la cucina dei conventi e dei monasteri def..doc

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LA CUCINA DEI CONVENTI E DEI MONASTERI Ricette golose tra sacro e profano Il monastero di Santa Maria Maddalena Serra De’ Conti A cura di Dolores Boretti 1

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Il nostro viaggio goloso incomincia qui a Serra de Conti in provincia di Ancona, qualcuno sussurra che lo chiamino anche il paese delle monache

LA CUCINA DEI CONVENTI

E

DEI MONASTERI

Ricette golose tra sacro e profano

Il monastero di Santa Maria Maddalena

Serra De Conti

A cura di Dolores Boretti

RINGRAZIAMENTI

Un ringraziamento sincero e sentito va alla comunit di suore clarisse che oggi abitano il Monastero.. E grazie a loro che si lavorato vivendo una speciale esperienza di vita ed insieme a loro si portato avanti il progetto di ricostruzione di una storia centenaria; senza timori si ricostruita una quotidianit a volte difficile e complessa, fatta anche di piccoli gesti, di cui il museo e questa pubblicazione sono testimonianza.

La suora clessidra, logo del museo, opera dellartista Ezio Bartocci, il simbolo di quel tempo sospeso che tempo dello spirito francescano, motore e forza della comunit, dallinizio della sua storia sino ad oggi.

Amelia Mariotti Puerini

Gli autori ringraziano gli archivi fotografici che hanno fornito i materiali:

Serra de Conti Biblioteca comunale

Serra De Conti Giuseppe Chiucchi

Reggio Emilia Giulia Lavecchia

INTRODUZIONEIl nostro viaggio goloso incomincia qui a Serra de Conti( in provincia di Ancona, qualcuno sussurra che lo chiamino anche il paese delle monache. E un piccolo centro che conserva ancora in parte mura e porte medioevali, la chiesa gotica di San Michele risalente al 1200 e la chiesa barocca della Maddalena con annesso convento delle suore francescane clarisse. Proprio qui accanto a questo convento, che ospita le monache, stato aperto il museo Le stanze del tempo sospeso, curato dalla storica dellarte Amelia Mariotti. Il museo racconta la vita quotidiana delle suore che si sono succedute nei quattrocento anni di vita del convento.

Un mondo intensamente spirituale che nel silenzio , nella preghiera, nel lavoro si lega alle radici profonde della comunit cittadina. Un microcosmo femminile dove la gioia e lamore di Dio si fa musica e canto e si esprime nelle paziente creazione di merletti a tombolo, di cordoni, di statuette di cera di carattere sacro e nei fiori di seta come le raffinate coroncine per le novizie, tutte arti in cui le clarisse di S. Maria Maddalena eccellevano.

Il monastero di Serra de Conti ha tradizione colta ed aristocratica: nel seicento ospitava le figlie delle pi ricche famiglie di Serra e dintorni che si monacavano, ma non erano accolte solo ricche e colte fanciulle aristocratiche, una storia del convento e del paese narra di suor Maria Giuseppina, detta la Moretta per il color ebano della pelle e per la sua origine africana. Nata nel 1845-46 in un villaggio del Sudan, ancora bambina, fu rapita da negrieri arabi e venduta come schiava. Don Niccol Olivieri, fondatore della Pia Opera del Riscatto delle Fanciulle More, la salv e la condusse in Italia il 2 Aprile del 1856.

Qui fu affidata alle amorose cure delle suore clarisse di Belvedere Ostrense.

Il 24 Settembre dello stesso anno ricevette i sacramenti dell'iniziazione cristiana e nel Battesimo assunse il nome di Maria Giuseppina e il cognome Benvenuti della madrina. La consacrazione battesimale determin la scelta della vita religiosa. Nel 1874 fece la vestizione religiosa e nel 1876, con la Professione, si consacr al Signore nell'Ordine di Santa Chiara. Nel 1864, in seguito alla soppressione del Monastero di Belvedere, si trasfer con altre consorelle nel Monastero di Serra de' Conti. Qui divenne Vicaria, Maestra delle novizie e poi Abbadessa. Suor Maria Giuseppina suonava lorgano come un angelo e la gente del paese restava sotto le mura del torrione ad ascoltare la musica che vibrava nellaria e penetrava nei cuori infondendo pace La sera del 24 aprile del 1926 lasci questa terra ma promise alle suore che avrebbe dato loro un segno non appena fosse giunta in Paradiso.

Esalato da poco lultimo respiro la campana del convento inizi a suonare a lungo, senza che nessuno ne tirasse la cordicella.

Si grid al miracolo e tutti ripetevano: "E' morta la Moretta, morta una santa!". Il 1 Ottobre 1988 il vescovo di Senigallia Odo Fusi Pecci, alla presenza dei Membri del Tribunale Diocesano, ha presieduto la chiusura del Processo Informativo Diocesano sulla fama di santit e sulle virt eroiche della Serva di Dio che stato trasmesso alla Congregazione per le Cause dei Santi a Roma.

Il sostentamento delle suore era assicurato dalla dote delle suore pi ricche. Dai registri tenuti dalla suora dispensiera apprendiamo che ricompensavano con dolcetti, pagnotte e tagliolini, vino, e lardo gli aiuti che arrivavano dallesterno, secondo una serie di norme codificate. Consuetudine di moltissimi monasteri italiani come risulta evidente anche dal Libro di memorie" del monastero riminese di San Sebastiano del 1786-87.Carte di menu nomi di piatti, dal "manzo alesso", al "presciutto" all'insalata, ai formaggi, ai vari tipi di minestre., usanze, doni e rinfreschi come quello per la festa di San Sebastiano: l'elenco delle persone a cui distribuire dolci, parte dalla sagrestana per arrivare, attraverso le madri abbadessa, fattora e vicaria, al vescovo ("tre bacili"), ai padri confessori, ai medici, al caffettiere, alla "famiglia di Monsignore" e "alli musici".

Infine carte manoscritte degli elenchi dei lavoranti attestano i relativi compensi. Ad esempio, si legge che "quando la sagrestanina da' il telaranio nella chiesa si da' all'uomo che polisse la chiesa mezza tiera di pane tagliato" (mezzo chilogrammo). Per le visite dei superiori, si dispensano fiori finti, come pure per l'elezione della nuova abbadessa e per la visita del nuovo vescovo. Nel gennaio del '97, si decide di "abolire affatto li dolci" e di "formare nuovi fornelli per maggior risparmio della comunit".

Scoprire fra le carte dellarchivio di Serra de Conti, amorosamente custodito, lettere, atti, e quelle ricette che vi presentiamo in questo piccolo volume, e portarle alla luce, significa penetrare in un mondo sconosciuto fatto di regole, di gioie, sofferenze..ma senza dubbio di grande amore per la vita nella sua quotidianit.

Gli anziani del paese ricordano con commozione, quando bambini, mangiavano i dolcetti preparati dalle monache e per lepifania: le uova al tegamino fatte di marzapane.

(La prima parte del toponimo ha il significato di altura o monte con aspetto dentellato (serra=sega). Compare fin dal 1299 come apud Serram Comitis cio la serra del Conte (dal latino comes, cometis=conte),non sappiamo di quale nobile si tratti.

IL CIBO LA TAVOLA I MONASTERI

Sono i cinque sensi che danno all'uomo la sua completezza

Cosi scriveva Hildegard superiora delle suore benedettine di clausura nel 1165. Non solo badessa ma autrice di opere teologiche e scritti di medicina naturale, descrive le propriet curative degli alimenti :ricette adatti ai malati e ai sani Opera di straordinaria bellezza e documento puntuale sulle consuetudini culinarie dei conventi medioevali.

Cos io credo si possa affermare che l'arte culinaria e leducazione alla tavola abbiano avuto origine tra le mura dei monasteri e delle abbazie medioevali. Allinterno di queste mura impenetrabili monache e monaci furono forse gli unici ad occuparsi del senso e dello scopo dei cibi, svolgendo doppia funzione di ospedale e di ricovero

Poveri, malati, principi in viaggio, laici ed ecclesiastici, commercianti e pellegrini bussavano spesso alle porte dei monasteri in cerca di ospitalit ed aiuto. Le loro dispense erano ricolme dei prodotti che giungevano sia dalle loro grandi propriet terriere sia dalle decime che dai tributi del contado. Una economia, dunque, di sussistenza, infatti consumavano il vino delle loro vigne, le carni dei loro coloni, i cereali dai loro campi. E facile intuire come nellimmaginario collettivo il monastero fosse luogo di ricchezza di cibi e i monaci di conseguenza dei buongustai e dei ghiottoni.

Come vedremo nel corso del nostro discorso le cose non stavano proprio cos!

Ma, entriamo allinterno del monastero e scopriamo da chi erano ricoperti i vari ruoli. Dalla nobilt provenivano abati e badesse, mentre la cura dei campi, delle cantine e delle stalle era affidata ai fraticelli e ai semplici laici.

Quei monaci e quelle monache che sapevano rielaborare le indicazioni dietetiche rintracciate nei vecchi manoscritti, si dedicavano alla cucina: nacquero cos i primi appunti e le prime raccolte di ricette.

I monasteri, per far fronte al loro impegno spirituale e di assistenza medica, svilupparono quasi in modo naturale, una sorta di cucina salutare Le conoscenze degli effetti salutari delle erbe, entrarono pian piano nella cucina quotidiana, le pietanze per lo pi insipide, dopo tali mescolanze, acquistarono in sapore e fu proprio questo effetto che diede linizio all'arte culinaria.

Un mondo lontano quello monastico, chiuso nel silenzio di alte mura, scandito da ritmi religiosi, sospeso in un tempo tra preghiera e lavoro,

eppure un lungo filo sottile ci unisce se pensiamo che alcuni elementi di vita quotidiana, provengono direttamente da quel mondo che ha avuto un ruolo fondamentale nella elaborazione della nostra civilt

Quante volte ci siamo sentiti dire nella nostra infanzia: non sta bene bere con la bocca pienapulisciti la bocca prima di bere. Norme elementari di educazione che derivano dai primi tempi del monachesimo, cosi come letimologia di alcune parole come pietanza che deriva dal latino pietas per indicare un supplemento di cibo che la piet dei fedeli offriva ai religiosi.La pietanza infatti veniva servita per due in unico piatto e il bere in un solo bicchiere, ecco dunque che i monaci non dovevano bere a bocca piena per non lasciare tracce di cibo nel bicchiere, e dovevano pulirsi la bocca prima di bere. Ma con che cosa? Con la salvietta da tavola, tovagliolo, e non con la manica dellabito, come spesso accadeva!

I Codici Consuetudinari monastici dei primi monasteri sono pieni di consigli sul modo di comportarsi a tavola e di mangiare honeste et religiose, dettami a cui si ispirata la societ civile nei secoli fino ad oggi.

Ancora oggi i nomi dei pasti come ad esempio colazione trovano la loro origine in quei luoghi dello spirito che sono i monasteri .

I pasti sono generalmente frugali: consentita la carne solo per i malati e gli ospiti; il pesce e probabilmente anche il formaggio sono riservati per le grandi occasioni.

