuso e versatile dei liberali occidentali, non èstato mai l'oggetto né della mia adorazione nédella mia simpatia; avevo allora cominciato adisprezzarlo ancora di più, avendo visto i risultatidelle forze parlamentari in Francia, in Germania,anche al congresso slavo e particolarmente nellasezione polacca, in cui i polacchi giocavano alparlamentarismo come i tedeschi alla rivoluzione.Di più, il parlamento russo, come, del resto, ancheil parlamento polacco, sarebbe esclusivamentecomposto dalla nobiltà; il parlamento russoavrebbe potuto unirsi anche alla classe mercantile,

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ma la grande massa del popolo, il vero popolo,baluardo e forza della Russia, portatore della vitae dell'avvenire russi, il popolo, mi dicevo,rimarrebbe senza rappresentanti e sarebbeoppresso, oltraggiato da questa stessa nobiltà chel'opprime ora. Credo che in Russia, più chealtrove, sarebbe indispensabile una forte dittatura,un potere che fosse esclusivamente preoccupatodell'elevazione della istruzione delle masse; unpotere libero nella sua tendenza e nel suo spirito,ma senza forme parlamentari; che pubblichi libricon un contenuto libero, ma senza libertà distampa; un potere circondato da suoi partigiani,illuminato dai loro consigli, sostenuto dalla lorocollaborazione, ma che non sarebbe limitato daniente e da nessuno. Dicevo a me stesso che tuttala differenza tra questa dittatura e il poteremonarchico consisterebbe unicamente nel fatto chela prima, secondo lo spirito dei suoi principi, devetendere a rendere superflua la sua esistenza,perché essa non avrebbe altro scopo che la libertà,l'indipendenza e la progressiva maturità delpopolo; mentre il potere monarchico, al contrario,

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sforzandosi sempre di rendere indispensabile lasua esistenza, è obbligato a mantenere i suoisudditi in una infanzia perpetua.

Come si sarebbe realizzata la dittatura, loignoravo, e pensavo che nessuno avrebbe potutoprevederlo. E chi sarebbe stato il dittatore? Sipotrebbe credere che mi preparassi io stesso adoccupare questo posto. Ma questa supposizionesarebbe assolutamente falsa. Devo confessare,Sire, che al di fuori di un'esaltazione talvoltafanatica, ma fanatica più per le circostanze e peruna situazione anormale che in ragione delle mietendenze naturali, non avevo né le qualità brillantiné la violenza che generano i politici di valore o igrandi criminali politici. Allora, come in passato,avevo così poca ambizione che mi sareisottomesso a chiunque avesse avuto la capacità, imezzi e la ferma volontà di servire i princìpi aiquali credevo come ad una verità assoluta; avreiseguito con gioia questo capo, gli avrei obbeditocon zelo, perché ho amato e rispettato sempre ladisciplina quando si basa sulla convinzione e sullafede.

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Non dico che non avessi amor proprio, maquesto sentimento non mi ha dominato mai; alcontrario, ero obbligato a lottare contro me stessoe contro la mia natura ogni volta che mi preparavoa parlare pubblicamente o anche a scrivere per ilpubblico. Non avevo neppure quei difetti enormi,come Danton o Mirabeau, non conoscevo ladepravazione illimitata e insaziabile che, persoddisfarsi, è pronta a capovolgere il mondointero. E se avevo dell'egoismo, esso eraunicamente bisogno di movimento, di azione. C'èsempre stato nella mia natura un difetto capitale:l'amore del fantastico, delle avventurestraordinarie e inaudite, delle imprese dagliorizzonti illimitati e dei quali nessuno puòprevedere il risultato. In un'esistenza ordinaria ecalma soffocavo, mi sentivo a disagio. Gli uomininormalmente cercano la tranquillità e laconsiderano come il bene supremo; in quanto a me,mi metteva disperazione; il mio spirito era incontinua agitazione, e voleva azione, movimento,vita. Avrei dovuto nascere in una forestaamericana, fra i coloni del Far West, dove la

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civiltà è ancora agli inizi e ogni esistenza non èche una lotta incessante contro uomini selvaggi econtro la natura vergine, e non in una societàborghese organizzata. E se fin dalla giovinezza ildestino avesse voluto far di me un marinaio, oggisarei probabilmente ancora un uomo onesto, nonavrei cercato altre avventure e altre tempestetranne quelle del mare. Ma la sorte ha decisodiversamente, ed il mio bisogno di muovermi e diagire è rimasto inappagato. Questo bisogno,aggiunto dopo all'esaltazione democratica, è statoper così dire il mio unico impulso. Questaesaltazione può essere definita con poche parole:l'amore della libertà ed un odio invincibile perogni oppressione, odio tanto più intenso quandoquesta oppressione riguardava altri e non me.Cercare la mia felicità nella felicità altrui, la miadignità personale nella dignità del mio prossimo,essere libero nella libertà degli altri, ecco tutto ilmio credo, l'aspirazione di tutta la mia vita.

Consideravo come il più sacro dei doveriquello di rivoltarmi contro ogni oppressione,chiunque ne fosse l'autore o la vittima. C'è stato

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sempre in me molto di Don Chisciotte, non solo inpolitica ma anche nella mia vita privata; nonpotevo vedere con occhio indifferente neppure lapiù piccola ingiustizia, ed a maggior ragioneun'oppressione che grida vendetta. Molte volte,senza averne né la competenza né il diritto, misono, senza riflettere, immischiato nei fatti altrui,ed ho commesso perciò, nel corso di un'esistenzaagitata ma vuota e inutile, non poche bestialità, hoavuto molte noie e mi son fatto molti nemici, senzaodiare nessuno. E' questa, Sire, la vera chiave deimiei atti insensati, dei miei peccati e dei mieicrimini. Se ne parlo con tanta sicurezza e tantachiarezza, è perché ho avuto, durante questi dueultimi anni, molto tempo per studiare me stesso eriflettere sul mio passato; ed ora mi guardo conindifferenza, come può guardarsi un moribondo odun morto.

Con queste idee e questo sentimento nonpotevo pensare alla mia propria dittatura, nonpotevo nutrire ambiziosi progetti. Al contrario, erocosì sicuro di soccombere in questa impari lotta,che più volte ho scritto al mio amico Reichel

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lettere d'addio: se non muoio in Germania, glidicevo, morirò in Polonia, e se non sarà in Poloniasarà in Russia. E spesso ho detto ai tedeschi ed aipolacchi, quando si discuteva delle future formedel governo: «La nostra missione è di distruggeree non di costruire; altri uomini costruiranno,migliori di noi, più intelligenti e più freschi».Nutrivo la stessa speranza per la Russia. Pensavoche il movimento rivoluzionario avrebbe generatouomini più vigorosi, più giovani, che si sarebberomessi alla testa della rivoluzione per condurla alsuo fine.

Mi si potrebbe domandare: come, ignorando tustesso, per l'instabilità delle tue idee, ciò chesarebbe stato delle tue imprese, hai potuto pensaread una cosa tanto orribile come la rivoluzionerussa? Non hai mai sentito parlaredell'insurrezione di Pugacëv? Non sai fino a quallivello di barbarie e di feroce brutalità possonoarrivare i contadini russi in rivolta? E non ricordiqueste parole di Puskin: «Dio ci preservidall'insurrezione russa, insensata e spietata»?

Sire, la risposta a queste domande, a questo

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rimprovero, mi sarà più amara di tutte leprecedenti. Perché già allora - e benché il miodelitto fosse stato consumato solamente nel campodelle idee - mi sentivo un criminale nel miospirito, fremevo io stesso al pensiero delleconseguenze possibili della mia impresa, emalgrado tutto non vi rinunciavo. E' vero, misforzavo io stesso di sbagliare con la vanasperanza di poter fermare, di poter domare lafuriosa ubriacatura della folla scatenata; ma non vicredevo affatto, e trovavo una giustificazione nelsofisma che un male, anche orribile, sia talvoltanecessario; infine, mi consolavo pensando che seci fossero state molte vittime, sarei stato traquelle, e Dio solo sa se avrei avuto abbastanzacarattere, forza e malvagità, non dico percompiere, ma soltanto per avviare l'inizio diquesta impresa criminosa. Dio lo sa? Vogliocredere che non ne sarei capace; e tuttavia sì,forse; che cosa non fa commettere il fanatismo? Esi dice, non senza ragione, che nel compiere undelitto ciò che costa non è che il primo atto.

Ho riflettuto molto e a lungo su questo punto, e

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non so che cosa rispondere, ma ringrazio Dio diavermi impedito di diventare un mostro ed ilcarnefice dei miei compatrioti.

Circa i mezzi ed i metodi che avevo intenzionedi usare per la propaganda in Russia, non possodire nulla di concreto. Non avevo, non potevoavere, speranze definite, essendo privo di ognicontatto con la Russia; ma ero pronto adapprofittare di qualsiasi mezzo mi si fossepresentato: cospirazione nell'esercito, rivolta deisoldati russi, incitamento dei prigionieri russi allaribellione per formare con essi il primo nucleo diun esercito rivoluzionario russo, infinel'insurrezione dei contadini. In una parola, Sire, ilmio crimine verso il Vostro Sacro Potere nonaveva, nel pensiero e nell'azione, né misura nélimite. E ancora una volta ringrazio la Provvidenzadi avermi fermato per tempo, impedendomi dicommettere, e anche di iniziare, una sola delle mienefaste imprese contro di Voi, mio Imperatore, econtro la mia patria. E tuttavia so che non è tantol'azione in sé, quanto l'intenzione che rendecriminale e, senza parlare dei miei peccati

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tedeschi, per espiare i quali fui in un primo tempocondannato a morte, poi alla reclusione a vita,riconosco completamente e con tutto il cuore diaver peccato soprattutto contro di Voi, Sire, econtro la Russia, e che i miei delitti meritano ilpiù duro castigo (17).

La parte più dolorosa della mia confessione èfinita. Ora non mi rimane che confessare a voi imiei peccati tedeschi, più concreti, perché nonsono rimasti intenzionali, ma che tuttavia pesanomolto di meno sulla mia coscienza delle colpevolontarie commesse da me contro di Voi, Sire, econtro la Russia, e delle quali ho appena finito ladescrizione particolareggiata e sincera.

Riprendo il mio racconto.Cercavo a quell'epoca una base per la mia

azione. Non avendola trovata tra i polacchi, per leragioni già dette, continuai a cercarla tra gli slavi.Convintomi che non avrei trovato nulla neppure alcongresso slavo, mi misi a riunire uomini aimargini del congresso e ad organizzare con essiuna società segreta. La prima di cui abbia fattoparte fu chiamata «Gli amici slavi». Si componeva

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di alcuni slovacchi, moravi, croati e serbi.Permettetemi, Sire, di non rivelarne i nomi; Vibasti sapere che, eccetto me, nessun suddito diVostra Maestà Imperiale ne fece parte, e che tuttala società non visse che qualche giorno, poiché fudispersa, contemporaneamente al congresso,durante l'insurrezione di Praga, dalla vittoria deglieserciti dinastici e dalla partenza forzata di tutti glislavi costretti a lasciare la capitale della Boemia.La società non ebbe il tempo né di organizzarsi nédi gettare le prime basi della sua azione; essa si èdispersa da ogni parte senza stabilire nulla né suirapporti da mantenere né sulla corrispondenza dascambiare; per cui, in seguito, non fui e non potettiessere in relazione con nessuno dei suoi membri,ed essa non ha avuto nessuna influenza sulle mieazioni successive. Ne ho parlato solo per nonomettere nulla nel mio racconto.

Il congresso slavo, negli ultimi tempi, eracambiato un po' nelle tendenze, avendo ceduto inparte alle insistenze dei polacchi, alla miainfluenza ed a quella dei miei amici slavi. Esso siera impregnato a poco a poco di uno spirito

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panslavo e più liberale - non dico democratico -ed aveva cessato di servire gli interessi delgoverno austriaco. Fu la sua sentenza di morte.L'insurrezione di Praga, del resto, non fu opera delcongresso, ma degli studenti e del partito deisedicenti democratici cechi. Questi ultimi nonerano allora molto numerosi e, a mio parere, nonavevano tendenze politiche definite, ma avevanoaderito all'insurrezione perché allora essa era dimoda. Li conoscevo poco, perché frequentavoappena le sedute del congresso e si trovavano ingran parte fuori di Praga, nei villaggi circostanti,dove incitavano i contadini a partecipare allasollevazione da essi preparata.

Ignoravo tutto dei loro piani e del movimento,che fu una grande sorpresa sia per me che per tuttigli altri membri del congresso slavo. Fu solo lavigilia del giorno stabilito, verso sera, che sentiiparlare per la prima volta, molto vagamente,dell'insurrezione organizzata dagli studenti e daglioperai e, d'accordo con certe persone checonoscevo, feci il possibile per far sapere aglistudenti che era necessario rinunciare a

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quell'impresa impossibile e non offrire all'esercitoaustriaco una vittoria così facile. Era evidente cheil conte Windischgrätz non aveva altro desideriopiù ardente che utilizzare un'occasione simile perriaffermare il traballante morale delle sue truppe ela disciplina militare e dare all'Europa, dopo tantevergognose sconfitte, il primo esempio di unavittoria dell'esercito sulle masse in rivolta. Eraevidente, per certe misure, che egli cercava diirritare gli abitanti di Praga, che li provocavaapertamente alla rivolta. E con le loro inauditeesigenze, che nessun generale avrebbe potutoaccettare senza coprirsi di disonore di fronte allesue truppe, quei grulli di studenti gli offrironol'atteso pretesto per iniziare le operazioni militari.

Restai a Praga sino alla capitolazione, comevolontario: armato di fucile, andavo da unabarricata all'altra, sparai molte volte, ma noncessai mai, in quegli avvenimenti, d'essere unaspecie d'invitato, non aspettandomi risultatiapprezzabili. Tuttavia, verso la fine, consigliai glistudenti e gli altri insorti di deporre il governodella città, che aveva avviato negoziati segreti col

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principe Windischgrätz, e di sostituirlo con uncomitato militare munito di poteri dittatoriali.Vollero seguire i miei consigli, ma era ormaitroppo tardi. Praga capitolò. In quanto a me,l'indomani mattina andai a Breslau, dove, se nonsbaglio, rimasi fino ai primi giorni di luglio.

Descrivendo le impressioni del mio primoincontro con gli slavi, ho detto che un cuore esentimenti slavi prima non sospettati s'eranosvegliati in me, facendomi quasi dimenticarel'interesse che avevo avuto per un movimentodemocratico dell'Europa occidentale. Questisentimenti li ho provati ancor più intensamentedinanzi alle voci insensate che dopo ladissoluzione del congresso di Praga i tedeschispargevano contro gli slavi, in ogni angolo dellaGermania, soprattutto al Parlamento diFrancoforte. Non erano più clamori democratici,ma il grido dell'egoismo nazionale tedesco; ìtedeschi volevano la libertà per loro e non per glialtri. Riuniti a Francoforte credetteroeffettivamente di essere diventati una nazioneunificata e potente e che avrebbero ormai potuto

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decidere i destini del mondo. La «patria tedesca»,che fino allora non era esistita se non nelle lorocanzoni e nelle conversazioni che tenevanofumando e bevendo birra, fu considerata come lafutura patria di metà Europa; il Parlamento diFrancoforte, nato da una rivolta e su di essabasato, si mise ben presto a trattare come ribelligli italiani ed i polacchi (18), a considerarli comeavversari criminali e sediziosi della grandezza edell'onnipotenza tedesche. La guerra tedesca per loSchleswig-Holstein, «stammverwandt undmeerumschlungen», era definita guerra santa e laguerra degli italiani per la libertà italiana, leimprese dei polacchi nel ducato di Posnania eranotrattate come crimini. Ma la furia nazionale deitedeschi si rivolse con maggior violenza contro glislavi d'Austria riuniti a Praga.

I tedeschi s'erano da lungo tempo abituati aconsiderare questi ultimi come loro servi e non glipermettevano neppure di respirare come slavi.Tutti i partiti tedeschi erano unanimi in quest'odiocontro gli slavi, in tutti i clamori slavofobi. Nonsolo i conservatori ed i liberali urlavano contro gli

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slavi, come facevano contro l'Italia e la Polonia,ma gli stessi democratici più forte degli altri: neigiornali, negli opuscoli, nelle assembleelegislative e popolari, nei club, nelle birrerie e perstrada. Il baccano era così grande, la tempesta cosìfuriosa, che se gli urli tedeschi avessero avuto ilpotere di uccidere o di ferire qualcuno, gli slavisarebbero da molto tempo sterminati. Prima dellamia partenza per Praga, i democratici di Breslaviami avevano dato prova di un grande rispetto, matutta la mia influenza scomparve e fu annientatadopo che, al mio ritorno, assunsi nei clubdemocratici la difesa dei diritti degli slavi. Tutti siricredettero, e non mi lasciarono finire; fu il mioultimo tentativo di parlare al club di Breslavia enei club e nelle assemblee pubbliche dellaGermania (19). I tedeschi mi erano diventatiodiosi, a tal punto che non mi era più possibileparlare con calma con nessuno di loro; non potevopiù udire la loro lingua e neppure una vocetedesca, e ricordo che, avendomi un piccolomendicante tedesco chiesto l'elemosina, dovettifrenarmi per non batterlo.

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Non ero l'unico ad avere questi sentimenti: tuttigli slavi, senza alcuna eccezione per i polacchi, liavevano. Ingannati dal governo rivoluzionariofrancese, scherniti dai tedeschi e insultati dagliebrei tedeschi, i polacchi si misero ad affermareapertamente che gli restava solo una cosa:ricorrere alla protezione dell'Imperatore russo echiedergli di incorporare nella Russia le provincepolacche sottomesse all'Austria ed alla Prussia.

Quest'opinione era diffusa nel ducato diPosnania, in Galizia ed a Cracovia; solo gliemigrati sollevavano obiezioni, ma essi nonavevano allora quasi nessuna influenza. Si sarebbepotuto credere che i polacchi agissero peripocrisia e cercavano di intimorire i tedeschi; malungi dal parlarne a questi ultimi, parlavano diquesto progetto esclusivamente tra loro, con talepassione e in tali termini che non ebbi, neppureallora, nessun dubbio sulla loro sincerità e sonotuttora convinto che se Voi, Sire, aveste volutoalzare allora la bandiera slava, li avremmo visti,loro e chiunque parli slavo nei territori austriaci eprussiani, accorrere senza condizioni, senza

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accordi preventivi, pronti a sottomettersiciecamente alla Vostra volontà, precipitandosiinfine con gioia e fanatismo (20) sotto le larghe alidell'aquila russa, si sarebbero scatenati conviolenza non solo contro i tedeschi, oggetto delloro odio, ma anche contro tutta l'Europaoccidentale.

