La critica alla società dei consumi nelle Encicliche sociali* · LA CRITICA ALLA SOCIETÀ DEI...

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Biblioteca della libertà, XXXV, novembre 2000 - febbraio 2001, n. 157, pp. 3-32 L’espressione «consumismo» si è diffusa a partire dagli anni sessanta con una sfera semantica tanto variegata e composita nei significati, quanto sfumata e indefinita nei contorni. I Papi nelle loro Encicliche l’hanno mutuata dall’uso comune, arric- chendola di ulteriori connotazioni e a vol- te allontanandola alquanto dal centro di tale sfera. I luoghi di riferimento principali sono Octagesima Adveniens (1971) 9-10, Sollicitudo Rei Socialis (1987) 28, Centesi- mus Annus (1991) 36, anche se alcuni cenni rilevanti sono disseminati altrove in tali Encicliche e nella Populorum Progressio (1967) 1 . Per comprendere questi testi e rapportarli alle scienze sociali, e in partico- lare all’economia politica, dovremo fare alcuni passi indietro e occuparci di un aspetto della società industriale a cui solo di recente, e solo obliquamente, i Papi hanno dedicato alcune riflessioni: il consu- mo nella società industriale. 1. Lo sfondo storico Ricorderemo in primo luogo che nel corso della rivoluzione industriale si pervenne alla fase della produzione di massa e dei consumi di massa: si scoprì che un numero crescente di beni potevano essere prodotti La critica alla società dei consumi nelle Encicliche sociali* GIACOMO COSTA * Lo spunto per studiare l’argomento trattato nel presente lavoro mi venne dalla proposta di alcuni colleghi dell’Uni- versità Cattolica di Milano di scrivere una voce sul «consumismo» in un Dizionario della dottrina sociale della Chiesa cattolica che pareva (nella primavera del 2000) di imminente pubblicazione. Preparai un testo di una decina di cartelle, dal quale trassi le quattro richieste dai redattori del Dizionario, e ne feci un breve articolo che uscì in «Studi e note di eco- nomia» (n. 2 del 2000) con il titolo Il «consumismo» nella recente dottrina sociale della Chiesa. Ma mi rimase una certa insoddisfazione per le analisi che avevo proposto. Fui anche fortunato ad imbattermi per puro caso, nell’estate del 2000, nel libro di Piero Melograni La modernità e i suoi nemici (Milano, Mondadori, 1996), che da un lato mi aiutò ad orien- tarmi storicamente, dall’altro confortò alcune mie congetture interpretative. Fui poi aiutato dalle discussioni con diversi colleghi e amici. Ricordo in particolare i due colleghi economisti dell’Università Cattolica Luigi Campiglio e Carlo Be- retta, i miei colleghi della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa Fedele Ruggeri e Gian Gaetano Bartolomei, e inoltre Gigliola Dinucci, Roberta de Monticelli, Stefano Vannucci. Mercoledì 6 dicembre 2000 esposi le mie tesi in un seminario al Dipartimento di Scienze economiche della mia Università, alquanto più affollato e ribollente degli altri mercoledì. Ne seguì una lunga discussione, di cui tenni conto nella stesura del testo, che apparve a fine 2000 come fasci- colo n. 73 della serie di «Studi e ricerche» del Dipartimento. Il presente testo è una rielaborazione di tale fascicolo. 1 Si veda l’utile ed agile Dalla «Rerum Novarum» alla «Centesimus Annus»: le grandi Encicliche sociali, a cura di p. Raimondo Spiazzi o.p., Milano, Editrice Massimo, 1991. D’ora in avanti, ci riferiremo alle Encicliche mediante sigle composte con le iniziali delle parole che compongono i loro titoli. Ad esempio, «C.A. 29» starà per «Centesimus Annus, paragrafo 29».

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Biblioteca della libertà, XXXV, novembre 2000 - febbraio 2001, n. 157, pp. 3-32

L’espressione «consumismo» si è diffusa apartire dagli anni sessanta con una sfera semantica tanto variegata e composita neisignificati, quanto sfumata e indefinita nei contorni. I Papi nelle loro Enciclichel’hanno mutuata dall’uso comune, arric-chendola di ulteriori connotazioni e a vol-te allontanandola alquanto dal centro ditale sfera. I luoghi di riferimento principalisono Octagesima Adveniens (1971) 9-10,Sollicitudo Rei Socialis (1987) 28, Centesi-mus Annus (1991) 36, anche se alcuni cennirilevanti sono disseminati altrove in taliEncicliche e nella Populorum Progressio(1967)1. Per comprendere questi testi e

rapportarli alle scienze sociali, e in partico-lare all’economia politica, dovremo farealcuni passi indietro e occuparci di unaspetto della società industriale a cui solodi recente, e solo obliquamente, i Papihanno dedicato alcune riflessioni: il consu-mo nella società industriale.

1. Lo sfondo storico

Ricorderemo in primo luogo che nel corsodella rivoluzione industriale si pervennealla fase della produzione di massa e deiconsumi di massa: si scoprì che un numerocrescente di beni potevano essere prodotti

La critica alla società dei consuminelle Encicliche sociali*

GIACOMO COSTA

* Lo spunto per studiare l’argomento trattato nel presente lavoro mi venne dalla proposta di alcuni colleghi dell’Uni-versità Cattolica di Milano di scrivere una voce sul «consumismo» in un Dizionario della dottrina sociale della Chiesacattolica che pareva (nella primavera del 2000) di imminente pubblicazione. Preparai un testo di una decina di cartelle,dal quale trassi le quattro richieste dai redattori del Dizionario, e ne feci un breve articolo che uscì in «Studi e note di eco-nomia» (n. 2 del 2000) con il titolo Il «consumismo» nella recente dottrina sociale della Chiesa. Ma mi rimase una certainsoddisfazione per le analisi che avevo proposto. Fui anche fortunato ad imbattermi per puro caso, nell’estate del 2000,nel libro di Piero Melograni La modernità e i suoi nemici (Milano, Mondadori, 1996), che da un lato mi aiutò ad orien-tarmi storicamente, dall’altro confortò alcune mie congetture interpretative. Fui poi aiutato dalle discussioni con diversicolleghi e amici. Ricordo in particolare i due colleghi economisti dell’Università Cattolica Luigi Campiglio e Carlo Be-retta, i miei colleghi della Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Pisa Fedele Ruggeri e Gian Gaetano Bartolomei,e inoltre Gigliola Dinucci, Roberta de Monticelli, Stefano Vannucci. Mercoledì 6 dicembre 2000 esposi le mie tesi in unseminario al Dipartimento di Scienze economiche della mia Università, alquanto più affollato e ribollente degli altrimercoledì. Ne seguì una lunga discussione, di cui tenni conto nella stesura del testo, che apparve a fine 2000 come fasci-colo n. 73 della serie di «Studi e ricerche» del Dipartimento. Il presente testo è una rielaborazione di tale fascicolo.

1 Si veda l’utile ed agile Dalla «Rerum Novarum» alla «Centesimus Annus»: le grandi Encicliche sociali, a cura di p.Raimondo Spiazzi o.p., Milano, Editrice Massimo, 1991. D’ora in avanti, ci riferiremo alle Encicliche mediante siglecomposte con le iniziali delle parole che compongono i loro titoli. Ad esempio, «C.A. 29» starà per «Centesimus Annus,paragrafo 29».

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con metodi e secondo modelli che ne per-mettevano l’acquisto da parte di stratisempre più ampi della popolazione lavo-ratrice. L’alta produttività garantita dallasintesi di progresso tecnologico e organiz-zazione razionale del lavoro dava final-mente luogo a un flusso di beni di consu-mo almeno potenzialmente per tutti, e nonsolo per le classi privilegiate. Era un nuo-vo, inaudito tipo di «democratizzazione»del capitalismo. Questo importante feno-meno, che iniziò negli Stati Uniti negli an-ni venti (il «fordismo»), si diffuse nel se-condo dopoguerra alle economie di quasitutti i paesi industriali, tra i quali anche l’I-talia (il famoso «miracolo economico»).Del significato storico, sociale e morale diquesta svolta della rivoluzione industriale,che è ormai incorporata nella nozione co-mune di «società industriale», non vi è nel-le Encicliche sociali che precedono la C.A.alcun riconoscimento. È difficile trovarvipersino una presa d’atto del fenomeno insé: ad esempio, non ve ne è menzione nellaP.P., mentre nell’altra grande Enciclica so-ciale di Paolo VI, la O.A., parrebbe addi-rittura essere negato. Esso è menzionato disfuggita solamente in S.R.S. 28. O, se vo-gliamo, è solo nel suo aspetto di «consu-mismo» che la prosperità viene registratanelle Encicliche.

L’ordine e il contenuto dell’esposizioneche segue si può così indicare: nella sezio-ne 2 vengono esposte alcune delle catego-rie impiegate dagli economisti per affron-tare i temi dei consumi e della crescitaeconomica; nella sezione 3 viene espostauna breve panoramica delle posizioni an-ti-consumistiche; nella sezione 4 si consi-derano gli aspetti della problematica eticadella prosperità che potrebbero, in astrat-to, essere affrontati nelle Encicliche; nella

sezione 5 si citano e discutono due im-portanti passi dalla O.A. di Paolo VI; nel-la sezione 6 si presenta una sintesi inter-pretativa di tali passi; nella sezione 7 se neespone una critica; nelle sezioni 8 e 9 si di-scutono, a complemento di tale critica, glielettrodomestici, e l’automobile. Nellasezione 10 si esaminano gli argomenti an-ti-consumisti contenuti nella C.A., l’En-ciclica di Giovanni Paolo II che ha segna-to una svolta nell’atteggiamento dellaChiesa cattolica nei confronti dell’econo-mia di mercato; nella sezione 11 vieneidentificato il naturalismo da cui è affettala concezione dei bisogni di entrambi iPapi; nella sezione 12 si tenta di identifi-care i problemi teologici di fondo suscita-ti dalla conquista della prosperità perma-nente, la cui mancata rilevazione ha resocosì nebulose e oscillanti le affermazionidelle Encicliche sul consumismo.

2. Alcune nozioni economiche di base sul consumo

Vediamo ora alcuni aspetti istituzionali diuna economia industriale capitalistica, e lecorrelative definizioni di contabilità na-zionale, relative alle attività di consumo. Idue principali operatori di un’economiaindustriale capitalistica sono le imprese ele famiglie. Alle imprese è demandata l’at-tività produttiva. Le imprese non consu-mano, ma fanno uso di fattori produttivi omezzi di produzione. Viceversa le fami-glie non svolgono, al loro interno, attivitàproduttive, almeno nel senso tecnico dellacontabilità nazionale. Piuttosto, nel loroambito si soddisfano i bisogni e perseguo-no alcuni altri fini dei loro membri, attra-verso varie attività di cui alcune richiedo-no l’uso di beni acquistati nel mercato di

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beni prodotti. Questo è il consumo: quel-l’aspetto delle attività delle famiglie che si manifesta in acquisti di beni prodottie/o servizi. Il fine dell’attività produttivasvolta dalle imprese è la vendita di beni,che i «consumatori», tipicamente, le fami-glie, acquistano sul mercato. Naturalmen-te avviene moltissima «produzione», nelsenso intuitivo del termine, anche all’in-terno delle famiglie: basti pensare a chi lamattina si sveglia per primo (sbadiglia, sistira: ma queste attività non sono contabi-lizzate…) e fa il caffè e prepara la colazio-ne per sé e per gli altri che arrivano ancorainsonnoliti alla spicciolata in cucina. O aun genitore che aiuti il figlio a ripassareuna poesia, o gli insegni a nuotare, o adandare in bicicletta. Ma in quanto tali pre-stazioni non si traducono in transazionicontrattuali tra i soggetti partecipanti, es-se non vengono contabilizzate come pro-duzione. In quanto invece comportanol’acquisto di beni sul mercato (il caffè ma-cinato per fare il caffè, i libri di testo, le an-tologie, i costumi da bagno, l’abbonamen-to a una piscina, le biciclette, l’energia perfar bollire l’acqua…), esse sono conside-rate come consumi. E se la famiglia Bram-billa va in gita in montagna? Allora è an-che difficile cogliere delle specificheprestazioni di servizi degli uni a favore de-gli altri. Si produce, e produce collettiva-mente, congiuntamente… il massimo, lafelicità, o quel po’ di felicità che si può ot-tenere nella vita: la si può forse ottenere,ma non contabilizzare. Resta invece con-tabilizzata la serie di acquisti fatti per rea-

lizzare la gita: i biglietti ferroviari, le rice-vute fiscali all’albergo, eccetera. Questoè, ancora una volta, consumo.

Come sono collegate le decisioni diconsumo e di produzione? Al riguardo,vige nelle società industriali avanzate unprincipio organizzativo detto

Principio della sovranità del consuma-tore (d’ora in avanti, «p.s.c.»): il funzio-namento del sistema produttivo è guida-to, attraverso il mercato, dalle scelte deiconsumatori.

Il p.s.c. individua nel grado di realizza-zione dei bisogni dei consumatori, comeda essi percepiti e manifestati sul mercato,uno dei criteri per valutare il funziona-mento di un’economia. In particolare, ilconcetto di efficienza economica è basatosul p.s.c., in quanto in esso si assume chesiano i consumatori i giudici dei loro pa-nieri di consumo, e dunque, implicita-mente, che essi siano i migliori giudici delloro benessere2. Anche il sistema dellacontabilità nazionale è indirettamente ba-sato su tale principio, in quanto in esso irapporti di scambio tra i beni sono desun-ti dalle valutazioni relative di mercato deibeni stessi. Esiste s.c. quando si può assu-mere l’esistenza di preferenze individualiabbastanza stabili (il che non esclude chequeste siano il risultato ultimo di com-plessi fenomeni sociali, ma esclude chesiano completamente volatili e alla mercédi pubblicità, propaganda politica, ecce-tera) e quando tali preferenze giochinoun ruolo sistematico nella determinazio-

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2 Non intendo in questa sede fornire una giustificazione del p.s.c. a partire da qualche teoria etica, ma piuttosto illustrarne il significato e indicarne alcuni presupposti e alcune implicazioni. Molti economisti sono d’accordo che il suo fondamento stia nello spazio di libertà che esso garantisce prima ancora che nell’aumento di utilità. Forse si può andare oltre, e assegnargli un ruolo di principio costituzionale.

