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LADOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 18 MARZO 2012 NUMERO 368 CULT La copertina ASPESI E SPARKS Amore e lieto fine dai film ai romanzi il “rosa” conquista gli altri generi La recensione BENEDETTA TOBAGI Quella piccola in cerca del padre nella generazione dei figli della Shoah All’interno L’intervista LEONETTA BENTIVOGLIO De La Grange “Così ho scritto seimila pagine su Mahler” L’opera ANGELO FOLETTO “La Donna” di Strauss incontra Freud alla Scala Il libro ALESSANDRO BARICCO Una certa idea di mondo: cos’è la sensibilità per Christa Wolf Lady Brighella, sessant’anni di rebus italiano Le storie STEFANO BARTEZZAGHI e ANTONELLA SBRILLI PARIGI « I miei genitori mi hanno raccontato che prima anco- ra di cominciare a parlare stavo ore davanti ai film di mostri, senza averne alcuna paura. L’emozione più forte l’ho provata la prima volta in cui ho visto preci- pitare King Kong dall’Empire State Building. Ancora oggi quando al- la fine di un film il mostro muore, mi commuovo sempre. Perché nel corso della proiezione siamo diventati amici. Da bambino mi senti- vo consolato da Frankenstein: era come me, inadeguato e incom- preso». Testa arruffata, i mille riccioli in battaglia, barbetta, palpebre cariche di sonno, ampi gesti che chiudono in cerchio il suo sguardo arguto, Tim Burton, stropicciato Peter Pan di 54 anni, parla e sogna, accettando di raccontarsi a Repubblica. Lo fa mentre Parigi lo cele- bra alla Cinémathèque Française con un’impressionante esposi- zione di bozzetti, scritti, storyboard da cui ha preso forma il suo ci- nema: una gioiosa festa di mostri, un carnevale di teneri orrori, un défilé di fantasmi e scheletri. Più che una mostra, una radiografia. «E perché non una cartella clinica?» ride Burton. «Questa mostra mi mette a nudo, registra lo stato febbrile che precede la nascita di sto- rie e personaggi su fogli vaganti o tovagliolini di carta, tra frenesie di matite e pastelli a cera. Edward mani di forbice ha preso forma così: da un impulso a scarabocchiare la stessa figura senza sapere cosa ne sarebbe uscito. L’ho capito dopo: un personaggio cui le dita di lame impedivano ogni contatto con gli altri. Sleepy Hollow è nato invece dall’idea di opporre un personaggio razionale, tutto testa, a uno im- maginifico, senza testa». Il suo incubo più ostinato e dichiarato, nei disegni come nei film, sembra essere il luogo della sua infanzia: perché? «Sfido chiunque a sopravvivere all’opaca banlieue hollywoodia- na di Burbank, landa immobile senza cambio di stagioni. Bello e temperato tutto l’anno: questo il clima dei miei anni infantili. Ho fi- nito per trascinarmi per ore nelle corsie del supermarket a Natale, Pasqua, Hallowen: gli scaffali con prodotti di volta in volta diversi mi sono serviti a scandire l’esistenza». (segue nelle pagine successive) Sono l’amico dei mostri Scheletri, zombi e mani di forbice Il più visionario tra i registi racconta a “Repubblica” gli incubi di un ex bambino TIM BURTON FOTO WILLIAM LAXTON/CORBIS MARIO SERENELLINI Viaggio in Russia, la rivoluzione può attendere Il reportage EMMANUEL CARRÈRE Repubblica Nazionale

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LA DOMENICADIREPUBBLICA DOMENICA 18MARZO 2012

NUMERO 368

CULT

La copertina

ASPESI E SPARKS

Amore e lieto finedai film ai romanziil “rosa” conquistagli altri generi

La recensione

BENEDETTA TOBAGI

Quella piccolain cerca del padrenella generazionedei figli della Shoah

All’interno

L’intervista

LEONETTA BENTIVOGLIO

De La Grange“Così ho scrittoseimila paginesu Mahler”

L’opera

ANGELO FOLETTO

“La Donna”di Straussincontra Freudalla Scala

Il libro

ALESSANDRO BARICCO

Una certaidea di mondo:cos’è la sensibilitàper Christa Wolf

Lady Brighella,sessant’annidi rebus italiano

Le storie

STEFANO BARTEZZAGHIe ANTONELLA SBRILLI

PARIGI

«Imiei genitori mi hanno raccontato che prima anco-ra di cominciare a parlare stavo ore davanti ai film dimostri, senza averne alcuna paura. L’emozione piùforte l’ho provata la prima volta in cui ho visto preci-

pitare King Kong dall’Empire State Building. Ancora oggi quando al-la fine di un film il mostro muore, mi commuovo sempre. Perché nelcorso della proiezione siamo diventati amici. Da bambino mi senti-vo consolato da Frankenstein: era come me, inadeguato e incom-preso». Testa arruffata, i mille riccioli in battaglia, barbetta, palpebrecariche di sonno, ampi gesti che chiudono in cerchio il suo sguardoarguto, Tim Burton, stropicciato Peter Pan di 54 anni, parla e sogna,accettando di raccontarsi a Repubblica. Lo fa mentre Parigi lo cele-bra alla Cinémathèque Française con un’impressionante esposi-zione di bozzetti, scritti, storyboard da cui ha preso forma il suo ci-nema: una gioiosa festa di mostri, un carnevale di teneri orrori, undéfilédi fantasmi e scheletri. Più che una mostra, una radiografia. «E

perché non una cartella clinica?» ride Burton. «Questa mostra mimette a nudo, registra lo stato febbrile che precede la nascita di sto-rie e personaggi su fogli vaganti o tovagliolini di carta, tra frenesie dimatite e pastelli a cera. Edward mani di forbice ha preso forma così:da un impulso a scarabocchiare la stessa figura senza sapere cosa nesarebbe uscito. L’ho capito dopo: un personaggio cui le dita di lameimpedivano ogni contatto con gli altri. Sleepy Hollow è nato invecedall’idea di opporre un personaggio razionale, tutto testa, a uno im-maginifico, senza testa».

Il suo incubo più ostinato e dichiarato, nei disegni come nei film,sembra essere il luogo della sua infanzia: perché?

«Sfido chiunque a sopravvivere all’opaca banlieue hollywoodia-na di Burbank, landa immobile senza cambio di stagioni. Bello etemperato tutto l’anno: questo il clima dei miei anni infantili. Ho fi-nito per trascinarmi per ore nelle corsie del supermarket a Natale,Pasqua, Hallowen: gli scaffali con prodotti di volta in volta diversi misono serviti a scandire l’esistenza».

(segue nelle pagine successive)

Sono l’amicodei mostri

Scheletri, zombi e mani di forbiceIl più visionario tra i registiracconta a “Repubblica”gli incubi di un ex bambino

TIM BURTON

FO

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MARIO SERENELLINI

Viaggio in Russia,la rivoluzionepuò attendere

Il reportage

EMMANUEL CARRÈRE

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 MARZO 2012

La copertinaL’amico dei mostri

(segue dalla copertina)

Oltre agli scaffali dei su-permarket c’erano glihorror di serie B e fu-metti come B.C. diJohnny Hart che le haispirato il suo primissi-

mo corto animato, Cavemen. Avevasolo tredici anni...

«Fin da bambino l’immagine per meè stata un mezzo di comunicazione piùspontaneo della parola. Il disegno è di-ventato pian piano un mezzo peresplorare il mio subconscio: l’antica-mera non programmata del mio cine-ma. È il mio subconscio, non la miamente, il responsabile di ossessionicon cui poi mi tocca coabitare per al-meno uno o due anni, il tempo dellapreparazione di un film».

Fin da piccolo ha alternato matite ecinepresa.

«Come probabilmente a ogni bambi-no, a me è sempre piaciuto disegnarema anche girare film in super8. Forsecon perversione precoce non m’ero maidato un obiettivo concreto in questepratiche. Finché non ci mise lo zampinola scuola, di cui ero un pessimo allievo,assegnandomi un giorno un compitospaventoso: leggere un intero libro etrarne cinquanta pagine di commento.Non mi è mai piaciuto leggere: fin dabambino ho evitato scrupolosamente ifumetti con troppo testo. Invece dellarelazione scritta ho girato un super8 suHoudini, mio secondo film amatoriale,nello stesso anno di Cavemen, ma dal vi-vo. Senza avere scritto una riga ho presodieci e lode. Ho capito allora che questapoteva essere la strada da percorrere:creare qualcosa di nuovo».

Magia, circo, favola nera: il suo è ununiverso di apparizioni oblique, piùprossimo a esuberanze oltretombali,a exploit dall’aldilà che alle piattezzedella vita.

«Avere a che fare con gli zombie miviene proprio da Burbank, un ambien-tino da Notte dei morti viventi alla lucedel giorno. Da una parte sono stato se-polto vivo dentro una cultura chiusa epuritana in cui la morte era l’argomentolugubre da scongiurare, dall’altra vive-vo a due passi da una comunità ispano-messicana dove si celebrava el dìa de losmuertos come un inno alla vita e gli sche-letri — calaveras — erano protagonistidi feste di colore, musica e danza: un ap-proccio più positivo ai nostri enigmi,senza tabù bigotti».

È così che hanno preso vita i suoi te-schi festosi, da Nightmare Before Ch-ristmas a Mars Attacks! a La sposa ca-davere?

«Si è detto spesso dei miei film che so-no soltanto personali fantasmi, senzalegami con la realtà. Io non faccio cheimmergermi nei miei sogni per aiutarmia attraversare la quotidianità e non vedoin che cosa sogno e realtà potrebberoopporsi: sono anzi convinto che il sognoè realtà. Per questo esistono le fiabe co-me Alice nel Paese delle meraviglie: tutterappresentazioni di sogni, di assolutacoerenza nel proprio universo, in fran-tumi quando se ne esce. In quella bollaimpermeabile e immutabile di Bur-bank, all’ombra degli imperi Disney eWarner Bros, non potevo che essere ilcorpo estraneo: tutti, ben intruppati innorme e sicurezze, mi consideravano

un’anomalia, un mostro. Di qui il mio ri-fiuto viscerale di norme e etichette».

L’isolamento è stato l’unica reazioneal natìo borgo selvaggio?

«La pacatezza soporifera dei luoghi miha indotto a rivolte solitarie, provocazio-ni di humour macabro e messinscenefarsesche, ispirate dai miei horror prefe-riti: diffondevo per esempio la voce cheun disco volante era atterrato nel parco,dove avevo costruito una carcassa e trac-ciato impronte misteriose, o che un eva-so sanguinario s’aggirava nel quartiere,dove mi facevo trovare travestito da as-sassino per seminare il panico».

Una sopravvivenza creativa, come ascuola?

«È stato anche un modo di difender-mi da un nucleo familiare — padre, ma-dre, fratello minore — incompatibile,moderatamente ma ineluttabilmenteantifunzionale. Mio padre, al quale misono sempre tenacemente opposto,era addetto a un centro sportivo. Miamadre aveva un negozio, Cat’s Plus, diarticoli da regalo, tutti di sembianze fe-line. La loro unica preoccupazione erache non diventassi un delinquente. Adieci anni ho traslocato da mia nonna.A quindici, ho cominciato a vivere dasolo in uno stanzino sopra il suo garagepagandole l’affitto con i soldi racimola-ti lavorando in un ristorante. A sedici,sono entrato alla CalArts, la scuola perla formazione di giovani animatori fon-

data nel 1961 da Walt Disney».Lei è stato il primo soggetto del suo

cinema: Vincent, corto d’esordio uffi-ciale, stop motion di sei minuti, nell’82.

«È il mio lavoro più direttamente au-tobiografico, insieme a Edward e EdWood, i miei preferiti. È su un bambinosolitario e sognatore, estraneo al mon-do, posseduto da una passione gemella:Edgard Allan Poe, con le sue donne se-polte vive, e Vincent Price, star degli hor-ror tratti da Poe. Ho voluto anche ren-dere omaggio a Price — maestosa voceoffdel mio corto — che, con ChristopherLee, Bela Lugosi, Peter Lorre, è tra i mo-stri che mi hanno salvato la vita, risolle-vandomi dalla depressione psicologicadegli anni d’infanzia».

