La deportazione italiana nei campi di sterminio · 2019. 3. 5. · tre numeri di Andrea Fergnani...
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Note e discussioni
La deportazione italiana nei campi di sterminio
di Federico Cereja
Scorrendo la bibliografia sulla deportazione italiana apparsa dal dopoguerra ad oggi ci rendiamo conto che essa presenta delle caratteristiche peculiari, facilmente riassumibili: è costituita per la sua quasi totalità da memorie e scritti autobiografici; la maggior parte delle opere appaiono nell’immediato dopoguerra; i lavori di storici su questo problema sono praticamente inesistenti. Questi dati bisogna averli presenti e con essi confrontarsi per potere discutere oggi sulla deportazione e per cercare anche di capire il perché di questo tipo di letteratura, certo non casuale. Se prendiamo in esame i volumi pubblicati in quest’arco di tempo giungiamo a stendere un elenco di poco più di settanta opere, e di esse un terzo è apparso tra il 1945 e il 1947. Vi è quindi una produzione notevole contenuta in pochi anni1.
Bisogna però fare una considerazione di tipo più generale: in questo breve periodo, tra
la liberazione e le elezioni politiche del 1948, appare una nutrita serie di ricordi e testimonianze sugli anni del fascismo e su quelli della guerra e della lotta partigiana. È in questo momento che viene alla luce e prende voce la memoria e il racconto dell’antifascismo militante, che esce dalla clandestinità e dal lungo silenzio a cui era stato costretto nel ventennio e vuole farsi conoscere, narrare una storia che pure vi era stata ma pochi sapevano compiutamente. Vi è quindi anche un proliferare di piccole case editrici, alle volte semplici tipografie, che nascono e spariscono di continuo sull’onda di questa volontà di far conoscere la storia più recente, che stampano ricordi di vecchi antifascisti formatisi nell’epoca giolittiana e pagine della guerra in Russia e in Africa, memorie di lotta, commemorazioni di protagonisti caduti, episodi della resistenza armata. In questo panorama frammentato ed estremamente vivo di editori e ti-
1 Assai elevato è poi il numero degli articoli, apparsi soprattutto su giornali e riviste di carattere locale, e oggi difficilmente rintracciabili: questo aspetto della pubblicistica “minore” non solo è stato trascurato ma è addirittura da recuperare prima di una sua sparizione definitiva (ammesso che ciò non sia già in parte avvenuto). Per un lavoro in questo senso indispensabile sarà l’apporto dei vari Istituti storici della Resistenza, per ricerche diffuse e accurate sul territorio.
Andrea Devoto ha pubblicato due volumi bibliografici fondamentali sui problemi dei Lager, Bibliografia dell’oppressione nazista fino al 1962, Firenze, Olschki, 1964, e L ’oppressione nazista. Considerazioni e bibliografia, 1963- 1981, Firenze, Olschki, 1983, che contengono ben 3.200 schede e abbracciano l’intera realtà europea. L’opera del Devoto, proprio perché spazia su produzioni molto diverse per tematica e provenienza nazionale, non è solo uno strumento di lavoro ma propone una serie di problemi estremamente interessanti e offre un quadro comparativo degli studi e dei contributi. Rimane questo vuoto da colmare delle sparse testimonianze italiane, a cui si è accennato sopra. Una bibliografia più breve, a uso divulgativo, con alcune righe di commento per i singoli volumi (alle volte un po’ superficiali e affrettate) è stata pubblicata dall’Aned, Bibliografia della deportazione, Milano, Mondadori, 1982.
“Italia contemporanea”, settembre 1985, n. 160
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toli e argomenti, trova un suo spazio notevole anche la memoria della deportazione: se gli antifascisti e i partigiani sentivano la necessità di raccontare ciò che avevano vissuto, la testimonianza per gli ex deportati assumeva un significato ancora più profondo.
La tragicità dell’esperienza, realmente al limite del credibile, le violenze inumane viste e subite, l’impellente imperativo morale di narrare che cosa effettivamente era avvenuto nei grandi Lager, isolati dai reticolati percorsi dalla corrente elettrica, e nella miriade di sottocampi che avevano costellato e butterato la carta geografica della Germania hitleriana, il dovere di testimoniare, soprattutto in nome di coloro che non erano ritornati, spinge i reduci dal Lager a mettere per iscritto le proprie vicissitudini e quelle dei compagni caduti2.
Appaiono quindi un certo numero di memorie che, proprio perché vengono scritte immediatamente a ridosso degli avvenimenti, hanno la caratteristica di essere brevi, volutamente esemplari. In esse vengono raccontati pochi episodi, i più emblematici, e l’aspetto “infernale” della vicenda vissuta è molto sottolineato, basta a questo proposito scorrere i titoli e dare un’occhiata alle copertine delle opere, volutamente raccapriccianti e, al tempo stesso, realistiche. Ma queste testimonianze, che parecchi sopravvissuti ritenevano loro dovere fornire, venivano a cadere in un momento in cui gli italiani non erano
molto disposti a recepirle, non vi era volontà di ascoltare nuove e maggiori atrocità, oltre a quelle già vissute e, come dopo tutte le guerre, si preferiva guardare avanti. La prima edizione del libro di Primo Levi, Se questo è un uomo, nel 1947 passa abbastanza i- nosservata3.
Il periodo di tempo che va dal 1948 all’inizio degli anni sessanta è caratterizzato da uno scarso interesse per tutto ciò che riguarda antifascismo e Resistenza; il clima politico è tale per cui è già difficile ricordare i grandi temi che hanno portato alla liberazione, e la contrapposizione tra i partiti accentuata dal clima della guerra fredda costringono spesso le associazioni partigiane a rifugiarsi in manifestazioni e celebrazioni, che rischiano non poche volte la retorica o che comunque danno della lotta di liberazione una immagine monolitica e ufficiale. Anche la produzione editoriale risente ovviamente del clima del paese: bisogna però rilevare che in questi anni escono due opere fondamentali per la storia dell’antifascismo e della Resistenza: la Storia d ’Italia nel periodo fascista di Luigi Salvatorelli e Giovanni Mira, apparsa in prima edizione nel 1952 e poi riproposta nel 1956, e la Storia della resistenza italiana di Roberto Battaglia, del 1953, ancora oggi punti di riferimento obbligati per chi si accosta a questo tipo di studi. Questo è quindi un dato da tenere presente: la Resistenza ha la fortuna di avere molto presto i suoi storici ed esce, almeno in parte, dalla fase solo memo-
2 Uno dei primi testimoni, Aldo Bizzarri, così conclude il suo racconto “Scrivere questo volumetto è stato per l’autore come liberarsi da un incubo: una catarsi per la memoria ossessionata da tante immagini disumane e incancellabili. Solo adesso che tali immagini si sono in certo senso staccate dalla coscienza per fissarsi sulla carta, e possono essere contemplate dal di fuori, come oggetti, egli si sente tornato uomo normale fra gli uomini. Ma questo scrivere ha obbedito soprattutto a un altro stimolo: quello di compiere un dovere, al quale l’autore si sentiva impegnato sin dai giorni della prigionia nel campo... come lo scioglimento d’un voto”.3 Ricordo i testi più notevoli apparsi in questo periodo: Aldo Bizzarri, Mauthausen. Città ermetica, Roma, Oeti, 1946; Gaetano De Martino, Dal carcere di San Vittore ai “Lager” tedeschi, Milano, La Prora, 1955 [1945]; don Paolo Liggeri, Triangolo rosso, Milano, La Casa, 1946; Luciana Nissim e Pelagia Lewinska, Donne contro il mostro, Torino, Ramella, 1946; Ettore Siegrist, Dachau: dimenticare sarebbe una colpa, Genova, Stab, grafico F. Reale, 1945; Giuliana Tedeschi, Questo povero corpo, Milano, Edit, 1946; Gino Valenzano, L ’inferno di Mauthausen', Torino, Sam, 1945; Bruno Vasari, Mauthausen, bivacco della morte, Milano, La Fiaccola, 1945.
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rialistica. Lo stesso non si può dire della deportazione: le righe a essa dedicate nz\YEnciclopedia Italiana sono frettolose e del tutto inattendibili, per quello che riguarda la consistenza del fenomeno4; non appare inoltre nessuna opera che si sforzi di dare un primo inquadramento generale.
In questo difficile periodo appaiono anche alcune opere importanti sulla deportazione: ...Ma domani farà giorno di Teresa Noce (1952), legato alla precedente lotta antifascista e alla guerra di Spagna, e che rappresenta la più significativa esperienza nei Lager da parte della vecchia generazione, Un uomo e tre numeri di Andrea Fergnani (1955), Perché gli altri dimenticano di Bruno Piazza (1956), una delle più notevoli storie personali che però è stata scritta immediatamente al ritorno e quindi rientra nel primo tipo di produzione.
Non vi è più la fioritura spontanea e intensissima deH’immediato ritorno però, accanto alle opere sopra ricordate, appaiono i primi due libri destinati a un grande successo, veri classici della letteratura sui campi di sterminio e che passano nelle mani di moltissimi lettori, facendo conoscere la realtà della deportazione. Sono Si fa presto a dire fame di Piero Caleffi del 1954 e Se questo è un uomo di Primo Levi che, ripreso dall’editore Einaudi nel 1958, esce dall’ambito ristretto in cui era rimasto, per proporsi come il vero e proprio testo letterario della deportazione i- taliana5.
Pur tenendo conto del clima politico, mi pare che si possa affermare che negli anni cinquanta i deportati si rifugino nel silenzio: il racconto della loro tragica odissea era caduto sostanzialmente nel nulla, era stato recepito da pochi, confinato in una cerchia limitata per lo più di diretti interessati, e rimane affidato quasi esclusivamente a questi due testi di cui si è detto.
Ma quando, all’inizio degli anni sessanta, vi è un risveglio di interesse per l’antifascismo e la Resistenza, più chiari emergono i motivi di fondo di questa scarsa attenzione per la deportazione. Una svolta negli studi sul fascismo e la guerra è data dalle lezioni sul ventennio, accompagnate da testimonianze, che vennero tenute nelle maggiori città italiane, innanzi tutto per far conoscere questo periodo storico a una giovane generazione di studenti che mai l’aveva letto sui libri di testo, perché ignorato dai programmi ufficiali. Eppure bisogna attendere il corso tenuto a Milano nel 1961 per trovare una testimonianza di Piero Caleffi sui campi di sterminio: di questo problema non si parlava né nel corso romano del 1959 né in quello torinese del 1960, assai ampio e nel quale avevano trovato spazio, per esempio, anche gli esuli in Svizzera6.