Di solito si servono due "pietanze cotte": il primo quasi una specie di polenta a base di orzo, il secondo a base di legumi. A queste possibile aggiungere un terzo piatto a base di frutta o verdura fresca. Ad ogni monaco spetta giornalmente una quantit di pane pari a 350 grammi circa. Come si pu intuire si tratta di un cibo poco equilibrato, che ingrassa i monaci e li espone ai commenti non sempre benevoli della gente del popolo.

Quando non c la cena, si prende una tisana calda a base di tiglio o di camomilla, per facilitare il sonno della notte Questo momento si chiama collatio poich vengono lette le Collationesdi Cassiano Successivamente pass a indicare il leggero pasto caldo che si consuma dopo il digiuno notturno, la nostra attuale colazione.

Ancora una piccola curiosit ,qualcuno forse si ricorder quando da piccolo lasciava qualcosa nel piatto qualcuno ripeteva finisci tutto, non

Lasciare la vergogna nel piatto..! Ebbene anche questo modo di dire ha la sua piccola storiaAbbiamo visto come le regole siano alla base della vita di un monastero, una comunit di individui che vive a stretto contatto esige regole per la pacifica convivenza, una convivenza basata su di un rigido autocontrollo.

Puntualit a tavola, lavarsi le mani prima di sedersi a tavola, attendere in silenzio il cibo, non osservare ci che mangiano gli altri, non reclamare se si sono dimenticati di servirti e finire tutto il cibo nel piatto

e se il tuo vicino ha finito prima di te sii generoso e dai un po del tuo cibo.

A tale proposito vi un divertente aneddoto: un monaco vedeva dibattersi nel proprio piatto un bel topolino (o due scarafaggi...). Cosa fare? Reclamare era proibito.1 Non mangiare lo era ugualmente.

Ma era caritatevole e giusto intervenire in favore del confratello vicino. Il monaco, dunque, con discrezione e spirito pio, rivolgendosi al servitore mormorava:

"Perch padre Anselmo non ha diritto, anche lui, a un topo o a due scarafaggi?".

Proibito dunque come cosa vergognosa lasciare avanzi nel piatto, un insulto alla povert.. ecco spiegato lorigine del modo di dire non lasciare la vergogna nel piatto! rivolto a coloro che lasciano sempre un po di cibo cos per abitudine.

Lalimentazione cambiata molto durante i secoli da un ordine religioso allaltro, da una regione allaltra, ma, nonostante le diversit, nei monasteri il cibo non mai abbondante e frequenti sono i digiuni.

Tutto nel monastero deve richiamare al senso della vita; anche il modo stesso di preparare la tavola varia secondo il ritmo dellanno liturgico come vedremo bene nei documenti del monastero di Serra De Conti.NOTE

(Giovanni Cassiano, monaco scrittore, fondatore di monasteri di uomini e di donne, nelle sue Collationes (Conferenze), dettando le regole della vita conventuale, ammoniva che bisognava "impedire che il cibo accenda in noi il fuoco della concupiscenza carnale",

L'abbondanza di umori provocata dal troppo cibo ridesta negli uomini il piacere ed il compiacimento sensoriale verso i quali si dirigono gli strali dei padri della Chiesa. Lussuria, avarizia, collera, accidia sono dirette conseguenze della sovrabbondante alimentazione, perch fra "i vizi che fanno al genere umano la guerra pi spietata, il primo la gastrimargia o golosit" afferma Giovanni Cassiano, nelle Collationes, testo di meditazione e spiritualit.(MONTANARI M.: Alimentazione e cultura nel Medioevo. Laterza 1988, GLI ORDINI FEMMINILI

Quando parliamo di monachesimo non si deve dimenticare che, sebbene con

una storia diversa, vi sono ordini femminili.

Il monachesimo femminile rappresenta un fenomeno assai diffuso anche se poco conosciuto. Gi prima di San Benedetto si hanno testimonianze di comunit femminili alle quali a differenza del monachesimo maschile manca inizialmente, lesperienza eremitica, poich la solitudine considerata pericolosa per le donne. Considerata fragile e bisognosa di protezione, la donna arriva al monastero direttamente dalla famiglia, passando dalla potest del padre a quella di Dio.

Gi alla fine del IV secolo alcune donne dellaristocrazia romana si riuniscono intorno a San Girolamo seguono i suoi consigli e conducono una vita di preghiera, ma non vivono insieme.

Dal racconto della vita di San Benedetto sappiamo, invece, che la sorella Scolastica vive vicini a Cassino con un gruppo di sorelle. La prima testimonianza del monachesimo femminile si attesta intorno al VII secolo ad opera dei Longobardi.

Essi ,infatti, nonostante la distruzione di alcuni edifici religiosi, ritengono utile consolidare la religione cattolica e rientra nei loro piani anche la fondazioni di monasteri femminili nei quali entrano numerose donne appartenenti alla nobilt longobarda ,non di rado ricoprono poi ruoli importanti. Le comunit monastiche femminili seguono la regola si san Benedetto, anche se per loro sono previsti obblighi meno gravi rispetto alle regole dei monasteri maschili.

I nuovi ordini religiosi che si vengono a creare nei secoli XI- XII hanno anche dunque rami femminili: questo mostra la volont delle donne di aderire ai nuovi ideali monastici e ci fa capire che ora i monasteri non sono pi lespressione del potere di un sovrano che vuole riunire le donne non sposate della propria famiglia, ma raccolgono anche unautentica vocazione religiosa.

Accanto alla regola benedettina i nuovi ordini prevedono delle costituzioni nuove che sono diverse per monaci e monache.

Mentre gli uomini possono scegliere tra le diverse forme di vita monastica, le donne devono rimanere rinchiuse dietro le grate della clausura. Anche in questo ruolo di azione non diretta emergono in questo periodo figure femminili di grande rilievo come ad esempio Idelgarda di Bigen, che proprio nella clausura esprimono lamore di Dio attraverso la preghiera e lo studio.

Alla fine del XII secolo il primo ordine fondato da una donna quello delle Clarisse, che ha origine dalladesione di S.Chiara al movimento di S.Francesco. Chiara, affascinata dallesperienza di S Francesco, lascia la casa paterna e viene accolta dal santo, che le taglia i capelli, la riveste di un saio di tela ruvida e la conduce in un monastero benedettino, ma chiara presto abbandona il monastero e si ritira con alcune compagne nella chiesa di S: Damiano, vivendo la povert evangelica secondo la Formula Vitae scritta per lei da S.Francesco. Nasce cos lordine delle Clarisse, come le nostre monache del monastero di S.Maddelena di Serra De Conti La decadenza della vita monastica che investe la societ del basso medioevo raggiunge anche le comunit femminili, ma dopo il concilio di Trento (1545 1563) si ha una rinascita dei monasteri femminili: un nuovo impulso e vigore dato dalle istituzione di scuole femminile, i n cui vengono formatele giovani in vista della loro futura vita in famiglia.

Le soppressioni dellepoca napoleonica dell800 provocano una nuova ondata di chiusura dei monasteri femminili. Nel nostro secolo non sono molti i monasteri femminili ma la loro vitalit testimonia limportanza della presenza femminile allinterno dellesperienza monastica, indipendentemente dal tempo e dallo spazio.

Ancora oggi gli ordini femminili sono caratterizzati dalla stretta osservanza della clausura e seguono con qualche adattamento le regole scritte dai fondatori dei corrispettivi ordini maschili. Le monache, pur vivendo in una situazione che sembra escluderle dal mondo, sono impegnate nella preghiera e nei lavori femminili, e nelleducazione dei giovani ,e in un certo qual modo diventano parte integrante della vita civile non solo per il significato storico e culturale ma perch insieme fanno e costituiscono la vicenda umana la vicenda umana e spirituale dei cittadini(Non pare certamente una novit che le monache fossero rinomate ,oltre che per labilit nei lavori femminili ,anche per la preparazioni di eccellenti dolci e cibi.

A tale proposito troviamo conferma nel libro Donne e Cibo, quando la Muzzarelli scrivePi in generale si pu dire che la provenienza di molte di loro da ambienti aristocratici o quanto meno abbienti ha dettato i caratteri e segnato i confini della cultura e della pratica alimentare Nel Settecento, come ci ricorda Gabriella Zarri, le moo. monache della Misericordia di Reggio Emilia erano famose per le "galanterie di cannellata", quelle della Torre di Forl per le "corone di colla di pesce" , mentre le sorelle del Corpus Domini di Ravenna erano note per le confetture in forma di pigna. Costituisce un unicum la specialit delle monache di Bobbio: "Non fan lavori singolari, ma in cuocer le lumache non han pari"

Una suggestiva fonte che risale alla met del XVIII secolo testimonia proprio le specialit culinarie di alcuni fra i ventotto monasteri femminili esistenti in quel tempo a Bologna Delle monache del monastero di San Lorenzo si dice che di cotogne fan gelo delicato da dame e cavaglieri assai stimato La confettura di cotogne era effettivamente una specialit bolognese, come atte fine del Cinquecento un viaggiatore fiammingo: Andrea Schott ": scrisse: Fanno una conserva di cotogne e di zucchero chiamata gelo, degna d'esser posta alle tavole dei re. Le monache del monastero di Santa Cristina della Fondazza facevano bi scotti con muschio e acqua di rose definiti gustosissimi, mentre Ie benedettine del monastero dei Santissimi Gervasio e Protasio producevano un vin di marene... per gl' amalati, qual vien gustato ancor dalli svogliati. Le amarene sciroppate erano la specialit delle benedettine nere del monastero dei Santissimi Vitale e Agricola e al preparato erano attribuite anche propriet medicinali Le domenicane del monastero di Santa Maria Nuova confezionavano invece un dolce di marzapane che tagliato a fette sottili poteva essere scambiato per mortadella. Caso di imitazione confondente non unico giacch altre monache realizzavano in cera frutti bellissimi che parevano veri e confezionavano in seta fiori molto simili a quelli naturali. Le domenicane del monastero dei Santissimi Naborre e Felice preparavano un prelibato pan di Spagna conosciuto e richiesto perfino in Lombardia, cos come erano ricercate anche fuori Bologna le torte alla frutta delle domenicane del monastero di San Guglielmo. Le vallombrosane del monastero di Santa Caterina fabbricavano _'zuccherini" colorati mentre le clarisse del monastero dei Santissimi Bernardino e Marta sempre con lo zucchero preparavano "mattonelle o tavolette" che calmavano la tosse1 IL MONASTERO

DI SANTA MARIA MADDALENA

LA STORIA

Lattuale complesso monastico di Santa Maria Maddalena nasce sui ruderi di un antico monastero omonimo che agli inizi del Cinquecento era gi stato abbandonato dalle religiose.

Restavano tuttavia i suoi averi, confluiti nella Curia di Senigallia, mentre una cospicua eredit, leredit Piccini, era direttamente gestita dalla Fabbrica di San Pietro.

Nella seconda met del Cinquecento una comunit di suore clarisse di Pesaro si fa promotrice della riedificazione del complesso religioso insieme al comune di Serra De Conti, dopo aver ottenuto linteressamento del Papa Gregorio XIII.