Come ne è uscito?«Da piccolo mi sentivo un sopravvis-

suto, non avevo voglia di nulla, ero sem-pre insonnolito. Un’anemia del viveresu cui mi sono strascicato fino agli annidi lavoro alla Disney, dove avevo perfe-zionato una tecnica per dormire: dueore al mattino, due al pomeriggio, da-vanti ai miei disegni, con la matita in ma-no, pronto a riscuotermi e farmi vedereattivo. Trascorrevo ore e ore rinchiusonella mia camera: mi nascondevo sottola scrivania o nell’armadio a muro. I di-segni a getto continuo e i film horror intv erano i miei antidolorifici: mi hannofatto uscire da una spirale pericolosa, mihanno indicato il cammino».

Quello additato in Ed Wood? “Per-ché passare la vita a fabbricare i sognidi qualcun altro”?

«Quello. Ogni film è stato per me uncombattimento, una sfida a Hollywood

che ha sempre sospettato di me, dellamia singolarità. Ho impiegato una vitaper cercare di diventare un essere uma-no. Mentre l’America cercava di fare dime una mercanzia. Ma ho avuto anchela fortuna di incontrare maestri che miincitavano a essere quel che ero, cioè amettere nei disegni me stesso e non iprecetti degli insegnanti. Da allora, ilmio rapporto con la Disney è stato am-bivalente. Le mie sequenze per TheBlack Cauldron non sono mai entratenel film: il cartoon non era un granché,ma, a rivederli, i miei disegni erano abo-minevoli. La Disney ha poi prodotto imiei primi due corti, Vincent eFrankenweenie, ma li ha distribuiti adenti stretti e alla chetichella. Ora peròla versione lunga, in stop motion, delmio Frankenstein canino del 1984verrà tenuta a battesimo ad Hal-loween proprio dalla Disney».

Perché le fiabe hanno quasisempre un che di tenebroso?

«È la loro natura. La grandeletteratura per l’infanzia pos-siede sempre una forte dosesovversiva. È questo che mi di-verte. Crescendo, dimentichia-mo che quel che più ci era pia-ciuto nelle fiabe lette da piccoli èquel che ci aveva terrorizzato. Nel-le favole si uccide molto e in modospesso molto crudele. La tradizionepopolare, la mitologia greca e persinola Bibbia sono ricolme di immagini diterribile violenza. Nessuno lo dice,ma I dieci comandamentiè uno deipiù grandi film horror di tutti itempi. E mia figlia, che ha visto lamia Alice a tre anni, si è divertitasoprattutto davanti alle scenepaurose. E i bambini sono semprei migliori giudici, no?».

“Da bambino a consolarmi ci pensava Frankenstein:

era come me, inadeguato e incompreso”. Mentre Parigilo celebra esponendo i disegni fantastici della sua carriera, il registasi confessa a “Repubblica”. A partire da un’infanzia difficilee da un’adolescenza solitaria: “Volete sapere chi mi ha tirato fuori da guai?”

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BurtonTim

“Le fiabe nereche mi hannosalvato la vita”

MARIO SERENELLINI

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DOMENICA 18 MARZO 2012

LA MOSTRA

Unica e ultima tappa in Europadell’omaggio del 2009 al MoMa

di New York, la mostra su Tim Burtonalla Cinémathèque Française di Parigi

raccoglie un raro campionariodi disegni, fotografie, sculture, dipinti,

provenienti in gran partedalla collezione personale del regista

In programma, fino al 5 agosto,incontri, master class, l’integrale

dei suoi film, tra cui i super8 amatorialirealizzati da bambino e inediti assaggidi Frankenweenie e di Dark Shadows,

con Johnny Depp, battesimoannunciato in maggio a Cannes

LE IMMAGINI

Sopra, disegnie dipinti dal setin mostraa Parigi. Sotto,Tim Burtoncircondatoda alcunidei suoi mostri:dalla Sallydi NightmareBeforeChristmasa Edwardmani di forbice

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 MARZO 2012

Psicoanalisti di boss mafiosi, finti manifestanti di regime,dissidenti che vanno in vacanza in Messico, intellettuali vipUn grande scrittore spiega perché con le ultimeelezioni la Russia ha avuto paura di far cadere Putin

E perché le voci da ascoltare, come racconta nel suo ultimo libro,sono quelle del vecchio Limonov e del giovane Prilepin

Il reportageChe fare?

La rivoluzione russache non ci sarà

EMMANUELCARRÈRE

MOSCA

Verso la metà degli anni NovantaAlex voleva fare lo psicoanalista,professione ancora ai primi passi inRussia: la sua carriera ebbe una

svolta inattesa quando il parafango della sua scal-cinata autovettura urtò quello di una Mercedescon i vetri oscurati. I due scimmioni usciti dall’au-to gli fecero capire senza mezzi termini che quellascalfittura gli sarebbe costata cara. Non avendo luidi che pagare, i due lo caricarono in macchina e selo portarono dietro. Credendo che fosse arrivata lasua ora, Alex cercò non di parlare lui ma, più abil-mente, di far parlare loro. Non mi sa dire come ciriuscì, fatto sta che nel giro di mezz’ora uno dei dueaveva cominciato a raccontargli ricordi crudeli del-l’infanzia e piangeva a calde lacrime. La faccendarisalì fino al capo, un mastodontico mafioso uz-beko. Diversi suoi amici erano stati mandati alcreatore recentemente e lui cominciava a prende-re coscienza della precarietà della vita: era in predaa una specie di depressione. È così che Alex, comenella serie televisiva I Soprano, è diventato uno psi-coanalista per mafiosi.

Racconto questa storia, già parecchio datata,perché è dall’alto di questa competenza che Alexmi ha dato il suo parere su quello che ci si potevaaspettare dalle elezioni di marzo. Niente. Nienteperché la politica (è Alex che parla) in Russia non hanessuna importanza: qui il vero potere è nelle ma-ni delle mafie, che si comportano come degli azio-nisti che il giorno in cui l’amministratore delegatocesserà di essere popolare troveranno senza pro-blemi qualcuno di più presentabile per sostituirlo,all’apparenza un po’ più democratico. Il problemaquindi non è Putin: se il malcontento persisterà,sarà cacciato in favore di un altro uomo di facciata,e tutto continuerà come prima. Potete viaggiare,dire quello che volete, guadagnare soldi, rubarli,ma non potete dire la vostra sulla direzione del Pae-se: non è faccenda che vi riguardi. Perché questostato di cose cambi ci vorrebbe una rivoluzione au-tentica, cosa che nessuno si sogna di fare. Ecco per-ché anche Alex, che pure era stato uno degli eroisulle barricate nel 1991, oggi non ha la minima vo-glia di andare a manifestare accanto a questi vippieni di sé, gli Akunin, le Ulickaja, i Bykov, i Par-chomenko, che piacciono tanto ai commentatorifrancesi e ai quali ben si attaglierebbe, se non fossegià presa, l’etichetta di gauche caviar: lui, la dome-nica, preferisce andare a giocare a tennis.

Era il primo giorno del mio soggiorno in Russiae subito dopo aver incontrato Alex sono andato afar visita a Eduard Limonov. Dovevamo festeggia-re il successo del libro che ho scritto su di lui, e poiè sempre interessante ascoltarlo, perché è uno cheparla senza peli sulla lingua. La differenza tra Li-monov e Alex è che lui sogna sempre la rivoluzio-ne e Alex non la sogna affatto, ma concordano nelloro disprezzo per quelli che Limonov chiama i

«leader borghesi». Dice che in autunno, dopo loscambio di poltrone fra Putin e Medvedev e dopoquelle elezioni legislative così spudoratamentetruccate, c’è stata una vera indignazione popola-re, ma che quella indignazione è stata riassorbita,indebolita, svuotata da quella banda di intellet-tuali che si è messa a manifestare non appena è sta-to chiaro che non si correva più alcun pericolo, e acui poco dopo si sono uniti vari politici opportuni-sti; e tutti, come un sol uomo, dal 24 dicembre al 4febbraio se ne sono andati in vacanza: il bloggerNavalny in Messico, gli altri al mare.

Non si può fare a meno di scorgere, nelle paroledi Limonov, l’amarezza del pioniere che era l’uni-co a fare una cosa quando per farla ci voleva co-raggio, quando c’era davvero il rischio di finiredentro, e non per qualche ora ma per anni interi, eche ora se la vede trafugare da persone che a farlarischiano ben poco. Ma osserva anche che duemesi fa tutti erano convinti che lui fosse fuori stra-da, mentre ora in tanti gli danno ragione: c’è statauna vera occasione, non di fare una rivoluzione,ma di agire con efficacia, un’occasione di influiresul potere e ottenere le riforme autentiche che ve-nivano rivendicate — riforma elettorale, libera-zione dei prigionieri politici — e l’opposizione nonha saputo coglierla. Uno spiraglio si è aperto per ri-chiudersi subito dopo, e tutto è tornato come pri-ma. Lo sentirò dire spesso.

Le manifestazioni in auto sono una specificitàrussa. Per una ragione evidente, e cioè che in mac-china fa meno freddo che a piedi, ma anche per-ché il russo medio in macchina ci passa un temposmisurato, bloccato in ingorghi mostruosi, con ledonne che in alcuni casi si provvedono di panno-loni per poter alleviare la vescica. E uno dei segnipiù indigesti dell’arroganza dei ricchi e potenti è illampeggiante che mettono sul tetto della loro au-to per sottrarsi a questa schiavitù comune. Da dueo tre anni, su internet, piovono denunce di questeviolazioni del codice della strada da parte di per-sone che non hanno nessuna ragione valida per

essere dotate di un lampeggiante, di vecchietti ebambini che finiscono sotto le ruote di questi mac-chinoni neri che corrono all’impazzata e i cui gui-datori, o i loro datori di lavoro, la passano sempreliscia. Questo è il tema su cui più di tutti si coagulail malcontento popolare, e da quando un certoShkumatov ha avuto l’idea, in segno di scherno, diincollare sul tetto della sua auto un secchiello az-zurro di quelli che i bambini usano in spiaggia, lemanifestazioni dette «dei secchielli blu» si sonomoltiplicate, e l’opposizione ci si è ispirata.

È così che mi sono ritrovato, trascinato da unamico giornalista, a srotolare lo scotch con le ditaintirizzite per fissare uno di questi secchielli sul-l’auto del deputato di Novosibirsk Ilija, Ponoma-rev. Probabilmente Limonov pronuncerebbe giu-dizi sferzanti su questo Ponomarev e lo trattereb-be da utile idiota: appartiene a Spravedlivaja Ros-sja (Russia giusta), una formazione che in molticonsiderano un finto partito d’opposizione, stru-mentalizzato dal Cremlino; ma nessun partito, seè per questo, sfugge a sospetti di questo genere (omeglio, qualcuno sì: i comunisti di Zyuganov, adesempio, ma anche se l’idea è di rompere le scato-le a Putin a qualunque prezzo, bisogna avere pa-recchio pelo sullo stomaco per votare comunistain Russia). Ponomarev, in ogni caso, ha una bellafaccia, è un uomo giovane, gioviale, caloroso ed èstato piacevole, stipati in cinque o sei nella sua au-to, girare lungo la circonvallazione interna di Mo-sca suonando il clacson e abbassando i finestrini,sfidando il freddo, per scambiarsi gesti calorosicon gli occupanti di altre macchine equipaggiatecon un secchiello azzurro come la nostra o conquei nastri bianchi che sono diventati il simbolodell’opposizione a Putin (il quale ha finto di scam-biarli per dei preservativi). Sembrava un matri-monio: persone di tutte le età erano appostate sulmarciapiede per applaudire il passaggio delle au-tomobili infiocchettate. Qualcuno, sprovvisto dinastri, agitava dei palloni o delle buste di plastica,l’essenziale era che fossero bianchi. In questo am-biente da festa della maturità, Ponomarev telefo-nava in continuazione per cercare di sapere quan-ti eravamo. Tremila macchine secondo gli orga-nizzatori, trecento secondo la polizia: questa di-vergenza di cifre è un classico, ma per amore di ve-rità bisogna dire che dall’interno di una di questeauto era impossibile riuscire a farsi un’idea anchevaga del successo della manifestazione, e comun-que tremila macchine su una grande arteria discorrimento non sono un corteo granché nutrito.Le cifre sui manifestanti sono la posta in gioco diun’escalation senza fine: ogni volta che l’opposi-zione si vanta di aver portato in piazza, poniamo,diecimila persone, il partito di Putin, Russia unita,si farà un punto d’onore di radunarne centomilaun’ora dopo.