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ne del paniere di beni prodotti, come av-viene appunto tramite il meccanismo delmercato. Non vi è s.c. quando tale panieresia fissato da qualche centro di potere po-litico, sulla base di una preferenza auto-cratica alla quale sia istituzionalmente ga-rantita la prevalenza su quelle individuali,se in contrasto con esse. Gestione di un’e-conomia di guerra e pianificazione cen-tralizzata sono esempi.

Si noti che l’assenza di s.c. non compor-ta necessariamente assenza di capacità olibertà di scelta, ma l’assenza della funzio-ne di indirizzo produttivo di tale libertà:può sempre esistere un sistema di prez-zi ai quali, sulla base dei loro redditi, ilpaniere pianificato viene scelto dai con-sumatori. E, viceversa, la s.c. può essererealizzata con mezzi non di mercato: inchieste dirette, ad esempio con intervi-ste o questionari, sui bisogni individuali,e loro soddisfacimento per assegnazionediretta. Naturalmente molti economistiritengono che la superiorità di un’econo-mia di mercato stia precisamente nel di-spositivo in essa presente, il sistema deiprezzi e dei mercati, per economizzaresugli scambi informativi e sulle procedureamministrative necessari a realizzare lasovranità del consumatore. Ma in linea diprincipio tali scambi informativi potreb-bero realizzarsi anche attraverso altriespedienti istituzionali.

Il p.s.c. ha una portata sia a) descrittiva:indica in modo forse idealizzato unaspetto del funzionamento effettivo diun’economia di mercato; sia b) norma-tiva: fornisce un criterio di giudizio per

valutare delle economie e un principioper ogni costituzione economica di unasocietà che si richiami, come le società industriali avanzate dell’Occidente, aprincipi liberali e individualisti. Che rap-porto c’è tra i due aspetti a) e b)? Si puòritenere che un’economia vada valutatadalla sua capacità di soddisfare i bisognidei suoi membri, come da essi percepiti emanifestati, anche senza ritenere che unaspecifica economia sia organizzata in mo-do da soddisfare questo requisito. E perconverso, si può ritenere che una specifi-ca economia sia così organizzata, e al con-tempo pensare che sarebbe invece desi-derabile la prevalenza di uno specificopunto di vista etico-politico nell’influen-zare la composizione del prodotto socia-le. Non sempre gli scrittori anti-consu-misti manifestano consapevolezza delladiversità e indipendenza di queste dueposizioni3.

È interessante osservare che il p.s.c.sembra accolto, almeno nel suo aspettodescrittivo (a), e forse anche in quellonormativo (b), nella C.A., 34:

Sembra che, tanto a livello delle singole Nazioniquanto a quello dei rapporti internazionali, il li-bero mercato sia lo strumento più efficace percollocare le risorse e rispondere efficacemente aibisogni.

Ciò che è principalmente rilevante, ainostri scopi, di questo incisivo passo nonè il giudizio positivo (espresso peraltro informa problematica) sul «libero mercato»ma il ruolo direttivo assegnato ai bisogni(ai bisogni come espressi nel comporta-mento di mercato, come viene precisato

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3 Vedremo più avanti, nelle sezioni 5 e 6, che esse sono accolte entrambe nella O.A., la seconda grande Enciclica sociale di Paolo VI.

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successivamente nello stesso luogo)4. Unpresupposto di questa assegnazione èquel grado di relativa autonomia dellepreferenze dei consumatori dalla sferaproduttiva o politica, di cui si parlava.

Non è in contrasto con il p.s.c., in nes-suna delle sue due interpretazioni, porsi il problema di politica istituzionale dirafforzare i presupposti di fatto dell’eser-cizio, da parte dei consumatori, della loro«sovranità». Qui l’impostazione liberalesi incontra spontaneamente con il movi-mento dei diritti dei consumatori, il con-sumerism che ha fatto la sua apparizione apartire dagli anni sessanta negli Stati Uni-ti. L’incontro, abbastanza evidente sulpiano teorico, ha una lunga storia di rea-lizzazioni istituzionali, almeno negli StatiUniti. Si noti che in tale paese ben treagenzie federali sono state istituite nelcorso del XX secolo per assicurare la pro-tezione di importanti aspetti dei dirittidei consumatori. La Federal Trade Com-mission (contro le pratiche commercialiingannevoli) risale al 1914, la Food andDrug Administration (per accertare e ga-rantire la qualità di cibi, cosmetici, medi-cinali) al 1927, la National Highway Traf-fic Administration (che si occupa di ogniaspetto della sicurezza automobilistica) al1970; il famoso opuscolo di Ralph Nader,l’indubbio leader del movimento dei con-sumatori negli Stati Uniti, Unsafe at anyspeed [Malsicuro a qualunque velocità] èapparso nel 1965.

Accanto al p.s.c., meno esplicitamentecodificato ma indubbiamente vigente, vi è il

Principio del consumo pro capite cre-scente (d’ora in avanti, «p.c.c.»). In quan-to in un’economia industriale capitali-stica la produttività del lavoro ha unatendenza di fondo all’aumento, anche ilconsumo pro capite può aumentare allostesso tasso, di fatto aumenta e, soprattut-to, i cittadini delle società industriali sisono abituati ad aspettarsi che aumenti,pretendono che lo faccia5.

Non è necessario vedere nel p.c.c. l’isti-tuzionalizzazione di un vizio generaliz-zato di avidità permanente o una manife-stazione di bieco «materialismo»; anchese in genere le Encicliche adottano pro-prio questo punto di vista. Ma vi è un’ec-cezione. Nella C.A., 19a, si osserva:

In alcuni paesi… si assiste ad uno sforzo positivoper ricostruire, dopo le distruzioni della guerra,una società democratica e ispirata alla giustiziasociale, la quale priva il comunismo del potenzia-le rivoluzionario costituito da moltitudini sfrut-tate e oppresse. Tali tentativi in genere cercano dimantenere i meccanismi del libero mercato, assi-curando mediante la stabilità della moneta e la si-curezza dei rapporti sociali le condizioni di unacrescita economica stabile e sana, in cui gli uomi-ni col loro lavoro possano costruire un futuromigliore per sé e per i propri figli.

Il saper soddisfare questa specie di «di-ritto», o più propriamente, l’aspirazionedescritta in modo così simpatetico nella

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4 Nello stesso senso anche la seguente affermazione sul ruolo allocativo del profitto: «Quando un’azienda produceprofitto, ciò significa che i fattori produttivi sono stati adeguatamente impiegati ed i corrispettivi bisogni umani debita-mente soddisfatti» (C.A., 35b).

5 Che rapporto c’è tra il p.s.c. e il p.c.c.? A mio avviso, il secondo deve presupporre la validità del primo per poter essere giustificato, per essere cioè proponibile come ideale, come meta sociale. La questione meriterebbe però un approfondimento che non è possibile in questa sede.

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C.A., è diventato un importante criteriodi legittimazione di una classe dirigente e più in generale dell’intera costituzioneeconomica di una società industriale avan-zata6. Si noti che ogni anno in Italia du-rante la preparazione della «legge finan-ziaria» si discute di quanto aumenterà ilPil reale: 1,5 per cento, 2 per cento, 3 percento? Ma che la tendenza di fondo sia esoprattutto debba essere all’aumento, diquesto non dubita nessuno. Due espres-sioni di uso corrente al riguardo (che risal-gono anch’esse agli anni sessanta) sono:

La società dei consumi: una collettivitàuno dei cui fini è di produrre e distribuirepotenzialmente a tutti beni materiali e ser-vizi in grande abbondanza.

È presumibilmente una società in cui vi-gono entrambi i principi della s.c. e del c.c.Essa è esposta alla critica di non garantireuna corrispondente crescita di beni e servi-zi pubblici, altrettanto necessari al benes-sere individuale di quelli privati. Ma esisteuna sua variante «socialdemocratica» chesi fa carico anche di questo problema:

La società del benessere: una società rettada uno Stato del benessere, cioè uno Stato

che si fa carico di soddisfare tutti i biso-gni dei propri cittadini, «dalla culla allatomba».

Se lo Stato si occupa principalmente diorganizzare la produzione e distribuzio-ne di beni e servizi pubblici, la società delbenessere può essere vista come una so-cietà dei consumi, integrata da uno Statodel benessere. La «società dei consumi» èpresentata nella S.R.S., 28, nei seguenti,alquanto ostili, termini7:

Effettivamente oggi si comprende meglio che lapura accumulazione di beni e di servizi, anche afavore della maggioranza, non basta a realizzarela felicità umana… Tutti noi tocchiamo con ma-no i tristi effetti di questa cieca sottomissione alpuro consumo: prima di tutto, una forma di ma-terialismo crasso, e al tempo stesso una forma diradicale insoddisfazione perché – se non si è pre-muniti contro il dilagare dei messaggi pubblici-tari e l’offerta incessante e tentatrice dei prodot-ti – quanto più si possiede tanto più si desidera,mentre le aspirazioni più profonde restano in-soddisfatte e forse anche soffocate.

Notiamo in questo passo il riconosci-mento incidentale che la società indu-striale è entrata nella fase dei consumi dimassa, di più, si è trasformata in una so-cietà dei consumi. Ne sarebbe seguita una

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6 Questo mutamento nella «costituzione economica implicita» dei paesi europei e forse anche extra-europei vennecolto con chiarezza da Ignazio Silone. In Uscita di sicurezza (Firenze, Vallecchi, 1965, p. 188), egli osservava: «Fino apoco tempo fa, l’idea che il benessere, anzi la ricchezza e il superfluo, cessassero di essere il privilegio di pochi e potesse-ro essere garantiti, col minimo sforzo, ad un numero crescente di uomini mediante l’impiego di fonti prodigiose di ener-gia, come quella nucleare, era ancora una visione di fantascienza. Anche adesso, purtroppo, molti popoli sono lontani daquel traguardo e vivono in condizioni di miseria e di abbandono. Ma sappiamo che il benessere per tutti è entrato nellasfera del possibile e che appartiene già alla nostra prospettiva storica… In altre parole, la politica è ora succube ovunquedi un imperativo di benessere. Nessun partito vi si può sottrarre».

7 Il tema della «società dei consumi» è ripreso anche nella C.A., 19b, dove l’espressione è usata come sinonimo di «so-cietà del benessere». Il giudizio non cambia: «Essa tende a sconfiggere il marxismo sul terreno di un puro materialismo,mostrando come una società di libero mercato possa conseguire un soddisfacimento più pieno dei bisogni materialiumani di quello assicurato dal comunismo, ed escludendo egualmente i valori spirituali». Il contrasto con la C.A. (19a)lascia perplessi: e forse si risolve supponendo che sia una specifica ideologia della prosperità che viene condannata. Maquesto «materialismo» non è quello proposto né dal marxismo, né da altre ideologie. Resta inspiegabile l’accanimentocontro un avversario inesistente.

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«cieca sottomissione al consumo»: dob-biamo pensare questa situazione colletti-va come l’altra faccia della conquistataprosperità, o uno specifico modo di vive-re la prosperità, suggerito da qualche er-ronea ideologia che contingentemente si èaccompagnata ad essa? Parrebbe difficileritenere che si tratti di un errore ideologi-co: chi mai sosterrebbe o ha sostenuto che«la pura accumulazione di beni… basti arealizzare la felicità umana»? D’altra par-te, se avessimo fatto una scelta ideologica,sarebbe difficile descriverci come in unostato di inconsapevolezza. Che cosa citiene in tale stato? Forse l’autore intendesuggerire che vi siamo caduti senza accor-gercene, vittime dell’«offerta incessante etentatrice di beni». Vorremmo allora ca-pire in che cosa la «tentazione» consista ecome avervi ceduto una volta (posto chel’abbiamo fatto) abbia prodotto l’incan-tamento. Infatti si potrebbe ritenere che,di per sé, comprarsi una nuova saponetta,anche se profumata alla violetta e in unaconfezione di carta color rosa nella qualeappare l’illustrazione di un piccolo, deli-zioso bouquet di violette, non sia male.Le cattive abitudini che avremmo acqui-site comportano la prosecuzione di pec-cati, o, peggio, di vizi, già noti alla Teolo-gia morale, o di altri nuovi? La brama dipossesso e quella di accumulazione, adesempio, le uniche indicate esplicitamen-te, mal si adattano alla società dei consu-mi: il possesso si tesoreggia, non si consu-

ma. Il cittadino della società dei consuminon è né un avaro, né uno sperperatore.Forse l’autore intendeva sostenere che ènella coattività del consumo individuale e famigliare che si manifesta, se non unnuovo peccato, una nuova, specifica for-ma di mancanza di libertà interiore. Manon precisa il meccanismo socio-psicolo-gico di tale coattività. Se l’autore stesso ri-tiene di essere riuscito ad apprendere asfuggirvi, perché questo non dovrebberiuscire anche a noi? Il passo resta moltooscuro8.

Infine, notiamo che la realtà descritta –e condannata – in questo passo è esatta-mente la stessa descritta – e approvata –nel passo citato sopra da C.A. 19a. Nep-pure il notorio fatto della «svolta» realiz-zata con la C.A. può, a mio avviso, spie-gare una tale differenza di descrizione egiudizio9.

Lo Stato del benessere è preso in consi-derazione per la prima volta nella C.A.,48d. Esso sarebbe sorto «per risponderein modo più adeguato a molte necessità ebisogni, ponendo rimedio a forme di po-vertà e di privazione indegne della perso-na umana». Ma, prosegue l’Enciclica, loStato del benessere si è rapidamente tra-sformato in «Stato assistenziale», ossia inuno Stato che «intervenendo direttamen-te e deresponsabilizzando la società…provoca la perdita di energie umane el’aumento esagerato di apparati pubblici

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8 Ma forse si chiarisce ipotizzando che sia una parafrasi di O.A. 41, il secondo dei due passi che discuteremo nelle sezioni 5 e 6.