Questi, con Breve del 1574, sollecita la Curia di Senigallia affinch scorpori i terreni del Monastero di Santa Maria Maddalena e dispone la restituzione del considerevole lascito testamentario delleredit Piccini al Comune di Serra De Conti, che utilizzer le risorse messe a disposizione per la riedificazione del complesso monastico.

I lavori terminano nel 1586 e il monastero nuovamente abitato da giovani claustrali istruite da tre suore fatte venire appositamente dal Monastero di clarisse di Santa Lucia di Arcevia. Divenuto negli anni ricco e signorile, si contrappone al monastero di San Carlo Borromeo, fondato nel corso del Seicento, anchesso situato allinterno delle mura del paese ed oggi adibito ad uso privato.

Il Monastero di Santa Maria Maddalena si trova ad avere e controllare, probabilmente sin dallinizio della sua rinascita, un ricco patrimonio immobiliare esteso su un vasto territorio la cui gestione viene esercitata con laiuto di sindaci e di agenti che curavano i rapporti con i fittavoli e i coloni. Con questi il Monastero mantiene comunque contatti diretti testimoniati dai documenti darchivio che riportano il frequente andare dei coloni alla casa monastica.

Grazie alle considerevoli doti delle novizie e dei lasciti delle famiglie nobili locali, gi nella seconda met del Seicento inizia l ammodernamento del complesso e nel 1726 viene acquistato ed inglobato ladiacente Palazzo Palazzi (oggi sede comunale).

Un grave colpo vieni inferto alla vita della comunit dalle soppressioni napoleoniche, nel 1810, in seguito alle quali alcune suore si rifugiano nella nobile casa degli Honorati e altre tornano in famiglia.

Nonostante le suppellettili e gli arredi vengano affittati a prestanomi, questo un periodo di distruzione, vendita e alienazione di molti oggetti darte. Si salvano soltanto i numerosi oggetti duso comune, che vengono lasciati nei loro luoghi perch tenuti in scarsa considerazione.

Nel 1824 le suore rientrano in monastero ma per affrontare, di l a pochi decenni, un ulteriore momento drammatico causato dalle nuove soppressioni degli ordini religiosi stabilite nel 1861 in seguito allunificazione del regno dItalia. Perdono la propriet ma restano nella loro abitazione che, seppure ridotta, ospita anche undici clarisse provenienti dai soppressi monasteri di Belvedere Ostrense e di Ostra.

Nel 1910 le suore acquistano dal Comune la parte abitata da loro ma, ancora una volta, un difficile momento le aspetta: allinizio della prima guerra mondiale il vescovo di Senigallia ne stabilisce il trasferimento ad Arcevia

In quelloccasione tutto il paese insorge e c ancora memoria di una sassaiola organizzata contro le carrozze che erano venute a prelevare le suore le quali, grazie anche allintervento della gente, potranno restare nella loro casa, senza interruzioni sino ad oggi.

La Comunit di Serra De Conti ha voluto il suo monastero perch lha fatto costruire e lha aiutato e difeso nei momenti di maggiore difficolt: in questo legame, antico e forte, ha la sua ragione dessere lattuale museo.

FATICA E CULTURA IN CUCINA

La visione pittoresca di paffute suore che, ritiratesi in monastero, trascorrono amenamente il loro tempo fra i fornelli della cucina a preparar marmellate di fichi fra un canto e unorazione, contrasta con limmagine che con forza emerge dalla lettura dei documenti e delle carte darchivio.

Spazzati via pregiudizi e stereotipi risaltano figure di donne colte che conoscono il latino e litaliano, che sanno scrivere, dettare regole e organizzare con logica e rigore il pi complesso degli Offici monastici: lOfficio della dispensa.

Accanto a loro altre donne, alle quali viene richiesta robustezza di corpo per sopportare le fatiche del monastero,1passano il loro tempo in cucina per spazzare, sparecchiare, pulire le tavole, capare gli erbaggi e preparare pasti per le decine di consorelle della loro comunit, per i numerosi pellegrini che bussano giornalmente alle porte e ai quali non si nega mai un piatto caldo, ma soprattutto confezionano pasti per pagare tutto quel personale che effettua prestazioni ordinarie e straordinarie per il monastero, siano essi laici o religiosi.

Sono donne che dedicano la loro vita a Dio, protette dalle mura della clausura; giovani aristocratiche che forse riescono ad esprimere, meglio che nella propria famiglia, le loro qualit; sono povere contadine scampate allinsicurezza sociale e alla povert totale.

Lo studio dei documenti darchivio apre quindi un singolare panorama sul lavoro monastico ed in particolare sullattivit culinaria, specifico sapere femminile che simpone nella vita quotidiana tra la preghiera e i lavori dellorto, tra il ricamo e la tessitura, tra il far statuette di cartapesta e cera e il confezionare rami e corone di fiori di seta.

Al pari del lavoriero comune, dove le suore si applicano alle pi raffiante arti femminili, la cucina un luogo percorso da un forte spirito di comunit e nella struttura architettonica del complesso monastico costituisce, insieme al refettorio e alla chiesa, un elemento portante intorno al quale si sviluppano tutti gli altri spazi del monastero di Santa Maria Maddalena.

La cucina anche luogo di incontro con lesterno, in cucina arrivano i coloni per quando vengono i maiali, gli uomini che scarnificano, quelli che insaccano le salsicce, vestono le lonze, quelli che come il Sabbatino di Morbidello o il Bestiolo di Moncarotto portano le torte e il latte e vengono ricompensati con canestre di biscotti, pagnottelle e fettucce.

In cucina si conserva lelenco dei creditori di paste ed allora abbiamo il padre confessore e i sagrestani, impegnati giornalmente con la messa nella chiesa del monastero, i professori, chiamati ad insegnare alle giovani delleducandato, il fattore e la fattora, che curano gli interessi agrari del monastero, il falegname e il fabbro, lacquarola e il postiglione che porta la posta e trasporta gli acquisti fatti alla fiera di Senigallia, chi nella straordinaria occasione della morte, guarda le suore defunte, mura la sepoltura, la beccamorta 2La cucina quindi un luogo di grande intelligenza e fatica, che necessit per la sua complessit di unorganizzazione rigorosa.

OFFIZIO DELLA DISPENSA

Le regole della clausura portano le suore ad assicurarsi lautonomia necessaria alla gestione di tutte le attivit che ruotano intorno allalimentazione.

Le materie prime provengono dai numerosi e ricchi possedimenti del Monastero e sono consegnati, nei tempi stabiliti, dai coloni.

Sono le suore che provvedono poi a produrre il vino, a lavorare le carni per conservarle, a fare il pane, la pasta, le conserve e a preparare tutto il cibo che arriva in tavola.

Lattivit affidata a diversi Uffici monastici coordinati dallUfficio della Dispensa.

Questultimo esige, fino a tutto lOttocento, unorganizzazione complessa, articolata con responsabilit suddivise fra le suore Coriste (donne colte che conoscono il latino e litaliano) e le suore Converse (donne destinate ai lavori manuali) coordinate dalla Dispensiera, che ha in consegna tutte le cose commestibili, carne , formaggio, sale, frutti , et altro, ed sua cura somministrare a tempo tutte le cose necessarie alle cuciniere e deve dispensare in tempo della mensa alle suore la porzione de cibi e vivande nel modo che verr ordinato dalla Superiora.

Deve coordinare le suore addette alla mensa come quelle destinate alla cucina che sono cos individuate:

Refettoriere che apparecchieranno la mensa del refettorio mattino e sera e nellinverno accenderanno i lumi opportunamente. metteranno il vino e lacqua nei vasi sopra la tavola. Terminata la mensa riporranno il vino e il pane leveranno le tovaglie ed anche ogni altra cosa

Cuciniere che suoneranno mattina e sera i soliti segni del pranzo e della cena porteranno i tondi con le vivande sopra le tavole cucineranno le vivande, tireranno lacqua, scoperanno e faranno tuttaltro appartenente alla cucina , caperanno gli erbaggi legumi et altro che occorre. Terminata la mensa laveranno i piatti e riporranno al suo luogo.

Panettiere che distribuiranno mattina e sera il pane alla mensa e quella finita raccoglieranno gli avanzi

Setaccine, panettiere e aiutanti a fare il pane, alle quali si consegner la farina e dovranno fare il pane1.

Al fine di garantire il funzionamento della struttura e perch possa essere mantenuto un livello decoroso sia nella manutenzione che nellallestimento dei cibi, diviene necessario dotarsi di un regolamento che fissi i piatti da preparare secondo i tempi del calendario liturgico e definisca il che cosa e il quanto debba essere preparato per lesterno e quali siano le persone che vanno non solo ringraziate, ma pagate in cambio di favori e di prestazioni .

Al proposito una ignota mano ha redatto e scritto con grafia semplice ed elegante un Regolamento della dispensa, databile tra la fine del secolo XVIII e linizio del XIX , che ricostrusce le attivit svolte, ed introduce, con un lessico familiare a volte quasi confidenziale, elementi della quotidianit monastica, come quando invita ad usare i taglieri di Suor Rosalba Honorata, la taglieretta di Suor Maria Egiziaca che sta nella dispensa o ricorda che le forme delle paste dette a stella o altre consimili stanno nella credenza ai piedi della scala della cantina ancora oggi , a distanza di secoli, conservate nello stesso luogo, seppure non pi in uso2

RESISTENTI NEL TEMPO

Il tempo e le vicende storiche non sono passati senza danni attraverso le stanze del monastero.

Alcuni oggetti sono stati distrutti, altri venduti in momenti di ristrettezze economiche, ma gli oggetti di uso comune, fra cui quelli della cucina, sono rimasti accantonati e dimenticati anche quando il monastero adibito ad altre funzioni o resta chiuso.

Quando le suore, allinizio del Novecento, tornano ad abitarlo, respingono la richiesta pressante del mercato antiquario e conservano tutto con grande consapevolezza storica, difendendo il proprio futuro.

Le informazioni sulla vita quotidiana sono affidate, oltre che agli oggetti rimasti, alle carte darchivio: ricettari, giornale delle uscite con note degli acquisti, regolamento per la cucina, carte sparse e inventari.

Questi ultimi si riferiscono ai luoghi di conservazione degli oggetti cos che abbiamo linventario della Dispensa, del magazzeno, della panetteria; altri sotto il titolodi Ramaria in cucina suddividono gli oggetti per tipologia con particolare attenzione al pentolame in rame, sicuramente tenuto in maggior considerazione delle classiche stoviglie in coccio, spesso riunite sotto il titolo generico di cocciami vari.

Ricco e analitico lelenco del materiale da fuoco: catene, capofochi, graticole, treppiedi spiedi piccoli e grandi con rota, sempre citato il Birarrosto, complessa macchina rimasta ad arredare lattuale camino della cucina del monastero; completano gli inventari un considerevole numero di cassoncini con chiave, cassettine con o senza coperchio a testimonianza del largo uso che le suore ne facevano in ogni attivit.

Gli oggetti rimasti e gli acquisti documentati nei libri contabili testimoniano, dalla seconda met del Seicento sino al 1850 c., un notevole consumo di materiali dalle diverse tipologie e provenienze.

