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Dipartimento di Scienze Politiche Cattedra di Comunicazione d’impresa e Gestione delle risorse umane La comunicazione organizzativa tra tradizione e innovazione. Strategie di branding e rebranding: il caso Burberry. Relatore Candidato Prof. Antonio Cocozza Sofia Minio Paluello Matricola n. 071032 ANNO ACCADEMICO 2014 / 2015

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Dipartimento di Scienze Politiche

Cattedra di Comunicazione d’impresa e Gestione delle

risorse umane

La comunicazione organizzativa tra

tradizione e innovazione. Strategie di

branding e rebranding: il caso Burberry.

Relatore Candidato

Prof. Antonio Cocozza Sofia Minio Paluello

Matricola n. 071032

ANNO ACCADEMICO 2014 / 2015

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Vorrei ringraziare tutti coloro che hanno contribuito, con

suggerimenti ed attenzioni, alla creazione di questo mio

elaborato.

Il mio professore, Antonio Cocozza, che mi ha con pazienza

aiutata a definire il modo migliore per esporre le mie idee e

saziare la mia curiosità.

La dottoressa Chiara Cilona, sapiente consigliera che mi ha

offerto sostegno ed attenzione.

Non primo di questo elenco, ma primo per importanza e nel

mio cuore, ringrazio mio padre, la parte migliore di me, mia

roccia e punto di riferimento, il mio esempio di vita e mio più

grande orgoglio. Lui, che con la sua pazienza, ha sempre

avuto ragione.

Mia madre, che con il suo amore ha sempre supportato le

mie scelte e mi ha permesso di diventare la persona che sono.

Mia sorella e mio fratello, compagni di vita in tutto e per

tutto.

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Senza di voi non sarei nulla.

A mia cugina, sempre presente, a tutti i miei compagni di

studi e di esami.

A tutti voi, e a tutti coloro che, vicini e lontani, mi sono stati

accanto in questi tre anni, grazie.

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Indice

Introduzione............................................................................5 1. La comunicazione d’impresa e la sua evoluzione...............7

1.1. Aspetti e caratteristiche della comunicazione..............9 1.2. Nuovi scenari economici e sociali..............................11 1.3. Comunicazione e immagine.......................................14 1.4. Creare valore e identità attraverso la comunicazione d’impresa...........................................................................18

2. Il brand : caratteristiche e potenzialità..............................21

2.1. La percezione dell’impresa attraverso il brand..........24 2.2. Le strategie di branding..............................................27 2.3. Politiche ed investimenti di rebranding......................30

3. Burberry: la storia dello chic all’inglese...........................34

3.1. Il marketing della moda e del lusso............................36 3.2. Burberry: da marchio “invecchiato” a brand di lusso internazionale....................................................................40 3.3. Uno “zar del brand”....................................................42 3.4. L’aderenza al nucleo...................................................44 3.5. L’ethos della trincea...................................................45 3.6. Premi della trasformazione.........................................48

Conclusioni...........................................................................51 Biografia................................................................................53

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Introduzione

In un’epoca come la nostra, in cui gli aspetti intangibili dei beni tendono a divenire i fattori cruciali per la creazione di un vantaggio competitivo durevole, la comunicazione assume una rilevanza fondamentale all’interno della strategia aziendale. L’impresa in questi anni ha comunicato e continua a comunicare attraverso una molteplicità di canali, senza avere spesso la consapevolezza di farlo. Il “fare” dell’impresa si associa necessariamente a un “dire” e a un “comunicare”, per cui ogni miglioramento della comunicazione implica anche un miglioramento del suo “fare” e viceversa. Valorizzando un tipo di comunicazione coinvolgente e partecipativa, si può elevare la qualità della produttività e, conseguentemente, il valore dell’impresa percepito dal pubblico interno ed esterno. Il concetto di comunicazione è strettamente legato a quello di condivisione e di vicinanza ed è, quindi, riconducibile alla relazione interpersonale diretta e immediata. Per l’impresa è sempre più difficile soddisfare le crescenti esigenze di un consumatore divenuto più maturo; questo è altresì in difficoltà davanti al moltiplicarsi di un’offerta non sempre intelligibile e di qualità. I cambiamenti amplificano per entrambi il bisogno di instaurare con la controparte una relazione certa e stabile: qui entra in gioco il brand, la marca, che offre a tutti gli attori economici un riferimento condiviso, capace di resistere, con la sua forma e sostanza, ai cambiamenti dell’esterno. Questa trattazione si suddivide in tre parti.

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Il primo capitolo è dedicato alla comunicazione d’impresa e alla sua evoluzione. Si parlerà di comunicazione in generale, comunicazione interna, esterna, organizzativa, della cosiddetta communication mix, fino ad arrivare alla comunicazione che ha come scopo e obiettivo l’immagine aziendale percepita sul mercato, e il brand. Il secondo capitolo entra dettagliatamente nel merito del concetto di brand. Dopo una precisa definizione, verranno illustrate le caratteristiche e le potenzialità, l’importanza del brand all’interno di un processo di business, il brand come elemento fondamentale per il successo di un’organizzazione. Quindi si parlerà delle strategie di branding e rebranding. Infine, nel terzo capitolo, viene illustrato un caso specifico, quello della rinomata azienda di moda “Burberry”. Dopo un’analisi iniziale di quelle che sono le caratteristiche all’interno del mercato della moda e, in particolare, del lusso, si entrerà nel merito del noto marchio “Burberry”, e di come da desueta icona londinese sia diventato un brand internazionale di lusso.

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1. La Comunicazione d’impresa e la sua evoluzione “Ma sopra tutte le invenzioni stupende, qual eminenza fu quella di colui che s’immaginò di trovar modo di comunicare i suoi più reconditi pensieri a qualsivoglia altra persona, benché distante per lunghissimo intervallo di luogo e di tempo? Parlare con quelli che son nell’Indie, parlare a quelli che non sono ancora nati né saranno se non di qua a mille e dieci mila anni? E con quale facilità? Con i vari accozzamenti di venti caratteruzzi sopra una carta” (Galilei, 1632). Non si può non comunicare. Ogni comportamento umano è comunicazione. Non è possibile non assumere un comportamento, perciò è impossibile non comunicare. Qualsiasi tipo di comunicazione ha un aspetto di contenuto e di relazione. Qualunque interazione umana è una forma di comunicazione, qualunque atteggiamento assunto diventa portatore di significato. Conseguentemente al nuovo scenario economico e sociale, il ruolo della comunicazione è diventato importante e molte volte dominante. Si è passati da una comunicazione prettamente pubblicitaria e informativa, ad una comunicazione a tutto tondo che ha l’obiettivo di portare a conoscenza il pubblico dei consumatori delle specifiche del prodotto ma, soprattutto, di costruire e qualificare l’immagine dell’azienda e del prodotto attraverso la proiezione di valori intangibili esclusivi, integrando, oltre alla pubblicità, tutti gli altri possibili canali della comunicazione.

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Il consumatore oggi si è trasformato da ricettore passivo a soggetto attivo e critico. Infatti, attraverso le sue preferenze, i suoi comportamenti e le sue decisioni d’acquisto, contribuisce a definire l’offerta di quei beni e servizi di cui fa domanda sul mercato. La comunicazione d'impresa, poiché ponte tra azienda e mercato, è diventata l’imperativo di ogni azienda. Per questo, la ricerca per mettere in atto una buona strategia di comunicazione d’impresa è una disciplina ormai praticata in tutte le aziende, anche se spesso in maniera inconsapevole. Rappresenta lo strumento indispensabile di successo per l’impresa, nonché la condizione necessaria per validare il prodotto o il servizio che si offre sul mercato. Rappresenta la modalità tramite la quale un’organizzazione riesce a ottenere e migliorare la propria unitarietà e, nel contempo, a creare e diffondere valore economico nelle relazioni che la legano all’ambiente di riferimento. È lo strumento sulla base del quale i rapporti e le interazioni tra persone ovvero processi, costituiscono un legame più forte. Le imprese con efficaci strategie di comunicazione verso i propri dipendenti, sono imprese di successo. “Una comunicazione efficace è in grado di dare un importante valore aggiunto al lavoro e alle attività produttive dell’impresa, fino a rappresentare una decisiva fonte di vantaggio competitivo” (Cocozza, 2012, p.63). Le strategie di comunicazione, con il tempo, sono diventate lo strumento indispensabile per una buona riuscita. La comunicazione rappresenta la possibilità di creare un legame tra l’impresa e l’ambiente esterno in cui l’azienda opera per raggiungere le proprie finalità. È attraverso la leva comunicativa che l’organizzazione cerca di indurre in tutti quei soggetti senza il cui supporto l’impresa

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non sarebbe in grado di sopravvivere, comportamenti e opinioni corrispondenti alle proprie attese. Ne deriva che le politiche comunicative non sono più elemento accessorio dell’attività delle imprese sul mercato, ma contribuiscono principalmente al valore economico dell’impresa stessa e al suo vantaggio competitivo. La comunicazione d’impresa acquisisce dunque uno status fondamentale, diventando uno dei vantaggi (assets) più importanti dell’operare dell’impresa.