Un’altra posta in gioco sono le autorizzazioniper le manifestazioni: bisogna dire quante perso-ne sono previste e quale tragitto si intende percor-rere; sono tutte cose che si negoziano con il pote-re e quelli, come l’ex ministro di Eltsin, Boris Nemt-sov, che hanno fama di essere abili in questi nego-ziati sono immediatamente sospettati di compro-messo, se non addirittura di tradimento. È uno deigrandi rimproveri che gli muove Limonov: invecedi correre il rischio di scontri di piazza manife-stando nei pressi del Cremlino, Nemtsov ha la-sciato che le manifestazioni si impantanassero in

un luogo del tutto privo di rischi per il potere, e chenon a caso si chiama Bolotnaja, “la palude”.

Durante tutto il mio soggiorno, una delle mieoccupazioni principali è stata seguire su internetle voci che annunciavano manifestazioni e con-tro-manifestazioni quasi quotidiane, e di cui, a di-re il vero, pochi sembravano essere informati. LaLega degli elettori (ossia i «leader borghesi» tantovituperati da Limonov) ha programmato, la do-menica precedente il primo turno elettorale, unacatena umana lungo la stessa circonvallazione pe-riferica che avevamo percorso in macchina: per-ché l’iniziativa riuscisse servivano trentaquattro-mila partecipanti. È stato aperto un sito su internetdove ci si poteva iscrivere segnalando il punto incui si voleva andare: otto giorni prima dell’eventoeravamo a quota milleduecento. Il mio volo di ri-torno era prenotato per quella domenica, ho deci-so di posticiparlo.

Il complesso Artplay è ricavato da vecchi ma-gazzini trasformati in ristoranti, gallerie d’arte, stu-di di architettura; tutti gli esponenti più in vista del-l’opposizione affollano una mostra che celebra lacreatività delle proteste iniziate a dicembre: cartel-li, magliette con stemmi, maschere di carnevale,tutte variazioni sul tema “Fuori Putin”. Alcuni so-no molto divertenti, ma dà da pensare la rapiditàcon cui questa recentissima cultura della ribellio-ne si trasforma in arte contemporanea, e bisognaammettere che è proprio questo il problema del-l’opposizione moscovita: il suo essere incorreggi-bilmente modaiola. Sembra di essere al cocktail diinizio anno della rivista Inrockuptibles, in Francia,dove tutti sono giornalisti, artisti, performer, tuttihanno il loro sito o il loro blog, e naturalmente la lo-ro pagina Facebook. Il potere definisce questi gio-vani «gli hamster [criceti, ndr.] di internet», loro siautodefiniscono gli hipster, cioè gli stilosi (in russole due parole inglesi si pronunciano gamster e ghi-pster, perché la “h” aspirata diventa “g” dura).Quando Putin ripete ossessivamente che quelliche manifestano contro di lui sono il partito deglistranieri e sono tutti pagati dalla Cia, ci si accon-tenta di sorridere, ma non si può fare a meno di con-siderare la tesi di chi sostiene che rappresentanosoltanto un’infima minoranza della popolazione,che non hanno niente a che vedere con la vera Rus-sia. Questa “vera Russia”, che nessuno dubita pos-sa vincere anche senza brogli, devo confessare dinon averla vista nel corso di questo viaggio. Il fattoè che non conosco nessuno che si fregi di apparte-nervi ed è troppo triste andare da solo a una mani-festazione, soprattutto con questo freddo infame.Le loro manifestazioni però ci sono, e sono impo-nenti, ma anche in questo caso quello che si vedesu internet dà da pensare.

Prendete il grande comizio allo stadio Luzhniki.Centotrentamila persone secondo gli organizza-tori e secondo la polizia, per una volta concordi.Dato che l’autorizzazione ufficiale era stata richie-sta per centomila persone, la nuova civetteria delpotere consiste nel chiedere scusa, con un legali-smo finora mai riscontrato, per il superamento im-previsto del numero dichiarato, e pagare l’am-menda relativa: duemila rubli, poco meno di 50 eu-ro. Putin, che pure centellina le sue apparizioni, èvenuto di persona. Arringa la folla insistendo ap-punto sul tema della vera Russia, e della minacciache rappresentano per essa coloro che non la ama-no. «Voi amate la Russia?». «Sì!», risponde la folla

EMMANUEL CARRÈRE

L’AUTORE

Scrittore, sceneggiatore,regista e criticocinematograficoEmmanuel Carrèreè nato a Parigi nel 1957È un appassionatodi letteratura russaCon la biografiaromanzata dello scrittoree dissidente politicorusso Eduard Limonovha vinto il premioRenaudot 2011

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 MARZO 2012

Potete spostarvi, potetedire quello che volete,guadagnare soldi, rubarli,ma non potetedire la vostrasulla direzione

del Paese:non è faccendache vi riguardi

entusiasta. «Siete pronti a difenderla?». «Sì!». Tuttobello e buono, ma quando, alla fine del comizio, igiornalisti intervistano i partecipanti, molti si sot-traggono alle domande con diffidenza, qualcunoammette che è stato pagato, o ha subìto forti pres-sioni per venire; e quelli che dicono il contrario lofanno con uno zelo sospetto, come quel tizio dal-l’aria tetra che brandisce un cartello con soprascritto: “Sono venuto di mia volontà”. Questa follasarà anche la vera Russia, ma assomiglia soprattut-to all’Unione Sovietica. Allora non si manifestava,si sfilava. Oggi c’è una Russia che continua a sfilaree una Russia che manifesta. Quella che sfila lo fa piùo meno strascicando i piedi, quella che manifestalo fa perché ci crede, perché ne ha voglia, perché èdivertente. Poco importa il numero, quindi: la se-conda ha già vinto.

È appena uscito in Francia un film intitolato Ri-tratto al crepuscolo che a mio avviso è il migliorefilm russo da parecchi anni a questa parte. Consi-derando che la trama si sviluppa in modo moltoinaspettato, per non guastare la visione ai lettoridirò semplicemente che parla di una ragazza dellaclasse media che i suoi amici, quando alzano i bic-chieri per brindare al suo compleanno, possono di-chiarare realizzata: un marito gentile, che non siubriaca e che guadagna bene facendo affari, unmestiere interessante, un appartamento in centro.Insomma, tutto le va bene. Fino al giorno in cui de-gli sbirri di pattuglia la caricano in macchina, la vio-lentano e la lasciano sul bordo della strada e puòanche dirsi fortunata di non essere stata pestata. Inseguito ritorna sui luoghi dove tutto è successo, in-dividua uno dei suoi stupratori e ci si aspetta che sivendichi, però... Da qui in poi non vi racconto piùla trama, andate a vedere il film; una cosa però ve laposso dire: è universale perché è una storia d’amo-re, ma è anche straordinariamente russa. Rivisita inchiave moderna la vecchia contrapposizione, cheattraversa tutto il XIX secolo e tutta la grande lette-ratura russa, fra occidentalisti e slavofili. Da un la-to la borghesia rampante che aspira a vivere, e difatto vive, come a Parigi o a Londra: i giovani che so-no su Facebook e che vediamo tamburellare sullatastiera dei loro MacBook Pro negli Starbucks del-le grandi città. Dall’altra la Russia dei piccoli centrie dei villaggi, arretrata, alcolizzata, brutale, lurida:ma, dicono gli slavofili, è qui che sta l’anima dellanazione. L’eroina di Ritratto al crepuscolo incarnala prima Russia, lo sbirro stupratore la seconda, e ilfilm, senza nessun dogmatismo, traccia un cam-mino accidentato fra l’una e l’altra. In termini poli-tici, la trasposizione sembra scontata: l’emergenteclasse media deve il suo crescente slancio, il suocrescente benessere e la sua crescente libertà a Pu-tin, ed è la classe media che oggi manifesta controdi lui; le province arretrate, che hanno molte più ra-gioni per lamentarsi, gli restano invece fedeli.

Ritratto al crepuscolo è stato fatto, con pochissi-mi soldi e tanto talento, da due giovani donne: An-gelina Nikonova, regista, e Olga Dychovishnaja,sceneggiatrice e attrice principale. Le avevo incon-trate brevemente a Parigi, e quando sono arrivatoa Mosca Olga mi ha invitato a cena a casa sua. Pri-ma sorpresa: casa sua non è un piccolo apparta-mento, come quelli in cui vive la maggior parte deirussi che conosco, ma una magnifica dacia che siraggiunge passando dalla Rubljovka, la strada cheserve i sobborghi più esclusivi della parte ovest diMosca e che è diventata il simbolo della cultura del

«lampeggiante». In queste abitazioni nascoste die-tro muri altissimi, protette da milizie private, vivo-no i ricchi e potenti. Amico lettore che hai visto ilfilm e come me sei rimasto affascinato da Olga nonhai motivo di rimanere deluso. A casa sua non c’ènessuna ostentazione, nessuna pacchianeria danuovi russi. In casa sua, come in lei, tutto è grazia esemplicità. Ma questa grazia e questa semplicitànon sono quelle della borghesia rampante che ilfilm ritrae, sono indiscutibilmente quelle dell’élitee mi accorgo improvvisamente che questa élitenon è poi cambiata di molto dai tempi dell’UnioneSovietica. Di serate del genere, con invitati squisi-tamente colti e poliglotti, inframmezzate da brin-disi, da sudate nella sauna raggiunta correndo at-traversando il giardino innevato e da canzoni esal-tate intonate da una bella georgiana che si accom-pagna con la chitarra, dovevano essercene di esat-tamente identiche, in posti identici, ai tempi in cuiNikita Mikhalkov non era lo spaventoso despotache è diventato, ma un giovane regista di inebrian-te carisma e talento. E quando affronto l’argomen-to della politica, nessuno si tira indietro, al contra-rio: tutti adorano parlare di politica, e naturalmen-te tutti sono contro Putin, ma contro Putin comel’élite culturale di quarant’anni fa era contro Brez-nev. Si parlava male di lui, del regime e dei gulag, mala verità è che chi apparteneva alla nomenklaturaculturale sotto Breznev viveva come un re, faceva ifilm che voleva e non aveva nessun motivo di desi-derare che le cose cambiassero. Allora sì, si può ri-dere, e ridere di gusto, degli spot elettorali che mo-strano “la Russia senza Putin” (file di gente davan-ti ai negozi vuoti, folle stravolte che si aggirano perstrade devastate, guerra civile), ma quando Putindice, in sostanza, «Il partito degli stranieri ci augu-ra questa cosa meravigliosa, una “primavera ara-ba”, ma voi la volete questa “primavera araba”? Vo-lete che la Russia diventi come l’Egitto? O come laLibia?», tutti, tranne qualche illuminato come Li-monov, sono costretti a rispondere: «No, non la vo-gliamo». Sono felicissimi di manifestare, perché è

nuovo e divertente avere il diritto di farlo. Sarebbe-ro felicissimi di avere delle elezioni più pulite, per-ché queste usanze da repubblica delle banane fan-no venire da vergognarsi. Sarebbero felicissimi diavere qualcuno più giovane e aperto di Putin, per-ché il presidente russo è come Rambo: il primo e ilsecondo ancora si reggevano, ma dal terzo in poi lasensazione netta è della minestra riscaldata. Ma acondizione che tutto avvenga senza traumi, e sen-za lasciare il certo per l’incerto. Putin parla innan-zitutto di stabilità, e la stabilità è un bene prezioso.