In questo nuovo clima storiografico molti studiosi rivolgono la loro attenzione alla Resistenza, e la esaminano seguendo principalmente due filoni di indagine: il primo è costituito dall’analisi della Resistenza come lotta
4 Alla fine della voce Campo, campo di concentramento, si parla di 43.000 deportati politici (e la cifra non è molto lontana dal vero comprendendo gli ebrei), “di cui 8.382 morti, più numerosissimi ebrei italiani”: in realtà i morti possiamo stimarli in più di 40.000. Il volume esce nel 1948 e questi dati ci danno un’idea di quanto la deportazione fosse ancora sconosciuta nelle sue vere dimensioni. Ma lo sforzo di ricerca non progredisce di molto negli anni successivi: nell’Enciclopédia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. II, Milano, ed. La Pietra, 1971, alla voce Deportazione, Campi di, si legge ancora che circa 15.000 deportati non fecero ritorno. È da notare che già nel 1946 il ministero dell’Assistenza postbellica parla di 40.082 deportati politici deceduti.5 È da notare che dei cinque titoli citati, solo tre appartengono a pieno diritto al periodo preso in esame: il testo di Bruno Piazza infatti appare postumo, ed è stato scritto subito al ritorno, quello di Primo Levi, come ho detto, è an- ch’esso di molto precedente.6 Lezioni sull’antifascismo, Bari, Laterza, 1960; Trent’anni di storia italiana 1915-1945, Torino, Einaudi, 1961; Fascismo e antifascismo, II, 1936-1948, Milano, Feltrinelli, 1962.
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armata, con i primi lavori tesi a ricostruire le vicende delle varie formazioni partigiane, il loro nascere e la guerra per bande sostenuta; il secondo è incentrato sul dibattito ideologico e strategico tra le varie componenti partitiche della Resistenza stessa, che prefigurano quello che sarà il futuro dialogo politico nell’Italia liberata. Queste due caratteristiche la deportazione certo non le aveva ed è questo un motivo per cui non viene presa in esame: vi è una emarginazione, anche in campo storiografico, di coloro che avevano conosciuto i campi di sterminio. Il considerare la deportazione un evento eccezionale o peggio un accidente della guerra, è stato certo un grave errore degli storici sia perchè molti antifascisti e partigiani combattenti, proprio in quanto tali, vennero inviati nei Lager, sia perché la deportazione fu un momento importante di resistenza, vissuta in modo certo diverso e fuori d’Italia. Vi fu una opposizione al nazismo anche nei campi, che si esplicò non tanto nei pochi episodi di rivolta aperta o di sabotaggio dichiarato quanto nella difficile, quotidiana difesa contro la spersonalizzazione imposta dalle regole del regime tedesco. Il comportamento nel campo, il rifiuto dell’ab- bruttimento, dell’essere ridotti a numero fu un grande esempio di lotta antinazista.
Al silenzio della storiografia risposero i deportati, con alcuni incontri a livello locale, come a Torino a Palazzo Carignano nel 1958, primi segni significativi di una loro disponibilità a raccontare alle nuove generazioni, e con la straordinaria raccolta di documenti fotografici apparsi nel 1960 in un volume dal titolo Pensaci, uomo! a cura di Piero Caleffi e Albe Steiner, nel quale venne presentata la realtà dei Lager attraverso le immagini e che divenne un punto di riferimento non più eludibile. Ora il campo di sterminio aveva anche una sua rappresentazione, ciò
che era stato narrato dai testimoni veniva fatto vedere, i racconti che parevano irreali divenivano documento attraverso numerosissime terribili fotografie.
A partire dagli anni sessanta appaiono anche una serie di antologie che cercano di dare una visione globale: Ideologia della morte a cura di Domenico Tarizzo (1962), pur con le sue imprecisioni, e Notte sull’Europa a cura di Fernando Etnasi e Roberto Forti (1963), hanno avuto il pregio di rilanciare e far conoscere ad un pubblico più vasto il tema della deportazione, riprendendo alcune pagine della memorialistica meno conosciuta, anche se l’attenzione è rivolta principalmente a quella europea. Le due antologie si sforzano di fornire un primo momento di sintesi e, giustamente, inquadrano il fenomeno nel contesto complessivo del nazismo e della guerra. La specificità dell’esperienza italiana rimane un po’ in ombra, non sufficientemente esaminata nelle sue caratteristiche peculiari. Pochi sono nel periodo i volumi contenenti ricordi diretti: tra i più rilevanti quelli di Pietro Pascoli I deportati (1960), lo straordinario racconto di un viaggio di ritorno, fatto da Primo Levi con La tregua (1963) e di Vincenzo Pappalettera, Tu passerai per il camino (1965), che riporta anche una serie di documenti e testimonianze, nello sforzo di una prima sistemazione storica, e che avrà una notevole diffusione.
Però il problema della consistenza e delle caratteristiche generali della deportazione degli italiani non viene ancora affrontato e non lo sarà neppure negli anni successivi, non solo ma la stessa memorialistica si affievolisce; bisognerà attendere il 1971 per trovare due altri volumi importanti, La quarantena. Gli italiani nel Lager di Dachau, di Giovanni Melodia, e Diario di Gusen di Aldo Carpi7. Per quanto riguarda la ricostruzione
7 Quest’ultima opera è composita: è infatti costituita da una serie di schizzi e disegni, dal diario scritto da Carpi in campo (la sua qualifica di pittore gli permise di avere carta e matita, anche se il tenere degli appunti era ovviamente
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storica è da segnalare l’unico volume sinora apparso, quello di Valeria Morelli, I deportati italiani nei campi di sterminio (1943- 1945), (1965), che riporta tra l’altro una serie di nominativi di caduti, nei vari campi8. Ma mentre per alcuni, come Mauthausen principalmente e in parte Dachau e Buchenwald, gli elenchi paiono abbastanza completi, per altri la documentazione riportata è quasi inesistente (Auschwitz, Gross Rosen, Raven- sbriick, anche Bergen Belsen): l’autrice inoltre fa anche una ipotesi assai cauta sul numero dei decessi degli italiani ed afferma che furono oltre 15.000. Purtroppo nulla è detto sulle fonti consultate e sui criteri seguiti per il lavoro, certo notevole, che ha permesso di compilare gli elenchi: in tal modo ogni riscontro è impossibile e qualsiasi sistematizzazione e persino conoscenza del materiale preclusa. Del tutto misteriose e non giustificate appaiono poi le considerazioni che la spingono a darci questa cifra di caduti.
Nel 1970 viene condotta un’indagine, promossa dall’Aned (l’associazione degli ex deportati), e svolta dalla Doxa. Furono effettuate 317 interviste, utilizzando un questionario “semi-direttivo”, con una serie di domande che in molti casi lasciavano la possibilità di un ventaglio di risposte abbastanza
ampio. Il risultato che ne scaturì Un mondo fuori dal mondo (1971) non rispose un pieno all’attesa. A parte alcune perplessità di fondo sulla scelta del campione9 non si può non rilevare come le tavole statistiche della prima parte diano risultati contraddittori e spesso fuorvianti10, le domande siano troppo rigide o talmente vaghe da permettere più di una risposta, con difficoltà poi di elaborazione. Quello che però risulta più discutibile è la seconda parte del volume, costituito da un’antologia di risposte individuali, in cui più emerge la carenza dello strumento usato, un questionario applicato da tecnici di rilevazione, che non può servire a darci l’intensità e neppure la realtà della vicenda vissuta. Anche per l’assenza di una prospettiva storica, emerge un quadro confuso, disegnato da poche frasi slegate da ogni contesto, un’immagine caotica senza capo né coda. Ciò che lascia più sconcertati e perplessi nel volume è però il tentativo di quantificare non solo ciò che è giusto e doveroso cercare di capire (i motivi della deportazione, il lavoro nei campi, la solidarietà tra gruppi) ma anche aspetti emotivi e del tutto personali, quali i “ricordi più tristi” , gli “stati d’animo”, che non ha nessun senso, credo, ricondurre a percentuali.
proibito) e da una serie di interventi registrati dopo venticinque anni, che chiariscono e ricuciscono insieme certi episodi. Nel suo insieme costituisce un interessante confronto tra ciò che era stato annotato allora (e mai più volutamente riletto) e la memoria degli avvenimenti a distanza di molti anni.8 In precedenza era uscito solo un opuscolo, a cura dell’Aned nel 1954, L ’oblio è colpa, contenente tra l’altro un elenco di circa 6.000 deportati, a cura di E. Fergnani e G. Calore che, pure con molte lacune e qualche inesattezza, rappresentava l’unico tentativo fatto in questa direzione.9 Un solo esempio: il campione iniziale di 600 individui, ridotti poi a 488 (80 per cento) in base a non chiari privile- giamenti territoriali, subisce, per vari motivi, una caduta del 35 per cento (quasi del 50 per cento se ci rifacciamo alla prima cifra) fissandosi in 317. Una riduzione così drastica stravolge del tutto la sua rappresentatività, in quanto esso avrebbe dovuto essere ricostruito e ripensato in base ai parametri iniziali che lo avevano determinato.10 La tabella 4, in seguito ad una domanda mal posta, accentua in modo esasperato la casualità dell’arresto: le successive tabelle 5 e 6 (che forniscono per altro dati contraddittori) solo in parte attenuano questa impressione. È de! tutto non credibile per esempio la tabella 8 dalla quale emerge che ben il 34,7 per cento degli intervistati sapeva dell’esistenza dei “campi di deportazione”; infine anche il quadro generale propostoci dei Lager è inattendibile (tab. 12): le cifre percentuali della presenza italiana nei Lager e sottocampi risulterebbero i seguenti: Mauthausen 64 per cento, Auschwitz 17,6 per cento, Buchenwald-Dachau-Flossenburg (non viene detto perché realtà così differenti siano unificate) 22,7 per cento, dati che da soli denunciano come il campione sia del tutto casuale e non, secondo quanto affermato, studiato e meditato, oppure che sia stato stravolto, come detto nella nota precedente.
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Nel 1973 appare Nei lager c’ero anch’io di Vincenzo Pappalettera, un’antologia costituita da un numero rilevante di brani presi dalla memorialistica europea con una maggiore attenzione, finalmente, per quella italiana, e che ha il pregio di riproporre passi inediti o di difficile reperimento. Poiché le citazioni, pur come detto numerose, hanno una loro compiutezza, in questo caso non si cade nelle brevi, troppo brevi e frammentarie, testimonianze del testo precedente.
L’inizio degli anni settanta ci presenta quindi tre filoni di sviluppo, per quanto riguarda il nostro tema, che continueranno: il memoriale, l’inchiesta, l’antologia.
Per quanto riguarda il primo settore, si può dire che, dopo i libri di Melodia e di Carpi, non vi siano più state opere di alto valore, a parte alcuni eccezionali racconti di Primo Levi, sparsi nei suoi libri, nei quali il taglio letterario è ormai del tutto prevalente su quello della semplice e scarna testimonianza11.