Fu allora che mi venne una strana idea. Pensai,Sire di scriverVi e cominciai la mia lettera; essaconteneva anche (21) una specie di confessione,più ambiziosa e parolaia di questa che ora vadoscrivendo - ero libero allora e inesperto, ma moltofranco e sincero; mi pentivo dei miei peccati;imploravo il Vostro perdono; poi, dopo un esamesincero e un po' esagerato della situazione in cui sitrovavano i popoli slavi, Vi imploravo, Sire, innome di tutti gli slavi oppressi, di venirgli in aiuto,di raccoglierli sotto la Vostra protezione, d'essereil loro Salvatore ed il loro padre e, dopo esserViproclamato lo zar di tutti gli slavi, di alzare allafine il vessillo slavo nell'Europa occidentale, perspaventare i tedeschi e tutti gli altri oppressori enemici del popolo slavo. Questa lettera era lunga e

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complicata, fantastica; senza riflessione, ma scrittacon passione e con tutto il cuore; conteneva moltecose ridicole ed assurde, ma anche delle verità; inuna parola, era un'immagine fedele del miodisordine interiore e delle notevoli contraddizioniche agitavano il mio spirito.

Stracciai la lettera e la bruciai senza finirla.Pensai che Voi, Sire, avreste trovatoeccessivamente ridicolo e insolente che un sudditodi Vostra Maestà Imperiale, non un semplicesuddito ma un criminale politico, osasse scriverVi,e non soltanto per limitarsi ad implorare ilperdono, ma anche per darVi dei consigli ecercare di persuaderVi a cambiare la Vostrapolitica... M'ero detto che la mia lettera, priva diqualsiasi utilità, avrebbe avuto solo l'effetto dicompromettermi verso quei democratici che percaso avessero potuto venire a conoscenza del miotentativo abortito e nient'affatto democratico. Dipiù, soprattutto due circostanze, la cui coincidenzafu molto bizzarra, m'indussero a rinunciare al mioproposito.

In primo luogo, appresi, si può dire da fonte

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ufficiale, cioè dal prefetto di polizia di Breslavia,che il governo russo chiedeva al governoprussiano la mia estradizione, affermando che,d'accordo con i due polacchi citati, dei quali nonavevo sentito parlare prima ed i cui nomi ora misfuggono, avrei avuto l'intenzione di attentare allavita di Vostra Maestà Imperiale. Ho già respintoquesta calunnia, e, Sire, Ve ne supplico, mi siaconcesso di non parlarne più. In secondo luogo, levoci che erano circolate sul mio cosiddettospionaggio non si limitarono più alle vaghechiacchiere dei polacchi, ma finirono per trovareun'eco nella stampa tedesca: il dottor Marx (21bis), uno dei capi comunisti a Bruxelles, che più ditutti aveva preso a odiarmi perché avevo rifiutatodi lasciarmi costringere a far atto di presenza nellaloro associazione e nelle loro riunioni, era alloraredattore capo della «Gazzetta Renana»(Rehinische Zeitung), che si pubblicava a Colonia.Egli fu il primo a pubblicare una corrispondenzada Parigi in cui mi si accusava di aver fatto periremolti polacchi con le mie denunce. E poiché la«Gazzetta Renana» era molto letta dai democratici

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tedeschi, tutti, dovunque e ad alta voce, si miserod'un tratto a parlare del mio preteso tradimento.Ero preso tra due fuochi: per il governo ero uncriminale che preparava un regicidio, e per ilpubblico un'infame spia.

Mi convinsi allora che le due calunnieprovenivano dalla stessa fonte. Comunque, essedeterminarono definitivamente il mio destino:giurai a me stesso di non rinunciare ai mieipropositi e di non deviare dalla strada scelta, madi proseguire senza voltarmi indietro; fino aquando la mia fine avrebbe dimostrato ai polacchied ai tedeschi che non ero un traditore.

Dopo alcune spiegazioni, in parte orali e inparte scritte, pubblicate nei giornali tedeschi, nontrovando (22) nessuna ragione e utilità a rimanerea Breslavia, andai a Berlino e vi restai fino allafine di settembre. A Berlino vidi spessol'ambasciatore francese, Emanuele Arago eincontrai a casa sua l'ambasciatore della Turchia,il quale, più volte, mi chiese di andare da lui; manon lo feci, non volendo che si dicesse che ioservissi in qualche modo la politica turca contro la

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Russia, mentre in realtà desideravo la liberazionedegli slavi asserviti ai turchi e la completa rovinadella potenza ottomana. Vidi anche molti tedeschie polacchi, membri dell'assemblea legislativa ocostituzionale prussiana, per la maggior partedemocratici, ma fui strettamente riservato, anchecon quelli con i quali ero stato prima molto intimoa Breslavia: mi sembrava sempre che tutti miconsiderassero come una spia e, pronto a odiareogni essere umano, desideravo evitare tutti. Mai,Sire, provai simile disperazione: né prima, nédopo, e neppure quando, privato della libertà,dovetti subire tutte le prove di due processi.Compresi solo allora quanto dev'essere dura lasituazione di una spia, ed anche fino a qual puntouna spia dev'essere infame per sopportare conindifferenza la sua esistenza. Soffrivoorribilmente, Sire!

Inoltre, per me democratico, l'orizzonteeuropeo cominciava distintamente a oscurarsi.Dappertutto la reazione o preparativi di reazionesuccedevano alla rivoluzione. Gli avvenimenti digiugno, a Parigi, ebbero conseguenze nefaste per

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tutti i democratici non soltanto a Parigi ma in tuttal'Europa. In Germania non c'erano ancora misurereazionarie definite; sembrava che tutti godesserodi una completa libertà. Ma quelli che sapevanovedere, si rendevano conto che i governi sipreparavano in silenzio, deliberando,concentrando le loro forze, non aspettando che ilmomento favorevole per assestare un colpodecisivo, tollerando le stupide chiacchiere deiparlamenti tedeschi solo perché speravano ditrarne vantaggi più cospicui dei risultati nocivi.

Non si erano sbagliati: i liberali e idemocratici tedeschi si suicidarono, e gli reserofacilissima la vittoria. Anche la questione slavas'ingarbugliò: la guerra del governatoreSelatchitur, in Ungheria, sembrava all'inizio unaguerra slava, fatta solo per difendere gli slovacchie gli slavi del sud contro le pretese insopportabilidegli ungheresi; ma, in realtà, quella guerra eral'inizio della reazione austriaca. Ero straziato daidubbi, non sapevo per chi parteggiare. Non avevoalcuna fiducia in Selatchitur; ma lo stesso Kossuthera un democratico meschino: strizzava l'occhio

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all'assemblea democratica di Francoforte, ed eraanche pronto a riconciliarsi con Innsbruck eservire la corte di Vienna contro i polacchi el'Italia, purché la dinastia avesse voluto soddisfarele particolari esigenze ungheresi.

Infine, la mancanza di danaro m'inchiodava aBerlino. Se avessi avuto danaro, (23) sarei andatoforse in Ungheria per seguire personalmente gliavvenimenti, e allora avrei dovuto aggiungere piùdi una pagina a questa lunga confessione. Nonavevo, inoltre, rapporti con gli slavi: tranne unalettera insignificante (24) di Louis Stur, al qualeavrei voluto rispondere, ma non potevo perché nonne conoscevo l'indirizzo, non ricevetti dall'Austrianeppure un rigo e non scrissi a nessuno.

In una parola, fino a dicembre rimasicompletamente inattivo e non saprei dir nulla diquel periodo, tranne che vivevo in un'attesacontinua, deciso a cogliere la prima occasione peragire. Con quale animo desideravo farlo, Sire, Voilo sapete già. Fu uno dei periodi più duri cheabbia vissuto. Senza danaro, senza amici,sospettato d'essere spia, solo in una grande città,

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non sapevo che fare, neppure come avrei potutovivere l'indomani. A Berlino, in Prussia e nellaGermania del nord non s'immobilizzavano solo lecondizioni materiali, ma anche le voci calunniosesparse su di me. Sebbene la situazione politicafosse nettamente cambiata, al punto da farmiabbandonare quasi ogni aspettativa e ognisperanza, non volevo e non potevo tornare aParigi, il solo rifugio che mi rimanesse, prima diaver dimostrato con un'azione tangibile la sinceritàdelle mie convinzioni democratiche. Perriacquistare il mio onore dovevo resistere finoalla fine.

Divenni cattivo (25), misantropo, fanatico,pronto a precipitarmi in non importa quale impresaardita purché non fosse infame (26); tutto il mioessere non era più che ossessione rivoluzionaria epassione distruttrice.

Alla fine di settembre, probabilmente surichiesta dell'ambasciata russa e senza che neavessi dato il minimo pretesto, fui costretto alasciare Berlino. Tornai a Breslavia (27), ma aiprimi d'ottobre dovetti lasciare la città, e anche la

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Prussia, sotto la minaccia d'esser consegnato algoverno russo se vi fossi tornato. Dopo un simileavvertimento, non cercai più di tornare in Russia.Volevo rimanere a Dresda, ma fui espulso, a causadi un malinteso, come voleva far credere dopo ilministro: la causa sarebbe stata una vecchiarichiesta dell'ambasciata russa.

Cacciato da un paese all'altro, mi fermai nelprincipato di Anhalt- Cöthen (28), che, interritorio prussiano, godeva allora d'una curiosasituazione: aveva una delle costituzioni più liberenon solo della Germania, ma, credo, di tutto ilmondo. Così, quel piccolo stato era diventato, siapure per brevissimo tempo, l'asilo dei rifugiatipolitici. Vi trovai molti antichi conoscenti deltempo dei miei studi all'università di Berlino. Vi sisvolgevano assemblee popolari, legislative, le«Ständchen» e «Katzenmusik» (serenate e musichestonate e assordanti), ma in realtà nessunos'interessava di politica; cosicché, fino a metànovembre io ed i miei conoscenti non facemmoaltro che andare a caccia di lepri e di altraselvaggina. Fu per me un periodo di riposo.

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Questa calma non durò molto. La sorte miriservava il riposo della tomba: la reclusione inuna fortezza. Ancora in ottobre - mentre LebenGelatchitch marciava direttamente su Vicenzaevitando Budapest ed il generale principeWinsdischgrätz aveva lasciato Praga col suoesercito - avevo l'intenzione di andare in questacittà per spingere i democratici cechi ad una nuovainsurrezione (29). Ma avevo cambiato idea ed erorimasto a Cöthen. Avevo cambiato idea perché nonavevo ancora relazioni con Praga; ignoravo icambiamenti che vi erano potuto avvenire dopo legiornate di giugno, e qual era lo spirito dellemasse. Conoscevo male i democratici e noncontavo su un successo; inoltre, m'aspettavo unaforte resistenza da parte del partito costituzionalececo di Palancki. A Praga, pensavo, sono statodimenticato da tempo.

In parte per farmi ricordare dai praghesi edare, per quanto possibile, al movimento slavo,una direzione diversa più conforme alle mieesperienze ed a quelle degli slavi e deidemocratici; in parte anche per dimostrare ai

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polacchi ed ai tedeschi che non ero una spia russae prepararmi così la possibilità di unriavvicinamento, cominciai a scrivere un «Appelloagli slavi» («Aufruf an die Slawen»), che fu poipubblicato a Lipsia. Anche questo appello fa partedegli atti d'accusa. Impiegai tempo a scriverlo, piùdi un mese, lasciandolo e riprendendolo,modificandolo varie volte senza potermi deciderea pubblicarlo. Non potevo esprimere nettamente echiaramente il mio ideale slavo, perché cercavo diavvicinarmi di nuovo ai democratici tedeschi,ritenendolo indispensabile; ero costretto abarcamenarmi tra gli slavi ed i tedeschi - ungenere di navigazione per il quale non avevo ungran talento e di cui non avevo né il gusto nél'abitudine.

Mi sforzai di convincere gli slavi dellanecessità di un ravvicinamento ai democraticitedeschi e ungheresi. Le circostanze non eranoquelle di maggio: la rivoluzione era fallita, lareazione si era rafforzata dappertutto, e solo leforze riunite di tutti i democratici europeipotevano permettere di sperare una vittoria

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sull'unione reazionaria dei capi di stato. Innovembre, dopo i fatti di Vienna, l'assembleacostituzionale della Prussia fu sciolta con la forza.Per questo alcuni ex-deputati si riunirono aCöthen, tra gli altri Hexamer e d'Ester, membri delcomitato centrale di tutti i club democratici dellaGermania. Questo comitato non era clandestino,poiché qualche tempo prima il congressodemocratico di Berlino l'aveva eletto durante lesue sedute pubbliche. Ma esso non aveva tardato afondare società segrete in tutta la Germania, e sipuò dire che le società segrete tedesche sono nateallora. Senza dubbio ce n'era qualcuna prima, lesocietà comuniste, ma non avevano nessunainfluenza. In Germania, fino a novembre, tutto èavvenuto apertamente: cospirazioni, insurrezioni epreparativi d'insurrezione. Chiunque se neinteressasse poteva averne ragguagli. Viziati dauna rivoluzione per così dire caduta dal cielo,senza alcuno sforzo da parte loro e quasi senza unagoccia di sangue, i tedeschi faticarono a concepirela forza sempre più grande dei loro governi el'ampiezza della propria impotenza.

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Chiacchierando, bevendo, cantando furono eroi aparole e bambini nella realtà; credevano che laloro libertà non sarebbe mai finita, e che sarebbebastata una smorfia per impaurire tutti i governi.Gli avvenimenti di Vienna e di Berlino glimostrarono il contrario. Capirono allora che, perconsolidare la loro libertà così facilmenteottenuta, gli era necessario prendereprovvedimenti molto più seri, e tutta la Germaniacominciò a prepararsi segretamente ad una nuovarivoluzione.

Fu a Berlino che vidi per la prima voltad'Ester e Hexamer, ma allora li avevo conosciutipoco, essendomi tenuto lontano da loro, comeanche da tutti gli altri tedeschi e polacchi. ACöthen m'avvicinai a loro di più. Prima, non sifidarono di me, credendomi davvero una spia; poiebbero fiducia. Parlai e discussi a lungo con lorodella questione slava. Per molto tempo non riusciia convincerli della necessità che i tedeschirinunciassero a tutte le loro pretese sulle terreslave; ma finii col riuscirvi. Iniziarono così inostri rapporti politici, i primi rapporti concreti

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che avessero uno scopo definito da me avuti condei tedeschi e con un attivo partito politico.

Mi promisero di utilizzare tutta la loroinfluenza sui democratici tedeschi per cancellare illoro odio e far sparire il loro pregiudizio controgli slavi; da parte mia, promisi di agire nellostesso senso con gli slavi. Poiché non avevano piùtimore di me, ero al corrente di tutte le lorointenzioni, dei loro preparativi, edell'organizzazione delle società segrete.Conoscevo anche le loro nascenti relazioni con idemocratici di altri paesi, ma non m'interessaiaffatto delle cose loro, astenendomi anchedall'informarmene. Per il timore di suscitare nuovisospetti. In quanto a me, m'affrettai a terminare ilmio «Appello agli slavi», che feci pubblicarepoco dopo a Lipsia.

Alla fine di dicembre andai a Lipsia conHexamer e d'Ester per essere più vicino allaBoemia e abitare in una città collegata meglio diCöthen col mondo; inoltre avevo appreso che ilgoverno prussiano aveva l'intenzione di acciuffaretutti i rifugiati residenti a Cöthen. A Lipsia

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conobbi casualmente alcuni giovani slavi, i cuinomi si trovano negli atti d'accusa austriaci.C'erano fra loro due fratelli: Gustavo e AdolfoStraka, cechi, che studiavano teologiaall'università di Lipsia. Entrambi erano buoni enobili; sebbene slavi convinti, non avevano maipensato alla politica prima di conoscermi, ed illoro traviamento, di cui solo io sono stato lacausa, pesa sulla mia coscienza come un grandepeccato.

Prima del mio arrivo a Lipsia le loro opinionierano del tutto opposte alle mie. Erano grandiammiratori di Jelatchitch: li incontrai, li travolsi,cambiai le loro idee, li strappai alle lorotranquille occupazioni inducendoli a diventarestrumenti delle mie imprese in Boemia; se orapotessi migliorare la loro sorte aggravando la miasopporterei con grande gioia la punizioneinflittagli. Ma ormai è tardi. Tranne loro, néallora, né prima, né poi ho dovuto rimproverarmid'aver stravolto una sola persona. Devorispondere a Dio soltanto di loro (30).

Seppi da loro che il mio «Appello agli slavi»

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aveva fatto grande rumore a Parigi, dove una parteera stata addirittura tradotta e pubblicata in ungiornale democratico ceco, il cui redattore capoera il dottor Sabina. Ciò mi suggerì l'idea diconvocare a Lipsia qualche ceco e qualchepolacco per un accordo e una decisione con itedeschi, in modo da gettare le prime basi diun'azione rivoluzionaria comune. Mandai perciò aPraga Gustavo Straka, da Arnold, anche luiredattore di un giornale democratico ceco, e daSabina: allora non li conoscevo che di nome, nonavendoli ancora incontrati di persona. Scrissianche in Posnania a quei miei conoscenti polacchi,dai quali speravo di avere, più che da altri,simpatia e aiuti. Ma non venne neppure un solopolacco; di più, non mi rispose nessuno. Da Pragasolo Arnold venne a trovarmi; egli non avevaconsentito a Straka di condurre Sabina, di cui nonaveva piena fiducia e verso il quale nutriva,suppongo, un meschino sentimento d'invidia. Tuttequeste cose sono state dette fin nei particolaridallo stesso Arnold e dai fratelli Straka negli attid'accusa austriaci. Non entrerei, Sire, in meschini

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dettagli, senza dubbio necessari alla scoperta dellaverità in un'istruzione penale, ma inutili e fuoriposto in una confessione sincera e volontaria. Nonricorderei qui se non le circostanze indispensabilialla comprensione del tutto, ovvero i fattiessenziali rimasti ignoti alle due commissioniincaricate dell'istruzione. Prima di passareall'ultimo atto della mia triste carrierarivoluzionaria, devo dire ciò che cercavo diottenere; descriverò dopo le mie azioni.