I putiniani sono introvabili. Pensavo di incon-trarne qualcuno in provincia, nei bastioni della“vera Russia”, ma devo ammettere che andare aNizhnij Novgorod per vedere Zachar Prilepin nonera la strategia migliore per scovarli. Prilepin, anemmeno quarant’anni, è riconosciuto, nel suoPaese e all’estero, come uno dei migliori scrittorirussi. Lui non è un prodotto dell’élite moscovita,ma un ragazzotto di provincia che è stato soldato inCecenia e poi militante del Partito nazional-bol-scevico, i crani rasati di Limonov. Lui peraltro haancora il cranio rasato, le Doc Martens ai piedi, unpaio di begli occhi azzurri e qualcosa di assoluta-mente commovente nel modo in cui si sforza diconciliare la sua condizione di autore celebrato, in-vitato nel mondo intero, sollecitato dalla gente checonta, e la sua fedeltà al mondo di amici in cui è cre-sciuto e su cui continua a scrivere: non il mondo de-gli hipster, ma il mondo dei giovani proletari ab-bandonati al bordo della strada. Quando lo incon-tro ci sono altre tre o quattro persone con lui, tra cuiun tizio molto gentile e molto colto, lettore di AlainBadiou e Julius Evola, che per molto tempo ha di-retto la radio locale dei nazional-bolscevichi, e unvecchio democratico che è stato in prigione peraver denunciato le estorsioni delle forze armaterusse in Cecenia. Prilepin, che di quelle forze ar-mate ha fatto parte e ne ha fatte di cotte e di crudecon loro, si ricorda che al ritorno dal fronte consi-derava il vecchio democratico un traditore e avevaperfino pensato di ucciderlo, ma oggi, quasi quin-dici anni dopo, sono amici per la pelle e concorda-no appieno nella loro analisi della situazione poli-tica. C’è un nemico, che si sa che vincerà, e di fron-te a lui soltanto dei comprimari impresentabili: l’e-terno giullare nazionalista Zhirinovskij (il cui slo-gan elettorale promette, sobriamente, «Con Zhiri-novskij andrà meglio»), il vecchio comunistaZyuganov (slogan ancora più sobrio: «Votate Zyu-ganov»), il miliardario Prochorov, meno logoratodegli altri e il cui programma di riforme a tutto cam-po sarebbe condivisibile se non ci fosse il dubbioche fingendo di fare opposizione corra in realtà peril Cremlino. Ci sarebbe da scoraggiarsi, soprattut-to se per giunta, come Prilepin e i suoi amici, si guar-da con diffidenza ai vip che pretendono di rappre-sentare la società civile: eppure no, loro non sonoper niente scoraggiati; sono disincantati, beffardi,ma in fondo ottimisti, ed è l’affascinante lettore diBadiou, ex capo dei nazional-bolscevichi di Nizh-nij, che mi fa il discorso più sensato, a mio avviso,fra quelli che ho ascoltato in questo mio soggiorno.«Nessuno in questo Paese», ammette questo rivo-luzionario, «vuole sentir parlare di rivoluzione.Nessuno, seriamente, può definire quello che stasuccedendo come una rivoluzione. Il maggio ’68 inFrancia non era una rivoluzione: erano degli avve-nimenti che hanno cambiato la società nel profon-do. All’epoca, naturalmente, dopo il maggio del ’68avete avuto Pompidou al potere, e andava benissi-mo avere Pompidou: nessuno voleva che DanielCohn-Bendit diventasse presidente della Repub-blica. Anche i russi non vogliono che un tipo comeNavalny diventi presidente. Ma quindici, venti an-ni dopo il maggio ’68, i valori del maggio ’68 aveva-no vinto. Le persone che avevano fatto il maggio ’68erano al potere. Da noi sarà lo stesso: le persone chehanno fatto il dicembre 2011, quelli che erano a Bo-lotnaja, ben presto saranno al potere e hanno tuttol’interesse a una transizione morbida».

Quando dice questo si percepisce che al lettoredi Badiou la cosa non lo riguarda direttamente: luial potere non ci sarà mai, non è il suo genere, ma ilsuo amico Zachar Prilepin sì, certamente. FinchéLimonov, che l’ha formato come ha formato tantepersone in questo Paese, sarà ancora in attività,non si lancerà in politica, ma dopo… Prilepin pre-sidente? Ministro della cultura? Facciamo tintin-

nare i bicchieri ridendo: vogliamo scommettere?Due gradi sottozero, è quasi primavera, e la gran-

de manifestazione dell’ultima domenica primadelle elezioni è un successo. Ci si tiene per manolungo la circonvallazione periferica: in certi puntila catena umana è molto fitta, in altri si sfilaccia e al-lora gli organizzatori mandano rinforzi; sponta-neamente, in un’atmosfera gioviale, il cerchio sichiude e la sera, quando sentiamo la polizia parla-re di undicimila partecipanti ci diciamo che l’o-biettivo dei trentaquattromila probabilmente èstato ampiamente raggiunto. Io sono andato allamanifestazione con un gruppo di psicanalisti laca-niani. Gli psicanalisti lacaniani a Mosca non sonocome da noi, vecchi e sentenziosi. Non indossanoil papillon o mantelline a spina di pesce alla Mitter-rand. Sono anche loro giovani borghesi entusiastie telematizzati, esemplari tipici di quella che co-mincia a essere chiamata “generazione Bolot-naja”: hanno più paura degli ukazdi Jacques-AlainMiller, l’allievo e curatore testamentario di Lacan,che della repressione di Putin. Però un brivido haattraversato il nostro gruppetto quando alcuni gio-vani putiniani si sono messi a sfilare sul viale bran-dendo cartelli a forma di cuore su cui era scritto“Putin vi ama tutti”. «I fascisti…», mormoravano imiei amici, tutti contenti di farsi paura, e mi sem-brava di essere tornato non ai tempi del ’68, ché nonho l’età, ma almeno ai tempi delle manifestazionicontro la legge Debré, negli anni Settanta.

Contrasto edificante: gli antiputiniani hannomediamente sui trent’anni, l’aria prospera e gioio-sa, si conoscono tra loro, si abbracciano, si scam-biano notizie su amici in comune, mentre i filopu-tiniani sono molto giovani — spesso hanno menodi vent’anni — indossano giacche a vento nere co-sì misere che mettono tristezza, hanno quella fac-cia sorniona con la pelle chiazzata di macchie ros-se che è il marchio tipico dei tifosi di calcio in tuttoil mondo, e mi sono sentito un po’ a disagio quan-do uno dei miei nuovi amici ha chiesto ironica-mente a uno di questi ragazzini se veniva spesso aMosca. L’altro ha sbraitato, contro ogni evidenza,che lui era di Mosca, ma si vedeva chiaramente chenon sapeva nemmeno dove si trovava, che l’aveva-no portato lì insieme ai suoi amici in macchina o intreno quella mattina stessa, dal suo paesino di pro-vincia, e che lo avrebbero riportato lì la sera, senzanemmeno offrirgli una notte di baldoria nella ca-pitale. La domanda del mio amico, moscovita datre generazioni, intellettuale, poliglotta, che vive inun bell’appartamento, tradiva ingenuamente ilpiù classico disprezzo classista, quello del borghe-se che guarda dall’alto in basso il proletario. Certo,non è una novità, è cosa nota che le rivoluzioni so-no fatte dai borghesi a proprio beneficio; ma mi so-no detto che dovrebbero quantomeno fare un po’di attenzione.

Traduzione Fabio Galimberti© 2012 Le Nouvel Observateur all rights reserved

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Soluzioni

Rebus

Il suo nome, Maria Ghezzi, lo conoscono in pochi. La sua firma,la Brighella, non compare quasi mai. Eppure da oltre mezzo secoloc’è soprattutto lei dietro il più classico dei giochi

della “Settimana Enigmistica”.Siamo andati a casa suaa Milano per farle gli auguri di buon compleannoE per farci raccontare come si fa a disegnare le parole

IL RITRATTO

Un volto di donna disegnatoda Maria Ghezzi per un rebusdi Piero Bartezzaghisulla Settimana Enigmistica(1952), elaborazionedal catalogo Ah che rebus! (Mazzotta 2010)Soluzione:“Bambolemanierose”Accantol’autricein una fotodegli anniCinquanta

La signoraANTONELLA SBRILLI

Le storie

deiMILANO

Il suo nome lo conoscono in pochi, ma i suoi disegni fannoparte del patrimonio di immagini dell’Italia degli ultimi ses-sant’anni. Chi abbia dato almeno un’occhiata allaSettima-na enigmistica (di cui a gennaio sono stati ricordati gli ot-

tant’anni anni dalla fondazione) ha visto le sue opere riprodotte:sono le vignette dei rebus. Dietro quei disegni c’è la sua mano, iltratto inconfondibile di Maria Ghezzi Brighenti, nata a Bresso nel1927, che proprio in questi giorni festeggia anche lei il suo com-pleanno. Nella sua casa milanese, rebus non se ne vedono. Quadrialle pareti e sui mobili, nei punti più luminosi, una collezione disassi di arenaria modellati. Bisogna entrare nello studio per trova-re boccette d’inchiostro e pennini, gli strumenti, mai cambiati, delsuo lavoro. «Quanti rebus ho disegnato? Non ho mica tenuto il con-to! In tanti anni, settimana dopo settimana, ne avrò disegnate de-cine di migliaia. È stato un lavoro continuo, che ha occupato com-pletamente la mia vita». Una carriera tanto prolifica quanto singo-lare, in cui il disegno è al servizio di un gioco. «Ho sem-pre avuto inclinazione per il disegno e negli anniQuaranta ho frequentato il liceo artistico del-l’Accademia di Brera. Ricordo bene il pitto-re Gianfilippo Usellini, le lezioni di storiadell’arte di Guido Ballo e, fra i compagni,Dario Fo. Per guadagnare in quegli annirealizzavo figurini di moda e decorazio-ni per interni. Ma dipingevo anche e hoesposto — nel ’46 o ’47 — alla Tavernadel Gatto Nero in via Senato, un localeanimato da Walter Pozzi. I rebus nonavevo ancora idea di cosa fossero».

Bisogna arrivare al 1951 perché questogioco incroci la sua strada. Nell’estate diquell’anno Maria partecipa, con diversetele, al Premio Bolzano per le pittrici ita-liane, nella cui giuria c’è anche PalmaBucarelli, direttrice della Galleria d’artemoderna di Roma. La svolta della carrie-ra (e della vita) di Maria però non arriva daquella mostra, ma dall’incontro fortuito, lì sul-le Dolomiti, con Giancarlo Brighenti, responsa-bile dei giochi illustrati della Settimana enigmi-stica, che diverrà suo marito. È Brighenti (pseudo-nimo Briga) a introdurre Maria (nome d’arte la Brighella)nel mondo dei rebus, convincendola a dirottare le

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Rebus GLI INEDITI

In queste paginealcuni rebus ineditidisegnati da MariaGhezzi BrighentiSopra, per i lettoridi Repubblica, quellodescritto da ErriDe Luca ne I pesci nonchiudono gli occhi(Feltrinelli, 2011):“Quando l’amoremanca la volontànon basta”Sotto, due disegnioriginali per i rebus“Sol chi lavoravive” e “Chi èsenza rimpiantinon ha vissuto”:quest’ultimo,per una “N” in piùnon è statomai pubblicatoNella paginaaccanto in alto,un dettagliodal rebus“Far compere”(collezione Diotallevi)

Fra le prime cose che viene na-turale fare quando si sente unaparola sconosciuta è cercare di

ricostruirne il significato, scompo-nendola. La prima volta che sentia-mo conforme, pensiamo a con, che èil prefisso dell’unione o della com-pagnia, e alla forma: avere una formasimile, compagna. In conformismotroviamo conforme e -ismo: l’atteg-giamento, l’inclinazione di chi siconforma facilmente. Anticonfor-mismo si scompone in anti, con, for-ma, ismo, pezzi di un puzzle che cipuò dare un’idea del significatocomplessivo. Il contesto ci aiuterà acapire se siamo fuori pista; il dizio-nario ci dirà se la nostra ricostruzio-ne corrisponde agli usi che sono sta-ti fatti sinora della parola. Ma sem-pre (sempre!), e pure se non ce nerendiamo conto, dare un significatoalle espressioni ha più della conget-tura che della semplice e meccanicadecodifica. Sbaglierebbe congettu-ra, per esempio, chi incominciasse ascomporre anticonformismo tro-vandoci la parola antico. La sequen-za di lettere c’è, ma la parola non èpertinente. «Tu sei la persona che favenire in mente che dentro all’anti-conformismoc’è la parola antico»: sedico così a un amico non sto facendodell’etimologia, sto facendo un gio-co (gioco inventato da Saul Bellow inun suo racconto). Nell’infanzia ci sistupisce che nella parola mascarpo-ne ci sia lo scarpone, o che ci sia il vo-lo nella parola volante (infatti moltibambini lo chiamano guidante). Dagrandi si diventa magari rebussisti.