9 Forse una formulazione che costituisce una specie di «ponte» tra S.R.S. 28 e C.A. 19a è costituita dalla condannadella società dei consumi di C.A. 19b, citata e discussa nella nota 7 sopra. Se accettassimo questa ipotesi, allora in S.R.S28 verrebbe, dopo tutto, condannata un’ideologia, e il passo, con il suo avvincente linguaggio metaforico (i consumatoriin uno stato di «cieca soggezione» come gli antichi Israeliti in Egitto), sarebbe totalmente vuoto, dato che l’ideologiacondannata in C.A. 19b è una mera finzione retorica.

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dominati da logiche burocratiche più chedalla preoccupazione di servire gli utenti,con enorme crescita delle spese». Noncommenteremo queste affermazioni, peralcuni aspetti ovvie, per altri fin troppofacilmente controvertibili. Notiamo sol-tanto che esse non sembrano appuntarsisulla problematica sollevata da Galbraith,uno scrittore che nella sua critica della«società opulenta» statunitense rilevò chemancava in essa un meccanismo sociale diriconoscimento e di crescita dei beni eservizi pubblici10.

Vediamo ora brevemente i principi didiritto dei consumatori che sono stati ela-borati e sono o già vigenti o in corso di at-tuazione nei paesi industriali avanzati (inEuropa soprattutto per effetto di diretti-ve comunitarie che come sempre l’Italia siè dimostrata nei fatti alquanto riluttantead adottare):

I diritti del consumatore: a) a essereinformati ed educati: il presuppostoprincipale dell’esercizio della sovranitàdel consumatore!; b) a essere ascoltati erappresentati: viene qui riconosciuto unosquilibrio di potere tra il singolo consu-matore e le imprese produttrici, al qualesi rimedia con la costituzione di organi-smi appositi e la rappresentanza in varienti deputati a esercitare il controllo nel-l’interesse dei consumatori; c) a essere ri-sarciti.

Queste rivendicazioni configurano, e-videntemente, un programma di inter-venti tesi a rafforzare l’esercizio della s.c.

3. Il «consumismo» e la sua sfera semantica

E veniamo finalmente alla nozione cen-trale di questa esposizione, quella di

Consumismo. Insieme di atteggiamentiindividuali o famigliari, largamente dif-fusi nella società, caratterizzati dal per-seguimento di sempre nuovi e maggioriconsumi privati. Tale ricerca non sarebberadicata in effettivi bisogni umani e igno-rerebbe la possibilità di soddisfarli conbeni già in essere, e avviene in condizionidi scarso sviluppo dei consumi collettivio pubblici. Il costituirsi di tali atteggia-menti, ritenuti febbrilmente, vuotamenteacquisitivi, è spiegato dai teorici del «con-sumismo» principalmente come fruttodell’azione di persuasione svolta dallegrandi imprese, che condizionerebbero lescelte dei consumatori per mezzo dellapubblicità e della diffusione di modelli di consumo associati a valori quali il pre-stigio, il successo, eccetera, da parte deimezzi di comunicazione di massa.

Come si può constatare, la nozione di«consumismo» si presenta, per un aspet-to, fortemente composita; per un altro,appare come una sorta di punto d’incon-tro, di riduzione forse solo verbale ai lorotratti comuni di posizioni ideologiche an-che molto diverse tra loro. Infatti, si po-trebbe ritenere che il p.s.c. non sia di fattocompletamente operante, ma che sarebbedesiderabile che lo fosse. Questa è la posi-zione dell’anti-consumismo «moderato».Inversamente, si potrebbe contestare la

10 GIACOMO COSTA

10 J. K. Galbraith, Economia e benessere, Milano, Comunità, 1959. Nel suo saggio Giustizia sociale, vocazione cristiana e dottrina sociale della Chiesa cattolica del giugno 1998, a quanto mi risulta tuttora non pubblicato, il prof. Andrea Villani dell’Università Cattolica di Milano ritiene invece che si possa individuare un’influenza di Galbraith neipassi delle recenti Encicliche in cui si affronta il tema del «consumismo».

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sua proponibilità etica: ad esempio si po-trebbe pensare che su questioni delicatecome quelle di stabilire quali siano i biso-gni «sani», «naturali» o comunque legitti-mi debba prevalere un ben preciso indi-rizzo etico11. Questa sarebbe una formadi anti-consumismo estremo.

Un buon modo di distinguere tra le va-rie posizioni è di chiedersi quali puntino arafforzare le condizioni di esercizio dellas.c., quali siano invece basate sulla tesi del-l’illusorietà di tale principio, che nella suanatura sarebbe una mascheratura ideolo-gica del dominio capitalistico o di altreforme di ancor più sottile schiavitù nellequali saremmo caduti. Ad esempio, la po-sizione di Galbraith è facilmente riassor-bibile all’interno del gruppo «riformista»;mentre la posizione dell’economista-filo-sofo cattolico-comunista italiano ClaudioNapoleoni, che vede nell’alienazione ca-pitalistica del lavoro la radice della neces-saria alienazione del consumo, e ne dedu-ce la necessità sistemico-antropologica dellavoratore, in regime capitalistico, a resta-re bloccato in una moltiplicazione soloquantitativa di beni per la soddisfazionedegli stessi bisogni materiali, chiaramentenon lo è12. Invece dell’alienazione del la-voro in regime capitalistico, si possono in-

vocare per negare il p.s.c. varie forme dialienazione politica, dovute alla quasi to-tale impotenza dell’individuo in una mo-derna società industriale, quale che sia ilsuo regime politico e/o economico. Pen-satori come Albert Schweitzer13 e Han-nah Arendt14 hanno sviluppato in periodidiversi e modi diversi questa tesi. Ecconeuna formulazione semplificata data daErich Fromm15:

Finora nella storia del mondo un’esistenza divuoti piaceri era possibile solo per una minu-scola élite, i membri della quale mantenevanoun sostanziale equilibrio perché sapevano diavere il potere e che dovevano pensare e agire inmodo da non perderlo. Oggi, la vuota esistenzadel consumismo è propria dell’intera classe me-dia, la quale sotto il profilo politico ed economi-co non ha potere alcuno e ha ben scarse respon-sabilità personali.

C’è una caratteristica comune a questeposizioni: esse considerano l’asserita de-generazione del consumo come il sinto-mo di una più profonda dislocazione so-ciale. Se vi è «induzione del consumo»,essa viene dedotta da considerazioni diordine generale piuttosto che accertatacon un’analisi empirica o una discussionecondotta con i metodi di una disciplinasociale specifica sugli effetti della pubbli-cità e delle comunicazioni di massa16. In

LA CRITICA ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI NELLE ENCICLICHE SOCIALI 11

11 Come è noto, in Avere o essere? [1976] (Milano, Mondadori, 1977) lo scrittore tedesco-statunitense Erich Fromm,psico-analista e fautore di un «socialismo umanistico» per molti aspetti ammirevole, propose che la questione venissedemandata a una commissione di esperti di nomina governativa.

12 C. Napoleoni, La posizione del consumo nella teoria economica, in «Rivista trimestrale», 1962, n. 1. Appare qui ilrefrain della «moltiplicazione solo quantitativa», incontrata in S.R.S. 28 nella variante di «pura accumulazione di beni»;che abbiamo incontrato nella C.A. 19b, e che reincontreremo nella O.A. 41 come alternativa esclusiva in qualche sensoobbligata tra «soddisfacimento dei bisogni materiali» e «valori spirituali», tra «la quantità e la varietà dei beni prodotti econsumati» e «la qualità e la verità dei rapporti umani, il grado di partecipazione e di responsabilità».

13 In Agonia della civiltà [1923], Milano, Comunità, 1963.14 In Vita activa: la condizione umana [1958], Milano, Bompiani, 1964.15 Cfr. Avere o essere?, cit., p. 216.16 Claudio Napoleoni era forse consapevole della difficoltà che la sua «induzione capitalistica» era stata raggiunta

con una dubbia «deduzione trascendentale». E così si provò a dare una dimostrazione matematica della inesistenza di

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definitiva, secondo l’anti-consumismoestremo i due principi della s.c e del c.c.sono o illusori, o falsi come ideali: e la loro falsità è il riflesso di altre, e piùprofonde, patologie sociali, o ideologi-che, o religiose. In quanto istituiti e per-seguiti, però, questi ideali danno luogoad una nuova forma di edonismo e/o dimaterialismo, tanto più pericolosa inquanto radicalmente insensata. Da essa,non pare esservi scampo. Come abbiamovisto, S.R.S. 28 si spinge chiaramente inquesta direzione: chi verrà a risvegliarcidalla «cieca sottomissione al consumo»?Più recentemente, il filosofo tedesco-americano Hans Jonas, universalmentestimato per la sua saggezza oltre che pe-netrazione concettuale, si chiedeva ap-punto se vi sia scampo17:

Ma non si può puntare anche qualcosa sul fattoche gli uomini vogliono un futuro? Sul fatto chenon vedono il senso dell’esistenza unicamente nelconsumo?… Sin dal principio sono esistite dellereligioni; il più delle volte erano al servizio di bi-sogni, paure e desideri molto terreni. Ma c’è an-che sempre stata un’aspirazione al di là di ciò, percui non interessa soddisfare al massimo stomaco e istinti corporei. La dignità, il pudore, l’ambizio-ne di venire stimati – tutto ciò va pur al di là delsemplice voler godere… Quello che si manifestanell’arte, nella poesia, nella musica, persino nelsemplice ballo, va già oltre tutto ciò che si puòcomprendere nel semplice concetto dell’appaga-mento fisico.

E in precedenza Hannah Arendt, an-ch’essa, come Hans Jonas, allieva di Mar-tin Heidegger, e anch’essa, con Jonas e

Fromm, trapiantata negli Stati Uniti, avevascritto18:

L’ideale di una società di mero consumo non ènuovo; era chiaramente indicato nell’assunto in-contestato dell’economia politica classica che loscopo finale della vita activa è lo sviluppo dellaricchezza, l’abbondanza e la «felicità del maggiornumero». E che cos’altro è, infine, questo idealedella società moderna se non l’antico sogno delpovero e dell’indigente, che può avere un fascinofinché rimane un sogno, ma diventa il paradiso diun pazzo non appena è realizzato?

La speranza che ispirava Marx… si basava sul-l’illusione di una filosofia meccanicistica secondocui la forza-lavoro, come ogni altra energia, nondeve andare mai perduta, così che, se non è spesaed esaurita nel lavoro faticoso per vivere, potràdar vita ad altre, «superiori» attività. Questa spe-ranza di Marx aveva indubbiamente come model-lo l’Atene di Pericle che, nel futuro,… sarebbe di-ventata una realtà per tutti. Un centinaio d’annidopo Marx comprendiamo l’errore di questo ra-gionamento; il tempo libero dell’animal laboransnon è mai speso che nel consumo, e più tempo glirimane, più insaziabili e rapaci sono i suoi appeti-ti. Che questi appetiti divengano più raffinati –così che il consumo non è più limitato alle cosenecessarie, ma si estende soprattutto a quelle su-perflue – non muta il carattere di questa società,ma nasconde il grave pericolo che nessun oggettodel mondo sia protetto dal consumo e dall’annul-lamento attraverso il consumo.

Una domanda che S.R.S. 28 e i passi diFromm, Jonas e Arendt ci richiamano allamente è quella del rapporto tra consumi-smo e lusso. Per alcuni aspetti sono simili,entrambi denotano una vita che si attestaattorno all’uso del superfluo. Entrambihanno un forte aspetto di emulazione e

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equilibri in modelli walrasiani di scambio, produzione e accumulazione. Questo avrebbe dimostrato che la sovranità delconsumatore è logicamente impossibile in un’economia capitalistica. Ma presto la discussione dovette spostarsi al tipo diequilibrio da richiedere, e la straordinaria idea di dare la dimostrazione matematica di una tesi ideologica dovette essereabbandonata.

17 Da Sull’orlo dell’abisso: conversazioni sul rapporto tra uomo e natura, Torino, Einaudi, 2000, p. 14.18 Vita activa: la condizione umana, cit., p. 94.

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ostentazione. Ma il consumismo è, in mi-sura decrescente, sotto-proletario, ope-raio, impiegatizio, borghese; il lusso è ari-stocratico. Il lusso mira essenzialmente adaccompagnare e assecondare il dispiegarsidella vita dei sensi. Esso è alimentato dal-l’artigianato e dall’arte. Gli oggetti del lus-so hanno una permanenza, una solidità,una individualità che manca del tutto aibeni di consumo di massa. Invero uno de-gli aspetti della vita odierna che vengonoconsiderati manifestazioni di «consumi-smo» è l’indifferenza con cui scartiamobeni che potrebbero ancora servire. Ci sa-remmo abituati ad un mondo indifferen-ziato di oggetti totalmente fungibili chesostituiremmo gli uni agli altri senza nem-meno chiedercene il perché. Questa criti-ca, almeno implicitamente presente anchenella definizione di «consumismo» datasopra, è forse errata, nel senso che confon-de la causa con l’effetto. Ciascuno di noi ètuttora portato ad affezionarsi a quei suoibeni che possono, in un modo o nell’altro,essere «personalizzati» con l’uso. (Paredifficile, invece, affezionarsi a una lava-piatti, o a un videoregistratore.) Ma inquanto prodotti di massa, costa di più, intermini di lavoro, farli riparare che com-prarne di nuovi. È con dolore, non conproterva indifferenza, che ce ne separia-mo. Ma separarcene dobbiamo19. Se cispingessimo a tentarne un costoso recupe-ro, staremmo forse producendo… una

forma di lusso un po’ snob. O dell’arte.Non a caso una delle tendenze centralidell’arte contemporanea sta nel reimporreil primato dell’individualità dell’artistasulla produzione di massa utilizzando percreare un’opera parti di relitti di beni diconsumo di massa… I consumi di massa e il lusso sono perciò per alcuni aspetti inconciliabili. Un tentativo di conciliarlistoricamente venne fatto nel corso della rivoluzione industriale, e consistette nelcosiddetto kitsch: la produzione di sup-pellettili e arredi con metodi industriali,che ne mantenessero però le parvenze diprodotti artigianali. Ma la fase dei consumidi massa segna precisamente la rottura conil passato artigianale, la rinuncia a propor-re l’automobile come un cocchio. L’auto-mobile acquista una fisionomia sua pro-pria20.