Negli ultimi anni si è verificato un fenomeno nuovo: iniziano a pubblicare i loro ricordi coloro che non l’avevano mai fatto prima. Ciò è importante per una serie di motivi, prima di tutto la rinnovata disponibilità dei protagonisti a raccontare, sopratutto alle nuove generazioni dato che i loro coetanei non avevano voluto ascoltare al momento del ritorno cosa essi avevano vissuto in Germania: la barriera del voluto silenzio è quindi superata. Inoltre molti tra coloro che scrivono oggi sono non-intellettuali, operai e artigiani che avevano dovuto interrompere presto gli studi o li avevano seguiti in modo irregolare, e la cui educazione comunque era
passata poco per le scuole e molto di più attraverso i mestieri, la vita di quartiere e di officina, la vecchia, tradizionale cultura del popolo. Eppure anche costoro, che in genere non avevano un rapporto facile con il foglio scritto, non per questo avevano rinunciato a fissare in un diario la loro esperienza del Lager: queste pagine, compilate in tempi diversi, ci vengono presentate ora con la vivezza e la spontaneità propria di chi non è abituato a mediazioni culturali12. La nuova memorialistica non ha più il linguaggio conciso che aveva contraddistinto i primi volumi di ricordi: allora le testimonianze erano asciutte, limitate a pochi episodi ritenuti essenziali ed emblematici, il discorso assumeva un taglio quasi giuridico, di deposizione di fronte a un tribunale, costituito da tutti gli uomini che non avevano conosciuto i Lager, non per emettere condanne ma per far sapere e ricordare. Adesso vi è il racconto di gente comune che si è trovata in questa situazione estrema e che ripercorre la propria esperienza nella sua interezza, rievoca anche i particolari minori e i piccoli episodi, descrive la vita quotidiana del campo, che si trascina in un succedersi di giornate monotone scandite dagli interminabili appelli, dai turni di lavoro, dalla distribuzione delle misere razioni di cibo, dalla morte dei vicini di baracca, nella sempre maggiore spossatezza fisica, nella necessità d’arrivare al giorno successivo. Vi è quindi, rispetto alla testimonianza esemplare del primo periodo, un diario totale che recupera tutti gli aspetti.
Un secondo filone di indagine sui Lager è costituito da opere che privilegiano l’inchiesta, il questionario. Dopo quella della Doxa,
11 Vedi II sistema periodico (1975) e la prima parte, Passato prossimo, di Lih't (1981), ma anche Se non ora, quando? (1982). Come dice l’autore stesso in una testimonianza data nel lavoro svolto sugli ex-deportati piemontesi “ero diventato uno scrittore. Il Primo Levi che ha scritto Se questo è un uomo non era uno scrittore, nel senso comune del termine, cioè non si riprometteva un successo letterario”.12 II più interessante è quello di Calogero Sparacino, Diario di prigionia. Un siciliano nel Lager, Milano, La Pietra, 1984; un altro esempio è dato dal volumetto di Giuseppe Zorzin, Dalla tuta blu ai campi di sterminio, ANPI di Ronchi dei legionari, tip. art., Tricesimo (Ud), 1981.
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sopra ricordata, venne svolta nel 1978-79 una ricerca di “psicologia politica” sui superstiti dei Lager che, attraverso una serie di colloqui focalizzati, tendeva a approfondire, come dice il titolo del volume poi pubblicato da Massimo Martini, II trauma della deportazione (1983). Anche in questo caso, attorno ad alcune parole chiave, (per esempio paura, morte, fortuna, sopravvivere, ecc.) vengono riportate brevi frasi dei colloqui. Il tentativo è certo interessante ma i risultati lasciano qualche perplessità, dal momento che vi è, nella stesura del testo, una finalizzazione ai vari argomenti: le brevi frasi riportate rimangono avulse dal contesto dell’esperien- za del singolo e l’uso dell’anonimato accentua il carattere un po’ freddo di analisi da laboratorio dell’indagine. L’individuo risulta scomposto nelle sue reazioni, quasi sezionato, sino a sparire in categorie troppo rigide13.
Negli ultimi anni sono apparse una serie di antologie che alternano documenti, ricostruzioni storiche, pagine della memorialistica e testimonianze di deportati, per lo più promosse dall’Aned o da enti locali. L’intento di fornire degli strumenti di conoscenza soprattutto agli studenti è certo lodevole, ma non sempre i risultati corrispondono all’entusiasmo dei promotori. Le varie sezioni dei libri si accavallano senza un disegno organico, alle volte i dati riportati sono contraddittori o non esatti, e anche le testimonianze vengono presentate in modo apodittico, così che ne risente la ricostruzione complessiva. Un tentativo interessante è quello fatto dall’Amministrazione provinciale di Pavia, che ha affidato proprio a degli studenti, che erano stati con viaggi-studio nei campi di concentramento, la composizione di un volume Dai lager (1980) che risulta davvero un importante strumento didattico, per la serietà della ricerca condotta e la partecipazione degli auto
ri-studenti all’argomento, senza alcuna presunzione di porsi come punto di riferimento scientifico.
Credo che valga la pena di fare alcune riflessioni sulla produzione degli ultimi anni, non tanto riferendomi a determinati volumi, quanto a delle linee di tendenza interpretativa che li hanno caratterizzati e forse anche sollecitati.
Il primo punto che mi pare rilevante è quello della prevalenza che il campo ha ormai assunto rispetto all’individuo. Sempre più nelle antologie e nelle inchieste si parla del Lager come di una entità univoca, sino a farlo assurgere ad una categoria, nella quale si possono poi individuare una serie di scansioni, che sono ovviamente quelle unificanti (la fame, il freddo, le botte, la spersonalizzazione). Questa tendenza mi pare pericolosa, da un lato perché non molto utile, dal momento che basta rifarsi alle prime testimonianze per avere un quadro sufficientemente vasto di questi aspetti, che sono oramai largamente conosciuti, da un altro lato perché viene riaffermata l’esistenza di un Lager indistinto e tutto sommato astratto. Anche per la mia esperienza di ricerca diretta credo non si possa parlare del Lager, ma piuttosto di una galassia concentrazionaria, costituita da un conglomerato di campi e situazioni, anche assai diverse tra loro. Leggendo le memorie e le testimonianze ci si rende conto che ogni deportato conosce e ha vissuto un orizzonte estremamente limitato (la sua baracca, il suo Kommando di lavoro) in un universo dalle dimensioni enormi. Vi è quindi il problema del recupero dell’esperienza dell’individuo, che viene sempre più annullato in categorie “sociologiche”. Il rischio di questo tipo di antologie è di unificare situazioni molto differenti e di ricondurre le persone a una esistenza di gruppo, costringendole in una
13 Questa mia impressione, che l’indagine sia stata un po’ troppo finalizzata ad una analisi psicologica, pur rigorosa, che voleva mettere in risalto i caratteri più salienti della “sindrome” da deportazione, mi pare sia confermata dalle ridotte risposte dei deportati interpellati: su circa 200 persone solo 70 hanno partecipato all’iniziativa.
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serie di astrazioni che vengono loro imposte e nelle quali a grandi linee possono anche riconoscersi, ma che negano di fatto la loro identità specifica.
Un secondo aspetto da sottolineare è quello costituito dall’uso che viene fatto delle testimonianze dirette. Non voglio affrontare il problema metodologico generale ma solo rilevare come, anche per la diffusione recente della storia orale, vi sia un affannoso ricorso ai testimoni, e si utilizzino brevi ricordi, alle volte episodici, per avallare ricostruzioni storiche globali. Credo sia necessario essere più problematici nella raccolta delle testimonianze e più attenti nella loro utilizzazione: l’uso di questo strumento, da parte dello storico, è assai delicato e i rischi cui si va incontro sono notevoli, soprattutto quando vengono riportati brevi frammenti di colloqui, le cui modalità di svolgimento non sono quasi mai dichiarate.
Alla fine degli anni settanta appaiono alcuni contributi che mi paiono assai importanti per lo sviluppo degli studi nel settore. Nel 1978 esce Le donne di Ravensbrück di Lidia Beccaria Rolfi e Anna Maria Bruzzo- ne, che raccoglie la storia di cinque donne italiane deportate nel più grande Lager femminile in terra tedesca. Questo volume rappresenta una risposta ad alcune perplessità che ho esposto prima. In esso vengono presentate delle storie di vita complessive, non limitate al periodo del campo, e alla voce delle protagoniste viene dato uno spazio considerevole: si evitano così i due scogli costituiti dall’utilizzazione breve e frammentaria di brani di testimonianze e dalla prevaricazione dell’immagine del Lager, dominante su tutto. Le “donne di Ravensbrück” hanno un passato per il quale vengono deportate e una
storia individuale nel campo, diversa per ognuna di loro. Inoltre proprio questa pluralità di voci permette di superare l’assolutizza- zione del “personale”, così presente in molta memorialistica e che fa ricondurre la realtà della deportazione alla propria vicenda particolare. L’accostamento di storie diverse vissute nello stesso campo ci permette sia di fare una comparazione sulla memoria delle protagoniste (gli stessi avvenimenti sono ricordati diversamente) sia di renderci conto del numero incredibile di situazioni esistenti in questa galassia concentrazionaria, come dicevo prima, e la cui realtà solo le storie singole possono restituirci.
Nel 1979 viene pubblicato II nazismo e i Lager di Vittorio Emanuele Giuntella, il primo libro italiano (e sinora l’unico) che dà un panorama complessivo dei Lager, studiati nella loro struttura e organizzazione, a partire dalla concezione nazista del mondo che li aveva fatti nascere sino a giungere all’esame della deportazione nei piani economici di guerra. L’importanza del libro di Giuntella è costituita proprio dal suo porsi come limite tra due momenti: esso ci offre un’immagine sistematica della materia, riconducendo ad un disegno organico tanti contributi della memorialistica, e ponendosi come punto di riferimento attento e circostanziato della deportazione, ma al tempo stesso costituisce uno stimolo per l’avvio di nuove ricerche ed indagini14. La sua impostazione denuncia, e non poteva essere altrimenti, una carenza di ricerche specifiche sulla situazione italiana, e si appoggia principalmente su lavori di scrittori stranieri15.
Un terzo rilevante lavoro è il libro di Andrea Devoto e Massimo Martini La violenza nei lager (1981), che affronta il problema
14 Non credo, come l’autore dice, che “si conosce tutto, o quasi tutto” dei campi. Vi sono ancora spazi non indifferenti da esplorare e la raccolta di storie di vita dei deportati piemontesi, ancora in corso, svela nuove realtà, come del resto anche la memorialistica apparsa successivamente a questo libro, scritta prevalentemente da non-intellettuali.15 Quando accenna ai dati complessivi della deportazione italiana, Giuntella non può far altro che limitarsi a caute ipotesi (p. 125 e n. 61, p. 131), affidandosi a dati che, come sottolinea, sono assai incompleti.
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dell’“interpretazione in chiave prevalentemente psicologica del fenomeno concentra- zionario nazista”, un tema che ha avuto in Europa una certa fortuna sia per il carattere del tutto particolare di “istituzione totale” che il lager ha rappresentato, sia perché moltissimi medici deportati hanno raccontato la loro esperienza da un punto di vista professionale ed hanno continuato ad occuparsene, organizzando anche dei congressi internazionali sulle conseguenze della deportazione tra i sopravvissuti. Tre testi importanti, questi che ho richiamato, che ci indicano piste di indagine da seguire ed ampliare.