Il rebussista è qualcuno che trovale ore e le morenell’amore; lo scritto-re Primo Levi aveva il pallino dei re-bus e trovava la cicogna nascosta frasedici cognac. Nel rebus, le sequenzesignificative diventano parole il cuisignificato viene illustrato nella vi-gnetta; le lettere che non servono aformare sequenze significative ven-gono usate come etichette per mo-strare al solutore i soggetti della figu-ra che sono pertinenti alla soluzio-ne. L’autore del rebus Sol chi lavoraviveha visto in questa frase dei solchi(con etichetta L), un vecchio signoreovvero un avo (con etichetta R) e de-gli altri avi (con etichetta VE): solchiL, avo R, avi VE = Sol chi lavora vive.L’illustratrice, Maria Ghezzi Bri-ghenti (in arte: la Brighella), ha im-maginato una scena agreste in cuifosse presente un aratore, giovane epossente, che facesse contrasto congli anziani ai margini del campo: co-sì che la vignetta ha finito per illu-strare anche il senso (crudele) dellafrase risolutiva.

Sol chi lavora, vive. La cara Bri-ghella continua perciò a lavorare, ese incontra un rebus come quelloche Erri De Luca ha messo nel suo ul-timo libro può venirle voglia di illu-strarlo. Qu andò; L, A more; M anca;l’avo lontanoN; B asta. Con una scel-ta di discreta e semplice genialità laBrighella ha collegato l’«andò» conun «avo lontano»: passato remoto elontananza spaziale finiscono perrafforzarsi l’una con l’altro. Attorno,rovi, giovani donne, bandiere com-pletano il quadro con il trovarobatobucolico così familiare agli appas-sionati della noble art di cui la Bri-ghella è, si può dire da sempre, l’ap-partata vestale e segreta demiurga.Con tutto l’amore possibile, e vo-lontà d’avanzo.

L’amore è fattodi ore e di more

STEFANO BARTEZZAGHI

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sue capacità artistiche dai colori alla sintesi del bianco e nero, dal-le tele al cartoncino. Ed è grazie al sodalizio di questa coppia — unavera simbiosi fra parole e immagini — che si afferma lo stile del re-bus moderno in Italia. Le innovazioni che Brighenti porta nel gio-co prendono vita grazie alla maestria grafica di Maria: la precisio-ne realistica dei dettagli si coniuga con l’effetto interrogante del-l’insieme, rendendo leggibili le situazioni più strane, interstiziali,assurde, a ricordare che nell’origine della parola ci sono le cose (dallatino res), ma anche il rovescio, lo scherzo e il sogno.

«Da quando ho cominciato a lavorare in questo campo non hoavuto più tempo per la pittura». Maria guarda un suo dipinto a olio,un gruppo espressivo e materico di figure, molto lontano per stilee tecnica dalla sua produzione grafica. «Non ho avuto più tempoper dipingere perché disegnare rebus è impegnativo. Bisognacomporre una scena, con interni ed esterni, in cui sistemare figu-re e lettere — e guai a sbagliare un dettaglio. Mi sono dovuta docu-mentare su piante, animali, carte geografiche, strumenti di tutti itipi, come se avessi lavorato in un’enciclopedia illustrata. È di gran-de importanza poi che il solutore incontri con ordine, da sinistra adestra, le figure e le lettere che portano alla soluzione: in fondo, ècome progettare una scenografia».

Una scenografia, una doppia messa in scena della lettura, in cuiil disegno non illustra il significato della frase da scoprire, ma le im-magini presenti nella sequenza di parole che la compongono. Nonper niente nella storia di questo gioco, strettamente legato alla lin-gua in cui si nomina il visibile, si trovano i trattati di scrittura, le ci-fre figurate di Leonardo e gli enigmi visivi di Lorenzo Lotto, i ven-tagli con frasi d’amore e i fogli volanti con messaggi politici. Unpercorso nella storia del rebus italiano, dai primi esempi fino alleenigmatiche azioni teatrali di Fanny & Alexander, è stato propostoin una mostra — in cui erano esposte anche molte tavole originalidi Maria — presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma (ca-talogo Mazzotta 2010). Mentre parla, Maria sfoglia degli album do-ve sua madre ha raccolto una piccola parte dei rebus pubblicati.Passano sotto gli occhi immagini familiari e bizzarre, fatte di piaz-ze quasi metafisiche, di accostamenti talvolta surreali, di orti, rivi,reti e di tante altre cose dal nome bisillabo, utili per decifrare le fra-si risolutive. «Alcune sono facili, basta leggere le immagini una do-po l’altra; altre volte bisogna interpretare un contesto, il bambinoche mente, l’uomo che osa. Nessun dettaglio è mai superfluo». Chela soluzione sia facile o no, in questi disegni si ripetono scene rico-noscibili con esattezza, immerse in un tempo fermo, che non han-no mancato di affascinare anche gli artisti. Quando negli anni Ses-santa i pittori del pop italiano Renato Mambor e Tano Festa han-no esplorato il deposito d’immagini dell’editoria di massa, si sonosoffermati anche sui rebus. Dettagli sono stati prelevati e rielabo-rati con accostamenti stranianti, cancellature e colori industriali,

con effetti di grande bellezza e senza pensare mai a chi fosse l’au-tore dei disegni. Quell’autore, non c’è bisogno di dirlo, era MariaGhezzi. Rintracciati grazie alla collaborazione fra l’esperto di enig-mistica Tiberino e la storica dell’arte Ada De Pirro, i disegni chehanno ispirato tante opere suscitano una domanda. Ma l’autoredei disegni è l’autore del rebus? «Per tradizione enigmistica — spie-ga Maria — l’autore è chi inventa la frase. Come autrice di frasi, an-ch’io ho firmato dei rebus, ma come disegnatrice il mio nome ècomparso di rado e solo nei primi tempi». Per osservare tutti i re-bus disegnati da Maria ci vorrebbero anni. Per lei, ogni vignetta èlegata a un ricordo insieme familiare e professionale. «Il mio stu-dio è la mia casa. Ho sempre disegnato nella mia stanza, usandosolo l’inchiostro di china e il pennino, che permette di modulare lelinee di contorno e i tratteggi e di scrivere con precisione le lettere».Se i suoi disegni, riprodotti in piccolo sul settimanale, hanno già ungrande fascino («I disegni di Maria hanno arricchito la mia visionedi nostalgia e di mistero», parole del pittore Sergio Ceccotti), gli ori-ginali, di dimensioni maggiori, sono esempi di grafica di alta qua-lità, nitidi e ariosi. Sconosciuti al circuito di mostre e mercato, no-tissimi nella loro versione ridotta e riprodotta.

Ancora oggi, con tratto fermo e chiaro, Maria continua a fare re-bus. E mentre ci salutiamo, mi mostra l’ultimo: «L’ho fatto dopoaver letto I pesci non chiudono gli occhi di Erri De Luca. In una pa-gina è descritto un rebus la cui soluzione è “Quando l’amore man-ca la volontà non basta”. Ho provato a disegnarlo». È un rebus in-ventato da De Luca, in omaggio a un gioco che piacque a sua ma-dre e a lui ragazzino come, in quegli anni Sessanta, a tanti lettoriitaliani che nei “giornaletti enigmistici” si incantavano e si arro-vellavano sui rebus disegnati da lei, da Maria Ghezzi, la Brighella.

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PAOLO RUMIZ

Da Dubai ad Abu Dhabi,dall’Auditorium di Dohaal Teatro Lirico di MuscatSempre più orchestre,direttori e cantantioccidentali, soprattuttoitaliani, migrano

nei paesi del GolfoChiamati dai nuovi sceicchiche hanno capito l’importanzadi investire in musica e cultura

MUSCAT

Arrivano al tramonto tra i palmizi,alla spicciolata, dalle sponde del-l’Oceano indiano. Portano la tu-nica bianca chiamata dishdasha

e un copricapo dello stesso colore, il massar. Conloro anche bambini, e donne velate, bellissime,attirate anch’esse dalla calamita di un grandepalazzo marmoreo color miele. Eppure quel pa-rallelepipedo circondato da archi a sesto acutonon è una moschea: non c’è nessun minareto enon è ora di preghiera. Dall’interno esconobrandelli di Carmen, Bolero e Nabucco, i suonisovrapposti di un’orchestra che si prepara. Leporte sono aperte su un foyer, presidiate da guar-die in djellabaverde chiaro, turbante e pistole al-la cintola lunghe come scimitarre. Sopra il porti-cato una scritta: “Royal Opera House”. Il fiam-mante Teatro dell’Opera dell’Oman, l’unico del-la penisola arabica.

C’è un Trovatore tutto italiano in programma,con l’orchestra Cherubini, la regia di CristinaMuti e la direzione di Nicola Pascoschi. Nei cor-ridoi dei camerini, gorgheggi di cantanti, andiri-vieni di tecnici indiani in tunica blu, e i resti del-la scenografia della Turandotche l’ottobre scor-so ha inaugurato questo tempio musicale con ladirezione di Placido Domingo e la regia di Fran-co Zeffirelli. A venti minuti dall’inizio il teatro ègià pieno. Sul retro del biglietto, a caratteri mi-croscopici, prescrizioni svizzere. Puntualità,chiusura delle porte dieci minuti prima, costu-me tradizionale per gli omaniti, cravatta per glialtri. Niente jeans, niente T-shirt e scarpe da gin-nastica. Vietato fumare e fischiare. Vietati i te-lefonini accesi e le foto. Il teatro è proprietà pri-vata dal sultano, il misterioso Qabus Bin Said Al-Said che raramente si svela, il regnante più me-lomane del mondo.

È qui, in questo palazzo favoloso, che si fa iconti con un fenomeno nuovo e impressionan-te: l’esplosione di opere e sinfonie d’occidentenella terra del Corano, e la grande fuga di orche-stre ed eventi musicali verso i ricchi teatri delGolfo, tra minareti e torri petrolifere, in una del-le terre più “calde” del Pianeta. Li senti suonaredappertutto. A Dubai l’orchestra filarmonica di-retta da Philipp Maier e il progetto di un’OperaHouse di grandezza planetaria, ipertecnologica

e a forma di duna.Ad Abu Dhabi ilfestival di musicaclassica che ha giàospitato i New YorkPhilarmoniker e laWiener Staatsoper. ADoha il lussureggianteAuditorium voluto dallamoglie di sceicco, la bellissi-ma Mazah Bint Nasser, fondatricedell’Orchestra filarmonica del Qatar. Terre d’ap-prodo specialmente per italiani, figli di un Paeseche fu centro della musica mondiale e oggi nonha più un soldo per restaurare i suoi teatri. Ma èl’Oman il centro di questa mutazione.

Nella fossa d’orchestra ottoni, violini etamburi si preparano generando quellaconfusione polifonica che il nostroorecchio misteriosamente non per-cepisce come dissonante. Un miovicino arabo che ricorda Omar Sha-rif spiega in ottimo inglese che,quando al Cairo fu messa in scena la prima voltal’Aida per l’inaugurazione del canale di Suez, ilsultano disse che il meglio della performance erastata, a suo avviso, proprio quella precedente al-l’ingresso del direttore. «Da allora — sorride l’o-manita — quel momento viene chiamato, anchein occidente, “la musica del sultano”». E qui, chealtro potrebbe suonare l’orchestra italiana, incasa di un regnante pazzo per la lirica, suonato-re di organo e liuto, in questo interno super-tec-nologico di ebano, marmi, intarsiature dorate elumini quasi natalizi? Che cosa se non musicadel sultano?