E possibile che le suore portassero, o facessero venire, gli oggetti dai loro luoghi dorigine, ma gli acquisti pi importanti, per qualit e quantit, e quelli economicamente pi impegnativi, avvenivano annualmente, alla fine di luglio, in occasione della fiera franca di Senigallia.

Cos per le ceramiche di produzione marchigiana, umbra ed abruzzese, mentre sono andati perduti i vetri e i cristalli da tavola di cui restano solo testimonianze archivistiche

Un curioso inventario ottocentesco ci ricorda poi luso di stoviglie diverse per le diverse occasioni; nel caso di ospiti illustri le suore disponevano di oggeti particolarmente raffinati: ad uso de forestieri: cabar con zuccariera e sei chucchiaini dargento, chiccare da caff di maiolica con suoi piattini, chiccare da cioccolata con suoi piattini, posate dargento, saliere di maiolica, ampolle di maiolica per oglio e acetoLE PASTE DELLE SUORE , Oggi, come ieri

Oggi, come ieri le forme delle paste dette a stella o altre consimili sono state trovate nella credenza ai piedi della scala della cantina cos come indicava il regolamento manoscritto della cucina conservato in archivio, dove vengono riportati i vari tipi di paste confezionate dalle suore.

In quellarmadio a muro, citato anche come la credenza delle pastine, secondo una tradizione rispettata per secoli, venivano conservati gli strumenti necessari alla preparazione dei dolci: rotelle pinzette, mortai,e soprattutto stampi Si tratta di formelle di legno sulle quali sono intagliate forme diverse: animali, elementi vegetali, lettere, disegni geometrici, stemmi. Alcune sono molto antiche, risalgono al secolo XVII e testimoniano la diffusa cultura della lavorazione del legno che contraddistingue queste zone nel corso del seicento. . Le suore li hanno usati fino alla seconda met del secolo XIX dismettendone alcuni e acquistandone di nuovi e mentre semplice capire lutilizzo di quelli pi recenti, che presentano intagliata una sola forma, difficile comprendere luso di quelli pi antichi intagliati in ogni parte con disegni diversi.

Le suore che vivono oggi in monastero ci hanno raccontato, fedeli alla consuetudine monastica di tramandare oralmente le ricette, il modo di fare spumette e croccanti, indicandoci gli strumenti usati sino allinizio del Novecento.

I croccanti avevano la forma di vasi di fiori e frutta e la loro composizione era affidata alla straordinaria manualit delle suore cuciniere, le spumettevengono ancora oggi offerte agli ospiti.

Particolare dedizione era posta nella preparazione dei biscotti che misurati in bacili, venivano offerti in cambio di lavori effettuati da personale esterno al monastero.

Nella loro preparazione, come in quella delle creme e rosoli, vengono ampiamente adoperate le spezie.

Alla voce droghe, spezie, sale ed altro dei giornali di uscita del Monastero sin dalla fine del XVII secolo sono annotati gli acquisti per : Cannella fina, zaffarano, zaffarano di levante, pepe forte, che si affiancano allo zuccaro raffinato, fioretto, rosso e mascarato, al miele, uva passarina, noci, pignoli, amandole, limoni e melaranci.

Questi erano gli ingredienti necessari per la preparazione di pan di spagna

biscotti grossi dallovo

savoiardi menate

galanterie

rotole dallamandole

fraschette

rotole dallovo menate

mane speziate

rotole de pignoli

cialde

biscottini bianchi

pignoccate

mostaccioli negri

zuccarini

mostaccioli dal pieno

buccellati

biscottini dal zuccaro

pasticcetti

biscotti con le chiare dovo

pasta damandole1LE STANZE DELLA CUCINA

Alla complessit dellorganizzazione e delle attivit da svolgere in cucina corrisponde la necessit di spazi adeguati che, fino al Settecento erano cos organizzati:

Al primo piano dellattuale Monastero erano poste:

la grande stanza della cucina con piccolo sciacquarolo, con volticella e brocchetta a stagno, bancone per li fornellicon stufette e rispettive volticelle, grande cappa del camino

La stanza degli sciacquaroli con bancone per brocchecon due volticelle e al sopra mattonato rotatoLa stanza del frullone ( grande macina per grano) voltato a botte con caminoLa stanza della panetteria

Il grande salone del refettorio

Al secondo piano figurava la stanza del torchio delle pastee la stanza detta dispensa, mentre nel chiostro era posto un grande forno dal corpo sferico e il torrione superiore serviva per le salate del maiale Nellorto era ubicata la neviera, mentre nei sotterranei erano poste la cantina e il magazzino dellolio; le grotte poi, che sottostanno a tutto il complesso monastico, erano il luogo ideale per riporre cibi da conservare.

E stato possibile ricostruire lassetto degli spazi destinati alla cucina, grazie ad una relazione tecnica, che presenta, accanto allelenco dei lavori da eseguire, la situazione delle strutture da consolidare. Fu redatta nel 1823 da Francesco Maggioli, fratello della Madre Badessa, Anna Redenta Maggioli, in occasione della ristrutturazione ottocentesca del Monastero.

Infatti, dopo la soppressione napoleonica del 1810, le suore dismisero labito religioso e furono costrette ad abbandonare il Monastero, che fu trasformato in fabbrica di liquori e abitazioni private.

Nel 1824 ne venne decretato il ripristino, ma gi la madre Badessa aveva affidato al fratello il progetto per la ristrutturazione dellimmobile ed i lavori furono eseguiti tra il 1825 e il 18261IL CALENDARIO E LA CUCINA

Una mensa tra modelli aristocratici e contadini

La lettura degli antichi documenti di dispensa e cucina del monastero di Santa Maria Maddalena lascia emergere il quadro di una mensa agiata ma anche rurale, con echi di secoli indefiniti, sospesi nel tempo, esattamente come le stanze nel nome di questo museo, dove si racconta la quotidianit passata (ma per certi versi ancora percettibilmente presente) della comunit di clarisse di Serra de Conti. Le antiche consuetidini registrate in queste carte sette-ottocentesche, sullorganizzazione delle provviste e sulla preparazione dei pasti di questo monastero, rivelano infatti certi caratteri inconfondibili di sobria agiatezza, per secoli costanti tratti distintivi dello stile di vita sobriamente benestante dellaristocrazia fondiaria marchigiana. Questa nobilt terriera anche nellabbondanza della tavola tendeva comunque a seguire in grandissima parte il ritmo della natura e dal calendario stagionale dei campi e delle pratiche agrarie: la cadenza dei raccolti faceva cos privilegiare laccorta saggezza di un impiego ottimizzato delle risorse alimentari e delle provviste via via immagazzinate. In questa razionale economia dei prodotti coltivati sta la chiave di lettura dellantica amministrazione della cucina nel monastero di Serra de Conti: cos leffettiva abbondanza di cibo, propria di un modello alimentare da ricchi e benestanti di campagna, si coniugavano con aspetti e stratagemmi di parca saggezza e semplicit contadina. I pasti del refettorio riecheggiavano cos sia labbondanza abituale della mensa delle famiglie aristocratiche locali (da cui molte suore provenivano), sia lumilt di un desco frugale contadino, apparecchiato con loculata misura e sapienza nel cucinare le risorse giuste al momento opportuno, con malizie sopraffine per abbracciare gusto e risparmio. Lo spirito di umilt francescana delle clarisse, trovava cos una sua armonia: si osservava cos la giusta misura tra il necessario ristoro (indispensabile per lavorare e compiere la propria missione) e la sobriet nel rispetto della sacralit degli alimenti e dei loro tempi. Le regole della mensa tendevano ad equilibrare e rispettare sia i momenti di astinenza e riflessiva purificazione (i periodi di magro), sia le occasioni di doverosa celebrazione di ringraziamento (la cucina di grasso delle feste).

Scorrendo le norme per la dispensa e le ricette di cucina di questo monastero si avverte comunque lo spirito di una dieta calibrata tra rinunce ed eccessi, con una costante oculatezza nel gestire al meglio le provviste, e con un senso di profondo rispetto per il cibo, come dono ricevuto e quindi da ridare a sua volta. In queste carte si leggono appunto vecchie saggezze contadine nei tanti stratagemmi per riciclare tutto il commestibile e per cucinare gli avanzi infinitesimali, e si trovano le tante raccomandazioni per preparare pietanze e confezionare leccornie da regalare allesterno del monastero. Era pertanto la natura con il periodico succedersi dei raccolti e delle produzioni alimentari, assieme alle tappe del calendario liturgico con feste e prescrizioni religiose, a condizionare spesso tempi e ritmi della dispensa e della cucina, con le consuetudini ricorrenti nellimbandire le tavole del refettorio e nel confezionare dolci e specialit da offrire in dono ai devoti interlocutori del monastero.

Il raccolto del grano e la scartocciatura: pane, focacce e pasta

I momenti annuali del ciclo agrario dedicati ai raccolti e ad altre forme di approvvigionamento alimentare erano pertanto nevralgici nellorganizzazione della mensa delle clarisse di Serra de Conti. In unepoca di economia strettamente rurale la gestione interna del monastero poggiava quasi esclusivamente sugli introiti del frutto dei campi e della loro lavorazione, secondo il consolidato modello dellaristocrazia fondiaria marchigiana. La dispensa del monastero si arricchiva di provviste durante i momenti canonici annuali delle grandi opere, ma al tempo stesso si registravano alcune uscite sensibili, a causa dei pasti offerti ai braccianti ed agli altri artigiani che venivano di volta in volta coinvolti in queste pratiche stagionali.

Tra i momenti canonici legati al ciclo dei campi, e quindi alla dispensa del raccolto, da sempre la mietitura e trebbiatura, come anche la scartocciatura o spannocchiatura del granturco, hanno avuto unimportanza di rilievo, sancita da pranzi abbondanti, che anche in questo caso servivano certamente a rifocillare i braccianti, ma anche a ritualizzare questo momento non solo nevralgico nelleconomia agreste, ma anche a suo modo solenne e fondante nella percezione sacra del quotidiano presso la nostra cultura: infatti superfluo notare come il pane sia al tempo stesso simbolo (anche proverbiale) di tutto il sostentamento alimentare, ma anche emblema di un sostentamento spirituale, che la liturgia cristiana ha ritualizzato nel sacramento eucaristico.

Il pane era naturalmente uno dei prodotti principali che uscivano dal forno interno al monastero, oppure nelle teglie portate a cuocere dalla fornara esterna: le pagnotte delle clarisse rappresentavano naturalmente anche il fulcro della loro vocazione assistenziale, ed infatti figuravano spesso nella carit generale. Comera tradizione nel mondo contadino le suore quando preparavano la gran massa per il pane per la periodica infornata modellavano limpasto anche in altre specialit, come ad esempio focacce, chiamate anche cresce nella tradizione umbro-marchigiana. La confezione pi semplice di queste pizze prevedeva le varianti bianca e nigra. Come anche per il pane, dove la qualit bianca era sempre considerata cibo per signori (o da riservare ai malati), la pizza confezionata con fior di farina ben stacciata (e quindi dallimpasto pi chiaro), risultava naturalmente pi elaborata, raffinata e quindi pregiata di quella nigra preparata con crusca e tritello. Quando si facevano queste cresce con alcuni avanzi ed intagli di scarto della pasta si friggevano le piccole cresciolette, intinte nelluovo ed inzuccherate. Queste focacce avevano poi naturalmente le loro varianti pi elaborate ed appetitose, da destinare alle grandi occasioni, come ad esempio le cresce al formaggio caratteristiche del periodo pasquale, o anche i buccellati confezionati con massa del pane, olio, anici, farina, lievito, sale e un tantino di vino, o i pan nociati, farina, noci, uva secca, pepe ed olio.