1.1. Definizione di comunicazione Comunicazione: dal latino cum = con, e munire = legare, costruire e anche da communico = mettere in comune, far partecipe. Nella sua prima definizione è l’insieme dei fenomeni che comportano la distribuzione di informazioni. L’origine etimologica del termine comunicare (dal latino communis) sta a significare “mettere in comune”, e ha assunto nel corso degli anni la valenza di condividere qualcosa, sia essa un’idea, un’informazione, un sistema di valori, una linea politica. Il tentativo di dare una definizione precisa di “comunicazione” risulta assai difficile. Innanzitutto, l’attività comunicativa implica una parità di ruoli tra gli interlocutori e una partecipazione allo scambio. In questo senso è opportuno analizzare la distinzione del concetto di “comunicazione” da quello di “informazione” (Cocozza, 2012). La comunicazione mette in risalto “ciò che è proprio di due o più persone” ponendo in assoluta priorità il rapporto tra soggetti: infatti, i soggetti che comunicano “mettono in

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comune”, condividono, partecipano l’un l’altro a qualcosa utilizzando un linguaggio comune in uno spirito dialogico e interattivo. Nel comunicare tutti i soggetti sono attivi. L’informazione invece aspira a rappresentare il mondo in una forma che possa essere accettata da tutti. Nell’informare c’è un soggetto attivo, cioè la fonte delle informazioni, e uno o più soggetti passivi, cioè i destinatari delle informazioni: esiste pertanto un rapporto unidirezionale fondato sulla trasmissione di informazioni. Con il tempo si è passati dalla comunicazione come processo, alla comunicazione come comportamento. Ogni interazione umana è ipso facto una forma di comunicazione. Comunicare significa, quindi, partecipare a un sistema di relazioni attraverso norme e regole messe in atto in maniera consapevole o inconsapevole dagli attori presenti, i quali si scambiano informazioni, sensazioni, immagini mentali e stati d'animo usando canali e codici verbali, para-verbali, non verbali e simbolici, utilizzabili e utilizzati in un determinato contesto culturale. La comunicazione d’impresa è l’insieme dei processi comunicativi che un’impresa istituisce con l’obiettivo di influire sugli atteggiamenti del pubblico. Consiste in tutte le forme con cui l’impresa si mette in relazione con l’ambiente, sia esterno sia interno. Si articola quindi in comunicazione interna e comunicazione esterna. Quella interna è rivolta agli attori interni dell’impresa e influisce su comportamenti e processi decisionali al fine di sviluppare una forza coesiva. Pertanto, per comunicazione interna s’intende l'analisi dei flussi di comunicazione all'interno di un determinato ambiente di lavoro, l’analisi del clima aziendale, l'analisi dell'impressione che il personale ha dell'immagine

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dell'azienda con cui collabora o per cui lavora, l'individuazione di soluzioni migliorative per comunicare e consolidare i rapporti con i propri collaboratori. Solo dopo aver messo in atto una buona strategia di comunicazione interna, si potrà avere una altrettanto valida strategia di comunicazione esterna. La comunicazione esterna è rivolta ai sistemi entro i quali l’impresa opera e ha lo scopo di integrare l’impresa con i suoi diversi ambienti di riferimento. Pertanto, per comunicazione esterna si intende l'analisi e la verifica della percezione dell'immagine aziendale che si ha all'esterno, l' elaborazione della comunicazione per divulgare in maniera efficace e distintiva i propri prodotti o servizi e la propria facciata, puntando ad una collocazione ed un ruolo chiari ed esclusivi con un'identità precisa, inequivocabile, lineare e per questo riconoscibile. L´immagine, infatti, identifica l´azienda agli occhi del pubblico e ne determina il posizionamento nel contesto sociale a cui appartiene. In definitiva, comunicazione interna e comunicazione esterna sono due funzioni strategiche d'impresa ben distinte, ma oggi fortemente correlate.

1.2. Nuovi scenari economici e sociali La comunicazione è il mezzo attraverso il quale interagiamo con gli altri e attraverso il quale cerchiamo di ottenere i nostri obiettivi. Il ruolo della comunicazione d’impresa è diventato oggi indispensabile per l’affermazione di un’azienda sul mercato. La capacità di comunicare in modo efficace diventa molto importante se, chi la utilizza, ha un ruolo chiave all'interno

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dell'organizzazione, quindi per esempio amministratori delegati, manager, leader di vari livelli. Non da sempre però la comunicazione ha avuto l’importanza che invece ha assunto oggi giorno. In passato, infatti, era relegata a un ruolo più marginale e certamente secondario. Nella fase della prima industrializzazione, caratterizzata dal prevalere della domanda sull’offerta, l’attenzione dell’impresa era concentrata prevalentemente sul prodotto e sulle sue caratteristiche. Successivamente, la crescita della competizione ha spinto le aziende a concentrarsi sui servizi collaterali al prodotto. L’interesse del pubblico si era allora spostato dal bene con le sue caratteristiche tecniche, al peso delle componenti di servizio. Infine oggi, nei mercati ad alta competitività, il successo delle imprese è oggi condizionato dalle risorse immateriali (intangible assets). Anche il consumatore ha un peso diverso sul mercato, poiché si è trasformato da ricettore passivo a soggetto attivo e consumatore critico. Con le sue decisioni d’acquisto e con i suoi comportamenti, il consumatore è oggi il punto di partenza per un’azienda per l’elaborazione e la produzione di prodotti e servizi. Tenendo conto delle preferenze, le imprese operano per soddisfare i bisogni e i desideri dei propri clienti. “Il consumatore è sovrano quando, disponendo liberamente del proprio potere d’acquisto, risulta essere in grado di orientare, seguendo il suo sistema di valori, i soggetti di offerta, sia sul modo di realizzare i processi produttivi, sia sulla composizione dell’insieme dei beni da produrre” (Mill, 1859). A tutto questo si aggiungono i cambiamenti che l'azienda in generale ha vissuto nel corso degli ultimi anni.

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Questi cambiamenti possono essere suddivisi in tre grandi periodi e decritti da altrettante teorie (Cocozza, 2012): • La teoria tayloristica; • La teoria della scuola delle relazioni umane; • La teoria della gestione totale della qualità. Nella prima fase le aziende erano gestite attraverso il cosiddetto Scientific Management, cioè un management scientifico, il quale affermava che per ogni compito da effettuare esistesse una ed una sola modalità, the one best way. La struttura aziendale era di tipo piramidale, top down e fortemente gerarchica, il lavoratore non aveva un ruolo cruciale ma era piuttosto considerato semplice esecutore di compiti e mansioni ben definite. Intorno agli anni '50 si sviluppa la “Scuola delle Relazioni Umane” basata sugli studi di Elton Mayo, grazie alla quale si comincia a prestare più attenzione alle risorse umane presenti all’interno delle imprese con il tentativo di migliorare le motivazioni dei lavoratori e il clima aziendale. Tale sviluppo continua, fino ad arrivare, intorno agli anni '80, alla nascita del Total Quality Management (Teoria della Gestione Totale della Qualità), che attribuisce assoluta priorità alla soddisfazione del cliente, inteso sia come utente finale del prodotto/servizio, ma anche alla soddisfazione delle risorse umane interne all'organizzazione. Aumenta quindi l’attenzione in relazione all’importanza del lavoro di gruppo; alla diffusione delle informazioni a tutti i livelli, per cui l'informazione non ha più un flusso esclusivamente verticale, dall'alto in basso, ma anche

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orizzontale e trasversale; ai valori condivisi; allo snellimento nei flussi di lavoro. Allo stesso tempo cambiano le dinamiche all'interno delle organizzazioni in quanto, chi ne fa parte, non ha più gli stessi bisogni di un tempo, e va alla ricerca di soddisfazioni, responsabilità, autonomie diverse e maggiori. Il lavoratore è molto più istruito ed informato di un tempo, conosce norme e diritti a volte molto meglio del suo datore. Di fronte a questo scenario non è difficile capire che trovarsi a ricoprire ruoli chiave è diventato estremamente più difficile, motivo per cui l'abilità di comunicare in modo efficace diventa sempre più importante. Abilità che non prevede solo ed esclusivamente la capacità di esprimere le proprie idee, ma anche la capacità di ascoltare, osservare, riconoscere e gestire le proprie e le altrui emozioni. Inizia così a cambiare il modo di comunicare, spostando l’attenzione da quel che si dice, anche al modo in cui lo si dice. Insomma, è impossibile non comunicare.

1.3. Creare valore e identità attraverso la comunicazione d’impresa

L’impresa, l’ambiente, il contesto sociale, politico ed economico, sono teatro di un cambiamento che ha visto crescere fortemente l’importanza della dimensione relazionale. Considerando, quindi, la crescente importanza che ha assunto la funzione comunicativa aziendale negli ultimi anni, si tende

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a superare lo schema basato sulla classica tripartizione fra comunicazione interna, comunicazione esterna e comunicazione di prodotto, per passare a un modello integrato di comunicazione. La vecchia tripartizione lascia così il posto a quell’impostazione che è denominata comunicazione organizzativa: una sorta di miglioramento del concetto di comunicazione interna. L’evoluzione dell’azione comunicativa ha condotto alla definizione di una comunicazione globale, di un’orchestrazione: un’orchestra che si trova di fronte un comune spartito, a cui tutti gli strumenti devono fare riferimento. L’orchestrazione della comunicazione è il presupposto per una comunicazione realmente efficace e per un posizionamento aziendale forte e coerente. In quest’ottica, il manager aziendale è, prima di tutto, un direttore d’orchestra: è colui che cerca di guidare in modo armonico un gruppo di persone, che sa adattarsi alle esigenze dei diversi soggetti coinvolti, influenzandone positivamente i comportamenti, contribuendo alla creazione e diffusione di valore per l’impresa (Cocozza, 2012). Dopo il boom economico degli anni Sessanta, la crescita esponenziale del mercato e della concorrenza ha messo in evidenza la necessità di farsi conoscere, di porre all'attenzione del consumatore il prodotto, la sua provenienza e dunque la sua qualità. La comunicazione organizzativa è quindi l'insieme di tutte le attività che un'impresa intraprende nei diversi ambiti per inserirsi nel mercato, mantenere la sua posizione e creare un'immagine, coerentemente con i suoi obiettivi, verso il consumatore. Ricopre quindi un ruolo di supporto strategico e di stimolo per l’attivazione di significativi processi di mutamento culturale e relazionale, oltre che organizzativo e produttivo.