In platea gli arabi, mescolati agli europei di ca-sa da queste parti, non sono cammellieri o peco-rai. L’opera è ancora un fatto di élite. Ma gli oma-niti in sala non sono nemmeno i volgari arricchitidel Dubai, o i sauditi che magari in privato ado-rano Mozart, ma in pubblico lo rifiutano perpaura degli imam. Qui è un’altra cosa: la musicaè cultura diffusa. E non importa se il gran muftìdel Paese, lo sceicco Ahmed bin Hamad Al-Kha-lili (uno che considera cicloni e tsunami unaconseguenza dei peccati della sua gente), ha bol-lato come «inaccettabile» per un musulmanomettere piede all’Opera House. E anzi, qui la di-chiarazione ha provocato tempeste tra i blogger,per nulla intimiditi dalla scomunica. Il tassistache mi ha portato in centro dall’aeroporto ha su-bito chiesto se conoscevo il Teatro Lirico. Ne an-

SpettacoliPrimavere arabe

LE ILLUSTRAZIONI

I disegniche illustranoqueste paginesono trattidal libroLe più belle fiabedelle Millee una notte,di Arnica Esterle Ol’ga Dugina(Adelphi, 2006)

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 MARZO 2012

LA PRIMA

A sinistra, un momentodella prima dell’Aidadi Verdi messa in scenaa Luxor

OMAN

La Royal Opera House inaugurataa Muscat nell’ottobre scorsocon la Turandot diretta da FrancoZeffirelli con Placido Domingo

DUBAI

In progetto nell’Emirato Arabouna Opera House supertecnologicaUna volta terminata dovrebbeprendere la forma di una duna

QATAR

A Doha, il lussureggiante Auditoriumè stato voluto dalla mogliedello sceicco che ha fondatol’Orchestra filarmonica del Qatar

Finisce l’ouverture,si apre il siparioe il melodrammasi scatena“Il Trovatorericordala culturazingaradei nostri

beduini”commentaNasser Al-Taì

‘‘

dava fiero.Finisce l’ouvertu-

re, si apre il sipario e ilmelodramma si scatena. Il corotuona “Sia maledetta la strega infernal”, poiecco le note immortali della zingarella segui-te in traduzione araba e inglese su mini-schermi davanti alle poltrone. «Il Trovatoreri-corda la cultura zingara dei nostri beduini»,commenta Nasser Al-Taì, che nel teatro è re-sponsabile dei rapporti col pubblico omanita, etutto indica l’ansia del “Principe” di gettare pon-ti fra culture piuttosto che occidentalizzare bru-talmente il Paese come i suoi vicini emiri. InOman gli squilli delle fanfare si mescolano aicanti del deserto fatti di pifferi, sonagli e tambu-ri, le cornamuse scozzesi competono con le dan-ze delle sciabole e il rotear dei pugnali Khaliqi.

Qui la “musica del sultano” non sta chiusa neiteatri ma si sente per le strade, echeggia nellescuole e persino nei cortili delle caserme, che siaeuropea, asiatica o africana. Un altro mondo. Ilmuezzin canta con discrezione, non ti massacrai timpani, e già acusticamente si avverte che l’e-stremismo wahabita è lontano. La primaveraaraba qui sembra essersi giocata in musica. Unamusica entrata così capillarmente nelle istitu-zioni da diventare strumento politico. È il capo-lavoro di questo sultano timido, chiacchierato esenza mogli, salito al potere per restarci solo po-chi anni, e invece saldamente in sella da qua-rant’anni. Zubin Mehta, che fu tra i pochissimi avederlo, lo definisce un «great music lover», e ilcantante polacco Daniel Kotlinski parla di unuomo che vive per la musica e si è già compratotre organi nella smania di migliorare. Tra il po-polo c’è chi ha protestato per i lussi del nuovoteatro, mesi fa ci sono stati persino scontri condue morti, ma alla fine il sultano ha messo in can-tiere un piano contro la disoccupazione e oral’Oman pare, in questi tempi turbolenti, il Paesepiù tranquillo del mondo musulmano.

Ma il bello è che in Oman non vedi solo for-mazioni straniere. Il Paese ha una sua orchestrasinfonica e bande militari, anche femminili, chevincono concorsi internazionali. L’etnomusi-cologo egiziano Issam El-Mallah, direttore delteatro, ricorda che «in trent’anni le forze arma-te sono passate da appena tre a ben 2500 suona-tori provetti», e che «l’Opera House è solo l’ulti-mo scalino di un lungo processo». L’esercito delsultano ha i migliori carri armati ed elicotteridello spazio arabo, ma il controllo della musica

sembra interessargli di più. Lostesso direttore dell’orchestrasinfonica di Muscat è un co-

lonnello. Un caso unico al mondo.Il violinista Luca Blasio, chiamato dall’Acca-

demia di Santa Cecilia a migliorare la qualitàdegli archi omaniti, ricorda gli emozionanticoncerti che le orchestre locali tengono nellescuole, davanti a bambini stupefatti e deside-rosi di imparare. E pare che il sultano i bambinipiù dotati se li porti addirittura a casa, come undespota rinascimentale, ne faccia quasi deigiannizzeri votati alla sua passio-ne. Novanta si dice siano i giovanis-simi — maschi e femmine — che Qa-bus Bin Said alleva senza badare a spesenella sua reggia per farne il nerbo della mu-sica araba del domani.

Sulla riva dell’oceano, sotto stelle grandi co-me noci, Cristina Muti è felice e rievoca il suocontatto col mondo arabo e sogna nuove me-raviglie. «Ero a Meknes, in Marocco, e dirigevamio marito. A un tratto ho visto che alcune don-ne del posto, rompendo i divieti del localebuoncostume, s’erano sedute sotto il palco coni loro neonati, allattandone alcuni sotto la luna,quasi in stato di ipnosi. Un’immagine indi-menticabile». Anche Issam El-Mallah sogna,vorrebbe ospitare un concerto con un’orche-stra straniera e un grande solista arabo. Ma è giàfelice dei risultati conseguiti finora: da ottobrea oggi sempre il tutto esaurito, con spettatoriarabi in crescita continua.

Vento leggero, sciacquio tra le mangrovie,profumo di bouganvillee, poi arriva la preghieranotturna del muezzin. E solo allora, sul Paese deisultani suonanti scende il silenzio.

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LA DOMENICA■ 38

DOMENICA 18 MARZO 2012

La tecnologia ruba posti di lavoro? Internet ci rende schiavi?Smettetela di vedere tutto in negativo,grazie alla Rete e alla scienza il domanisarà meglio di quanto possiate immaginare

Ne sono certi studiosi e imprenditori, un piccolo ma potenteesercito di neo-positivisti che da un’Americain ripresa vuole entusiasmare il mondo

NextSmile

Tecn ttimisti

2013

LE TAPPE

‘‘

Michio Kaku

Docente di fisica teoricaal City College di New York

Nel girodi otto anniinternetlo vedremoproiettatodirettamentesulle nostrelenti a contatto:ciò vuol direche consulteremoWikipediagraziea un semplicebatterdi ciglia

Secondo i tecno-ottimisti

entro un anno produrremo

ogni dieci minuti la stessa

quantità di informazioni

digitali prodotta ogni

due giorni dal 2003 al 2010

2022Grazie ai progressi medici

e allo sfruttamento

delle informazioni genetiche

tra dieci anni la popolazione

degli ultracentenari sarà

raddoppiata rispetto a oggi

2035Entro quell’anno il numero

delle persone che vivono

sotto la soglia della povertà

assoluta scenderà a zero:

così come si è dimezzato

dagli anni Cinquanta a oggi

2020Entro otto anni non esisterà

più il computer ma avremo

milioni di microchip diffusi

nell’ambiente in cui viviamo:

nei mobili, nei vestiti,

nelle auto e nel nostro corpo

2027Tra quindici anni un guerriero

Masai avrà a disposizione

una capacità di elaborazione

dati in formato tablet uguale

alla potenza e alla rapidità

del cervello umano

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I PILASTRI

FILANTROPI

Sempre più imprenditori

credono che la tecnologia

libererà il mondo. Bill Gates

è il più noto. Un altro è Pierre

Omidyar, fondatore di eBay

Sono loro uno dei 4 pilastri

del tecno-ottimismo

PIRAMIDE ROVESCIATA

Secondo questa teoria

e prassi economica

la tecnologia sarà sempre

più accessibile ai poveri

Un esempio? Il tablet

a 35 dollari prodotto

da DataWind

DO IT YOURSELF

La spinta all’innovazione

individuale è il terzo pilastro

del tecno-ottimismo

Anche qui, un esempio?

Il drone da 300 dollari

inventato per portare aiuti

dove mancano le strade

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DOMENICA 18 MARZO 2012

SAN FRANCISCO

ntro otto anni non esisterà più il computer perché al suoposto avremo milioni di microchip diffusi nell’ambien-te in cui viviamo: nelle auto e negli elettrodomestici, neimobili di casa, nei vestiti, nel nostro corpo. I nostri nipo-ti avranno poteri analoghi a quelli delle divinità dell’an-tica Grecia. Il cancro sarà sconfitto dai microchip, i sen-sori nella toilette di casa raccoglieranno campioni di uri-ne, feci e sangue, e l’analisi del Dna consentirà la preven-zione del tumore con dieci anni di anticipo. Internet lovedremo proiettato sulle nostre lenti a contatto: un bat-ter di ciglia e consulteremo Wikipedia. Allo stesso mododiventeremo poliglotti istantanei, grazie a traduttori au-tomatici online che ci appariranno sulle lenti a contattopotremmo dialogare in mandarino arabo o russo senzaaverli studiati». Così parlò Michio Kaku, nippo-califor-niano, docente di fisica teorica, co-fondatore della “teo-ria delle stringhe”, autore di Physics of the Future (in ita-liano La fisica del futuro, Codice, 2012), consacrato dalWall Street Journalcome uno dei visionari del nostro fu-turo prossimo.