La mia febbre politica, aumentata ed aggravataeccessivamente dai miei precedenti insuccessi,dalla mia bizzarra e intollerabile situazione einfine dalla vittoria della reazione in Europa,aveva raggiunto allora il suo parossismo più alto:non ero altro che desiderio, sete rivoluzionaria, edero diventato, suppongo, il più rosso immaginabiledi tutti i rossi repubblicani. Questo era il miopiano. I democratici tedeschi preparavano unainsurrezione generale in Germania per laprimavera del 1849. Desideravo che gli slavis'unissero a loro, come anche agli ungheresi, cheerano in aperta rivolta contro l'Imperatore

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d'Austria. Questo desiderio di unione con gli uni egli altri non tendeva ad una fusione con i tedeschio ad una sottomissione agli ungheresi, ma a fare inmodo che, col trionfo della rivoluzione in Europa,potesse affermarsi contemporaneamente anchel'indipendenza delle nazioni slave. Il momentosembrava favorevole a questo accordo. Ungheresie tedeschi, istruiti dall'esperienza e avendobisogno di alleati, erano pronti a rinunciare alleloro precedenti pretese. Speravo che i polacchiavrebbero acconsentito a far da intermediari traKossuth e gli slavi ungheresi e volevo fare iostesso da mediatore tra gli slavi ed i tedeschi. E' laBoemia, non la Polonia, che desideravo vedere alcentro e alla testa di questo movimento slavo, eper molte ragioni: innanzitutto la Polonia era cosìesausta e demoralizzata per i suoi precedentiinsuccessi che non credevo alla possibilità dellasua liberazione senza l'intervento di un aiutostraniero; mentre la Boemia, non ancora raggiuntadalla reazione, godeva di una piena libertà, eraforte, fresca e disponeva dei mezzi necessari ad unmovimento rivoluzionario che aveva avuto

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successo. Non volevo che i polacchi si mettesseroalla testa della progettata rivoluzione, perchétemevo anche che le conferissero un caratterestrettamente ed esclusivamente polacco, oppure, sel'avessero ritenuto utile, che tradissero gli altrislavi a vantaggio dei loro ex-alleati, i democraticidell'Europa occidentale, e, forse ancor piùfacilmente, a vantaggio degli ungheresi. Infine,sapevo che Praga è per tutti gli slavi austriaci nonpolacchi una specie di capitale come Mosca, esperavo, mi sembra non senza ragione, che sePraga si fosse sollevata tutte le altre nazioni slaveavrebbero seguito il suo esempio e sarebbero statetrascinate dal suo movimento, a dispetto diJelatchitch e degli altri partigiani della dinastiaaustriaca, del resto poco numerosi. Così, facevoaffidamento sull'approvazione e sulla simpatia deitedeschi e, in caso di necessità, sul loro aiutoarmato contro il governo prussiano che, costrettodall'esempio russo e nel timore di unacontaminazione, probabilmente non sarebberimasto spettatore passivo dell'incendiorivoluzionario in Boemia. Contavo sui polacchi

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per una mediazione con gli ungheresi, per l'aiutodei loro ufficia e soprattutto per il danaro: io nonne avevo e, senza danaro, ogni impresa èimpossibile. Ma la parte essenziale delle miesperanze era concentrata sulla Boemia.

Più che su Praga e sui cittadini, contavosoprattutto sui contadini boemi, cechi o tedeschi.A mio parere, il grande errore dei democraticitedeschi e, al principio, dei democratici francesi,consisteva nel fatto che la loro propaganda s'eralimitata alle città e non penetrava affatto neivillaggi; così, le città diventavano una specie diaristocrazia e, per conseguenza, i villaggi rimaseronon solo spettatori indifferenti della rivoluzione,ma, in molte zone, manifestarono atteggiamentiostili. E tuttavia niente pareva più facile chesuscitare lo spirito rivoluzionario nella classecontadina, specie in Germania, dove tante vecchieistituzioni sociali pesavano ancora sulla terra;senza fare eccezione della stessa Prussia, che, puravendo concesso la libertà dei beni e dellepersone, ha conservato in certe regioni, adesempio in Slesia, tracce dell'antica servitù.

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Accanto ad una classe molto numerosa diliberi proprietari, la Prussia ne ha un'altra, moltopiù numerosa, di contadini poveri, che vengonochiamati «Häusler», ed anche di gentecompletamente priva di beni. Ma in nessuna partepiù che in Boemia la classe contadina era chiusaad un movimento rivoluzionario. Fino al 1848 inBoemia la feudalità era rimasta intatta, con tutte lesue oppressioni ed i suoi pesi. Giurisdizionisignorili, imposte e diritti feudali, decime ed altriprivilegi ecclesiastici pesavano sui beni deicontadini ricchi. Ma la classe dei poveri, ancorpiù numerosa, era in una situazione più dura chenella stessa Germania. Inoltre, c'erano in Boemiamolte fabbriche e, per conseguenza, un grannumero di operai; ora, gli operai sono, per cosìdire, i germogli ai quali si rivolgeva lapropaganda democratica.

Nel 1848 tutte queste operazioni, oggetto delloscontento e delle eterne lamentele dei contadini,tutte le antiche imposte, gli obblighi diversi ed ilsistema complicato dei servizi da daregratuitamente ai signori erano stati sospesi,

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contemporaneamente alla vetusta esistenza dellamonarchia austriaca. Ma erano stati solo sospesi,non aboliti. Il disordine era seguitoall'oppressione. Spaventato, il governo avevaperso la testa e s'era aggrappato a tutti i mezziimmaginabili che potessero salvarlo dalla disfattacompleta. Ricordandosi del suo sotterfugiodemocratico usato in Galizia nel 1846, proclamòimprovvisamente, senza nessun preliminareprovvedimento, la libertà illimitata e assolutadella proprietà e dei contadini. I suoi agentiinvasero la Boemia, propagandando la clemenzadel governo.

Ma in Boemia le condizioni sono diverse daquelle della Galizia. In Boemia la classe detestatadegli oppressori - ricchi proprietari, nobili edaristocratici - non è composta di cospiratoripolacchi, ma di tedeschi votati anima e corpo alladinastia austriaca e, ancora di più, all'anticoordine sociale austriaco, che gli era moltofavorevole. Il popolo cessò di prestaregratuitamente i suoi servizi al signore, rifiutò dipagare altre imposte oltre a quelle dello Stato, e

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pagava queste ultime malvolentieri. La classe deiproprietari, i nobili, l'aristocrazia, in una parolatutto ciò che costituisce il partito austriaco inBoemia, fu ridotto in miseria e all'impotenza.D'altra parte, il governo non aveva avuto alcunvantaggio, perché il popolo, che aveva seguitosempre gli insegnamenti dei patrioti cechi, nonsentì per esso né simpatia né riconoscenza comericompensa del grande dono di una libertàconcessa all'improvviso. Al contrario, diffidavadel governo, sapendo che era succubedell'aristocrazia; e si temeva che quest'ultimatendesse a riportare il popolo sotto l'antico giogo.Infine, arruolamenti straordinari, più volte ripetutinello stesso anno, provocarono nel popolo boemoun forte malcontento e generali proteste. In questecondizioni, sarebbe stato facile provocare unainsurrezione.

Aspiravo ad una rivoluzione assoluta,radicale, in Boemia; in una parola, ad unarivoluzione che, anche se vinta in seguito, fossetuttavia riuscita a sconvolgere ogni cosa: ilgoverno austriaco, dopo la vittoria, non avrebbe

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trovato più nulla al suo posto. Volevo approfittaredella circostanza favorevole che in Boemia tutta lanobiltà, ed in genere tutta la classe dei ricchiproprietari, era composta esclusivamente ditedeschi, per esiliare tutti i nobili, tutto il cleroostile, e dopo aver confiscato tutti i beni, senzaalcuna eccezione, dei signori, distribuirne unaparte ai contadini poveri per conquistarli allarivoluzione, ed usare l'altra parte come fondostraordinario per la rivoluzione.

Il mio proposito era di demolire tutti i castelli,di bruciare, in tutta la Boemia, i fascicoli di tutti iprocessi, i documenti e i titoli signorili, e diannullare tutte le ipoteche e gli altri debiti che nonsuperassero una certa somma, ad esempio mille oduemila «goulden». In breve, la rivoluzione cheprogettavo era orribile e senza precedente, benchéfosse rivolta più contro le cose che contro lepersone. In effetti, avrebbe sovvertito le cose a talpunto nel sangue e nella vita del popolo che ilgoverno austriaco, anche se l'avesse battuta, nonsarebbe mai riuscito a sradicarla - perché glisarebbe stato difficile scegliere una tattica, riunire,

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addirittura ritrovare i resti dell'antico regimedistrutto per sempre - e riconciliarsi col popolodella Boemia.

Una simile rivoluzione non si sarebbe limitataad una sola nazionalità; con il suo esempio, con lasua propaganda ardente e impetuosa, avrebbetrascinato non solo la Moravia e la Slesiaaustriache, ma anche la Slesia prussiana ed ingenere tutti i territori tedeschi limitrofi, in modotale che la rivoluzione tedesca, che fino allora nonera stata che una rivoluzione urbana, di cittadini,di operai, di letterati e di avvocati, sarebbediventata una rivoluzione di massa.

Ma i miei propositi non si fermavano qui.Volevo trasformare tutta la Boemia in un camporivoluzionario, crearvi una forza capace non solodi salvaguardare la rivoluzione nel paese stesso,ma anche di sferrare l'offensiva partendo dallaBoemia, di sollevare lungo la sua marcia tutti ipopoli slavi, di incitarli alla rivolta, di distruggeretutto ciò che reca i segni della Monarchiaaustriaca, di soccorrere gli ungheresi, i polacchi,insomma di lottare contro Voi stesso, Sire. Legato

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alla Boemia da molto tempo per via dei suoiricordi storici, dei suoi costumi e della sua lingua,la Moravia, che non ha mai cessato di considerarePraga come sua capitale, e che allora era ancoralegata particolarmente alla Boemia conl'organizzazione dei suoi club, la Moravia, dicevo,avrebbe senza alcun dubbio seguito il movimentoceco. Con essa sarebbero state trascinate laSlovacchia e la Slesia austriaca. Così, larivoluzione avrebbe coperto un territorio vasto ericco avente Praga come centro.

A Praga doveva essere stabilita la sede delgoverno rivoluzionario, munito di poteridittatoriali illimitati. La nobiltà sarebbe statacacciata; cacciato anche tutto il clero che siopponeva alla rivoluzione. Tutta l'amministrazioneaustriaca doveva essere definitivamente abolita, ifunzionari destituiti, e se ne sarebbe mantenutoqualcuno a Praga, tra i più importanti e meglioinformati, allo scopo di chiedergli consigli, e percosì dire come biblioteche per le informazionistatistiche. Anche tutti i club, tutti i giornali, tuttele manifestazioni di un disordine ciarliero

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sarebbero stati aboliti. Tutto sarebbe dovutoessere sottomesso ad un potere dittatoriale. Igiovani e tutti gli uomini validi, divisi in categoriesecondo i loro caratteri, le loro capacità e le loropersonali tendenze, sarebbero stati distribuiti intutto il paese per assicurare un'organizzazioneprovvisoria, rivoluzionaria e militare. Le masseavrebbero formato due gruppi: gli uni, armati,bene o male, sarebbero rimasti a casa, allo scopodi salvaguardare il nuovo ordine delle cose esarebbero stati impiegati secondo la necessità diuna guerra partigiana. Tutti i giovani, tutti i poveriin età di portare le armi, avrebbero composto unesercito, non di franchi tiratori, ma regolare,formato con l'aiuto di vecchi ufficiali polacchi, disoldati e di sott'ufficiali austriaci in pensione, chesarebbero stati promossi secondo le loro capacitàed il loro zelo. Le spese sarebbero state enormi,ma contavo di coprirle in parte con le confische econ le imposte straordinarie, e con titoli di creditosimili a quelli di Kossuth. Avevo concepito unpiano finanziario più o meno fantastico, la cuidescrizione sarebbe qui fuori luogo.

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Questo era il piano che avevo immaginato perla rivoluzione in Boemia. L'ho esposto nelle suecaratteristiche generali, senza entrare neiparticolari. Poiché non ebbe nessun inizio direalizzazione, fu ignorato da tutti, ovveroconosciuto solo in frammenti inoffensivi. Nonesisteva se non nella mia colpevoleimmaginazione, e nel mio cervello non si formòd'un colpo, ma a poco a poco, modificandosi ecompletandosi secondo le circostanze.

Senza attardarmi in una critica politica emorale, e neppure in un esame di questo progettocome crimine, Vi mostrerò ora, Sire, i mezzi deiquali disponevo per realizzare progetti cosìgrandi.

Innanzitutto, ero arrivato a Lipsia senza unsoldo; non avevo neppure di che viverepoveramente, e se Reichel non mi avesse fattoavere presto un po' di danaro, non soassolutamente come avrei potuto sopravvivere,perché ero capace di chiedere agli altri del danaroper le mie imprese, ma non per me stesso. Avevoun bisogno estremo di danaro. «Niente danaro,

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niente Svizzera», dice un vecchio proverbiofrancese, e avevo tutto da creare: le relazioni conla Boemia e con gli ungheresi; a Praga, un partitoche corrispondesse alle mie aspirazioni e sulquale avessi potuto fare affidamento in seguito perle mie ulteriori azioni.

Dico «creare», perché quando giunsi a Lipsianon esisteva neppure l'ombra di un azionequalsiasi, tutto era solo nella mia immaginazione.Non potevo chiedere danaro a d'Ester ed Hexamer;le loro risorse erano molto limitate, sebbene soloa loro facesse capo il comitato centraledemocratico di tutta la Germania; essi prelevavanouna specie d'imposta da tutti i democraticitedeschi, ma non bastava a coprire neppure lespese politiche. Contavo sui polacchi, ma nonrisposero al mio appello. I miei nuovi rapporti conloro, particolarmente con i democratici, risalivanoa Dresda, ed in coscienza posso dire di non avermai avuto rapporti politici con i polacchi fino almarzo 1849; rapporti avviati in quest'epoca nonebbero il tempo di svilupparsi. Perciò non avevoaffatto danaro, e, senza danaro, che potevo fare? In

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un primo tempo pensai di andare a Parigi, sia percercarvi del danaro sia per avviare rapporti con idemocratici francesi e polacchi, infine perconoscere il conte Teleki, l'ex ambasciatore opiuttosto ex-agente di Kossuth presso il governofrancese, grazie al quale avrei potuto entrare inrapporti con lo stesso Kossuth. Ma dopo aver benriflettuto vi rinunciai, per le seguenti ragioni.Informato dal mio amico Reichel, sapevo che inseguito all'informazione calunniosa pubblicatadalla «Rheinische Zeitung», i democratici francesiavevano una certa sfiducia verso di me. Quandoapparve il mio «Appello agli slavi» ne avevomandato una copia a Flocon, con una lunga letterain cui, in base alle mie opinioni di allora, gliesponevo la situazione in Germania e l'aspettodella questione slava. Gli annunciavo il mioaccordo con l'associazione centrale delledemocrazie tedesche, i preparativi di una secondarivoluzione tedesca e le mie intenzioni riguardantigli slavi e particolarmente la Boemia.

Lo esortavo a mandare a Lipsia, dove stavoper andare, un uomo di fiducia dei democratici

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francesi, in modo da legare al movimento franceseil progettato movimento germano-slavo. Infine, lorimproveravo di aver creduto alle voci di calunniae terminavo dichiarandogli solennemente che,unico russo tra i democratici europei, avevol'obbligo di vegliare sul mio onore piùgelosamente di chiunque e che, se non mi avesserisposto, se non mi avesse dato prova della suaassoluta fiducia nella mia onestà con un attoconcreto, mi sarei visto costretto a rompere i mieirapporti con lui.

Flocon non mi rispose e non mi mandònessuno, ma, probabilmente per darmi prova dellasua simpatia, ripubblicò il mio «Appello» nel suogiornale. Lo stesso fecero i polacchi nel lorogiornale «Democrat Polski», ma a Lipsia nonseppi nulla delle due pubblicazioni e considerai ilsilenzio di Flocon come un segno ingiurioso disfiducia. Perciò non potetti decidermi a tentare unnuovo avvicinamento a lui ed al suo partito,neppure per uno scopo che consideravo sacro; eda maggior ragione con i democratici polacchi, chefurono se non l'origine, almeno, e senza alcun

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dubbio, i principali responsabili del mioimmeritato disonore.

Essendo questi i rapporti con i francesi ed ipolacchi, non mi promettevo molto dallapossibilità di conoscere il conte Teleki, perchéconoscevo i suoi rapporti con l'emigrazionepolacca. Così, dopo una matura riflessione, mipersuasi che il mio viaggio a Parigi sarebbe statosolo una perdita di tempo; ora, il tempo eraprezioso, perché mancava ormai poco allaprimavera. Così, dovetti rinunciare anche stavoltaad ogni speranza di rapporti e di vaste risorse; fuicostretto ad accontentarmi, per le spese, delbenevolo aiuto dei poveri democratici di Lipsia e,più tardi, di Dresda; e credo di non aver speso piùdi 400 talleri, o al massimo 500, da gennaio amaggio 1849. Questi erano i mezzi finanziari con iquali mi preparavo a sollevare tutta la Boemia.

Voglio passare ora alle mie relazioni ed allemie azioni. Nelle mie deposizioni all'estero hodichiarato più volte di non aver partecipato affattoai preparativi dei democratici tedeschi in vistadella rivoluzione tedesca, e di quella sassone in

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particolare. Ora, conformemente alla piena eintera verità, non posso ripetere che la stessa cosa.Desideravo la rivoluzione in Germania, ladesideravo con tutto il cuore; la desideravo comedemocratico, e anche perché, pensavo, sarebbestato il segno ed il punto di avvio dellarivoluzione in Boemia. Ma non feci nulla per ilsuo successo, in nessun senso ed in nessun modo,se non forse nell'aver incoraggiato e stimolato conle mie parole i democratici tedeschi checonoscevo. Ma non frequentai né i club né le lororiunioni, non gli chiesi nessuna informazione,mostrandomi indifferente e non desiderandosapere nulla dei loro preparativi, pur avendoappreso molte cose, senza volerlo. Io mi occupavosolo della propaganda in Boemia. Dai tedeschinon speravo e non esigevo che due cose.