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Il nuovo paradigma della comunicazione organizzativa richiede che essa debba essere integrata e funzionale allo sviluppo dell’organizzazione nel suo insieme, diffondendo e consolidando i valori distintivi che caratterizzano l’impresa, creando cultura condivisa, partecipazione e coinvolgimento. La comunicazione non può più essere considerata separatamente: esterna, interna e di prodotto. Deve essere integrata e considerata organizzativa perché serve al funzionamento e allo sviluppo dell’organizzazione nel suo insieme. Il legame forte dell’azienda non è più la gerarchia ma la comunicazione, la quale all’interno dell’impresa deve diventare un reticolo complesso di messaggi, canali, strumenti, che tendano a creare un rapporto interattivo con i dipendenti. La comunicazione ha di conseguenza acquistato sempre più la dimensione della comunicazione a due vie: deve creare un rapporto positivo del dipendente con l’azienda, in modo che questo si senta coinvolto nelle vicende aziendali e consideri l’azienda un luogo dove perseguire i propri obiettivi personali; deve contribuire alla formazione di un clima di cooperazione fra le persone e di condivisione degli obiettivi sul lavoro. La comunicazione integra anche i processi di pubblicizzazione del brand all’esterno con la trasmissione dei valori e della cultura all’interno e all’esterno, al fine di costruire un’immagine d’impresa coerente e positiva, volta a migliorare il livello di goodwill, gratitudine, sul mercato. L’assunto di fondo della strategia della comunicazione organizzativa, integrando i processi comunicativi interni e quelli esterni, è basato sulla capacità di raggiungere determinati risultati, utilizzando al meglio le risorse disponibili per favorire l’instaurazione e il mantenimento di un clima aziendale positivo (Cocozza, 2012).

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La diffusione dei valori guida e della cultura aziendale, rappresenta una tra le più importanti funzioni della comunicazione organizzativa. Questa è quindi finalizzata a diffondere i valori, la mission, la cultura e le strategie aziendali, a informare e coinvolgere i soggetti esterni. Non solo diffonde il valore dell’impresa, ma crea essa stessa valore. Quanto più l’impresa comunica bene, tanto maggiore sarà il livello di sintonia che si evidenzia nelle relazioni instaurate con l’ambiente interno ed esterno, e tanto maggiore sarà il valore economico dell’impresa. La comunicazione organizzativa si propone di intervenire in tutti quegli ambiti che possono collegare i processi comunicativi con quelli organizzativi, produttivi e gestionali. Essa si articola in quattro diversi livelli: comunicazione funzionale, comunicazione strategica, comunicazione formativa, comunicazione creativa (Cocozza, 2012). La comunicazione funzionale è la prima forma di comunicazione ad apparire in azienda. Tratta le informazioni operative necessarie a supportare i processi decisionali, quelli primari e l‘attività di front line. Il contenuto della comunicazione funzionale è costituito dalle informazioni che le persone dell’organizzazione si scambiano durante lo svolgimento dei compiti all’interno dei diversi settori, oltre che da tutte le informazioni che i dirigenti dei diversi livelli forniscono ai loro collaboratori. La comunicazione strategica tratta le informazioni necessarie per far conoscere l’impresa o l’amministrazione nel suo complesso e tende a migliorare la visibilità dell’impresa. La comunicazione formativa si realizza nell’ambito dell’attività di formazione sui temi della comunicazione interpersonale e organizzativa, e si propone di fornire i contenuti e i metodi necessari per migliorare la cooperazione produttiva e rafforzare il senso di appartenenza all’organizzazione.

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La comunicazione creativa si realizza nelle situazioni di scambio e dialogo e di creazioni di nuove reti relazionali e comunicative anche attraverso modalità organizzative informali o ad hoc.

1.4. Comunicazione e immagine La nuova rivoluzione culturale riguardante il processo comunicativo ha inevitabilmente portato alla ribalta l’importanza strategica della comunicazione d’impresa, concepita non più come attività facoltativa per il successo dell’organizzazione, bensì come azione imprescindibile, facente parte dell’essenza stessa del fare impresa. La comunicazione organizzativa contribuisce in maniera decisiva alla fase di costruzione e di mutamento della cultura aziendale, dove per “cultura” si intende un insieme strutturato di assunti di base che si è rivelato così funzionale da essere considerato valido e, quindi, da essere indicato a quanti entrano nell’organizzazione come modo corretto di percepire, pensare e sentire in relazione a quei problemi. La definizione di valori aziendali deve essere sia funzionale alla creazione di una determinata immagine aziendale all’esterno, assumendo così il ruolo di messaggio pubblicitario, ma più in particolare, dovrebbero rappresentare l’essenza stessa dell’azienda, riflettendo la sua identità reale. La cooperazione, basata su principi e valori condivisi, e la comunicazione organizzativa diventano strumenti essenziali del funzionamento dell’organizzazione aziendale. La diffusione e la creazione di valore avvengono attraverso un processo di avvicinamento tra offerta e domanda, supportato dall’attività di comunicazione. Quanto più

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l’impresa comunica bene, tanto maggiore è il livello di sintonia che emerge nelle relazioni instaurate con l’ambiente interno ed esterno, con conseguente aumento del valore dell’impresa. La cultura d’impresa determina la “personalità” dell’organizzazione, rappresentando ogni espressione e manifestazione della vita d’impresa, sia all’interno, sia nelle relazioni con l’ambiente esterno. Appare dunque evidente l’importanza rivestita dal concetto di “immagine aziendale”. L’immagine è definibile come il risultato delle percezioni del pubblico di riferimento, strettamente legata alla comunicazione, dal momento che, proprio nell’ambito dei processi comunicativi, tutti gli attori coinvolti sviluppano il loro modo di concepire l’impresa, attribuendo un significato alle attività e ai comportamenti posti in essere dall’organizzazione. Ogni oggetto e ogni organizzazione possiedono più di un’immagine. Si parla, infatti, di: immagine riflessa riferendosi a quella che ogni impresa ha di se stessa; di immagine reale, quando si ha a che fare con quella che viene percepita dai pubblici di riferimento (Cocozza, 2012). A queste due tipologie va poi aggiunta quella che viene chiamata corporate identity, l’identità aziendale, che esprime il sistema di valori, di principi, di scelte che l’organizzazione persegue nel realizzare le proprie attività. L’immagine coincide quindi con la cultura d’impresa, l’insieme di fattori sviluppati e condivisi dai soggetti che compongono l’impresa, che concorrono a definire il suo modo di essere. Oggetto della comunicazione è la filosofia guida e la missione. Il successo dell’impresa è sempre più dipendente dal suo grado di attrattività, dal consenso che riesce a ottenere, dalla fiducia del suo pubblico.

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L’immagine che i soggetti si creano di un’impresa è funzione sia delle loro aspettative, sia della capacità dell’impresa, da questi percepita, di soddisfare tali attese. La cura dell'immagine aziendale è un elemento che sta diventando sempre più importante anche per aziende che fino ad oggi non vi hanno prestato la dovuta considerazione e attenzione. L´apertura dei mercati internazionali ha, infatti, creato un clima e un panorama estremamente competitivi, che rendono fondamentale presentare la propria azienda con un´immagine ben curata al fine di poter rafforzare il proprio marchio e renderlo riconoscibile. Obiettivo generale della comunicazione d’impresa è dunque il miglioramento delle relazioni, il miglioramento della propria identità e della propria immagine, ottenendo credibilità strategica, fiducia, legittimazione, al fine di attrarre le risorse di cui abbisogna per un successo duraturo. In poche parole creazione e diffusione del valore d’impresa.

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2. Il brand: caratteristiche e potenzialità Brand è un termine inglese che sta a significare marca. L’etimologia della parola brand deriva dal nordico brandr (bruciare, marchiare a fuoco). Il brand indica un nome, un simbolo, un disegno, o una combinazione di tali elementi, con cui si identificano determinati prodotti o servizi, al fine di differenziarli da altri offerti dalla concorrenza. La cosiddetta “forza di un brand” si misura principalmente in base alla sua predisposizione ad essere riconosciuto ed associato non solo all’azienda di riferimento, ma anche a ideali e valori positivi. Il marchio è il messaggio e, contemporaneamente, il veicolo del messaggio. Se sufficientemente forte, può essere universale e atemporale. Esistono molteplici interpretazioni e definizioni del termine brand. Esso è un nome, un segno, un simbolo, o un disegno, o una combinazione di questi che mira a identificare i beni o i servizi di un venditore, al fine di differenziarli da quelli offerti dai concorrenti. Questa definizione enfatizza la funzione prettamente segnaletica che in passato svolgeva la marca: permetteva cioè di associare un determinato offerente a definiti beni o servizi. Nel lontano 1960, l’American Marketing Association (AMA) definiva il brand come “un nome, un termine, un segno, un simbolo, un disegno o una loro combinazione che identifica un prodotto o servizio di un venditore e che lo differenzia da quello del concorrente”. Questa definizione è stata fatta propria dagli studiosi Kotler e Aaker (2002), per i quali “la marca è un nome o un simbolo distintivo (per esempio un logo, un marchio, il design di una

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confezione) che serve ad identificare i beni o i servizi di un venditore o di un gruppo di venditori e a differenziarli da quelli di altri concorrenti”. Ancora oggi, la marca ha una valenza informativa ma, in aggiunta rispetto al passato, si carica di ulteriori nuovi significati: su di essa si riflettono i valori e la cultura d’impresa, la mission, ossia la missione, la vision, ossia la proiezione di uno scenario futuro coerente con il presente, e la sua identità. La funzione segnaletica rappresenta dunque solo un carattere elementare del patrimonio di marca, alla quale sempre di più si associano delle valenze simboliche che i consumatori attribuiscono ai prodotti che scelgono. La marca quindi ha molteplici dimensioni, oltre a quella della distintività. Il brand possiede anche la caratteristica di rivolgersi a specifici individui. Qualora i suoi elementi distintivi, unici, incontrassero i bisogni di questi ultimi, servirànno ad attribuire un valore aggiunto a ciò che identifica. La caratteristica della marca dipende quindi da come gli individui la percepiscono: dai destinatari del messaggio oltre che dai suoi emittenti. Ci si distacca, pertanto, dalla visione del brand come semplice segno distintivo del prodotto che caratterizza. Kapferer, studioso europeo di branding, prende idealmente le distanze dal “brand come marchio”, definendolo “l’essenza del prodotto, il suo significato e la sua direzione, ne definisce l’identità nel tempo e nello spazio” (Kapferer, 1997). Con “marca” s’intende dunque una precisa assunzione di responsabilità, una garanzia data ai consumatori rispetto ai prodotti contrassegnati. È il luogo concettuale dove si sedimentano la storia passata e futura del prodotto, l’identità dell’impresa e, con essa, l’esperienza del consumatore.