4. Le Encicliche sociali e il consumismo

In generale, le pronunce dei Papi sul «con-sumismo» potrebbero:

1) indicare principi di organizzazionesociale relativi ai rapporti tra consumatorie imprese, o addirittura a rapporti triango-lari consumatori-imprese-poteri pubblici(analoghi all’«associazionismo operaio»promosso da Leone XIII); questa via por-terebbe a riconoscere la rilevanza socialedel movimento dei diritti dei consumatori

LA CRITICA ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI NELLE ENCICLICHE SOCIALI 13

19 Anche quando non erano di lusso, i vecchi beni erano fatti per durare, per essere trasmessi da una generazioneall’altra. Contenevano perciò memorie, valori, messaggi, proibizioni. Attribuivano un’identità, ma la loro morsa potevaessere soffocante. La continua separazione ci obbliga a una riprogettazione e ristrutturazione continua di noi stessi. Gesù di Nazareth era, come è noto, il maestro del taglio con il passato. Si vedano le osservazioni di Adolf Holl in Gesù incattiva compagnia [1971], Torino, Einaudi, 1991, che offrono interessanti spunti per una teologia del consumo.

20 Le tanto deprecate pinne delle automobili statunitensi degli anni quaranta del XX secolo (ora del resto divenuteoggetti di culto per gli amanti del neo-kitsch) potevano del resto essere viste come un segno di questa ottenuta indipen-denza. Nessun tipo di carriaggio aveva mai portato le pinne.

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e di quello, ad esso connesso, dell’associa-zionismo dei consumatori, e a dedicarsi adapprofondire la complessa problematicalegale, legislativa, economica, ingegneristi-ca, urbanistica, ecologica, educativa, infor-mativa, comunicativa che esso ha posto.Vedremo che finora le Encicliche non han-no percorso questa strada, anche se nellaC.A. vi sono alcune premesse perché vengaimboccata. In definitiva, le Encicliche nonhanno finora proposto alcuna forma di an-ti-consumismo riformista, o moderato;

2) proporre dei principi di vita virtuosa,per gli individui, le famiglie, le comunitàcristiane, all’interno della società indu-striale. Se anche fosse vero, come in alcunipassi alcune Encicliche affermano, che lesocietà industriali avanzate sono dominateda forme inaccettabili di «crasso materiali-smo», o, peggio ancora, da un’ideologiaidolatrica del progresso, ai cristiani reste-rebbe pur da vivere in esse, come agli an-tichi Israeliti toccò di vivere in Egitto, o a Babilonia. E come dovrebbero farlo?Quali strategie immunizzanti dovrebberoadottare, quali segnali di estraneità o dievitazione lanciare? Sorprendentemente,questa problematica non è mai stata af-frontata prima della C.A.;

3) dare un giudizio complessivo, dalpunto di vista di principi molto generali dietica sociale, sulla società industriale con-siderandola dal lato del consumo inveceche da quello produttivo. Come abbiamogià visto, questo è il problema che le recen-ti Encicliche avvertono come centrale neipassi che dedicano non, si badi, al consu-mo nelle società industriali avanzate, argo-mento su cui tacciono, ma al «fenomenodel consumismo». Il giudizio, di solito, èdi condanna, ma grava su entità astrattee/o collettive, come ideologie o stati col-

lettivi, e come da essi si ripercuota sulla vi-ta e sulla responsabilità dei singoli non vie-ne di solito precisato.

5. Il consumismo secondo Paolo VI

Esamineremo in primo luogo i due branicentrali sul «consumismo» della O.A.,uno dalla sezione 9 (intitolata Crescitasmisurata dei consumi superflui), l’altrodalla sezione 41 (Il vero progresso non è ri-cerca senza fine di sviluppo materiale macrescita della coscienza morale):

Basata sulla ricerca tecnologica e sulla trasforma-zione della natura, l’industrializzazione proseguesenza sosta il suo cammino, dando prova di unacreatività inesauribile… Utilizzando gli strumen-ti moderni della pubblicità, una competizionesenza limiti lancia instancabilmente nuovi pro-dotti e cerca di attirare il consumatore, mentre ivecchi impianti industriali, ancora in grado diprodurre, diventano inutili. Mentre vasti strati dipopolazione non riescono ancora a soddisfare iloro bisogni primari, ci si sforza di crearne di su-perflui. Ci si può allora chiedere, con ragione, se,nonostante tutte le sue conquiste, l’uomo non ri-volga contro se stesso i risultati della sua attività.Dopo aver affermato un necessario dominio sullanatura, non diventa ora schiavo degli oggetti cheproduce?

A partire dal XIX secolo le società occidentali eparecchie altre al loro contatto hanno riposto laloro speranza in un progresso continuamente rin-novato, indefinito… Diffuso dai mezzi modernid’informazione e dallo stimolo del sapere e diconsumi più estesi, il progresso diventa un’ideo-logia onnipresente… La qualità e la verità dei rapporti umani, il grado di partecipazione e di responsabilità sono non meno significativi ed importanti per il divenire della società, che laquantità e la varietà dei beni prodotti e consumati.

Notiamo la notevole complessità delprimo passo. Vi si possono rinvenire tredistinte affermazioni:

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a) la negazione del p.s.c. in entrambe lesue versioni, descrittiva e normativa. Iconsumatori non si accorgerebbero di es-sere stati abbagliati dalla pubblicità. Vi sa-rebbe perciò uno spreco di risorse. Percomprendere la portata di a), conviene ri-cordare come argomentavano negli anniventi e trenta alcuni economisti teoriciche propendevano per il socialismo. Se-condo costoro, la protezione del valoredegli impianti con cui venivano costruiti ivecchi beni era la principale preoccupa-zione delle imprese capitalistiche che,non essendo affatto in concorrenza ma incollusione, ritardavano la produzione deinuovi beni e perciò provocavano unospreco di risorse. Solo un regime sociali-sta, essi sostenevano, avrebbe potuto rea-lizzare i risultati di una concorrenza libe-ra (cioè, «sfrenata»), ossia consentire che irisultati del progresso tecnico si traduces-sero immediatamente in un aumento dibenessere per i consumatori. Questi teo-rici del socialismo, come i loro colleghi li-berali, accettavano il p.s.c., che invecePaolo VI rifiuta nettamente. Quindi, an-che se per un economista è sulle primesconcertante, il Papa può legittimamenteparlare di «spreco» dovuto alla concor-renza: lo «spreco» c’è con riferimentonon alle preferenze correnti dei consuma-tori, ma a quelle che precedevano l’intro-duzione dei nuovi beni. La negazione delp.s.c. ha però una conseguenza inaspetta-ta: compromette la spiegazione della ge-nesi del «superfluo». Se i nuovi beni sono«realmente» sostituti quasi perfetti deivecchi, e se i vecchi appartenevano al «ne-

cessario», ad esso dovrebbero appartene-re, «realmente», anche i nuovi!21 Più ingenerale, non è chiaro se la pubblicità ser-va ad attrarre i consumatori verso i pro-dotti di chi la diffonde, nel qual caso essapotrebbe avere un’influenza anche nelladeterminazione del paniere «necessario»,o se abbia lo scopo di vincere un’eventua-le tendenza «naturale» del cittadino-lavo-ratore ad arrestarsi al «necessario». L’esi-stenza di una simile tendenza appare cosìpoco plausibile, che viene da chiedersi sePaolo VI intendesse invece affermare ildovere di arrestarsi al necessario22. Ma al-lora la sua critica sociale anti-consumisti-ca cadrebbe;

b) la negazione che l’economia indu-striale dei paesi avanzati sia entrata nellafase dei consumi di massa, che cioè l’au-mento dei consumi riguardi almeno po-tenzialmente tutti. Si noti l’audacia in uncerto senso ammirevole di questa afferma-zione: nelle società industriali del 1971 visarebbero «vasti strati di popolazione chenon riescono ancora a soddisfare i loro bi-sogni primari», presumibilmente così ri-dotti da un qualche impoverimento avve-nuto nei decenni precedenti!

c) l’affermazione che il significato eticocomplessivo di una società caratterizzatada a) e b) è nullo, o negativo. Le circo-stanze a) e b), peraltro, sono logicamenteindipendenti. Bisognerebbe accertare,perciò, se «l’uomo stia diventando schia-vo degli oggetti che produce» in quantosia immerso in una crescita di mero su-perfluo o in quanto la crescita dei consu-mi non si diffonda. Solo se fosse vera la

LA CRITICA ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI NELLE ENCICLICHE SOCIALI 15

21 Ma forse, come vedremo, la tesi di Paolo VI è che il superfluo è un minus esse, si colloca cioè in una sfera di realtànecessariamente degradata…

22 Come del resto in alcuni luoghi Paolo VI fa. Si veda il passo da P.P. 18 citato più avanti, nella sezione 10.

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prima alternativa avremmo una vera con-danna del «consumismo». Naturalmentea) e b) potrebbero essere collegate da unateoria economica di qualche tipo, ad e-sempio una teoria che mostrasse la ne-cessità di un mantenimento o di un au-mento delle disuguaglianze durante lacrescita. O una teoria che mostrasse comela crescita in un paese comporti necessa-riamente l’impoverimento di altri23. Manon pare Paolo VI invocare alcuna teoriadel genere. Anche l’affermazione c) di-pende, per la sua portata, da come si scio-glie questo nodo interpretativo. In com-plesso, il problema esegetico principale(anche se certo non l’unico) posto da que-sto passo è la natura del rapporto chePaolo VI pone tra a) e b). Per approfondi-re questo punto, conviene prescinderedalla questione della verità storica e stati-stica di b). Per Paolo VI, è vera. Forse ilnesso da lui percepito tra a) e b) è il se-guente: il «superfluo» ha un’unica desti-nazione moralmente e invero ontologica-mente accettabile (in quanto stabilita daDio): di essere dato. Se non è dato, in con-dizioni in cui vi è qualcuno che potrebbericeverlo, non può che subire una degene-razione ontologica, trasformarsi, con lapubblicità, in innaturale artificio24. Senon vi è nessuno che può riceverlo… l’in-

tera situazione diventa un’impossibilitàmorale e ontologica anche se una mo-mentanea realtà storica ed economica. Lasocietà industriale dei consumi di massa èinserita nella voragine del nulla.

Così interpretato, Paolo VI si può con-siderare, più che un pensatore sociale, unpensatore metafisico e forse un profetaapocalittico25. C’è una vena, o almeno untimore apocalittico anche in Hans Jonas,che diventa forse oscuro desiderio inHannah Arendt. Ma mentre in Jonas è vi-vo il timore scientificamente giustificatoche nel rapportarsi alla natura per carpir-ne fonti di energia le società industrialiabbiano perso qualunque senso del limitenell’imporre alle generazioni future rischiterribili e incalcolabili, Paolo VI parla in-vece con soddisfazione del «necessariodominio sulla natura» stabilito dall’uo-mo. E mentre Arendt osserva con un di-sprezzo da walkiria il realizzarsi dell’«an-tico sogno del povero e dell’indigente,che può avere un fascino finché rimaneun sogno, ma diventa il paradiso di unpazzo non appena è realizzato», Paolo VInon riesce a capacitarsi e ad accettare cheil sogno si sia potuto realizzare. È l’even-tualità che non ci siano più «poveri» cheparrebbe riempirlo di sbigottimento e or-rore metafisico. Come non ricordare, a

16 GIACOMO COSTA

23 Simili teorie, quasi sempre proposte, peraltro, da non economisti, furono molto diffuse negli ambienti «progres-sisti» della Chiesa cattolica degli ultimi tre o quattro decenni del XX secolo. Ad esempio, nel saggio introduttivo allaraccolta di Encicliche sociali da lui curata – La dottrina sociale della Chiesa: origine e sviluppo (1891-1971), Brescia,Queriniana, 1977 – il teologo francese Marie Dominique Chenu (il grande Chenu, non uno sprovveduto, anche se zelante sacerdote cileno, o boliviano), commentando la Populorum Progressio scriveva (p. 41): «[Vi] resta l’illusione, generale a quel tempo, di una distribuzione omogenea dello sviluppo, mentre è lo sviluppo stesso dell’Occidente che genera il sottosviluppo del Terzo Mondo, mediante il saccheggio delle sue risorse. Oggi noi sappiamo in modo più preciso che lo sviluppo sarà l’opera degli stessi popoli, mediante un capovolgimento della strategia economica».

24 Ecco la «deduzione trascendentale» degli effetti perversi della pubblicità, tipica dell’anti-consumismo estremo.25 L’analisi del secondo dei due passi confermerà, come vedremo, questo aspetto profetico di Paolo VI. Ma mentre

gli antichi profeti spesso perdevano per via il loro seguito, la singolarità di Paolo VI sta nel fatto che di lui come profetanessuno neppure si accorse.

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questo riguardo, l’osservazione ironico-amara di Ignazio Silone26:

Certo è che l’ideologia dominante nei paesi cri-stiani escludeva una prospettiva di generale be-nessere. Era convinzione generale, anche dei poveri, che l’ineguaglianza economica degli individui e delle classi fosse un fatto naturale. Agliutopisti, che non mancarono mai, si usava rispon-dere che l’abolizione della miseria avrebbe altera-to l’ordine stabilito della creazione.

Nel secondo brano parrebbe venir re-spinto per ragioni morali il p.c.c., ma forsead essere respinta è invece solo una parti-colare ideologia che accompagna la sua at-tuazione. Inoltre, il soddisfacimento delp.c.c. parrebbe visto in ineludibile alterna-tiva ad altri, più apprezzabili valori, di cuiperaltro chiunque riconoscerebbe la desi-derabilità e la non fungibilità con beni diconsumo di massa, ma forse anche questoè dovuto ad una particolare ideologia. Oforse la società che si è costituita ispiran-dosi, almeno implicitamente, a tale ideolo-gia impedisce, in qualche modo, che i rap-porti umani siano ispirati alla verità e che ilgrado di partecipazione e di responsabilitàsia elevato. Forse è in atto una qualche ne-cessità sistemica che, come per Schweitzer,Arendt, Napoleoni, preclude ad una so-cietà che abbia perseguito e conseguitol’obiettivo della «quantità e la varietà deibeni prodotti e consumati» di poter anchesviluppare gli altri valori. Ma purtroppoPaolo VI, diversamente da Schweitzer,Arendt, Napoleoni, non indica né la natu-

ra né le cause della supposta dislocazione.(Si noti incidentalmente che in O.A. 41non si nega, come in O.A. 9, che i «consu-mi più estesi» si stiano diffondendo a tutti,e forse addirittura lo si presuppone.) Po-trebbe il chiarimento venire dalla naturadell’ideologia che è qui condannata? L’i-deologia è quella del «progresso continua-mente rinnovato, indefinito». Le societàoccidentali avrebbero riposto in esso quel-le speranze che andrebbero invece rivolte,presumibilmente, a Dio. I consumi cre-scenti sarebbero solo una realizzazioneparziale di un progetto complessivo in séprofondamente errato, peggio, che si pro-pone come una nuova religione27.