In primo luogo, dovevano modificare i lororapporti ed i loro sentimenti verso gli slavi,esprimere pubblicamente e senza equivoco la lorosimpatia per i democratici slavi e riconoscereconcretamente l'indipendenza slava. Questadichiarazione mi pareva necessaria. Innanzitutto

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avrebbe legato gli stessi tedeschi conun'obbligazione reale e pubblica, avrebbe agitocon forza sull'opinione di tutti gli altri democraticieuropei e li avrebbe costretti a guardare conmaggior simpatia il movimento slavo; infine, ladichiarazione avrebbe avuto anche l'effetto dicombattere l'odio inveterato degli slavi per itedeschi e di farli entrare, come amici e alleati,nella comunità della democrazia europea. Devodire che d'Ester e Hexamer mantennero in pieno laparola datami: in pochissimo tempo e graziesoltanto ai loro sforzi, quasi tutti i giornalidemocratici tedeschi, i club, i congressi, si miseroa parlare un linguaggio diverso e a rievocare intermini chiari i rapporti della Germania con glislavi, riconoscendo pienamente e interamente idiritti di questi ultimi ad un'esistenza indipendente,invitandoli ad unirsi alla causa rivoluzionariapaneuropea e promettendogli la loro alleanza ed illoro aiuto contro le pretese francofortesi e controtutti gli altri partiti democratici reazionaritedeschi. Una tale dimostrazione, forte, unanime edel tutto inattesa, produsse l'effetto desiderato: non

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solo i democratici polacchi di Parigi, ma anche idemocratici francesi, i giornali democratici dellaFrancia, come pure i democratici italiani a Romacominciarono a parlare degli slavi come possibilie desiderati alleati. Gli slavi, da parte loro,particolarmente i democratici cechi, stupefatti efelice di questo inopinato mutamento,cominciarono a loro volta, nei giornali cechi, adesprimere la loro simpatia per i democraticieuropei, anche tedeschi e ungheresi. Così il primopasso per il riavvicinamento era fatto.

Ma non era che un inizio: bisognava vincereancora l'odio dei tedeschi della Boemia contro icechi, bisognava non solo cancellare i lorosentimenti ostili, ma anche indurli a unirsi ai cechiin vista di un'azione rivoluzionaria comune.Compito difficile, perché l'odio è tanto più intensoe profondo quanto più i popoli sono tra loro vicinie vivono in un contatto permanente. Inoltre, l'odiotra tedeschi e cechi, in Boemia, era recente, nutritodi brucianti ricordi, irritato all'eccesso ecostantemente avvelenato dagli sforzi del governoaustriaco.

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Esso si manifestò per la prima volta agli inizidella rivoluzione del 1848, in seguito alletendenze contraddittorie e reciprocamentedistruttive di queste due nazionalità; moltolegittimamente, a mio parere, i cechi, costituendo idue terzi della popolazione della Boemia,esigettero che essa diventasse un paeseesclusivamente slavo, totalmente indipendentedalla Germania, e per conseguenza rifiutarono dimandare dei deputati al parlamento di Francoforte.I tedeschi invece, facendo valere il fatto che laBoemia aveva appartenuto sempre allaFederazione degli Stati Tedeschi e da tempoimmemorabile faceva parte integrante dell'anticoimpero germanico, ne esigettero la fusionedefinitiva con la rinascente Germania. I cechiignoravano deliberatamente i ministri di Vienna; itedeschi rifiutavano di riconoscere un potere chenon fosse quello dei ministri viennesi. Ne conseguìun violento conflitto, avvelenato, da una parte dalgoverno di Innsbruck, e dall'altra da quello diVienna; così, quando nel giugno 1848 Praga sisollevò, tutta la Boemia tedesca prese le armi ed i

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suoi franchi tiratori s'affrettarono a dare il loroaiuto alle truppe austriache. Purtroppo, il principeWindischgrätz li accolse molto freddamente e,dopo averli ringraziati, li rimandò a casa.

L'ostilità fra cechi e tedeschi non era maicessata da allora e non era facile vincerla.Hexamer e d'Ester mi furono molto utili in questocaso, come anche i democratici sassoni: più volteed a loro proprio nome, mandarono degliincaricati nella parte tedesca della Boemia, nellaquale non cessavano d'agire, con l'intervento deidemocratici che abitavano lungo la frontierasassone; così, verso il mese di maggio, un grannumero di tedeschi di Boemia erano convertiti alnuovo vangelo e, benché non abbia avuto con lororapporti diretti, so tuttavia che molti erano prontiad unirsi ai cechi per una rivoluzione comune.

Le mie relazioni con i democratici tedeschinon andavano oltre e, lo ripeto ancora, nonm'immischiavo nei fatti loro. Ora dirò dei cechi.Solo Arnold rispose al mio appello venendo aLipsia. Ne fui contento, avendo imparato adaccontentarmi di poco. Rimase a Lipsia solo 24

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ore, malgrado tutti miei sforzi per trattenerlo. Incosì poco tempo non potetti né fargli ampiedomande sulla Bosnia e su Praga, né esporgliinteramente le mie idee. Inoltre, i tre quarti del suotempo furono consumati in vane conversazioni cond'Ester e Hexamer, i quali avevano intenzione diconvocare a Lipsia un congresso germano-slavo.Neppure allora i tedeschi riuscivano a guariredella loro infelice passione per i congressi. Io miopposi energicamente al progetto.

Per stabilire accordi seri con Arnold non mirimasero che quattro o cinque ore al massimo;cercai di profittarne per convincere Arnold adallearsi e agire d'accordo con me.

Basandomi sulle prove e sugli argomenti giàdetti, cercai di persuaderlo della necessità diaccelerare la rivoluzione in Boemia. Sapevo cheegli aveva grande influenza sui giovani cechi, suiborghesi poveri e specialmente sui contadinicechi, poiché li conosceva bene essendo stato permolto tempo l'amministratore delle proprietà delconte Rohan; del resto, è quasi solo per loro cheegli pubblicava allora il suo giornale democratico

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popolare, e gli chiesi di utilizzare nellapropaganda rivoluzionaria la sua influenza. Glisuggerii di organizzare a Praga, e poi in tutta laBoemia, una società segreta il cui piano, concepitoda me, era già pronto.

La società avrebbe dovuto comporsi di treassociazioni separate, indipendenti e ignote traloro: una dei piccolo-borghesi; un'altra deigiovani; la terza dei villaggi. Ognuna sarebbe statasottoposta ad una severa gerarchia e ad un'assolutadisciplina, ma si sarebbe adattata, nei suoiparticolari e nelle sue forme, al carattere ed allaforza della sua classe. Queste società avrebberodovuto limitarsi ad un piccolo numero di persone,ma raggruppare quanto più possibile uominid'ingegno, di cultura, energici e influenti che,obbedendo alla direzione generale, agissero a lorovolta sulle masse, per così dire invisibilmente. Letre società sarebbero state legate tra loro medianteun comitato generale, composto da tre, o almassimo cinque, membri: io, Arnold e qualchealtro, designato per elezione. Grazie a questasocietà segreta, speravo di affrettare i preparativi

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rivoluzionari in Boemia e di poter procederedappertutto secondo un mio piano.

Fatta la rivoluzione, la mia società segreta nonavrebbe dovuto disperdersi, ma rafforzarsi,estendersi e arricchirsi di elementi vivi erealmente forti e, a poco a poco, riunire tutte leterre slave. Speravo che essa avrebbe anchefornito gli uomini per i diversi compiti dellagerarchia rivoluzionaria. Infine, contavo di potercreare e consolidare con essa la mia influenza inBoemia; perché, all'insaputa di Arnold, incaricavonello stesso tempo un giovane, tedesco di Vienna(lo studente Ottendorf, poi rifugiatosi in America),di organizzare sullo stesso piano, fra i tedeschi diBoemia, una società di cui io sarei stato il caposegreto, senza far parte in un primo tempo del suocomitato centrale; in modo che, se il mio piano sifosse realizzato, tutti i fili essenziali delmovimento sarebbero stati concentrati nelle miemani, ed avrei potuto essere sicuro che laprogettata rivoluzione in Boemia non sarebbe maiuscita dalla via che le avevo tracciata. Circa ilgoverno rivoluzionario e il numero dei suoi

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membri, non avevo ancora idee ferme. Volevoconoscere prima intimamente le persone e lecircostanze. Non sapevo se ne avrei fatto parteapertamente, ma mi pareva certo che avrei dovutoparteciparvi, subito e intensamente. Non erano nél'amor proprio né l'ambizione che m'avevanoindotto a disfarmi della mia antica modestia, mal'esperienza d'un intero anno, la convinzione chenessuno dei democratici che conoscevo sarebbestato capace di cogliere con un solo sguardo tuttele situazioni della rivoluzione, né di prendere tuttele misure decisive ed energiche che ritenevonecessarie alla sua vittoria.

Infine, mi proponevo di metter le mani, tramiteArnold e i suoi amici di Praga, sul «TilleulSlave», società patriottica ceca o più esattamenteslava, considerata il cuore di tutte le società e ditutti i club slavi dell'Impero d'Austria.Generalmente, non davo molta importanza ai club;non mi piacevano affatto e li disprezzavo,considerandoli unicamente come riunioni cheservivano di pretesto a stupide fanfaronate, achiacchiere vuote e nocive. Ma il «Tilleul Slave»

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era un'eccezione: era stato fondato su basi pratichee vive, da uomini intelligenti e accorti e costituival'energica continuazione politica della potenteorganizzazione slava d'azione e di propagandaletteraria che, prima della rivoluzione del 1848,aveva svegliato e, si può dire, creato la nuova vitaslava. Inoltre il «Tilleul Slave» costituiva allora ilcentro di ogni azione politica degli slavi austriaci;aveva messo le sue radici e creato delle sezioninon soltanto in Boemia ma in tutti i paesi slavidell'Impero d'Austria, tranne la Galizia. Aveva untale prestigio che tutti i capi slavi ritenevano unonore farne parte. Lo stesso governatoreJelatchitch avvicinandosi a Vienna, aveva ritenutonecessario inviare a quell'organizzazione unalettera in cui, a mo' di scusa per le sue azioni,dichiarava che stava marciando su Vienna nonperché la città aveva fatto una nuova rivoluzionedemocratica, ma perché era il centro del partitonazionale tedesco.

Il «Tilleul Slave» raggruppava i patrioti slavid'ogni partito. In un primo tempo ebbe un ruolo dipreminenza il partito di Palatzky, dello slovacco

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Stur e di Jelatschitch; in seguito, circostanze allequali contribuì in qualche modo il mio «Appelloagli slavi», il numero dei democratici eraaumentato di molto e si sentiva spesso il grido:«Eljen Kossuth!» (Viva Kossuth).

Alla fine, tutta la «Lega ceca» avevaabbandonato deliberatamente la sua anticatendenza, proclamando apertamente la suasimpatia per gli ungheresi, ed aveva rifiutato dicontinuare a mandare danaro agli Slovacchi edagli Slavi del sud che combattevano Kossuth.Allora non era difficile impadronirsi del «TilleulSlave», che, nelle mani dei democratici cechi,avrebbe potuto diventare uno strumento potente edefficace per realizzare i miei scopi.

Arnold fu un po' sorpreso e sconcertatodall'arditezza dei miei fini. Mi fece tuttavia moltepromesse, ma confusamente, timidamente,vagamente, lamentandosi sia di non aver danarosia della sua non buona salute, cosicché, partito daLipsia, ebbi l'impressione di non aver ottenutonulla da lui. Salutandomi, mi promise tuttavia chemi avrebbe scritto da Praga e m'avrebbe chiamato

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non appena fossero terminati i preparativi cheavrebbero consentito di cominciare una piùdecisiva azione. Dovetti accontentarmi di questevaghe promesse, poiché non avevo nessun'altrarisorsa né possibilità di iniziare una propagandapiù attiva.

Quando ricordo oggi con quali mezzi miproponevo di fare la rivoluzione in Boemia, misembra ridicolo. Io stesso non posso concepirecome abbia potuto credere al successo. Ma alloranulla avrebbe potuto fermarmi. Ragionavo così: larivoluzione è necessaria, perciò è possibile. Nonero più padrone di me stesso: di me s'eraimpadronito il genio della distruzione, la miavolontà, o piuttosto la mia cocciutaggine, crescevacon le difficoltà, e gli innumerevoli ostacoli nonsolo non mi spaventavano, ma eccitavano la miasete rivoluzionaria, mi spingevano ad un'attivitàfebbrile e instancabile. Ero votato alla mia rovina,lo presentivo, e mi vi precipitavo deliberatamente.La vita già mi pesava.

Arnold non mi scrisse; di nuovo ignorai tuttodella Boemia. Allora, approfittando del viaggio a

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Vienna di un giovanotto (un certo Heimberger,figlio di un funzionario austriaco, rifugiatosi poi inAmerica) - che avevo messo in parte al correntedei miei segreti - lo pregai di fermarsi da Arnoldtornando e di scrivermi da Praga. Vi rimasedefinitivamente, di sua iniziativa, e divenne il miocorrispondente. Seppi così che sebbene Arnoldlavorasse poco e male, a Praga il clima spiritualesi faceva ogni giorno più vivo, più deciso e piùconforme ai miei desideri. Decisi allora di andareio stesso a Praga e indussi anche i fratelli Straka arientrare in Boemia. Era la metà o la fine di marzo,oppure l'inizio d'aprile, secondo il calendariooccidentale, non ricordo più; del resto, le datesono precisate negli atti d'accusa.

Si cominciava allora a parlare dell'interventodella Russia nella guerra d'Ungheria e dell'entratain Ungheria dell'esercito russo che veniva insoccorso dell'esercito austriaco. Ciò m'indusse ascrivere il mio secondo «Appello agli slavi» (fupubblicato in seguito nella «Dresdner Zeitung» e sitrova negli atti d'accusa). Come nel primo, ma conmaggiore energia ed un linguaggio più popolare,

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esortavo gli slavi alla rivoluzione ed alla guerracontro l'esercito austriaco e l'esercito russo,sebbene quest'ultimo fosse slavo, «finché avesserosulle labbra il funesto nome dell'ImperatoreNicola».

Questo appello fu subito tradotto in ceco daifratelli Straka e pubblicato a Lipsia nelle duelingue in gran numero di copie. Incaricai idemocratici sassoni dell'edizione tedesca ed ifratelli Straka dell'edizione ceca per unadiffusione rapida in Boemia. Andai a Pragapassando da Dresda, dove mi trattenni qualchegiorno. Vi conobbi alcuni dei capi del partitodemocratico sassone, però senza alcun finepreciso non avendo né una missione né una letteradi raccomandazione da Lipsia. Li conobbi percaso, in una birreria, tramite il dottor Wittig, cheavevo conosciuto durante il mio primo soggiorno aDresda, nel 1842. Egli mi presentò il deputatodemocratico Röckel, di cui divenni poi intimo eche più tardi svolse un ruolo attivo nei tentativirivoluzionari di Dresda e di Praga. Fu a Dresdache ebbero inizio anche i miei rapporti, stavolta

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concreti, con i polacchi.Ecco come avvenne.Incontrai a Dresda, del tutto casualmente,

l'emigrato galiziano Krzyzanozski, membro moltoattivo della società democratica, che avevoconosciuto a Bruxelles nel 1847; ma non avevoavuto con lui nessun rapporto politico. Era aDresda di passaggio e andava a Parigi, avendodovuto fuggire dalla Galizia per evitare lepersecuzioni della polizia austriaca. Ci trattammoda vecchi conoscenti e gli feci dei rimprovericirca le calunnie diffuse contro di me daidemocratici polacchi. Mi rispose che sia lui, sia ilsuo amico Heltman, col quale viveva in Galizia,non avevano mai creduto a quelle stupide voci,che le avevano sempre combattute, che avevanosempre desiderato il mio arrivo in Galizia, doveavrei potuto essere utile, e che si proponevano discrivermi ma non avevano il mio indirizzo. In checosa e come avrei potuto essere utile in Galizianon me lo disse. Così, dopo una lungaconversazione su questioni generali, avendotrovato nelle sue idee molta rassomiglianza con le

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mie, e avendo constatato che egli desideravaavvicinarsi a me, gli rivelai i miei progetti sullarivoluzione in Boemia, ma senza precisargliene iparticolari. Gli dissi che avevo delle relazioni inBoemia e che andavo ora a Praga per affrettarvi ipreparativi rivoluzionari; che desideravo da moltounirmi ai polacchi per agire d'accordo con loro,ma che tutti i miei tentativi di avvicinarli eranostati vani, e per di più avevano attratto sporchecalunnie.

Egli condivise appassionatamente le mie ideeslave e mi chiese l'autorizzazione a parlarneall'organizzazione centrale, quasi ufficialmente eda mio nome.

Ne fui felicissimo e convenimmo sui seguentipunti:

1° Il comitato centrale avrebbe inviato dueuomini di fiducia che, d'accordo con me, sisarebbero occupati a Dresda dei preparativi dellarivoluzione della Boemia e, scoppiata larivoluzione, sarebbero entrati con me nel comitatocentrale panslavo, di cui avrebbero fatto parte, perquanto possibile, anche i rappresentanti di altri

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popoli slavi.2° Il comitato centrale si sarebbe assunto il

compito di fornire degli ufficiali polacchi per larivoluzione in Boemia, avrebbe mandato deldanaro e avrebbe persuaso il conte Teleki amandare a suo nome un agente ungherese, fornitodi mezzi sufficienti per agire con noi sull'esercitoungherese che si trovava allora a Dresda, il qualeavrebbe avuto rapporti diretti con Teleki e conKossuth.

3° Ci proponevamo inoltre di organizzare aDresda un comitato germano- slavo allo scopo diunire i preparativi rivoluzionari in Boemia conquelli della Sassonia. Quest'ultimo progetto nonebbe neppure inizio, poiché, come dirò dopo, nonc'erano particolari preparativi in Sassonia Si puòdire, inoltre, che tutti i nostri accordi rimaserolettera morta, ad eccezione forse dell'arrivo diHeltman e di Krzyzanowskj in nome del comitatocentrale; ma vennero a mani vuote. Tutto ciò cheottenni allora da Krzyzanowskj fu un passaportoinglese col quale andai a Praga, dopo essermiseparato da Krzyzanowskj, che riprese la sua

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strada per Parigi.A Praga ebbi la spiacevole sorpresa di

constatare che non vi era stato preparato nulla,proprio nulla. Non erano state poste neppure leprime basi della società segreta e nessuno aveval'aria di pensare ad una rivoluzione imminente.