Bentornati, tecno-ottimisti! Dev’esserci qualcosa nelciclo economico che comanda anche i cicli del pensiero.Da quando in America è arrivata la ripresa — stavoltaquella vera, si direbbe — anche le teorie attraverso cui de-cifriamo il presente e prevediamo il futuro si stannoorientando sul positivo. L’esempio più citato in questi

giorni è il nuovo saggio Abundance. Sottotitolo The Fu-ture is Better than You Think, per l’appunto: il futuro è mi-gliore di quel che pensate. L’autore è Peter Diamandis,autorevole tecnologo e pluri-creatore di imprese, legatoa tutti gli innovatori della Silicon Valley, fondatore di unpremio speciale per la creatività (X Prize). Diamandis fadel suo meglio per affascinarci, entusiasmarci e guarireogni pessimismo, già a partire dalla sua descrizione de-gli effetti del progresso. Ecco un esempio: se tutti i libri,tutte le parole e tutte le immagini create dall’umanitàdalle origini della nostra storia fino al 2003 sono conver-tite in formato digitale, occupano cinque miliardi di gi-gabyte. È uno spazio notevole anche nell’universo digi-tale dov’è la memoria dei supercomputer: equivale al nu-mero uno seguito da una colonna di diciotto zeri. Ma dal2003 al 2010 gli stessi cinque miliardi di gigabyte l’uma-nità li ha creati ogni due giorni. L’anno prossimo pro-durremo quella quantità di informazioni ogni dieci mi-nuti. È quel che si chiama un’accelerazione di tipo espo-nenziale. Basta disporre di una quantità d’informazionecosì smisurata — e in rapidissima crescita — per staremeglio? Prima di affrontare la risposta, riflettiamo suquest’altro dato fornito da Diamandis: un guerriero del-le tribù Masai oggi ha uno smartphone e l’accesso a Goo-gle, grazie al quale dispone di più informazione di quan-ta ne aveva il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton quin-dici anni fa. Lo stesso Masai fra quindici anni avrà a di-sposizione una capacità di elaborazione dati (in forma-

to tascabile, tablet stile iPad) equivalente alla potenza erapidità del cervello umano. Diamandis non ha dubbiche l’accumulazione poderosa di nuove conoscenze ciconsentirà di vincere la grandi sfide del nostro futuro:l’inquinamento atmosferico e delle acque; la sovrappo-polazione; la scarsità di energia; i bisogni di istruzione edi salute; i diritti umani e le libertà. «L’umanità — scriveil tecno-ottimista — sta entrando in un periodo di tra-sformazione radicale in cui le tecnologie hanno il poten-ziale per migliorare sensibilmente la qualità della vita diogni uomo, donna e bambino del pianeta». Wow! Mi sco-pro a reagire coi riflessi pavloviani dell’europeo, conscetticismo. Ho l’impressione di aver già sentito suona-re le fanfare del tecno-ottimismo in altre epoche dellamia vita: per esempio al passaggio del millennio, quan-do mi trasferii a San Francisco all’apice dell’euforia per laNew Economy, nel primo boom di Internet e delle sueapplicazioni. Diamandis ha una spiegazione razionaleanche per la mia cautela. «È tutta colpa dell’amigdala —spiega — cioè quella parte del cervello, situata nel lobotemporale, che regola emozioni primarie come la rabbia,l’odio, e soprattutto la paura. È il nostro sistema di pre-al-larme per la sopravvivenza, un organo sempre in massi-ma allerta per segnalarci tutto ciò che nell’ambiente cir-costante può minacciarci. È quasi impossibile liberarcidel suo condizionamento». Ecco perché siamo tenden-zialmente pessimisti, inclini a privilegiare le cattive noti-zie: i nostri progenitori si sarebbero estinti, divorati dallebelve feroci, se avessero privilegiato l’estasi davanti a unbel tramonto anziché l’adrenalina da panico di fronte airumori sospetti nella foresta. Oggi questa nostra pro-grammazione genetica al pessimismo rischia di non far-ci vedere l’ovvio? Cioè l’effetto immensamente positivodel progresso tecnologico. Il numero di persone che vi-vono sotto la soglia della povertà assoluta si è più che di-mezzato dagli anni Cinquanta, e di questo passo scen-derà a zero nel 2035. Anche la definizione di “povertà as-soluta” va guardata da vicino. Oggi il novantacinque percento degli americani che vivono sotto la soglia della mi-seria ufficiale dispongono non solo (ovviamente) di ac-qua corrente ed energia elettrica in casa, ma possiedonoanche frigo, tv e internet. Sono tutte comodità che un se-colo fa non poteva permettersi neppure il leggendariomiliardario Andrew Carnegie, semplicemente perchénon erano state ancora inventate. A volte ci sembra chela tecnologia ci renda schiavi, ma su questo punto do-vremmo ascoltare il parere dei giovani arabi o russi che sistanno rivoltando contro gli autoritarismi grazie a unmaggiore accesso all’informazione. Entro il 2020 altri tremiliardi di abitanti del pianeta si saranno aggregati allanostra comunità di utenti di internet: è tutta «meta-in-telligenza collettiva», secondo la definizione di Diaman-dis, ed è forse questa la materia prima che ci salverà. Inparte il boom negli accessi all’informazione è già inca-nalato verso gli usi più nobili. La Khan Academy, una del-le tante iniziative nate grazie ai tecno-filantropi (un eser-cito sempre più numeroso di cui Bill Gates è solo il nomepiù noto), oggi viene consultata da due milioni di stu-denti ogni mese, per l’apprendimento accademico a di-stanza. Nella biblioteca digitale della Khan Academy cisono video didattici su materie che spaziano dall’algebraalla biologia. Il settore della medicina “individualizzata”grazie allo sfruttamento delle informazioni genetichenon esisteva neppure un decennio fa; oggi cresce delquindici per cento all’anno. Anche grazie a questi pro-gressi medici, la popolazione degli ultracentenari staraddoppiando ogni dieci anni. Sono questi i primi tri-snonni che vedranno la loro progenie trasformata in «di-vinità dell’antica Grecia»?

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FEDERICO RAMPINI

CASH & GLORY

Ovvero soldi e gloria,

come Mark Zuckerberg

Sono i due elementi

che spronano le persone

a competere per risolvere

un problema. È questo

il quarto pilastro

«E

Il futuro non è piùquello di una volta

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DOMENICA 18 MARZO 2012

Stati UnitiLa produzione

per il 90 per cento

si concentra in California

A seguire, Oregon,

Virginia e Washington

Ormai naturalizzato

americano

lo Zinfandel

CileProduttore di vini

da mezzo millennio,

preservato dal flagello

della fillossera,

è in costante ascesa

di produzione,

grazie al vellutato

Cabernet Sauvignon

SpagnaVanta la maggior

superficie vitata

del mondo, pur essendo

al terzo posto

per produzione

Nella terra di Rioja,

domina l’affascinante

Tempranillo

ArgentinaVigneti ai piedi

delle Ande, nella zona

di Mendoza dove

il microclima risulta

perfetto per esaltare

il vitigno Malbec, uva

principe della campagna

bordolese

Aqualcuno piace straniero. Nessun razzismo enologico alcontrario, per carità: semplicemente la possibilità di berequesto e quello — vini italiani e del mondo — a seconda deimomenti e delle voglie. Una curiosità che non ha mai ri-schiato di trasformarsi in epidemia, se è vero che a fronte de-gli oltre quattro miliardi di euro provenienti dall’export, le

importazioni sfiorano appena quota duecentocinquanta milioni. Ma i nu-meri non ingannino. La curiosità per il vino degli altri si dilata insieme al-l’espandersi della cultura enologica, che si traduce in viaggi e assaggi, cor-si e libri, abbinamenti gastronomici e nuovi sbocchi professionali. Unatendenza che la prossima edizione del Vinitaly, in programma dal 25 al 28marzo, certifica nel numero crescente degli espositori esteri presenti, inrappresentanza di oltre venti nazioni.

Certo, la crisi economica ha inciso non poco sulle importazioni, facendovirare le scelte vinicole dei consumatori in chiave autarchica. Sarà che il vinoci appartiene come forse solo l’olio, per una questione di Dna enogastrono-mico. Non si spiegherebbe altrimenti la facilità con cui continuiamo a com-prare alimenti altrettanto importanti e quotidiani come la carne, senza te-ner minimamente conto della sua provenienza (con percentuali che sfiora-no il cinquanta per cento di approvvigionamenti extra Italia). Tradire le no-stre vigne è fastidioso: mangiare la bistecca europea, perfino quella extraco-munitaria, ci affligge meno che acquistare del vino australiano o sloveno. Al-meno nella percezione quotidiana. Perché quando la cena esce dalla routinecasalinga e diventa occasione sociale, le cose cambiano, come si scopre scor-rendo gli ultimi dati in arrivo dalla Francia. Non conosce soste, infatti, l’in-

cremento delle importazioni di Champagne in Italia: quasi il sette per centoin più rispetto all’ultimo anno, per un totale di quasi otto milioni di bottiglie,oltre la metà del valore totale delle importazioni. Bollicine e non solo: dalpunto di vista enologico la Francia batte tutti in tema di esportazioni nel no-stro Paese, grazie ai suoi super rossi, ai bianchi seducenti e al muffato più fa-moso del mondo (il Sauternes). Eppure, diventando consumatori adulti,stiamo imparando a cercare il piacere vinario anche lontano dalle sicurezzedi Bordeaux e Borgogna. Se negli anni scorsi la curiosità spingeva gli enocul-tori verso produzioni assai lontane dalla nostra geografia vinicola — Califor-nia, Australia, Sudamerica — oggi la passione attraversa le terre carsiche perdirigersi in terra slovena, dove un mix inusuale di viticoltura d’antan e sape-ri avanzati ha trasformato le ruvidezze dei vini “naturali” — fermentazioni inanfora, vinificazioni lentissime, niente solforosa aggiunta — in bottiglie distruggente fascinazione, che Gino Veronelli avrebbe amato moltissimo.

Se avete in programma una gita in zona veronese nei giorni del Vinitaly— che non a caso da quest’anno ospita una sezione dedicata ai vini sen-za chimica — spingetevi a pochi chilometri dal balcone di Giulietta, re-galandovi una visita alla manifestazione “Vini veri”, che si svolgerà nellostesso weekend in quel di Cerea. Obbligatorio aggregare all’equipaggioun amico astemio.

LICIA GRANELLO

Giro del mondoin dieci bottiglie

deglialtriViniI

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I saporiA la carte

I numeri dell’import sono ancora piuttostobassi. Ma ormai la curiosità verso altripianeti dell’enologia si fa semprepiù forte anche in un Paese,il nostro, ad alto tasso d’orgoglio

vinaiolo.Lo conferma un Vinitaly 2012particolarmente attento all’esteroE che partendo dal Cile arriva in Slovenia

MaroccoMorbidi e avvolgenti,

i rossi prodotti tra Fes

e Meknès, nel medio

Atlante, a partire

dalle uve che più amano

il Mediterraneo:

Grenache, Alicante

e Syrah

SudafricaQuasi cinquemila,

i vignaioli che coltivano

soprattutto Chenin Blanc

(il locale Steen)

e Pinotage (incrocio

di Pinot Nero e Cinsaut)

Raffinati

i Sauvignon Blanc

Repubblica Nazionale

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DOMENICA 18 MARZO 2012

FranciaTerra madre dei vini

più prestigiosi del mondo,

senza soluzione

di continuità da Bordeaux

alla Borgogna

Ma il francese più amato

in Italia resta

lo Champagne

GermaniaLa viticoltura, modulata

dalle temperature rigide,

si esprime al meglio

nei magnifici bianchi,

eleganti e longevi

Menzione d’onore

per gli sciropposi

eiswein

AustraliaChardonnay e Shiraz

(Syrah) dominano

la viticoltura,

che è concentrata

nella parte meridionale

Picchi di alta qualità

in Barossa Valley

e Adelaide Hills

SloveniaAl di là del muscoloso

Refosco locale (Teran),

questa è terra di bianchi,

dal Moscato giallo

alla Malvasia,

spesso vinificati

con i crismi

della biodinamica

Gli indirizzi

DOVE DORMIRE

CA’ MADDALENALocalità Pigno 2Villafranca di Verona Tel. 045-6302943Camera doppia 62 euro, colazione inclusa

HOTEL SAN POLOVia di Sant’Antonio 6VeronaTel. 045-8010885Camera doppia 90 euro, colazione inclusa

HOTEL GIBERTIVia Gian Matteo Giberti 7VeronaTel. 045-8006900Camera doppia 125 euro,colazione inclusa

RESIDENCE SAN ZENOVia Antonio Rosmini 15VeronaTel. 045-8003463Camera doppia 90 euro, colazione inclusa

HOTEL VERONESI LA TORREVia Monte Baldo 22 Dossobuono di Villafranca di VeronaTel. 045-8604811Camera doppia 135 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIARE

I TIGLI PIZZERIA GOURMANDVia Camporosolo 11 San Bonifacio (Vr) Tel. 045-6102606Chiuso mercoledì, menù da 10 euro

ANTICA OSTERIA LE PIEREVia Nicolini 43VeronaTel. 081-8841030Chiuso mercoledì, menù da 25 euro

AL CÒVOLOPiazza Vittorio Emanuele 2S. Ambrogio di Valpolicella (Vr)Tel. 045-7732350Chiuso martedì, menù da 30 euro

ALLA RUOTAVia Proale 6Negrar (Vr)Tel. 045-7525605Chiuso lunedì e martedì, menù da 32 euro

AL CAPITAN DELLA CITTADELLAPiazza Cittadella 7AVeronaTel. 045-595157Chiuso domenica e lunedì a pranzo,menù da 35 euro

DOVE COMPRARE

PANIFICIO CAPRINI (con annessa trattoria)Via Zanotti 9Negrar (Vr)Tel. 045-7501622

ENOTECA DAL ZOVOViale della Repubblica 12VeronaTel. 045-918050

ZENO GELATO & CIOCCOLATOPiazza San Zeno 12AVeronaTel. 338-6716878

ANTICA SALUMERIA ALBERTINICorso Sant’Anastasia 41VeronaTel. 045-8031074

COOPERATIVA AGRICOLACA’ VERDELocalità Ca’ VerdeS. Ambrogio di Valpolicella (Vr)Tel. 045-6884119

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Sulla strada

In Georgia, cercando l’anfora perdutaCARLO PETRINI

Dire che la Georgia è un Paese emergente in fatto di vino, perché sta cominciando a ri-scuotere l’interesse dei mercati, non fa giustizia a una storia millenaria: è il più anticoluogo di domesticazione della vite, qui si può dire che il vino sia stato inventato.