Queste sono affermazioni molto discu-tibili, ma anche di una portata tale che nonverranno discusse qui. Piuttosto, convienerilevare che Paolo VI non era il solo a pen-sarla così. Nello stesso decennio in cui ap-parve la O.A., Erich Fromm nella primapagina del suo famoso Avere o essere? cosìindividuava la «nuova religione»:

La Grande Promessa di Progresso Illimitato – va-le a dire la promessa del dominio sulla natura, diabbondanza materiale, della massima felicità peril massimo numero di persone e di illimitata li-bertà personale – ha sorretto le speranze e la fededelle generazioni che si sono succedute a partiredall’inizio dell’era industriale… Grazie al pro-gresso industriale, cioè al processo che ha portatoalla sostituzione dell’energia animale e umana conl’energia prima meccanica poi nucleare e alla so-stituzione della mente umana con il calcolatoreelettronico, abbiamo potuto credere di essere sul-

LA CRITICA ALLA SOCIETÀ DEI CONSUMI NELLE ENCICLICHE SOCIALI 17

26 Ma io l’avevo dimenticata, ed è stata solo la lettura di La modernità e i suoi nemici, di Piero Melograni (cit., p. 90),che me l’ha fatta ricordare. Dobbiamo al Melograni di essersi accorto del valore permanente delle riflessioni esposte daSilone nell’ultima parte di Uscita di sicurezza, dedicata a «ripensare il progresso». Per contro, uno scrittore cristiano chesi era rivolto ad indagare con spregiudicatezza il rapporto tra cristianesimo e modernità, Sergio Quinzio, riteneva an-ch’egli, seguendo forse Dostoievski, che vi fosse qualcosa di essenzialmente «anticristico» nella prospettiva di un mon-do senza guerre e senza fame. Si veda ad esempio il suo La croce e il nulla, Milano, Adelphi, 1984, p. 146.

27 Essa non «esclude», quindi, i «valori spirituali», ma li intende e ordina in un modo diverso dal cattolicesimo.

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la strada che porta a una produzione illimitata equindi a illimitati consumi; che la tecnica ci avesseresi onnipotenti e la scienza onniscienti; che fossi-mo insomma sul punto di diventare dei, superuo-mini capaci di creare un «mondo secondo», ser-vendoci del mondo naturale soltanto come di unaserie di elementi di costruzione per edificane unonuovo.

Con la possibile eccezione dell’ultimopunto, la superbia di una nuova creazione,parrebbe trattarsi proprio dell’ideologiaalla quale allude Paolo VI. La condannadel Pontefice sarebbe ai principi di fondodella civiltà industriale. Se i singoli vi ade-riscono, allora anch’essi sono condannati,e il loro consumo viene condannato comegodimento dei frutti avvelenati di tale per-versa società. Ma essi potrebbero anchenon aderire ideologicamente alla nuova re-ligione… e allora non si saprebbe mai sequesti agnostici, quando con gli aumentidi reddito reale garantiti dall’operare delp.c.c. comprano una nuova automobile,siano consumisti o meno. Né questa con-cezione implica che i consumi vadano asoddisfare bisogni fittizi, artificiali, «in-dotti». Magari i bisogni ci sono veramentee sono infiniti, ciò che è male è condividerela fede idolatrica nel progresso e trovarneattuazione e conferma nell’acquisto di unanuova automobile, più che l’acquisto dellanuova automobile in sé o il provar gusto aguidarla. Se non si condivide la diagnosiculturale di Paolo VI, si può continuare aconsumare senza essere ritenuti «consu-misti»?

6. Le due versionidell’anti-consumismo di Paolo VI

In conclusione, Paolo VI sferra nei duepassi citati due attacchi alla società deiconsumi. Il primo consiste in un uso nor-

mativo della coppia di concetti necessario-superfluo. Il superfluo sarebbe non soloridondante, ma moralmente nefasto a li-vello sia individuale sia sociale. Ci sarebbebisogno di un grosso sforzo industriale eorganizzativo per imporne la desiderabi-lità ai consumatori. Il consumo di super-fluo sarebbe necessariamene «indotto». Lagrande macchina produttiva dei paesi in-dustriali girerebbe a vuoto. Questo argo-mento si appoggia, anche se forse non di-pende totalmente, sulla tesi dell’illusorietàdel p.s.c. Paolo VI tenta di trasformare lacondanna morale del superfluo in una cri-tica interna alla società dei consumi. Ilmezzo per farlo, il concetto-ponte è, forse,quello di «naturalità» dei bisogni. La sod-disfazione dei bisogni naturali sarebbequella che definisce il «necessario». Gli al-tri bisogni sarebbero necessariamete istil-lati a forza nella debole psiche dei consu-matori dall’apparato industriale.

Il secondo attacco è più frontale. I con-sumi pro capite crescenti fanno parte diun progetto di civiltà industriale radical-mente errato. Sono un aspetto di una for-ma di vita essenzialmente idolatrica. Giu-sta o sbagliata che questa tesi sia, essa nondipende in nulla dall’accettazione o nega-zione della teoria normativa del necessa-rio e del p.s.c. Chi la sostiene potrebbeben concedere che sia in generale impossi-bile definire il «necessario», e concedereanche che nelle società industriali avanza-te viga il p.s.c.: i consumatori neo-paganisaprebbero ciò che vogliono e lo otterreb-bero effettivamente dal sistema produtti-vo; date le loro credenze, questo sarebbemale. I consumatori sarebbero dei moder-ni titani, non dei poveri esseri schiavizzatie succubi di una macchina produttiva im-pazzita.

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Le due tesi sono indipendenti l’una dall’al-tra, nel senso che l’affermazione della pri-ma non è né necessaria né sufficiente perl’affermazione della seconda, e, a benguardare, sono forse addirittura in contra-sto l’una con l’altra28. In quanto la secondatrascende la problematica specifica delconsumismo, essa non sarà ripresa se nonoccasionalmente nel seguito29. Dedichere-mo invece la prossima sezione alla discus-sione della prima.

7. La teologia del consumodi Paolo VI

e il progresso tecnologico

Necessario e superfluo. La distinzione-opposizione di «necessario e «superfluo»,così importante e concettualmente primi-tiva, irriducibile, nelle Encicliche sociali diPaolo VI, che fondamento ha? Come è bennoto a chiunque conosca ad esempio ilSermone della Montagna e più in generalei Vangeli, non pare essere di origine evan-gelica: né nell’insegnamento, né nell’esem-pio di Gesù di Nazareth parrebbe trovar

posto il riconoscimento del diritto all’au-to-conservazione e quindi la legittimitàdel «necessario», ma piuttosto l’imperati-vo del sacrificio. D’altra parte, se per Gesùdi Nazareth il necessario non è un diritto,non è neppure un dovere: in certi momentidi celebrazione festiva va consumato il su-perfluo! La posizione di San Tommaso èassai diversa. San Tommaso sì che si preoc-cupa dell’auto-conservazione, sia a livelloindividuale che sociale. Il «necessario» esi-ste e ha una sua portata normativa, ma èrelativo al proprio «stato» e comprendeanche il benessere oltre ai requisiti dellasussistenza. Dello stato di un principe, adesempio, fa parte anche quella ricchezza ilcui sfoggio serve a illustrarne la gloria;inoltre, anche nell’ambito del proprio stato, vi è una certa variabilità nella deter-minazione del necessario. (Quanto alla ri-partizione della società in «stati», e all’ap-partenenza di ciascun individuo ad uno diessi, tutto ciò è voluto da Dio per il bene ditutti)30. Se la società tutta può godere di unflusso crescente di beni, si potrebbe forsesostenere che il «necessario» si evolve con

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28 Si potrebbe addirittura congetturare che O.A. 9 e O.A. 41 siano state scritte da incaricati o consulenti diversi, e ricomposte da un redattore di modesta capacità sistematica. Ma questa tendenza ad affastellare argomentazioni diverse e poco affini tra loro è tipica della letteratura anti-consumista. La troviamo ad esempio in Avere o essere? e nelle altreopere di Erich Fromm, sia precedenti sia seguenti la O.A.

29 Vedremo peraltro che Giovanni Paolo II, che forse la condivideva in S.R.S. 28, ne fornisce non una confutazione,ma un rovesciamento nella C.A. Accentuando l’aspetto dinamico del «necessario dominio della natura», egli può infattiottenere un abbozzo di teologia (non specificamente cristiana) del progresso economico.

30 Questa concezione medievale venne adottata da Papa Leone XIII nella sua Rerum Novarum (1891), la prima e la capostipite delle Encicliche sociali. Leggiamone ad esempio l’inizio e la fine del paragrafo 14, deprimentemente intito-lato Le disparità sociali sono inevitabili: «È necessario mettere in evidenza in primo luogo questo principio: si deve accettare la propria condizione umana: togliere al mondo le disparità sociali, è cosa impossibile. Lo tentano, è vero, isocialisti, ma ogni tentativo contro la natura è vano; è essa infatti che ha posto la maggior varietà tra gli uomini: non tuttiinfatti posseggono lo stesso ingegno, la stessa solerzia; non la sanità, non le forze in pari grado; e da queste inevitabili differenze nasce di necessità la differenza nelle condizioni sociali. E ciò torna a vantaggio sia degli individui che della società; perché la vita sociale abbisogna di attitudini varie e di uffici diversi; e l’impulso principale che muove gli uominiad esercitare tali uffici è la disparità delle condizioni… Coloro che promettono… alla povera gente una vita senza doloree senza pene, tutta pace e diletto, illudono il popolo… La cosa migliore è guardar le cose umane quali sono, e nel mede-simo tempo cercare altrove… il rimedio ai mali».

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essa. Del resto, forse San Tommaso nonsarebbe stato contrario al «superfluo», cheper lui non è cattivo in quanto tale, se que-sto avesse potuto essere integrato nell’or-dine sociale: ciò che non significa affatto, sibadi, distribuito in parti uguali! Non sem-bra, del resto, che Paolo VI tenti neppuredi dedurre le sue conclusione dall’etica so-ciale tomista o si ispiri al lavoro di qualcu-no che l’abbia fatto.

Sembra difficile, comunque, applicare laconcezione tomistica ad una società indu-striale, perché in essa l’antica ripartizionedella collettività in «stati», con i loro speci-fici diritti, costumi, e obblighi sanciti dalloStato di soddisfare i loro bisogni di cibo,vestiario, abitazioni, mobilio, entro deter-minati limiti e secondo modalità e modellispecifici imposti dal dovere di rispettare lagerarchia sociale (leggi suntuarie), si è dis-solta: invero, grazie anche ai consumi dimassa nelle società industriali si è creatoun grado insospettato di uguaglianza so-ciale oltre che legale. Inoltre, la società in-dustriale, benché non l’unica capace dicrescita, si differenzia da ogni altra per di-sporre di un centro dinamico permanentecostituito dal progresso tecnologico escientifico. I nuovi beni che, inattesi e nondesiderati prima di essere concepiti, pro-dotti e lanciati sul mercato, diventano ra-

pidamente «necessari» ai consumatori eindispensabili socialmente, sono uno deimodi in cui tutta la società viene resa par-tecipe di tale elemento progressivo, sto-ricamente inaudito e unico. Come po-tremmo rinunciare, ora, alla stampa, allabicicletta, all’automobile, all’energia elet-trica, al telefono, alla radio, alla televisio-ne? Si noti che non occorre possedere unapparecchio televisivo per poter vedereuna partita: basta andare al bar, e di fattomolta gente va al bar o al circolo per guar-dare la partita con gli amici anche se a casadispone di un apparecchio televisivo…Non occorre possedere un apparecchio te-lefonico per fare una telefonata ad un ami-co, basta una carta telefonica, o una mone-ta da 200 lire31.

Il primato della produzione sul consu-mo nella creazione e soddisfazione deibisogni. La questione se nella società in-dustriale vengano prima la produzio-ne dei beni di consumo o i bisogni deiconsumatori (se i bisogni siano artificial-mente «indotti») è in parte puramenteverbale: vi era un enorme bisogno di lo-comozione anche prima delle ferrovie edella motorizzazione, e forse i treni e leautomobili si possono vedere come sosti-tutivi dei cocchi e delle diligenze. Vi era

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31 L’inevitabile storicità del concetto di «consumo necessario» era stata notata da Adam Smith e da scrittori ancheprecedenti, come Bernard de Mandeville. Il «progresso delle arti» aveva di solito nelle loro argomentazioni il ruolo datosopra al progresso tecnologico. Ad esempio il de Condillac scriveva: «La vita grossolana della nostra popolazione altempo del suo insediamento, sarebbe un eccesso di ricercatezze agli occhi di un selvaggio che, abituato a vivere di cacciae pesca, non comprende la necessità dei bisogni che essa si è creati. Poiché la terra, senza essere lavorata, fornisce il neces-sario per la sua sussistenza, gli sembrerà che quelli che la coltivano siano troppo ricercati riguardo ai mezzi di sussisten-za. Ecco dunque, a suo giudizio, un eccesso, che non sembrerà tale al giudizio della nostra popolazione, né al nostro. Maanche presso la nostra popolazione ogni introduzione di ogni nuova comodità potrà essere vista come un eccesso di ricercatezza da parte di tutti quelli che non ne sentiranno ancora il bisogno. È dunque condannata a cadere di eccesso ineccesso a mano a mano che progredirà nelle arti?». La citazione è dalle pp. 193-194 della raccolta La polemica sul lusso nel Settecento francese a cura di Carlo Borghero, Torino, Einaudi, 1974. Alle pp. 7-8 vi si possono trovare alcuneosservazioni altrettanto penetranti del Mandeville.