Ne rimproverai Arnold, che addusse ilpretesto della sua salute. In seguito fu più attivo, aquanto pareva; dico «a quanto pareva», perché hosempre pensato, fino alla fine, che egli non avevafatto assolutamente nulla. Solo dalla commissioneaustriaca d'inchiesta seppi (se è vero) che egliaveva agito intensamente ed energicamente, manello stesso tempo con tanta prudenza che neppurei suoi stessi intimi avevano avuto dubbi su questaattività. Oltre alle mie conversazioni con Arnold,una sera incontrai parecchi democratici cechi dame invitati, ma che, con mio gran dispiacere,furono molto più numerosi di quanto mi aspettassi.Questo incontro, chiassoso e assurdo, mi lasciòl'impressione che i democratici di Praga sonoincorreggibili chiacchieroni, amanti più di unaretorica imprecisa e vana che di imprese

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pericolose. In quanto a me, li colpii, mi pare, conla rudezza di certe espressioni che mi sfuggirono.Mi parve che nessuno di loro comprendesse leuniche condizioni alle quali era possibile larivoluzione in Boemia. A imitazione dei tedeschi -dai quali, malgrado il loro odio, i cechi hannopreso molte cose - avevano la passione dei club edella stessa fede nel chiacchierare a vuoto. Miconvinsi, inoltre, che lasciando molto spazio alloro amor proprio e cedendogli tutte le apparenzeesteriori del potere, non avrei avuto molto dafaticare per impadronirmi del potere stesso,quando la rivoluzione fosse scoppiata.

Dopo, parlai a tu per tu con qualche ceco em'accorsi che esistevano, parallelamente alle mieidee, altri piani, meno decisivi ed a più lungotermine, ma tendenti tuttavia agli stessi scopirivoluzionari, e mi misi a riflettere su comeutilizzarli. Per questo scopo avrei dovuto rimanerea Praga, ma era assolutamente impossibile, perché,malgrado tutti i miei sforzi per tener segreta la miapresenza, i democratici di Praga furono cosìchiacchieroni che l'indomani non solo tutti i partiti

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democratici ma anche tutti i liberali cechisapevano che ero in città. Ora, poiché il governoaustriaco mi ricercava già allora per il mio primo«Appello agli slavi», sarei stato senza dubbioarrestato se non mi fossi allontanato per tempo.

Non avendo altre possibilità, fui costretto arimettere tutte le mie speranze nei fratelli Straka,dei quali arrivai, per così dire, a plasmare eformare lo spirito durante incontri quotidiani perpiù di due mesi. Gli detti istruzioniparticolareggiate e complete su tutti i preparatividella rivoluzione a Praga e in Boemia; gli dettipieni poteri di agire per me ed in mio nome e, purignorando come agirono dopo, mi devo dichiarareresponsabile di tutte le loro azioni, mille volte piùresponsabile e colpevole di loro.

Il mio breve soggiorno a Praga bastò aconvincermi che non mi ero sbagliato sperando ditrovare in Boemia tutti gli elementi necessari aduna rivoluzione che avesse successo. La Boemia,infatti, si trovava allora nel più completodisordine. Le conquiste rivoluzionarie del mese dimarzo («Die Märzerrungenschaften», come si

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diceva allora), annullate già nelle altre regionidell'Impero d'Austria, in Boemia erano ancoravive. Il governo austriaco aveva ancora bisognodegli slavi e non voleva, temeva di imporglimisure reazionarie. Così, a Praga e in tutta laBoemia, la libertà illimitata dei club, delleriunioni popolari e della stampa non avevarestrizioni. Questa libertà era così vasta che glistudenti viennesi ed altri rifugiati della capitaleaustriaca, che allora a Vienna sarebbero statisemplicemente fucilati, passeggiavano liberamentea Praga e vivevano con i loro propri nomi, senzaaver nulla da temere. Tutti, nelle città e neivillaggi, erano armati e scontenti, scontenti ediffidenti, perché si sentiva l'avvicinarsi dellareazione e si temeva di perdere i dirittirecentemente conquistati. Nei villaggi si temeva ilritorno all'aristocrazia minacciosa ed ilristabilimento dell'antica servitù; infine, gliarruolamenti che erano stati appena annunciatiavevano portato al massimo lo scontento, edappertutto, in effetti, si era vicini all'insurrezione.

D'altra parte, c'erano allora pochi soldati in

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Boemia e quelli che c'erano appartenevano areggimenti ungheresi, nei quali c'era unirresistibile spirito di rivolta. Allora, quandoincontravano dei soldati ungheresi per la strada,gli studenti li avvicinavano gridando: «VivaKossuth». Ed i soldati rispondevano con lo stessogrido, senza preoccuparsi della presenza degliufficiali. Quando dei soldati ungheresi venivanomandati ad arrestare uno studente per un conflitto orisse con la polizia, i soldati fraternizzavano congli studenti e con loro pestavano i poliziotti. Lospirito dei reggimenti ungheresi, insomma, era taleche, giunta la notizia del movimento rivoluzionarioscoppiato a Dresda, il mezzo squadrone dislocatoalla frontiera si ammutinò e s'affrettò a passare inSassonia senza averne avuto l'ordine.

Più di due anni sono passati da allora, e ilgoverno austriaco ha certamente adoperato,durante questo tempo, tutti i mezzi possibili persradicare negli ungheresi lo spirito rivoluzionario,lo spirito di Kossuth; ma esso ha messo radici cosìprofonde nel cuore di ogni ungherese -particolarmente nel cuore dei semplici piuttosto

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che in quello degli ungheresi colti - i quali sonoconvinti che, se scoppiasse una guerra, basterebbeil grido «Viva Kossuth» a farli rivoltare e passareal nemico. Ma allora non c'era alcun dubbio: eroassolutamente persuaso che essi avrebbero fattocausa comune, fin dal primo giorno, dalla primaora, con la rivoluzione della Boemia - vantaggiomolto importante, perché l'esercito rivoluzionarioboemo aveva avuto dalla sorte una base solida.

Per completare questo quadro, bisogna infineaggiungere che le finanze austriache erano allorain condizioni deplorevoli: in Boemia non siriconoscevano più i biglietti dello Stato, mabiglietti emessi da privati; ogni banchiere, ognicommerciante aveva i suoi assegni: circolavaanche della moneta spicciola di legno e di cuoio,come ce n'è solo tra i popoli al più basso livellodi civiltà.

C'erano dunque molte situazioni favorevolialla rivoluzione; non si trattava che diimpadronirsene, ma non avevo i mezzi necessari.Tuttavia, non disperavo ancora. Incaricai i fratelliStraka di organizzare in fretta delle società segrete

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a Praga senza seguire strettamente il vecchiopiano, per la cui esecuzione non c'era più tempo,ma concentrando su Praga tutti i loro sforzi, inmodo da preparare la città, il più rapidamentepossibile, ad un movimento rivoluzionario. Inparticolare chiesi che allacciassero rapporti congli operai e organizzassero a poco a poco, tra gliuomini più sicuri, una forza di 500, 400, 300uomini, secondo le possibilità. Questi avrebberoformato una specie di battaglione rivoluzionario,sul quale avrei potuto fare assoluto affidamento econ l'aiuto del quale avrei potuto mettere le manisulle altre situazioni rivoluzionarie di Praga, più omeno organizzate. Impadronitomi di Praga,speravo di fare altrettanto con tutta la Boemia,perché contavo di costringere ad unirsi a me anchei capi della democrazia ceca, sia persuadendoli,sia accordando delle soddisfazioni alle loroambizioni riservandogli, come ho detto prima, tuttigli onori e tutte le prerogative del potere; infine, sequesti due metodi non avessero avuto effetto su diloro, avrei usato la forza.

Ai fratelli Straka chiesi anche che si

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introducessero in tutti gli ambienti, ma senzachiacchierare e tradirsi. Gli raccomandavo dipresentarsi modestamente, di non urtare nessunamor proprio, ma di osservare attentamente ognimovimento, ogni impresa parallela, perché temevod'essere superato, e di comunicarmi tutti iparticolari a Dresda; gli promisi che gli avreimandato del danaro e che sarei andato io stesso, sefosse stato il caso, con degli ufficiali polacchi.

Poco dopo il mio ritorno a Dresda, vi giunseroKrzyzanowski e Heltman, stavolta in nome delcomitato centrale democratico. Non mi portarononulla: né danaro, né ufficiali polacchi, né agentiungheresi; solo dichiarazioni di simpatia e molticomplimenti da parte dei democratici polacchi eparigini. Circa il danaro, appresi che lo stessocomitato centrale non ne aveva, come anche idemocratici francesi, stremati dalle giornate digiugno dell'anno precedente; ufficiali polacchianche numerosi, sarebbero arrivati dalla Francia edal ducato di Posnania non appena si fosse potutodisporre del danaro per il loro viaggio; infine, ilconte Teleki disponeva di grandi mezzi, ma non

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poteva decidersi ad allacciare rapporti con noi edisporre del danaro ungherese per il movimento inBoemia prima di essere autorizzato da Kossuth, alquale aveva scritto in proposito e dal qualeaspettava una risposta.

Così, non potevo mantenere nessuna dellepromesse fatte, prima ai fratelli Straka, poi,tramite loro, ad Arnold e agli altri democraticicechi entrati in rapporti con loro dopo la miapartenza da Praga. Costretto a venire incontro allenecessità dei fratelli Straka, a Praga, dovevochiedere l'elemosina come un mendicante a tutte lepersone che conoscevo. Nessuno mi dette uncentesimo, tranne il deputato Röckel, prima citato,uomo imprudente e chiacchierone, eccentrico, mademocratico zelante, il quale, per procurarmi quelpoco che poté, vendette i suoi mobili.

In seguito, conobbi il barone Baier, ex-ufficiale dell'esercito austriaco, che avevapartecipato all'insurrezione ungherese. Per uncerto tempo aveva comandato un distaccamentoungherese in una fortezza di cui ho dimenticato ilnome; gravemente ferito, aveva dovuto lasciare

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l'Ungheria e, non so bene come, divenne l'agentedel conte Teleki a Dresda, dove mi parves'occupasse esclusivamente dell'arruolamentodegli ufficiali nell'esercito ungherese. Egli mimostrò una lettera del conte Teleki, nella qualecostui gli rivolgeva delle domande sulla Boemia.Colsi quell'occasione, e sotto mia dettatura gli feciscrivere a Teleki una lettera che annunciava a mionome l'imminenza della rivoluzione in Boemia,esponendo tutti i vantaggi che ne avrebbero avutogli stessi ungheresi; inoltre, chiesi che mandasseun uomo di fiducia con del danaro. Teleki risposeche sarebbe venuto lui stesso e, a quanto pare,c'era effettivamente a Dresda in un certo momento,ma troppo tardi, perché ero già in prigione.

I miei rapporti con gli ungheresi non andaronooltre.

La mia corrispondenza con i fratelli Straka,però, continuava. Essi chiedevano danaro; glienemandavo secondo le mie possibilità, cioèpochissimo; li consolavo parlando dell'avvenire,esortandoli a tener duro come facevo io stesso,senza guardare indietro, senza fermarsi, a dispetto

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di tutte le difficoltà e di tutti gli ostacoli; liincitavo alla rivoluzione e gli dicevo di chiamarmiquando l'ora della rivoluzione si fosse avvicinata.Furono, in verità, molto attivi, come seppi piùtardi dalla commissione d'inchiesta; ma le lorolettere non mi comunicavano gran che, tanto eranovaghe e oscure.

Ho esposto tutto ciò che avevo da dire deimiei progetti e dei miei atti, l'ultimo dei quali fuquello di mandare Röckel a Praga. Ma voglio direinnanzitutto quali furono i miei rapporti con ipolacchi che vennero da me, specie conKrzyzanowski e Heltman. Posso dire in pienacoscienza che rapporti non ce ne furono. Del resto,allora non c'era tra noi una fiducia completa, nédalla loro parte, né dalla mia; essi non mi hannomai sussurrato una sola parola delle cosepolacche, che mi sembrava li interessassero moltodi più delle cose di Boemia, ciò che del resto nonera molto difficile, perché di questi ultimi nons'occupavano affatto. Rispondendo alla lorosimulazione con la mia, tenni a mia volta il segretosu molte cose, non rivelandogli altro dei miei

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progetti che qualcosa di superficiale e nonlasciandoli entrare in rapporti diretti con laBoemia. Io solo avevo rapporti con Praga, e tuttociò che essi sapevano del movimento ceco non losapevano che da me. Quando ricevevo notiziesfavorevoli, non le rivelavo; ma quando eranofavorevoli gliele comunicavo esagerandole;insomma, li tenevo un po' fuori di tutte lecircostanze reali e dei preparativi avviati.Ritenevo mio diritto agire così con loro, perchévedevo chiaramente che il comitato centrale nonmi aveva mandato né aiuto, né danaro, né ufficiali,né il danaro ungherese promessomi, ma soltantoquesti due emissari, e non per un'effettiva unionecon me, bensì per metter le mani, per quantopossibile, sul movimento boemo, che avrebberovoluto asservire ai loro fini, che ignoravo, esecondo le loro tendenze esclusivamente polacche.

Vedevo frequentemente, quasi ogni giorno,Heltman e Krzyzanowski, ma piuttosto comecompagni che come congiurati; parlavanopochissimo dei preparativi di Boemia: di più, neparlavano raramente, sia che si fossero accorti

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della mia sincerità, sia che, avendo rinunciato adottenere grandi risultati, s'interessavano di piùdelle altre imprese, che non conoscevo. Noneravamo d'accordo che su un solo punto, lanecessità di organizzare a Praga, nel momento incui la rivoluzione scoppiasse, un comitatorivoluzionario panslavo; per il resto, cirimettevamo alle ispirazioni future e allecircostanze. Avevano probabilmente i loroparticolari disegni, mentre, contando sulla miainfluenza predominante a Praga, avevo io stesso ilfermo proposito di escluderli non appena sifossero mostrati miei avversari. Heltmann eKrzyzanowski avevano a Dresda anche relazioniindipendenti dalle mie. Ma, per terminare il mioracconto, devo occuparmi un'ultima volta deitedeschi.

Decisamente, i tedeschi sono uno stranopopolo e, a quanto ho visto vivendo tra loro, noncredo che la sorte gli serbi una lunga esistenzapolitica. Scrivendo che i democratici tedeschiavevano cercato durante gli ultimi tempi dicentralizzarsi, volevo dire che essi avevano

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finalmente capito tutta la necessità di un'azionecentralizzata e di un potere centrale; ne parlavanofrequentemente e molto, e fingevano anche dicentralizzarsi effettivamente, ma, malgradol'esistenza di un comitato centrale democratico,non avevano tra loro una vera centralizzazione.Credevano di aver fatto tutto designando questocomitato e non considerando necessarioobbedirgli. Ciò che rende forti e pericolosi idemocratici francesi è la loro straordinariadisciplina: francesi di condizione, situazione ecarattere diversi, rappresentanti delle più diversetendenze, appartenenti anche a partiti distinti,sanno unirsi allo scopo di raggiungere un finecomune e, realizzata l'unione, nessun amorproprio, nessuna ambizione, niente, assolutamenteniente, può disunirli prima che il loro scopo siaraggiunto.

Nei tedeschi, al contrario, predomina ildisordine. Conseguenza del protestantesimo e ditutta la storia politica tedesca (31), il disordine èla caratteristica fondamentale dello spiritotedesco: disordine tra le province, tra le città e la

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campagna, tra abitanti dello stesso luogo, tra genteche frequenta lo stesso circolo; disordine, infine,in ogni tedesco preso individualmente, nel suopensiero, nel suo cuore e nella sua volontà. (32)«Jeder darf und soll seine Meinung haben!».(Ognuno può e deve avere la sua opinione!)Questo è il primo articolo di fede del catechismotedesco, il principio sul quale si regola, senzaeccezione, ogni tedesco; così, l'unità politica non èstata e non sarà mai possibile tra loro.

Perciò, nel momento stesso in cui eranecessaria la più stretta unione di tutti idemocratici e di tutti i liberali per lottare con unacerta speranza di successo contro la reazionetrionfante, non solo l'intesa tra democratici eliberali non poteva realizzarsi, ma i democratici ditutta la Germania non riuscivano a mettersid'accordo (33); di più, i democratici di uno stessostato non sapevano, non volevano né potevanounirsi. «Jeder wollte seine Meinung haben».(Ognuno voleva avere la sua opinione). Ciò che lidivideva era una meschina rivalità, fatta d'amorproprio più che d'ambizione. Così, né Breslavia né

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Colonia volevano sottomettersi a Berlino e, nellostesso tempo, si combattevano l'un l'altra.Könisberg si teneva in disparte; lo stesso faceva laSassonia prussiana. Non parlo né delBrandeburgo, né della Pomerania, i cui sentimentifurono sempre monarchici, né, ancor meno, delgranducato di Posnania, dove c'era allora un odioinsuperabile per tutto ciò ch'era, senza distinzione,tedesco. La Westfalia pendeva piuttosto dallaparte di Colonia. Hannover formava, con gli altristati marittimi, un gruppo a parte, che era entrato incontatto col resto della Germania solo per laguerra dello Schleswig-Holstein, nella quale, delresto, i liberali si mostrarono sensibilmente piùattivi dei democratici.

I democratici del regno di Sassonia avevano illoro comitato centrale, che era nello stesso tempoil comitato dei democratici della Turingia. LaBaviera, eccetto il Palatinato e il nord dellaFranconia, non erano stati toccati, per così dire,dalla propaganda democratica. Nel resto dellaGermania del sud, il Baden, il Wurtemberg, comeanche le due Hesse e gli altri piccoli ducati,

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riconoscevano apparentemente il comitatocentrale, alla cui elezione avevano partecipatodurante il congresso democratico di Berlino; ma ineffetti non avevano per esso nessun riguardo; nonobbedivano mai ai suoi ordini, non gli mandavanodanaro e si univano, per la maggior parte, intornoai democratici del parlamento di Francoforte, ilquale, fin dal principio, s'era dimostrato il rivaleed il nemico dei democratici del nord. In realtà,quindi, non c'era la più piccola centralizzazione edil comitato centrale dei democratici tedeschi sitrovava nella più completa miseria.