Vi è anche un altro settore che richiede uno sforzo di analisi e ricerca ben maggiore di quello che gli è finora stato dedicato: parlando prima delle dimensioni del fenomeno ho messo in rilievo come le cifre siano ancora disparate e non controllate. È certamente vero che sarà difficile avere dei dati del tutto esatti, ma è altrettanto vero che è possibile cercare di avvicinarsi alla realtà partendo da una verifica sul territorio, studiare cioè la deportazione alle origini, in senso letterale alla
partenza. Si tratta di esaminare tutta una serie di dati, dei registri delle carceri, degli archivi di polizia, dei trasporti e confrontarli con le molte memorie, in modo da permetterci di avere finalmente una immagine assai più precisa della deportazione, sia per una verifica della sua effettiva consistenza sia anche per determinare i motivi per i quali si veniva mandati nei Lager. Il volume di Flavio Fabbroni, La deportazione dal Friuli nei campi di sterminio nazisti (1984)16 e gli articoli di Italo Tibaldi, La deportazione dall’Italia: i trasporti, apparsi in “Triangolo Rosso” (1983-84) sono due significativi esempi di ricerca, che ci forniscono una serie di dati preziosi ed indispensabili.
Queste ultime opere che ho ricordato dimostrano quali sviluppi possano avere questi studi e credo che la rilettura della memorialistica, la puntuale ricostruzione zona per zona del fenomeno, la raccolta delle testimonianze e delle storie di vita, potranno darci gli elementi necessari e ancora non conosciuti per ricostruire la storia dei deportati e della deportazione italiana.
Federico Cereja
16 È un peccato che l ’autore non dica nulla sulla metodologia seguita nel raccogliere le numerose testimonianze che utilizza, né presenti in modo più preciso gli intervistati. Ancora una volta la memoria orale sembra raccolta in modo casuale, e l’immagine che ne risulta non può che essere parziale.
PR O PO ST E E R IC ER C H EFascicolo XV, estate-autunno 1985
Stampa periodica, informazione, istruzione agricola nelle Marche, parte II: altri interventi nelle giornate di studio di Jesi e Sarnano (20 aprile e 10 novembre 1984). Contributi di: Angiola M. Na- polioni, Dalle Accademie settecentesche alle Cattedre Ambulanti nelle Marche Centrali; Carlo Verducci, L'agricoltura nei periodici ufficiali dei dipartimenti marchigiani in età napoleonica; Alberto Pellegrino, Stampa locale maceratese e mondo agricolo-, Sergio Pretelli, L'istruzione agricola nella stampa urbinate, 1861-1906; Viviana Bonazzoli, Pubblicazioni periodiche e opuscoli della Cattedra Ambulante di Pesaro fino al 1930; Francesco Allegrucci, La popolazione della diocesi di Gubbio in una carta topografica delXVI secolo; Franco Amatori, Alle origini dello sviluppo industriale marchigiano: gli anni dall’unità alla prima guerra mondiale', Gianni Volpe, Il patrimonio architettonico rurale. Indagine su un'area campione del comune di Fossombrone.
Note
Corrado Leonardi, Il vescovo Honorato degli Honorati da Serra de' Conti, fondatore dei Monti Frumentari nelle diocesi di Urbania e di Sant'Angelo in Vada, Barbara Scaramucci, L ’azienda bachicola Scaramucci di Castignano tra Otto e Novecento-, Gianni Tofani, L'atterrato di fìipabe- rarda.
In itinere
Autori vari, Il volume Einaudi sulle Marche per la Storia delle Regioni d ’Italia: sommario dei contributi dì S. Anseimi, M. Dean, D. Fioretti, P. Magnarelli, S. Anseimi, E. Sori, C. Verrelli, C. Verducci, V. Bonazzoli, M. Moroni, G. Allegretti, G. Volpe, A.M. Mancini, L. Rossi, D. Fioretti, M. Guzzini, N. Cecini, A. Valentini, R. Rossini, A. Minetti, F. Amatori, S. Pretelli, P. Sabbatucci Severini, M. Blim.
La pesca
Renato Novelli, Cartografia e portolano di un pescatore di San Benedetto del Tronto.
Convegni, seminari, recensioni
Ascoli Piceno: l'agricoltura nelle Marche d ’oggi (l.r.); Lanciano di Castelraimondo: "Città e territorio nella storia d ’Italia" (v.b.) con lo schema della relazione di S. Anseimi sulla Città deli’Appennino marchigiano] Luigi Rossi, Potere e nobiltà nell’Italia minore tra Cinque e Seicento: un libro di Tommaso Fanfanr, Gli “Incontri di Carcassonne”: le riviste di etnologia nell'Europa del Sud.
Attività della Sezione
La XXXVI giornata di studio (Senigallia, 4 maggio 1985); la tavola rotonda su una biografia di Alessandro Bocconi e primo approccio ad una ricerca sul “primo maggio” marchigiano (5 luglio 1985).
Rassegna bibliografica
I quaderni di "Proposte e ricerche" escono semestralmente a cura della Sezione di storia dell'agricoltura e delle società rurali dei Centro Beni Culturali Marchigiani (Facoltà di Economia e Commercio)
della Università degli Studi di Urbino. Comitato di direzione e redazione: S. Anseimi, V. Bonazzoli, G. Carnevaletti,M. Dean.C. Leonardi, P. Magnarelli, A.M. Napolioni, R. Paci, S. Pretelli, P. Sabbatucci Severini, E. Sori.
Corrispondenza, manoscritti, libri per recensione vanno inviati a Segio Anseimi. I versamenti per abbonamento debbono essere intestati a Proposte e ricerche, ccp. 11480605. Un numero L. 6.000; abbonamento annuo ital. L. 10.000;
estero 20.000; un fase, arretrato L. 8.000. Direttore responsabile: M. Anseimi.
Chiesa, religiosità e partecipazione politica dei cattolici italiani
da Pio IX a Leone XIIIdi Filippo Mazzonis
Criticato e vilipeso duramente dai suoi avversari di parte liberale o cattolico liberale, osteggiato anche da ampi settori del Sacro Collegio, il cardinale Giacomo Antonelli, dal 1848 e fino alla propria morte Segretario di Stato di Pio IX, non ha certo goduto di una migliore reputazione da parte della storiografia (tranne quella decisamente clericale), che si è sempre espressa in termini fortemente critici e tutto sommato negativi (esclusa l’equilibrata voce di R. Aubert per il Dizionario biografico degli italiani).
Ora su di lui disponiamo di un’ampia biografia, opera di uno studioso rigoroso come Carlo Falconi, profondo conoscitore della storia delle vicende ecclesiastiche in età moderna e contemporanea1.
Superando i limiti imposti dalla moda editoriale delle biografie, in un’opera basata su di un consistente apparato di fonti bibliografiche e archivistiche, attenta ai problemi e ai temi suggeriti dal dibattito storiografico sugli aspetti più generali, Falconi ha saputo offrirci dell’Antonelli un ritratto assai diverso e ben più attendibile rispetto all’immagine stereotipata (ma, ahimè, abbastanza consolidata) che ci è stata tramandata. Sia chiaro
che l’autore non ha inteso ribaltare un mito negativo per sostituirlo con un altro tutto positivo2, bensì ha cercato di ridisegnare i contorni reali del personaggio sia confrontandolo storicamente con quegli esempi che rappresentano un immediato punto di riferimento (da Richelieu a Mazzarino a Consalvi) e sia, soprattutto, inserendolo nel concreto contesto dei suoi tempi. Un contesto che era inevitabilmente e irreversibilmente proiettato verso l’abbattimento e la fine del principato civile dei papi: un dato di fatto di cui l’Anto- nelli, in piena sintonia con Pio IX, si dimostrò subito convinto come pure era convinto che esso rappresentasse un elemento indispensabile affinché la Chiesa riacquistasse il proprio potere.
Rinunciare allo Stato, per meglio dire a questo staterello, significava per la Chiesa, liberarsi della dimensione nazionale, propria di una concezione ideologico-istituzionale liberale, per riacquistare la dimensione internazionale o meglio sovranazionale che era propria (per definizione) della concezione cattolica.
D’altro canto il papa non poteva certo prescindere a cuor leggero da quel “principato civile, che la Divina Provvidenza volle dona-
1 Carlo Falconi, Il cardinale Antonelli. Vita e carriera del Richelieu italiano nella Chiesa di Pio IX, Milano, Monda- dori, 1983, p. 627.2 Tutte le accuse mosse all’“impopolare e interessato ciociaro”, come lo definivano sprezzantemente i suoi avversari, escono confermate, anche se in parte ridimensionate e, comunque, meglio configurate: cfr. a titolo esemplificativo i capp. XXI (Gli uomini del dittatore, pp. 257-275) e XXIII (Potere e sregolatezza, pp. 298-328) e le pp. 543-546 delle conclusioni.
‘Italia contemporanea”, settembre 1985, n. 160.
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re a questa Santa Sede”: non si poteva quindi ammettere che il suo Stato fosse travolto dalla bancarotta finanziaria o rovesciato da una rivolta interna dei “fedelissimi e amatissimi sudditi” . Non si spiegherebbe altrimenti come un politico della statura di Antonelli, una volta giunto al potere dopo il terremoto politico istituzionale della Repubblica romana, limitasse il proprio impegno riformatore, di cui aveva già dato buona prova in passato3, a dei semplici ritocchi rispetto ad alcuni degli aspetti più gravi deH’amministrazione, soprattutto nel dissestato campo delle finanze (pp. 287-289, contemporaneamente perseguitando, con zelo degno di miglior causa, tutte quelle forme di dissenso politico che potevano degenerare in aperta ribellione4, e preoccupandosi di garantire il miglior successo di propaganda all’immagine del rapporto paterno che legava il sovrano ai suoi “dilettissimi figli”5. Tutto ciò ci permette soprattutto di comprendere la reale portata dell’azione politica svolta dall’Antonelli in campo internazionale: provvisto di un grande intuito accoppiato a una buona dose di realismo politico, dotato di tutte quelle qualità essenziali nelle trattative diplomatiche di cui Pio IX era invece privo (dalla grande tenacia alla spregiudicata duttilità), non solo gli riuscì di stipulare un numero consistente di Concordati (p. 278 e sgg.), alcuni dei quali, come quello con l’Austria, contribuirono
a sancire l’affermazione della concezione piena del ruolo della Chiesa nella società, ma seppe altresì salvaguardare dall’interessata ingerenza delle potenze l’autonomia di scelta e di decisione della Chiesa nel campo del proprio magistero. E ciò in più di un’occasione decisiva, quale, ad esempio, quella della canonizzazione dei martiri giapponesi nel 1862 (pp. 399-403), quella della proclamazione del Sillabo (pp. 405-409), o infine, e soprattutto, per la definizione dogmatica dell’infallibilità pontificia durante il Concilio Vaticano I (p. 433 e sgg.).