La Georgia per anni è stato anche il polmone vinicolo dell’Unione Sovietica, con un’agricol-tura ricca e ben remunerata, che poi è diventata industria abbandonando le proprie antiche tra-dizioni. Una volta che l’Urss si è dissolta, la viticoltura è entrata in crisi, anche per via delle guer-re con l’ex madre patria. E la tradizione della vinificazione in anfora (kvevri nella lingua locale)è in via di estinzione. Ora però alcuni vignaioli si stanno opponendo a questo destino, come nel-

le aree di Kakheti (la zona storica dell’enologia georgiana) e di Imereti. Gli studiosi di ampelografia ci dicono che proprio qui in Georgia sopravvi-vono ancora una moltitudine incredibile di vitigni autoctoni, dai nomi im-

pronunciabili, e tra questi i più importati sono tra i bianchi il rkatsiteli e ilmtsvane, tra i rossi sicuramente il saperavi. Le anfore, che qui sono onni-presenti, vengono interrate nel giardino delle case e, per creare un riparo,

si costruiscono sopra di queste delle tettoie. Cinque di questi produttorifanno parte della rete di Terra Madre. Dal 2009 è nato anche il Presidio Slow

Food del vino in anfora georgiano, appoggiato dall’associazione italiana Autoctuve.Ma in questi ultimi anni in Georgia si sta assistendo anche a un altro fenomeno curioso: enologi evignaioli di grande fama, italiani e francesi, stanno contribuendo alla rinascita dell’enologia tradi-zionale georgiana, e si stanno affermando alcuni viticoltori locali in grado di produrre ottimi vinibiodinamici in anfora. Il sapore e il gusto di questi prodotti hanno la forza di risvegliare in noi me-morie lontane, probabilmente perdute.

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La ragazzina prodigio della canzoneitaliana che il padre portava in giroper concerti è cresciuta. Oggi,con vent’anni di carriera alle spalle,un figlio e un nuovo tour appena

partito per l’Italia,è una donna che vuole“vivere ogni emozioneconsapevolmenteRimpiangosolo di aver perso

così tanto tempoper la paura di sbagliare,senza godermi le cose belle della vita”

ROMA

Era la ragazzina prodigiodella canzone italiana.Oggi è una donna. Tra unpo’ potrebbe addirittura

meritare il classico appellativo di “si-gnora della canzone italiana”. Del re-sto, con vent’anni di carriera alle spal-le, Giorgia (che in questi giorni è in tourper i palasport italiani, ieri era ad An-cona, poi volerà in Sicilia) non dovreb-be far altro che raccogliere tutto quel-lo che ha seminato e affermare, unavolta per tutte, il suo ruolo nella scenanazionale. «Mi sento molto diversa davent’anni fa, da allora tutto è cambia-to. Ma penso di essermelo guadagna-to». Cresciuta lo è davvero, sia in ter-mini professionali, controllando conmaggiore precisione e mestiere unavocalità naturale e straordinaria altempo stesso, sia in termini personali,passando attraverso dolori (la scom-parsa di Alex Baroni) e gioie (diventan-do mamma), cambiando di molto lasua vita privata. «Il fatto che io oggi misenta donna non dipende però dall’es-sere diventata madre», tiene a sottoli-neare. «Essere donna vuol dire moltealtre cose, implica una certa dose dimaturità, un modo diverso di guarda-re le cose. Io sono sempre stata un“maschiaccio”, e se mi guardo in faccianon mi sento poi così tanto diversa. Main realtà lo sono. Sono una donna cheama la musica, da ascoltatrice oltreche da cantante. Oggi la amo in una

maniera più profonda perché in essacerco delle risposte, cerco qualcosa inpiù della semplice emozione, del di-vertimento».

La musica del resto è stata il motoredi tutta la sua esistenza, da quando ra-gazzina saliva sul palco con il padreGiulio Todrani e la sua band. Giorgiaha sempre vissuto in mezzo alla musi-ca e con quella si è costruita la sua ideadel mondo, degli altri, di sé. La musical’ha aiutata e protetta, l’ha fatta matu-rare e cambiare. «E sono cambiata co-sì tanto che, nonostante mi senta unapersona coraggiosa, questo tempodella mia vita mi spaventa moltissimo.Perché se da una parte ho una consa-pevolezza che prima non c’era, come ègiusto che sia per una donna adulta, hoperò anche una parte “maledetta”, daragazzina, che non vuole scomparire enon si rassegna al fatto che non sonopiù così. Perché negare che mi manca-no quelle giornate senza orari, da pri-vilegiata, da bohémien? Insomma,non è più tempo di fare un bagno conle candele tutte accese attorno alla va-sca, adesso ti viene il senso di colpa checonsumi l’acqua. Ma la vita ha questamagica qualità che ti spinge in avanti efa in modo che tu non ti uccida ognivolta che vorresti».

Giorgia è allegra, solare, raggiante,vitale. Ma non sempre tutto quello chesi vede corrisponde alla realtà. «Sonomolto più contorta, sono piena di gro-vigli, di nodi, ho una parte di me che vi-ve di malinconia e nostalgia. Però, an-che questo cambia crescendo. L’au-mentare dell’età ti porta a dire “è an-data, è fatta”, e la parte malinconicaconta sempre di meno. Prima mi de-primevo facilmente, ora non è più co-sì. Ero schiava di ogni tipo di emozio-ne, oggi invece riesco a gestirmi me-glio. Non voglio farmi travolgere datutto, ma vivere ogni emozione consa-pevolmente. E in questo, è vero, la ma-ternità ti aiuta a mettere tutto in unaprospettiva diversa: prima mi capitavadi avere degli attacchi di panico, macon mio figlio è tutto ridotto a proble-mi più pratici, a non far bruciare l’ar-rosto nel forno, per esempio».

La ragazzina di ieri oggi è prima ditutto una mamma. «Non è facile farconvivere le due cose, maternità e la-voro, perché le donne devono semprefare di più e meglio degli altri. La vitacambia totalmente: prima il lavoroprendeva tutto il tempo, adesso il tem-po è limitato e questo non è necessa-

riamente un male. Devo concentrare illavoro in momenti determinati e inquei momenti ci sto con tutta me stes-sa, perché il resto del tempo è comple-tamente assorbito dalla realtà familia-re. Ti leva qualcosa? No ti dà, perché ticoncentri e non perdi tempo a farti leclassiche masturbazioni mentali sucosa fare, come fare. Sai quello che de-vi fare e lo fai».

Due decenni di canzoni, di musica,di concerti, di sogni. C’è spazio perqualche rimpianto? «Rimpianti? Sì,per tutto quello che, pensandoci trop-po su, non mi sono goduta, uno sprecograndissimo. Sei lì e perdi tempo adavere paura di sbagliare, a pensare chenon sarai mai amata, che perderaiqualcosa, mentre invece il dovere diuna persona creativa è di trovare il cen-tro di sé per dare quello che si aspetta-no da te e non altro. Poi diventi grandee le cose cambiano. Ma è una conqui-sta, e io ancora combatto perché la

paura si mangia l’esperienza». Giorgia oggi non è disposta più a

sbagliare, a non godere del suo succes-so e della sua musica. La prova? Lequattro sigle di chiusura che ha canta-to, qualche mese fa, a Il più grandespettacolo dopo il weekend di Fiorello,quando milioni di persone l’hanno vi-sta confrontarsi con le grandi della no-stra canzone e del nostro immagina-rio: «Un’esperienza fantastica», dicelei, «cantare Mina è una responsabi-lità, la Vanoni non l’avevo mai cantata,le prime due sigle me le sono fatte conun carico di ansia, ma sentivo che sta-vo facendo una cosa grande e impor-tante. Non ringrazierò mai abbastan-za Fiorello per avermi dato questa op-portunità che non avevo previsto. Hoavuto modo di cantare una canzone intv ed emozionarmi: quello che mi pia-ce fare. Ne farò tesoro, è l’essenza delmio lavoro, voglio continuare ad an-dare in quella direzione».

Sembra incredibile, ma anche perun’artista come Giorgia, “posseduta”dal canto, la musica può non essere piùsemplicemente emozione? «Sì, incre-dibile a dirsi, ma ho vissuto una fasestrana, non riuscivo più a “sentire” lecanzoni, ero diventata inutilmenteperfezionista, notavo tutto, mi attorci-gliavo attorno ai particolari. Ora va me-glio, mi sono riappropriata dei senti-menti e delle emozioni. Sono meno in-sicura. L’insicurezza me la porto dietrodall’infanzia. Ogni volta che salgo sulpalco o devo cantare per me è semprecome la prima volta. E se va bene pen-so “è andata ma domani che succe-derà?”. Lo so, è una forma di pensieromalata, ma è dovuta al fatto che deviriempire un vuoto che nessun altro tipuò riempire. È ovvio che l’affetto delpubblico aiuta, è grande, è meraviglio-so, ti arriva, ti sostiene, ma l’autocon-sapevolezza non te la dà nessuno, inogni piccola cosa te la devi sudare equello che hai dentro te lo porti dietroanche sul palco. Ora non è più così, iprimi concerti di questa nuova stagio-ne me li sono goduti, non ho pensato anulla, era come quando da ragazzinasalivo sul palco del Classico, un picco-lo club di Roma, ero felice e cantavo».

E, infatti, Giorgia oggi è una cantan-te molto più matura e consapevole, piùlibera e felice. Lo si sente da come af-fronta le melodie, da come si è liberatadi molti inutili gorgheggi e sia entratadi più nel cuore delle melodie: «Ades-so canto con la stessa tensione di pri-

ma ma con più gusto, improvviso se misembra giusto di farlo, se cambio le no-te di una canzone è perché mi piace, ese non le cambio vuol dire che nonvanno cambiate. È il cuore a cantare,prima del cervello». C’è una canzoneche la rappresenta bene oggi? «Una so-la canzone? Difficile. Ma potrebbe es-sere E poi. Racchiude l’essenza del mioinizio, la mia prima grande esperienza.Ha una melodia che continua a piacer-mi, un vissuto, un’intensità straordi-naria. E poi ha possibilità musicali in-finite, la posso cantare rock, jazz, soul,veloce o lenta, la melodia vince sem-pre. È il primo testo vero che ho scritto.Anche se oggi penso che una ragazza diventidue anni non può scrivere “e poisarà come morire...”».

Già, l’amore. È quello che vienesempre cantato. Ma che, quando sitratta di viverlo davvero, è sempre di-verso da come lo si immagina. «È ve-ro, ma anche l’amore per me è moltopiù leggero di prima. Avevo un’ideasbagliata, modello Candy Candy, unaroba tutta sacrificio, sofferenza, per-dita. Era gelosia, possesso, paura diessere abbandonata. Invece no, deveessere leggero, uno stato interiore cheè sempre sotto a tutto quello che fai.Non è che ti alzi la mattina e ami: l’a-more si impara, perdonando se stessioltre che gli altri, accettandoti. S’im-para con l’esercizio, dovremmo fareuna scuola per imparare ad amare. Eper cambiare. La vita deve essere tra-sformazione. Se sei sempre uguale c’èqualcosa che non va».

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L’incontroSplendide quarantenni

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Giorgia

ERNESTO ASSANTE

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