Il comitato era povero, impotente; inoltre, eracostituito da persone incapaci di sostenere illavoro. Ne erano stati designati tre: d'Ester,Hexamer ed il conte Reichenbach, ma quest'ultimos'era ritirato fin dal principio; Hexamer e d'Estererano attivi. Hexamer era un giovane onesto,inoffensivo, non stupido, ma limitato, lento nelcapire; era un democratico dottrinario e utopista.D'Ester -non Vi nascondo affatto, Sire, che separlo di loro con tanti particolari è perché so chetutt'e due sono riusciti a evadere - invece, era un

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uomo dotato, pieno di vita; lavorava con facilità,era pronto nel capire, ma superficiale; un po'retore, tuttavia disinteressato, politico intrigante,che apparteneva alla scuola democratica diColonia, cioè dei democratici comunisti;spirituale, pieno di risorse, abile, capace, in undibattito parlamentare, di mettere alle strette unministro, insomma tagliato per una guerrigliapolitica, avrebbe potuto essere il Duverger diHauranne tedesco, sotto un Thiers democraticotedesco (se la Germania avesse avuto un Thiers):ma non aveva né l'intelligenza abbastanza vasta, nésufficiente carattere per essere capo di un partito.

Mi sono sempre astenuto dall'immischiarmi neiloro affari; ma avendo vissuto con loro, nellastessa casa, per due mesi o quasi, ero al correntedi molte cose, e posso dire con sicurezza ed inpiena coscienza che il comitato centrale s'è agitatomolto, ma che non ha fatto assolutamente nulla peril successo della progettata rivoluzione, nellaquale, tuttavia, esso riponeva la sua ultimasperanza; lo stesso d'Ester, in verità, mi avevaconfidato che sarebbe stato l'ultimo tentativo,

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decisivo, e che in caso di insuccesso bisognavarimandare a lungo, molto a lungo, tutti i progettirivoluzionari. Ora, che cos'hanno fatto? Invece dioccuparsi solo dei preparativi della rivoluzione,lasciando da parte il resto, impiegavano il lorotempo migliore in cose di secondo piano, nonimportanti, in questioni che li mettevanocontinuamente in una situazione di opposizione conun gran numero di sezioni del partito democratico.Essi prendevano in giro i Sassoni, che credevanofermamente alla indistruttibile solidità della lorocostituzione democratica recentemente creata;affermavano che era necessaria una secondarivoluzione, non fosse che per conservare i dirittipolitici inviolabili, residuo delle conquisterivoluzionarie del 1848 che la reazione non avevaosato ancora toccare; affermavano che, senza unaseconda rivoluzione, tutto rimaneva incerto emalfermo; pertanto, agivano essi stessi come senon dubitassero per un istante della solidità di unterreno politico sul quale si trovavano: d'Ester erapreoccupato della sua elezione alla secondaassemblea legislativa prussiana molto di più che

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dei preparativi rivoluzionari; Hexamer si dedicavaad una corrispondenza politica vuota, inutile,piena di complimenti e di ampollosità con idemocratici francesi, italiani e polacchi; entrambifacevano dei tentativi per fondare a Berlino unnuovo giornale democratico di cui desideravanodiventare i capo- redattori; raccoglievanoabbonamenti e si lamentavano in proposito contutti i democratici, e ciò in un'epoca in cui eraevidente che se non fosse scoppiata una secondarivoluzione l'esistenza di questo giornale a Berlinosarebbe stata semplicemente impossibile e che se,al contrario, la rivoluzione risvegliasse tutti iprecedenti tentativi, queste lamentele e questiabbonamenti diventavano perfettamente inutili.

Quando venne Arnold a Lipsia, invece dioccuparsi dell'unico scopo di questo viaggio, cioèdella fusione del movimento della Boemia conquello della Germania, ovvero invece diinterrogarlo sulla Boemia della quale ignoravanoassolutamente tutto, non gli parlarono, per cosìdire, che di questo disgraziato giornale e delcongresso germano- slavo, di cui ho detto prima.

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Degli altri problemi, delle condizioni, dellemisure comuni da stabilire, non fecero parola:«Prepariamo la rivoluzione per la primavera,cercate anche voi di prepararvi per quell'epoca»,è tutto ciò che dissero ad Arnold. Da questo, sipuò giudicare ciò che furono i loro preparativi ed iloro atti in vista della rivoluzione tedesca.

Non dico che non abbiano fatto assolutamentenulla e che non abbiano affatto pensato aipreparativi rivoluzionari; dico solo che le loroazioni furono insignificanti, insufficienti, e che nonpotevano in nessun modo provocare lo scoppiodella rivoluzione; così, so che essi organizzaronodelle società segrete in diversi punti dellaGermania, ma queste società rimasero senzanessuna influenza nell'insurrezione pantedesca dimaggio; non dubito affatto che abbiano avuto dellerelazioni con alcuni dei principali capi del partitodemocratico, nelle diverse regioni dellaGermania, sebbene non abbia su questo puntoinformazioni concrete; ma so certamente che hannolitigato con molti di questi democratici: peresempio, con Breslavia e col comitato centrale dei

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democratici sassoni; infine, a Francoforte,avevano più nemici che amici, per cui alla vigiliadella rivoluzione badese, i democratici del sud,non solo s'opposero al loro intervento, ma gliingiunsero di non unirsi a loro. Appresi questacircostanza per un caso fortuito, di cui dirò inseguito.

Mi si potrebbe chiedere: Se il comitatocentrale era davvero inattivo e impotente in talemisura, come ha potuto scatenare in tutta laGermania, in favore degli slavi, l'unanime e fortedimostrazione di cui si è detto prima e dove avevaattinto d'un colpo l'energia, l'influenza e l'attivitànecessarie alla sua infaticabile propaganda?Risponderò che niente più di questa dimostrazioneera più facile da realizzare; per questo, il comitatodisponeva dei mezzi voluti e dell'influenzanecessaria; aveva rapporti con tutti i giornalidemocratici e aveva inoltre gli indirizzi di tutti iprincipali capi al di fuori dei loro comitati, permezzo di uomini influenti noti al comitato centrale,perché nulla è più facile che conquistare nonimporta quale tedesco a non importa quale causa,

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finché egli si creda indipendente e non sospetti chelo si vuol sottomettere ad una qualsiasi disciplina.

Scrivevo gli articoli mandati ai giornali, aproprio nome, da d'Ester e Hexamer; oppure, inmia presenza e quasi sotto mia dettatura, licostringevo a scrivere delle lettere, le stesse pertutti i club, e non li lasciavo riposare finché nonavessero fatto tutto ciò che mi sembravaindispensabile. E' così che apparveroall'improvviso, in tutti i giornali, articoli in favoredegli slavi; in quanto ai club, già stanchicom'erano delle lettere e delle dichiarazioni delcomitato centrale, seguirono l'esempio dellastampa, e si misero a comporre risonanti indirizziagli slavi. Una volta cominciato, questomovimento continuò senza intervento esterno.Anche la propaganda sarebbe rimasta lettera mortain Boemia se non avessi incessantemente incitato imembri del comitato centrale, e, ancor più, idemocratici abitanti a Lipsia che conoscevo, iquali a loro volta agivano tramite i loro amici cheabitavano alla frontiera della Boemia. Ora, tuttociò fu fatto senza speciali misure, senza

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cospirazione e senza particolari condizioni, masemplicemente grazie a buone relazioni.

Lo ripeto, non mancarono, per volere di tutta laGermania, conversazioni sulla rivoluzioneimminente, ma non c'era assolutamente nessunacospirazione generale, nessuna organizzazionecomune, nessun piano di direzione e d'azionecentralizzate, nonostante l'esistenza di un comitatocentrale delegato a questo scopo. Nel maggio1849, l'insurrezione tedesca fu piuttosto, nel suoinsieme, il risultato dell'azione unanime deigoverni tedeschi che dell'intesa tra i democratici.Sei mesi prima, tutti sapevano che ci sarebbe statauna rivoluzione in primavera, perché avevano allafine capito che i governi, ripreso con successo illoro movimento rivoluzionario, non si sarebberofermati a metà strada e non avrebbero abbandonatola lotta prima di aver restaurato l'antico ordinedistrutto dalla rivoluzione del 1848. Tutti siaspettavano, per la primavera, misure reazionarieancor più spinte, e tutti si preparavano arispondere con una resistenza rivoluzionaria.Ognuno prevedeva un conflitto inevitabile tra il

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parlamento di Francoforte ed i sovrani tedeschi,che avrebbe dato il segnale di una insurrezionegenerale. La unanimità, fra i democratici tedeschi,non andava oltre.

L'attività del comitato centrale si limitava aincoraggiare tutti i preparativi rivoluzionari, maquesto comitato non poté e non seppe diventare ilcentro dei preparativi. In tutte le regioni dellaGermania, ci si preparava conformemente alcarattere, alle possibilità e alla situazione diciascuno, indipendentemente dal comitato centralee senza il minimo accordo. Lo ripeto ancora unavolta, tutti i preparativi si limitavano a ciò che tuttisapevano che si preparava; ma i democratici nonerano soli a saperlo; lo sapeva anche il partitoavverso, perché tutti facevano preparativi eorganizzavano apertamente perfino società segrete.

Tutti si preparavano, ma questi preparativierano poca cosa. Non posso, d'altra parte,giudicare dell'attività svolta dai democratici delsud, perché, salvo in un caso al quale torneròdopo, non ebbi più contatti con loro dopo laprimavera del 1848. Nel Baden sembra che ci sia

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stata qualcosa che pareva una realeorganizzazione. Ma io posso giudicare deipreparativi sassoni, avendoli visti da vicino, pursenza parteciparvi affatto. So che i democraticisassoni non avevano né un piano néun'organizzazione, e nemmeno capi già designatiper l'ora della rivolta. Tutto era abbandonato alcaso. Questo si rivelò chiaramente durante iltentativo rivoluzionario di Dresda, previsto daglistessi capi del partito democratico così poco, cheil giorno prima avevano avuto l'intenzione diandarsene. Nessuno, né a Dresda né in nessun'altracittà della Sassonia, dubitava che proprio in quelmomento cominciava la rivoluzione da lungotempo preannunciata da tutti; e quando scoppiò,nessuno sapeva che fare né che decisioneprendere; tutti si lasciavano guidare dal proprioistinto, non essendo stato previsto nulla.

E' appena credibile, ma accadde veramentequesto. Se ora riunisco tutti i miei ricordi pertrarne qualcosa di concreto sui preparativi deidemocratici sassoni, non trovo assolutamentenulla, salvo forse il fatto che c'erano in qualche

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angolo della Sassonia piccolissime societàsegrete, composte di cinque, di sei, al massimo didieci persone, per la maggior parte operai; o,meglio ancora, in qualche città, come Dresda,Chemnitz e, in seguito, anche Lipsia, c'erano statedelle bombe a mano in ferro bianco, inoffensivigiocattoli per ragazzi, sulle quali tuttavia idemocratici fondavano grandi speranze. Nonoccorreva affatto preparare armi e munizioni,poiché tutta la Sassonia e la Germania erano statearmate dalla precedente rivoluzione; ma ciò chebisognava preparare era un piano di rivolta, unpiano per tutta la Sassonia e particolarmente perogni città; sarebbe stato necessario designare deicapi, istituire una gerarchia rivoluzionaria,stabilire i primi atti da fare, le prime misure daprendere per la progettata rivoluzione; sarebbestato necessario che la propaganda rivoluzionariasi diffondesse dalle città nelle campagne; sarebbestato necessario indurre i cittadini a partecipare almovimento, per giungere ad una rivoluzione forte egenerale e non ad una rivoluzione cittadina, isolatae facile da combattere.

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Di tutto ciò non c'era la minima traccia; tutti ipreparativi si limitavano a piccolissime cosesenza importanza. Insomma, i democratici sassonifecero abbastanza da essere in seguito condannaticome criminali politici, ma nulla per il successodella rivoluzione. Si potrebbe dire altrettanto dime, con questa differenza, che io ero solo, mentreloro erano numerosi; essi disponevano di ognimezzo, a me mancava tutto. La commissioned'inchiesta sassone ha cercato a lungo le tracce diuna cospirazione, di piani, di preparativi di rivoltae di relazioni clandestine tra i democratici sassonie gli altri democratici tedeschi; non avendo trovatonulla, si è alla fine consolata con l'idea cheeffettivamente una simile cospirazione esisteva,orribile complotto che comportava dei rapportimolto estesi, un piano profondamente meditato erisorse incalcolabili; solo, decise che, fuggendo,Röckel, il più insignificante dei membri pocobrillanti e pochissimo attivi del comitatodemocratico sassone, aveva portato a Londra tutti isegreti e le fila della trama. Dico che lacommissione si consolò con questa idea, perché i

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governi tedeschi hanno dovuto arrossire divergogna al pensiero di aver tremato per cosìlungo tempo dinanzi ai democratici tedeschi. Delresto essendo tutto relativo al mondo, idemocratici tedeschi potevano far paura a deigoverni tedeschi.

Ma è tempo d'abbandonare le considerazionigenerali sulla meschina attività rivoluzionaria deidemocratici tedeschi e, tornando a me stesso,terminare la mia non meschina storia. Non mirestano che poche cose da aggiungere.

Ho detto in che cosa consistevano i mieirapporti con d'Ester e Hexamer, e con idemocratici di Lipsia; ho spiegato perchéattendevo con certezza la rivoluzione tedesca eperché la desideravo; ho aggiunto, essendo vero,che non ho partecipato in nessun modo ai fattitedeschi. Devo dire del mio soggiorno a Dresda,fino al giorno dell'elezione del governoprovvisorio. Mi trovavo a Dresda non per laSassonia né per la Germania, ma solo per laBoemia, e avevo scelto di abitare a Dresda perchéera la città più vicina a Praga. Come prima a

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Lipsia, non frequentavo né i club né le conferenzedei democratici, ma li vedevo raramente; non vidiche due o al massimo tre volte il deputatoTzchirner, che fu, a mio parere, sebbene moltomeschino anche lui, il principale, se non il soloistigatore della rivoluzione sassone; non loincontrai né a casa sua né a casa mia, ma in unabirreria democratica. I nostri rapporti furono deipiù superficiali e non ci scambiammo che qualcheparola. I soli tedeschi con i quali ebbi a Dresdaconcreti rapporti furono il dottor Wittig, redattorecapo del giornale democratico di Dresda, e ildeputato democratico Augusto Röckel, che honominato prima. Il primo mi fu utile sotto moltiaspetti; la redazione del suo giornale mi servivacome ufficio per i miei rapporti con Praga, ed ilgiornale stesso, per tutto ciò che riguardava laquestione slava, era sotto la mia sola influenza.

Ancora più intimi, i miei rapporti coldemocratico Röckel; egli partecipò largamentealla propaganda nella Boemia tedesca, grazie allesue relazioni con i democratici sassoni dellafrontiera; raccoglieva del danaro per me quando

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ne avevo urgente bisogno e, come ho già detto,giunse perfino a vendere i suoi mobili perconsentirmi di aiutare i fratelli Straka, mia unicasperanza per la rivoluzione di Praga. Non glinascondevo le mie iniziative, come egli non minascondeva nulla; ma non m'immischiavo affattonelle sue cose né nelle sue relazioni tedesche, enon ricorrevo a lui che in caso di bisogno. Fra idemocratici tedeschi che conoscevo bene senzaaver avuto con loro rapporti concreti, c'era un taledottor Erbe, democratico di Altenburg, deputato edesule, eletto in seguito, non so più da quale cittàdella Sassonia, al Parlamento di Francoforte. Sene parlo è perché le relazioni con Erbecostituirono l'occasione del solo contatto esistentetra me e i democratici badesi, ai quali hoaccennato prima. Giunto a Francoforte, partecipò,sembra, attivamente al movimento della Germaniadel Sud e mi è stato detto che ha trovato rifugio inAmerica.

Qualche giorno prima della rivolta di Dresda,venne da me un compagno di Erbe, anche luideputato a Francoforte e senza dubbio venuto a

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Dresda per altre cose, che ignoravo. Mi chiese, daparte di Erbe e di tutti i democratici badesi, di cuimi portò i saluti, di dargli una lettera diraccomandazione per il comitato centrale polaccoa Parigi, perché avevano bisogno di ufficialipolacchi. Lo misi in contatto con Heltman eKrzyzanowski e fui così la causa dell'entrata inscena, nel ducato di Baden, del generale Schreidee di altri polacchi. Fu solo allora che mi resi contodel disaccordo esistente tra i democratici del norde quelli del sud e compresi quanto fosse nulla, suquesti ultimi, l'influenza del comitato centraledemocratico; d'Ester, arrivato a Dresda lo stessogiorno, incontrò a casa mia il compagnofrancofortese d'Erbe; parlarono a lungodell'imminente rivoluzione badese e delmovimento nella Germania del sud. D'Ester disseche avrebbe voluto veder riuniti a Francoforte tuttii democratici che avevano fatto parte deiparlamenti tedeschi sciolti con la forza, doveavrebbero costituito con i democraticifrancofortesi, un nuovo parlamento democraticotedesco; il compagno d'Erbe rispose che i

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democratici di Francoforte e della Germania delsud chiedessero ai signori democratici del nord dinon occuparsi dei loro affari e di non unirsi a loro,ma di restare tranquillamente a casa e occuparsidella rivoluzione nel nord. Ne seguì unadiscussione, poi una disputa che sarebbe fuoriluogo riferire qui.