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In sintesi, la marca è comprensiva di tutto: del suo nome, del suo marchio, dei prodotti o servizi che identifica, della sua storia, dei valori che porta, per arrivare fino ai due estremi stessi della relazione, l’impresa e il consumatore. Con l’avvento del XX secolo, la marca diventa fattore cruciale nelle strategie delle imprese. La rivoluzione tecnologica e l’immissione sul mercato di un numero crescente di prodotti, che avevano la necessità di essere qualificati per i loro elementi di unicità rispetto ai beni indifferenziati (commodity) che allora dominavano il mercato, hanno creato i presupposti per la nascita delle politiche di marca. Così il significato della marca, che era essenzialmente linguistico, ha subito un notevole cambiamento: da etichetta sovrapposta al prodotto, è diventata elemento centrale del patrimonio aziendale. Il termine brand comincia allora a identificare l’insieme di messaggi che il marchio trasmette. Il marchio diventa così un’irrinunciabile leva strategica nella comunicazione, perché garantisce e difende la qualità della proposta anteriormente al suo consumo, mettendo in evidenza altre relazioni intrinseche. Difficile rimane tuttavia il tentativo di dare una definizione esaustiva e coerente del concetto di marca, e ancora di più d’identità. Ci troviamo oggi in un’epoca di “modernità liquida”, come la definisce Zygmunt Bauman, in cui tutto tende a cambiare molto rapidamente. Perciò appare sempre più evidente che non si possa prescindere dal considerare la variabile del cambiamento come strettamente connessa al concetto d’identità. S’intuisce allora l’importanza che l’azienda deve attribuire a questo continuo processo di costruzione e ricostruzione della propria identità, tramite strategie di comunicazione messe in atto da professionisti ed esperti.

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L’identità è il luogo dove si media tra la realtà e la percezione, fra l’oggettività e la soggettività, tra i dati di fatto e le strategie aziendali. Ricopre un ruolo essenziale nel passaggio fra le condizioni effettive e la percezione dell’impresa e del prodotto che si vuole abbiano i cittadini e i consumatori. La percezione dell’identità non è un processo neutrale o puramente cognitivo, ma chiama in causa giudizi di valore e stereotipi degli interlocutori.

2.1. La percezione dell’impresa attraverso il brand Nel considerare le funzioni svolte oggi dalla marca, evidenziando in particolare quelle simboliche e la capacità di attribuire significato alle merci, si vuole mettere in evidenza l’importanza che viene attribuita al brand come elemento in grado di determinare il successo o l’insuccesso di un’organizzazione. Esiste uno stretto rapporto tra il brand e l’identità dell’organizzazione, identità recepita sia come permanenza, sia come cambiamento allo stesso tempo, come evoluzione e ripetizione. Oggi molte aziende sentono il bisogno di modificare la propria immagine, il simbolo o il nome che le rappresenta, proprio per affermare se stesse. “L’identità si costruisce nella differenza” (Levi-Strauss, 1983). Una persona, una società, un prodotto, o una marca, si costituiscono, e successivamente si distinguono, solamente attraverso la loro identità.

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Corporate identity, brand identity, visual identity sono i concetti su cui gli esperti di comunicazione si sono dovuti concentrare in questi ultimi anni. Anche per un’impresa è diventato quindi fondamentale delineare la propria identità, nella quale si intrecciano aspetti materiali (prodotti, tecnologie, ecc.) e simbolico-culturali (storia, competenze, leadership, ecc.). Il problema dell’identità si rivela quanto mai attuale e riguarda da vicino l’esperienza quotidiana dell’uomo del XX secolo. I cambiamenti cui abbiamo assistito nel corso della storia hanno comportato il venir meno della possibilità di trovare facilmente comunità cui affiliarsi, di cui sentirsi parte, senza dover dubitare nel definire la propria identità. Un tempo era l’appartenenza a una casta, a una classe o a una nazione a rassicurare l’uomo: oggi questi concetti sono andati via via sgretolandosi. “La fragilità e lo status di perenne provvisorietà dell’identità non possono essere più celate” (Bauman, 2003) nella modernità liquida in cui ci si trova a vivere, in cui si assiste alla liquefazione delle strutture e delle istituzioni sociali. L’umanità continua a cambiare forma sotto l’influenza di ogni minima forza. Tutti i soggetti della società, individui, imprese, istituzioni, sono costantemente e faticosamente intenti a costruire e a veicolare un’identità. L’identità appare come qualcosa da cui è impossibile prescindere. Quanto finora detto contribuisce a caratterizzare l’immagine aziendale come dinamica e non statica, poiché esprime il divenire dell’impresa e quello della società. Immagine che viene a costituirsi dall’interazione di diversi elementi quali: ciò che l’azienda realmente è, quello che intende diventare, la percezione che ne hanno i dipendenti, l’opinione che se ne ha all’esterno.

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Risulta quindi necessario porre un’attenzione particolare alla fase di costruzione della corporate image, che segue quella di costruzione della corporate identity. Per la realizzazione di una completa politica di gestione dell’immagine occorre necessariamente partire dal marchio, senza esaurirsi in esso. Le aziende, consapevoli di questo, considerano oggi le risorse intangibili (invisible assets) e in particolare i brand, il loro potenziale più grande. Tutte queste analisi hanno portato alla ribalta il concetto di “valore della marca” (brand equity) nella letteratura di marketing in un tempo relativamente recente. La brand equity è un valore differenziale, aggiuntivo, che deriva unicamente dal brand stesso. Considerando la brand equity alla luce del suo significato strategico per l’impresa, giungiamo alla consapevolezza che la marca, e la sua percezione nella mente dei consumatori, è la risorsa più importante a disposizione dell’azienda nel complesso contesto concorrenziale. Sempre più importante dunque è la funzione della marca come asset imprescindibile della comunicazione e delle strategie di marketing di un’azienda. La marca rappresenta una possibilità di rendere visibile l’immaterialità dei comportamenti di valore che essa incorpora, e deve essere oggetto di grande attenzione. La potenzialità del brand come veicolo “portatore di valori” deve riguardare non solo il suo principale interlocutore, il cliente, ma anche gli altri stakeholders. Benché il prodotto all’uscita della fabbrica sia considerato un oggetto di consumo, vivendo nel mondo ed essendo enfatizzato dalla strategia di comunicazione che l’azienda mette in atto per sostenerne le vendite, esso si carica di significati, diventando un significato esso stesso.

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Il consumatore, in sostanza, acquista il prodotto in base a ciò che esso gli suggerisce, non solo a livello di qualità e di caratteristiche funzionali, ma anche in considerazione delle associazioni tra quel bene e il proprio stile di vita o i valori che il prodotto riverbera all’esterno. I flussi informativi, veicolati dall’azienda all’ambiente esterno, generano un sistema di valutazione e percezione che alcuni segmenti della domanda attribuiscono a quell’impresa. Tale forma di comunicazione trova precisa espressione nel patrimonio di marca, che sintetizza elementi quali la reputazione d’azienda, l’immagine di marca, a cultura d’impresa, ecc.

2.2. Le strategie di branding Il “branding” è l’insieme di attività operative e strategiche relative alla costruzione e alla gestione della marca, ed è uno dei temi dominanti nel marketing dei beni di consumo. Come già detto, una marca può essere costruita da un nome, un termine, un simbolo, un disegno, o una combinazione di questi elementi intesa a identificare i beni o i servizi offerti da un venditore e a differenziarli da quelli della concorrenza. Scott Davis (2000) afferma che: “la marca è tra i più fondamentali valori di un’impresa e oggi le aziende intelligenti comprendono l’importanza di capitalizzare il valore dei propri marchi. Queste aziende sanno che questi marchi sono quello che l’azienda fa e quello che l’azienda è. Essa implica fiducia, sostanza e un insieme definito di aspettative”.

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La strategia e la gestione della marca riguardano la comunicazione dei valori, della cultura, della missione e dell’immagine di un’impresa ai dipendenti e ai clienti. Come deve agire l’impresa per creare, mantenere e gestire tale strategia? Diventa fondamentale concentrarsi e comprendere la sua dinamicità. Abbiamo visto che il valore del brand, in tutte le sue definizioni, è descritto come differenziale, cioè derivante esclusivamente dalle caratteristiche di prodotti o servizi appartenenti a una data marca. Branding, pertanto, è il processo che attribuisce a prodotti e servizi il valore aggiunto della marca e crea diversità. Occorre tenere a mente però che le percezioni del consumatore sul brand sono influenzate da ogni sua scelta e comportamento. Dal tono del messaggio pubblicitario alla diminuzione di prezzo, fino alla posizione sullo scaffale al momento dell’acquisto, l’impresa concorre continuamente alla formazione, nella mente del consumatore, dell’insieme organizzato di percezioni che definiscono un marchio. Essa sta in ogni momento creando e modificando il brand. È quindi fondamentale che queste azioni siano tra loro coerenti e organizzate, in modo che l’immagine del consumatore sia il più coerente possibile a quella desiderata. Questi aspetti comportano per l’impresa la necessità di assumere un’ottica di lungo periodo: il brand andrà gestito strategicamente, assicurando continuità e coerenza alle scelte tattiche di breve periodo e cercando di farne il punto di riferimento della relazione con il cliente. Keller (2012) descrive il processo di gestione strategica del brand come l’insieme di tre momenti: 1. definizione del posizionamento e dei valori del brand; 2. pianificazione e attuazione dei programmi di marketing;

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3. sviluppo e sostegno della brand equity. “La marca è una parola data e mantenuta. La marca è un messaggio, l’instaurazione di una relazione. Impegno, garanzia, promessa o responsabilità da un lato; fiducia, attaccamento, o anche ostentazione dall’altro”. (Floch, 1990). In sintesi, il brand svolge due macro-funzioni: differenziare e valorizzare. Innanzitutto la marca “demarca”, crea cioè una differenza da tutte le altre attraverso la creazione di un’identità e la definizione di un sistema di immagini. In secondo luogo, alimenta e sviluppa una scelta di valori variegati. Per il marketing strategico è indispensabile poter legare il posizionamento e la comunicazione del proprio brand a una “differenza” che ne fondi l’identità. La marca dunque attribuirà tanto più valore al prodotto o all’azienda, quanto più saprà veicolare su di loro dei tratti distintivi in linea con la sua personalità e i valori che ha fatto propri. Il consumatore acquisterà un determinato prodotto perché in esso riconoscerà i tratti di una personalità, di un carattere, che valuta positivamente, in cui si identifica o cui aspira ad assomigliare. In altre parole, la marca evoca la specificità, gli attributi intrinseci e quelli emotivi. Sarà un brand di successo quello che riuscirà a creare un legame affettivo-emotivo con il consumatore. “La marca è intesa quale sintesi di risorse dotate di potenziale generativo, capace di creare e accrescere nel tempo valore attraverso le leve della fiducia e della conoscenza.” (Buccione, Horvath, 2004).