Tra le altre preparazioni con la farina va naturalmente ricordata la pasta: le suore del resto erano secondo tradizione secolare eccellenti pastaie, ed erano spesso celebri ed apprezzatissime fabbricante di certi formati, come documenta ad esempio il Latini, che raccomanda appunto nel suo ricettario e trattato di gastronomia i tagliolini di monache. Questo formato di pasta lunga, tagliata del virtuosismo sopraffino delle suore in dimensioni cos sottili da somigliare a capelli o fili di seta, erano una manifattura molto apprezzata, offerta come dono cerimoniale di gran pregio alle famiglia aristocratiche (in alcuni casi ambito dono per nozze o per nascite da parte dei monasteri, omaggio rituale celebrato ed ostentato trionfalmente). Anche molti monasteri marchigiani eccellevano in questa squisita arte della pasta, anche se un certo compiacimento aristocratico induceva a farsi arrivare queste specialit da monasteri ancor pi lontani: si registra ad esempio tra le carte di cucina di una famiglia nobile maceratese il consumo di tagliolini di monache, bonissimi a Bologna13. Ed in effetti anche nella mensa delle clarisse di Serra de Conti spesso, tra i pasti raccomandati per alcuni giorni si leggono pietanze di maccheroni ed appunto tagliolini. Nel monastero infatti ancora conservato il caratteristico lapposito strumento con tante scanalature da passare sulla sfoglia stesa per intagliare appunto le strisce dei sottili tagliolini; questo utensile, di uso comune, rappresentato in una delle stampe che illustrano lideale corredo di strumenti da cucina del ricettario terdo-cinquecentesco dello Scappi. Generalmente la pasta si preparava semplicemente con acqua e farina, e solo nelle grandi occasioni con la preziosa aggiunta di uova. In determinate occasioni si usava preparare anche formati ripieni come ravaioli con la ricotta, e tortelli con erbe, ma queste specialit erano presentati come frittelle anzich come pasta bollita. Ma anche nel cucinare la pasta vera e propria vi erano ricette particolari, da preparare per occasioni speciali. Da sempre per le festivit notevoli era consuetudine solennizzare i maccheroni condendoli abbondantemente di grasso (con pezzetti di carne, funghi, spezie, formaggio) e poi celandoli preziosamente in un sontuoso scrigno di pasta frolla o sfoglia: era la ricetta, diffusa in tutta Italia, del timballo o pasticcio, rinvenuto anche tra le carte di cucina delle clarisse di Serra de Conti. Cera poi la tradizione particolare, tipica delle Marche interne e dellUmbria, di rendere memorabile e cerimoniale il consumo della pasta asciutta condendola in una festosa versione con ricotta, miele, zucchero, mandorle e pinoli: anche questa preparazione, caratteristica delle grandi vigilie, rientra nel ricettario manoscritto del monastero di Santa Maria Maddalena.

Oltre ai cereali (tra cui anche il farro, con cui le clarisse confezionavano torte particolari), vanno ricordati anche gli altri due prodotti vegetali che rappresentano per molti aspetti il cardine della nostra cultura agro-alimentare, ossia loliva e lolio, e luva ed il vino, annualmente omaggiati dal rituale festoso della vendemmia. Esattamente nella circostanza della raccolta delluva e dellinizio della vinificazione le clarisse celebravano ritualmente questa cerimonia campestre impiegando il succo duva appena spremuto, e preparando cos dei dolcetti con il mosto, mescolato anche con miele e spezie, come appunto i mostaccioli od altri tipi di biscotti e pasticcini. I mostaccioli vengono appunto definite paste della vigilia, ed era un dolce rustico di origini antichissime, confezionato originariamente appunto con del mosto cotto, per secoli il principale edulcorante nella cucina contadina: con i secoli anche nel confezionare i mostaccioli allo sciropposo succo duva si spesso sostituito lo zucchero, come testimoniano molti ricettari aristocratici dei secoli scorsi, ma la ricetta delle consorelle di Serra prevedeva ancora il mosto cotto ed il miele, con laggiunta di noci e di spezie dolci come cannella e chiodi di garofano.

Per quanto riguarda invece le olive le clarisse erano solite raccogliere la specie chiamata di San Francesco, perch appunto si raccoglie ai primi di ottobre in prossimit della festa del santo di Assisi: qualche settimana dopo le altre olive erano condotte al frantoio, ed infatti tra i doni che si facevano a fine novembre era contemplato lolio; secondo gerarchia quello di qualit migliore (specificato come buono) andava al padre confessore e al sacrestano, mentre quello pi ordinario veniva portato ai fattori.La pista del maiale: insaccati e pietanze

Da sempre nella cultura contadina (ma anche signorile dellaristocrazia fondiaria) la macellazione del maiale ha unimportanza molto radicata, anche a causa del ruolo significativo dei suini nelleconomia e nella cultura alimentare nel passato (quando la carne porcina insaccata e conservata costituiva la principale se non unica riserva carnea e proteica per gran parte della popolazione). La pista del maiale ha infatti sempre assunto anche valenze rituali, trasformando questa sanguinaria pratica contadina in un cerimoniale festoso, una di quelle episodiche e cruciali tappe annuali di abbondanza spensierata e sfrenata festosit. Si cucinava molto nei giorni del sacrificio cruento delle bestie, dando fondo a molte risorse della dispensa: i ricchi pasti serviti in quel periodo di intenso (e truculento) lavoro celebravano il consumo rituale e festoso della carne ottenuta di fresco, ma soprattutto sfamavano adeguatamente tutte le maestranze raccolte durante le fasi di macellazione e lavorazione dei prodotti insaccati e dei salumi. Il regolamento della dispensa delle clarisse di Serra de Conti prevede cos alcuni suggerimenti per quando si ammazzano i maiali (dicembre gennaio, I e II ammazzata). Ci sono prescrizioni su cosa cuocere, e su cosa donare delle bestie macellate ai vari lavoranti che prestavano questo servizio al monastero. Si provvedeva innanzitutto a ricompensare con lospitalit i contadini che portavano i maiali, con una pigna di cece e altri legumi cotti, minestra, pane e vino, ed ancora tagliolini con la carne, ed infine specialit di pasticceria del convento. Andavano poi rifocillati i lavoranti impegnati nella pista del maiale, e cos agli uomini che scarnificano, fattori, acquarola, a quelli che insaccano le salsicce, vestono le lonze, fanno salami e ciauscoli venivano offerti colazione, pranzo e cena, ed infine si regalavano loro gli ossi del muso. Il ciauscolo un insaccato caratteristico delle Marche, che deriva probabilmente la sua etimologia dal latino cibisculum (ovvero piccolo cibo); un salame dalla polpa macinata pi volte, con quindi una consistenza tenera e particolarmente pastosa, addirittura spalmabile. Man mano che si procedeva nella pista del maiale parte dei tagli di carne e dei prodotti suini ottenuti venivano donati ai vari notabili e personaggi di spicco legati al convento, secondo il consueto codice di rispetto della gerarchia di merito: le cresce con i grasselli (focacce preparate con pezzettini di scarto residuali nella preparazione dello strutto) venivano portate a sindaci, professori, sagrestano, fornara e fattori; a questi ultimi toccava anche un quantitativo indefinito di strutto, mentre al Padre confessore si donavano delle salsicce. In quei giorni certamente frenetici per il convento si cucinava parte della carne suina fresca ottenuta: il dispensario registra naturalmente la confezione del migliaccio, preparato con il sangue raccolto appena si sgozzavano le bestie, e poi ancora lesso, polpette fritte, ma anche una significativa cucina degli scarti, come il pan unto che raccoglieva tutto il grasso avanzato, fino alle varie preparazioni con tutte le frattaglie, dal guazzetto alla coratella fritta ed al fegato arrosto, alle lingue in insalata ed alle coste (anche regalate crude ai fattori). Il ricettario del monastero registra quanto a lungo ogni taglio o residuo della bestia debba essere conservato sotto sale: gli ossami otto giorni, le panzette, golette e orecchie dodici, i lardi grossi venti ed i pi piccoli diciotto; si annotano naturalmente anche i tempi di salatura per i vari insaccati (per i presciutti quaranta giorni, le spalle trenta, ed infine i Capocolli e Lonze ci deve stare dieci, o dodici giorni secondo che sar asciutti). Nelle carte di cucina vi sono poi le istruzioni per preparazioni tradizionali con la carne di maiale, anche insaccate, in cui evidentemente le stesso consorelle si cimentavano per alcune circostanze dellanno e soprattutto anche nel periodo consueto della pista del maiale: per fare le salsicce annotato che per ogni trenta libre di carne ci voleva due oncie di pepe forte, e tre oncie di sale per ogni dieci libre. Per i capocolli scritto che ogni dieci libre di carne ci vogliono sei oncie di sale, e poi di pepe che sia ben coperti, tanto i capocolli, che le lonze deve (sic) stare una diecina di giorni sotto il sale. Per le lonze poi ogni 10 libre di carne cinque oncie di sale, e di pepe ben coperto. Non mancava anche la ricetta Per fare i salami: In ogni libra di carne magra un oncia di ginepro, e in ogni 20 libre di carne 8 once di sale, pepe pesto un oncia in ogni libbra di grasso ci si mette un oncia di sale. Ed infine le note Per fare li cottechini: in ogni dieci libre quattro oncie di sale con unoncia di pepe, quattro ottave di cannella e due noci moscate, di cottica se ne mette il terzo. Non mancano neanche le ricette per le salsicce di fegato caratteristiche di queste parti. Riguardo invece al migliaccio si leggono, in una nota del regolamento di dispensa gli ingredienti di preparazione: talvolta confezionato come un salume (si pu anche insaccare nei budelli), era preparato mescolando al sangue di maiale uova, formaggio, pane grattugiato, pannella tritata, panzetta, collarino e cipolletta, e di condire il tutto, secondo la solennit rituale del dolce, anche con miele, cannella e garofani