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bisogno di acqua nelle case anche primadelle reti idriche, la cui funzione è di evi-tare i ripetuti viaggi delle donne alle fon-ti… Il caso dell’aviazione è forse diverso:qui sicuramente il primum è stato non unbisogno legato alla sussistenza biologica,ma una profonda, plurimillenaria aspira-zione dell’uomo. La storia dei primi avia-tori è a questo riguardo altrettanto illu-minante del mito greco di Dedalo e Icaro.Solo quando questa aspirazione fu soddi-sfatta, ci si accorse che si potevano usaregli aerei come mezzi di trasporto in alter-nativa ai treni o alle navi. Anche il biso-gno di comunicare a distanza precedel’invenzione del telegrafo, del telefono,della radio, della televisione. Vedi le cre-denze sulla percezione extrasensoriale.Nessuno aveva bisogno di computer pri-ma che venissero inventati, ma l’esigenzadi conservare, classificare, elaborare in-siemi di dati esisteva anche prima, era l’e-sigenza di ordinare, strutturare gli oggettidella memoria e dunque di estendere lamemoria stessa, ed era soddisfatta contecniche in sé meravigliose ma che ora cisembrano sorprendentemente rudimen-tali. Come a chiunque usi la posta elettro-nica sembra ormai medievale il fax…

Per un altro verso, pare difficile sostene-re che se una famiglia non aveva la radio,poniamo negli anni trenta o quaranta, unsuo acquisto di un apparecchio radiofoni-co fosse il risultato di un abbaglio: potevaascoltare cantanti e suonatori girovaghiche passavano ogni giorno da un quartiereall’altro delle città come ora si esibiscononelle vetture delle metropolitane; o che ab-bagliata fosse la stessa gente se, dopo averascoltato con grande soddisfazione e di-vertimento la radio per una ventina d’anni,avesse poi deciso, verso il 1960, di acqui-

stare un apparecchio televisivo: infattiavrebbe potuto, ad esempio, seguire lepartite di calcio nelle emozionanti radio-cronache dell’epoca invece che guardarleallo schermo, commentandole da sé, e fa-cendo attenzione solo di tanto in tanto allebarocche conversazioni tra Pizzul e Ca-pello, o Malesani…

Queste brevi considerazioni dovrebberoanche mostrare che l’opinione che i beniprodotti servano a soddisfare solo esigen-ze di godimento fisico «basse», così benespressa da Hans Jonas, e quella che l’ac-cesso al progresso quantitativo e qualitati-vo nella loro produzione sia in alternativaallo sviluppo di altre propensioni e valorisociali, professata da Claudio Napoleoni e da Paolo VI, non reggono ad un’analisianche elementare dei beni e degli usi chene facciamo. Forse è perché ci viene co-sì… naturale assuefarci ai beni della so-cietà industriale, ed essi entrano con tantafacilità nella nostra vita quotidiana, chetroviamo poi difficile riflettervi con il di-stacco che possiamo ottenere solo da po’di conoscenza storica e immaginazionesociologica.

8. Ancora sul consumonella società industriale: beni,

divisione del lavoro e risparmio di tempo

Se a volte il nostro disprezzo per i «benimateriali» nasce da una certa mancanza di capacità introspettiva, altre volte è la lo-ro funzione sistemica che non ci riescechiara, il ruolo che assumono in certe im-portanti tendenze di fondo delle nostresocietà industriali. Consideriamo ad e-sempio i quattro seguenti tipi, fortemente

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complementari, di beni di consumo: glielettrodomestici, i detersivi, le forniture di«acqua, luce, gas», i cibi surgelati o oggettodi altri procedimenti di conservazione. Èevidente che il ruolo dei primi due è di ri-durre in modo incredibile, impensato, l’o-nerosità del lavoro domestico, il ruolo delterzo di fornire l’energia per il funziona-mento dei primi due. Inoltre, mediante larefrigerazione la varietà degli alimenti vie-ne sottratta al ciclo naturale dei raccolti, inmodo da rendere possibile una maggiordisponibilità durante tutto l’anno. Impor-tantissimo è anche il ruolo dei prodottidell’industria alimentare e di conservazio-ne, che sottrae gli alimenti alla rapidità del-la decadenza naturale: vengono così resipossibili un allungamento del periodo diconsumo e una minor dipendenza dellacasa dal commercio minuto, liberando inquesto modo altro tempo. In complesso,l’uso di questi beni rappresenta un esem-pio lampante di quella tendenza alla razio-nalizzazione che, come hanno spiegato isociologi, da un certo punto della rivolu-zione industriale si è imposta e procedeper così dire da sé: nel nostro caso, uncomplesso processo di divisione del lavoroha portato a un risultato sorprendente einaspettato, la trasformazione del lavoro

domestico in produzione di beni e serviziindustriali che si presentano come beni diconsumo durevoli che riattraversano lafrontiera tra imprese e famiglie per ritor-nare presso le seconde. Ne resta trasfor-mata la natura della famiglia e della casa.La famiglia è ora un centro di affetti chegestisce principalmente le attività formati-ve dei figli e le attività da svolgere nel tem-po libero32. Naturalmente, prima della so-cietà dei consumi di massa, le donne dellanobiltà e dell’alta borghesia disponevanodi servitù in grande abbondanza: invero,dirigere la servitù era uno dei loro princi-pali compiti e, come sappiamo da svariatiromanzi, a volte una delle loro principalisoddisfazioni nella vita. Ma ora, l’esoneroda gran parte del lavoro domestico è pertutti.

In un recente, interessante libro-intervi-sta, il biologo Edoardo Boncinelli ha indi-cato nell’automobile la scoperta tecnologi-ca più caratteristica del XX secolo, quellache è stata più determinante nel costituirnelo specifico ambiente sociale33. Ma cos’è,nel caso di un veicolo a motore, il «consu-mo», non sarà quasi inevitabilmente «con-sumismo»? Tenterò di dare una risposta di tipo meno accademico del solito nellasezione che segue.

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32 Nel mio Il «consumismo» nella recente dottrina sociale della Chiesa, cit., sviluppo brevemente questo tema, di grande importanza per la dottrina sociale cattolica, ma che nelle Encicliche, a causa del loro anti-consumismo, non ècolto.

33 Traiamo da E. Boncinelli e U. Galimberti, E ora? La dimensione umana e le sfide della scienza, a cura di G. M. Pace, Torino, Einaudi, 2000, il seguente divertente frammento di dialogo:G. M. Pace – Quali sono secondo voi le maggiori scoperte scientifiche del ’900?E. Boncinelli – Se parliamo di progresso della conoscenza, l’alloro va, in fisica, alla meccanica quantistica e alla relatività;e, in biologia, alla struttura del Dna. Dal punto di vista pratico, invece, sceglierei l’automobile. L’automobile ha cambia-to la nostra vita più di qualsiasi altra invenzione: il telefono, la televisione, la radio vengono dopo. L’impatto di queste ealtre invenzioni mostra tutta la potenza della tecnica… se guardiamo al concreto, la palma spetta all’automobile.G. M. Pace – E gli antibiotici?E. Boncinelli – Mentre gli antibiotici ci sottraggono a un danno che forse si potrebbe evitare in altre maniere, l’automo-bile ha modificato la qualità della vita.

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9. Fenomenologia dell’automobile

Anche se forse non è impossibile, difficil-mente l’automobilista normale deriva dal-l’uso, o magari dalle operazioni di puliziadella propria auto il tipo di piacere sessualeche molta pubblicità tende insistentemen-te e forse vanamente a indurlo ad associaread esso. Questo però non significa che ilrapporto tra automobilista e il suo veicolonon sia una ricca fonte di soddisfazione dibisogni e quindi di piaceri anche moltosottili.

L’auto può dare piacere al guidatore…in quanto guidare è un’attività che richie-de l’impiego di una serie di facoltà e capa-cità il cui dispiegamento coordinato è insé un’esperienza impegnativa e soddisfa-cente. Ossia, si può guidare per goderedella constatazione del fatto… di saperguidare. Distinto da questo è il piacereesaltante di… andare forte, l’ebbrezza equasi l’incredulità della velocità… senzasforzo, ed anzi stando fermi ed anzi do-minando da fermi il veicolo che produceil moto34.

In una direzione quasi opposta si situa ilpiacere della scoperta della… inconsape-volezza della guida. Una volta assimilate lecomplesse routines delle manovre richiestedalla guida, e l’osservanza delle regole deltraffico, la guida viene delegata automati-camente a una parte inconscia, ma estre-mamente disciplinata e affidabile, di noistessi, il nostro «pilota automatico» come

forse per estensione lo si potrebbe chiama-re. Quasi sempre l’esperienza, necessaria-mente transitoria, della sua presenza è fon-te di stupore, sollievo e divertimento…come se stessimo scoprendo le tracce fre-sche lasciate dal nostro angelo custode35.

Vi sono poi i piaceri di attività che sisvolgono viaggiando in auto non diretta-mente connesse con l’attività di guidare:ad esempio vi è il piacere della guida in so-litudine di chi si immerge nel paesaggioche sta attraversando; la gioia di condivi-dere la vista del paesaggio con una compa-gna di viaggio; lo stupore di vedere pini«in duplice filar» inclinarsi, ruotare sem-pre più rapidamente e aprirsi davanti anoi; la profondità delle conversazioni spe-culative e/o esistenziali nelle quali i due li-miti geometrico-prospettici costituiti daibordi dell’autostrada assicurano una con-tinuità di concentrazione e impedisconoogni divagazione al flusso dei pensieri eallo scambio di idee. I bordi non segna-no solo dei limiti laterali. Essi sono lieve-mente convergenti e là, davanti a noi, sicongiungono in un punto infinitamentelontano che forse non è dove vogliamoandare ma che comunque ci chiama… Maanche la tentazione di lasciarsi attrarre dal«punto all’infinito» va superata, e il diffi-cile aggiustamento prospettico che con-siste nel prendere atto, e tenere entro ilnostro campo visuale se non del tutto afuoco, il punto all’infinito, senza trascura-re però l’immediato mezzo chilometro di

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34 Vedi M. Kundera, La lentezza, Milano, Adelphi, 1995.35 Il tema del rapporto con un proprio doppio era stato elaborato, senza alcun riferimento all’automobile (ma piut-

tosto alla cabina di una nave), nell’enigmatico racconto di Joseph Conrad The secret sharer [L’ospite segreto]. Come sachiunque indulga, almeno di tanto in tanto, alla tentazione consumistica di guardare qualche telefilm statunitense, negliultimi vent’anni «gli angeli hanno invaso l’America». Una riflessione su questo fenomeno si trova in Harold Bloom, Visioni profetiche, Milano, Il Saggiatore, 1999.

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autostrada davanti a noi… è una delle pri-me tappe nel percorso iniziatico dell’au-tomobilista.

È chiaro da questo resoconto, credo, cheraramente nella realtà gli aspetti istintivi, o anche istintuali, di un’esperienza sonoseparati da una sorprendente varietà diaspetti spirituali. Inoltre, queste esperien-ze hanno tutte un aspetto attivo, sono co-stituite da una serie di inviti ai quali siamochiamati a rispondere con fantasia e crea-tività. Sarebbe probabilmente sbagliatopensare che perché solo nella letteratura, onel cinema, vengono colti con perspicuitàalcuni di questi aspetti della nostra espe-rienza, essi non siano presenti nella vitaquotidiana di tutti gli automobilisti… os-sia di tutti noi. I beni di consumo sonoparte della nostra vita quotidiana. La lacu-na più profonda delle Encicliche sociali neiloro attacchi al «consumismo» consisteprobabilmente nel prescindere totalmenteda una analisi delle prospettive di sensoche di fatto, come cittadini della società in-dustriale, ci diamo.

10. Il consumismonella Centesimus Annus

È noto a tutti che la Centesimus Annus se-gna una svolta nella posizione della Chiesacattolica: cade l’avversione all’economia di

mercato36. Cade, più in generale, la denun-cia dell’ideologia del progresso, così vee-mente nella O.A. di Paolo VI ma ripetutaanche, come vedemmo, in S.R.S. 28. Nonsolo: quell’aspetto della «religione del pro-gresso» che sembrava particolarmentescandaloso ad Erich Fromm (anche se nonaltrettanto chiaramente a Paolo VI), il vo-ler rimodellare la terra, riceve una sor-prendente ratifica da Giovanni Paolo II,che propone di interpretarlo come «colla-borazione con Dio nell’opera della crea-zione»37. Cade anche l’«anti-consumi-smo»? Il luogo rilevante è C.A. 36:

La domanda di un’esistenza qualitativamente piùsoddisfacente è in sé cosa legittima; ma non sipossono non sottolineare le responsabilità ed ipericoli connessi con questa fase storica. Nel mo-do in cui insorgono e sono definiti i nuovi bi-sogni, è sempre presente una concezione più omeno adeguata dell’uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo simanifesta una determinata cultura, come conce-zione globale della vita. È qui che sorge il fenome-no del consumismo. Individuando nuovi bisogni enuove modalità per il loro soddisfacimento, è ne-cessario lasciarsi guidare da un’immagine globaledell’uomo, che rispetti tutte le dimensioni del suoessere e subordini quelle materiali e istintive aquelle interiori e spirituali. Al contrario, rivolgen-dosi direttamente ai suoi istinti e prescindendo indiverso modo dalla sua realtà personale coscientee libera, si possono creare abitudini di consumo estili di vita oggettivamente illeciti e spesso danno-si per la sua salute fisica e spirituale. Il sistema

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36 Nella S.R.S. (1987), pubblicata solo quattro anni prima della C.A. (1991), la condanna della società dei consumi ènon meno severa (e non meno oscuramente motivata) che nella O.A. Abbiamo visto che nella C.A. è accettato expressisverbis il p.s.c. e, anche se forse meno univocamente, il p.c.c. Gli anni 1987-1991 hanno segnato una grande svolta nellastoria europea e mondiale. Ed è probabile che tale svolta, alla quale Giovanni Paolo II sentì di aver contribuito, abbia stimolato il «Papa polacco» ad assumere un atteggiamento più aperto nei confronti delle società industriali capitali-stiche. Non nel senso di indurlo ad abbandonare un’opportunistica equidistanza ideologica tra i due blocchi ormai divenuta obsoleta, ma al contrario in quello di far cadere il profondo senso di estraneità tra la Chiesa cattolica e la societàindustriale così drammaticamente espresso, ma anche voluto, dal suo predecessore Paolo VI.