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2.3. Politiche ed investimenti di rebranding “L’identità è qualcosa costantemente in tensione tra la permanenza e il cambiamento, come un insieme di tratti attraverso cui è possibile essere riconosciuti, ma che vengono costantemente trasformati nel tentativo di protestare così contro l’erosione del senso, contro la desemantizzazione, cioè contro il non senso.” (Cocozza, 2010, p. 156). Che cos’è un rebranding? Letteralmente assume il significato di “cambiare, rinnovare l’immagine di un’azienda”. To rebrand, dall’inglese rifare, una modifica apportata ad un oggetto al fine di migliorarne l’utilizzo. Il rebranding rappresenta una strategia di marketing che, partendo da una necessità di riposizionamento o di rilancio, prevede il rinnovamento del nome e di tutti gli elementi visibili di un brand, al fine di sviluppare una nuova identità e posizionarsi in modo differente nella mente dei consumatori e, più in generale, di tutti i portatori di interessi (gli stakeholders). Il cambiamento, più o meno radicale, può riguardare l’intera strategia di marketing, lo stile di advertising o anche la comunicazione dell’azienda. La marca, intesa come portatrice di significati e valori, come espressione dell’identità di un prodotto o di un’azienda, ha l’esigenza di rigenerarsi seguendo nel tempo l’evolversi delle condizioni di impresa, di prodotto, di tecnologia, di mercato e di concorrenza, mantenendo allo stesso tempo una continuità con il passato: deve cioè cercare di cambiare per restare se stessa. C’è una strettissima relazione tra l’identità di un’impresa e la sua immagine, tale per cui un cambiamento nel processo di

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identità produce un mutamento nel sistema dell’immagine e viceversa. Non può esserci politica di rebranding che non parta dall’immagine e che finisca con il coinvolgere l’identità, o che, al contrario, voglia attuare un cambiamento di identità. In uno scenario caratterizzato da profondi cambiamenti dovuti alla crescente pressione di fenomeni quali la globalizzazione e la mondializzazione degli scambi, il ruolo della singola impresa si fa più difficile. L’azienda può e deve contare sul brand per aspirare a una porzione significativa di opportunità. Il cambiamento del brand name nasce proprio come risposta a reali esigenze di posizionamento all’interno del mercato di riferimento. È un’operazione difficile e avviene sempre solo dopo averne valutato attentamente i rischi. Anche per quanto riguarda il simbolo, il logo aziendale o del prodotto, si verificano spesso le condizioni per cui si rivela efficace operare delle attività di restyling. Il simbolo, infatti, è un indicatore della marca. “Il nome è l’indicatore primario della marca, la base tanto della notorietà, quanto della comunicazione. Spesso la caratteristica più importante del nome è la sua capacità di generare associazioni che servono a descrivere il prodotto che cos’è e cosa fa” (Aaker, 2002). Il brand name è il nome che permette di definire la personalità e l’individualità. Si pone come il primo punto di contatto che la marca ha con l’esterno, motivo per cui un nome corretto aiuta a comunicare i valori di marca in modo semplice e sintetico. È un “detonatore semantico” che attiva la comunicazione e potenzia la relazione che si instaura con i consumatori, è una metonimia del corredo di significati assorbiti dal brand.

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La scelta di attuare politiche di rebranding è sempre funzionale alla ricerca di evitare possibili indebolimenti del brand sul mercato e al tentativo di rispondere prontamente ai cambiamenti del contesto, della domanda e dell’offerta concorrente. Sono necessarie quando non sussistono più le condizioni sociali e di mercato su cui si basava l’idea originaria di un determinato prodotto o servizio, cioè quando si riscontrano motivazioni tali da allontanare un prodotto da chi effettivamente dovrà entrare in relazione con esso. Il rischio di non agire è la perdita della propria attuale o potenziale clientela. Inoltre, l’attività di rebranding serve per rivitalizzare l’immagine, rimanere al passo con i tempi, e aumentare la visibilità del proprio marchio tra il pubblico attuale. Può essere uno stimolo per aumentare la brand awareness, la notorietà di marca, in particolar modo tra i clienti potenziali, a seguito dell’esposizione mediatica che tale operazione comporta. Uno dei motivi più frequenti che spingono un’impresa a fare rebranding, è l’auspicio di ottenere un aumento della considerazione sul brand e, da questo, un aumento delle vendite. In alcuni casi è un’attività necessaria, ma è sempre importante che la strategia venga applicata con cautela e nel modo più adatto. In tal senso si devono evitare cambiamenti troppo radicali, soprattutto se non supportati da un altrettanto radicale cambiamento nel posizionamento o nella mission dell’azienda; bisogna essere coerenti nelle modifiche, dando unità di stile e messaggio in tutti i vari elementi (logo, slogan, packaging, ecc.); bisogna essere al passo con i tempi senza dimenticare i valori aziendali, creando un’immagine in linea con ciò che l’impresa fa e con il suo modo di operare. E, soprattutto, è necessario ricordarsi sempre dell’importanza degli stakeholders con i quali si comunica, primi fra tutti i clienti, e prevedere l’impatto del rebranding sulle loro

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risposte comportamentali ed emotive, poiché il marchio comunica l’idea dell’azienda ed è il simbolo del legame che questa ha con il proprio pubblico. È importante quindi non interrompere tale legame, ma mantenerlo e rafforzarlo attraverso modifiche che non solo seguano la logica e le ricerche di mercato, ma che colpiscano nel modo giusto le emozioni dei propri clienti. Un rebranding appare necessario anche quando sussistono effettive innovazioni che allontanano il brand che rappresenta un’azienda da chi effettivamente dovrà entrare in relazione con esso tramite un acquisto, e quando sussistono le giuste condizioni affinché un processo così importante e delicato abbia la necessità di essere intrapreso. Le giuste condizioni possono essere un calo della clientela di base, un abbassamento delle vendite, introduzione di nuove tecnologie, eventi gravi. Fondamentale è considerare le azioni di rebranding analizzando gli errori da evitare, il modo più giusto e il momento necessario per farlo. Condizione necessaria per l’impresa che voglia attuare una tale strategia è conoscere la propria storia ed essere aggiornata con i nuovi sviluppi tecnologici e di mercato. In relazione a questo, innanzitutto si determina lo stato attuale del brand, gli elementi che creano differenza con la concorrenza; si ipotizza un cambiamento e non una rivoluzione, introducendo novità senza perdere ciò che è consolidato; si scelgono caratteristiche uniche e rilevanti rispetto agli equivalenti di mercato che siano di evidente rilevanza per il target scelto; infine ogni elemento dell’azienda deve conoscere e condividere la nuova dimensione scelta attraverso prodotti e comunicazione.

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3. Caso specifico Burberry: la storia dello chic all’inglese

"Fetch me my Burberry". "Mi faccia portare il mio Burberry". Nell'epoca in cui un nome può essere sinonimo eloquente quanto un sostantivo di un indumento o di un accessorio, un'affermazione simile non desterebbe alcuna sorpresa. Ma se si pensa che queste parole furono pronunciate poco più di un secolo fa, nel primo decennio del Novecento, dal re Edoardo VII, assumono immediatamente un carattere inusuale. La maison nasce, infatti, nel 1856, quando Thomas Burberry aprì il suo primo negozio a Basingstoke, nel sud dell’Inghilterra. A soli 21 anni, il giovane sarto vestiva i notabili della regione. Nel giro di qualche anno, i clienti fedeli aumentarono, la boutique s’ingrandì e, nel 1870, diventò un grande magazzino o meglio, come direbbero gli inglesi, un “emporium”. I segreti del successo? Una qualità impeccabile e l’assidua ricerca per innovare i materiali. Nel 1880, Thomas Burberry creò la gabardine, un tessuto rivoluzionario perché indistruttibile e impermeabile. Da questo momento, per il sarto di provincia fu un susseguirsi di successi: nel 1891 aprì la sua prima boutique a Londra, “Burberry & Sons”. Nel 1901, la casa di moda scelse come emblema il cavaliere Prorsum, “avanti” in latino. All’inizio del ventesimo secolo, Burberry diventò una vera e propria istituzione. La casa di moda ottenne il titolo di fornitore ufficiale delle grandi spedizioni polari, poi dell’esercito britannico durante la Prima Guerra Mondiale. È in questo periodo che Burberry lanciò il trench coat, un “cappotto da trincea” per i soldati inglesi, la sua creazione più celebre. Sono questi gli anni dell’innovazione.

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Il 1920 fu un anno cruciale per Burberry. Il marchio impose il suo stile e il tartan scozzese diventò il leitmotiv delle sue collezioni. La consacrazione, però, segnò la fine di un’epoca: Thomas Burberry morì nel 1926, lasciando ai due figli il compito di prendersi carico dell’azienda di famiglia. L’innovazione, così importante per il fondatore, venne relegata in secondo piano, e la maison cominciò a vivere di rendita. Il successo del marchio si propagò a Hollywood, dove Humphrey Bogart e Audrey Hepburn resero celebri le sue creazioni in film culto come “Casablanca” e “Colazione da Tiffany”. E si consolidò in Gran Bretagna: nel 1955, Burberry divenne fornitore ufficiale del guardaroba di sua Maestà la Regina Elisabetta II. Il successo tuttavia non bastò a risolvere la crisi interna all’azienda, e, nello stesso anno, Burberry venne comprata dal gigante inglese della grande distribuzione, il gruppo Great Universal Stores (GUS). La casa di moda perse non solo la sua indipendenza familiare, ma anche la sua immagine di azienda innovativa. Alla fine degli anni ‘90, Burberry entrò in crisi. In un contesto economico difficile, e trascurata dai media, la griffe sembrò toccare il fondo nel 1997, quando il suo fatturato annuo scese drasticamente. Per far fronte al declino della marca, GUS rinnovò la direzione dell’azienda, avvalendosi dell’aiuto di celebri personaggi, quali Fabien Baron (ex collaboratore di Calvin Klein), il fotografo Mario Testino, le top model Stella Tennant e Kate Moss. La scommessa venne vinta. Burberry riescì a imporre con determinazione una nuova immagine, attraverso una riorganizzazione completa delle collezioni.