Altrettanto importante fu il ruolo diplomatico dell’Antonelli su un terreno più immediatamente politico: prodigo e instancabile in materia concordataria, si dimostrò più restio, anzi del tutto restio, a stipulare alleanze sia con le grandi potenze sia con gli altri Stati italiani6 * * * * li. Muovendosi con grande abilità seppe far cadere tutte quelle profferte che, lungi dall’impedire la conclusione del Risorgimento, avrebbero sortito il solo effetto di accomunare in un’unica sorte tutti i principati italiani e di coinvolgere il piccolo Stato Pontificio nei complicati rapporti internazionali. Il potere temporale, che era stato all’origine della più antica istituzione statuale italiana, doveva essere l’ultimo a cadere, abbattuto, non dalle trame di chi mirava a ridisegnare la carta geopolitica dell’Europa, bensì dalla “congiura di odii e di nequi-
3 In proposito, cfr. pp. 74-99 e 110-120.4 Quando la ribellione si verificò Antonelli non esitò a reprimerla con spietata fermezza: come fu nel caso delle “stragi” di Perugia, la cui entità mi pare che Falconi sottovaluti, attribuendo agli “intrighi” diplomatici di Napoleone III e Cavour (cfr. p. 333 e sgg.) la triste fama di un avvenimento che rimase a lungo nella memoria della popolazione perugina.5 Si veda, p. es., la cura minuziosa con cui l’Antonelli preparò il programma del viaggio di Pio IX attraverso i suoi Stati nell’estate del 1857 (cfr. p. 293 e sgg.).6 A Roma non mancavano, anche molto vicino a Pio IX, quanti ritenevano che lo Stato pontificio potesse/dovesseessere salvato e che la via della sua salvezza passasse attraverso un’opera di rinnovamento interno e di rafforzamentoall’esterno basato su di un sapiente gioco di alleanze e di riforme: il papa, benché fosse nel suo intimo di tutt’altroavviso, fu costretto a cedere alle pressioni e ad affiancare alI’Antonelli monsignor De Merode, che era la figura piùrappresentativa della fazione fautrice della linea di rinnovamento. Ebbe così inizio nel 1860 un periodo, che il Falconi definisce di “ambiguo dualismo governativo”, al termine del quale (dopo la Convenzione di Settembre) l’Antonelli si trovò “più che mai in sella” (cfr. p. 361 e sgg.).
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zie” messa in opera dal mostro liberale, contro il quale fino all’ultimo a Roma non si cessò di combattere. Qui sta il significato delle reiterate proteste e condanne e il significato della resistenza dimostrativa opposta a Ca- stelfidardo7 o di quella ultima breve del 20 settembre a Porta Pia, in seguito alla quale l’Antonelli si costituì “prigioniero politico” in Vaticano (p. 467 e sgg.): rendere palese di fronte al mondo intero e alla storia che la Chiesa cedeva solo alla violenza dei liberali.
Per quanto riguarda poi la dimensione più propriamente strutturale del potere della Chiesa mi pare opportuno ricordare che l’affermarsi della rivoluzione italiana negli anni 1860-1870 comportò l’abbattimento e lo smantellamento di strutture oggettivamente superate, addirittura anacronistiche rispetto al regime capitalistico ormai affermatosi in Europa e che si andava affermando anche in Italia e, pertanto, oggettivamente destinate a costituire un impedimento per qualsiasi sviluppo della Chiesa. Una situazione ben nota al Segretario di Stato, come egli stesso lucidamente ammise con numerosi diplomatici accreditati a Roma. Inoltre, le rendite venute a mancare in seguito alle progressive perdite territoriali e alla liquidazione dell’asse ecclesiastico furono ampiamente compensate dal notevole incremento subito dai tradizionali canali d’entrata e, soprattutto, dall’eccezionale “spontanea” ripresa dell’Obolo di San Pietro prontamente coordinata dall’Anto- nelli. In Vaticano venne così concentrandosi una consistente quantità di capitali, utilizzabili per investimenti e speculazioni (più le se 7 8
conde che i primi, in questa fase) al netto non solo da qualsiasi fiscalizzazione, ma anche (praticamente) da onerose spese di gestione8.
Possiamo dunque osservare, per concludere, che la Chiesa, divenuta anch’essa una potenza capitalistica, libera dagli impacci che le istituzioni nazionali le avevano imposto in passato, vedeva la propria presenza espandersi e radicarsi nei cinque continenti: tutto questo avveniva senza scendere a compromessi che potessero pregiudicare i tempi e i termini del suo inserimento nella nuova realtà. Fu il risultato strategico del pontificato di Pio IX, alla cui realizzazione sul piano tattico il cardinale Antonelli seppe assicurare un personale e decisivo contributo: un merito, mi pare, non di poco conto e che gli vale di essere considerato fra i grandi politici del suo tempo (cfr. le considerazioni conclusive alle p. 537 e sgg.).
Questo bilancio positivo avrebbe potuto anche volgere al negativo frantumandosi nella molteplicità delle realtà locali, qualora fosse venuta meno l’unità della Chiesa nella certezza dogmatica in materia teologica e dottrinaria. Un pericolo tutt’altro che ipotetico date le profonde divisioni esistenti all’interno del clero e perfino delle stesse gerarchie, cioè a dire tra gli intellettuali della Chiesa-organizzazione clericale preposti a guidare la Chiesa-comunità dei fedeli: da una parte tali divisioni erano il frutto del retaggio culturale di quelle dottrine in odore di eresia o al limite dell’ortodossia che avevano travagliato la vita della Chiesa lungo più di
7 Mi pare che Falconi (cfr. pp. 355-356) attribuisca assai poca importanza alle accuse allora mosse all’Antonelli da De Merode e da altre personalità di aver fornito false informazioni al generale Lamoricière (che a Castelfidardo comandava le truppe pontificie), sì da fargli perdere la battaglia. Le risposte delI’Antonelli allora non furono del tutto convincenti, e i dubbi in merito alla faccenda, a mio avviso, permangono: ma essi, tanto più se hanno qualche fondamento di verità, non fanno che rafforzare la mia ipotesi di fondo.8 Tanta disponibilità di capitali anche per l’attrazione inevitabilmente esercitata su banchieri e speculatori di ogni tipo, pose non pochi problemi all’Antonelli, che aveva accentrato nelle sue mani l’organizzazione e la gestione dell’intera operazione: inoltre, in più di un’occasione, il cauto e prudente atteggiamento del Segretario di Stato si rivelò decisivo nel frenare gli ingenui entusiasmi del pontefice. Cfr. pp. 375-383, 420-422 e 491-496.
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due secoli per poi risolversi più o meno drammaticamente, più o meno definitivamente nel confronto con la rivoluzione francese; dall’altra si presentavano come l’espressione di esigenze e fermenti nuovi maturati nel clima degli anni della Restaurazione in risposta ai quali i pontificati di Leone XII e Gregorio XVI avevano saputo offrire solo una linea intransigente e priva di prospettive, perduta come era nello sterile rimpianto della grandezza passata. Ne erano sorte due posizioni antitetiche e inconciliabili — i cattolici liberali e gli ultramontani — i cui dissensi, non di rado clamorosi, finivano per penalizzare l’azione politica e pastorale della Chiesa, diventando lo strumento per pressioni, ricatti e interferenze di ogni sorta, e aggravando il disagio e le insofferenze presenti nel più vasto mondo cattolico soprattutto fra gli esponenti delle classi dirigenti. Questi ultimi preoccupati delle insidie che alla propria egemonia potevano venire dai continui turbamenti sociali (soprattutto dalle conseguenze del Quarantotto), sollecitavano i vertici ecclesiastici nel senso della formazione di un fronte unico conservatore delle classi dominanti, all’interno del quale solamente la Chiesa era in grado di svolgere l’indispensabile azione di contenimento e prevenzione nei confronti delle masse popolari e delle loro richieste.
Una situazione alla lunga insostenibile, della cui gravità Pio IX si rivelò consapevole fin dall’inizio del suo pontificato, come sta a dimostrare la. Qui pluribus del 9 novembre 1846. Da allora in poi, mediante interventi continui e diversificati, non tralasciò occasione per ribadire i principi cui doveva uniformarsi una concezione cristiana della vita e della società, inaugurando così uno stile di magistero pontificale che sarà accolto e mantenuto dai suoi successori fino ai nostri gior
ni. Le manifestazioni ufficiali più alte e significative della sua attività furono la proclamazione del dogma dell’Immacolata (8 dicembre 1854), la promulgazione della Quanta cura e dell’annesso Sillabo (8 dicembre 1864) e i risultati del Concilio Vaticano I.
Il Sillabo che raccoglie i principali errori del nostro tempo ha un titolo che non rende di per sé giustizia della sua fama: non si trattò infatti di un semplice elenco dei principali errori dei tempi moderni, bensì della condanna totale e senza appello di tutti gli errori considerati soprattutto nei loro riflessi politici e sociali, senza per questo tralasciarne gli aspetti relativi alla morale individuale. Esso pertanto costituì l’auspicato punto fermo per il presente (la certezza della dottrina) e insieme, per usare le parole della Enciclopedia Cattolica, una “norma inderogabile” anche per il futuro: sia pure in negativo, ossia mediante la condanna di ciò che è l’errore, vi è contenuta la solenne riaffermazione della superiorità della concezione cattolica della vita e della società che l’ideologia e la cultura della borghesia, grazie all’affermarsi della rivoluzione, si illudevano di avere debellato.
Gli errori sfuggiti all’attenta censura dei severi estensori del Sillabo furono rintracciati in tempo per il Concilio Vaticano I, nel corso del quale, con la costituzione Dei Filius, furono puntualizzati i rapporti tra fede e ragione. L’importanza però di queste assise, e la loro fama, è da ricercarsi soprattutto nella costituzione Pastor aeternus che sanciva il dogma dell’infallibilità del romano pontefice. L 'iter contrastato (anche se, evidentemente non contrastato a sufficienza) mediante il quale si giunse alla definizione che ha tanto pesato sulle vicende della Chiesa in età contemporanea, ci è ancora una volta offerto da un volume, uscito postumo in italiano, del teologo cattolico svizzero August Bernhard Hasler9.
9 August Bernhard Hasler, Come il papa divenne infallibile. Retroscena del Concilio Vaticano I (1870), prefazione di H. Küng, Torino, Claudiana, 1982. La prima edizione in tedesco risale al 1979; l’autore morì improvvisamente l’anno dopo a soli 43 anni.