37 Questa innovazione avviene in C.A. 37, in un brano largamente ispirato a Fromm per il linguaggio e per i concetti,ma che se ne distacca, con sorprendente souplesse, nelle conclusioni.

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economico non possiede al suo interno criteri checonsentano di distinguere correttamente le formenuove e più elevate di soddisfacimento dei biso-gni umani dai nuovi bisogni indotti, che ostaco-lano la formazione di una matura personalità. Èperciò necessaria ed urgente una grande operaeducativa e culturale, la quale comprenda l’educa-zione dei consumatori ad un uso responsabile delloro potere di scelta, la formazione di un alto sen-so di responsabilità nei produttori, e, soprattutto,nei professionisti delle comunicazioni di massa,oltre che il necessario intervento delle pubblicheautorità.

Ad una prima lettura, si potrebbe con-cludere che qui alla condanna della societàindustriale in quanto cieca riproduttrice disuperfluo il cui bisogno sia artificialmenteindotto subentra il giudizio che la crescitae il soddisfacimento di nuovi bisogni sia oalmeno possa essere un aspetto positivodella società industriale. Il riferimento allacoppia «necessario-superfluo» come crite-rio di giudizio della società industriale ca-de. Mentre per Paolo VI il superfluo è in sécattivo, qui viene riconosciuta la possibi-lità di un superfluo buono, le «forme nuo-ve e più elevate di soddisfacimento dei bi-sogni umani». Il termine «consumismo»non viene abbandonato, ma non ha più ilsignificato di «consumo di superfluo». In-fatti il «fenomeno del consumismo» vienevisto in una circostanza ben diversa, l’i-nosservanza di restrizioni etiche all’uso ditaluni beni, o talune tecniche di vendita, otalune pratiche di comunicazione sociale.In un certo senso, questo è addirittura de-ludente. Di qualunque bene o ritrovato o

strumento si possono fare usi buoni e usicattivi. Basti pensare alle nefandezze che sicombinano, se non anche eseguono inte-gralmente, via Internet38. Si poteva sperareche il Pontefice, chiarendo ed approfon-dendo le dichiarazioni del suo predeces-sore e sue, ci indicasse qualche aspetto eti-camente significativo della superfluità dibeni, ossia della condizione di prosperitànella quale noi siamo. Invece, egli parreb-be dirci solamente che con essi siamo ingrado di commettere più facilmente i vec-chi peccati e abbandonarci ai vecchi vizi!In un certo senso, questo segna un ritornonon alla concezione più specificamenteanti-consumistica della O.A. di Paolo VI,ma alla sua precedente Populorum Pro-gressio (1967), in cui i pericoli della pro-sperità erano identificati in specifici vizimedievali classici39:

Legittimo è il desiderio del necessario, e il lavoroper arrivarci è un dovere… Ma l’acquisizione deibeni temporali può condurre alla cupidigia, al de-siderio di avere sempre di più e alla tentazione diaccrescere la propria potenza. L’avarizia dellepersone, delle famiglie e delle nazioni può conta-giare i meno abbienti come i più ricchi, e suscitarenegli uni come negli altri un materialismo soffo-catore.

Come questo potesse applicarsi ai milio-ni di persone che, a quell’epoca, si arrabat-tavano per comprarsi la «600», o per fare leprime due settimane di villeggiatura dellaloro vita a Rimini, è difficile dire. Ma quel-lo era solo il primo assaggio di benessere.Paolo VI non si accorge che forse questi

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38 Vedi la p. 27 del «Corriere della Sera» dell’8 novembre 2000, dedicata a «Internet e dintorni». Del resto, che Inter-net sia pericoloso non solo socialmente, ma anche individualmente, per la salute dell’anima e del corpo, risulta dall’altroepisodio, recentemente apparso sui giornali, di un giovane che partecipando a una specie di orgia mediatica si strozzòdavanti al suo video con una calza (di seta nera?) e non potè quindi recarsi all’appuntamento con la fidanzata, che lo atte-se a lungo, invano, al luogo dell’appuntamento, rimasto esso sì, ahimè, solo virtuale.

39 Il testo citato viene da P.P. 18.

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peccati medievali non sono nemmeno piùpraticabili in una società dei consumi.L’abbondanza diffusa, la perfetta norma-lità sociale del poter disporre del super-fluo, toglie alla ricchezza quel suo valoredi rarità e di eccezionalità che poteva ren-derla oggetto di desiderio vitale, assoluto,empio. I peccati medievali classici ad essaconnessi nella società dei consumi sonocondannati all’estinzione, sussistono almassimo come nevrosi individuali40. Solo ibambini prendono sul serio, e ammirano,Paperon de’ Paperoni.

La formulazione di Giovanni Paolo II,però, è più sottile, e solo se se ne compren-de l’articolazione complessiva si potrà es-sere sicuri di averne compreso le conclu-sioni. L’autore parrebbe riconoscere ilfatto che in una moderna società industria-le capitalistica la creazione di nuovi biso-gni è un complesso processo sociale, alquale partecipano in varia forma scienzia-ti, ingegneri, imprese, enti pubblici, mezzidi comunicazione di massa, consumatori;ma parrebbe desiderare l’impossibile, os-sia che le interazioni secondo le quali sisvolge la vita economica e sociale fosseroimprontate all’adesione ad un’unica, bendefinita visione globale del divenire socia-le. Ora, l’esistenza di tale visione globale èprobabilmente un sogno nostalgico, unachimera; o l’illusione di uno storico che re-trospettivamente ne identifichi una (o più)

in una fase trascorsa di una civiltà che hastudiato.

L’affermazione che «il sistema economi-co non possieda al suo interno criteri checonsentano di distinguere correttamentele forme nuove e più elevate di soddisfaci-mento dei bisogni umani dai nuovi bisogniindotti, che ostacolano la formazione diuna matura personalità» si presta a degliequivoci. Se per «sistema economico» in-tendiamo una teoria del suo funzionamen-to, o più generalmente l’intera Scienzaeconomica, allora è vero che esso è co-struito per studiare preferenze qualsiasima non per suggerirne o raccomandarnein particolare alcune. Ma se per «sistemaeconomico» intendiamo il complesso de-gli agenti, allora ciascuna delle persone chevi operano dispone di suoi criteri etici inbase ai quali seleziona e proporziona i bi-sogni da soddisfare. Ci ritroviamo, nuova-mente, di fronte alla questione se il Papaaccetti, o no, il p.s.c. Forse un chiarimentopotrebbe venire dalla distinzione che egliintroduce tra «le forme nuove e più elevatedi soddisfacimento dei bisogni umani» e «inuovi bisogni indotti, che ostacolano laformazione di una matura personalità». Sipuò osservare al riguardo che secondo leteorie anti-consumiste estreme, accettatesenza riserve, come abbiamo visto, in alcu-ni passi della O.A. e della S.R.S., l’«indu-zione dei bisogni» sarebbe il complesso di

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40 «Il desiderio di possesso… è una motivazione che deriva, secondo me, da una combinazione di paura e di desideriodel necessario. Tempo fa mi è capitato di aiutare due ragazze provenienti dall’Estonia che durante una carestia erano miracolosamente sfuggite alla morte per fame; vivevano nella mia famiglia e naturalmente potevano mangiare a volontà.Eppure esse trascorrevano tutto il loro tempo libero… rubando patate che ammassavano in un nascondiglio». Così Bertrand Russell in Un’etica per la politica [1954], Bari, Laterza, 1986, pp. 172-173. Nell’aver rimosso questa paura dalla nostra vita quotidiana, più in generale nell’aver allentato i vincoli di scarsità ai quali eravamo soggetti, sta a mio avviso il merito principale della società della produzione e dei consumi di massa. Il riconoscimento che questo è ungrande bene – riconoscimento che nelle Encicliche manca – costituisce il presupposto di qualunque desiderio (o dovere)di diffonderlo agli altri popoli.

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operazioni industriali e pubblicitarie me-diante le quali si generano nella psiche (la-bile e malleabile, presumibilmente) deiconsumatori dei desideri di beni privi diun’autentica radice in qualche strato piùprofondo di essa, là dove risiederebbe lasfuggente «natura umana». Ciò che vi è dinegativo nel «consumismo» sarebbe, inquesta prospettiva, la non originarietà, lanon sorgività dei bisogni che i consuma-tori sono indotti a soddisfare, l’artificio-sità del processo sociale che tali bisogni hafatto insorgere. L’intera macchina produt-tiva girerebbe a vuoto, e in questa mancan-za di senso complessivo della vita socialestarebbe l’aspetto negativo del «consumi-smo» ed anche la sua singolarità e perico-losità storica. Non segue da questa dottri-na che i «bisogni indotti» generino deidesideri di per sé illeciti, o addirittura deivizi: il guaio del «bisogno indotto» sareb-be che è indotto, non che è in sé cattivo.Ora sembra invece che qui l’autore sosten-ga che sono «indotti» quei bisogni, che simanifestano in desideri per altri e più tra-dizionali versi illeciti. Così l’autore cer-cherebbe di combinare una mantenutaadesione alle tesi anti-consumiste (sareb-bero sempre in atto più o meno subdoleforme di «induzione») con un’interpreta-zione del «consumismo» che lo trascina al-

l’estrema periferia della sua peraltro sfu-matissima sfera semantica: il consumismoconsisterebbe nell’incoraggiamento e/onell’acquisizione inconsapevole di abitu-dini viziose41. Ma la dottrina cattolica dellibero arbitrio non sostiene proprio il con-trario, cioè che si può peccare solo se si è liberi? I pedofili che si riforniscono dibambini via Internet sarebbero vittimedell’«induzione»?42

11. I bisognitra natura e cultura

Ho l’impressione che gli autori delle piùrecenti Encicliche sociali condividano conl’uomo della strada un ingenuo presuppo-sto naturalistico riguardo alla natura deibisogni. Così ad esempio in C.A. 36 tro-viamo la seguente asserzione:

Nelle precedenti fasi dello sviluppo, l’uomo èsempre vissuto sotto il peso della necessità: i suoibisogni erano pochi, fissati in qualche modo giànelle strutture oggettive della sua costituzionecorporea, e l’attività economica era orientata asoddisfarli.

L’affermazione è così apparentementein accordo con il buon senso da riscuotereil consenso di chiunque. E tuttavia si puòsostenere che, da un lato, i bisogni sonoprobabilmente stati sempre infiniti e co-

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41 Un passo immediatamente successivo conferma la novità dell’accezione che Giovanni Paolo II ha deciso di dareal termine «consumismo»: «Un esempio vistoso di consumo artificiale, contrario alla salute e alla dignità dell’uomo ecerto non facile a controllare, è quello della droga. La sua diffusione è indice di una grave disfunzione del sistema socialee sottintende anch’essa una “lettura” materialistica e, in un certo senso, distruttiva dei bisogni umani. Così la capacità innovativa dell’economia libera finisce per attuarsi in modo unilaterale e inadeguato. La droga come anche la pornogra-fia ed altre forme di consumismo, sfruttando la fragilità dei deboli, tentano di riempire il vuoto spirituale che si è venutoa creare».

42 Rilevante per questo problema è anche il seguente passo da C.A. 29b, dove vi è forse la più chiara formulazionedell’idea pontificia di consumismo e forse anche di «induzione»: «Nei paesi sviluppati si fa a volte un’eccessiva pro-paganda dei valori puramente utilitaristici, con la sollecitazione sfrenata degli istinti e delle tendenze al godimento immediato, la quale rende difficile il riconoscimento e il rispetto della gerarchia dei veri valori dell’umana esistenza».L’«induzione» è dunque sistematica «induzione in tentazione»!

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stituiti da impulsi e aspirazioni ideali nonmeno che da appetiti fisici; dall’altro, gliantropologi non fanno che insistere sullacircostanza che non pare esservi alcun«bisogno biologico» che non subisca ladeclinazione della cultura. Ma gli antro-pologi possono essere anche pungenti; adesempio Mary Douglas osserva con sarca-smo43:

In mancanza di una trattazione esplicita, nell’ana-lisi economica si insinuano senza essere viste ideeimplicite sui bisogni umani… Da una parte tro-viamo la teoria dei bisogni fisici o materialistica,dall’altra la teoria dei bisogni basata sull’invidia.Seconda la prima i nostri veri bisogni, i più fonda-mentali e universali, sono quelli fisici, quelli cheabbiamo in comune con gli animali… Appenasotto le riflessioni della maggior parte degli eco-nomisti sui bisogni umani appare una curiosascissione morale: essi riconoscono due tipi di bi-sogni, quelli fisici e spirituali, ma assegnano lapriorità ai primi. A questi concedono la dignità diessere necessari, mentre degradano tutte le altredomande in una categoria di bisogni artificiali,falsi, di lusso, persino immorali. L’eresia mani-chea, come è noto, divideva il mondo tra il male,la parte biologica – bassa – della natura umana e ilbene, la parte spirituale. Ma gli economisti cheoperano la stessa scissione cambiano ufficiosa-mente le definizioni degli eretici e così il biologicodiventa bene e lo spirituale resta privo di giustifi-cazione.