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3.1. Il marketing della moda e del lusso La moda è da anni uno dei settori più importanti dell’economia mondiale. Al concetto di “moda” però, oggi, si è soliti associare quello di “lusso”. Le aziende di moda vengono, infatti, comprese nel cosiddetto “settore del lusso”. Questo rivela un importante cambiamento nella concezione del modo di fare business nella moda intervenuto negli ultimi decenni. Le aziende della moda non vendono semplicemente oggetti per ricoprirsi, ma cercano di proporre ai clienti uno stile di vita (lifestyle), un modo di essere. Questo si può esprimere attraverso capi di abbigliamento, calzature, accessori, ma anche attraverso altri prodotti e servizi, per cui le aziende della moda hanno, nel corso degli anni, ampliato il raggio d’azione, comprendendo nella loro offerta l’insieme di beni e servizi coerenti con lo stile di vita proposto. Se da un lato le aziende della moda si sono spinte in nuove aree di business, dall’altro, anche aziende di settori d’origine molto “lontani” dall’abbigliamento, hanno esteso il loro campo d’azione verso questa concezione allargata di lusso. Per comprendere le trasformazioni intervenute nello scenario della moda e del lusso, bisogna partire dall’analisi di come sia cambiato il comportamento d’acquisto del consumatore. “L’ubriacatura di consumi che aveva caratterizzato gli anni pre-crisi ha costituito un’anomalia irripetibile, e ci si dovrà ora confrontare con una nuova anomalia nella quale i consumatori guadagneranno meno e spenderanno meno, le case saranno più piccole e i supermercati a basso costo Wal-Mart prenderanno il posto dei grandi magazzini esclusivi di Bloomingdale’s” (Newsweek, 2010). A questa visione, decisamente cupa per le aziende della moda e del lusso, ha risposto “Bloomberg Business Week”:

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“È vero che i consumatori sono più guardinghi nello spendere, ma questo non si traduce in una rinuncia al lusso quanto, piuttosto, in un’accentuazione di quell’alternanza tra acquisti di fascia alta e di fascia bassa che era stata rilevata qualche anno prima come uno dei tanti emergenti del consumatore del nuovo millennio” (Bloomberg, 2010). Il consumatore di quella che Giampaolo Fabris (2010) ha definito la “società post crescita”, non è quindi né frugale né austero o, peggio, pauperista, ma è semplicemente più critico, consapevole e attento a spendere bene. Rimane quindi una disponibilità del consumatore a spendere per scelte ritenute psicologicamente o socialmente rilevanti. “Il nuovo consumatore non segue più un modello di consumo lineare, condizionato da variabili come il reddito disponibile o la classe sociale di appartenenza, ma è invece eclettico e pragmatico e i suoi modelli di consumo sono assimilabili a un patchwork costantemente cangiante. (…) Il consumatore è quindi competente, esigente, selettivo e abituato a ricercare attivamente le informazioni sui prodotti o servizi ai quali è interessato” (Fabris, 2003). Le quattro motivazioni di fondo, o “spazi emozionali”, che orientano i consumi del lusso nel nuovo millennio sono: il prendersi cura di sé, lo stabilire relazioni, l’esplorare e l’esprimere uno stile di individuale. (Silverstein, Fiske, 2004). Il concetto di bene di lusso che soddisfa tali bisogni è molto distante dalla visione tradizionale, secondo la quale, con tale espressione, si intendeva essenzialmente un bene molto costoso ed esclusivo. In questa visione, tra le motivazioni che spingevano all’acquisto, era prevalente il desiderio di ostentare l’appartenenza a una classe sociale o, più spesso, di reddito.

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Questo concetto di lusso, fatto di prezzi sempre più alti, “è stato il bluff di un mondo virtuale che non ci sarà più. Eravamo ormai all'alta moda: facciamo un vestito da 20 milioni di euro? Ma sì, facciamolo, tanto qualcuno lo comprerà... Avevamo perso il senso della realtà: era una gara fra stilisti a chi realizzava il capo più costoso, a chi aveva più bodyguard sulla porta. Noi siamo stilisti ma anche imprenditori: ci siamo guardati in faccia, abbiamo capito che dopo questa crisi nulla sarà come prima. Così abbiamo incontrato il top management, tagliato le spese superflue perché il primo guadagno è il risparmio, e razionalizzato i processi produttivi per diminuire i listini. Tornando a puntare sul valore per cui ci siamo imposti nel mondo: la qualità sartoriale del nostro prêt-à-porter” (Dolce e Gabbana, 2009). Oggi l’ostentazione non è più una motivazione importante. Il “consumatore intelligente” è chi riesce a spuntare il prezzo migliore per prodotti di qualità e la ricerca dell’affare è diventato uno dei passatempi preferiti anche dei consumatori più abbienti. Lussuoso non vuol dire costoso, ma soprattutto eccellente (Cappellari, 2011). Per portare all’acquisto, il prezzo deve essere giustificato da una superiorità del prodotto sul piano tecnico e funzionale o su quello estetico. Fabris (2003) utilizza un acronimo per sintetizzare il nuovo status del lusso, CREO: cultura, ricerca, esperienza, soggettività e olismo. La nuova competizione non è più confinata a un circoscritto ambito merceologico, ma si gioca ormai a 360° tra settori apparentemente diversi. Inoltre è stato osservato come, in generale, l’attività di consumo riguardi sempre meno gli aspetti tangibili e divenga invece sempre più linguaggio, comunicazione, e come gli acquisti servano per comunicare uno stato d’animo, un sistema di valori, uno stile di vita. Il valore di un oggetto è

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quindi sempre meno legato alle sue qualità materiali e dipende sempre più dal significato simbolico, emotivo, identitario, che il consumatore gli attribuisce. Che cosa caratterizza un prodotto di lusso? “Il lusso è un sistema coerente di eccellenze che riguardano aspetti diversi, come la qualità del prodotto, l’originalità, la creatività, la comunicazione, ma anche i processi distributivi” (Corbellini, Saviolo 2007). Nel sistema di offerta dei prodotti della moda, del lusso e del lifestyle, il brand rappresenta un attributo e una risorsa strategica fondamentale. Il valore di una marca, dal punto di vista teorico, è dato dalla differenza di prezzo che il consumatore è disposto a pagare per avere prodotti che si caratterizzano per l’utilizzo di una determinata marca, rispetto a quanto pagherebbe per quegli stessi prodotti senza marca. “Il valore della marca nella moda e nel lusso dipende soprattutto dalla capacità di attribuire un cuore e un’anima agli oggetti, trasformando una borsa o un maglione da qualcosa che serve per contenere oggetti o per coprirsi, in un comportamento dotato di senso” (Fabris 2004). L’obiettivo generale è quello che viene definito una brand knowledge, l’insieme di pensieri, sensazioni, immagini, esperienze e convincimenti associati al brand, che si traduce in maggiore fedeltà alla marca.

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3.2. Burberry: da marchio “invecchiato” a brand di lusso internazionale

Fin dai primi anni del 2000, il marchio Burberry era a rischio. Molti erano stati i licenziamenti e la casa di moda britannica non era certo tra i leader del suo settore. Era necessario un intervento radicale, che ponesse il design dei prodotti al centro dell’attenzione della strategia aziendale, e che si concentrasse sui punti di forza dell’intero patrimonio e della ricca tradizione aziendale, primo tra tutti il classico trench coat (dall’inglese “cappotto da trincea”, impermeabile), conosciuto in tutto il mondo. Fu tenendo conto di queste necessità che, nel Luglio 2006, i vertici dell’azienda decisero di nominare Angela Arthendts Amministratore Delegato di Burberry. Classe 1960, oggi considerata tra le donne più potenti del mondo, la Arthendts sapeva che quelli erano gli anni in cui il lusso era uno dei settori in più rapida crescita del mondo, e con la sua lunga storia e cultura, il marchio Burberry, avrebbe dovuto sfruttare questo settore e trarne molti vantaggi. “Quando vidi arrivare i top manager al nostro primo incontro di pianificazione strategica, una cosa mi colpì immediatamente. Erano arrivati da tutto il mondo nel tipico clima inglese, grigio e umido, ma non una tra più di quelle sessanta persone indossava un trench coat firmato Burberry. Dubitai addirittura che la maggior parte di loro ne possedesse uno nell’armadio di casa. Se le persone più importanti dell’azienda non stavano comprando i nostri prodotti, nonostante il grande sconto di cui potevano usufruire, come potevamo aspettarci che dei clienti li comprassero a prezzo pieno?” (Arthendts, 2013).

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Fu questa la prima riflessione da cui la Arthendts partì per ideare e attuare una nuova strategia di marketing, necessaria per affrontare le sfide che le si prospettavano davanti. Nonostante si trovasse in un fiorente mercato globale, infatti, Burberry stava crescendo solo del 2% all’anno. L’azienda aveva delle ottime basi e un potenziale eccellente, ma aveva perso il focus nel processo di espansione globale. Possedeva 23 licenziatari in tutto il mondo, ognuno dei quali si occupava di qualcosa di diverso attraverso compiti ben definiti; vendeva capi d’abbigliamento così come guinzagli per cani. Uno dei negozi più prestigiosi di Burberry, su Bond Street a Londra, aveva una sezione intera di soli kilt. “Non c’era niente di male con nessuno di questi prodotti se presi singolarmente, ma insieme diventavano solo un mucchio di roba, roba per tutti, ma niente di esclusivo, unico o irresistibile” (Arthendts, 2013). Nel mercato del lusso vale il detto: “l’onnipresenza ti uccide”. In altre parole, per un marchio, essere ovunque e alla portata di tutti significa perdere l’essenza stessa della definizione di lussuoso. Ed era proprio ciò che stava accadendo a Burberry, che stava progressivamente diventando onnipresente. Burberry aveva quindi bisogno di diventare più di una vecchia amata marca britannica, doveva diventare un grande brand globale del lusso e mettersi in competizione a livello internazionale con le aziende rivali. Bisognava accedere a una fetta del reddito disponibile dei compratori più elitari del mondo, e per ottenerla bisognava combattere per ottenere il primato nel mercato mondiale del lusso che stava crescendo incontrollabilmente. “Sotto molti punti di vista, sembrava la battaglia di Davide contro Golia” (Arthendts, 2013).