All'avvicinarsi di maggio i segni premonitoridella rivoluzione si fecero di giorno in giorno piùchiari e più caratteristici in tutta la Germania. IlParlamento di Francoforte, manifestando verso lafine della sua esistenza una tendenza sempre piùnettamente favorevole ai democratici, era inmanifesto conflitto col governo. Alla fine, era statamessa insieme una costituzione tedesca; certigoverni, come, ad esempio, quello delWurtemberg, l'avevano riconosciuta, ma dimalavoglia e sotto la minaccia non dissimulata diuna rivoluzione. Il re di Prussia aveva rifiutato lacorona offertagli; il governo della Sassoniaesitava. Alcuni speravano che si sarebbe piegatoalla necessità e che tutto si sarebbe ricomposto,senza tumulto, nell'ordine. Altri prevedevano un

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conflitto. Io ero tra questi, e, convintodell'imminenza di una rivoluzione tedesca,incitavo con le mie lettere i fratelli Straka araddoppiare l'attività, ad affrettare i preparativi eprendere gli ultimi provvedimenti decisivi. Manon potevo mandargli danaro né altri aiuti, oltre aiconsigli ed agli incoraggiamenti. Gli mandavoqualche tallero, privandomi così delle mie ultimerisorse; non potevo permettermi di spendere perme stesso più di cinque o sei «silbergroschen» algiorno. Non c'erano né danaro né ufficialipolacchi, né la minima possibilità di agire;aspettavo ogni giorno l'arrivo del conte Teleki,aspettavo anche che mi si chiamasse presto aPraga, non sapevo che fare né dove andare, e mitrovavo nella più pietosa situazione.

Alla fine, il parlamento democratico sassonefu sciolto. Era il primo ritorno della reazione inSassonia; anche quelle stesse persone che primaavevano avuto dubbi cominciarono ad ammetterela possibilità di una rivoluzione sassone. Tuttaviasembrava a tutti così remota che Röckel, temendopersecuzioni, decise di lasciare Dresda per un

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certo tempo. Lo persuasi di andare a Praga, glidetti un biglietto per Arnold e Sabina, ed ancheper i fratelli Straka, e lo incaricai di affrettare ilpiù possibile i preparativi dell'insurrezione diPraga. Come agì? Con chi? Quali avvenimentiaccaddero a Praga dopo la sua partenza daDresda? Son cose che ho ignorato fino alla fine,non avendo saputo qualcosa che dallacommissione austriaca.

Il giorno della partenza venne a trovarmi,ancora in sua presenza e condotto dal miocompagno e collaboratore Ottendorfer, il dottorZimmer, ex membro del parlamento austriacoallora sciolto, uno zelante democratico, uno deicapi più influenti del partito tedesco in Boemia, eun tempo uno dei nemici più accaniti della nazionececa. Dopo una lunga e appassionata discussioneriuscii a conquistarlo al mio punto di vista; misalutò promettendomi di andare immediatamente aPraga e di collaborarvi all'unione dei tedeschi edei cechi in vista della rivoluzione. Tutti questifatti, rivelati non da me ma dallo stesso dottorZimmer, sono esposti dettagliatamente negli atti

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d'accusa austriaci. Il viaggio di Röckel e deldottor Zimmer a Praga costituiscono i miei ultimitentativi per quanto concerne la Boemia.

Sire, ho detto tutto, ed ho ben riflettuto; ritengodi non aver omesso neppure un solo fatto diqualche importanza. Ora non mi resta più chespiegare a Vostra Maestà in che modo abbiapotuto, rimanendo del tutto estraneo alle cosetedesche e aspettando d'esser chiamato a Praga daun giorno all'altro, partecipare, e così attivamenteall'insurrezione di Dresda.

Il giorno dopo la partenza di Röckel, cioèdopo lo scioglimento del Parlamento, scoppiaronodisordini a Dresda. Durarono molti giorni, senzaassumere un carattere decisivo; ma la loro naturaera tale che non potevano terminare se non con larivoluzione o con una completa reazione. Nonavevo paura della rivoluzione, ma temevo lareazione, che sarebbe necessariamente giunta a fararrestare tutti gli emigrati politici sprovvisti dipassaporto e tutti i volontari rivoluzionari tra iquali occupavo un posto di un certo livello.

Per lungo tempo non seppi che fare, né cosa

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decidere. Rimanere era pericoloso, ma fuggire eravergognoso, era assolutamente impossibile. Ero ilprincipale ed unico istigatore della cospirazionepraghese, tedesca e ceca, avevo inviato i fratelliStraka a Praga e vi avevo esposto un gran numerodi persone ad un evidente pericolo; perciò io nonavevo il diritto di evitare il pericolo. Mi rimanevaancora una scelta: ritirarmi nelle vicinanze diDresda ed attendere che il movimento prendesseun carattere più deciso e più rivoluzionario. Mabisognava aver danaro, e invece non avevo chedue talleri. Dresda era il centro delle mierelazioni; attendevo il conte Teleki, potevo esserechiamato a Praga in qualsiasi momento. Decisiquindi di rimanere e convinsi anche Krzyzanowskie Heltman, che erano già sul punto di partire.

Deciso di restare, né il mio carattere, né la miasituazione mi permettevano di rimanere spettatoreinattivo e indifferente degli avvenimenti diDresda. Tuttavia mi astenni da ogni attività fino algiorno dell'elezione del governo provvisorio. Nonentrerò nei particolari dell'insurrezione di Dresda.Vi sono noti, Sire, e, senza dubbio, meglio che a

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me. D'altra parte, tutti i fatti che mi riguardanosono esposti particolareggiatamente negli atti dellacommissione d'inchiesta sassone.

A mio parere, l'insurrezione fu causata in unprimo tempo da tranquilli cittadini, dai «Bürger»(borghesi), i quali non vi videro che una di quelledimostrazioni di parata, inoffensive e legali,entrate a tal punto nel costume tedesco da nonstupire e spaventare più nessuno. Quando siaccorsero che il movimento diventava unarivoluzione, si ritirarono e cedettero il posto aidemocratici, perché, dicevano, quando avevanogiurato «mit Gud and Blut, für die neuerrungeneFreiheit zu stehen» (di sacrificare i loro beni eversare il loro sangue per la difesa della libertànuovamente conquistata), ciò che pensavano eradimostrazione tranquilla, incruenta e inoffensiva,non una rivoluzione.

La rivoluzione fu inizialmente costituzionale, edivenne democratica solo in seguito. Si feceroentrare nel governo provvisorio due rappresentantidel partito costituzionale-monarchico: Heubner eTodt (qualche giorno prima, quest'ultimo, come

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commissario governativo, aveva sciolto ilParlamento in nome del Re) e gli si aggiunse unsolo democratico: Tzschirner. Avevo conosciutoTodt durante il mio primo soggiorno a Dresda; inseguito l'avevo visto di sfuggita a Francofortenella primavera del 1848, e non lo incontrai aDresda che il giorno della sua elezione al governoprovvisorio. Non conoscevo affatto il deputatoHeubner, ed ho già detto a che cosa si limitavano imiei rapporti con Tzschirner.

Dopo la formazione del governo provvisorio,cominciai a sperare nel successo dellarivoluzione. In verità, le circostanze erano allorale più favorevoli: molta gente e pochi soldati.Gran parte dell'esercito sassone lottava allora perla libertà e l'unità tedesche nello Schleswig-Holstein, «stammverwandt und meerum schlungen»(parenti di razza e circondati dal mare); a Dresdanon c'erano, se non mi sbaglio, che due o trebattaglioni. Le truppe prussiane non avevano avutoancora il tempo di arrivare e niente era più facileche impadronirsi di Dresda.

Caduta Dresda nelle mani della rivoluzione,

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facendo perno sulla Sassonia, che si sollevò tutta eunanimemente, ma senza alcun piano e alcunordine, e sul movimento della restante Germania,si sarebbe potuto anche affrontare le truppeprussiane; le quali, sull'esempio dei sassoni, nondettero prova, a Dresda, di uno straordinariocoraggio. Infatti, i prussiani avevano impiegatocinque giorni in un'impresa che truppe piùenergiche avrebbero potuto condurre a termine inun giorno e anche meno; perché, anche se c'era aDresda un gran numero di democratici armati,costoro erano demoralizzati per il disordine chec'era tra i capi.

Il giorno dell'elezione del governo provvisoriotutta la mia attività consistette nel dare qualcheconsiglio. Era, a quanto ricordo, il 4 maggio delcalendario occidentale. Le truppe sassoniparlamentavano. Consigliai Tzschirner di nondarsi per vinto, non farsi prendere in giro, perchéera noto che il governo non cercava che diguadagnare tempo, nell'attesa di un soccorsoprussiano. Dissi a Tzschirner di sospendere leinutili trattative, di non perder tempo e di

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approfittare della debolezza delle truppe perimpadronirsi di tutta Dresda; gli offrii anche diriunire tutti i polacchi che conoscevo - ce n'eranomoltissimi allora a Dresda - e di condurre conloro all'arsenale il popolo, che chiedeva armi. Siperse tutta la giornata in scambi di idee.L'indomani, Tzschirner si ricordò dei miei consiglie della mia proposta; ma la situazione era giàcambiata; la gente s'era dispersa con le sue armied il popolo aveva perso il suo entusiasmo; ifranchi tiratori non erano ancora arrivatiabbastanza numerosi; a quanto sembra, erano giàapparsi i primi battaglioni prussiani. Tuttavia,accogliendo la richiesta di Tzschirner e ancor piùle sue promesse, andai a ritrovare Heltman eKrzyzanowski e li persuasi, non senza fatica, apartecipare con me alla rivoluzione di Dresda,mostrandogli le conseguenze favorevoli che ilsuccesso avrebbe potuto avere per la rivoluzionein Boemia, che essi desideravano.

Acconsentirono, e vennero al municipio, doveaveva sede il governo provvisorio, accompagnatida un terzo ufficiale polacco, che non conoscevo.

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Concludemmo allora con Tzschirner una specie ditrattato: in primo luogo, ci dichiarò che non sisarebbe accontentato, se la rivoluzione avesseavuto successo, del riconoscimento del parlamentodi Francoforte, ma avrebbe proclamato larepubblica democratica; in secondo luogo,s'impegnò ad essere fedele alleato in tutte le nostreimprese slave. Ci promise danaro, armi, tutto ciòdi cui avremmo avuto bisogno per la rivoluzionein Boemia. Ci chiese solo di non dire nulla a Todte ad Heubner, che qualificò come traditori ereazionari.

Così, c'installammo dietro un paravento, nellasala del governo provvisorio, Heltman,Krzyzanowski, il suddetto ufficiale polacco ed io.La nostra situazione era più che bizzarra:componevamo una specie di stato maggiore pressoil governo provvisorio, che eseguiva senzacontraddizione tutti i nostri ordini. Maindipendentemente da noi e dal governoprovvisorio, il tenente Hense comandava lamilizia rivoluzionaria. Ci trattava con manifestamalevolenza, perfino con animosità. Non solo non

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eseguiva nessuno dei nostri ordini, che glivenivano trasmessi sotto forma di istruzioni delgoverno provvisorio, ma agiva anche controquest'ultimo, in modo tale che tutti i nostri sforzirisultavano inutili. Per ventiquattr'ore nonchiedemmo che cinquecento, o anche trecento,uomini che volevano portare all'arsenale, e nonarrivammo che a metterne insieme cinquanta. Nonperché non ce ne fossero, ma perché Hense nonpermetteva a nessuno di raggiungerci e disperdevala sua gente in tutta la città man mano chearrivavano nuove forze. Ero allora e sono ancoraoggi convinto che Hense era un traditore, e nonposso concepire che sia stato condannato come uncriminale politico. Egli contribuì alla vittoria piùdello stesso esercito, che, come ho detto, agivacon molta timidezza.

L'indomani - era, credo, il 6 maggio - i mieipolacchi, e Tzschirner con loro - erano scomparsi.Accadde così. Heubner... non posso ricordarlosenza grande tristezza. Non lo conoscevo prima,ma imparai a conoscerlo durante quei pochi giorni;in simili circostanze ci si conosce rapidamente.

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Raramente ho incontrato un uomo più puro, piùnobile, più onesto; per la sua indole, le suetendenze e le sue idee non era predestinato adun'attività rivoluzionaria; aveva modi tranquilli edolci; s'era appena sposato, era appassionatamenteinnamorato di sua moglie e si sentiva infinitamentepiù predisposto a scriverle versi sentimentali chea far parte di un governo rivoluzionario, nel qualeera stato trascinato, come Todt, dal caso. Non vi sitrovava che per colpa dei suoi compagnicostituzionali, che lo avevano eletto approfittandodella sua dedizione e nella speranza di paralizzarele tendenze democratiche di Tzschirner. Eglistesso non vedeva nella rivoluzione che una guerrasanta e legittima per l'unità tedesca, che adorava esognava appassionatamente. Aveva creduto di nonavere il diritto di rifiutare un posto pericoloso eaveva acconsentito. Dato il suo consenso, vollesvolgere il suo compito onestamente e fino infondo, e fece davvero il maggiore dei sacrifici perciò che riteneva giusto e vero.

Non dirò nulla di Todt. Fu, fin dal principio,demoralizzato dalla contraddizione esistente tra la

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sua antica e la sua nuova situazione e fuggì piùvolte. Devo dire, invece, una parola su Tzschirner.E' lui che aveva preconizzato, preparato, scatenatola rivoluzione; ora, alla prima minaccia dipericolo, è fuggito, e lo ha fatto per una voce senzafondamento; in breve, s'è rivelato a tutti, amici enemici, come una canaglia ed un vile. Dopo,riapparve; ma il solo parlargli mi era penoso e nonrivolsi più la parola che a Heubner, per il qualenutrivo amicizia e che rispettavo. Anche i polacchierano scomparsi. Senza dubbio, avevano pensatodi esser tenuti a risparmiarsi per la patria polacca.Da allora non vidi più un polacco. Fu il mioultimo saluto alla nazione polacca.

Ma ho interrotto il mio racconto. Io edHeubner andammo sulle barricate, sia perincoraggiare i combattenti, sia per informarci, perquanto poco possibile, sulla situazione generale,di cui nessuno aveva la minima idea. Rientrando,apprendemmo che Tzschirner ed i polacchi,impauriti per un falso allarme, avevano preferitoallontanarsi e ci consigliavano di fare altrettanto.Heubner decise di restare, e la stessa cosa feci

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anch'io. Più tardi, Tzschirner tornò e dopo di luitornò anche Todt; ma costui non rimase a lungo escomparve definitivamente.

Io rimasi. Non perché avessi fiducia nelsuccesso. I signori Tzschirner ed Hense avevanorovinato così bene la situazione che solo unavvenimento eccezionale e imprevedibile avrebbepotuto salvare i democratici. Ristabilire ladisciplina era assolutamente impossibile; tutto eraimbrogliato a tal punto che nessuno sapeva dovesbattere la testa né a chi rivolgersi. Ero sicurodella sconfitta e tuttavia rimasi. Innanzitutto, nonpotevo abbandonare il povero Heubner, chesomigliava ad un agnello rassegnato al sacrificio.Inoltre, ed era un motivo anche più imperioso, eroun russo, e quindi più esposto degli altri a infamisospetti e incessanti calunnie. Come Heubner, misentivo obbligato a resistere fino all'ultimo.

Non posso, Sire, darVi un resocontoparticolareggiato dei tre o quattro giorni vissuti dame a Dresda dopo la fuga dei polacchi. Facevotentativi su tentativi, davo consigli e ordini, eformavo, per così dire, da solo tutto il governo

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provvisorio. Feci tutto ciò che potevo per salvarela rivoluzione, una rivoluzione morente e sconfitta.Non dormivo, non mangiavo, non bevevo, nonfumavo; ero allo stremo delle forze e non potevoassentarmi un solo minuto dalla stanza del governoper timore che Tzschirner fuggisse di nuovolasciando solo Heubner. Convocai più volte i capidelle barricate, cercai di stabilire un po' d'ordine,di riunire le forze per un'offensiva. Hense, però,strozzava tutti i miei provvedimenti, per cui tuttaquesta attività tesa e febbrile rimaneva inutile.

Alcuni comunisti capi di barricata ebberol'idea di bruciare Dresda e ridussero in cenerequalche casa. Non lo ordinai mai, però avreiacconsentito se avessi creduto che si sarebbepotuto salvare così la rivoluzione sassone. Non homai potuto concepire che si possano compiangerele case e le cose più degli uomini. I soldati,sassoni e prussiani, si divertivano a sparare sudonne inoffensive che guardavano dalle lorofinestre, e ciò non sorprendeva nessuno. Maquando alcuni democratici si sono messi aincendiare qualche casa per la loro propria difesa

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tutti gridarono alla barbarie. Bisogna dire, invece,che i soldati tedeschi così buoni, così morali ecosì colti dimostrarono a Dresda infinitamente piùbarbarie dei democratici. Fui io stesso testimonedell'indignazione con la quale alcuni democratici,gente semplice, si gettarono su uno dei loro ches'era lasciato andare a ingiuriare dei soldatiprussiani feriti. Ma disgraziato il democratico checadeva nelle mani dei soldati. I signori ufficialiapparivano raramente, si risparmiavano con lamaggior cura, ma avevano ordinato ai soldati dinon fare prigionieri. Perciò nelle case conquistateaccopparono, pugnalarono, fucilarono molta genteche non aveva mai avuto l'idea di partecipare allarivoluzione. Fu così che venne pugnalato col suoservo un giovane principe, parente, se non misbaglio, di uno dei piccoli sovrani tedeschi, ilquale era venuto a Dresda per farsi curare gliocchi. Ciò non mi fu riferito dai democratici, malo seppi da una fonte assolutamente sicura, cioè dasottufficiali che avevano partecipatoeffettivamente ai fatti di Dresda e che in seguitoerano stati incaricati di sorvegliarmi. Mi legai

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d'amicizia con molti di loro e appresi così, durantela mia prigionia nella fortezza di Königstein, moltecose che non depongono affatto in favoredell'umanità, del coraggio e dell'intelligenza deisignori ufficiali sassoni e prussiani.

Ma ritorno al mio racconto.Non ordinai gli incendi. Ma neppure permisi

che, col pretesto di spegnerli, la città venisseconsegnata alle truppe. Quando fu evidente cheDresda non poteva essere più difesa, proposi algoverno provvisorio di far saltare per aria sestesso col municipio: avevo polvere sufficienteper farlo. Ma rifiutarono. Tzschirner fuggì dinuovo e non lo rividi più. Heubner ed io demmol'ordine della ritirata. Aspettammo ancora un po',fino a quando i nostri ordini fossero stati eseguiti,poi ci ritirammo con tutta la milizia, portando tuttala nostra polvere, tutte le nostre munizioni ed inostri feriti. Ancora oggi non posso capire comepotemmo riuscire, come ci lasciarono, nonprendere la fuga, ma condurre una ritirata regolaree ordinata, quando era molto facile annientarcicompletamente in aperta campagna. Penserei forse

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che sentimenti umanitari trattennero i comandantidelle truppe, se, dopo ciò che vidi e sentiiraccontare prima e dopo la mia incarcerazione,potessi credere ancora alla loro umanità. Nonriesco a trovare che una spiegazione: dico a mestesso che tutto è relativo nel mondo e che letruppe tedesche, come i governi tedeschi, sonostate create per lottare contro i democraticitedeschi.