Cucina di grasso

La carne di maiale non era per lunica ad essere consumata dalle clarisse. In ogni periodo codificato liturgicamente come di grasso, quando ossia si era nel periodo delle grandi festivit, venivano cucinati animali dallevamento di vario tipo. In molti dei giorni e delle ricorrenze in cui era concesso mangiar carne si cuocevano infatti gallinacci, capponi e pollame vario, e subito dopo questi pranzi festosi, per il pasto immediatamente successivo si riciclavano accortamente gli avanzi della polpa migliore, cucinando i guazzetto i colli e le frattaglie di questo pollame, confermando ancora il carattere umilmente rurale della mensa delle clarisse e dei loro accorgimenti culinario volti ad un rispettoso risparmio di ogni provvista commestibile. Si praticavano naturalmente tutti i tipi di cottura, nei giorni di festa grande le carni servivano lessate, arrostite e fritte; talvolta si legge il termine tegame, che identificava una pietanza cucinata in umido, oltre naturalmente alla pentola, compresa nel ricco repertorio di recipienti ceramici da fuoco del monastero, molti dei quali tuttora conservate nel Museo delle Arti Monastiche. Tra le carni le clarisse consumavano anche la vaccina, e naturalmente lagnello, che secondo tradizione era preparato a Pasqua, riciclando anche la testa e le interiora per prepararci le frittate. Altro animale simbolo cristiano della mansuetudine e della pace, e di conseguenza bestia sacrificale era il piccione, di cui ad esempio si conserva nel ricettario lappunto manoscritto per cucinarlo in gratella. Altre specialit di grasso riscontrato nel ricettario delle clarisse prevedevano di preparare una farcia con carne tritata, prosciutto e formaggio per riempire alcune verdure ed ortaggi: anche questo un sapiente accorgimento per rendere festose ed appetibili provviste ordinarie ed assolutamente ricorrenti come i vegetali. Tra le succulenti prelibatezze con i salumi ricorrono poi spesso, nelle liste di cibarie strutturate dal regolamento di dispensa i crostini al prosciutto, aromatizzati con la salvia ed anche spolverati da una sottile spolverata di zucchero, secondo criteri di abbinamento tra dolce e salato, retaggio caratteristico di quella cucina, dai sapori contrastanti se non stridenti, propria dei secoli scorsi.

Cucina di magro

Il calendario liturgico alternava pertanto periodi di serena spensieratezza, senza limitazioni alimentari, ed altri invece di raccoglimento spirituale e meditazione, dove si prescriveva se non il digiuno almeno lastinenza dal consumo di carne, cibo del piacere assoluto, che da sempre contraddistingueva con il suo antichissimo valore sacrificale, la mensa succulenta dei giorni canonici della festa. Il regime di magro imperava nei giorni di vigilia, quasi a voler anche bilanciare leccesso spensierato dei pasti festivi, e notoriamente durante la quaresima e lavvento. In questi giorni oltre alla consueta ed immancabile verdura, il pesce era notoriamente la pietanza principale: a Serra de Conti, come in tutte le localit interne, lontane dal mare e ad una certa altitudine, non era certamente facile procurarsi pescagione guizzante, per cui si ricorreva al pesce essiccato e salato, su tutti il baccal, di cui si leggono molte ricette negli appunti di cucina manoscritti del monastero. La prescrizione di magro era comunque sicuramente meno severa nei secoli recenti rispetto agli albori della cristianit: una volta anche le uova ed i latticini, in quanto frutti della carne, erano considerati di grasso, e pertanto banditi dalle tavole nei giorni di astinenza, e sostituiti da alcuni surrogati, come ad esempio le mandorle, la cui essenza oleosa era usata spesso in sostituzione di burro o addirittura formaggio. Nel tempo appunto certi rigori vennero via via stemperandosi: ad esempio nellarchivio del monastero di Serra de Conti, sono ad esempio conservati alcuni bandi dove il vescovo concede per lavvento persino limpiego di lardo e strutto. Tuttavia sia nella quaresima che nellavvento erano previsti giorni di digiuno, ossia al solo regime di pane ed acqua. Il periodo di magro prepasquale era tuttavia, per quanto rigenerante e purificatorio particolarmente lungo: la tradizione popolare aveva codificato luso di celebrare la mezza quaresima: il raggiungimento e superamento della prima met di questi quaranta giorni quaresimali era un po ovunque salutato con un certo generale e timidamente spensierato sollievo, con pubblici rituali liberatori, celebrati anche doverosamente elementari leccornie caratteristiche: rudimentali ma graditissimi dolcetti si confezionavano un po ovunque per celebrare infatti questa ricorrenza. In particolare la fantasia popolare si sbizzarriva a rendere particolari con fogge fantasiose e simboliche questi umili biscotti e focacce, semplici come pasta di pane appena un po dolcificata, e talvolta rese anche esteticamente pi curate, con sgargianti confettini multicolori, a figurare quasi come delle memorie sopite dal lontano carnevale, richiamate a forza per spezzare per un attimo il grigiore comandato della quaresima. Anche le suore del monastero di Santa Maria Maddalena avevano evidentemente adottato e interiorizzato questa usanza collettiva, e per questa circostanza il registro di dispensa raccomanda infatti la preparazione di cialde nellapposita pigna. Del resto la preparazione di questi dolci per periodi di astinenza citata anche nel ricettario marchigiano tardo settecentesco Il cuoco maceratese di Antonio Nebbia, dove si legge la ricetta Composizione per cialdoni di magro, preparati nei ferri pe cialdoni con mandorle, olio dolce, zucchero e anisi se piacciono. Il carattere quaresimale delle cialde era del resto universalmente presente in Europa, come attesta iconograficamente il dipinto di Bruegel Il Carnevale e la Quaresima, dove una vecchia friggitrice di cialde raffigurata tra gli episodi inquadrati simbolicamente nel regime di magro. Del resto i ferri per cialde ricorrevano in tutti gli inventari degli utensili da cucina, ed infatti vengono illustrati anche nelle immagini a stampa del ricettario dello Scappi. Le cialde avevano naturalmente questo carattere quaresimale anche nel monastero di Serra de Conti, dal momento che venivano preparate anche per il marted santo e per la vigilia di Pasqua, assieme ad un altro ricorrente dolce di magro, le frittelle di mele. Questultima preparazione figura come specialit di quadragesima fin dal manoscritto trecentesco Libro per cuoco, ricettario di area veneta che illustra appunto come impastellare e friggere spicchi o fettine di mela private del torsolo, per poi cospargerle ancora calde con zucchero e spezie. La versione quaresimale di queste frittelle nel monastero di Serra de Conti appuntata stringatamente nel regolamento di dispensa: la pastella semplicemente preparata nella solita pigna con acqua, farina e lievito, ed una volta fritti i pezzetti di mela vengono dolcificati, alcuni con zucchero, altri con miele.

La pasticceria

I dolci erano per generalmente, come tradizione, una preparazione di cucina caratteristica delle grandi feste. I monasteri nel secolo guadagnarono la fama di raffinate officine di pasticceria. Forse questa familiarit con le preparazioni dolci si andata affinando nel tempo parallelamente allapprofondimento delle conoscenze di erboristeria e spezieria: del resto anticamente lo zucchero rientrava esclusivamente tra le spezie conosciute ed impiegate in farmacia ed ipotizzabile che in questo ambito originariamente si siano sperimentate nuove confezioni dolci, per poi far derivare e nascere autonomamente la pratica della pasticceria monastica, rinomata anche allesterno delle mura conventuali. Nei secoli le suore di alcuni ordini diventeranno sapienti e celebrate maestre di questa arte squisita, con prestigiose commissioni di torte e confezioni dolci per le mense nobiliari pi esclusive. In particolare francescani e clarisse si distinguevano per dolci cerimoniali per le festivit sacre. Ed in effetti anche nel monastero di Santa Maria Maddalena la cucina si attivava in occasione di particolari ricorrenze annuali, per grandissime manovre collettive nel preparare tante specialit dolci, che pi che arricchire le imbandigioni festive del refettorio venivano regalate alle varie personalit con cui il monastero era in rapporto costante durante lanno. In particolare durante la vigilia del Natale iniziava questo grande lavoro di pasticceria: secondo tradizione i dolci e le torte natalizie tendevano ad impreziosire, nel cerimoniale della mensa di questa festa, la sacralit quotidiana del pane. Del resto si deve ricordare che per tanto tempo, ed in culture diverse, Natale era in effetti chiamato il giorno del pane, correlando cos simbolicamente la nascita di Ges con il dono divino del grano e del suo prodotto derivato principale, emblema stesso del sostentamento universale, codificato nelle pagine del Vangelo come veicolo di nutrimento al tempo stesso spirituale e corporeo. Similmente la tradizione contadina aveva codificato i suoi dolci tipici per il pranzo di Natale: le ricette pi umili non erano altro che elementari variazioni sul tema dolce delle preparazioni ordinarie di impasti per pani e focacce comuni, appena impreziositi da zucchero, frutta secca, eventualmente burro e distillati liquorosi. Il modello di pasticceria natalizia confezionata dalle suore di Serra de Conti rappresenta invece un repertorio di leccornie zuccherine pi raffinate, degne di unarte culinaria sapiente, contiguo ai modelli gastronomici aristocratici, e non certo rustici e popolari. Le dolci paste allovo si accumulavano cos nelle teglie da forno e nelle tavole della cucina in tutte le fantasiose e rinomate fogge e tipologie, dal Pan di Spagna ai savoiardi, dalle rotole dallovo ai pinoli e alle mandorle, dai savoiardi ai biscottini di varie sorte, a specialit come le galanterie o fraschette. Tra le specialit dolci caratteristiche della pasticceria monastica per le feste natalizie e pasquali vanno sempre ricordate in particolare certe torte in pasta di mandorle e frutta secca, modellate a forma di animali simbolici, in particolare lagnello ed il serpente. Queste leccornie delle suore erano appunto conosciute anche allesterno dei monasteri per i pochi privilegiati che avevano lonore di riceverlo in dono. Talvolta erano per le stesse suore a ricevere invece delle torte in omaggio, come ad esempio nel giorno di Santa Maria Maddalena titolare del monastero, quando i contadini erano soliti portare alle clarisse anche il latte. Un classico dolce fatto con il latte, portato secondo tradizione dai contadini ai padroni per alcune ricorrenze annuali, era il lattarolo, di cui esistono diverse ricette appuntate tra le carte di cucina del monastero. Ma tra le preparazioni di pasticceria pi importanti da confezionare con il latte cerano certamente le creme, servite in appositi piatti speciali per occasioni particolari. la cucina si presta qui non pi per preparazioni culinarie della mensa ordinaria, ma per sopraffine leccornie da preparare per le grandi feste ed i solenni rituali conviviali interni al monastero.Feste e convivialit

Un sereno ed armonioso spirito di commensalit

Loriginaria versione della Regola di Santa Chiara non contiene molte informazioni sulla scansione e lorganizzazione dei servizi interni del monastero legati alla preparazione dei pasti ed al loro servizio nel refettorio. Lo spirito per che emerge con nitidezza quel senso di fratellanza e solidariet tra le consorelle che gi fu un tratto distintivo inconfondibile del francescanesimo fin dalla sua nascita. Le clarisse condividono fino in fondo i compiti della gestione delle provviste, della preparazione dei pasti in cucina, e dellapparecchiare le tavole in refettorio, seguendo le disposizioni sulla misura del mangiare, e tra di loro si alternano nel ricoprire tutti gli offici che nel mansionario illustrano appunto tutti i servizi legati alle pratiche alimentari. Anche da questo si radica quello spirito di solidariet fraterna che si rispecchia fortemente nei rituali quotidiani della commensalit: ci si aiuta nel mangiare, nutrendo con cibi particolari e rigeneranti le consorelle anziane o ammalate. Alla luce del dono del cibo, dellassistenza e solidariet reciproca, nasce il carattere di una convivialit assoluta, ripartita in momenti precisi, sia di gioia che di riflessione, punteggiata da determinate regole di cui tutte le consorelle si assumono la responsabilit decisionale, ciascuna per un determinato periodo a rotazione. Il regolamento di dispensa prevedeva non a caso che al momento del cambio di turno nel ricoprire lincarico di dispensiera, si facesse una piccola festa. E cos la suora che lasciava il compito ad unaltra consorella celebrava questo rituale di avvicendamento, facendo preparare della pasta frolla da donare, e impartendo disposizioni perch venisse imbandita una ricreazione con salsicce, cotolette, ed alla sera si festeggiasse con maccaroni e frittate tutto condito con zuccaro e cannella. Si gi osservato del resto questo carattere speciale e simbolico del dolce nel cerimoniale della festa, ed anche come le clarisse eccellessero nellarte della pasticceria, secondo una cultura antichissima della tradizione monastica, che cos faceva scrivere gi nel dodicesimo secolo alla badessa Santa Ildegarda: Lanima si rallegra per un opera buona e allo stesso modo il corpo gode di un buon dolce.