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3.3. Uno “Zar del brand” A primo impatto, Angela Arthendts poteva sembrare un Amministratore Delegato non adatto per un’azienda come Burberry, considerata tipicamente britannica. Cresciuta in una piccola città dell’Indiana, ed educata alla Ball State University, era infatti una “classica americana”, cosa di cui anche il Financial Times si prese gioco quando fu nominata per la carica. Ma quello di cui il quotidiano non teneva conto era l’esperienza più che ventennale della donna, al seguito di alcuni dei leader dell'industria della moda più ispiratori, da Paul Charron a Donna Karan, nonché l’ammirazione e il rispetto per le grandi marche, alcune delle quali ha negli anni contribuito a costruire in prima persona. “Da Apple a Starbucks, amo la coerenza, sapere che ovunque nel mondo puoi avere la stessa esperienza in un negozio o vederti servito un cappuccino con lo stesso sapore e nella stessa tazza a New York e a Parigi. Questo è un branding degno di questo nome” (Arthendts, 2013). Purtroppo Burberry non aveva molto di queste caratteristiche. L'esperienza di un consumatore in un qualunque negozio Burberry nel mondo sarebbe potuta essere molto diversa rispetto alla precedente in una città diversa. Come parte della sua transizione, Angela Arthendts passò sei mesi a lavorare a stretto contatto con il suo predecessore, in modo da avere una percezione precisa di Burberry nel mondo. Scoprì così come in ogni parte del mondo vi fosse un diverso direttore del design che creava capi specifici per il suo mercato: ad Hong Kong disegnavano polo e magliette ma non un singolo cappotto, mentre in America preparavano sciarpe e berretti “made in the USA” alla metà del prezzo a cui erano venduti nel Regno Unito.

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Questo rappresentava per Burberry una contraddizione, poiché i grandi brand internazionali non hanno diverse persone in tutto il mondo che disegnano e producono in autonomo i vari tipi di prodotti. Diventò presto abbastanza chiaro che per riuscire a far diventare Burberry un marchio di lusso mondiale, potente e ricercato occorreva intervenire drasticamente: innanzitutto era necessario un unico direttore del design nel mondo. La scelta di Arthendts cadde su un giovane e talentuoso designer, Christopher Bailey, con cui aveva precedentemente lavorato da Donna Karan, e che presentò come "lo zar del brand". “Ho detto al team: tutto ciò che il consumatore vedrà, ovunque nel mondo, deve prima passare attraverso il suo ufficio. Nessuna eccezione" (Arthendts, 2013). Nel giro di un anno Burberry liquidò l'intero design team di Hong Kong e ne trasferì altri nel Regno Unito, dove centralizzò tutto il reparto di design sotto Bailey. Le fabbriche in America vennero chiuse e si cominciò ad investire nella struttura di Castleford, nello Yorkshire, produttrice dello storico abbigliamento da pioggia. “Come società, cerchiamo di fare sempre il meglio per il marchio, perché il nostro lavoro è proteggerlo e mantenerlo forte e rilevante” (Arthendts, 2013).

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3.4. L’aderenza al nucleo Burberry ha 156 anni. I suoi primi cappotti furono indossati nelle trincee durante la Prima Guerra Mondiale dai militari inglesi, e per decenni da allora fecero così tanto parte della cultura inglese che l’azienda ricevette un mandato reale, che la rese fornitore ufficiale di Buckingham Palace. Sir Ernest Shackleton indossava un cappotto di Burberry durante la sua spedizione antartica, così come i protagonisti di moltissimi film del grande schermo. Per più di un secolo il trench coat di Burberry fu la moda. Ma, quando Angela Arthendts divenne Amministratore Delegato di Burberry, questi soprabiti rappresentavano solamente circa il 20% del business globale del marchio. Erano i capi d’abbigliamento e gli accessori a condurre la strategia di marketing dell’azienda. Apparve così sempre più chiara l’incoerenza tra le strategie messe in atto e la visione del lusso che l’impresa Burberry aveva dichiarato di avere. Per un marchio di lusso, non è insolito nascere da un singolo prodotto e poi diversificarsi col tempo. Louis Vuitton cominciò con i bagagli, Gucci con prodotti di pelletteria. Ma anche dopo essersi ampliati e diversificati, ognuno ha continuato a guadagnare la maggior parte della rendita dai propri prodotti principali ed originali. “Esaminando il settore, ci siamo resi conto che Burberry era l’unica società icona del lusso che non aveva investito nel suo nucleo storico. Non era cosa di cui poter andare fieri. Burberry non era innovativa” (Arthendts, 2013). Per attuare i cambiamenti fin qui descritti, venne dunque commissionata una società di consulenza, per fornire Burberry del processo sistematico e continuo per la

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comparazione delle performance, delle funzioni o dei processi delle organizzazioni (benchmarking). Le intuizioni furono presto confermate, e la strada da seguire cominciò a delinearsi più chiaramente: “Volevamo rafforzare il nostro patrimonio, la nostra britannicità, enfatizzando e aumentando i nostri prodotti principali, innovandoli e tenendoli al centro di tutto ciò che facciamo. Concentrarci sul trench: questa era la nostra strategia” (Arthendts, 2013).

3.5. L’ethos della trincea La decisione di Burberry di concentrarsi sul suo patrimonio storico ebbe come conseguenza un’abbondanza di creatività. Bailey, i designer e gli esperti di marketing, cominciarono tutti a fantasticare su come poter rinforzare l’idea che tutto ciò che facevano, dalle sfilate ai negozi, sarebbe dovuto nascere dall’ethos della trincea. Allo stesso tempo, è stato necessario cambiare la storica struttura aziendale di Burberry per rappresentare questo nuovo e migliorato punto di vista, rivolgendosi a uno specifico personale addetto a questo compito. Certo, il personale preesistente era eccellente, ma i negozi erano organizzati come un grande magazzino: c’era una persona a capo di ogni categoria maschile e una al di sopra di ogni categoria femminile. Ognuno prendeva delle decisioni che potevano funzionare per i loro dipartimenti, ma che non avrebbero avuto senso nel quadro generale dell’intero mercato. Burberry aveva bisogno di cambiare e di concentrarsi sul suo punto di forza: il brand. Oltre a mettere Bailey a capo di tutto

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il settore di progettazione, furono assunti anche diversi esperti funzionali: un capo di risorse aziendali, un capo di pianificazione, e un capo della gestione della catena di distribuzione. Pe rafforzare le operazioni al dettaglio, la decisione è stata quella di concentrarsi in quei mercati in cui c'erano già dei competitors, segnale della presenza del giusto tipo di consumatori per supportare e alimentare un brand di lusso. Per i primi progetti di espansione sono stati identificati tutti quei mercati nel mondo in cui erano presenti almeno due marche dello stesso livello, mentre non vi erano negozi Burberry. Tra il 2006 e il 2012 sono stati aperti 132 nuovi negozi, e l’attenzione della vendita al dettaglio è tornata a concentrarsi sull’abbigliamento per esterno. “I trench sono tra i capi più costosi che abbiamo (molti costano più di mille dollari), ma erano quelli che lo staff era meno preparato a vendere. I nostri venditori si erano abituati a proporre cose semplici, relativamente economiche, come le polo, anche se considerando le commissioni, gli conveniva di più vendere un trench che dieci polo. I dipendenti Burberry cominciarono a capire questo ragionamento, ma avevano bisogno degli strumenti per comunicare nel migliore dei modi perché il trench fosse l'investimento migliore per i loro clienti” (Arthendts, 2013). Sono così stati messi a punto dei programmi finalizzati all’educazione al prodotto, come la creazione di video per mostrare le rifiniture dell’artigianato Burberry. I vertici dell’azienda hanno poi equipaggiato ogni venditore associato con degli iPad, e i punti vendita con la tecnologia audiovisiva necessaria a mostrare questi video e ottenere i migliori riscontri. L’idea era creare contenuti ad effetto e coinvolgenti che unissero il consumatore al brand e all’iconico trench.

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In quegli anni sono anche cominciati i tentativi per deviare gli sforzi del marketing dall’utilizzo di un approccio generalizzato, al concentrarsi su quello che era il consumatore di lusso del futuro, sebbene apparentemente ignorato dai loro stessi competitors: la cosiddetta generazione Y. “La decisione non era priva di controversie; stavamo scegliendo di mirare ad una generazione che non aveva nessuna conoscenza attuale dei prodotti centrali di Burberry. Lo sforzo doveva essere portato avanti in primis dal design: avevamo bisogno di creare una linea che fosse innovativa, alla moda e così invitante che le persone avrebbero fortemente voluto diventare clienti abituali” (Arthendts, 2013). Burberry aveva sempre avuto solo pochi stili base di trench: quasi tutti erano beige con il classico motivo sulle rifiniture, e le differenze tra l’uno e l'altro erano minime. Oggi l’azienda offre più di 300 tipi di capi, dalle mantelle alle giacche corte e ai classici trench, in una vasta gamma di colori e stili vibranti, con rifiniture di tutti i tipi, dai colletti di visone alle spalline di alligatore, fino alle maniche di pelle borchiate. L’obiettivo di Burberry doveva essere quello di infondere con nuove linee il suo retaggio. Era necessario anche ripensare l’intero approccio di marketing per questi nuovi consumatori, anche attraverso i canali digitali. Infatti, inizialmente, Burberry possedeva solo alcuni siti regionali, che sono stati poi così consolidati e migliorati: è stata creata un’unica piattaforma che comprendeva tutte le altre, una sorta di vetrina di ogni sfaccettatura del marchio. Piattaforma che è presto diventata il cuore di tutto il nostro marketing e branding, su cui il trench è sempre una delle prime cose che appare quando si entra online.