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Ne emerge chiaramente che si trattò di un Concilio niente affatto “libero” e assai poco “ecumenico”, evidentemente dominato fin dall’inizio dalla volontà di imporre il dogma dell’infallibilità, anche se, quando la storica assemblea fu preannunciata ufficialmente nel giugno 1867 e l’anno dopo quando fu indetta con la bolla Aeterni patris, nessun accenno vi era in proposito (pp. 57-58). Il lavoro delle commissioni preparatorie fu caratterizzato dall’esclusione di personalità prestigiose (quali ad esempio Dòllinger e Newman) ma poco gradite per il loro orientamento notoriamente “anti-infallibilista” e condizionato dalla propaganda serrata condotta dagli “infallibilisti” con in testa la “Civiltà Cattolica” e gli arcivescovi e vescovi H.E. Manning, I. von Senestry, V. Deschamps, G. Mermillod, N. Adames ed E. Marilley (pp. 59-65 e 68-69); il regolamento del Concilio di Trento fu modificato in senso tanto restrittivo che l’arcivescovo romano Vincenzo Tiz- zani “parlò di pratiche da Inquisizione” e il vescovo croato Strossmayer definì le nuove norme la “tomba del Concilio” (pp. 66-67); infine, le assemblee conciliari si svolsero in un clima di intimidazione (pp. 165-192), tra continui ricatti (pp. 176-177), e non senza qualche gesto di offesa brutale (come avvenne nei confronti del patriarca d’Antiochia Gregorio Jussef, p. 83). Cosicché ai padri contrari alla proclamazione del dogma non rimase che “capitolare”, sia pure per la preoccupazione di incrinare l’autorità e l’unità della Chiesa e — almeno nel caso di alcuni — con la scappatoia dell’interpretazione (pp. 185-193); né le ostilità finirono con il 18 luglio del 1870 perché nei confronti di non pochi degli “anti-infallibilisti” si continuò con
atteggiamenti persecutori di ogni tipo, arrivando perfino a offenderne la memoria dopo la morte (pp. 196-199).
A lettura ultimata si resta con un senso di profonda insoddisfazione e delusione: malgrado la puntigliosa dovizia di particolari, il volume aggiunge ben poco alla conoscenza di avvenimenti già largamente noti nella loro sostanza, e ancor meno aiuta per la loro comprensione; al contrario, da questo punto di vista, si rivela decisamente parziale e carente. Parziale, perché il Concilio Vaticano I non si comprende se lo si riduce al solo problema dell’infallibilità (e sotto questo aspetto mi paiono molto più stimolanti ed equilibrate le trenta pagine di prefazione di Hans Küng); carente, infine, e soprattutto, sul piano di un’interpretazione storiografica degna di questo nome: di una interpretazione cioè, che sappia inserire le ragioni e le motivazioni degli “anti-infallibilisti” e degli “infallibilisti” in un contesto storico e anche, dato che si ha a che fare con la Chiesa, in un processo di lungo periodo (mentre le frequenti digressioni dello Hasler in epoche passate o successive non fanno che aumentare la confusione), una interpretazione insomma che non spieghi tutto con la volontà autoritaria di un vecchio dispotico, ammalato di epilessia, amareggiato da contrasti determinati dalla presenza di “scheletri nell’armadio” (cfr. il paragrafo dedicato al cardinale Guidi, presunto figlio di Pio IX, pp. 83-86) e ridotto al punto di essere “ormai parzialmente incapace di intendere e di volere” .
Mi parrebbe però oltremodo ingeneroso e ingiusto infierire ulteriormente su di un libro che probabilmente ha inteso essere soprattutto un’opera di denuncia10, che, al di là del to-
10 Tanto più che si tratta della riduzione della tesi di laurea in storia moderna discussa dallo Hasler all’Università di Monaco nel 1976 e pubblicata l’anno dopo a Stoccarda in due volumi: una discussione e valutazione compiuta del libro in questione presupporrebbero, pertanto, la conoscenza dell’opera più ampia che ha fornito il supporto storico-metodologico. Cfr. in proposito le considerazioni contenute nelle recensioni di Gianni Baget-Bozzo in “Rinascita”, 18 marzo 1983, n. 11, pp. 19-20 e di Paolo Brezzi, in “Studi romani”, gennaio-giugno 1984, n. 1-2, p. 100.
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no polemico che la pervade, merita tutto il nostro rispetto in quanto espressione di una sensibilità religiosa sinceramente e fortemente avvertita, e che proprio per questo mal sopporta il modello antitetico che dalla Chiesa di Pio IX si volle imporre alla coscienza cattolica. Mi preme piuttosto, per concludere la seconda parte di questo mio discorso, sottolineare come la proclamazione del dogma dell’infallibilità pontificia, riconoscendo al papa “non autem ex consensu Ecclesiae” l’autorità dell’ultima decisiva parola in tutte le questioni relative “alla fede o alla morale” , pose l’unità della Chiesa al riparo dai pericoli di nuove divisioni che potevano coinvolgere anche gli episcopati nazionali. Fu il culmine e il coronamento di tutto il magistero dottrinale di papa Mastai, sempre integrato da molteplici interventi sull’organizzazione ecclesiastica, miranti a consolidarne l’unità e a prevenire ogni attentato che ad essa poteva derivare dalle conseguenze della situazione precedente.
L’espandersi della presenza cattolica a livello mondiale, la restaurazione dottrinale, il superamento delle divisioni tra gli intellettuali ecclesiastici, non esaurivano però il più vasto problema dell’unità della Chiesa intesa nella sua interezza e complessità: con la Rivoluzione francese era entrata definitivamente in crisi l’unità tra Chiesa-istituzione e Chiesa-comunità dei fedeli (cioè, le masse popolari), dalla quale unità la Chiesa medesima aveva derivato la formidabile capacità egemonica del passato. Le conseguenze dirette e indirette dello sviluppo del processo
di industrializzazione lungo la prima metà dell’Ottocento contribuirono a confermare e ad aggravare la situazione sì che era convinzione sempre più diffusa di una più o meno prossima “scristianizzazione” della società11. Una prospettiva inquietante che richiedeva in risposta prontezza e originalità di azione, tanto più che, con il sorgere e l’affermarsi dopo il Quarantotto di nuove e minacciose tendenze, la dinamica dei conflitti sociali si spostava su terreni dai quali la Chiesa, ostinandosi nel suo rifiuto di assolvere un ruolo istituzionale subalterno, sembrava destinata a restare esclusa.
Preclusa, almeno per ora e soprattutto in Italia (come diremo), la possibilità di affrontare il nemico sul campo e con le armi della politica, alla Chiesa non rimase che perseguire l’auspicata unità con le masse sul piano religioso: e non si può negare che il risultato finale raggiunto sia stato positivo (positivo, ovviamente s’intende, dal punto di vista degli interessi della Chiesa, nella prospettiva strategica di Pio IX). Dietro l’impulso personale e determinante di Pio IX, si abbandonò quella forma di religiosità più contenuta e austera prevalsa nella seconda metà del XVIII secolo, in favore di una concezione più “indulgente” e più “popolare”, fondata su modelli il cui “obiettivo primario [era] — come ha osservato Carlo Prandi — la formazione di un ethos collettivo che funzio [nasse] da sistema di contenimento nei confronti delle novità introdotte dai principi dell’89 e dalla Rivoluzione industriale”12.
11 Quanto la gravità del problema fosse avvertita da parte della gerarchia ecclesiastica e in quali termini essa intendesse reagire, è possibile cogliere dalla lettura non solo della stampa cattolica, alla quale ha prevalentemente fatto riferimento finora la ricerca, ma anche e soprattutto degli atti dei sinodi diocesani e delle lettere pastorali. Su quest’ultimo punto, per una riflessione aggiornata dell’argomento nei suoi aspetti metodologici e storiografici si rinvia a D. Menozzi-G. Codicé, Per un repertorio delle lettere pastorali in età contemporanea. L ’esempio bolognese in “Cristianesimo nella storia”, vol. V, giugno 1984, fase. 2, pp. 341-366. Per gli aspetti interpretativi più generali e di lungo periodo dell’intera questione cfr. Giovanni Miccoli, Chiesa e società in Italia tra Ottocento e Novecento: il mito delta cristianità, in Chiese nella società. Verso un superamento della cristianità, T orino,..., 1980, pp. 153-245.12 Cfr. Carlo Prandi, La religione popolare fra potere e tradizione. Per una sociologia della tradizione religiosa, Milano, Angeli, 1983, p. 167. Il volume si segnala anche per lo sforzo originale di definire con criteri di scientificità
Chiesa, religiosità e partecipazione politica 111
Con un fervore e un entusiasmo di impegno e di iniziative mai visti prima di allora — si pensi ai settori della stampa e dell’editoria cattolica — la Chiesa mobilitò tutte le forze di cui disponeva per “convincere i ceti subalterni àe\V assenza di alternative morali, religiose e sociali rispetto a quelle che essa via via andava fissando”13. Continuando a riferirci allo schema critico-analico proposto da Prandi è possibile individuare cinque temi prioritari indicativi, o comunque esemplari dell’insieme di condizioni determinatesi in seguito all’avvento della società capitalisti- co-borghese, per ognuno dei quali si prospettò una serie di parametri etico-culturali, veri e propri modelli comportamentali enucleati dalla devozione e dal simbolismo cattolico più vicini alla sensibilità dei ceti subalterni14, che “costituirono, nel disegno ecclesiastico, l’optimum della religione p o p o la r e si va dal “problema della proprietà”, risolto nell’esaltazione della povertà considerata “un’invidiabile situazione di privilegio” (pp. 171-174), alla “condizione femminile”, in merito alla quale Maria Vergine costituisce il “modello della donna cristiana riguardata come Giovane, Sposa, Madre, Vedova” co
me recitava il titolo del volume di anonimo pubblicato a Biella nel 186515, al “mito della terra” intesa come “sorgente e custode di virtù cristiane e civiche”16, ai “doveri del proprio stato”, consistenti soprattutto (se non esclusivamente) nella rassegnata accettazione e nell’obbedienza secondo le modalità della “vera devozione al Cuore di Gesù” (pp. 182-186), per finire con “i castighi subiti dagli atei, dai peccatori, dai fautori e sostenitori della Rivoluzione” (pp. 186-189).
Quest’ultimo punto ci introduce diretta- mente a un altro aspetto fondamentale della propaganda religiosa nell’età di Pio IX, all’analisi del quale Prandi dedica l’intero ultimo capitolo del suo volume: il mito apocalittico della fine del mondo caratterizzato “dall’opposizione fra uno stato di perfezione — la condizione precedente, identificabile con l’letà dell’oro’ — che sta entrando in crisi e la situazione attuale avvertita come ‘male’ e ‘peccato’ e, come tale, destinata a produrre lutti e rovine” (p. 193). Ne nacque un vero e proprio genere culturale-letterario, il genere apocalittico-catastrofico, nel quale confluirono anche elementi antichi di profetismo e messianismo e al cui largo successo, conse-
“laica” concetti finora sempre di difficile individuazione (quali: “popolare”, “tradizionale”, “religioso”), secondo un modello in cui la ricerca storica si salda alla metodologia dell’analisi sociologica.13 Ivi, p. 170.14 Nella tipologia delle manifestazioni di devozione popolare (condivise, in questo caso particolarmente, anche dalle classi dominanti; cfr. in proposito le osservazioni di carattere generale di Prandi alle pp. 138-143) un posto importante occupano gli ex voto, finora però oggetto più dell’attenzione degli antiquari che di quella degli studiosi. È pertanto da salutare positivamente la mostra dedicata a “Ex-voto e Religiosità popolare in Valle d’Aosta” (Aosta, Tour Fromage, agosto 1983), promossa e organizzata dall’Assessorato al turismo, urbanistica e beni culturali della Valle d’Aosta e curata da L. Colliard, G. Gentile, T. Domaine, L. Garìno, F. Montanari, E. Moro.15 Sull’argomento, oltre al par. 3.2 di C. Prandi, La religione popolare fra potere e tradizione, pp. 174-178, cit., cfr. A. Valerio, Pazienza, vigilanza, ritiratezza. La questione femminile nei documenti ufficiali della Chiesa (1848-1914), in “Nuova DWF”, 1981, n. 16, pp. 60-79.16 Cfr. C. Prandi, op. cit., pp. 178-181. Vorrei aggiungere che il mito della “purezza della campagna” contrapposto a quello della “città corrotta e parassitaria” trovò un certo credito anche da parte di una cultura rigorosamente di classe, quale quella espressa dal Partito operaio italiano; il mito poteva inoltre vantare un solido back-ground culturale “laico” affermatosi nel secolo precedente sull’onda del successo incontrato dalle ideologie fisiocratiche. Una contrapposizione esaltata in tutta Europa non solo da parte di intellettuali e politici, generalmente progressisti o addirittura giacobini (per i quali ovviamente si trattava di una “purezza rivoluzionaria”), ma anche da parte di autori di letteratura amena o licenziosa. Basterà ricordare La paysan perverti ou les dangers de la ville di Rétif de la Bretonne, che ebbe allora grande divulgazione e notorietà.