La presenza simbolica di determinati cibi in feste e ricorrenze

Una condivisione serena ed armoniosa del cibo, con momenti misurati ed alternati di riflessiva continenza come anche di gioiosa abbondanza, rientrava pertanto nella quotidianit del monastero, e codificava pertanto rituali, tempi e modi di una convivialit legata alla vita delle clarisse, celebrandone feste e raccoglimenti, nuovi ingressi e dipartite nella comunit, concessioni di grasso e regimi di magro.

Dalle carte darchivio, di cucina e dispensa ma non solo, emerge infatti una scansione progressiva e ciclica della cucina delle feste liturgiche e delle altre ricorrenze stagionali. Vi viene cos anche narrato linsieme dei piccoli rituali conviviali della vita interna al monastero, dai grandi lavori annuali alle tappe cerimoniali della vita delle consorelle, onorate con spirito festoso, ed in altre circostanze naturalmente pi morigeratamente seriose (quando non luttuose). In alcune occasioni si legge anche il carattere simbolico della presenza di determinati cibi nella mensa, che raccontano cos storie ed immagini emblematiche di lontane tradizioni, riflesse anche in una specie di linguaggio cifrato degli alimenti e del loro impiego. Un esempio a riguardo pu essere rappresentato dal pasto preparato per una ricorrenza dellanno liturgico inesorabilmente plumbea e cimiteriale, ma ugualmente dominata dalle sue regole sulla mensa: per il due di novembre, festivit dei morti, il regolamento di dispensa suggeriva alle suore di far cucinare un piatto caratteristico delle mense contadine per questa giornata, la fava con le cotichelle fresche che andavano comprate (mancava infatti ancora un mese allappuntamento canonico con la macellazione dei maiali posseduti dal monastero, e pertanto la carne porcina disponibile in dispensa era solo insaccata e stagionata). Anche il regime alimentare delle suore di Serra de Conti contemplava pertanto per la tavola di questa giornata questo legume, da sempre tradizionalmente legato alla commemorazione dei defunti: oltre a cucinarle appunto in una zuppa di grasso, impreziosita da tagli di carne suina, le clarisse praticavano la tradizione, tuttora viva un po ovunque, di confezionare per questa ricorrenza dei dolcetti in pasta di mandorle chiamati Fave dei morti. Questi pasticcini ricorrono appunto con questo nome nelle tipicit del due di novembre in molte zone dItalia, e mantengono nel nome la memoria di questi legumi presenti nei culti funebri gi in epoca antica e nella cultura della civilt greco-romana. In relazione alla data della commemorazione dei defunti possono essere annotate anche le regole di dispensa e della convivialit legate anche ai momenti luttuosi del monastero, quando si spegnevano le vite delle religiose appartenenti questa comunit. In genere frequente trovare negli archivi di famiglie nobili carte di spesa relative allospitalit dovuta a parenti venuti da lontano a rendere omaggio ai defunti ed a prendere parte al cordoglio familiare. In genere questi fogli annotano anche cosa stato offerto per rifocillare questi ospiti, ed allo stesso modo anche il regolamento di dispensa del monastero di Serra de Conti contempla alcune prescrizioni per gestire gli aspetti pi pratici di questi eventi dolorosi. Per quando moiono le monache sono previsti trattamenti specifici per tutte le persone coinvolte in questi momenti. Ad esempio ai 9 coloni delle esequie si danno da mangiare tagliolini e pagnotta bianca e sei pagnotte bianche da portare a casa, alla fornara e a chi dispensa le candelette si offrono un piatto cupo e mezzo reale di tagliolini, due pagnotte di pane bianco e una vasetta di vino; a chi viene alla camera ardente per guardare la defunta si pagano le spese e due pagnotte di pane bianco ogni volta che si mangia, ed infine alla beccamorta si garantiva una piatella di tagliolini, due pagnotte bianche, una vasetta di vino, due scodelle di fave ed un pezzo di lardo, mentre a chi mura la sepoltura si regalavano due pagnotte bianche ed una vasetta di vino.

Un altro cibo fortemente connotato simbolicamente anche naturalmente la carne, come si gi avuto modo di dire. Da sempre il calendario della mensa parallelo a quello liturgico suddivideva lanno in termini di presenza ed assenza di questo alimento sacrificale. Nelle grandi feste cristiane la mensa era perci contraddistinta da grandi pietanze di carne, con abbondanza di assortimento sia nelle qualit sia nei modi di preparazione. Un esempio significativo a riguardo sempre la tavola imbandita per la ricorrenza del Natale, che secondo un saggio rituale millenario era doveroso consacrare con una solenne fine del periodo di magro preparatorio dellavvento. Tra le carte delle clarisse, oltre a leggere ad esempio la ricetta per il ripieno dei cappelletti (classica pasta farcita del pranzo natalizio marchigiano) si ritrova nel regolamento di dispensa la lista per il pranzo del 25 di dicembre. Dopo la minestra venivano serviti bolliti, arrosti, guazzetti ma anche specialit caratteristiche come il migliaccio, le polpette, le frattaglie fritte come arnioni, coratella, cervello.

Ma dovendo individuare un momento veramente canonico, sancito liturgicamente, per un consumo lauto (in certi contesti davvero tracimante di carne), la scelta cade inesorabilmente sul carnevale.

Gi nel nome si legge il carattere di liceit del grasso per questo periodo spensierato ed eccessivo dellanno, che nel popolo assumeva la connotazione di una vera gozzoviglia comandata per esorcizzare i rigori alimentari obbligatori del lungo magro quaresimale. Nel monastero di Santa Maria Maddalena si rispettava ugualmente questa consuetudine, con saggi accorgimenti per temperare gli eccessi: ad esempio il Gioved Grasso si cucinavano per pranzo minestra, lesso ed arrosto di agnello o pollo, mentre provvidenzialmente la mensa del refettorio risultava pi parca per la cena, con minestra ed insalata. Lapice si raggiungeva naturalmente al Marted Grasso, ultimo giorno del carnevale: si cucinava per i fattori un legittimo trionfo di carne, per celebrare degnamente la fine della concessione carnascialesca. Dopo la minestra dapertura si serviva un trittico di servizi di secondi piatti che ricordava la teoria di succulente pietanze carnee preparate con differenti tecniche di cottura, secondo la prassi consueta fin dai conviti medioevali: il pasto carnevalesco per eccellenza del monastero di Serra de Conti partiva cos dal lesso di castrato, giungeva poi allentrata centrale dellarrosto di pollo, per concludersi poi con il fritto di agnello. Anche in questa giornata, prudentemente pi parca e vegetale era la cena (quasi a far aleggiare lincombente clima del magro quaresimale), dove dopo i maccheroni si consumavano con insalata frittate, oppure uova. Ma riguardo alle uova, terminato il carnevale, e raggiunta anche la fine della conseguente quaresima, troviamo una simbologia per precisa che le riguarda, durante lattesa della domenica annuale contrassegnata dalla festivit pasquale.

Le uova decorate: un rituale conviviale della vigilia e della mattina di PasquaI preparativi pasquali iniziavano in parte gi con il Sabato delle Palme: ad alcuni eminenti amici del monastero, come il Padre Confessore si portava una leccornia ancora quaresimale gi incontrata: un piatto e mezzo reale di frittelle con borragine o meli. Stando alla classificazione tipologica dei piatti, secondo i criteri gerarchici propri dell ancient rgime, il piatto reale era un coperto individuale delle dimensioni massime, appunto degno di re, secondo per valore solo a quelli ben pi rari, sontuosi ed enormi, giustamente chiamati Imperiali. Questa capace stoviglia ricorre anche come unit di misura per il dono al fattore durante il raccolto del grano, quando come dono simbolicamente celebrativo si portava un piatto cupo e mezzo reale di tagliolini (come s gi visto apprezzata manifattura monastica) due pagnotte, pane e vasetta di vino.