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Il sito è disegnato per parlare al consumatore della generazione Y attraverso contenuti emotivi: musica, film, eredità culturale, storie. E oggi questo è molto importante: sono più le persone che entrano nel sito ogni settimana di quelle che entrano in tutti i negozi di Burberry messi insieme. Inoltre, la maggior parte degli impiegati ai quartier generali dell'azienda di Londra, ha meno di 30 anni: loro capiscono coloro che il brand sta cercando di raggiungere. Ora ogni maggiore iniziativa firmata Burberry ha il trench in prima linea, lo stesso che nel 2009 fu d'ispirazione per la prima piattaforma di social media, artofthetrench.com. Celebrando l'iconico trench e le persone che lo indossano, il sito ha avuto, ad oggi, più di 2,5 milioni di visitatori. Quando, successivamente, ha preso il via una campagna per la personalizzazione dei prodotti, nessuno ha messo in discussione che il trench sarebbe stato il prodotto scelto per il lancio dell’iniziativa. È così nato su burberry.com Burberry Bespoke, che offre intorno alle 12 milioni di personalizzazioni possibili, ed è poi stato introdotto fisicamente nei negozi di Londra e Chicago.

3.6. Premi della trasformazione In un certo senso Burberry è tornato alle sue origini. “Thomas Burberry era giovane, era innovativo. Il suo spirito continua a vivere, ed è compito di questa generazione conservare la sua eredità” (Arthendts, 2013).

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La trasformazione dell’azienda ha dato i suoi frutti. Oggi il 60% dell’attività economica di Burberry è costituita dall’abbigliamento, e la categoria dei soprabiti ne rappresenta più della metà. Alla fine del 2012, i ricavi e i redditi operativi sono raddoppiati rispetto ai precedenti cinque anni. Nonostante i riscontri positivi, non significa che sia stata una trasformazione priva di problemi per l’azienda. Fare in modo che Burberry tornasse in pista ha comportato anni di duro lavoro e sacrifici, e sta ancora cercando di stabilizzarsi nelle difficili acque del mercato internazionale del lusso. A settembre del 2012 è stata presa l’insolita decisione di pubblicare un aggiornamento delle vendite in anticipo rispetto al rapporto trimestrale: Burberry stava subendo un rallentamento globale. Qualche settimana dopo è stato possibile verificare che, nonostante il calo quantitativo, la qualità delle vendite era invece aumentata, grazie all’aumento dei valori di transazione, a migliori tassi di conversione, ecc. Quindi, anche se i clienti ricercano prezzi moderati e tendono a spendere con molta cautela, il marchio Burberry si è rafforzato grazie al nucleo del pubblico del lusso. “Abbiamo usato assoluta chiarezza e massimo impegno per definire e attuare la nostra strategia, e questo ci permette di avere fiducia per un successo a lungo termine” (Arthendts, 2013). Nel 2011 Burberry è stato nominato il quarto marchio con la più rapida crescita a livello mondiale, dietro Apple, Google e Amzon. Nel 2012, addirittura, ha raggiunto la prima posizione. Oggi all’interno dell’azienda è dato per scontato che il trench è, e deve rimanere, il prodotto più emozionante e rappresentativo del marchio.

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“Il trench è quello che Burberry vuole essere. Ed è una cosa che appare evidente quando si osserva l’abbigliamento dei nostri impiegati. Se chiedete a un alto dirigente quanti trench possiede, la risposta sarà otto o nove. Tutti ne hanno uno bianco, uno da sera, uno classico. Ne abbiamo di qualsiasi lunghezza. Non sono più solo impermeabili: sono le fondamenta di un grande brand e una grande azienda” (Arthendts, 2013).

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Conclusioni

A conclusione di quanto analizzato in questa trattazione, è possibile cogliere alcune indicazioni. Innanzitutto, la comunicazione d’impresa può essere considerata non solo come un processo in senso tecnico, nella sua tipica configurazione input (es: materiali, informazioni, persone) – operations (attività che trasformano gli input e gli output) – output (es: prodotti, servizi), ma rappresenta un vero e proprio “processo di business”, in quanto è in grado di influire sui risultati economici dell’impresa, apportare numerosi benefici organizzativi e costituire una fonte di vantaggio competitivo. Una comunicazione di qualità è in grado di produrre degli importanti effetti positivi, tanto per le persone nella loro individualità, quanto per l’organizzazione nel suo complesso. Ma affinché la comunicazione d’impresa possa esplicare tutte le sue potenzialità a favore del business, è essenziale sia gestita in maniera pienamente strutturata e manageriale, e in una dimensione olistico – organizzativa. “La comunicazione organizzativa costituisce la linfa vitale di un’organizzazione” (Cocozza, 2010). Dopo aver messo in evidenza l’importanza di costruire un’identità di marca (brand) che rifletta l’identità del soggetto, la sua personalità, i valori e la strategia che adotta, oltre a creare fidelizzazione da parte del pubblico, si è voluto mostrare come questa stessa definizione rappresenti, oltre ad una complessa azione di comunicazione, anche e soprattutto un complesso processo di organizzazione aziendale. Infatti, la costruzione e l’affermazione di un’identità visiva obbediscono a costrizioni sia istituzionali che commerciali e tecniche, ma anche a leggi semiotiche o a condizioni generali

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di produzioni di senso, attivate con gli strumenti propri della comunicazione d’impresa. Abbiamo considerato la marca come uno di quegli elementi fondamentali attraverso cui un’organizzazione, anche non consapevolmente, comunica, dà informazioni di sé e cerca di catturare l’attenzione dei propri stakeholder. Il brand di un’azienda non ha soltanto un significato denotativo, cioè un espediente per riconoscerla e identificarla, ma può costituire un elemento allusivo e fondativo della sua identità, delle sue caratteristiche, della bontà dei prodotti o dei servizi che offre ai propri clienti. L’impresa dunque è un’organizzazione con una propria personalità che deve rispondere ai cambiamenti sociali ed economici attraverso politiche di innovazione di prodotto e di comunicazione efficace. Attraverso l’esperienza di Burberry si è cercato di mettere in luce le politiche di brand identity e di rebranding, queste ultime intese come scelte strategiche funzionali al tentativo di rispondere prontamente ai cambiamenti del contesto storico, sociale ed economico in cui la casa di moda si è trovata ad operare. È, infatti, errato pensare che la marca sia un dato immutabile, al contrario essa deve essere progettata con caratteristiche di variabilità e varietà. L’obiettivo di Burberry, infatti, non era quello di diventare qualcosa di diverso da ciò che era già, ma rimarcare la propria identità con delle novità strategiche, che permettessero di rispondere ai cambiamenti della società e del mercato.

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Abstract This thesis will examine processes of internal and external communication, the image of the organization, the brand strength, branding strategies and business rebranding, through a real case study of Burberry. In order to be perceived as good company it’s not just enough to have a good reputation and results. It is also very important to create a positive working environment for the employees and possess knowledge in attracting new customers. This is where the term employer and employee branding emerges. It’s very important that the company knows its internal and external environment. These two things are crucial for company's long-term success and very related to each other. Companies should know their employees to prevent that they become dissatisfied with working conditions, feeling unpleasant or unheard, through the internal communication. It is in the interest of company to know their customers, to be able properly to advertise and promote their products and in the same time being able to attract more customers continuously. On the other hand, relationships of customers and employees are directly affected by their perceptions and attitudes towards the company. So, the aim of external and internal communication is to form those attitudes, in accordance with how they want to be in the future. Effective communication processes lie in a background of every company that wants to be successful in a long term. Usually with the word communication people understand the interaction with others on everyday basis with the aim of exchanging information. Upon the organizational level, communication is divided more narrowly: in external and internal communication.

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Internal communication is the communication among organization's management and internal stakeholders, whereas external communication is the one focusing on the audiences outside the organization. Both internal and external communications together are being identified as corporate communication. Marketing communications are the means by which firms attempt to inform, persuade, and remind consumers (directly, or indirectly) about the products and brands that they sell. If we talk about communication, we must necessary talk about the marketing communication mix. It’s the specific mix of advertising, personal selling, sales promotion, public relations, and direct marketing a company uses to pursue its advertising and marketing objectives. It’s the way to communicate the brand value to the consumer and build long-lasting customer relationships. One thing that must be mentioned as fundamental is the brand name. It instantly informs customers about the company’s reputation, enabling them to trust the quality of each product or service that business offers. The only allusion of the brand name conjures all of a customer’s experiences and perceptions of a business, good and bad. A company’s brand represents its market identity: who it is, what it does, what kind of quality it provides, its reputation for trustworthiness, and more. The brand influences the decisions of a variety of customers, including both end-consumers and businesses. Companies work to increase customers’ awareness of their reputation. This involves communicating what the company does and how well it does. Therefore, the “brand identity” is the combination of verbal, visual and emotional attributes that define a company and set it apart from the competition.

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Sometimes are necessary strategies of rebranding. Rebranding is a marketing strategy in which a new name, term, symbol, design, product, service is created for an established brand with the intention of developing a new, differentiated identity in the minds of consumers, investors, competitors, and other stakeholders. Often, this involves radical changes, which typically aim to reposition the company, or to move the brand upmarket. Analysing the history of the famous luxury brand “Burberry”, we can find an example of rebranding and renovation strategy. Before Angela Ahrendts became Buerberry’s CEO, licensing threatened to destroy the brand’s unique strengths. She centralized design and she focused on innovating the core of heritage products: the aim was to turning an aging British icon into a global luxury brand. In fact, since 1856, Burberry has been associated with high-fashion and exclusivity, but global expansion led the company to lose its focus. It was necessary to bring the company back to its roots, and turn it around. Burberry underwent a seven-year transformation from an underperforming, marginalized, over-licensed, decentralized brand, to becoming one of the most beloved and valuable luxury brands in the world, tripling sales in five years. It transformed from a stodgy, beige trench coat company to one of the leading voices on trends, fashion, music and beauty, all while redefining what a luxury experience should be for an high class customers, digitally and physically.