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guito mediante progressivi aggiustamenti di tiro, contribuì l’impegno di tutte le forze che maggiormente improntarono il magistero del pontificato piano, con in testa i gesuiti della “Civiltà Cattolica”17: “il genere apocalittico tendeva — conclude Carlo Prandi — a realizzare attraverso la diffusione del mito della fine del mondo, una saldatura tra gli intellettuali della Chiesa e i semplici fedeli [...] che fosse funzionale alla salvaguardia della religiosità dei ceti subalterni e contemporaneamente fosse in grado di distrarli dalla partecipazione alle nascenti organizzazioni socialiste. In tal modo visione apocalittica e ideologica si fondevano secondo un meccanismo per il quale era la seconda che assorbiva e porgeva i contenuti alla prima [...], mentre la prima altro non offriva che gli schemi retorico-oratori per orientare i settori del clero impegnati nell’attività pastorale alla ricerca di modalità più pertinenti e aggiornate di aggregazione e di consenso” (p. 225).
Vorrei aggiungere un’ultima considerazione in merito al discorso sulla religiosità. Lo straordinario risveglio di devozione e partecipazione religiosa suscitato nelle masse dei fedeli dalla proposta di questi modelli totalizzanti si espresse sotto due aspetti complementari: da una parte fu la riappropriazione in veste sacra di una cultura popolare antica e dalle origini spesso profane e superstiziose, dall’altra furono le forme modernissime e grandiose in cui venne abilmente convogliato lo spontaneo sentimento religioso individuale (dalle grandi manifestazioni ai pellegrinaggi organizzati, dalla consacrazione di famiglie, città e intere nazioni al Sacro Cuore di Gesù o alla Madonna, al battage propagandistico che accompagnò il genere catastrofi
co-apocalittico e che circondò la devozione per il papa in termini tali da giustificare l’impressione di “un culto della personalità” ante litteram). In tutto ciò mi pare lecito scorgere da parte della Chiesa la coscienza della novità delle grandi trasformazioni sociali in atto, cogliendone non solo gli aspetti già realizzati ma anche quei caratteri di tendenza, anticipatori cioè di ulteriori sviluppi, e pure la conseguente capacità di rapportarvisi secondo modi e canoni assolutamente nuovi (anche se apparentemente sono rimasti quelli di sempre) e innovatori. In altre parole, la Chiesa di Pio IX anticipa nel rapportarsi alle masse i modi che le classi dominanti e il potere politico sapranno fare propri nelle società di massa caratteristiche del secolo successivo.
Quanto siamo venuti finora dicendo richiede un’ulteriore precisazione. La riproposta da parte di Pio IX della Chiesa intesa secondo la concezione medievale come societas perfecta, così come la condanna senza appello di quanti ritenevano che “il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi col liberalismo e colla moderna civiltà” (art. 80 del Sillabo), afferivano alla sfera dei principi, delle affermazioni dottrinarie, non a quella della prassi, latu sensu, politica: ferma restando la “tesi” di una società integralmente cattolica, non era precluso alla Chiesa di inserirsi in via “ipotetica” nella realtà contemporanea, cioè nella società capitalistico-borghese. La sottile distinzione resa famosa da monsignor Du- panloup all’indomani appena dell’Enciclica dell’8 dicembre (ma già anticipata ben due anni prima dal padre Curci sulla “Civiltà Cattolica”) e fatta propria tanto da Pio IX che dai suoi successori, conteneva l’indicazione teorica per ridare alla Chiesa l’agibilità
17 Oltre ai ben noti studi di P. Stella, F. Pitocco, P.G. Camaiani e agli altri puntualmente citati in nota da Prandi (e pure ad alcune non dimenticate pagine di Gaetano Salvemini), si veda anche il più recente saggio di Camillo Brezzi, La “mano di Dio ” a Mentana, in Garibaldi Condottiero. Storia, teoria, prassi. A tti del Convegno nazionale di Chiavari (settembre 1982) indetto da Istrid e Anpi, a cura di F. Mazzonis, Milano, Angeli, 1984, pp. 425-434, dedicato all’analisi di un “classico” di questo genere di letteratura.
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(e l’agilità) politica indispensabile per potersi confrontare su un terreno (quello della laicità) e con delle armi — quelle della politica — che, come ebbe già a osservare Gramsci, erano stati scelti e le venivano imposti dall’avversario. Ripresasi così la propria libertà di azione, alla Chiesa restava ancora il problema concreto di valutare il momento e le condizioni più convenienti per scendere in campo: la decisione, mi pare ovvio, non poteva né doveva assolutamente compromettere la difficile opera di consolidamento e riorganizzazione interna, al rischio di compromettere il risultato strategico finale. Ed è in questa ottica che, a mio avviso, va inteso il significato del non expedit.
All’indomani del 1870 il mondo cattolico italiano (e non mi riferisco qui, è chiaro, alle masse popolari di cui parlavo prima, ma a quanti, soprattutto fra i laici, erano in grado di fare opinione, e, più in generale, per “censo” o per “capacità”, erano anch’essi elettori di diritto) era più che mai diviso nella contrapposizione tra “transigenti” e “intransigenti” . I primi — che per comodità di schema assimiliamo ai “conciliatori” e ai “conservatori nazionali” — sostenevano la necessità di un accordo conservatore con le forze dirigenti moderate; accordo che, se si fosse attuato, non poteva non significare per la Chiesa (date le oggettive condizioni di inferiorità politica e dato lo scarso e incostante interesse dimostrato per qualsiasi intesa fino
a tutti gli anni ottanta da parte della stragrande maggioranza dei gruppi dominanti nazionali) altro che l’assunzione di un ruolo subalterno in difesa degli interessi di quella borghesia che essa proclamava nemica e dalla quale si dichiarava diversa. I secondi, gli intransigenti, erano rimasti tetragoni nel rifiutarsi di riconoscere la nuova Italia, ancorché “legale”, mentre si rivelavano in grave ritardo nell’affrontare la questione sociale, ossia quell’Italia “reale” che essi si vantavano di rappresentare.
Pertanto la scelta di Pio IX di mantenere il mondo cattolico italiano unito nell’astensione18 e sotto la rigida direzione delle gerarchie ecclesiastiche non fu l’espressione, come allora fu detto, di “cecità intransigente” (sia che con ciò ci si riferisse a un sentimento reazionario del papa o, invece, alla sua debolezza travolta dalle pressioni delle forze intransigenti), bensì fu l’unica scelta realisticamente possibile in coerenza con il disegno strategico complessivo (la “tesi”) che intendeva ridare alla Chiesa la pienezza della propria funzione egemonica nella società. Né mi sento di condividere il giudizio di quegli studiosi secondo cui si trattò di mero opportunismo tattico e strumentale: a meno che con ciò si intenda dire che fu l’unica scelta realisticamente opportuna in attesa di una “ipotesi” più favorevole.
Una nuova conferma ci viene dai documenti della Segreteria di Stato recentemente
18 Nell’ambito di una ricostruzione storica di tipo contrefait, a parte le considerazioni di carattere generale svolte nei testo, si possono valutare gli effetti immediati di una eventuale decisione di segno contrario: non mi pare difficile in questo caso arrivare alla conclusione che l’imposizione dell1 expedit avrebbe rappresentato una seria minaccia all’unità dei cattolici, ben più difficile se non impossibile da mantenersi dato sì che gli intransigenti rappresentavano la larga maggioranza. Inoltre, conseguenza ancora più importante, una simile scelta avrebbe reso assai più difficile il conseguimento dell’unità con le classi subalterne, vittime di una novità (l’Unità d’Italia) di cui non godevano i vantaggi politico-istituzionali, ma di cui, in compenso, pagavano sulla propria pelle le conseguenze del sistema economico-sociale: la condanna del regime liberale tiranno e le proteste contro le usurpazioni e le vessazioni (cioè buona parte di quella letteratura e propaganda di cui parlavamo prima) permettevano alla Chiesa di presentarsi an- ch’essa come vittima, oppressa e conculcata nei propri diritti fondamentali. Qui è da ricercare il motivo del successo di una propaganda incentrata sulla contrapposizione tra paese reale e paese legale, e, anche, l’origine del successo del mito, caro a certa storiografia cattolica, della Chiesa che lotta contro la “borghesia volterriana e sfruttatrice”.
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pubblicati o comunque segnalati da Maria Franca Mellano19. Quelli che ora qui ci interessano si riferiscono al 1876 quando, a causa della “rivoluzione parlamentare”, vi fu una ripresa delle “molteplici e reiterate domande e requisitorie” da parte dei cattolici transigenti in favore dell’abolizione del non expedit, con motivazioni che facevano seriamente dubitare dell’opportunità di mantenerlo in vigore20. Pio IX reagì prontamente (siamo appena ad aprile) dando vita a una commissione nominata in seno al Santo Uffizio, ma i cui membri ricoprivano incarichi anche nella Congregazione degli affari ecclesiastici straordinari e nella Sacra Penitenzie- ria, con il compito di esaminare “alcuni punti di controversie ecclesiastico-politiche concernenti il contegno e condotta da tenersi dai Cattolici in vista alle evoluzioni politiche che vanno avvenendo in Italia”21. Non si trattò dunque, come sembra sostenere l’autrice, dell’espressione della “idea di recedere dal non expedit”, bensì di una sorta di mandato esplorativo nell’intento di accertare le modificazioni intervenute sia in campo laico che in quello cattolico.