Siano o no questi i presupposti antro-pologici impliciti degli economisti, essisono i presupposti antropologici esplicitidei Pontefici. Vi è inoltre il fatto che èprobabilmente errato pensare che «nelleprecedenti fasi di sviluppo» si possa isola-

re dal contesto sociale globale un’«attivitàeconomica»: è proprio solo con la societàindustriale che questa differenziazione disfere di attività sociale diventa possibile44.Ad esempio, nelle società pre-moderne,cristiane e islamiche45, certo non vigeva ilprincipio della sovranità del consumato-re. I vestiti, gli arredi, i tipi di cibi eranoparte integrante di un unico sistema disimboli che concorreva alla costituzione eal mantenimento dell’ordine sociale com-plessivo, e nulla in essi era lasciato al caso,tutto era minuziosamente prescritto perogni stato, per ogni ceto sociale. Non acaso la critica alle leggi suntuarie fu inFrancia una delle prime iniziative del mo-vimento dei lumi. «Non di solo pane vivel’uomo, ma di ogni parola che viene daDio», dice Gesù di Nazareth in Mt IV: 4,citando Deut. VIII: 3. E tuttavia proprioil pane è anche il simbolo di quella parola,è un «pane sopra-sostanziale» che Gesùinsegnò ai suoi seguaci a chiedere all’Al-tissimo, che essi tuttora chiedono, e, pre-sumibilmente, ricevono! Dunque i beni, ei bisogni che essi soddisfano, sono inseritiin un codice sociale, linguistico, simboli-co la cui connessione con «la costituzionecorporea» dell’animale uomo è remota,mediata, e in definitiva irrilevante. L’ap-parente «elementarità» o immediatezzadi alcuni bisogni non è una garanzia di in-nocenza46. Le necessità dello spirito so-no a volte altrettanto autentiche e sonotutt’uno con quelle del sentimento e deisensi:

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43 Mary Douglas e Baron Isherwood, Il mondo delle cose, Bologna, Il Mulino, 1984.44 Si veda Max Scheler, Lo spirito del capitalismo e altri saggi, Napoli, Guida, 1988, p. 51.45 Non solo: nella Sparta antica, a Roma (come ricorda anche Hans Jonas). Le leggi suntuarie assunsero comunque

il massimo sviluppo nell’Impero giapponese medievale.46 Questo i Papi dovrebbero saperlo: altrimenti perché si preoccuperebbero tanto degli «appelli agli istinti», che

ignorerebbero «l’uomo nella sua globalità»?

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In un ambiente creato dal suo buon gusto unadonna riservata è splendida come il sole sulle cimedei monti,

osserva rapito il Siracide (Sir. XXVI: 16),ma forse il fascino sommesso ma bruciantedi una «donna riservata» (se ancora esiste)in un’abitazione moderna troverebbe me-no occasioni di splendere che in una dimo-ra ellenistica del II secolo a.C. Abbiamoqui un’esperienza che è mistica e lussuosaad un tempo. Comunque sia, una donna,concubina47, moglie e/o madre che sia, dàforma nella propria casa alla storia deipropri affetti e a quelle che le sembrano leesigenze vitali dei suoi abitanti. Esprimeuna delle sue più profonde esigenze e, adun tempo, virtù, l’ospitalità, l’accoglienza.Per questo una casa diventa un codice ric-co e complesso, con un passato e un futu-ro… come un’intera cultura.

Secondo un filosofo del Settecento, il Pi-quet, «il lusso… è un principio morale che

esiste solo nell’animo dell’uomo… Nonsono né le superfluità, né il loro nume-ro a costituire il lusso; è l’attaccamentoche l’uomo ha per queste superfluità, èl’influenza che esse esercitano sulla sua felicità… L’uomo che fa uso delle cose su-perflue che il suo tempo gli mette a di-sposizione senza vincolare ad esse la suafelicità, non è dedito al lusso»48. Ritrovia-mo qui un motivo tomistico che è forse re-motamente presente anche nei passi sulconsumismo della O.A. e nella S.R.S. con-siderati sopra, che non i beni in sé, ma l’at-teggiamento interiore relativamente ad es-si può essere biasimevole49. Questo è, inun certo senso, indubbio. In un altro, nonpermette di stabilire l’esistenza di un sup-posto fenomeno sociale della società indu-striale, il «consumismo». Perché non do-vremmo supporre che la gente apprendal’atteggiamento interiore «giusto»? Ma èinsufficiente anche per un altro aspetto,

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47 Lo storico economico Werner Sombart in Lusso e capitalismo [1913], Milano, Unicopli, 1988 e in altri suoi scrittisostenne che non l’ascesi puritana ma la prodigalità aristocratica, con il grandioso fenomeno del lusso delle corti, grandie piccine, avrebbe preparato l’avvento del capitalismo industriale. Questa «domanda pubblica» avrebbe infatti promos-so la costituzione di mercati nazionali e internazionali di una incredibile varietà di prodotti artigianali. Forse questa tesinon regge, ma una sua articolazione, il rapporto causale tra erotismo e lusso, pare convincente. In particolare, convin-cente pare l’argomento di Sombart che il lusso non è spiegato dall’emulazione sociale, anche se diventa un ambito nelquale tale emulazione si scatena, ma è la creazione del «mondo delle concubine».

48 Si vedano le pp. 223-224 di La polemica sul lusso…, cit. La definizione originaria di «lusso» proposta dal Piquet è la seguente: «Il lusso è la disposizione dello spirito e dell’animo, che gli fa considerare e ricercare come necessari alla suafelicità, oggetti che producono sensazioni piacevoli che la natura non ha reso né necessarie né utili alla vita, alla salute,alla felicità». Il problema, naturalmente, è di spiegare come mai l’uomo sia indotto a «considerare e ricercare come

necessari alla sua felicità, oggetti» che non sarebbero necessari ad essa, se la «natura» gli ha predisposto un così chiaropercorso verso «la salute e la felicità». Purtroppo il Piquet non lo fa.

49 Sfogliando la Summa contra Gentiles, ho trovato questo passo, che mi pare veramente un locus classicus. Viene dalcap. CXXVII, dal titolo Come di suo non sia peccato l’uso di nessun cibo: «E poiché l’uso dei cibi e dei piaceri venerei nonè illecito per se stesso, ma può esserlo solo in quanto trasgredisce l’ordine della ragione; mentre il possesso dei beni ester-ni è necessario al vitto, all’educazione della prole, al sostentamento della famiglia, e alle altre necessità del corpo; ne vienedi conseguenza che di suo non è illecito neppure il possesso delle ricchezze, se si osserva l’ordine della ragione: in manie-ra cioè che i beni che uno ha, li possegga giustamente, così da non riporre in essi il fine della sua volontà, e da servirsenenel debito modo, per l’utilità propria ed altrui. Ecco perché l’Apostolo scrivendo a Timoteo non condanna i ricchi, ma dà loro una norma sicura per usare le ricchezze: “Ai ricchi di questo mondo comanda di non essere orgogliosi, di nonriporre la speranza nell’incertezza delle ricchezze... di fare del bene, di arricchirsi di opere buone, di essere facili a dare, adistribuire” (I Tim. VI: 17-18). E l’Ecclesiastico (XXXI: 8) esclama: “Beato il ricco che fu trovato senza macchia, chenon corse dietro l’oro, e che non sperò nel denaro e nei tesori”».

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non coglie la vasta gamma di modi di rapportarsi ai beni. Quale sarà il «giustodistacco» da un bicchiere di Chianti Clas-sico? Dalla serie di vestiti che in un mo-mento di esaltazione amorosa ho com-prato a una donna per bearmi dei variaspetti della sua unica bellezza che essi miaiutano a cogliere? Dalla mia collezionedi lattine di birre e aranciate vuote?50 Ilproblema per i cittadini di una società in-dustriale avanzata è semmai quello di re-cuperare alcuni elementi del lusso prein-dustriale. La società dei consumi di massatrae origine più dall’ascetismo che dall’e-donismo51. È questo, probabilmente, ilvuoto che molta pubblicità cerca di col-mare. Con maggiore e minore successo: èanche di una nuova educazione esteticache abbiamo bisogno. Dovremmo orga-nizzarci per riceverla anche da altre fonti,oltre che dalla pubblicità.

12. Conclusioni

Le prime Encicliche sociali, la Rerum No-varum (1891) e la Quadragesimo Anno(1931), miravano a proporre a un’Europache i Papi ritenevano confusa e divisa deiprincipi di organizzazione sociale che ga-

rantissero la salvezza per le masse, ritenuteminacciate dall’indigenza, e la pace e lacooperazione sociale per tutti: il modellodi un ordinamento professionale corpora-tivo sotto l’influsso determinante dellaChiesa stessa. Questa, in senso proprio,era la «dottrina sociale della Chiesa». Incomplesso, la proposta venne respinta, e loStato sociale che in varie forme è stato rea-lizzato in Europa dopo la seconda guerramondiale è alquanto distante dall’ordinesuggerito in tali documenti52.

Se i primi cristiani potevano pensarsi co-me di passaggio su questa terra, e ad essafondamentalmente estranei, la Chiesa cat-tolica romana vi si è invece profondamenteradicata. Non si sogna neppure di guidarealla salvezza celeste un gruppo di auto-esi-liati dalla società industriale, magari in at-tesa di una catastrofe nucleare e/o geofisi-ca. Essa mira non solo a «giudicare consuprema autorità intorno a siffatte que-stioni sociali ed economiche» (Q.A. 17),ma a dedurne da propri principi le solu-zioni. Il problema non è più, a mio avviso,se sia in grado di imporle, è se sia ancora ingrado di dedurre qualcosa. L’interesse deiPapi per il «consumismo» è un indice dellapresa d’atto, rinviata il più possibile e ma-

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50 Nel linguaggio del Piquet, il problema si può forse porre così: «L’uomo che fa uso delle cose superflue… senzavincolare ad esse la sua felicità», può tuttavia trarne «sensazioni piacevoli»?

51 Paolo VI (come del resto Schweitzer, Arendt, Jonas, Fromm) non coglie questa distinzione. Si consideri ad esempio il seguente impressionante passo da O.A. 10 (la sezione è intitolata I problemi posti dall’urbanesimo): «Tappaindubbiamente irreversibile nello sviluppo delle società umane, l’urbanesimo pone all’uomo difficili problemi: comedominarne la crescita, regolarne l’organizzazione, ottenerne l’animazione per il bene di tutti? In questa crescita disor-dinata nascono, infatti, nuovi proletariati. Essi s’installano nel cuore delle città, talora abbandonate dai ricchi; si accam-pano nelle periferie, cintura di miseria che già assedia in una protesta ancora silenziosa il LUSSO [maiuscole mie] tropposfacciato delle città consumistiche e sovente scialacquatrici… Dietro le facciate si celano molte miserie, ignote anche aipiù vicini; altre si ostentano dove intristisce la dignità dell’uomo: delinquenza, criminalità, droga, erotismo».

52 Anche se forse meno di quanto sembri. Ad esempio, un postulato fondamentale della Q.A., il primato della politi-ca sull’economia, venne recepito nella Costituzione della Repubblica italiana, essendo condiviso da quasi tutti i partitiche la animavano. E il corporativismo è diventato parte della costituzione materiale italiana, in forme diverse e peggioridi quelle proposte nella R.N. e nella Q.A…

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nifestata il meno apertamente possibile,che nei paesi industriali si è realizzata perla prima volta nella storia una condizionedi prosperità generale. La prosperità non èpresa in considerazione nei Vangeli (dovenella forma di produzione e/o di proprietàindividuale, anche se non di consumo, èpiuttosto disprezzata) né da San Tomma-so, che pure forse sarebbe stato dispostoad apprezzarla. L’uomo contemporaneocon la sua interiorità incredibilmenteespansa e con la sua religiosità anonimasembra estraneo ai Pontefici, che si pro-pongono di esaminare il «consumismo»senza aver riflettuto sul consumo, e oscil-lano nelle loro pronunce da nebulose con-danne globali alla modesta, deludente de-nuncia del pericolo di una nuova crescitadi peccati e vizi individuali tradizionali,compresi quelli medievali che la prosperitàtende a rendere desueti. Quale miserandaciviltà si potrà fondare sul principio di mi-nimizzare le occasioni di peccato?

La difficoltà per la Chiesa cattolica nonsta nel fatto che stia effettivamente scrittonel Vangelo che la terra sia e debba rima-nere un’immutabile valle di lacrime53. Stanel fatto che un’etica della sofferenza, dellarassegnazione, della pietà, come quellaevangelica, è più adatta a un mondo di op-pressione, fame e miseria che ad uno di li-bertà politica, prosperità, mobilità sociale.È questa, forse, la circostanza che ha intra-visto con sgomento Paolo VI. Forse unanuova comprensione della Croce è possi-bile, e i teologi protestanti vi lavorano or-mai da molti decenni. Il fatto è che «le que-

stioni sociali ed economiche» pongonoproblemi teologici fondamentali, nei qualiPaolo VI e Giovanni Paolo II si sono im-battuti quasi inavvertitamente54.

Non occorre essere d’accordo con l’an-tropologia sorprendentemente naturali-stica dei bisogni di Paolo VI e GiovanniPaolo II, o con la deludente riformulazio-ne del concetto di «consumismo» del se-condo, per prenderne in considerazioneloro eventuali proposte pratiche. Anche lavisione che emerge dalla C.A. del consu-matore come un essere fragilissimo, la cuiautonomia di giudizio può facilmente es-sere intaccata da una varietà di fonti cultu-rali e mediatiche, ha una sua plausibilità.Se la creazione di bisogni è un aspettofondamentale e imprescindibile della no-stra società, in esso vanno immesse delleforme di critica culturale e salvaguardiaistituzionale ottenute rivolgendo l’atten-zione di una varietà di soggetti e organipubblici e privati verso il complesso diproblemi che abbiamo convenuto di indi-care con la sigla «diritti dei consumatori».Quello che conta è che l’ordinamentocomplessivo sappia accogliere e vagliaredelle istanze, da qualunque parte venga-no. Si pensi a come quello stupefacentetessuto connettivo, la common law statu-nitense e il suo sistema giudiziario, con-sentì a Ralph Nader di riportare vittoriegiudiziarie spettacolose e strabilianti con-tro alcune delle principali società indu-striale statunitensi. Non si era visto qual-cosa di simile dai tempi di Davide e Golia!Naturalmente tra i portatori di istanze, di

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53 Questa, come abbiamo visto, è la credenza degli autori di Encicliche sociali, da Leone XIII in su. È terrificante notare come sia facile, anche per uomini pii e generosi, confondere il volere di Dio con i propri pregiudizi.

54 Come sviluppare una possibile identificazione con Gesù Crocifisso da parte di un’umanità impegnata nel progettonon specificamente cristiano della collaborazione con Dio nella creazione sembra una bella sfida teologica.

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richieste, di proposte, di lamentele, tra icandidati educatori, la Chiesa cattolicasarà uno degli attori. Le sue istanze si af-fermeranno non in quanto espresse da una«suprema autorità» o manifestate in nome

di una «natura umana» di cui solo la Chie-sa cattolica romana avrebbe la chiave, main quanto avranno incisività e persuasi-vità. Dovrà diventare un Davide, non unGolia.

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