Benché la nostra ritirata fosse avvenuta con unordine accettabile, le nostre truppe eranocompletamente demoralizzate. Quando arrivammoa Freiberg, avevo l'intenzione di continuare laguerra ai confini della Boemia - facevo sempreaffidamento sull'insurrezione della Boemia - e cisforzammo di incoraggiare i nostri uomini e diristabilire tra loro la disciplina. Ma era proprioimpossibile; tutti erano stanchi, estenuati, e noncredevano più al successo. Noi stessi resistevamoalla meno peggio solo per un estremo sforzo, perun'ultima tensione morbosa. A Chemnitz, invecedegli attesi soccorsi, trovammo il tradimento.Cittadini reazionari ci arrestarono nei nostri letti

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durante la notte e ci condussero ad Altenburg perconsegnarci alle truppe prussiane.

La commissione d'inchiesta sassone s'è stupita,dopo, che io mi sia lasciato prendere e non abbiatentato di liberarmi. In verità, sarebbe statopossibile sfuggire ai borghesi, ma io ero stanco esenza forze, non solo fisiche ma soprattutto morali,e la sorte che mi aspettava mi lasciavacompletamente indifferente. Mi limitai adistruggere per strada il mio taccuino; speravo divenir fucilato entro qualche giorno, come RobertBlum a Vienna, e la mia unica paura era di essereconsegnato al governo russo. La mia speranza nonsi realizzò: il destino mi riservava un'altra sorte.Così finì la mia vita, inutile, vuota e criminale enon mi rimane che ringraziare Dio per avermifermato sulla via che porta a tutti i delitti.

Sire, la mia confessione è finita. Essa hasollevato il mio spirito. Ho cercato di ricordaretutti i miei peccati e di non dimenticare nulla diessenziale. Se ho dimenticato qualcosa, l'ho fattoper errore. Ed è assolutamente falso, errato ecalunniatore tutto ciò che nelle deposizioni, nelle

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accuse e nelle denunce contro di me è incontraddizione con ciò che qui affermo.

Ora, mi rivolgo di nuovo al mio Sovrano e,cadendo ai piedi di Vostra Maestà Imperiale, Viimploro, Sire. Sono un grande criminale e nonmerito grazia. Lo so, e se la pena capitale mi fossestata destinata, l'avrei accettata come un castigomeritato e quasi con gioia: mi avrebbe sbarazzatodi una insopportabile, di una intollerabileesistenza. Ma il conte Orlof mi ha fatto sapere, daparte di Vostra Maestà Imperiale, che la penacapitale non esiste in Russia. Pertanto, Sire, Ve nesupplico, se la legge non si oppone e se lapreghiera di un criminale può toccare il cuore diVostra Maestà Imperiale, non lasciatemi marcirenella reclusione perpetua. Non punitemi dei mieipeccati tedeschi con un castigo tedesco. Sedovessero toccarmi in sorte i lavori forzati piùduri, li accetterei con riconoscenza e come unagrazia; più penoso sarà il lavoro, più facilmentedimenticherò me stesso. Nella prigione, invece, cisi ricorda di tutto, inutilmente.

L'intelligenza e la memoria si trasformano in

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un supplizio inesprimibile; si vive a lungo, si vivemalgrado se stesso e, senza morire, si muoregiorno dopo giorno nell'inattività e nell'angoscia.In nessun luogo, né nella fortezza di Königstein, néin Austria, sono stato così bene come qui, nellafortezza di Pietro e Paolo, e Dio voglia concederead ogni uomo libero di trovare un capo così buonoe così umano come ne ho trovato uno qui, per unainestimabile fortuna. Pertanto, se potessi scegliere,alla reclusione perpetua nella fortezza preferirei,mi sembra, non solo la morte ma anche la tortura.Un'altra preghiera, Sire. Permettetemi, una sola eultima volta, di vedere la mia famiglia e di darlel'ultimo addio, se non a tutti, almeno al miovecchio padre, a mia madre ed alla mia sorellaprediletta, che non so se vive ancora.

Concedetemi, Voi, il più Gentile dei Sovrani,queste due grandissime grazie, ed io benedirò laProvvidenza che mi ha liberato dalle mani deitedeschi per mettermi nelle mani paterne di VostraMaestà Imperiale.

Avendo perduto il diritto di dichiararmi ilsuddito fedele di Vostra Maestà Imperiale, firmo,

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con animo sincero,

il criminale pentitoMichail Aleksandrovic Bakunin

«Non vedo per lui nessun'altra fine che la

deportazione in Siberia».

Conte Dolgomkov Di pugno dello zar, a matita: «Consento a

fargli rivedere suo padre e sua sorella allapresenza di G. Nobokov».

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LETTERA ALLO ZAR ALESSANDROSECONDO

Maestà Imperiale, Gentilissima Maestà! Voi Vi siete degnato di completare le

numerose grazie di cui sono stato colmato dalmagnanimo e d'imperitura memoria Vostro Padre eda Vostra Maestà stessa, aggiungendo una nuova

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grazia, immeritata, ma che accetto con la piùprofonda riconoscenza. Voi mi avete concesso ilpermesso di scriverVi. Ma che cosa può scrivereun criminale, se non implorare la clemenza del suoSovrano? Così, dunque, Sire, mi è consentito diinvocare la Vostra Clemenza, mi è permesso disperare. Dal punto di vista della giustizia, ognisperanza da parte mia sarebbe follia; ma dinanzialla Vostra Clemenza, Sire, è forse follia sperare?Un debole cuore torturato vorrebbe credere che lapresente grazia è già la metà del perdono; e devofare appello a tutta la fermezza del mio spirito pernon lasciarmi travolgere da una speranzaseducente, ma prematura e forse vana.

Qualunque sia, del resto, la sorte che miriserva l'avvenire, imploro adesso da VostraMaestà il permesso di aprire il mio cuore dinanzia Voi e di parlarVi, Sire, altrettanto sinceramentecome farei dinanzi a colui che fu Vostro Padre,quando Sua Maestà si degnò di ascoltare laconfessione completa della mia vita e delle mieazioni. Adempii alla volontà del Sovrano Defunto,trasmessami dal conte Orlov, mi confessai a Lui,

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come un figlio spirituale si confessa al suoconfessore, e senza riserva mentale. Ora, se la miaconfessione, scritta, me ne ricordo, sottol'impressione di un passato ancora vicino, non hapotuto trovare l'approvazione dello Zar, non hotuttavia mai avuto il minimo motivo di rimpiangerela mia sincerità; al contrario, perché è ad essa edalla magnanimità del Sovrano che ho potutoattribuire l'indulgente attenuazione apportata allamia reclusione. E ancora adesso, Sire, io nonposso e non voglio fondare la mia speranza sullapossibilità di un perdono se non su una franchezzacompleta e assoluta.

Condotto dall'Austria in Russia nel 1851,avevo dimenticato la clemenza delle leggi delpaese e attendevo la morte, ritenendo che l'avevoampiamente meritata. Questa prospettiva non mitormentava molto; desideravo anche lasciare il piùrapidamente possibile una vita che non presentavapiù per me consolazioni nell'avvenire. L'idea cheavrei pagato le mie colpe con la mia vita, miriconciliava col passato e, aspettando la morte,credevo quasi di aver ragione.

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Ma la magnanimità del Defunto Zar si degnò diprolungare la mia vita e attenuare la mia sortenella stessa reclusione. Era una grazia immensa eperciò questa grazia dello Zar è diventata per meil più duro dei castighi. Dopo aver detto addio allavita, fui costretto a tornare a lei, a provare fino aqual punto le sofferenze morali sono più intensedelle sofferenze fisiche. Se la mia reclusione fossestata aggravata da un regime severo, unito aprivazioni maggiori, l'avrei forse sopportata piùfacilmente; ma una reclusione attenuata fino allimite estremo del possibile, che lascia al pensieroogni libertà, diventa un supplizio. I legami dellafamiglia, che ritenevo rotti per sempre, si sonoritrovati riannodati dal generoso permesso diricevere i miei, e questi legami hanno rinnovato inme l'attaccamento alla vita; il mio cuore inaspritosi riaddolcisce a poco a poco al soffio caldodell'amore paterno; la fredda indifferenza, chedapprima consideravo come quiete, cedette a pocoa poco il posto ad un ardente interesse per la sortedella mia famiglia, che avevo perso di vista dalungo tempo, e col rincrescimento della perduta

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felicità e di una tranquilla vita familiare, il mioanimo sentì svegliarsi l'afflizione profonda eindicibilmente dolorosa d'aver distruttoirreparabilmente, e per mia colpa, la possibilità didiventare un giorno, sull'esempio dei miei cinquefratelli, il sostegno della mia famiglia, il servitoreutile e capace della mia Patria. Il testamento dimio padre morente, che io non ho mai cessatod'amare e di rispettare con tutto il mio cuore,anche quando agivo senza tener conto delle sueraccomandazioni; la sua suprema benedizione,mandatemi con mia madre e che mi concesse acondizione di pentirmi sinceramente, trovarono inme un cuore pronto ad aprirsi e da lungo tempocommosso.

Sire, la reclusione è il castigo più terribile;senza la speranza, sarebbe più grande della morte:essa è la morte nella vita stessa, la distruzionelenta, cosciente e provata giorno dopo giorno ditutte le forze fisiche, morali e intellettualidell'uomo; ci si sente diventare ogni giorno piùindifferente, più decrepito, più istupidito e, centovolte al giorno, si invoca la morte come una

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liberazione. Ma questo isolamento atroce haalmeno un vantaggio immenso e indubitabile: mettel'uomo di fronte alla verità ed a se stesso. Neltumulto dell'esistenza moderna, nella correntedegli avvenimenti, si cede facilmente al fascino ealle illusioni dell'amor proprio; ma nella forzatainattività della reclusione, nel silenzio di tombadell'isolamento perpetuo, non ci si può illudere alungo. Se l'uomo ha mantenuto una sola scintilla diverità vedrà certamente nel suo valore tutta la suavita passata ed i suoi giorni reali; e se questa vitaè stata vuota, inutile e nociva come fu il miopassato, il prigioniero diventa il carnefice di sestesso, e per quanto pungenti siano i pensieri chenascono allora, una volta cominciata questaconversazione, non si può più interromperla.Questo lo so per un'esperienza di otto anni.

Sire! Come potrei qualificare il mio passato?Sprecato in aspirazioni chimeriche e vane, esso èfinito in un crimine. Ciononostante, io non avevointeressi personali e non ero cattivo; amavoardentemente il bene ed il vero ed ero pronto asacrificarmi per loro; ma errati principi, una falsa

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situazione ed un colpevole amor proprio mi hannotrascinato in criminali errori; e, avviatomi sullacattiva strada, ho ritenuto mio dovere ed onoreseguirla fino in fondo. Questo mi ha portatonell'abisso in cui sono caduto, da dove solo lamano onnipotente e redentrice di Vostra Maestàpuò trarmi.

Merito questa grazia? Posso solo dire questo:durante gli otto anni della mia reclusione eparticolarmente in questi ultimi tempi, ho soffertotorture che neppure supponevo possibili. Ciò chemi tormentava non era di aver perso le gioie dellavita, bensì la coscienza di essermi da me stessocondannato al nulla, di non aver realizzato, nellamia vita, che crimini, di non aver neppure saputorendermi utile alla mia famiglia, senza dire dellagrande Patria contro la quale ho osato alzare, datraditore, una mano impotente; anche la stessagrazia dello Zar, l'amore e le tenerezze, le cure deimiei genitori, cose che non avevo affatto meritate,si sono trasformate per me in un nuovo supplizio:invidiavo i miei fratelli che hanno potutodimostrare con azioni l'amore per la loro madre,

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che hanno potuto servire, Sire, sia Vostra Maestàche la Russia. Ma quando, all'appello dello Zar,tutta la Russia s'è levata contro i nemici coalizzati;quando, con gli altri, i miei cinque fratelli hannopreso le armi e, abbandonando la loro vecchiamadre, le loro famiglie ed i loro bambini, quandohanno difeso col loro corpo la Patria, allora homaledetto i miei errori, i miei smarrimenti ed imiei delitti che mi hanno condannato ad unainattività vergognosa anche se forzata, nelmomento in cui avrei potuto e dovuto servire loZar e la Patria. La mia situazione mi divenneallora intollerabile, l'angoscia s'impadronì di me enon implorai più che una cosa sola: la libertà o lamorte.

Sire, che Vi dirò ancora? Se potessiricominciare la mia vita la vivrei diversamente,ma, purtroppo, il passato non ritorna. Se potessicancellare il mio passato con delle azioni,supplicherei che mi si concedesse di farlo: il miospirito non si ritirerebbe di fronte alle prove di unservizio espiatorio; sarei felice di cancellare imiei crimini con il mio sudore ed il mio sangue.

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Ma le mie forze fisiche non corrispondono affattoalla forza ed alla freschezza dei miei sentimenti edei miei desideri: la malattia m'ha reso incapacead ogni cosa. Benché non sia vecchio - hoquarantaquattro anni - gli ultimi anni della miareclusione hanno esaurito le mie ultime forze,bruciato il resto della mia giovinezza e della miasalute. Sembro a me stesso un vecchio e sento chenon mi rimane più molto tempo da vivere. Nonrimpiango una vita inattiva e inutile. Un solodesiderio vive ancora in me: respirare un'ultimavolta in libertà, dare uno sguardo al cielo chiaro,alla freschezza dei campi, rivedere la casa di miopadre, chinarmi sulla sua tomba e, consacrando ilresto dei miei giorni a mia madre addolorata dallasorte di suo figlio, prepararmi degnamente allamorte.

Dinanzi a Voi, Sire, non ho vergogna diconfessare la mia debolezza. Lo confessoapertamente: l'idea di morire nella solitudine dellareclusione mi spaventa, mi atterrisce più dellamorte stessa. E dal più profondo del cuore, dal piùprofondo della mia anima, supplico Vostra Maestà

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di liberarmi, se è possibile, da questo supremo eatrocissimo castigo.

Qualunque sia il giudizio che mi riserva ilfuturo, l'accetto fin d'ora con rassegnazione,perché sarà dato in piena giustizia, e oso sperare,Sire, che mi sarà permesso, quest'ultima volta,d'esprimere dinanzi a Voi i miei sentimenti diprofonda riconoscenza verso Vostro Padred'Imperitura Memoria e verso Vostra Maestà, pertutte le grazie che mi sono state concesse.

Un criminale implorante

14 febbraio 1857

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NOTE

N. (1) In margine, di pugno dello zar:

«Con questo già distrugge tutta la mia fiducia;se sente tutta la gravità dei suoi peccati, solouna confessione completa e incondizionatapuò essere considerata una veraconfessione».

N. (2) Di una grande dose di esaltazione;in francese nel testo.

N. (3) Traduzione italiana: Altamurgia,collana «Scrutini», 1970.

N. (4) In margine, di pugno dello zar: «N.B.».

N. (5) Non parlo che dell'EuropaOccidentale, perché in Oriente ed in ogniregione slava - forse tranne la Boemia ed in

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parte la Moravia e la Slesia - il comunismo èfuori posto e insensato.

N. (6) In margine, di pugno dello zar:«Che toccante verità!».

N. (7) L'opuscolo di Bluntschli, adesempio, da lui pubblicato nel 1848 in nomedel governo di Zurigo in occasione delprocesso Weitling, è stato, con l'opera diStein citata prima, una delle cause principalidella diffusione del comunismo in Germania.(Nota di Bakunin).

N. (8) Di pugno dello zar: «E' vero».

N. (9) Per dimostrare la vanità e lamenzogna di tutte le accuse, conclusioni econgetture del signor Bluntschli come di tuttol'edificio da lui costruito su questa base, nonciterò che un solo fatto: Weitling era statocondannato dal Tribunale superiore a uno odue anni di prigione, e non per il suo

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comunismo, ma per una confusa operetta cheaveva, poco prima, pubblicato a Zurigo.Subito dopo la sentenza del tribunale,Bluntschli non imprigionò Weitling, ma loconsegnò al governo prussiano che, dopoaver esaminato la cosa, rimise Weitling inlibertà. (Nota di Bakunin).

N. (10) Di pugno dello zar: «N. B.».

N. (11) Di pugno dello zar: «N. B.».

N. (12) Di pugno dello zar: «Non è vero,ogni peccatore può essere salvato da unpentimento, ma da un pentimento sincero».

N. (13) C'è, probabilmente, un errore;bisogna leggere: dal Belgio.

N. (14) In margine, di pugno di NicolaPrimo: N. B.

N. (15) In margine, di pugno di Nicola

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Primo: N. B.

N. (16) In margine, di pugno dello zar:«E' un torto aver paura di me, io perdonosempre con tutto il cuore».

N. (17) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «La spada della giustizia non tagliauna testa che si confessa colpevole; che Diogli perdoni!».

N. (18) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «Perfetto!».

N. (19) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «Era tempo!».

N. (20) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «Non ne dubito, vuol dire che mi sareimesso alla testa della rivoluzione un po'come un Maresciallo slavo, grazie!».

N. (21) In margine, di pugno di Nicola

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Primo: «Peccato che tu non l'abbia spedita!».

N. (21 bis) Si tratta, ovviamente, di KarlMarx.

N. (22) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (23) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (24) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (25) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (26) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (27) A Breslavia, come a Berlino, idemocratici si preparavano a opporre unaresistenza armata alle prime misure

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reazionarie del governo prussiano. Mai forsela Slesia prussiana fu preparata meglio adun'insurrezione generale popolare. Vedevoquesti preparativi, ne gioivo, ma non cipartecipai personalmente, in attesa dicircostanze più decisive. (Nota dell'autore)

N. (28) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (29) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «N. B.».

N. (30) Devo notare che per mezzo diGustavo Straka mandai anche un messaggio al«Tiglio Slavo», un club ceco più o menodemocratico, ma che Sabina lo trattennegiudicandolo pericoloso. (Nota dell'autore)

N. (31) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «Schiacciante verità!».

N. (32) In margine, di pugno di Nicola

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Primo: «Verità incontestabile!».

N. (33) In margine, di pugno di NicolaPrimo: «E' vero!».