La commissione si mise al lavoro con impegno, affrettando i tempi via via che prendeva maggiore consistenza la possibilità di nuove elezioni politiche. È quanto, infatti,
metteva in conto la relazione inviata in luglio a tutti i suoi membri invitandoli, in conclusione a “risolvere i seguenti dubbi: I) Se si creda giunto il momento di permettere ai cattolici italiani il concorso alle elezioni politiche. Quatenus affirmative. II) Quali mezzi dovrebbero adottarsi per conseguire l’intento. Ili) Se e come si creda adottabile il proposto schema di programma politico e di giuramento”22. L’aspetto più interessante della relazione consiste però, a mio avviso, nella parte precedente. I 24 punti in cui si articola contengono infatti una analisi dei motivi che potrebbero indurre a rispondere affirmative al primo e pregiudiziale dubbio: il più importante di questi motivi è rappresentato dal pericolo che viene all’unità dei cattolici dalle spinte partecipazioniste dei transigenti, resi più forti dai primi successi alle elezioni amministrative e più apprensivi dalle paventate conseguenze della situazione; seguono poi nell’ordine l’attenta valutazione dei sintomi di un possibile mutato atteggiamento negli uomini della Destra e del possibile radicalizzarsi della questione sociale23.
Non ci è dato sapere su quali basi la commissione fondò il proprio convincimento negativo: sta di fatto che alle elezioni di novembre il non expedit fu mantenuto24. Ma l’assenza di ulteriore documentazione in merito,
19 Maria Franca Mellano, Cattolici e voto politico in Italia. Il “non expedit" all’inizio del pontificato di Leone XIII, presentazione di F. Molinari, Casale Monferrato, Marietti, 1982, p. 224.20 Sull’intero episodio cfr. i capp. 3 e 4 pp. 27-67.21 II documento è in nota 2, pp. 62-63.22 Cfr. in Appendice p. 167. Il programma annunciato al punto III è piuttosto un “proclama” (cfr. annesso n. Ili, pp. 172-174) previsto per annunciare la decisione dei cattolici di partecipare alle elezioni politiche e dove li si impegna a “pugnare per le libertà conculcate dalla Chiesa” e in difesa dei principi religiosi fondamentali: su ognuno di questi punti, molta retorica ma poche indicazioni programmatiche. Più importante e interessante mi pare invece la parte finale dove si afferma che “i deputati cattolici non formano un partito” e che pertanto “saranno... liberi nelle questioni opinabili di particolari interessi”, richiedendosi loro l’unità d’azione solo “dove si tratta della difesa dei sacri prin- cipii della religione e della giustizia” .■3 II testo della relazione è in Appendice VI, pp. 158-167. Ragioni di spazio non consentono di affrontare con la dovuta attenzione anche la parte relativa alle modificazioni intervenute nella situazione internazionale, in particolare là dove si fa riferimento al significato che avrebbe assunto per le Potenze cattoliche il riconoscimento del Regno d’Italia da parte della Santa Sede; cfr. pp. 160-161.24 Ironia della sorte in questo 1876; mentre il non expedit fu generalmente rispettato dai transigenti (almeno per quanto è dato sapere), esso, come è noto, fu abbondantemente trasgredito da parte intransigente a vantaggio quasi
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a parte “l’esile traccia” che testimonia che i lavori della commissione proseguirono anche l’anno successivo, è compensata dall’abbondanza di giustificazioni e spiegazioni offerteci dalla stampa più o meno ufficiale e più o meno ufficiosa. Tra il materiale pubblicato su quest’ultima è da segnalare un articolo de “La Civiltà cattolica” (più ufficioso di così...) a commento della mancata partecipazione: “I cattolici — vi si legge — non erano pronti ed ordinati, per le elezioni politiche, in nessuna regione d’Italia. Né, in un paio di mesi, era possibile formare dal nulla un ‘organismo elettorale’ e metterlo in moto con probabilità di qualche notabile vantaggio. Sono falliti i ‘costituzionali’, stretti in forti ‘associazioni’ e forniti a dovizia di aiuti, di giornali, di aderenze, di stratagemmi: e sarebbero potuti riuscire a bene i cattolici, con non altro organismo che la volontà? ... L’idea di dare all’esercito cattolico uno stato maggiore di ‘liberali moderati’, cioè di fare che i cattolici accumulassero i loro voti sul capo di costoro, fu messa da alcuno in campo, per una specie di scherzo, ma non da serio. Sarebbe stato come dire alle pecore di confidarsi in guardia ai lupi, o agli uccelli di volare sotto le ali degli sparvieri”25. E mi pare che le indicazioni qui contenute non richiedano una particolare capacità di decodificazione per vedere confermate quelle considerazioni di opportunità “ipotetica” di cui si diceva prima.
Il lavoro della commissione speciale deputata da Pio IX non andò comunque del tutto perduto. Prova ne è che due anni più tardi il cardinale Nina, che ne era stato all’epoca il segretario, vi si richiamò esplicitamente nel
promuovere per incarico di Leone XIII una nuova iniziativa26. Anche questa non ebbe successo (nel senso che non portò alla rimozione del non expedit), ma con alcune sostanziali differenze su almeno due delle quali è opportuno soffermarsi brevemente.
La prima e più immediatamente evidente consiste nel fatto che il tentativo promosso da Leone XIII e culminato nelle “riunioni di Casa Campello”27 non si limitò al mandato esplorativo da consumarsi in un dibattito interno tra gli “Eminentissimi Padri” , ma fin dall’inizio si propose di coinvolgere diretta- mente il laicato cattolico facendo leva proprio sui transigenti, data la loro maggior disponibilità politica (ma anche culturale) e considerate le prove migliori da loro offerte nelle amministrazioni locali. La seconda differenza riguarda la diversa concezione della (eventuale) partecipazione politica dei cattolici: come ho riferito in una precedente nota, dal programma annesso alla relazione della commissione del 1876 emergeva chiaramente, sia pure nei termini di un progetto riservato ad uso interno e ancora soggetto ad approvazione, l’intenzione di non dare vita a un partito cattolico bensì di lasciare liberi i futuri deputati cattolici di associarsi con quelle forze con cui, individualmente, avrebbero ritenuto più opportuno unirsi (esplicitamente, senza fare distinzione tra Destra e Sinistra); il disegno di Leone XIII invece, come sappiamo dall’autorevole fonte del Soderini, era “che il gruppo cattolico in Parlamento [...] dovesse formare una specie di Centro, che farebbe pagar caro, ogni singola volta, non pure una temporanea alleanza ma la sua stessa neutralità”28.
esclusivo della Sinistra: perfino dei sacerdoti si sarebbero recati a votare (soprattutto al Sud), suscitando così le ire del papa che redarguì duramente i trasgressori, richiamandoli all’ordine pubblicamente.25 Riportato dalla Mellano alla nota 35, p. 43.26 Si veda la lettera del cardinal Nina a monsignor Tortone riportata dalla Mellano in appendice, I, pp. 147-149.27 Che Leone XIII fosse stato il promotore e il regista dell’iniziativa era cosa già nota grazie alla testimonianza offerta dal fedele Soderini. Ora il breve carteggio tra il cardinale Nina e monsignor Tortone pubblicato dalla Mellano (in appendice I-IV, pp. 147-154) ce ne offre ulteriore conferma, rivelandoci inoltre che in Vaticano non fu molto gradito l’eccesso di zelo con cui il “Sig. Teologo Margotti” compì il suo brusco voltafaccia.28 Edoardo Soderini, Il pontificato di Leone XIII, vol. II, Rapporti con l ’Italia e la Francia, Milano, 1933, pp. 15-16.
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Proprio da questa insanabile contraddizione tra il realismo della decisione di rivolgersi ai transigenti e il realismo del “concetto” leo- niano di partito cattolico — che, in quanto tale, non poteva essere accettato dai transigenti, ma che il pontefice considerava indispensabile più che per evitare un uso conservatore dei cattolici (fin qui, infatti, poteva anche andare bene, come dimostra il famoso opuscolo del Grassi rivisto e approvato da Leone XIII in persona), per impedire la loro strumentalizzazione a vantaggio degli interessi dei gruppi dominanti della borghesia italiana —, è da questa contraddizione che derivò il fallimento del tentativo del 1878-79 e di tutti gli altri che puntualmente caratterizzarono, durante il cosiddetto “decennio conciliatorista” , ogni vigilia elettorale e talvolta, come nel 1886-87, anche il dopoelezioni.
Insomma, una “ipotesi” accettabile e percorribile, secondo la distinzione cara a monsignor Dupanloup, era ancora di là da venire.
Se le preoccupazioni di carattere sociale (anche qui il termine va inteso nella sua accezione più ampia) furono quelle che, come abbiamo riferito, in larga misura animarono e motivarono il dissenso tra transigenti e intransigenti, e il dibattito vivacissimo e non di rado asperrimo che ne sortì, è pur vero che all’origine agiva e pesava un complesso di altri fattori, tra i quali quello religioso fu senza dubbio il principale. Un’origine che certamente l’urgenza delle questioni immediate imponeva di accantonare, ma non per questo cessava di improntare le scelte operate dai protagonisti di quegli avvenimenti, almeno dai più sensibili tra loro.
Considerazioni di questo genere, ovvie e un po’ abusate se fatte aprioristicamente, trovano un concreto fondamento, una straordinaria corrispondenza nella lettura del carteggio
Scalabrini-Bonomelli, recentemente (finalmente) pubblicato da Carlo Marcora29. È il diario, bellissimo in verità, dell’amicizia di due forti personalità già ben note nelle linee essenziali della loro attività, di cui ora è possibile conoscere le ragioni profonde dell’impegno umano, politico, sociale e, soprattutto, religioso: l’ansia religiosa domina infatti la preoccupazione “di pastori che — come nota giustamente Fausto Fonzi nell’introduzione — vedono allontanarsi e perdersi tanta parte del gregge [...] e che desiderano conservare nella fede o riconquistare particolarmente il laicato colto e tutta la gioventù che [...] può diventare irraggiungibile se da parte cattolica ci si chiude in un atteggiamento di rabbia e sterile condanna, curando esclusivamente un sempre più ristretto ghetto di fedeli” (p. XVI). Da qui la scelta, tutt’altro che facile e spesso (soprattutto nel caso di Bonomelli) pagata di persona, per la parte transigente. E da preoccupazioni analoghe, che nascono dalla presa di coscienza delle drammatiche condizioni dei più emarginati e diseredati, deriva l’impegno a favore degli emigranti che caratterizzò, sia pure con significative differenze di ordine politico, l’attività dei due presuli a partire dagli anni novanta.
Diario a più voci, nel senso che attraverso l’immediatezza di un linguaggio sincero e privo di formalismi rivive l’eco di altre vóci e si riflette il racconto di altri avvenimenti (entrambi non sempre gradevoli, che ora accendono l’entusiasmo e ora provocano sofferenza), l’imponente epistolario costituisce un “itinerario sorprendente” che attraversa la storia d’Italia e della Chiesa lungo l’arco di quasi un trentennio (1877-1905) e rappresenta un fondamentale testo di consultazione per la conoscenza del periodo.
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29 Carteggio Scalabrini Bonomelli (1868-1905), a cura di C. Marcora, introduzione di F. Fonzi, Roma, Studium, 1983, pp. XXXI1-422. Tranne la prima (1868) e la seconda (1873) le rimanenti 527 lettere tra i due presuli sono tutte datate dal 1877 fino alla morte della Scalabrini (1905); più di un terzo riguarda gli anni 1880-85 un periodo centrale, come si è detto, per la storia dei transigentismo.