Il Mercoled Santo si preparavano le classiche focacce marchigiane ricorrenti a Pasqua, secondo una tradizione arrivata fino ad oggi: le cresce preparate a met della settimana santa dalle clarisse di Serra de Conti erano dolci ed arricchite con mandorle, in attesa di fabbricare anche le altre tipiche al formaggio gi incontrare in precedenza. Molte altre erano per le specialit di pasticceria confezionate il Mercoled Santo nel monastero di Santa Maria Maddalena: oltre alle cialde ed alle spighette, si preparava l Agnelletto buono, un dolce a forma di agnello preparato secondo la carta di dispensa con aromi, pepe, olio, zucchero, mandorle, farina e lievito, ed anche i cappi, probabilmente delle frittelle di cordoncini di pasta annodata (preparati con farina, vino e zafferano e si danno a piacimento con zucchero e miele). Unaltra nota per la vigilia rivela poi una tradizione secolare legata alla festivit pasquale: si legge infatti come si intostano le uova per pingerle, bollendole cio con erbe e sostanze vegetali coloranti, per poi portarle cos ornate alla benedizione mattutina pasquale. Le uova sode hanno unantica tradizione nei rituali pasquali. Luovo in effetti magnifico simbolo di nascita e ciclicit, di risveglio alla vita, sintesi perfetta dello spirito della Pasqua come avvento di una nuova vita, e della celebrazione della Resurrezione di Cristo. Il dono delle uova in questa domenica molto speciale ha pertanto radici perse nel tempo. Nella tradizione contadina italiana si osservava luso di preparare le uova il gran giorno, impreziosendole dallestro di rudimentali decorazioni fatte in casa: venivano colorate, bollendole in lacqua con linfusione di sostanze tintorie naturali, come fiori, erbe, bacche, ortaggi, e di ornarle infine con nastri ed altri orpelli. Un espediente adottato era quello di rivestire i gusci con strati di cipolla, mettendo per dentro questi involucri alcuni fiorellini e foglioline, in modo che queste sagome restassero impresse nelleffetto finale di tintura. Molto curioso e geniale un espediente ornamentale per le uova sode pasquale adottato dalle clarisse di Serra de Conti: tra gli appunti manoscritti di cucina si leggono infatti in un foglio le istruzioni Per scrivere una lettera dentro un ovo, che non si potr leggere se non si leva la scorza. Questa la trascrizione della ricetta: Piglia un Ovo, poi distempra alume di rocco con un poco daceto; scriverai con questo liquore sopra la crosta dellovo qllo che ti piace, e fallo stare al sole gagliardo, che si seccaranno le lettere, poi metti lovo in acqua salsa per due giorni, alla fine levalo fuori, e lascia, che si asciughi allombra et asciutto fallo cuocere in acqua, tanto che venga duro, e le lettere saranno penetrate dentro del bianco dellovo, che si potranno leggere; lallume di rocca, con cui si tracciavano le iscrizioni ed i disegni segreti (da scoprire giocosamente a tavola man mano che si toglievano i gusci) era lallume di potassio, sostanza usata in tintoria, per la conciatura delle pelli, e per la chiarificazione delle acque. Una volta decorate con i vari trucchi, le uova venivano generalmente poi messe dentro panieri, e portate ad essere benedette nella messa della mattina di Pasqua, per essere infine mangiate nella colazione, altra usanza diffusa in tutta Italia. Lo spuntino mattutino pasquale interrompe infatti gioiosamente il digiuno e lastinenza dalla carne, che non durava solo dal Venerd di Passione, ma idealmente era iniziato con il Mercoled delle Ceneri, ben quaranta giorni prima. Ma le uova, cibo appunto simbolico della pasqua, ricorrevano anche nella preparazione delle frittate, preparate con le prime erbe primaverili spuntate ed anche con le teste dellagnello macellato per loccasione. Ed infatti nel pranzo di Pasqua delle clarisse si cucinavano lesso, minestra, coratella dagnello fritta, frittata con testa dagnello e uova sode.

Estetica conviviale di pasticceria: forme, decori e presentazione dei dolci

Lavvicinarsi della Pasqua, e come si gi visto in precedenza del Natale, comportava anche per le clarisse il grande lavoro nel confezionare grandi quantitativi di torte, biscotti, pasticcini ed altre leccornie dolci da regalare alle personalit, eminenti e non, amiche e solidali con il monastero. Spesso questi dolci avevano un carattere cerimoniale e simbolico non solo negli ingredienti di composizione, che spesso celebravano la stagionalit dei prodotti, ma anche come gi si visto alle forme che si davano a queste raffinate creazioni di pasticceria, che diventavano con minuziosi accorgimenti estetici anche piccoli garbati esempi di arte applicata. Si sono gi incontrate le torte pasquali o natalizie modellate nelle sembianze di agnello o serpente, animali che fin dai bestiari medioevali rivestono molteplici significati e rimandi allegorici. Altra foggia particolare hanno i mostaccioli fatti a forma di stella, altra sembianza che spesso ricorreva nei repertori ornamentali dei prodotti dolciari, inventariata fin dal tardo Cinquecento anche da Tommaso Garzoni nel capitolo dedicato ai fornai, ciambellai ed offelieri (pasticceri) nella sua opera La Piazza Universale, vera enciclopedia descrittiva di tutte le arti e professioni dellultimo Rinascimento. Questi mostaccioli, nota specialit delle clarisse, erano preparati per loccasione di una ricorrenza importantissima per il monastero di Serra de Conti, la festa di Santa Maria Maddalena al 22 di luglio. Come da consuetudine per le festivit pi solenni durante la vigilia del 21, nonostante il caldo, il tavolo da cucina si animava ed il forno si accendeva per lunghe e laboriose fatiche di pasticceria: oltre ai mostaccioli a stella si cuocevano il buccellato, il pan di spagna, le cotolette dallovo, biscottini da zucchero. Con questi dolci molto probabilmente le clarisse ricambiavano i regali ricevuti per loccasione dai contadini, in particolare torte e come gi si visto latte fresco, Si legge infatti nel regolamento di dispensa: si preparano ai coloni che portano le torte delle canestre con 4 biscotti grossi, due mane speziate, pagnottelle, merletti di Francia, fettucce a chi porta anche il latte. A quelli di Serra si da da bere a quelli da fuori si da da bere e da mangiare.

Labilit di conferire a queste creazioni di pasticceria un aspetto particolare era certamente supportata dalla presenza di molti stampi, come testimonia unapposita vetrina nel Museo delle Arti Monastiche. Tra questi si vede il supporto il legno per conferire alla pasta di mandorle laspetto curioso di altre qualit di frutta, come ad esempio fichi e castagne modellati appunto nel marzapane come testimoniano anche alcune apposite ricette della raccolta di appunti manoscritti di cucina delle clarisse.

Altri accorgimenti estetici per presentare trionfalmente i dolci nelle grandi occasioni riguardava la pasticceria fresca. Il vasto repertorio di ricette di crema, non solo assecondava una appetibile variet di aromi e sapori (cioccolata, vaniglia, rosolio, cannella, caff ecc.) ma consentiva anche di giocare su ingredienti che conferivano sfumature e tonalit di colori differenti, in modo da potersi sbizzarrire con suggestivi accostamenti cromatici in alcune determinate ricette; una particolare cura nello strutturare scenograficamente uno di questi dolci si legge ad esempio nella ricetta della zuppa inglese, dove si raccomanda di costruire la cupola dei savoiardi con particolare senso della simmetria, per poi intarsiarla con i colori di liquori, creme e meringhe.

Ricevimenti speciali nel monastero con appositi servizi dolci da credenza

Nellantica terminologia delle pratiche e delle arti conviviali le portate si distinguevano in servizi di cucina ed in servizi di credenza. I primi costituivano naturalmente i piatti caldi, indispensabili nei pranzi e nelle cene, mentre generalmente i secondi costituivano le pietanze fredde, pi sfiziose, che secondo consuetudine aprivano e chiudevano i pasti, coincidendo con gli attuali antipasto e dessert. Ed infatti spesso le portate di credenza comprendevano dolci, o comunque cibi da gustare anche in piedi, con il termine odierno di buffet. Tra i titoli del ricettario manoscritto delle clarisse di Serra de Conti esiste pertanto la dicitura dei servizi da credenza, intendendo per questo alcune preparazioni, ed in particolare appunto i dolci, da servire per alcuni piccoli ricevimenti, molto frequenti nel monastero in prossimit delle visite di parenti o personalit illustri. Un documento descrive ad esempio cosa fu apparecchiato per ricevere il vescovo di Senigallia nel 1829 che giunse al monastero per lordinazione di alcune suore. La nota spesa per il pranzo e per la cena riporta lacquisto di quattro paia e mezzo di capponi e pollastri, la met circa di pollanche, e poi anche diverse libre di vitella, pesce, parmigiano, erbaggi vari, burro, latte ed infine zucchero, per appunto piatti di credenza; poi per altri momenti della giornata caff, cioccolata, cannella, chiodi di garofano, mandorle, uova e zucchero per confezionare i dolci; furono comprate anche provviste a parte per regalo al E.mo vescovo, e gli furono cos donate dello zuccaro in pane, omaggio cerimoniale ricorrente (anche nelle Marche) e del caff (in proposito si notano ugualmente le spese per una pane di zucaro per donare alla maestra in un documento sulle cibarie acquistare per la vestizione di una benedettina al monastero di Santa Maria Maddalena di Casteldurante).

Naturalmente il rinfresco che si approntava per la vestizione delle monache era uno dei rituali conviviali per eccellenza del monastero. Un altro documento datato 1842 (ma copia di uno precedente, per cui databile anche al Settecento) riporta le spese che dovevano sostenere le giovani per il ricevimento successivo alla cerimonia della vestizione: questa carta oltre a riportare linventario del corredo necessario per le nuove suore (differenziato gerarchicamente per coriste e converse) specifica quali sono gli ingredienti che vanno comprati per confezionare i dolci per il ricevimento. Questa la lista di Quanto occorre per fare le Paste nella Vestizione e Professione per li bacili alli sopra notati (ossia lelenco dei vari recipienti di queste leccornie da donarsi ai vari notabili): oltre a quattro qualit di zucchero diverse, vi sono le immancabili mandorle (dolci ed amare), i pinoli, limoni, lamido, aromi come anici, chiodi di garofano, cannella detta Regina, e soprattutto il caff e la cioccolata, che si raccomanda buona. La cioccolata ha una lunga tradizione nella cultura conviviale monastica, come si vedr in seguito: ricorre spesso in molte ricette delle clarisse di Serra de Conti, e per quanto non figuri nessuna ricetta specifica per la preparazione della bevanda, il ricco corredo di cioccolatiere e tazze specifiche, tuttora conservate nel Museo delle Arti Monastiche, attesta un consumo frequente del tipico squaglio. Anche il caff, che a partire dal Settecento cominci ad avere notevole diffusione, era consumato evidentemente dalle clarisse, anche perch un appunto manoscritto del ricettario illustra appunto le migliori modalit di consumo del caff, descrivendone anche propriet ed effetti, e raccomandando in chiusura di servirsi per infondere di un vaso di porcellana, di majolica, o di argento. Ma tra i dolci infusi che si servivano in queste circostanze, oltre a cioccolata e caff non mancavano certamente liquori e distillati alcolici: nel museo si conservano ancora diverse bottigliette di maraschino proveniente da Zara, citt che ha da sempre una lunghissima conclamata tradizione nella produzione di questo profumato liquore alla ciliegia amara. Ma le clarisse di Serra de Conti eccellevano loro stesse nella produzione di distillati dolci liquorosi, come ad esempio il rosolio, nelle sue profumate varianti al cioccolato, al caff, alla cannella, alla vaniglia, ai chiodi di garofano. Anche questa un ennesima riprova di come la secolare curiosit monacale, che fin da Medioevo carp lintuizione di ricavare dal vino lo spirito, ossia la balsamica acqua della vita (in latino aqua vitae, da cui il termine universale acquavite), ha sempre saputo trasformarsi da dotta competenza, esclusivamente scientifica, in crogiolo distillante raffinate squisitezze della convivialit.

Ricettario

" Precisiamo che tutte le ricette, un po' modernizzate, sono state tutte sperimentate e quindi di volta in volta sono indicate con la necessaria precisione: l'elenco degli ingredienti (la maggior parte dei quali reperibili nei supermercati o nei negozi di alimentari), le quantit pesate e misurate, e i tempi di cottura.

In alcuni casi gli ingredienti e le loro dosi sono state rivalutate in considerazione del cambiamento del gusto, cos come i tempi di cottura sono stati adattati alle nuove tecniche di cucina."

Le ricette trascritte in questa parte, sono tutte tratte dalla busta numero 7 dellArchivio del monastero di Santa Maria Maddalena di Serra de Conti.

La busta cos strutturata. Vi sono due piccoli registri cartacei manoscritti rilegati: il primo il regolamento di dispensa, di 23 carte, che